ANDREA - Stop, rewind… play.
Steso sul letto, il mondo in orizzontale, fisso il muro e parte del soffitto, contemplato chissà da quante altre persone prima di me.... quanti pensieri, quanti stati d'animo, quante memorie si sono infrante su questo pezzetto di calce? Solo su questo fazzoletto di materia, che nel tempo ha dovuto sopportare di tutto. Sì, stop, rewind.... play. Perché in questa vita molte cose mio malgrado si ripetono come un disco rotto, prigioniero di me stesso e dei miei errori e, benché le cose comunque si ripetano, purtroppo il nastro non può essere riavvolto, il tempo scorre inesorabile senza fermarsi, senza possibilità di tornare indietro. E noi altro non siamo che piccole pedine della sua immensa scacchiera. Vedendo le cose in quest'ottica tutto appare forse un po' più sopportabile, almeno per quanto mi riguarda, è il mio modo di considerare la realtà per sentirmi più vivo, in fondo sono sempre stato un sognatore e questo malgrado tutto mi ha portato bene, al contrario forse oggi sarei pazzo, pazzo da legare e forse, chi lo sa, felice.
A pensarci bene di viaggi simili ne ho già fatti tanti, aiutato da molecole sintetiche facilmente reperibili sul mercato, sempre buoni viaggi. Ne ho viste di cose, percepite, odorate, toccate, sono uscito dal mio corpo e posso giurare di aver volato sopra a parchi, strade, monumenti, ho osservato le persone in strada, piccole come formiche, ho sentito mescolarsi il brusio delle loro voci, mi sono tuffato nel buio del fiume che attraversa le città, ho visto tutto questo con il terzo occhio che è in tutti noi, basta trovare la chiave per far sì che prenda vita. Già, la vita... fine a se stessa, vita nella vita come quella di un bambino non ancora nato nel ventre della madre, come quella di un piccolo germoglio che affonda le proprie radici nel terreno umido, come quella di un’isola che si forma nell' oceano dopo l'eruzione di un vulcano. Stop, rewind... play e tutto da capo. Tornando a quel fazzoletto di soffitto, che in questo stesso momento forse sta assorbendo anche i miei di pensieri, mi accorgo che sì, è vero che i miei occhi continuano a fissarlo, però il mio sguardo è rivolto verso un luogo assai lontano da qui e da questo momento. Sicuramente c'entra il fatto che da poco ho rivisto la mia donna, viviamo lontano, per forza di cose e, tra un incontro e l'altro, ormai da diverso tempo, passano alcuni mesi, quando va bene 1 o 2, però, senza ombra di dubbio, ogni volta che ci è possibile stare insieme è un'esplosione di emozioni, di buone sensazioni, una rinascita della voglia di vivere... Tutto ha di nuovo un senso... Certo non è come quando al mio ritorno dal lavoro la sera a casa lei mi prendeva la mano per portarmi verso la camera da letto, si spogliava, mi spogliavo... attimi interminabili tra le lenzuola a mordersi i capezzoli, a sfiorarci un lobo dell'orecchio mentre ci baciavamo sulla bocca. Lei si apre a te, ti tiene e la tieni, il cielo continua ad essere azzurro e un Dio benevolo ti chiude gli occhi, però anche da cieco riuscirei ad arrivare a lei seguendo il suo odore e il suo sapore. Anche se è passato diverso tempo queste immagini, queste sensazioni sono indimenticabili, fanno parte di me e moriranno con me, fino a quando la grande madre verrà per portarmi con sé e il mio corpo senza più pensieri potrà finalmente avere un senso, quello del creato, dove tutti dal primo giorno di vita non siamo altro che cibo nutriente per lei... nulla si distrugge, tutto si trasforma. Stop, rewind... play.
Il ciclo della vita, l'acqua è vita, il sole è vita, il vento è vita, la terra è vita.... beh sì, quasi sempre, a parte gli tsunami, le trombe d'aria stile Dorothy nel mago di Oz , i terremoti che distruggono intere città, però non ci possiamo fare niente, tutto fa parte del gioco, rien ne va plus... altro giro e altra corsa, chi si ferma è perduto, dal tempo dei tempi è sempre stato così, potete chiederlo aPieroAngelaeviracconterà deidinosauriedellaloro estinzione, almeno perquesto non possiamo sentirci in colpa, non c'entriamo niente, ancora non c'eravamo e se c'eravamo il nostro cervello aveva le dimensioni di una pallina da ping pong e non eravamo sicuramente tanto organizzati da arrecare i danni che poi siamo riusciti a imporre su questo pianeta
Eppure io ho deciso... non lo farò più. Già, quante volte ho ripetuto questo mantra dentro me stesso… Stop, rewind... play.
Fisso il soffitto ma in realtà vedo altri posti in altri momenti... sono sempre stato irrequieto, uno di quelli a cui costastare fermo nellostesso luogo per troppotempo, insaziabile lamiavogliadiscoprire, di vedere, di sperimentare, d'altronde sono cresciuto in un paesino sperduto del sud Italia, uno come tanti, battuto dal sole e dal vento tra Mediterraneo e Ionio. Eppure questa non è una giustificazione,
al paese ho tanti amici che non si sognano lontanamente di lasciare una terra che tanto amano e che, non voglio essere frainteso, tanto anch'io amo, però non so bene per quale strana alchimia il mio essere interiore mi ha imposto fin dai 14 anni di uscire da una casa rifugio sicuro e da genitori che avrebbero dato e darebbero tuttora la vita per me, per andare a scoprire il resto del mondo, senza una meta definita, mettendomi in gioco, troppo presuntuoso per accettare il semplice fatto che ogni cosa ha i suoi tempi e che la libertà va conquistata, non è un diritto di nascita, quantomeno non in questo mondo e soprattutto in questa parte di mondo. Comunque se oggi dovessi fare un bilancio della mia vita potrei affermare che, malgrado alcuni grossi inconvenienti, l’ho vissuta come un fiume in piena prendendo qualcosa da ogni posto da me visto e toccato e oggi sono quel che sono grazie alla somma di tutte queste parti messe assieme.
Mi guardo indietro e so di poter andare avanti, ho toccato il fondo e ho riscattato me stesso un sacco di volte, in un solo battito, tanto capace di illuminare una stanza, un edificio, un mondo, come di sotterrarmi in un buco dentro la sabbia e adattare il mio respiro per ore e ore al ritmo della terra perché, a mio avviso, la terra ha un suo ritmo, è viva, respira, un enorme essere che ne ospita tanti altri, come una madre premurosa si sacrifica per la sua prole senza chiedere nulla in cambio. Intanto noi altri sentiamo il bisogno di dare un nome, un volto e addirittura un colore di pelle a Dio, è sempre stato così, dalla notte dei tempi e, credo, sarà per sempre così, è più forte di noi. Per me questo è un tema delicato, questo di Dio voglio dire. Quante le religioni nel mondo? Quanti credenti pronti a immolarsi per lui? È semplicemente incredibile quanto ci piace rendere tutto più complicato, preferisco credere nell'amore, anche se non si vede di sicuro c'è e condiziona le nostre vite. E poi, cos'è Dio se non è amore allo stato puro, eppure si possono fare guerre, muovere eserciti, soggiogare intere popolazioni in nome dell'amore o almeno così ci vogliono far credere. Le persone vengono indottrinate, istruite, addestrate, plagiate, e così come per magia l'amore si trasforma in odio e ciò che dovrebbe essere bene diventa male, quello più scuro e la gente si trova a imbracciare un fucile senza neanche sapere perché, oppressa, insicura, manovrata dalla paura, l'unica certezza il terrore.
I nostri beniamini sono oggi indiscutibilmente persone, visi, soggetti in carne e ossa amati da alcuni, odiatidaaltri. Gli idealisonosolouno sbiaditoricordoditempi lontani,lagenteè rassegnatae,peggio ancora, è rassegnata a essere rassegnata e così ancora una volta, stop, rewind... play. Eppure io lo so, l'ho visto, l’ho avvertito con tutti i sensi, le persone non sono così, preferiscono l'amore all'odio, sono portate a stare assieme, a condividere, ad aiutarsi mutuamente, ma diventiamo sordi e ciechi della nostra comune natura e ci lasciamo andare alla deriva nell'oblio. Io, per esempio, nel corso della mia vita mi sono lasciato andare spesso e volentieri, in tempi e luoghi diversi mi sono creato i miei mondi artificiali lasciando tutto e tutti al di fuori di essi, solo, in mezzo alle persone come se con un click, premendo un bottone, potessi aprire o chiudere un collegamento con chi mi stava attorno. Il modo più semplice per stare con gli altri e allo stesso tempo vivere le mie storie psichedeliche, era andare in festa.
La festa comincia quando gira la voce che le farà prendere forma, sì perché la festa siamo noi... teknival, rave, raduni Goa, psytrance, tekno, raggatek, darkpsy... fiumi e fiumi di gente che parte da tutte le parti del cosmo abbandonando ognuno il suo piccolo mondo, staccando la spina, vivendo l’oggi come se non ci fosse un domani. La cosa più strana è che in festa ci sono tutti i tipi di persone, ho conosciuto impiegati, bancari, politici, giornalisti, infermieri, tassisti, imprenditori, studenti, professori, manovali, apicoltori, maestri di yoga, una moltitudine di colori indescrivibile, tutti in fondo semplicemente grandi sognatori. Certo il mio punto di vista rispetto alla festa e a tutto quello che ci gira intorno è particolare, sono uno di quelli che di questo mondo ne aveva fatto un modo di vivere. Io e un gruppo di amici accomunati dal fascino del far andare i piatti della consolle mixando a dovere pezzi di musica tekno, soprattutto tribe. Tutti i soldi guadagnati lavorando e con mille altri piccoli espedienti li avevamo spesi per dare forma a un sound system, un muro di casse di 40 kilowatt di energia allo stato puro, elettricità trasformata in alti e bassi capaci di fare andare a ritmo centinaia, migliaia di persone come se fossero una cosa sola. È davvero difficile da descrivere la sensazione che si prova avendo davanti questa moltitudine di esseri umani che danzano, che si fanno trasportare dai miei gesti precisi e mirati nello sfiorare i tasti dei monitor, accarezzando le rotelle sul mixer, facendo scivolare nuovi vinili sul feltro dei piatti che
girano senza fermarsi mai. Le mie cuffie diventano le loro orecchie, si crea un legame indissolubile, momentaneo eppure eterno, complice forse anche la molecola lisergica che più o meno tutti abbiamo assunto. Però le feste, ne sono profondamente convinto, non sono solo storie di droga, è un modo per stare assieme, sempre con la musica sullo sfondo, però dietro c'è tutto un movimento, una voglia di evadere, di stare assieme fuori dai normali contesti, non c’è autorità, non esistono buttafuori con gli auricolari collegati alle trasmittenti. Spesso per arrivare in festa bisogna cambiare treni, prendere autobus in luoghi sperduti, camminare anche per ore.
