Quaderno di comunicazione 13

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Quaderno di comunicazione Rivista di dialogo tra culture


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Indice

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Questo numero

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Comunicazione e menzogna

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Alfredo Reichlin, Comunicazione e menzogna: lezione magistrale e intervento introduttivo al convegno

p. 17 Vanni Codeluppi, La società dei consumi: rilettura di Jean Baudrillard p. 25 Elena Esposito, La realtà dei mass media: rilettura di Niklas Luhmann p. 33 Guglielmo Forges Davanzati, Il non detto della crisi economica

p. 43 Come usare McLuhan nell’epoca delle reti p. 45 Alberto Abruzzese, McLuhan: nell’occhio del ciclone p. 57 Davide Borrelli, Message is the massage. Il pensiero di McLuhan alla prova della comunicazione digitale p. 65 Andrea Miconi, Malgrado McLuhan. Appunti per una storia materiale dei media p. 77 Nello Barile, Fashion is the medium. Attualità di McLuhan tra moda, culture giovanili e nuove forme di protagonismo digitale. p. 95 Giovanni Ragone, Per una mediologia della letteratura p. 107 Matteo Ciastellardi, McLuhan e il pensiero critico all’epoca delle reti: the International Journal of McLuhan Studies come esperimento critico di convergenza culturale p. 119 Stefano Cristante, McLuhan, il moderno e il postmoderno

p. 125 Note biografiche degli Autori


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Questo numero Quaderno di comunicazione ha da tempo compiuto i primi 10 anni di vita. Per una rivista scientifica che mette in pratica gli attraversamenti disciplinari e i molti sguardi sugli oggetti d'indagine non è poco. Accompagnata da un corso di studi in Scienze della comunicazione altrettanto convinto che il polline della ricerca spetti a una pluralità di approcci, la rivista è oggi pronta a un cambiamento. Il passaggio-chiave è dalla carta alla rete. E' una questione di costi, naturalmente. Ma il digitale ci fornisce anche nuove possibilità, che dovremo, nel corso del tempo, esplorare. Materiali multimediali, spazio potenzialmente assai superiore rispetto al cartaceo, possibilità di uscita più di una volta l'anno. Le prossime novità saranno presentate al più presto dal nuovo comitato di redazione. Intanto, per il 2012, presentiamo alcuni materiali lavorati dagli autori a partire dal Decennale di Scienze della Comunicazione a Lecce, iniziativa che è culminata, nel dicembre 2011, in due convegni ricchi di interventi. Del primo, “Comunicazione e menzogna”, presentiamo quattro saggi (di Alfredo Reichlin, Vanni Codeluppi, Elena Esposito, Giglielmo Forges Davanzati) la cui prima versione è stata ascoltata dagli studenti e dal pubblico intervenuto nei tre giorni dell'iniziativa. Del secondo, “Come usare McLuhan nell'epoca delle reti”, presentiamo sette saggi (di Alberto Abruzzese, Nello Barile, Davide Borrelli, Matteo Ciastellardi, Andrea Miconi, Giovanni Ragone e di chi scrive) anch'essi ascoltati in prima versione durante il nostro Decennale, che abbiamo voluto far coincidere con il centenario della nascita del maggior studioso di media del Novecento, Marshall McLuhan. Cogliamo l'occasione per ringraziare il prof. Angelo Semeraro, che ha ideato e poi guidato la rivista fino al 2011, e tutti gli editori che, nel corso degli anni, hanno pubblicato il Quaderno. Stefano Cristante Presidente del Corso di laurea in Scienze della comunicazione Università del Salento, direttore di Quaderno di comunicazione

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Comunicazione e menzogna


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Comunicazione e menzogna: lezione magistrale e intervento introduttivo al convegno Alfredo Reichlin

Ho accettato con molte esitazioni di parlare in apertura di questo importante convegno. Sono nato in un’altra Era e sono un quasi analfabeta rispetto ai nuovi linguaggi. In più le categorie che formano la mia mente sono quelle del materialismo storico, lo storicismo assoluto alla maniera di Antonio Gramsci. Il peggio che vi potesse capitare. Posso quindi solo sperare nella vostra sopportazione. Che cosa resta della verità dopo il declino della stagione del populismo mediatico? E’ la domanda che si è posto di recente Umberto Eco. Io penso che la risposta a questa domanda non può essere data guardando solo al lungo “Truman show” di Berlusconi, ma misurandoci con la ragione di fondo per cui la crisi che stiamo vivendo è così devastante. La ragione, al fondo, è che il patto politico e sociale che per più di un secolo è stato alla base della democrazia europea, è in disfacimento. Di questo si tratta. Parte da qui la mia idea della verità: la verità in senso storico. Essa, dopotutto, sta nel capire la grandezza e la drammaticità di questo passaggio. La verità (evidentemente nel suo significato non banale, cioè non solo come l’opposto della menzogna), è nella capacità critica di comprensione del mondo nuovo in cui siamo immersi; è capire meglio che cosa è in gioco, che tipo di assetto della vita sociale è in discussione, quali compromessi storici stanno saltando. Le parole non corrispondono alle cose. Dietro l’astruso linguaggio degli economisti che ci parlano di “spread” ci sono fatti grandissimi. La crisi dell’egemonia americana e quindi, la rottura di un “ordine”. Di conseguenza, una sorta di guerra mondiale finora incruenta. Che fine farà il signoraggio del dollaro? E se l’euro sopravviverà che posto avrà l’Europa nel mondo di domani? In ogni caso stiamo assistendo alla fine della cosiddetta occidentalizzazione del mondo. Cioè di quel tempo e di quel luogo storico in cui si sono pensate le grandi cose: lo Stato, i diritti dell’uomo, l’idea di progresso, Marx e Adamo Smith, l’Illuminismo e le guerre di religione. Non scopro nulla. Voglio solo cercare di dire perché colloco il problema delle comunicazioni in questo scenario. 9


E’ evidente che parlando di comunicazione parliamo di cose che riguardano i modi di pensare e le relazioni umane. Ma, io tra queste, voglio parlare del come il “clic” sul computer ha rivoluzionato l’economia. E ciò per la ragione che senza quella rete informatica e telematica, sarebbe addirittura impensabile la capacità e lo straordinario potere del capitale finanziario di rendersi indipendente dai territori e dalle vecchie regole dell’economia reale. Fino ad aggredire i debiti sovrani e quindi gli Stati. Le automobili si devono costruire e poi si devono spostare. I capitali, invece, si spostano in tempo reale. E’, così, uno squilibrio senza precedenti tra il cosmopolitismo dell’economia finanziaria (in grado di spostare la ricchezza del mondo) e la subalternità della politica, i cui poteri restavano locali. Non è solo per questo ma è anche per questo che il cittadino ha perso la sua sovranità (i diritti uguali, l’usbergo del proprio Stato) e che è avvenuta avanti una nuova “teologia”. L’idea secondo cui la società, cioè quella rete di legami storici, culturali, anche ancestrali che chiamiamo società, non esiste. Esistono solo gli individui, immersi in un eterno presente. E questi individui, soli senza identità e senza passato si definiscono in un solo modo: nel rapporto che hanno col mercato. I famosi mercati che non a caso vengono nominati –se ci badate bene- con la riverenza e la soggezione che si riserva alle divinità. Le quali –come sappiamo- sono ascose e anche capricciose, come lo erano gli antichi Dei che abitavano l’Olimpo. Un Olimpo che, questa volta, risiede in parte a Wall Street e in parte nella mani forti di chi controlla le reti della comunicazione, dei linguaggi, dell’immaginario. Sto parlando di quella grande ideologia, secondo cui sono finite le ideologie e quindi i mercati governano, i tecnici amministrano, i politici vanno in TV a farsi beffeggiare. Questo è il passaggio. Il nuovo ordine economico a dominanza finanziaria ha proceduto in uno strettissimo rapporto di causa-effetto con una struttura culturale di straordinaria potenza e pervasività. Un modo di pensare la realtà che rende incerto il confine tra il vero e il verosimile. Si creava così lo spazio per le “aspettative”. Le aspettative. Come mi spiegò molti anni fa un grande economista, sono proprio le aspettative il carburante della nuova economia finanziaria. Perciò è decisivo il mondo della comunicazione, i suoi valori, la sua capacità di creare bisogni e attese. Ecco perché penso che siamo a un vero passaggio storico. In un modo o nell’altro, è il fondamento delle cose che torna in discussione. E’ quella estrema concentrazione della ricchezza immateriale che consiste nel controllo della conoscenza. Il potere dei poteri. E’ la visione della realtà, come il mezzo più potente per controllare l’azione umana. 10