Noialtri prima di decidere il posto si va girando alla ricerca di vecchie fabbriche, capannoni abbandonati, luoghi lontani dai centri abitati, sperduti, tanto chi veramente vuole arrivare in festa ci arriva, l'invito ufficiale? Il passaparola. Le uniche regole? Il rispetto per la natura, per se stessi e per chi ci è vicino. Si montano tende, si improvvisano bivacchi, ci sono camper, auto, moto e poi ci sono gli instancabili camminatori che a volte impiegano anche un giorno intero per arrivare, però poi, come si dice tra di noi, sotto cassa tutto passa. L'ultimo giorno si abbassa la musica, si cambia il ritmo, la gente si deve calmare, deve smaltire, si offre un bicchiere di birra per ogni bicchiere di mozziconi di cicche raccolti e portati al bar del sound, si comincia a pulire e tranne l'erba calpestata non rimarrà nulla di tutte quelle persone, ognuna di loro si incamminerà per rientrare in una vita che, per qualche giorno, aveva deciso di scordare e dalla quale, molto probabilmente, desiderava fuggire attraversando la feritoia che lo ha condotto in questi giorni di assemblamento, di scambi, di giochi, di ballo sfrenato, di pause per riacquistare le energie dormendo in macchina o riposando sul greto di un fiume, di fare l'amore una e più volte, di raccogliere le stelle con la punta delle dita stesi sull'erba sotto l'effetto di funghetti psicoattivi, di fare lunghe camminate dove le nuvole all'orizzonte sembrano cambiare continuamente forma, di respirare aria pulita, di spaziare con la testa in luoghi immaginari, tutti un po' come Alice nel paese delle meraviglie, tutti alla ricerca del Bianconiglio... Tutti, può sembrare strano ma è un po’come una famiglia che vuole tornare alle origini, alla semplicità della natura, al nondoverrestaresempredipendenti daunbipprovenientedaunoSmartphonecheormaihalabatteria morta, scollegati, isolati, appartati, come dire, un'ennesima volta, stop, rewind...play. Anche ora mentre scrivo ho nelle orecchie la musica che tanto ho amato in passato e che amo tutt'ora anche se in modo diverso. Oggi infatti mi permette di evadere da questo carcere facendomi fare un tuffo nel passato, ai tempi che furono e che mai più saranno perché, come dicevo prima, il tempo non è buono né cattivo però fa il suo corso e con lui anche noi. Crescendo cambiamo scelte, abitudini, lasciando andare quelle che, seppur ci rendevano felici, avevano senso in un certo tempo e in un certo luogo, e permettiamo di entrare nella nostra vita ad altre che ci rendono ugualmente o forse anche di più, felici, completi, appagati. Per me è stata una simbiosi tra due cose: l'amore per una donna e l'amore per il mio lavoro. Sembra strano come conoscere qualcuno possa allargare il tuo orizzonte e farti allo stesso tempo scendere con i piedi per terra, così, per assurdo, il tuo mondo precedente si restringe e le cose importanti diventano altre. Potrei infatti affermare che prima di conoscere lei non avevo paura della morte, bensì una inconfessabile profonda paura di vivere. La definizione testuale sul dizionario italiano della parola amore è: “Sentimento di affetto vivo, trasporto dell'animo verso una persona o una cosa, profonda tenerezza, devozione, sentimento e istinto naturale che lega due persone di sesso diverso, passione in senso spirituale, aspirazione dell'uomo al bene, a Dio, carità verso il prossimo, volontà di fare del bene”. Certo è che descrivere questo sentimento con parole non è semplice e che, per quanto se ne voglia scrivere, si potrebbe impiegare un'intera vita senza riuscire nell'intento. Quando siamo sotto la sua influenza le emozioni e le energie che questo sentimento ci regala sono veramente intense, per amore siamo capaci di sopportare tutto, di fare tutto, di donarci completamente, di rivedere abitudini, atteggiamenti, comportamenti, stili di vita. È un dare ed avere senza sosta, intenso, perfetto, appagante. Sono convinto che ogni cosa nelle nostre vite abbia un perché e prenda forma in un luogo, in un tempo ed in un modo definiti proprio come quando tutto ebbe inizio, ai tempi dei tempi, con il Big Bang. Ho conosciuto la mia compagna in un momento della vita nel quale questo sentimento tanto forte ormai da tempo mi ero rassegnato a non provarlo più, o comunque non con tanto trasporto e convinzione, non così incondizionato e così profondo.
Ero, in quel momento, veramente senza illusioni e, a dir poco, perso.Anche se sicuramente anche qui c'entra la chimica questo sentimento si insinua in noi lentamente, i nostri sensi vengono allertati, diventiamo irrequieti, il cambiamento avviene anche per quanto riguarda il nostro stato fisico, lo stomaco, la circolazione, cominciamo a curarci di più dell'estetica, la nostra e quella dei posti che siamo soliti frequentare, siamo più allegri, sognanti, fiduciosi e, molte volte, aumenta anche tanto la voglia di fare, di essere, di sentirsi vivi. All'inizio è quasi solo una sensazione, con il passare del tempo cresce l'attrazione, una volta dichiarato l'amore diventa quasi bisogno, una necessità, quel qualcosa che c'è sempre mancato senza neanche saperlo. Tutto sembra all'improvviso nuovo, accecante, in un certo senso pericoloso, come se la regola che qualsiasi cosa possa accadere è già accadutain passatoed accadràdomaninon valgapiù, tutto,daquandosiviene"toccati"dall'influenza dell'amore, diventa un’incognita e com'è buono sentirci alla deriva in balia di queste onde, com'è buono sentire che questa vita in fondo vale la pena di essere vissuta e che tutto alla fine sembra avere un senso. Stop, rewind... play. Comehogiàdettonelcorsodellamiavitamisonocostantementespostatodaunpostoall'altro,ospite, cittadino, profugo, latitante, esule, occupante, visitatore, turista. Quando qualcuno mi chiede di dove io sia mi piace definirmi "cittadino del mondo", radicato ed etereo Ho vissuto nei modi più disparati, ospite di amici, affittuario di stanze in subaffitto, in comuni, in alberghi, in ostelli, ho affittato case in città, in montagna, al mare e in collina. Ho dormito in strada, a volte in parchi, in edifici abbandonati, in auto, in camper, in tende da campeggio. Ma sono stato anche in zone residenziali, in case dove lo sfarzo e il lusso erano esagerati, con balcone sul corso della città e con parcheggi privati serviti da ascensore per autorizzati. Ogni luogo ha una sua geometria, ogni città è concepita in modo distinto, cambia il sapore dell'acqua nei rubinetti, il colore delle facciate delle case, la forma dei tetti, il profumo del mangiare nelle strade, gli occhi della gente, le albe e i tramonti, il calore del sole, a volte tenue a volte tanto intenso da sembrare tangibile, cambia l'aria che si respira, la forza degli idranti antincendio, il colore delle cassette postali, delle cabine telefoniche, i pali della luce. Ogni città è lo specchio delle tradizioni di un popolo anche se oggi sempre di più, soprattutto nelle grandi metropoli, la convivenza di tante culture diverse ne modifica i colori, gli odori, le abitudini. Negli ultimi anni, complice l'aver conosciuto la mia compagna, mi sono rifugiato in una città che oggi amo profondamente e nella quale ho trovato una stabilità che mai avrei potuto credere possibile. L'ho scoperta piano piano, quasi per caso, mi ci sono affezionato e di fatto oggi è diventata casa mia. Casa, un'altra parola che in sé raccoglie una serie di buone emozioni, sicurezza, calore. Sembra strano però il tragitto che mi ha visto giungere finalmente in questo luogo, a me oggi tanto caro, è iniziato per fuggire da un'altra casa, da un altro paese con le sue leggi che, per l'ennesima volta, volevano riscuotere i propri debiti nei miei confronti e che, in quel momento della mia vita, non avevo proprio nessuna intenzione di pagare. Così in sella alla mia motocicletta di grossa cilindrata attraversai l'Italia dal profondo sud al profondo nord fino a Bolzano e, passando per la Germania, raggiunsi alcuni amici che mi stavano aspettando nella Repubblica Ceca.
Era il tempo del raccolto dei papaveri ed arrivai giusto in tempo per inciderli qualche settimana prima che avessero la fioritura, quando non sarebbero stati più adatti per raccogliere la linfa vitale che, senza nessun procedimento alchemico, è semplicemente oppio puro.
In questo paese i campi di papaveri sono immensi, fanno parte della cultura agricola, i loro semi vengono raccolti per l'industria alimentare, sono piante che non hanno bisogno di particolari attenzioni e danno al terreno sul quale vengono seminati, una volta trebbiato, quella rivitalizzante ossigenazione che permette coltivazioni diversificate per i successivi anni a venire.