Insomma, il cosiddetto “pensiero unico”, ovvero “it is the economic, stupid”. E’ il mercato, bellezza. Dopotutto, non sto dicendo di una grande novità. In diversi modi e in epoche diverse un “pensiero unico” c’è sempre stato. Pensiamo al Medioevo quando per secoli gli artisti pur diversissimi tra loro- dipingevano un solo tema: le storie di Cristo. Le idee dominanti –diceva Carlo Marx- sono le idee delle classi dominanti. Ma la novità è che nei luoghi più diversi, in Italia come a New Yorck, a Madrid come a Roma, comincia a muoversi qualcosa di profondo. Una protesta, e soprattutto tra i giovani. La protesta contro Wall Street. E’ una cosa grossa, molto positiva. Ma attenzione. Stiamo attenti agli estremismi. La finanziarizzazione dell’economia, con tutto il suo carico di ricchezza fittizia non è –a mio parere- soltanto una nuova forma del capitalismo, ma qualcosa di diverso da esso. Stiamo attenti alle semplificazioni se vogliono che la protesta si trasformi in una visione più chiara della realtà e in alleanze possibili. Non si può pensare a una trasformazione del mondo senza capire meglio la realtà in cui viviamo e la cosa che vogliamo modificare. Ricordiamoci che il capitalismo storico è stato la più grande rivoluzione umana dopo l’agricoltura. Coniugando mercato e tecnica, il capitalismo ha scatenato una potenza produttiva smisurata in un tempo storicamente irrisorio, 3 secoli. Ma il capitalismo non è stato soltanto mercato. E’ stato anche capacità creativa e diffusione di beni e di valori. Come mai allora siamo arrivati a tanto, al fatto cioè che i cosiddetti mercati, i quali poi non sono mercati ma una loro caricatura, (essendo i mercati finanziari non regolati, non trasparenti e non garantiti dalle leggi), hanno licenza di aggredire e mandare in rovina il lavoro, il benessere, le imprese, lo Stato sociale di un paese come l’Italia che dopotutto è la settima economia del mondo? Da dove viene la forza dei poteri che ci hanno portato a tanto? La risposta può venire solo da una più larga analisi che io qui posso solo accennare. Penso alla importanza cruciale della svolta politica avvenuta tra gli anni ’60 e ’70 del Novecento, cioè la decisione senza precedenti storici presa dalla destra anglo-americana (Thatcher e Reagan), di togliere ogni limite alla circolazione dei capitali e di dare alle grandi banche private il diritto di andare ben oltre il compito di fare credito agli imprenditori, per assumere quello di creare moneta fittizia emettendo titoli all’infinito. Di fatto, battere moneta. Furono decisioni capitali che hanno cambiato la storia e di cui certamente si è parlato ma come di fatti tecnici, che interessavano solo gli addetti ai lavori. Si creava così un mare di denaro che non aumentava la ricchezza reale ma attirava il risparmio del 11


mondo con l’idea che il denaro si poteva fare manovrando il denaro. Un mare di denaro. Al punto che le attività finanziarie hanno superato ormai di quasi 4 volte il prodotto reale del mondo. Ma adesso chi paga? A chi tocca pagare i debiti che gravano soprattutto sulle nuove generazioni? E’ tempo quindi che una nuova soggettività politica e culturale torni in campo per restituirci il senso di ciò che è accaduto, del perché è avvenuto, di quali forze bisogna mettere sotto controllo. Il nemico non sono le banche in quanto strumento essenziale per fornire credito all’economia. E’ il modo di operare come una oligarchia finanziaria che ha creato una immensa rendita che grava sul mondo. Perciò, io ripeto la domanda. Di che cosa stiamo parlando? Rispondo che stiamo parlando prima di tutto di qualcosa che riguarda la legittimazione etica di questa forma del capitalismo. Perché il mondo così non è governabile. In ciò sta la differenza. Il capitalismo storico è stato una civiltà, la civiltà dell’Europa moderna, è stato quello strumento straordinario che in un breve lasso di tempo (dall’inizio del ‘700, non prima), ha consentito all’umanità di fare un salto impressionante. Cambiò ciò che per millenni non era cambiato se non di poco. Nel ‘700 i galeoni spagnoli navigavano ancora a vela come le festuche dei fenici e i Lord inglesi si curavano più o meno come ai tempi degli antichi romani. Nacque una “macchina” che moltiplicava la ricchezza reale come non era accaduto mai e che consentì all’Europa di popolare il mondo nell’arco di due secoli. Lo ricordo perché è la fine di questa cosa ciò che sta avvenendo. E’ il cambiamento di un modo di produzione che è stato anche, sia pure nelle forme più crudeli, un processo di emancipazione dell’uomo da vecchi vincoli. E’ vero, come Marx ci aveva spiegato, che cose come l’uguaglianza giuridica e i diritti di cittadinanza erano diritti formali. Ma “formali” fin che si vuole, essi rappresentavano pur sempre una bella differenza dalla servitù della gleba. Nasceva il cittadino, lo Stato democratico. Solo adesso noi cominciamo a misurare ciò che è avvenuto tra gli anni ’60 e ’70 del Novecento. Un cambiamento grandissimo stimolato da una rivoluzione scientifica e tecnica –il digitale- paragonabile soltanto alla rivoluzione del macchinismo di un secolo prima. Contemporaneamente una nuova oligarchia nata dalle elites politiche e finanziarie anglo-americane, aboliva ogni limitazione e ogni controllo sul movimento di immensi capitali e trasformava la finanza da infrastruttura di servizio dell’economia in una industria per fabbricare denaro. Gli effetti sono stati sconvolgenti. Il grosso delle attività manifatturiere si spostava verso i paesi a basso costo del lavoro, mentre il lavoro 12


e tutto l’assetto europeo dell’economia sociale di mercato venivano messi in crisi. Come ho detto: una civiltà e una cultura venivano messi in discussione. Il tema, quindi, del rapporto tra comunicazione e menzogna non è una banalità. Nasce da una rottura avvenuta nella vita storica del capitalismo. E’ ciò che Paolo (il fratello di Romano) chiama la fine del dualismo. Un dualismo (cito le sue parole) come non coincidenza del potere politico con quello economico e come creazione di norme etiche e norme di diritto positivo che ha rappresentato quel fattore che ha via via portato allo sviluppo dell’uomo moderno, e quindi alla creazione dello Stato sociale. La vecchia supremazia dell’Europa. Ecco perché parlo di una cesura storica. Perché ciò che noi abbiamo conosciuto finora come civiltà capitalistica è questo dualismo. Il quale è anch’esso un fatto storico, reso possibile dall’esistenza di grandi “contenitori”

(Stati, leggi, culture, sistemi), che

garantivano un determinato rapporto tra politica ed economia. Gli “spiriti animali” dell’avidità si legittimavano in quanto venivano costretti a misurarsi con diritti, conquiste di libertà, diffusione del benessere, perfino con le spinte verso una certa equità sociale. Ecco perché io dico che per capire e per sapere con che cosa ci misuriamo abbiamo bisogno di un pensiero politico più ampio. Più storico. Ciò che ci da la misura del problema è che l’ordine mondiale del capitalismo finanziario si costruì negli anni ’70, non solo per ragioni economiche ma in conseguenza di una vera e propria “congiunzione di astri”. E’ sul finire degli anni ’50 che il modello di sviluppo di tipo Keynesiano, cioè quella sorta di patto implicito tra lo Stato e il capitalismo industriale, il cosiddetto compromesso tra la democrazia e il capitalismo, era entrato in crisi. E ciò per una serie di fattori, tra i quali fondamentale era l’internazionalizzazione dei mercati. E, quindi, il determinarsi di un divario crescente tra la potenza di una economia che si mondializzava (pensiamo solo alla forza delle multinazionali) e la vecchia sovranità dello Stato nazionale rispetto a mercati che erano ancora largamente domestici. Ma tutto questo si intrecciò con fenomeni storici assolutamente grandiosi. Una rivoluzione tecnico-scientifica che superava le vecchie frontiere dello spazio, del tempo e della natura (il digitale, l’informazione, le bio-scienze). E ciò nel quadro, anch’esso di portata storica, determinato dal crollo del socialismo reale e dall’affermarsi di una “superpotenza” senza più rivali, paragonabile solo alla Roma di Augusto. Di fatto il vertice politico anglo-americano ha delegato alla grande finanza quel potere immenso che consiste nel decidere come allocare le risorse del mondo. E lo ha fatto pensando 13