Il rischio è molto basso, la Repubblica Ceca è una piccola oasi dove le persone vivono con poco e la criminalità è scarsa, di conseguenza lo sono anche i controlli da parte delle autorità. I soldi che mi ero portato, insieme alle poche borse da viaggio, erano giusto per sopravvivere qualche mese, così decisi di sgobbare nei campi per 4-5 settimane per poi raggiungere uno dei più grandi teknival d'Europa a nord di Praga, lo "space pic-nic", dove mi sarei rivisto con altri amici e con il mio sound e dove avrei potuto facilmente barattare il raccolto tanto sudato con altre sostanze, per poi ripartire verso il Portogallo, in primavera inoltrata, dove si sarebbe tenuto il "boom Festival" e decine di altri decisamente meno legali e autorizzati.
Il piano era questo e tutto andò come previsto, almeno per una volta nella mia vita. "Space pic-nic", mai un nome per una festa è stato tanto azzeccato, più di 15 sound dislocati su una stessa area provenienti da tutte le parti d'Europa così come le più di 15000 persone che vi parteciparono, 16 giorni di puro delirio, gli organizzatori questa volta avevano scelto il posto mettendosi d'accordo con il proprietario dei terreni, i campi trebbiati erano l'ideale per montare tende, parcheggiare camper. Un fiumiciattolo in mezzo a una boscaglia divideva in due l'immenso teknival e lo si attraversava grazie a un ponticello in assi di legno. La gente attirata dalla musica ininterrotta arrivava da tutte le direzioni, il passaparola andava avanti e avanti, perfino negli ultimi giorni continuavano ad arrivare persone che volevano raggiungere quella che sembrava essere la festa più riuscita dell'anno. Dentro il perimetro la lingua più parlata, e ufficialmente riconosciuta come universale, era l'inglese, però gli accenti diversi tradivano la moltitudine di nazionalità presenti: francesi, tedeschi, italiani, olandesi, inglesi, norvegesi, spagnoli, fiamminghi, belgi, polacchi, russi, finlandesi, ma anche di altri continenti, americani, giapponesi e perfino australiani. Un supermarket di multietnicità: rasta, punk, fricchettoni, hipster, punkabbestia, visi puliti, capelli biondi, rossi, blu e verdi, una babilonia di razze e tutti sotto un’unica bandiera: la musica, la libertà e la voglia di stare assieme.
La stessa varietà riguardo alla multietnicità valeva anche per le sostanze proibite. Quelle più largamente consumate in questo genere di eventi sono: speed, ketamina (meglio conosciuta come ketch o special k), lsd, mdma, xtc e naturalmente il fumo: quantità incredibili di maria e hascisc. Al contrario difficilmente le feste sono frequentate da eroinomani o da fumatori di cocaina, per loro troppi sbattimenti per arrivarci e non si è mai sicuri di trovare la sostanza da cui si è dipendenti e poi si sa, uno dei motti dei festaioli è: "la stagna ti infogna", riferito a chi fuma eroina sulla carta stagnola. Un discorso diverso è quello sull'oppio, la gente in festa usa mangiarne un pezzettino per far calare i giri quando da diversi giorni si sta assumendo speed, estasi e sostanze affini.
Tutto questo fa un po' pensare a Woodstock negli anni 60, però 50 anni dopo e con musica completamente diversa. Per me era uno stile di vita, quasi una missione, quello era il mio posto, la mia gente, la mia famiglia surrogata, e anche se può sembrare che non sia il massimo che la vita possa offrire io stavo bene, a mio modo ero felice, anche se poi il conto da pagare alla fine arriva sempre, inesorabilmente. Stop, rewind...play.
Avevo comunque dovuto tagliare i ponti con la mia precedente vita da uomo libero. Eliminai gli account Facebook, Instagram e di tutti i social in generale, cambiavo spesso numero di cellulare, non potevo contattare direttamente familiari e amici, dovevo muovermi sotto falsa identità e tutto questo alla lunga mi logorava, mi insinuava dentro dubbi, paranoie, insoddisfazione e comunque, anche se circondato da migliaia di persone, mi sentivo sempre più solo. Però c'è una cosa chiamata istinto di sopravvivenza che è in tutti noi e che funge da inesauribile carburante, non ti permette di cadere e fa sì che tutta la merda del mondo ti scivoli addosso.
Fu così che dopo il lavoro nei campi di papaveri e prima di dirigermi verso il Portogallo, dove sarei dovuto arrivare dopo circa tre mesi, mi spostai in una cittadina quasi al confine tedesco, dove trovai lavoro in un ristorantino gestito da un serbo. Gli stipendi in Repubblica Ceca sono una miseria ma ben proporzionati al costo della vita, davvero uno dei più bassi d'Europa. L'aria è pulita, il clima umido ma non troppo rigido, nelle cittadine ordinate ovunque si dispiegano zone di verde e l’attitudine nazionale sembra essere ubriacarsi fino a svenire, cosa che in realtà avviene di rado. Per me era un posto perfetto per meditare, per riacquistare forza e sicurezza, per fermarmi a decidere senza troppa fretta quale fosse la cosa migliore da fare. Un giorno d'estate uscendo dal ristorante dopo un turno estenuante in cucina mi trovai davanti il Biondo, un amico dei tempi in cui per un periodo avevo frequentato una scuola occupata. Questo amico, con il quale avevo viaggiato per l'Italia in lungo e in largo di festa in festa, tornava dal giro dell'est, il giro che, per tutta la primavera e quasi fino all’estate inoltrata, comincia dalla Repubblica Ceca e passa per Polonia, Romania, Bulgaria, da un Technical all'altro con tutte le tribù al suo seguito. Il Biondo era figlio di Pariolini, genitori ricchi e separati che preferivano fungere da bancomat per questo figlio che non avevano tempo o voglia di seguire e che lui assecondava volentieri, sperperando tutto quanto gli veniva dato andando di festa in festa. Mi cercava da un paio di settimane, aveva saputo, tramite un mio contatto sicuro, dove mi
trovavo. Il giorno seguente, dopo aver salutato i colleghi di lavoro, siamo saliti in sella alla mia moto per affrontare il lungo viaggio che, attraverso Germania e poi Francia, ci avrebbe visti arrivare nella città che in seguito avrei scelto come mia dimora fissa: Barcellona. Lì avevamo appuntamento con gli amici della vecchia cricca di Roma, ci stavano aspettando con due camper e un camion pieno come un uovo di muri di casse e di attrezzatura atta a trasformare il suono, che dal semplice solco di un disco in vinile sarebbe diventato pura energia sparata nel buio della notte. Poi saremmo partiti tutti assieme alla volta di Lisbona e da lì in seguito verso Santander, nella natura incontaminata bagnata dalle acque dell'Oceano. Chilometri e chilometri di asfalto, paesaggi infiniti, colori cangianti, colline che diventano montagne, città che diventano periferie, autostrade che diventano strade statali, cavalcavia, capolavori di ingegneria urbanistica, grattacieli, resort, alberghi, campi da golf, da tennis, da calcio, cartelli di tutte le forme e di tutti i colori, migliaia e migliaia di luci, albe e tramonti, brevi soste in immense aree di servizio giusto il tempo per sgranchirsi le ossa. Lingue e tratti somatici diversi, sguardi persi verso l’orizzonte.
Ho sempre amato andare in moto, la preferivo alle quattro ruote, a eccezione delle case ambulanti, i camper, che sono tutta un'altra storia. La moto è il viaggio senza bisogno di parole. Non ricordo quando ma ad un certo punto della mia vita non fu né facile né difficile rifiutare un tetto sulla testa, la danza ipnotica dei tergicristalli o la cortesia di un portacenere. Fu una scelta naturale come innaturale sarebbero state quelle due ruote in più, la moto è l'occhio di un ciclope acceso nella notte, è la velocità quando serve ma è soprattutto la libertà.
Passando da Perpignan finalmente arrivammo in Spagna e dopo alcune ore eravamo sulle Ramblas a bere cerveca a poche centinaia di metri dal porto e dalla statua di Cristoforo Colombo che indica con il dito la rotta verso le Americhe. In quel momento Barcellona per me non era una meta ma semplicemente un posto di passaggio come tanti altri fino ad allora, però da subito ne rimasi stregato, e anche se mi ci fermai solo per alcune ore dentro mi si era già instaurato il fermo pensiero che finalmente avevo trovato un posto dove volentieri mi sarebbe piaciuto cercare un po' di pace. Forse è vero, come pensavano gli antichi greci, che la vita di ognuno di noi è legata a un destino predefinito e che altro non siamo che burattini manovrati con fili invisibili dalle mani del fato, forse... a me comunque piace pensare che ognuno di noi è l'artefice del proprio destino e che è necessario adoperarsi con tutte le forze per raggiungere quello che desideriamo. Per il momento decisi di proseguire con tutti gli altri, ci saremmo alternati alla guida dei tre mezzi e soprattutto saremmo stati insieme ancora una volta. Chissà quanto tempo sarebbe passato prima di poterlo fare ancora, di fatto io ero un ricercato e la mia vita aveva avuto un drastico mutamento. Trovai un riparo per la mia moto nel garage a pagamento dove lavorava un amico di uno dei ragazzi della mia tribù, gratis e al sicuro. Il giorno dopo il nostro arrivo a Barcellona, quando ancora il sole non si era alzato sopra i tetti, partimmo verso Tarragona. Il cielo era di un azzurro intenso, disseminato di piccole nubi bianche e rotonde, sembravano carta da parati per una stanzetta infantile, ma la mia attenzione era totalmente rivolta all'asfalto e ai cartelli stradali, ero in un misto di estasi e di buon umore, nella mia testa potevo sentire in lontananza i bassi sparati nel buio di una notte portoghese.