che possedendo la moneta di riserva (il dollaro), poteva condizionare i processi mondiali. Di quali economie di mercato stiamo parlando? Si sono rovesciati i rapporti di forza tra il governo e le multinazionali, tra il capitale e il lavoro, tra la politica e l’economia. E’ diventata abissale la distanza tra chi produce la ricchezza reale e chi specula sui movimenti finanziari. Non pretendo di aggiungere nulla alle tante analisi. Mi chiedo, però, se noi abbiamo misurato abbastanza gli effetti dell’enorme squilibrio che è in atto nella distribuzione della ricchezza e, quindi, nel mondo dei valori e dei significati dell’esistenza. Non è un piccolo problema. La ricerca senza limiti dei guadagni in conto capitale ha fatto si che valori come lealtà, integrità, fiducia, significati della vita, venissero via via accantonati per fare spazio al risultato monetario a breve termine. Si è arrivati a far credere a milioni di persone (fu la promessa di Bush) che usando le carte di credito potevano arricchirsi e potevano quindi accettare l’abbassamento delle retribuzioni. Non tiro delle conclusioni. Non sono in grado di dire dove stiamo andando. Tutto ci dice –mi pare- che si sta verificando quella “grande trasformazione” di cui parlava Karl Polany, cioè quella crescente contraddizione della logica del capitale finanziario che tende a invadere non più solo i mercati delle merci, ma i significati e i valori della vita: i bisogni, le culture, i modi di pensare e di vivere, perfino le logiche delle imprese produttive (vale il suo prodotto oppure il suo valore di borsa?). Questo da un lato. Ma dall’altro il fatto che inesorabilmente lo sviluppo umano avanza e tenderà sempre più a far valere la sua autonomia. E quindi a condizionare a sua volta l’economia al punto di sovvertire i suoi meccanismi. Perciò i grandi economisti e i leader politici si contraddicono platealmente, non sanno più che pesci pigliare. Il mondo, così com’è, non va bene. Un miliardo di persone è uscito dalla miseria. Ma in vaste zone del mondo si assiste alla dissoluzione di ogni potere statale per cui grandi masse umane non solo sono povere ma non conoscono leggi, diritti, strumenti e servizi pubblici elementari. Non sanno più chi sono. E basta guardare i volti disperati dei miserabili che sbarcano sulle nostre coste e gli sguardi dei lori bambini, per rendersi conto di quanto odio stiamo seminando e di quali spazi enormi si aprono per la violenza, per i traffici di droga e di armi, per la corruzione e la distruzione dei beni ambientali, per guerre civili endemiche.

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Quale umanità si va formando? Questa mi sembra la domanda principale che bisognerebbe porsi. Sta anche emergendo una società civile globale stimolata dalla rapidità con cui i nuovi strumenti di informazione e comunicazione si diffondono soprattutto tra le nuove generazioni. La novità è che si tratta di movimenti ancora frammentati ma che tendono a rafforzare un senso di solidarietà umana. Il problema fondamentale è questo stimolare in tutti i modi un movimento capace di provocare un aumento della capacità e volontà delle persone di riprendere il controllo della propria vita. Prendere il controllo della propria vita: questo è forse il compito fondamentale, quello che confligge più profondamente col capitalismo finanziario. L’analogo di ciò che rappresenta la formazione di una coscienza di classe al tempo del capitalismo industriale. Torna così il problema della verità e della menzogna. La televisione e poi il computer e Internet, sono ormai i più formidabili condizionatori del pensiero, non solo nel senso che ci dicono cosa dobbiamo pensare, ma nel senso più profondo che modificano il nostro modo di pensare. Penalizzando nella sostanza il vecchio pensiero analitico. Il mio interrogativo è se questa trasformazione sia necessariamente un guaio, oppure no. Il pensiero analitico ha fatto la storia dell’Occidente. Ma gli uomini non hanno mai avuto il senso globale del mondo reale. Oggi, forse, possono. C’è la rete. Una rete che coinvolge tutti. E io penso che così come essa ci può portare alle grandi menzogne, ci può consentire di stabilire un nuovo nesso tra verità e democrazia. La cosa che mi da fiducia è che la democrazia ha bisogno della verità. Perché se sono solo a decidere non so che farmene della verità. Ma se bisogna deliberare insieme, allora ho assolutamente bisogno della verità. Non mi nascondo che sul web tutto sembra vero, anche il falso, eppure sono aumentate le risorse di comprensione e valutazione e soprattutto la pluralità delle fonti a nostra disposizione. Di come stanno le cose non ce lo dicono più solo i soloni della Scienza, della Religione e del Potere politico. Oggi è possibile un nuovo pensiero collettivo ispirato da un nuovo bisogno di senso, di verità e di conoscenza. Mi chiedo se per la prima volta si può formare una maggioranza che si da gli strumenti per riconoscerla. Dobbiamo tornare a impadronirci delle nostre vite. Dobbiamo impedire che gli individui vengano resi soli, cessino di essere persone per trasformarsi in “maschere” dietro alle quali non ci sono donne e uomini differenti e quindi reali, padroni di sé, ma solo individui la cui personalità si misura con un solo metro: il denaro. Mi chiedo se 15


l’estrema esaltazione dell’individualismo non si

stia trasformando in una sorta di

“esaltazione e morte della persona”. Dobbiamo definire così il capitalismo moderno? Ma allora la conseguenza quale sarebbe, se non il fatto che la bandiera della libertà torna nelle nostre mani?

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La società dei consumi: rilettura di Jean Baudrillard Vanni Codeluppi

Introduzione La riflessione critica sulla società dei consumi non è attualmente molto praticata. È pertanto il caso di chiedersi se oggi siamo talmente immersi in tale forma di società da non riuscire più a prendere le distanze rispetto ad essa. Sembrerebbe di sì, a vedere le poche voci di dissenso che si levano. Se escludiamo, infatti, le prese di posizione di orientamento ecologista, a questo proposito esiste ben poco. È il caso allora di andare a vedere le riflessioni che sono state sviluppate in passato sulla società dei consumi, a cominciare da quelle fondamentali contenute nel volume La società dei consumi, pubblicato da Jean Baudrillard nel 1970. Sembra infatti che l’espressione «società dei consumi» sia nata negli anni Venti del Novecento, ma è stato sicuramente il saggio di Baudrillard dal titolo omonimo a trasformare questa espressione in una vera e propria etichetta diffusasi in tutto il mondo. Non a caso, dopo la prima edizione francese, il volume è stato rapidamente tradotto nelle principali lingue del mondo. Fanno eccezione gli Stati Uniti, dove la traduzione è arrivata soltanto nel 1997, per opera di George Ritzer, ma ciò è dovuto al fatto che Baudrillard in questo Paese è stato scoperto in ritardo, probabilmente a causa del linguaggio che ha adottato a partire dalla metà degli anni Settanta, sofisticato e distante da una cultura pragmatica come quella americana. Nel volume La società dei consumi, però, il suo linguaggio era chiaro ed efficace e questo è senz’altro uno dei motivi alla base del grande successo ottenuto da tale volume, che merita pertanto un’attenta analisi per vedere che cosa di utile è ancora in grado di comunicarci sul funzionamento delle società contemporanee. La società dei consumi secondo Baudrillard Ciò che Baudrillard ha cercato soprattutto di fare all’interno del volume La società dei consumi è stato mettere a fuoco le caratteristiche e le conseguenze sociali del potente boom consumistico che in quegli anni si stava sviluppando in tutta l’Europa. Si è 17


impegnato perciò con rigore nel tentativo di sviluppare quella che può essere considerata una vera e propria teoria del consumo di massa, basata su concetti ancora oggi attuali come l’idea che il consumo vada interpretato come una realtà di tipo miracoloso. Il mondo dei consumi deve infatti il suo successo soprattutto alla capacità di presentarsi agli occhi degli individui come una specie di miracolo. Cioè come un’abbondante offerta di prodotti affascinanti e imperdibili che viene magicamente rinnovata ogni giorno. Un’offerta dove i beni non sono il frutto del lavoro e delle fatiche degli esseri umani, ma dei veri e propri regali che vengono dispensati da parte di un’istanza mitologica benefica: la tecnica, il progresso, l’industria, ecc. Una visione miracolistica

del

consumo

è

esattamente

all’opposto

di

quella

concezione

funzionalistica e utilitaristica del rapporto con i beni che gli economisti hanno sempre sostenuto, ma Baudrillard aveva ben compreso che il mondo del simbolico non può essere confinato nelle civiltà primitive, perché svolge una funzione centrale anche all’interno delle società occidentali avanzate. È per questo motivo, d’altronde, che i consumatori sentono la necessità di sprecare il loro denaro, esattamente come si faceva nei rituali e nei potlach delle civiltà primitive, e, allo stesso modo degli indigeni melanesiani, mettono continuamente in mostra i loro beni che esprimono significati di benessere, sperando che possano svolgere una funzione propiziatoria, che possano cioè attirare verso di loro benessere e felicità. Baudrillard pensava anche che, non diversamente da quello che succedeva agli indigeni, la società dei consumi di massa non costituisse altro che una grande illusione collettiva, perché, se ha prodotto un sostanziale livellamento dei tenori di vita degli individui dal punto di vista concreto dei beni e dei redditi disponibili, ha potuto nel contempo dare vita anche a nuove gerarchie sociali basate su quella capacità di differenziazione e discriminazione che è propria dei segni veicolati dai beni. Durante gli anni Sessanta del Novecento, infatti, via via che l’industrializzazione rendeva disponibili forme di consumo a livello di massa, l’insieme delle merci ha reso sempre più evidente la sua natura di sistema comunicativo unitario, risultato dell’unione e dell’interazione tra gli specifici significati posseduti dalle singole merci. Si tratta di quello che Baudrillard all’epoca ha definito come «sistema degli oggetti» (1972). In tale sistema, gli individui, secondo Baudrillard, consumano non degli oggetti in grado di soddisfare specifici obiettivi di natura utilitaristica, ma piuttosto dei segni che permettono di conseguire degli obiettivi di carattere generale. Dunque, i beni «costituiscono un sistema globale, 18