Macinare centinaia, migliaia di chilometri senza avere vincoli precisi, né scadenze, né a chi dover dare conto, rende tutto affascinante, mi sentivo uno spirito libero, padrone del mondo intero. Non avevo paura di essere giudicato e, a vivere così, usciva la parte migliore di me. So che può sembrare sbagliato sentirmi parlare così di un modo di vivere tanto al limite, sbandato, senza certezze alcune e fine a se stesso, come se non ci fosse un domani, tante energie sprecate per ritrovarmi alla fine con poco o niente tra le mani. Questione di scelte, e vivere in questo modo allora mi sembrava una buonissima idea. Credo che gli eventi debbano fare il proprio corso, poi, se si è fortunati, pur rimanendo sempre un po' Peter Pan si matura e si decide di fare altre scelte, spesso meno piacevoli e più faticose che però se cambiano le prospettive ci possono forse dare la possibilità di un futuro più delimitato,concreto.Comincianocosìaformarsidellepiccoleradici cheungiornopotrannodiventare una pianta sana e robusta e tutto allora sarà differente. Stop,rewind... play. Ero partito scappando anche un po' da me stesso, come se spegnere il telefono potesse equivalere a spegnere il mio vecchio mondo, liberarmi da tutto e tutti, lasciar vivere un pezzetto del mio essere anteriore sarebbe stato come lasciare in vita una parte cancerosa, avevo abbandonato la mia casa, i
miei familiari, i miei amici, i miei dischi, amuleti, libri, cassetti pieni di ricordi, fotografie, cose a me care, nessun hard disk di memoria, amnesia, amanti perdute senza dare spiegazioni, niente di niente, zero. Poi, con il passare del tempo, mi resi conto che non sempre si riesce nel proprio intento, non è così facile reinventarsi e ripartire da capo e mi ritrovai a fare le stesse cose, con le stesse persone, solo in posti diversi. Pensavo a questo quando sull'autostrada spagnola guidavo il camper in direzione Tarragona. Eravamo a metà cammino e dopo pochi chilometri avremmo incontrato un nostro contatto in un villaggio gitano situato in una provincia assolata. Dovevamo rifornirci di sostanze di buona qualità prima di raggiungere una festa. Faceva un caldo da inferno e all'epoca ancora non conoscevo lo spagnolo, quella che oggi è diventata la mia lingua preferita, eppure non avevo dubbi che con il tipo in questione mi sarei capito alla perfezione, la lingua corrente per questo genere di discorsi è uguale dappertutto: il colore del denaro
La disperazione, la povertà, la rassegnazione hanno un odore e un colore che non cambiano mai, sono uguali anche a migliaia e migliaia di chilometri di distanza, sia che ci si trovi nelle favelas di Buenos Aires, nel quartiere Scampia a Napoli, nei pressi del porto a Genova, in uno dei tanti sobborghi di Città del Messico o di Shanghai in Cina, anche l'aria grida al tuo essere lo stesso urlo di disperazione. La regola in luoghi come questi è l'arte di arrangiarsi, l'unica via di uscita sembra essere la sopravvivenza. Eppure ogni singolo residente di posti come questi ha uno sguardo da cui trapela dignità e fierezza, lo sguardo di chi è abituato da sempre a sopravvivere con le proprie forze e con quelle della sua comunità, la maggior parte delle volte completamente abbandonata dalle istituzioni, dalla legge degli uomini e da quelle di Dio.
In quel piccolo villaggio a 20-25 km dalla città più vicina, sembrava di essere tornati indietro di almeno 40 anni, solo la strada ben asfaltata e dotata di buona segnaletica e illuminazione tradivano il “lusso” dei giorni nostri. Il paese era costruito in pietra, le facciate delle case rattoppate qui e lì, scalinate ovunque, porticati, subito fuori c’erano dei campi con dei cavalli che ben nutriti correvano e passeggiavano liberi senza qualcuno che li accudisse, per lo meno in modo visibile. Era senza ombra di dubbio uno degli ultimi paesi gitani rimasti in Spagna, un popolo che ormai da più di una generazione si è visto costretto, per non scomparire del tutto, ad avvicinarsi alle città e a mescolarsi con gli spagnoli e con le innumerevoli etnie che hanno invaso la Spagna, e a cambiare così le proprie abitudini e i costumi.
I loro tratti somatici sono simili a quelli dei nostri antenati siciliani, si distinguono nella moltitudine e spesso interi quartieri nelle periferie delle grandi città sono occupati da questo popolo, una volta nomade e isolato, come per esempio il Barrio dell'Amina, a Barcellona, dove la mia compagna da piccola ha vissuto e spesso mi ha raccontato di quanto unita e protettiva sia questa gente, l'ultimo barlume di altri tempi al giorno d'oggi.
Arrivammo che erano, più o meno, le tre del pomeriggio. Il sole alto nel cielo bagnava ogni cosa con la sua luce abbagliante e con il suo calore sfiancante. In tre scendemmo dal camper e ci inoltrammo in quella terra sconosciuta armati soltanto della fiducia inequivocabile che si riscontra in adolescenti spensierati all'alba di una qualche bravata. In fondo non eravamo che degli incoscienti e la verità è che sarebbe potuto succedere di tutto. La compravendita andò bene però, a pensarci col senno del poi mi viene da sorridere e da accendere un lume gratificante alla buona sorte.
Gli altri intanto ci aspettavano impazienti all'entrata del paese, sulla strada maestra, approfittando della sosta per sgranchirsi le gambe e far bere e far fare i loro bisogni ai due cani e al gatto che ci accompagnavano nel nostro viaggio. Non avevamo un numero di telefono né conoscevamo il viso né l’aspetto fisico del nostro contatto in quel paesino sperduto, però non fu per niente difficile trovare lui e quel piccolo centro abitato.
Una cosa era evidente in quel posto, lo sport nazionale dei suoi abitanti girava intorno alle droghe, al loro spaccio al minuto o all'ingrosso, il vero motore di questo giro era l'eroina, benché il mercato offrisse una vasta gamma di prodotti era chiaro che qualunque tipo di smercio si facesse fosse finalizzato a procurarsi il denaro per il consumo di una delle droghe più logoranti e allo stesso tempo appaganti della storia. Lo si leggeva negli sguardi, nell'aspetto, nel modo di fare e di agire di tutti quanti incontrammo nel breve lasso di tempo in cui ci fermammo in quel posto dimenticato dalla legge e da Dio.
Eravamo lì per comprare una discreta quantità di Maria e a me fu subito chiaro che ogni centesimo di guadagno ottenuto dal nostro interlocutore sarebbe presto finito prima in un cucchiaino e poi direttamente nelle sue vene per un nuovo viaggio verso un oblio artificiale a tempo determinato. Non me lo aspettavo e benché la mia guerra personale nei confronti di questa particolare droga l'avessi vinta già da diverso tempo, devo ammettere che non fu per niente semplice non soccombere alla tentazione di comprare un po' di felicità a poco prezzo e ricadere nei vecchi meccanismi. È come la bestia che dorme e che altro non aspetta che un sussurro alle orecchie per destarsi e sbranare a morsi la sicurezza di una vita senza astinenza, l'orlo di un baratro, lo scendere a patti con il diavolo in persona. Per fortuna ero così appagato dalla positività delle persone che mi circondavano che l'idea di acquistare la polvere magica fu solo fatua, passeggera. Piuttosto utilizzai la mia conoscenza di questo mondo a mio vantaggio, un tossico ha bisogno di soldi, scende facilmente a compromessi e se vede sfumare l’affare in trattativa cede perché comunque prendere qualcosa è meglio di niente e il solo pensiero di “farsi” gli fa desiderare che la trattativa si concluda al più presto così da poter stare da solo, lui, la sua siringa e il resto del mondo fuori. Tutto si svolse nell'appartamento in penombra di José, semplice e ordinato, governato da una donna, la sua compagna sovrappeso con gli atteggiamenti e le movenze di una fattona navigata. Nel vederci, impaurita, si diresse dal compagno dicendo: "Dejalos, dejalos hombre, son policia!". La paranoia si era impossessata di questo donnone, alma de casa, ma il solo pensiero che fossimo sbirri era assurdo: il mio amico Michelangelo aveva dei capelli rasta così lunghi da arrivargli, dopo un lungo giro in testa, quasi fino alle ginocchia, tutti e tre eravamo tatuati, visibilmente, stanchi, impolverati e chiaramente nel gioco di Guardie e Ladri avremmo potuto essere solo della seconda specie.
A parte questo primo piccolo intoppo iniziammo la breve trattativa, provammo il prodotto, che era veramente di buona qualità, semi selezionati, metodo idroponico e luce artificiale gentilmente offerta dal comune grazie al furto sistematico di corrente dalla rete pubblica. Come se si stesse giocando una partita a poker non facemmo trasparire l'apprezzamento in modo visibile, al contrario ci lamentammo del prezzo, che era di per sé più che buono. Fu una mano vincente e nel giro di mezz'ora eravamo di nuovo in viaggio verso la frontiera con il Portogallo. Al calar della sera il nostro camper era pieno come un uovo: sette di noi, entusiasti ed eccitati, due cani, un gatto festaiolo e pozioni magiche da far invidia al famoso druido dei Galli Panoramix.
Durante il percorso più ci si avvicinava alla meta più incrociavamo le varie tribù che da tutta Europa avevano anche loro come destino la Terra promessa. Il tam tam dei ravers poteva essere oscurato dai social, poteva essere turbato da minacce più o meno esplicite da parte degli organi preposti, forse poteva essere anche rallentato da posti di blocco ma alla fine il silenzio della notte sarebbe stato certamente squarciato dai poderosi decibel sparati dai diversi muri di casse montati con diligenza in tempi da record, e la tribù che balla avrebbe avuto il suo momento alienante, il suo stato di estasi, la sua rivincita sul mondo intero. Entrando in Portogallo ci imbattemmo più volte in vere e proprie carovane di gente che, come noi, si dirigeva verso il posto prescelto per la prima festa d'estate: automobili, camper di tutte le marche, dimensioni e colori, furgoni trasformati in moduli abitativi, camion in case vere e proprie, targhe di tutti gli stati membri della Comunità Europea, ma anche di buona parte del mondo. La cosa più strana è che tutti eravamo in qualche modo uniti, tutti eravamo come una grande famiglia girovaga. Di notte, nelle stazioni di servizio o nei punti di sosta e ristoro disseminati lungo la strada, si stava insieme, si mangiava, ci si mischiava, qualcuno se ne andava e qualcuno cambiava mezzo, tanto ci saremmo ritrovati tutti sotto il cielo stellato di Santander. Il Portogallo è un paese stupendo, non credo di aver mai visto in vita mia un cielo con colori così vivi, con albe e tramonti così diversi da quelli a cui ero normalmente abituato da sembrare irreali. Ma non solo il cielo, anche il verde dei prati, il rosso della terra, il blù del mare sono mozzafiato, le spiagge sembrano distese di polvere d’oro, il freddo oceano, sempre turbolento, è in netto contrasto con la tranquillità placida degli innumerevoli laghi disseminati per tutto il territorio. Ricordo di essere stato seduto delle ore su una pietra, o appoggiato al tronco di un albero o steso su una spiaggia con l’unico intento di guardare il cielo cambiare forma e sfumature, spiare estasiato le nuvole rincorrersi mutando forma spinte dal vento, un caleidoscopio gigantesco, omaggio e tributo al creato. Fu proprio questa la cornice che mi accompagnò durante quell’estate memorabile e il ricordo degli odori di questa terra
mi dà animo nei momenti in cui in cui tutto nella mia cella appare grigio e lo sconforto prende il sopravvento.
Dal villaggio dei gitani in poi fu tutto un susseguirsi di episodi positivi, il rapporto tra di noi con il passare del tempo si rafforzò in modo tale che al momento dei saluti nessuno poté trattenere le lacrime. Loro avrebbero continuato la loro avventura senza di me tornando verso casa, ma sempre pronti a ripartire richiamati dal tam tam di una nuova festa, io rimanevo incastrato nella mia dimensione di fuggiasco, senza patria e di nuovo da solo, reduce da mille battaglie e disorientato dalla completa ignoranza di cosa mi aspettava nell’immediato futuro. Durante il viaggio verso SantAnder ci fermammo più volte con il camper, prediligendo posti incontaminati e immersi nella natura più selvaggia alle ben più comode ed attrezzate aree di sosta. Ci bastava poco per andare avanti, di tanto in tanto riempivamo i serbatoi di acqua potabile e facevamo rifornimento di gasolio, poi compravamo giusto le cose di primaria necessità nei piccoli centri abitati incontrati per strada, si coglievano frutti dagli alberi e verdure nei campi, spesso di nascosto, a volte con la compiacenza dei campesini, che ci accoglievano incuriositi. Durante una di queste soste, a pochi metri da un immenso lago di acqua dolce, fummo costretti a fermarci per quasi due giorni interi, un gatto bianco e nero, senza nome e da tutti noi chiamato semplicemente gatto, che solitamente non si allontanava dal perimetro del camper, sparì senza lasciare traccia, mentre noi tutti, insieme ai due cani, facevamo un bagno rinfrescante in quello specchio d’acqua cristallina. Gatto, come tutti gli altri della sua specie, non amava l’acqua, e si guardava bene dal solo avvicinarsi alle sponde fangose di un elemento per lui sgradevole. Era comunque abituato durante le soste a bighellonare esplorando le vicinanze di quella che per lui era una casa e nella quale tra l’altro era nato e cresciuto. Dopo il bagno tornammo verso la casa mobile e una volta preparato da mangiare ci accorgemmo che non era accorso come al solito a reclamare la sua porzione. Furono due giorni estenuanti e il nervosismo era salito alle stelle assieme allo sgomento e a un senso di impotenza. Quel posto diventò presto sinistro e in cuor nostro tutti verso la fine cominciammo a odiarlo. La notte del secondo giorni, quando ormai avevamo perlustrato tutto il perimetro del lago e i boschi circostanti gridando a squarciagola e guardando dentro ogni buco, grotta, anfratto, cavità d’albero e cespugli di more, sfiniti e delusi avevamo preso a malincuore la decisione di riprendere il cammino la mattina seguente, ecco comparire il riflesso di due occhi rossi bagnati dal residuo di luce del fuocherello acceso per cucinare il pasto serale, ed ecco sentire le poderose fusa di quella bestiola ormai data per persa, come se niente fosse era riapparso Gatto. La famiglia era di nuovo riunita, in seguito seppi che divenne allargata in seguito a quella notte d’amore con qualche felino portoghese, perché Gatto in verità era Gatta, e fu così che alcuni mesi dopo mise al mondo sei gattini di sangue misto confermando l’attitudine generale alla multietnicità. A parte questo episodio tutto andò liscio, in una settimana macinammo centinaia di chilometri, liberi e spensierati, dirigendoci verso la nostra meta per ricongiungerci con il resto della tribù che balla. Raggiungemmo presto Lisbona con i suoi grattacieli e con la tangibile frenesia tipica delle metropoli, con i colori dei suoi palazzi, i parchi, le fontane d’acqua che di notte assumevano forme e colori studiati per incantare i turisti, il maestoso porto commerciale teatro di innumerevoli scambi con navi e carghi provenienti da ogni dove. In ogni vicolo avvertivo il ritmo della musica, la gente ballava trasportatadallenote, persone che la musicacel’hannonelsangue, compliceforselamusicalitàstessa della lingua, che potevo ascoltare incantato per ore anche senza capirne una sola parola. Durante una sosta spendemmo del tempo immergendoci nella parte più popolare e caratteristica, quella vicina al porto, ci mescolammo con gli indigeni nei mercatini strabordanti di ogni genere di merce, di cibo, di stoffe variopinte, rimanemmo estasiati da spettacoli improvvisati dai saltimbanchi, tutto aveva inizio e fine nel giro di pochi minuti ma lasciava un segno indelebile in ogni singolo spettatore, così come durante la notte gli spettacoli pirotecnici che disegnavano nel cielo fiori variopinti. Lisbona fu anche la città nella quale, senza alcun accordo precedente, il popolo delle feste proveniente da ogni dove e con ogni mezzo, come guidato da una mano invisibile finalmente si riunì, divenne un tutt’uno e un pomeriggio di una serata calda e con il cielo rosa e giallo e verdastro e rosso intenso e indaco, accese all’unisono i motori di tutti i mezzi alla volta della meta finale, o per meglio dire la prima delle mete in una terra perfetta per questo genere di eventi. Quando io e i miei compagni finalmente trovammo il nostro spazio tra le migliaia di mezzi arrivati prima di noi e cominciammo a esplorare la radura, ci
rendemmo conto della genialità di chi aveva organizzato la prima vera grande festa di quell’estate. Il posto era mozzafiato, anche qui un lago immenso immerso nei boschi, e un lembo di terra rossa che piano piano si trasformava in sabbia de sfociava nel blu intenso dell’oceano, anche qui i vari sound erano sparpagliati qua e là, muri di casse imponenti, gazebi colorati per proteggersi dal sole o ballare al riparo di un eventuale acquazzone. Dal niente con il trascorrere del tempo i camper, le tende e le automobili erano stati parcheggiati creando una vera città con stradine e punti di ristoro, la musica spadroneggiava giorno e notte, qualcuno aveva inventato un sistema di irrigazione per chi avesse avuto voglia di godere della frescura dell’acqua pompata dagli ugelli, in giro c’erano mangiatori di fuoco, acrobati variopinti, equilibristi che passeggiavano facendo roteare anche otto birilli alla volta su una corda legata al tronco di due piante, cappelli da giullare, maschere dipinte su volti sorridenti, spettacoli di ogni genere e forma venivano improvvisati in ogni spazio libero, il fumo di mille cyloom sembrava fuoriuscire dalle fauci di un dragone, si creavano legami e amicizie che sarebbero potute durare un giorno come tutta la vita, però soprattutto ci si abbandonava alla trance ipnotica dei bassi sparati a decine di migliaia di decibel, si ballava per ore, per giorni, era impossibile sottrarsi al richiamo dei muri di casse, che si ergevano neri e vibranti. La festa durò 17 giorni e seppure la quantità di droghe che assunsi in quel periodo fu notevole ricordo con lucidità ogni episodio, tutti i visi delle persone con cui ho interagito, gli interminabili momenti in cui dentro la mia bolla stavo in mezzo alla moltitudine, solo con la musica, che come un fiume mi travolgeva e trasportava in luoghi misteriosi amplificata dalle molecole lisergiche di funghetti psicotropi o di cartoncini colorati, sensazioni che non so descrivere, immagini per sempre stampate dentro di me. Una cosa più delle altre era tanto tangibile da poterle dare una forma, un colore e un odore, la libertà, o forse è più corretto dire l’illusione momentanea di libertà. Per quanto mi riguarda infatti da quando inizia una festa, o forse da quando siintraprende l’avventura con l’intento di arrivare in festa, tutto il resto diventa secondario, viene racchiuso in una scatoletta sigillata e nascosto sotto a una pietra eliminando temporaneamente dalla memoria il suo contenuto, come dire: stop, rewind, play. Si stacca la spina: problemi, debiti, pendenze, sofferenze, screzi, paure, tutto questo genere di cose va a finire sul fondo della mia personale criptonite e l’unico scopo diventa raggiungere al più presto il paese dei balocchi. Non rinnego niente di quanto ho fatto, anche se so di aver dato poco valore alla vita spingendomi oltre i limiti del mio corpo e della mia psiche, abusando grandemente di sostanze e molecole che hanno consumato a milioni i neuroni del mio cervello, deviando per sempre i normali percorsi sinaptici, oggi guardando indietro mi stranisco al solo pensiero che se una volta avessi saputo mettermi dei limiti subito avrei trovato il modo per infrangerli.Anche ora mentre scrivo queste parole poggiato al tavolo mal illuminato di una cella umida e senza colore, in un paese che non sento più casa mia, dopo tanti mesi di privazioni e di repressione sento che dentro di me, da qualche parte dove alberga l’anima, c’è una fiammella che una volta liberata potrebbe cambiare tutto, energia allo stato puro, motore in grado di risalire la montagna più alta. Quell’estate in Portogallo fu come un’unica sola notte stellata, dopo quella prima festa ce ne furono altre, ci spostammo per tutta la penisola fino all’ultima, alla fine di agosto. Su un vecchio mercantile furono montati due sound da 50 kilowatt e la festa ebbe luogo in mezzo all’oceano, 21 giorni di puro delirio al riparo da eventuali sgomberi da parte delle forze dell’ordine, che durante quella stagione avevano provato più volte, anche in modo violento, a porre fine ai nostri raduni perché occupavamo abusivamente il suolo pubblico. Per quanto agguerrite alla fine avevano dovuto battere in ritirata, è impossibile infatti disperdere 20.000 persone sotto effetto di ogni tipo di sostanza dopante conosciuta al mondo e ipnotizzate da una musica martellante sparata nel buio della notte o sotto i raggi di un sole estivo, impossibile e pericoloso, sarebbe un po’come un revival del film “La notte dei morti viventi”, un’invasione di persone che dove sono non danno fastidio ma che allontanate dal loro paradiso potrebbero loro malgrado creare gravi problemi, anche perché fumogeni, randellate e cariche non addolciscono gli stati d’animo. Eravamo tutti eccitati, la cosa era stata organizzata in modo magistrale, immagino fossero stati oliati gli ingranaggi giusti, al momento dell’imbarco non ci furono problemi, la maggior parte di noi raggiunse i ponti superiori attraverso le cinque passerelle allineate sul piccolo porto commerciale, qualcuno salì dal ponte di carico con auto, camper, o altri mezzi e l’imbarco durò tutta la notte, dato che la partenza era prevista per le prime ore del mattino. L’intera
nave, al suo interno, era stata adornata con tinte flou, con maschere giganti, con sculture in ferro stile apocalittico, i sound si innalzavano nel cielo sfidando la gravità assicurati con enormi cinghie agganciate al pavimento in legno. Salutammo il piccolo porto con grida e fischi, il capitano squarciò con tre lunghi fischi il silenzio di quella mattina tranquilla, non ci eravamo staccati di pochi metri dalla terra ferma che si accesero i generatori, il dj fece girare il primo disco della consolle e la nave stessa divenne un’appendice dei muri di casse che lanciarono nell’aria, sferzandola, le prime note che dettero inizio al rave più incredibile e senza precedenti.