arbitrario, coerente di segni, un sistema culturale che viene a sostituire un ordine sociale di valori e di sistemazione al mondo contingente dei bisogni e dei godimenti e all’ordine naturale e biologico» (Baudrillard, 1976, pp. 100-101). Costituiscono, cioè, un sistema culturale in grado di comunicare le posizioni e le differenze tra le persone e i gruppi nella società. È stata così messa in discussione da Baudrillard la tradizionale rappresentazione del consumatore fornita dall’economia: un soggetto naturalmente dotato di bisogni che lo trascinano verso beni capaci di soddisfarli. Secondo Baudrillard, al contrario, i bisogni non possono essere innati, come prevede questa concezione, perché se lo fossero non si spiegherebbe come mai nella società si moltiplicano e diventano sempre più ricchi e articolati. La loro origine deve risiedere pertanto al di fuori dell’individuo e non può che trovarsi nelle attività pubblicitarie e di marketing sviluppate dalle imprese. Ovvero, nelle strategie di queste ultime tese a condizionare i comportamenti dei consumatori. Dunque, il valore d’uso è un concetto di natura ideologica che serve a facilitare gli scambi, in quanto un prodotto per poter essere scambiato dev’essere prima riconosciuto come un prodotto utile. I bisogni, inoltre, per Baudrillard non sono creati dalle aziende come bisogni relativi a prodotti specifici. O perlomeno, ciò a volte può anche avvenire, ma quello che è realmente importante sul piano sociale è che l’intero «sistema di produzione» crea il «sistema dei bisogni», cioè una disponibilità generale a consumare, un desiderio di desiderare. Dunque, un desiderio che può essere applicato a qualsiasi tipo di prodotto, ma non è legato a uno in particolare. Sono presenti evidentemente nell’analisi di Baudrillard dei pregiudizi di tipo ideologico derivanti dalla particolare epoca sociale nella quale essa veniva svolta. Un’epoca in cui prevaleva una concezione fortemente critica verso i consumi, la quale ha portato Baudrillard a studiare i significati che sono incorporati nelle merci nel momento della produzione e della commercializzazione da parte di quello che era considerato il “grande accusato”: il sistema capitalistico di produzione. La merce era dunque per Baudrillard un oggetto nel quale sono stati cristallizzati dei significati che circolano liberamente, senza subire evoluzioni, né trasformazioni di senso. Oggi però è noto che i significati delle merci non sono da rintracciare dentro le merci stesse e si producono soltanto all’interno di una specifica situazione sociale, cioè all’interno delle relazioni intersoggettive e delle concrete pratiche d’uso. Baudrillard certamente ha il merito di 19


aver contestato agli autori precedenti che il mero possesso di beni possa definire la collocazione di classe degli individui e di aver attribuito all’interno del suo sistema teorico una notevole importanza alle pratiche d’uso e di combinazione dei beni attivate da parte delle diverse classi sociali, secondo specifiche regole sintattiche proprie di ciascuna classe. Ma quando ha considerato le variabili situazionali e d’uso dei beni, come nell’analisi delle diverse strategie d’impiego dell’apparecchio televisivo attuate dalle famiglie all’interno del soggiorno domestico che ha compiuto in Per una critica della economia politica del segno (1974), lo ha fatto soltanto per leggervi una logica sociale di differenziazione relativa alle classi, e non per mettere in luce la ricchezza di significati che viene espressa dai beni presenti in quel determinato contesto. Si spiega così perché Baudrillard abbia ripreso e sviluppato alcuni dei principali aspetti di una teoria semplificata come quella sviluppata negli Stati Uniti della fine dell’Ottocento da Thorstein Veblen (Codeluppi, 2002, 2005), sostenendo in particolare che il ruolo ostentativo e vistoso del consumo è reso possibile dall’esistenza di un «valore/segno» contenuto nelle merci, che va ad aggiungersi al valore d’uso e al valore di scambio. Tale valore, infatti, segnalerebbe, secondo il sociologo francese, sia l’appartenenza del consumatore a un certo status sociale, che il suo grado di differenziazione rispetto agli altri status. Le nuove forme di differenziazione sono però collocate secondo Baudrillard su un piano più qualitativo e discreto rispetto a quello dello status agiato vebleniano. Pertanto, ad esempio, gli oggetti di design sono realizzati «per non essere compresi dalla maggioranza, o almeno non immediatamente; la loro funzione sociale è anzitutto di essere segni di distinzione, oggetti che distingueranno coloro che sanno distinguerli. Gli altri non li vedranno neanche» (1974, pp. 32-33). Ne deriva che rimangono in piedi quelle barriere che separano le classi superiori dalle restanti classi sociali, ostacolando il realizzarsi nella società di un effettivo processo di mobilità. Talune classi acquistano dei beni solamente per mostrarli e comunicare così il loro valore di status, altre invece utilizzano gli stessi beni come uno strumento per ottenere dei risultati sul piano della crescita culturale degli individui. Gilles Lipovetsky ha però criticato l’analisi del consumo sviluppata da Baudrillard sostenendo che essa

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è cieca di fronte alla funzione storica del nuovo tipo di regolazione sociale basato su mutevolezza, seduzione e iperscelta. Non vogliamo affatto negare che gli oggetti possano essere qua e là simboli di status o di aspirazioni alla distinzione, ma contestiamo l’idea che il consumo di massa sia guidato principalmente dai meccanismi di differenziazione sociale e si identifichi con la produzione di valori onorifici e di emblemi sociali. La grande originalità storica dello sviluppo dei bisogni sta proprio nell’aver avviato la tendenza alla desocializzazione del consumo e nell’aver fatto arretrare il primato immemorabile del valore statutario degli oggetti favorendo il valore, oggi dominante, dell’uso e del piacere individuale (1989, p. 177).

Ciò che oggi avviene insomma, secondo Lipovetsky, è che si cerca sempre di meno di acquistare beni per ottenere prestigio sociale, per differenziarsi da un gruppo inferiore o per avvicinarsi a un gruppo superiore, mentre si insegue soprattutto la soddisfazione individuale. Va tenuto presente però che, anche se si consuma sempre più frequentemente per se stessi piuttosto che per gli altri, ciò non significa che le motivazioni di consumo legate allo status siano scomparse. Convivono semplicemente con le motivazioni che sono sempre più emerse negli ultimi anni (comodità, piacere, espressione dell’identità personale, ecc.). Lipovetsky comunque ha ragione quando sostiene che è in atto un processo di crescente personalizzazione delle scelte degli individui. Tale processo ha preso avvio dalla metà degli anni Settanta in tutti i paesi occidentali e ha portato a un diverso assetto del sistema sociale: da una struttura stratificata a una struttura differenziata basata sulla frammentazione in molteplici subculture e, di conseguenza, a una struttura sociale non più necessariamente orientata in senso verticale, ma di forma articolata e molteplice (Luhmann, De Giorgi, 1992). Anche quel sistema degli oggetti di cui parlava Baudrillard, pertanto, si è frammentato, disgregandosi progressivamente e andando a essere tenuto insieme, più che dalla combinazione dei significati espressi dalle singole merci, da una logica esterna alle merci stesse e propria delle nuove aggregazioni sociali che sono andate via via formandosi. Il significato viene dunque attribuito dall’individuo alla merce e non risiede più all’interno di questa in maniera stabile. D’altronde, anche nella produzione teorica di Baudrillard successiva a quella degli anni Settanta, il tema del consumo è andato progressivamente a ridimensionarsi. Per esempio, il sociologo francese ha parlato a più riprese dell’esistenza di una «società della simulazione» – che a suo avviso è resa possibile dalla rivoluzione determinata 21


dall’introduzione della logica associata al linguaggio informatico – la quale ha fatto cadere i criteri di valore tradizionali e subordinato i rapporti sociali ai principi di funzionamento dei nuovi modelli di simulazione. La realtà sociale viene così sempre più sostituita da una simulazione attraverso segni che «si scambiano ormai tra di loro senza scambiarsi più con qualcosa di reale» (1979, p. 18). Ne consegue che anche la circolazione materiale dei beni di consumo è progressivamente sostituita da una circolazione

immateriale

di

messaggi.