La nave si era trasformata in una città galleggiante con l’unica differenza che non c’erano polizia, servizi d’ordine, tribunali, solo gente che ballava incessantemente, che si abbracciava, che amoreggiava libera e senza inibizioni. Questa è una delle feste che mi rimarranno dentro per sempre, avevo con me i miei vinili, il mio tesoro personale, e ricordo che un giorno suonai ininterrottamente per 12 ore, perso nel mio mondo lisergico di fate e folletti, incantato da persone che sentivano quello che con la musica cercavo di trasmettere, loro dentro di me attraverso un ritmo incessante e ricettivo dei loro corpi danzanti, io dentro di loro attraverso l’energia che scaturita dalle mie mani sulla consolle arrivava direttamente alle loro anime facendole vibrare. La nave batteva bandiera greca però accanto a questa ne sventolava una nera con un teschio e le ossa incrociate tanto cara ai bucanieri e ai pirati, c’erano luci colorate e strobo ogni dove, neon fluorescenti verdi e arancioni e blu e gialli, luci ultraviolette che facevano risaltare il bianco dei denti e degli occhi nell’oscurità, c’erano punti ristoro, un’infinità di bar più o meno autorizzati da chi aveva montato l’evento, c’erano tre ambulanze che fungevano da supporto medico con volontari pronti a ogni eventualità e nelle quali venivano distribuiti depliants su come comportarsi in caso di mancamenti o sovradosaggi di sostanze, preservativi, cartoncini ritagliati affinché si potessero utilizzare come rulli per inalare varie droghe in modo da evitare che un solo rullo venisse usato da più persone, c’erano docce funzionanti, bagni chimici, ma soprattutto c’era la maestosa immensità dell’oceano sotto di noi e di un formidabile cielo stellato portoghese sopra le nostre teste. Credo che a un certo momento si arrivi al punto che ogni singola entità diventa un unico cuore palpitante, l’estasi assoluta. Un elicottero dell’emittente nazionale portoghese sorvolò l’imbarcazione più volte nel corso della festa, fu un evento veramente eccezionale ed ebbe risalto nelle cronache portoghesi di quell’estate, però malgrado l’impatto mediatico che ne scaturì sia in televisione che sui social tutto andò bene e in tempo record la grande imbarcazione una volta approdata in un porto sicuro fu lasciata dai partecipanti senza disordini, fu ripulita da cima a fondo e i rifiuti furono smaltiti da una grande ditta specializzata in questo tipo di lavori. L’estate volgeva alla fine e per la maggior parte dei partecipanti era giunta l’ora di tornare alla vita normale.
Con il passare delle settimane il gruppo con cui ero partito dalla Spagna si era via via ingrandito e poi manmanoridotto, il campereraripartitoprimadell’ultimafestaeiostavoviaggiandoconunaragazza conosciuta alla seconda festa che guidava un camion mercedes da 6 quintali trasformato in casa ambulante, ci facemmo compagnia per un mesetto caricando di quando in quando altri compagni di avventura. Sonia era minuta, carina, sveglia, un’ottima conduttrice di mezzi pesanti anche in strade poco praticabili, era simpatica e spigliata, le piaceva l’LSD e da un po’di anni non faceva altro che andare di festa in festa. Diventammo grandi amici, passavamo ore a raccontarci le nostre vite, dividevamo le spese, sceglievamo insieme gli itinerari, un paio di volte, in solitaria, sottraemmo qualche decina di litri di gasolio dai mezzi fermi nei cantieri edili, il nostro rapporto si rafforzò, ma eravamo entrambi consapevoli che ci saremmo dovuti separare, su di me incombeva un mandato di cattura dell’interpol, a volte facevamo del buon sesso però quello che era importante nel nostro rapporto era il fatto di poter contare l’uno sull’altra, porterò sempre nel mio cuore questa ragazza così particolare, un’immagine speculare di me stesso a cui ho voluto bene come a una sorella. Dopo la festa sul mercantile ci fermammo qualche giorno vicino a uno stabilimento balneare su una spiaggia immensa e dorata bagnata dall’oceano, lo decidemmo per raccogliere le forze e forse per salutarci senza traumi. Furono giorni di relax a fumare maria con i piedi bagnati dall’acqua, sul bagnasciuga a contare le stelle, ad arrostire pesci comprati dai pescatori che attraccavano alle prime luci dell’alba, a passeggiare nelle pinete circostanti, era palese che il mio umore stesse mutando giorno dopo giorno, avevamo parlato a lungo di cosa avremmo fatto nel futuro prossimo o di cosa avremmo voluto fare e
mentre lei era impaziente ed eccitata di intraprendere il viaggio verso la prossima festa, il Monegros, un teknival immenso tra le dune di un deserto in Marocco, io proprio non avevo idea di che fine avrei fatto.
Una mattina mi svegliai che l’aria cominciava già a essere fresca, la stagione estiva accoglieva i primi venti del nord e il profumo del caffè arrivava fino all’amaca su cui avevo dormito durante quella che fu la mia ultima notte in quel paese incantatore. Quella mattina stessa infatti raccogliemmo armi e bagagli e partimmo alla volta della penisola iberica, la mia amica aveva deciso che non poteva più rimandare la partenza per il Marocco, ma avrebbe fatto volentieri una lunga deviazione per accompagnarmi in Catalogna, dove mi avrebbe fatto conoscere alcuni amici suoi che vivevano in una casaoccupatanelquartieregotico diBarcellona. Fu cosìchesenzafretta attraversammo ilPortogallo, entrammo in Spagna e ci dirigemmo verso Saragozza, Valencia e finalmente ancora più a nord, nella città di Gaudì e delle ramblas, nel luogo che oggi amo tanto e che chiamo casa. Quando arrivai a Barcellona una serie di eventi contribuirono a contaminare la mia autostima, gli amici di una vita e di tante avventure erano tornati alla normale routine, lontani e al sicuro, avevo salutato anche Sonia che era ripartita con il suo camion fumoso verso nuove avventure, la mia famiglia, in particolare mia madre che ho sempre amato in modo speciale, era distante e irraggiungibile, mi trovavo in una terra straniera, sconosciuta, brulicante di turisti con i loro telefonini, telecamere, macchinette fotografiche, spensierati, vogliosi di divertirsi e di mostrarsi, alle porte di un inverno precoce, con una scorta di soldi ridotta ai minimi termini, con una scarsa conoscenza della lingua e soprattutto solo. Almeno avevo rimediato un posto dove poter dormire, una vecchia officina meccanica trasformata da un gruppo di ragazzi senza arte né parte in luogo dove rifugiarsi, organizzare traffici vari e sperimentare continuamente lo sballo, poteva non esserci il cibo però in ogni angolo della casa, in ogni stanza, in ogni soppalco c’era qualcuno che fumava coca da bottiglie trasformate in pipe ad acqua, che sniffava ogni tipo di polvere presente sul mercato barcellonese o svuotava siringhe sapientemente preparate nelle più che tormentate vene ancora utilizzabili per questo scopo, il degrado generale era tangibile, l’abbandono e la sporcizia generale, i volti scavati, gli occhi spenti, le persone smarrite, perdute nel loro mondo artificiale, tutti alla ricerca di scovare il modo per procurarsi la prossima dose di felicità, pillola rossa o pillola blu. Come in Matrix mi ritrovai catapultato in questo mondo senza rendermene conto,vecchifantasmicominciaronodasubitoaimpossessarsidellamiacoscienza,primaopoirisalta fuori il richiamo della bestia, la voglia nascosta di abbandonarsi all’oblio senza dover pensare a niente, senza dover combattere, sopravvivendo costantemente anestetizzati. E ancora una volta, l’ennesima nella storia della mia vita… stop, rewind, play. Ricadere in vecchie dipendenze è come essere naufraghi in un mare di merda, ci si trascina nella melma cercando di non affogare, si vive, o meglio si sopravvive, al limite, calpestando ciò che dovrebbe essere importante: la propria dignità, ci si maledice 1000 volte al giorno cercando sempre una buona scusa per giustificare scelte sbagliate. La mia personale discesa verso l’inferno non fu graduale, bensì repentina, cominciai a odiare me stesso, il mondo che mi circondava, la mia malasorte che alimentavo costantemente, i miei compagni di sventura, la vita stessa, ben presto il mio unico obbiettivo fu quello di non restare lucido, ogni espediente era buono, un giorno dopo averne passati tre a festini di coca mi addormentai privo di sensi e di forze nell’anticamera di una banca, dove sono situati i bancomat per i prelievi, e il mattino seguente mi risvegliai ripulito di tutto, il mio zaino, la mia giacca, il portafogli con i documenti della mia falsa identità e i soldi che avevo nascosto dentro la suola delle scarpe. Mi sentii più che mai perso, senza speranza e senza un’identità surrogata dietro la quale mascherare quella reale, ma presto scoprii che non si finisce mai di toccare il fondo veramente.Persilanozionedel tempo eil contattoconlecose,passavolegiornateprocurandopolvere magica e mariuana ai turisti, mangiando poco e male, nutrendomi più che altro di sostanze stupefacenti, rifugiandomi dal freddo dell’inverno sotto la stazione dei metrò, nelle mense della Caritas, nelle case occupate, nelle anticamere delle banche in centro, mi ero trasformato in breve in uno degli innumerevoli derelitti della città. Non avevo più sogni né ambizioni, avevo dimenticato quanto fosse importante per me la musica e il mondo delle feste, avevo perfino venduto la mia amata moto, orgoglio dell’uomo diventato ormai l’ombra di se stesso.
Un giorno durante una delle mie escursioni nel raval, barrio gotico e brulicante di ogni tipo di attività illecita, prostitute in mostra dalla mattina alla sera, in pieno centro, pronte a regalare un po' di felicità per qualche euro, borseggiatori, mendicanti, ubriachi e dall’altro lato della barricata guardie civili e agenti in borghese, una continua battaglia giornaliera, monotona, senza tregua, mi imbattei in quello che per molto tempo diventò il mio unico vero amico di quel periodo buio, un cucciolo di pastore dei Pirenei scappato chissà da dove o abbandonato chissà da chi e quasi ucciso da un’auto in corsa che neanche si degnò di fermarsi per controllare il suo stato di salute. Lo raccolsi dal ciglio della strada, lo avvolsi in una coperta e mi curai di lui fino a quando non si riprese. Da quel giorno fummo inseparabili e devo ammettere che da quanto ero fatto spesso fu lui a occuparsi di me, a vegliare su di me, fu lui l’unica ancora di salvezza per la quale mi rimaneva un po’di interesse per una vita a dir poco fracassata. Paco crebbe in fretta, sano e robusto, eravamo sempre insieme, in simbiosi, inseparabili, fu il testimone di quanto male mi stessi facendo, però allo stesso tempo grazie a lui mi imposi delle regole, per la paura che se mi avessero arrestato lo avrei lasciato da solo a morire in qualche canile municipale evitai di mettermi nei guai e grazie alla sua compagnia ridussi il consumo di sostanze. Dividevo il mio cibo con lui e spesso gli cedevo anche la mia parte, così in poco più di un anno raggiunse il considerevole peso di quasi 80 chili, io ne pesavo di meno. Credo che nella vita nulla accada per niente e che dagli eventi ne scaturiscono altri, come in quel detto nel quale si dice che un battito d’ali di farfalla in questa parte del mondo può produrre un tornado nell’emisfero opposto,oqualcosadelgenere, fattosta che grazieaquell’ammassodipelo, aquelfaccionesimpatico che faceva sorridere qualsiasi bambino incrociasse la nostra strada, incontrai la persona che mi salvò la vita, che mi fece innamorare perdutamente e che ancora oggi rende viva e intensa quella fiammella assopita che stava per spengersi dentro di me. Ancora oggi ripensando al nostro primo incontro avverto la benevola influenza che da subito ebbe sulla mia esistenza. Quel giorno d’inverno pioveva davvero forte, incessantemente, io e Paco eravamo fradici e io, visibilmente fatto e un po’ bevuto, cercavo di asciugarlo senza avere idea di cosa stessi facendo, ci eravamo riparati sotto l’entrata nord della stazione metro di piazza catalunya, qualche metro più avanti della scala mobile che portava alle , passaggio obbligato per migliaia di passeggeri e, quel giorno, anche per lei, che rientrava da una lunga giornata di lavoro in una clinica dentistica. Non so chi debba ringraziare per essermi trovato in quel determinato posto e in quel determinato momento, forse nonostante tutto sono nato sotto la stella della buona sorte, forse in qualche vita passata ho compiuto buone azioni, tanto che il mio karma mi ha restituito con gli interessi quanto mi era dovuto. Fatto sta che l’incontro con quella particolare persona fu decisivo e, gradualmente, operò nel mio io più intimo una conversione alla vita che non credevo fosse più possibile.
Tornando a quel momento ricordo chiaramente come le persone, di tutte le razze e di tutti i colori possibili, passassero senza dare troppa importanza né a me né al mio fedele amico, certo per la maggior parte di loro io non ero che un altro fracassato della vita, qualcuno dava uno sguardo svogliato al cellulare mentre continuava a camminare per la sua strada, la maggior parte guardava avanti scendendo o salendo le scale senza prestare attenzione a quello che accadeva intorno, per lei, invece, fu diverso. Sentivo il suo sguardo incuriosito su di me mentre si avvicinava, lo percepivo senza guardarla apertamente e provavo a fare l’indifferente combattendo i miei demoni, consapevole del degrado impossessatosi di me, cimentandomi sempre più nell’assurda opera di asciugare con uno straccio già di per sé gocciolante il povero Paco, che doveva essersi convinto che anche l’ultimo neuronefunzionantedelmiocervello fosseandatoin cortocircuitoirrimediabilmente. Daisuoigrandi occhi non trasparirono né pregiudizio né commiserazione, semplicemente si sedette accanto a noi e mi chiese, come se fossi il proprietario del piccolo spazio che avevo occupato, se mi desse fastidio tenerle compagnia mentre fumava una sigaretta prima di entrare nella metro, dove non era permesso fumare. Il mio spagnolo era a dir poco stentato, gli intervalli silenziosi mentre cercavo di spiegare quanto partoriva la mia mente erano imbarazzanti, ero confuso, esausto e soprattutto non credevo più in me stesso. La nostra storia cominciò così. Presto si trasformò in un appuntamento fisso tra gli impegni giornalieri ai quali mi dedicavo in quel tempo, un raggio di sole nell’oscurità, qualcosa che senza essere ben definita mi dava la forza e il coraggio per andare avanti con più entusiasmo, la nota più positiva e colorata di giornate nelle quali mi andavo trascinando per inerzia e nelle quali, benché
frequentassi altre persone alla deriva come me, preferivo affrontare la mia disperazione da solo o meglio in compagnia del mio cagnone, che spesso fungeva da mio personale cuscino al momento di mettermi a dormire. Sta di fatto che tutte le sere ero lì ad aspettare quella ragazza che tornando dal lavoro trovava sempre un po’di tempo per tenermi compagnia, fumare una sigaretta insieme a me e farmisentire lavicinanza disinteressatadiqualcuno chevedevain mequello che io non eropiù capace di vedere. Strano come un piccolo gesto possa condizionare profondamente il modo di considerare le cose, di affrontare la quotidianità, ancora oggi sono a dir poco sbalordito dalla caparbietà e dalla pazienza di una donna, che di punto in bianco e senza aver niente da condividere con la mia vita ai margini abbia deciso di spendere forze ed energie per qualcuno che agli occhi di tutti non aveva più speranza alcuna. I nostri appuntamenti senza parole si moltiplicarono, cominciai a svegliarmi presto al mattino e pur non avendo una dimora fissa, i miei rifugi per la notte erano distribuiti per tutta Barcellona, case occupate per lo più, tutte le sante mattine ero fuori dalla medesima stazione metrò di piazza Catalunya nel momento in cui lei arrivava per accompagnarla, sempre di corsa e senza avere il tempo per scambiare due chiacchiere, sul lato opposto, dove avrebbe preso il treno per raggiungere la clinica dentistica nella quale lavorava. Il contrasto che percepivano le persone dal di fuori doveva essere abissale, io trasandato e sporco, con uno zaino militare di un colore ormai indefinito, enorme, costantemente posizionato dietro le mie spalle, quasi una casa da asporto, il mio fedele amico peloso, una bandana rossa al collo, la forza di un orso bruno, sempre in posizione di tiro, avanti a tutti, con la lingua penzoloni, attento a ogni rumore, a ogni dettaglio, pronto a difenderci da chiunque gli sembrasse fosse un pericolo, e lei pulita, ordinata, posata, con il viso luminoso, gli occhi enormi sorridenti, l’antitesi di quanto rappresentavo io. Alba è una di quelle ragazze che nascono con il dono della grazia, è preziosa, bella, da subito ho percepito intorno a lei un’aura che fa sì che il suo fisico, il suo modo di parlare, di guardare, creino un’energia di irresistibile attrazione. Non è molto alta, magra ma con le curve al punto giusto, sua madre è galliega, di pelle chiara, quasi trasparente, suo padre della Guinea, di conseguenza la sua pelle è color caffellatte, i capelli neri, lunghi e ricci le arrivano ai glutei rotondi e sodi da campionessa di corsa a ostacoli, la bocca grande, le labbra carnose di un marrone scuro, ma la cosa che mi ha più colpito di lei e che quando ci ritroviamo mi dà una sensazione di benessere sono i suoi occhi, grandi, neri ed espressivi, mi perdo nel suo sguardo e se è vero che gli occhi sono lo specchio dell’anima la sua è tra le più pure che abbia mai avuto la fortuna di incrociare.