Rientra

cioè

in

quel

processo

di

“virtualizzazione” che tende sempre più a caratterizzare il sistema sociale dell’ipermodernità. Conclusioni Si potrebbe pensare che oggi, nell’epoca di Internet e dei social network, l’etichetta «società dei consumi» non sia più in grado di dare conto delle nuove forme che sono state assunte dalla struttura sociale. Va considerato, però, che Internet avrà un futuro solamente se sarà in grado di fornire delle risposte adeguate alla richiesta di dare vita a un mercato basato sul consumo. Al di là delle utopistiche rivendicazioni del gratuito a tutti i costi, infatti, la Rete potrà avere una sostenibilità economica solamente se avrà la capacità di sviluppare il commercio elettronico, di stabilire dei sistemi di pagamento affidabili per le prestazioni offerte e di attirare verso di sé ingenti investimenti pubblicitari da parte delle imprese. Dunque, anche l’attuale società della Rete, in fondo, può essere considerata come una nuova fase evolutiva della società dei consumi di massa. Tale fase si differenzia rispetto alle precedenti soprattutto a causa della straordinaria accelerazione che la velocità di consumo e le quantità di beni consumate hanno subito. Accelerazione resa possibile, a fianco della comparsa della Rete, dallo sviluppo di uno dei fattori più significativi di cambiamento della società dei consumi: l’ampliamento e le moltiplicazione degli spazi di vendita, i quali propongono incessantemente nuovi prodotti ai consumatori. Tutto ciò sembra apparentemente configurare il passaggio a una realtà sociale omologata, dove il mondo assume l’aspetto di un gigantesco centro commerciale nel quale le principali strade urbane sono sempre più simili tra loro e offrono gli stessi prodotti e le stesse marche. Ma nel quale anche, esattamente come sosteneva Jean Baudrillard più di quarant’anni fa, gli individui sono comunque in grado di sviluppare delle nuove forme di differenziazione sociale. 22


Riferimenti bibliografici Baudrillard J., Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano, 1972. Baudrillard J., Per una critica della economia politica del segno, Mazzotta, Milano, 1974. Baudrillard J., La società dei consumi, Il Mulino, Bologna, 1976. Baudrillard J., Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 1979. Codeluppi V. (a cura di), Jean Baudrillard. Il sogno della merce, Lupetti, Milano, 1987. Codeluppi V., La sociologia dei consumi, Carocci, Roma, 2002. Codeluppi V., Il potere del consumo, Bollati Boringhieri, Torino, 2003. Codeluppi V. (a cura di), Tra produzione e consumo, FrancoAngeli, Milano, 2004. Codeluppi V., Manuale di Sociologia dei consumi, Carocci, Roma, 2005. Lipovetsky G., L’impero dell’effimero, Garzanti, Milano, 1989. Luhmann N., De Giorgi R., Teoria della società, FrancoAngeli, Milano, 1992.

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La realtà dei mass media: rilettura di Niklas Luhmann Elena Esposito

È per me un particolare piacere parlare di Niklas Luhmann a Lecce, perché - come molti senz’altro sanno – Luhmann era fortemente legato a questa città. Nel 1988 ha fondato insieme a Raffaele de Giorgi il Centro di Studi sul Rischio, e per molti anni ha trascorso a San Foca dei lunghi periodi di studio e di approfondimento. Luhmann era sempre pronto a fare le lodi di Lecce e del suo stile di vita, al punto che presso la sua università, a Bielefeld, girava voce che intendesse trasferirsi definitivamente in Puglia: sul giornale degli studenti è uscito un articolo con il titolo “geht er oder geht er nicht?” (se ne va o non se ne va), riferito evidentemente a Lecce. Il suo affetto per il Salento era ricambiato con calore: Vernole gli ha assegnato la cittadinanza onoraria, e mi dicono che alla sua morte la cittadina era tappezzata di manifesti funebri. Il libro di cui tratteremo è uscito in tedesco nel 1996 e in italiano nel 2000. Inizia con una frase fulminante, che è stata oggetto di moltissime discussioni e di accesi commenti: “Ciò che sappiamo della nostra società, e in generale del mondo in cui viviamo, lo sappiamo dai mass media”. Qui Luhmann si contrappone consapevolmente all’idea classica (ma ancora molto radicata), che la prima e autentica fonte delle conoscenze sia diretta: ciò che si vede, si tocca, di cui si parla con persone che ci stanno di fronte. Il libro invece inizia con una constatazione insolita, per quanto realistica: da qualche secolo il rapporto tra percezione e comunicazione diretta (quella che in sociologia si chiama interazione) e comunicazione a distanza si è invertito. Anche se naturalmente tutti fanno esperienze dirette e parlano con persone che conoscono, la priorità nella produzione e nella gestione dei temi e delle conoscenze è ormai passata alla comunicazione a distanza: leggiamo libri e giornali, guardiamo la televisione, navighiamo sul web. Il nostro mondo è popolato da personaggi che non abbiamo mai conosciuto direttamente, come Obama e Lady Gaga, ma che non dubitiamo esistano realmente (almeno nei discorsi che se ne fanno) e dei quali sappiamo moltissime cose. 25


Di fronte a questa rilevanza e pervasività dei media, diventa fondamentale la questione che li ha sempre accompagnati: ci possiamo fidare di quello che ci raccontano? I mass media, che producono una comunicazione anonima e impersonale, mentono o dicono la verità ? Si accentua cioè il problema cruciale dalla manipolazione, intesa come la fedeltà del loro rapporto con la realtà. Luhmann lo affronta sottolineando un’ambiguità di fondo, che si esprime anche nel titolo del suo libro. Di realtà dei mass media si può infatti parlare in due sensi distinti (p.17): 1) i mass media come fatti reali del mondo che ci circonda: esistono dei libri, dei giornali e dei televisori con i loro programmi, si stampa e si trasmette, si legge, si guarda la televisione e si producono delle comunicazioni a distanza; 2) il modo specifico in cui la realtà appare ai mass media e attraverso di essi: la realtà creata dai mass media. Ma qual è la realtà “vera”, che i mass media dovrebbero trasmetterci in modo fedele? In prospettiva sociologica è subito evidente che un rapporto diretto con la realtà non è plausibile: la realtà che conosciamo è sempre filtrata dalle categorie e dalla prospettiva di un osservatore (che può essere il giornalista, il redattore o tutto il sistema dei media con le sue tecniche e le sue procedure). Per questo la questione della manipolazione deve essere intesa in modo più complesso: l’accusa di manipolazione ha senso solo se si pensa che sia possibile trasmettere fedelmente una realtà data, e si teme che i media la presentino in modo distorto. Se però una realtà neutrale di fatto non esiste, quello con cui abbiamo a che fare è sempre una realtà mediata, cioè filtrata dalle categorie e dalle procedure dell’osservatore. In un certo senso si dovrebbe dire che i mass media manipolano sempre la realtà e non possono fare altrimenti – ma allora si può anche dire che non la manipolano mai. La realtà dei mass media non è l’unico modo di affrontare il mondo: nel valutarla bisogna confrontarla con altre realtà, anch’esse rilevanti all’interno della nostra società: la realtà della scienza, della politica, della religione. In questo modo, però, si modifica profondamente il senso della realtà, in una direzione che incontra spesso molte resistenze (ad esempio è profondamente distante dal recente dibattito sul cosiddetto “new realism”). Come sosteneva Heinz von Foerster, di realtà bisogna parlare piuttosto al plurale: non si nega, come in certe posizioni idealistiche, che la realtà ci sia – anzi si afferma ce ne sono tante. Ma proprio questa moltiplicazione delle realtà di riferimento è ciò che non va bene al realista. 26


Con un approccio di questo tipo, la realtà diventa un concetto molto più complesso, legato a differenze piuttosto che a un’unità di fondo. Questo consente di affrontare molti temi in modo particolarmente efficace, come ad esempio la questione che guida il nostro convegno: il rapporto tra comunicazione e menzogna. I mass media lo traducono in una ulteriore differenza, che non esisteva prima della loro diffusione1: la differenza tra finzione e menzogna. La finzione nel senso moderno non è una bugia. Un romanzo, ad esempio, parla normalmente di personaggi che non esistono (Robinson Crusoe, Harry Potter). Bisogna dire per questo che il suo autore è un bugiardo? Si tratta di un rapporto con la realtà diverso da quello della menzogna. Non è un caso che la finzione esplicita esista solo dalla fine del 1600, cioè dalla diffusione dei mass media (nella forma di giornali e di libri). I media costruiscono un altro livello di realtà, che non esiste ma ha una sua consistenza e propri criteri: Sherlock Holmes non è una donna e non è francese, e affermarlo sarebbe una falsità - anche se il personaggio non è mai esistito, e tutti lo sanno. Il castello di Hogwarts ha il suo giardino, i suoi sotterranei ecc. , e chi non ne tenesse conto lo descriverebbe in modo scorretto. La finzione costruisce una propria realtà, e ha anche conseguenze reali molto concrete: l’esposizione alla finzione cambia il nostro rapporto con il mondo. Lo sosteneva La Rochefoucauld già nel 1600: nessuno di noi si innamora senza nessun presupposto, come se venisse colpito da una malattia. Ci si innamora perché si ha sentito parlare dell’amore nei libri, e ci si innamora dell’amore prima che di una persona concreta. Le esperienze sperimentate nell’esposizione alla finzione, conosciute seguendo le vicende dei personaggi dei romanzi, influenzano profondamente il nostro rapporto con il mondo: i nostri progetti, le nostre ambizioni, il modo di confrontarci con gli altri. Questo spiega tra l’altro l’improbabilità della finzione, che inizialmente appariva incomprensibile: perché dovremmo interessarcene? Perché dovremmo occuparci delle vicende banali di persone qualsiasi (che non sono santi né eroi, come i protagonisti delle narrazioni precedenti) - e per di più inventate dall’autore? La lettura dei romanzi e in generale l’esposizione alla finzione, ci offrono una pratica dell’osservazione di secondo