In breve tempo il nostro rapporto si rafforzò, entrammo a far parte l’uno della vita dell’altra, quasi senza volerlo e senza averlo deciso. Dopo un po’, durante i fine settimana, il sabato sera soprattutto, cheera ilgiornodopo ilqualenonavrebbeavutoincombenze, ipochiminuti, checivedevano insieme prima del suo trasbordo dalla linea del metrò verso quella della ferrovia che l’avrebbe condotta verso casa, divennero mezze ore, poi cominciammo ad andare a mangiare qualcosa al KFC, e visto che con noi c’era sempre Paco e che con lui non si poteva entrare nel rinomato fast food, spesso prenotavamo il cibo da portare via e ci sedevamo su una panchina, sempre la stessa, vicino a una fontana che di sera assumeva forme e colori che tanto incantano i milioni di turisti che visitano Barcellona. Quando stavamo insieme il tempo pareva congelarsi, quello che a noi sembrava un intervallo breve si rivelava composto da diverse ore senza che ce ne accorgessimo. Cominciammo a fare lunghe passeggiate, Alba mi fece conoscere una Barcellona che fino ad allora non avevo neanche immaginata, vista con occhi catalani. Mi fece conoscere le feste e le ricorrenze catalane in quartieri che ignoravo, monumenti, chiese, parchi, artisti, cibo, negozi, mi raccontò di storia e di vita, mi parlò di politica e di ingiustizie, mi parlò di Franco, della paura, dell’obbligo imposto al popolo catalano di dimenticare la propria lingua, bandita con l’intento di sostituirla con il castigliano puro, che sarebbe dovuto diventare l’unica lingua parlata nella penisola iberica, ma che con il ritorno della democrazia fu subito reintegrata nelle scuole e nella vita delle persone. Mi fece dunque capire che Barcellona era molto di piùcheun ritrovo perturisti condiscotecheespiagge superaffollate, moltopiùchedroga eperdizione, fast food, bazaar cinesi, internet cafè pakistani ed associazioni per la marjuana. Allo stesso modo e con lo stesso entusiasmo, senza forzare la mano e con tantissima pazienza cominciò a farmi riflettere su chi ero, cosa volessi dalla vita e soprattutto su cosa avessi dovuto fare per cambiare le carte in tavola nel caso decidessi di darle una svolta. Inoltre più passava il tempo più cresceva l’affetto che ci
legava e più la vedevo rattristarsi al momento di dover prendere il treno per tornarsene a casa, era preoccupata per me e non le piaceva il fatto che dormissi in giro, per lei ero in un pericolo costante. Per diversi motivi qualche mese prima che ci conoscessimo Alba era tornata a vivere con sua madre e il compagno di lei, il padre lo aveva perso all’età di tre anni, probabilmente assassinato per motivi politici in un paese sudamericano, e non poteva raccontare a sua madre di aver conosciuto un italiano allo sbando, con un cane enorme e con dieci anni più di lei, senza un lavoro, senza una casa, in esilio, non poteva proprio e questa cosa oltre che pesare sulla sua coscienza, stava mentendo a sua madre, la faceva sentire impotente nei miei confronti e non sapeva come aiutarmi. Dopo esserci frequentati in questo modo per alcuni mesi avevo riacquistato in parte lucidità, non avevo smesso di usare sostanze però avevo cambiato marcia, piano piano avevo capito che forse valeva ancora la pena combattere e soprattutto mi ero reso conto che continuando in quel modo avrei fatto del male a chi si stava esponendo per me e mi stava appoggiando. Un fine settimana si organizzò e fece qualcosa che per certo dentro di sé le costò non poco, mi invitò a passare due giorni in casa della madre a circa 50 chilometri dalla capitale catalana, una piccola città tra le montagne immersa nel verde dei boschi e con l’aria frizzante delle alte quote. In casa vive lo zio di Alba, il fratello più piccolo della madre, arrivando facemmo in modo di non farci sentire, un’impresa ardua visto che accanto a noi c’era sempre la figura imponente di Paco, fatto sta che ci installammo nella vecchia camera di Alba, dove aveva vissuto durante l’adolescenza e che era rimasta immutata. Lo zio, una persona riservata e a modo, non fece trasparire emozioni, sta di fatto che il mattino dopo Bego, la madre di Alba, si presentò davanti alla sua camera per capire cosa stesse accadendo. Bego esprime energia e simpatia, di pelle chiarissima, positiva di carattere e votata alla ricerca di far del bene a tutti i costi, è vedova da quandoAlba aveva tre anni e ha affrontato la vita come una leonessa lavorando giorno e notte per assicurare alla sua bimba un posto dove dormire e dei pasti caldi nel periodo difficile, soprattutto per i più poveri, della dittatura di Franco. Bego non doveva essere contenta che sua figlia frequentasse un italiano senza arte né parte, ma non lo fece trasparire. Con Alba avevo ripreso a sognare e a sorridere, mi innamorai perdutamente, cominciai non solo ad aspettarla davanti all’uscita del metrò ma la accompagnavo fino al lavoro, poi andavo a prenderla quando usciva, spesso ero nei suoi paraggi anche quando durante la pausa andava a mangiare un boccone, naturalmente con discrezione perché i suoi colleghi e superiori non avrebbero compreso una relazione tra di noi. Non so quanti soldi sperperò durante i fine settimana per alberghi e ristoranti pur di mantenere in piedi la nostra storia, io continuavo a vivere in case occupate o in giro dove trovavo rifugio, anche se con più moderazione facevo uso di droghe e dopo qualche mese Alba mi accompagnò in uno degli ospedali più rinomati in Europa per il trattamento delle tossicodipendenze. Feci un colloquio, Alba si sarebbe occupata di Paco per i 15 giorni che mi avrebbero visto immerso nel mio recupero senza possibilità di uscire, i primi giorni furono terribili, angoscianti, poi piano piano cominciai a rinascere, passavo ore a colpire il sacco da boxe, a leggere, a parlare con infermieri, dottori e psicologi, ad annodare braccialetti, incollare pezzi di legno che sarebbero diventati giocattoli per i bambini ricoverati nei reparti oncologici, più mi applicavo in queste cose meno farmaci assumevo e più aumentava il desiderio di abbracciare la persona che aveva di nuovo dato un senso alla mia vita. Il giorno in cui uscii dall’ospedale Alba mi portò in quella che sarebbe stata la nostra prima abitazione, una camera matrimoniale affittata in una casa condivisa con altre due coppie. Quel periodo non fu facile,Alba usciva presto per andare al lavoro, io non ero ancora in grado di trovarne uno e il richiamo della strada era forte. Lei non si perse d’animo, parlavamo fino all’alba in quella stanza ammobiliata, passeggiavamo a lungo sulla spiaggia, per i tortuosi sentieri del Montjoie, per le affollate strade del barrio gotico, spesso mangiavamo fuori e mentre lei era al lavoro facevo il bucato, preparavo da mangiare per non gravare su quella donna che aveva puntato su di noi. In quel periodo non avevo documenti validi per lavorare né per iscrivermi alla securidad social, tutto l’onere economico gravava su Alba, i miei di tanto in tanto mi inviavano un aiuto provvidenziale, tutti i risparmi che lei aveva messo da parte alla fine andarono a farsi benedire ma era certa che da quelle difficoltà saremmo usciti.
Fu così che nonostante su di me pendesse un ordine di arresto internazionale intraprendemmo un viaggio odisseico senza lasciare traccia, attraversammo mezza Europa e riuscii a impadronirmi di
documenti nuovi. Alba volle venire con me sobbarcandosi decine di ore di viaggio su un autobus stracarico di gente e con la paura costante di un controllo da parte delle autorità, consapevole del fatto che se fosse accaduto sarebbe rimasta da sola, lontana da casa, magari con un’accusa per complicità. In breve trovai un lavoro come chef in un ristorante di proprietà di un catalano, fu l’inizio della mia ripresa definitiva, della riconciliazione con me stesso, si riaccese la passione per un lavoro che ho sempre svolto con grande soddisfazione anche se pieno di sacrifici e orari estenuanti. Rinnovavo spesso il menù, disegnando i miei piatti come farebbe un pittore con la sua tavolozza, i clienti apprezzavano la mia cucina, avevo accanto una ragazza meravigliosa che mi appoggiava, così crebbe la fiducia in me stesso, nelle mie capacità, nel mio futuro, la vita ricominciava a sorridere. Ero sempre stato un solitario ma ormai quandoAlba non era al mio fianco sentivo un vuoto dentro di me che non avevo mai sperimentato, mi resi conto che la mia felicità dipendeva da lei e oggi dall’interno di questa cella, dopo un’infinità di mesi durante i quali la vera condanna consiste nel non poterle essere vicino, il suo sguardo straordinario tuttavia è qui, come lo sono i suoi gesti, il suo modo di sistemarsi i capelli, di mordersi le labbra, la sua voce continua a risuonare dentro di me, a volte è come se fosse qui. Subito dopo l’arresto mi sembrò che niente avesse più un senso, un giorno senza vedersi, senza toccareAlba era un giorno perso.Ancora una volta fu lei a farmi uscire da quello smarrimento, venne a trovarmi prima a Barcellona, poi quando mi spostarono a Madrid venne anche lì attraversando mezza Spagna, una volta accompagnata dalla madre e dal suo compagno, mi avevano fatto entrare nella famiglia, ci avevano lasciato la loro casa nella zona alta di Barcellona andando a vivere nella vecchia casa fuori città. Fui estradato in Italia eAlba non mi ha mai lasciato solo, venne a trovarmi a Roma, poi a Cassino, ora a Firenze, si ferma due giorni, quelli del colloquio, poi riparte aspettando speranzosa il giorno del mio rilascio. Mi scrive ogni settimana, almeno 10 fogli scritti fitti fitti per raccontarmi come se fosse un diario quello che le passa per la testa animandomi, facendomi sognare a occhi aperti Libertà e amore mi daranno la forza per combattere, non mi rassegnerò mai.