1 Parliamo qui della diffusione della comunicazione anonima a distanza, qualche secolo dopo l’introduzione della stampa.

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ordine2: osserviamo il mondo con gli occhi di un altro, cosa che nell’esperienza diretta non è mai possibile. Gli individui sono, e vogliono essere, impenetrabili gli uni agli altri: su questo si basa la nostra autonomia e libertà in quanto individui che si osservano reciprocamente e sanno che anche gli altri lo fanno. Ma questo spiega il ruolo della finzione nella società moderna (e in generale la funzione dell’intrattenimento): la finzione ci consente di condividere con gli altri un’esperienza di osservazione, e di costruire un contatto indiretto. Senza pratica della finzione saremmo incapaci di muoverci nel mondo complesso e riflessivo della società moderna. L’intrattenimento, inteso in questo senso, non è affatto frivolo, e la finzione – che si occupa di vicende irreali - diventa reale nelle sue conseguenze. Questo però non risolve il problema della manipolazione: anche se la realtà di per sé non può essere presa come riferimento, vorremmo poter criticare le comunicazioni insincere, vorremmo essere in grado di distinguere le comunicazioni corrette da quelle che a vario titolo ci sembrano ingannevoli. Occorre allora un differente concetto di manipolazione, che sia molto più complesso. Il caso più interessante per mostrare la dinamiche in gioco è la pubblicità. Nella pubblicità l’intenzione manipolatoria è esplicita, e questo la rende un caso di comunicazione molto raro e interessante. Il fatto curioso è , infatti, che normalmente la pubblicità non viene rifiutata, anche se sappiamo che è manipolatoria, ma proprio perché la manipolazione è esplicita la accettiamo e in un certo senso ci sentiamo tutelati. Sappiamo che “non ce la conta giusta”, ma nella sua evidente disonestà ci appare in qualche modo più onesta. Cosa si intende qui per manipolazione? In senso sociologico si può definire come manipolatoria una comunicazione che vuole farci fare qualcosa, e non semplicemente darci un’informazione di cui possiamo fare quello che vogliamo. Proprio per questo la comunicazione manipolatoria normalmente viene rifiutata, anche se non è detto che sia sempre cattiva. Il caso più diffuso di comunicazione manipolatoria è quella educativa, che intende esplicitamente cambiare la testa degli allievi (e infatti usa “domande illegittime”, definite come ‘quelle domande di cui si conosce già la risposta’ e che quindi non offrono all’allievo nessuna libertà di variazione e nessuno spazio di creatività: la risposta corretta è una sola). Non sorprende 2 Heinz von Foerster ha introdotto l’espressione “osservazione di secondo ordine” per indicare un tipo specifico di osservazione che non si rivolge agli oggetti del mondo (come l’osservazione di primo ordine) ma si rivolge agli osservatori e al loro rapporto con il mondo.

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che la motivazione allo studio sia sempre un problema, soprattutto negli aspetti che vorrebbero diffondere delle passioni (tipico esempio i romanzi da leggere a scuola, che vengono rifiutati dagli studenti – anche se verrebbero letti con entusiasmo se il consiglio venisse da un amico). Alla base di questo rifiuto c’è l’individualismo rivendicato della società moderna: ciascuno vuole avere una sua prospettiva autonoma e irripetibile sul mondo, e rifiuta gli interventi esterni. Ciascuno vuole cercare una sua forma di autorealizzazione (la realizzazione del proprio universo interiore), che come è noto produce molti problemi e molti tormenti. Qui però la pubblicità opera in modo raffinato: proprio perché diffidiamo delle sue intenzioni ci sentiamo tutelati e accettiamo di esporci ad essa – e nel vederla otteniamo degli orientamenti che sono condivisi con tutti gli altri spettatori. La pubblicità, dice Luhmann, serve a strutturare il desiderio, a indicare che cosa “va” e cosa “non va” nella nostra società in costante mutamento. La funzione latente della pubblicità è “offrire gusto alle persone prive di gusto”, cioè a tutti noi. Nella nostra società non c’è più il predominio dello strato superiore, che indicava in modo infallibile quali erano le cose belle e desiderabili, e la questione del gusto è sempre aperta e in evoluzione. Resta l’orientamento agli altri, che da qualche secolo ha preso la forma dell’orientamento volatile alla moda, che cambia sempre e viene seguita proprio per questo. Anche vedendo la pubblicità otteniamo degli orientamenti, che possiamo seguire o meno: l’importante è conoscerli (questo ad esempio è il motivo per cui la pubblicità dei rasoi o delle automobili si rivolge anche, anzi essenzialmente, alle donne). Il successo della pubblicità sta nell’essere vista, non nel farci comprare il prodotto. Trattando di manipolazione, però, ovviamente il caso più delicato è quello del terzo ambito che Luhmann individua nella comunicazione dei mass media. I mass media realizzano infatti delle forme di comunicazione molto differenti tra di loro nei presupposti e nelle forme. Non bisogna farsi ingannare dal fatto che il supporto sia lo stesso: in un giornale o in televisione vengono offerte comunicazioni diversissime tra di loro, tanto diverse che possiamo anche permetterci delle commistioni (come nel caso dell’infotainment), contando sul fatto che nessuno le confonde veramente. Luhmann raggruppa le comunicazioni dei mass medie in tre ambiti distinti: intrattenimento, pubblicità e notizie. Appunto le notizie sono l’ambito più delicato per quel che riguarda la verità e i nostri timori di manipolazione. I telegiornali e i giornali sono una finestra sul mondo? 29


Possiamo fidarci delle informazioni che ci trasmettono? Nell’approccio della teoria dei sistemi la questione si capovolge: giornali e telegiornali possono essere uno schermo neutrale? Si pensi alla differenza tra eventi e notizie. Nel mondo si realizzano ogni giorno una massa infinita di eventi: dalle nostre minute vicende quotidiane alla molteplicità di incontri, gare sportive, matrimoni e accordi che scandiscono la vita degli abitanti del pianeta. Solo una parte minuscola di questi eventi diventa notizia, adatta ad essere riportata nei notiziari e a raccogliere l’attenzione del pubblico. I mass media operano sulla base di criteri interni, che discriminano le notizie nella massa indeterminata degli eventi che si producono ogni giorno. Nel mondo ci sono solo gli eventi; le notizie sono prodotte dai mass media (come sostiene da qualche decennio la teoria del newsmaking). Ma è evidente allora che i mass media non possono essere uno specchio della realtà, ma la devono selezionare e trattare con procedure proprie. Lo si può vedere semplicemente osservando che giornali e telegiornali hanno tutti i giorni la stessa dimensione (lo stesso numero di pagine o lo stesso numero di minuti di trasmissione), indipendentemente da come va il mondo e dagli eventi che si realizzano. Questa uniformità è stata interpretata nel XVII secolo come la dimostrazione del fatto che i media costruiscono la loro realtà e non ci raccontano il mondo esterno, in cui in certe giornate succedono molte cose rilevanti e in altre quasi nulla. I media realizzano una propria costruzione di realtà, e proprio per questo possono svolgere la loro funzione. La ricerca a cui Luhmann si riferisce ha individuato i cosiddetti “criteri di notiziabilità” e una serie di vincoli che governano la produzione delle notizie: ad esempio il riferimento locale, l’attribuzione agli attori, l’attenzione per gli scandali e i conflitti, ma soprattutto, l’ossessione per la novità (come esprime con chiarezza il termine inglese “news”). È questo un tratto fondamentale dei mass media, che consente di individuare la loro funzione: le notizie devono innanzitutto essere nuove. Non si legge il giornale del giorno prima e le notizie invecchiano immediatamente. Ma perché? Nelle società antiche si dava, invece, per scontato un interesse per i testi trasmessi dalla tradizione e per i valori consolidati - e non per il nuovo, che per sua natura è transitorio e fuggevole. Questo apparente enigma rivela la funzione dei mass media per la società moderna, che non si poneva in società tradizionali orientate alla stabilità e alla tradizione. In tedesco il tempo moderno viene chiamato “Neuzeit”, che vuol dire “tempo nuovo”: un tempo ossessionato dalla novità e dalla trasformazione. Come Pascal osservava con stupore e 30


con preoccupazione: non solo ciò che è nuovo ci piace (mentre tradizionalmente la novità era considerata devianza e fastidio, da evitare il più possibile), ma ci piace solo il nuovo. La novità è diventata il primo criterio di valore e di apprezzamento in tutti gli ambiti (nell’arte e nello spettacolo, ma anche nella scienza, nella politica e in ogni altro settore). Si tratta però di un criterio vuoto: il fatto che qualcosa sia nuovo non dà nessuna indicazione sulla sua qualità, ma ci dice solo che è diverso da ciò che c’era in precedenza. La nostra società ricerca il nuovo perché esistono i mass media, che hanno proprio questo significato. La loro funzione sta infatti nel produrre continuamente nuove informazioni (a questo è legato quello che nella terminologia della teoria dei sistemi si chiama il loro “codice binario”: informazione/non-informazione). Ma l’informazione ha la strana caratteristica di annientarsi nel momento stesso in cui viene comunicata: un’informazione ripetuta non è più informativa, e non vale più come notizia – se già sappiamo che domani ci sarà uno sciopero, la stessa comunicazione su un altro giornale non ci fornisce una nuova informazione. I mass media, comunicando continuamente nuove informazioni, rendono “vecchie” quelle precedenti e costringono a cercare sempre nuove informazioni che le rimpiazzino. Da questo dipende l’ossessione per il nuovo tipica della società moderna, che dal lato positivo vuol dire anche apertura al cambiamento, alla diversità, alla contingenza: i valori tipici della modernità. Tornando in conclusione alla nostra questione della menzogna e della realtà: a cosa servono allora i mass media? Servono innanzitutto a rendere più flessibile il rapporto con la realtà – e quindi con la menzogna, che non deve più essere intesa semplicemente come negazione della realtà. La nostra società si confronta con molte realtà differenti che non sono necessariamente delle menzogne, ma indicano un rapporto con il possibile molto più complesso e articolato. Più radicalmente: perché ci serve questa realtà più complessa? Non staremmo meglio in un mondo più semplice e più univoco, con una realtà condivisa o almeno condivisibile (in cui chi non è d’accordo si sbaglia oppure è in cattiva fede)? I media ci servono per poter comunicare senza bisogno di pensarla tutti nello stesso modo, anzi rispettando l’inesauribile diversità e irriducibilità delle prospettive individuali. Ognuno ha un proprio rapporto con il mondo, inaccessibile a chiunque altro. Ciononostante non vorremmo essere isolati e vorremmo mantenere qualche rapporto con la prospettiva di questi altri soggetti, anch’essi autonomi e impenetrabili. I media servono a questo: per offrirci un orientamento condiviso in un 31


mondo individualizzato. Grazie ai media sappiamo che cosa sanno e che cosa conoscono gli altri, senza bisogno di sapere di preciso come lo interpretano né cosa ne pensano. Ognuno pensa quello che vuole, ma almeno possiamo sapere che cosa gli altri sanno e possiamo orientarci ad un mondo comune. Per Luhmann la funzione dei mass media, nei loro diversi ambiti, sta proprio in questo: nel creare quella che lui chiama una “seconda realtà senza obbligo di consenso” – una realtà che viene condivisa anche se la si pensa diversamente. Con un’altra formulazione, Luhmann sostiene che i media sono la memoria della nostra società, perché offrono un repertorio di temi e di argomenti di cui si può parlare aspettandosi che gli altri sappiano di che cosa si tratta – aspettandosi, cioè, che li ricordino. Si tratta, però, di una strana forma di memoria, che privilegia la dimenticanza rispetto al ricordo: i temi dei mass media vengono continuamente rinnovati per dare spazio a temi nuovi. È più importante saper dimenticare che saper ricordare – anche perché tutto ciò che viene dimenticato non è come se non fosse mai esistito, ma ha cambiato il sistema che lo ha conosciuto e resta parte della sua esperienza. Quest’esperienza viene però usata per aprirsi al nuovo, non per respingerlo con la ripetizione del ricordo. Anche se Luhmann non se ne occupa, non si può fare a meno di osservare che la diffusione di Internet rende questo problema particolarmente acuto. Si teme oggi la “balcanizzazione” dell’opinione pubblica e si osservano i limiti del processo di personalizzazione dei media. Molte ricerche indicano che apparentemente la gente non è sempre interessata a sviluppare un proprio palinsesto, anche se ricerca la personalizzazione e un ruolo attivo nella comunicazione a distanza. Proprio per questo si utilizza il filtro dei social network e dei blogs e si recuperano delle forme tipiche dei media generalisti. Un palinsesto del tutto personalizzato rivelerebbe il paradosso di fondo dei mass media: che ci fanno interessare a molte cose che non ci interessano per niente – o ci interessano solo perché interessano agli altri. In un giornale o un telegiornale del tutto individualizzato, di questo riferimento agli altri rimarrebbe solo la mancanza di interesse.

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Il non detto della crisi economica Guglielmo Forges Davanzati*

1 - Nei principali media nazionali e internazionali, la crisi in corso è stata raccontata così. La crisi è crisi finanziaria, deriva da una deregolamentazione eccessiva dei mercati finanziari ed è, in ultima analisi, imputabile all’eccessiva avidità degli speculatori e degli operatori finanziari. Ciò che nella terminologia corrente viene definito il greed. La si risolve, o la si attenua, conseguentemente, ponendo un freno all’espansione non controllata della sfera finanziaria e riducendo gli stipendi dei manager delle grandi imprese. La gran parte degli economisti liberisti fa propria questa interpretazione e i principali provvedimenti di politica economica attuati a seguito dei numerosi vertici internazionali dell’ultimo biennio si sono coerentemente mossi lungo questa strada. La radicale debolezza di questa tesi sta nel fatto che essa presuppone una sfera finanziaria totalmente autonoma rispetto all’economia reale, ovvero che l’economia reale possa risentire dell’instabilità finanziaria ma non generarla. A ben vedere, tuttavia, i nessi di causa-effetto si verificano semmai esattamente in senso contrario. La crisi è stata causata da un’enorme e crescente disuguaglianza distributiva, sia all’interno dell’economia statunitense, sia su scala globale. L’OCSE riferisce che, negli Stati Uniti, i salari reali medi nel settore privato si sono quasi dimezzati nel corso dell’ultimo ventennio, che l’indebitamento delle famiglie sul PIL è cresciuto dal 40% della metà degli anni settanta a circa il 100% del 2008 e che i profitti industriali sono aumentati di oltre l’80% dal 2000 al 2008. La caduta dei salari, largamente imputabile alle politiche di accentuata precarizzazione del lavoro e al sostanziale smantellamento del welfare state, è la principale causa del massiccio ricorso al credito al consumo, favorito da politiche di bassi tassi di interesse: il tasso di sconto della FED si è ridotto dal 6.5% del gennaio 2001 all’1% del giugno 2003. Al tempo stesso, le banche statunitensi hanno cominciato a concedere crediti – sotto forma di mutui a tasso variabile, garantiti grazie alla complicità delle agenzie di rating - anche a individui totalmente privi di garanzie reali, i cosiddetti Ninja (No Income, no Job and Assets), *

Università del Salento, Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali. Email: guglielmo.forges@unisalento.it.

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assecondando l’American Dream Downpayment Initiative (ADDI) del dicembre 2003, finalizzato – nelle intenzioni dichiarate - a consentire anche agli individui meno abbienti l’acquisto di un’abitazione. Ne è seguito l’aumento della domanda di immobili e, conseguentemente, l’aumento del loro prezzo. Fatto pari a 100 il prezzo di un immobile di medie dimensioni negli Stati Uniti nel 2000, si calcola che, al 2008, il prezzo del medesimo immobile è risultato pari a 220. Al tempo stesso, l’incremento degli investimenti netti risultava sostanzialmente nullo, e la gran parte dei profitti delle imprese statunitensi veniva allocato nei mercati finanziari, generando un incremento esponenziale delle rendite e degli utili derivanti da scambio di moneta contro moneta con conseguente contrazione della produzione di beni e servizi. Il Bureau of Labor Statistics certifica che le rendite finanziarie sono aumentate del 40% dal 2000 al 2008. Per effetto dell’indebitamento privato e della crescita delle rendite finanziarie, l’economia statunitense ha svolto il ruolo di “spugna” assorbente la produzione effettuata in altre aree (Cina e India in primis), sia di beni di sussistenza, sia di beni di lusso (acquistati dai percettori di rendite finanziarie), in un contesto globale nel quale la competizione si è svolta mediante compressione dei salari e trattamenti fiscali e normativi favorevoli alle imprese. Un ingrediente fondamentale delle politiche economiche neoliberiste consiste nel controllo dell’inflazione mediante aumenti dei tassi di interesse. Dall’estate del 2003 la FED ha invertito il segno della politica monetaria, rialzando il tasso di sconto dall’1% al 5.25% fino alla metà del 2007. Le ragioni di questa scelta sembrano essere almeno tre. In primo luogo, l’aumento del prezzo degli immobili generava l’aspettativa di un aumento del livello generale dei prezzi, indotto dall’aumento dei prezzi delle materie prime necessarie alla loro costruzione. In secondo luogo, vi è motivo di ritenere che, a seguito della svalutazione del dollaro operata nel 2002 per favorire le esportazioni, occorreva rendere più appetibili i titoli denominati in dollari per evitare la fuga di capitali. In terzo luogo, la guerra in Iraq, lungi dal rivelarsi una guerra lampo, cominciava a creare problemi sia per l’enorme aumento dei costi della spedizione militare, sia per la distruzione di pozzi di petrolio con conseguente aumento del suo prezzo. L’aumento dei tassi di interesse ha reso sempre più difficile la restituzione del debito da parte dei lavoratori, fino a generare, con salari reali in ulteriore declino, insolvenze. Le quali si sono tradotte in perdite per gli Istituti di credito, che hanno reagito (quando non sono falliti) restringendo l’offerta di moneta: il cosiddetto credit 34


crunch. E la restrizione del credito ha avuto immediati effetti sulla produzione, dal momento che le imprese si sono trovate nella condizione di non poter finanziare gli investimenti programmati. Da qui, la caduta del PIL e dell’occupazione, prima negli Stati Uniti, poi – per meccanismi di propagazione resi molto rapidi dall’accelerazione dei tempi di produzione e vendita in regime di globalizzazione – in Europa e su scala globale. 2 - Questa dinamica è stata accentuata dalla c.d. finanziarizzazione, ovvero dal fatto che le imprese – soprattutto di grandi dimensioni – hanno destinato quote crescenti dei loro profitti nei mercati azionari, generando – su fonte Banca d’Italia – un rapporto fra valore degli strumenti finanziari e PIL pari, nel 2006, a quasi 8 volte in Italia e a oltre 10 volte negli Stati Uniti, a fronte di un rapporto circa pari a 3 all’inizio degli anni ottanta. In altri termini, la numerosità delle transazioni che si svolgono nei mercati finanziari è oggi un multiplo degli scambi di beni e servizi nella cosiddetta “economia reale”. Si tratta di un fenomeno relativamente recente, che ha modificato strutturalmente la relazione fra capitale produttivo e “capitale fittizio”, le cui cause possono essere individuate in tre fattori. In primo luogo, e soprattutto per quanto riguarda l’Italia, l’aumento del rapporto debito pubblico/PIL, dal 60% al 120% nel corso degli anni ottanta, ha costituito di fatto un potente incentivo a ricorrere ai mercati finanziari, in una fase – peraltro – caratterizzata da rendimenti elevati dei titoli di Stato. In secondo luogo, e con riferimento al complesso delle economie industrializzate e nei tempi più recenti, viene fatto osservare che la deregolamentazione dei mercati finanziari ha costituito se non altro una condizione permissiva per la speculazione. In terzo luogo, si può rilevare che il grado di finanziarizzazione è cresciuto a partire dall’avvio delle politiche di deregolamentazione (in particolare del mercato del lavoro) e dalla svolta neoliberista dei primi anni ottanta. Su fonte OCSE, si rileva che il labor share (la quota dei salari sul PIL) si è ridotto di oltre 5 punti percentuali nell’ultimo ventennio, nei principali Paesi industrializzati, principalmente a ragione delle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro, con significativa accelerazione in Italia. Si può quindi stabilire che la finanziarizzazione è (anche) il prodotto della precarizzazione del lavoro. Quest’ultima relazione è significativa e di agevole spiegazione. La caduta dei salari, comportando riduzione dei consumi, ha indotto le imprese a contrarre la produzione, in un contesto – peraltro – di continua riduzione della spesa pubblica e, dunque, di contrazione dei 35


mercati di sbocco. Contestualmente, la caduta dei salari ha determinato un aumento dei profitti al quale, proprio a ragione della riduzione della domanda aggregata, non ha fatto seguito un aumento degli investimenti e dell’occupazione. Gran parte dei profitti ottenuti mediante deflazioni salariali è stata destinata alla speculazione e, nei tempi più recenti, alla speculazione sui titoli del debito pubblico, generando una spirale viziosa che si è articolata in questi passaggi. La speculazione sui titoli del debito pubblico di singoli Paesi (Grecia in primis) ha indotto i Governi a ridurre il rapporto debito pubblico/PIL, al fine di minimizzare il rischio di un contagio di attacchi speculativi. La riduzione del debito si è manifestata sotto forma di minore spesa pubblica e maggiore pressione fiscale, soprattutto a danno del lavoro dipendente, con ulteriore compressione dei salari, in una spirale viziosa fatta da riduzioni di gettito fiscale (a causa della minore occupazione e del fallimento di imprese), seguìti da ulteriori tagli alla spesa pubblica e da ulteriore riduzione dell’occupazione e del gettito fiscale. Nessun Istituto di ricerca internazionale dispone, al momento, di una previsione ragionevolmente accettabile in ordine ai tempi di fuoriuscita dalla crisi, e le prescrizioni di politica economica sono estremamente discordanti. La linea attualmente prevalente si sostanzia nella riduzione dell’intervento pubblico in economia, e, in particolare, nella riduzione del debito pubblico. La motivazione ufficiale a sostegno di questa opzione è la seguente: livelli ‘eccessivi’ di indebitamento in rapporto al PIL possono generare ‘attacchi speculativi’ che, a loro volta, possono determinare il fallimento dei Paesi più esposti alla speculazione perché più indebitati. Questa interpretazione è suscettibile di un duplice rilievo critico. Primo: la riduzione della spesa pubblica, in quanto riduce l’occupazione, contribuisce a frenare la crescita economica. In tal senso, e soprattutto quando gli investimenti privati non aumentano (come, di norma, accade in periodi di crisi), un minore intervento pubblico in economia si associa a una minore crescita economica. In più, se queste misure sono pensate per ridurre l’indebitamento pubblico in rapporto al PIL, si rivelano controproducenti, dal momento che – riducendosi l’occupazione – si riduce la base imponibile, dunque il gettito fiscale, accrescendo quel rapporto. A ciò si può aggiungere che la riduzione del PIL può accrescere il rapporto debito/PIL, per il mero fatto contabile che si riduce il denominatore. In più, negli anni precedenti la crisi, l’obiettivo della riduzione dell’indebitamento pubblico veniva prevalentemente motivato con un argomento che attiene all’equità intergenerazionale: non è eticamente ammissibile – si sosteneva – far pagare ai nostri discendenti (in 36


termini di maggiori imposte) le spese effettuate oggi. Si trattava di una motivazione suscettibile di una critica di fondo, dal momento che nessuno oggi è in grado di prevedere chi, perché e quando procederà a mettere i conti pubblici ‘in ordine’, con maggiore tassazione. Oggi, in regime di crisi e con il rischio della deflagrazione dell’area euro, la motivazione ufficiale a sostegno della manovra cambia segno. Non si tratta più di un problema etico, ma di un problema che attiene alla necessità di scongiurare attacchi speculativi a danno del Paese. E ciò è necessario anche a costo di determinare un impoverimento crescente del Paese. Quelli che vengono definiti attacchi speculativi sono situazioni nelle quali un gran numero di investitori si muove di concerto vendendo titoli del debito pubblico di un Paese. A ciò fa seguito la riduzione del valore di quei titoli e la necessità di collocarli sul mercato con tassi di interesse più alti. In una condizione di questo tipo, il singolo Stato si trova nella difficile condizione di dover pagare interessi crescenti per finanziare le proprie spese, fino ad arrivare a un limite oltre il quale occorre dichiarare fallimento, ovvero dichiarare di non essere più in grado di ripagare i debiti contratti. In relazione a questo fenomeno, può porsi un interrogativo di fondo: dal momento che nessuno sa cosa esattamente muove gli speculatori, è giustificabile impoverire il Paese per scongiurare ciò che non si sa se avverrà, e – se avverrà - non si sa perché? Non è necessariamente vero, infatti, che gli attacchi speculativi vengono effettuati solo a danno di Paesi con elevato debito pubblico. Si possono considerare, a riguardo, due casi. Il primo: l’attacco speculativo alla Grecia – nella primavera scorsa - è avvenuto in un contesto nel quale il rapporto debito/PIL in quel Paese superava di soli 2 punti percentuali quello italiano. Il secondo: la crisi del 2001 in Argentina è scoppiata quando il debito pubblico aveva raggiunto appena il 63% del reddito nazionale. Al fondo della motivazione ufficiale si può leggere un diverso obiettivo. Il modello di sviluppo che si è determinato nel corso dell’ultimo ventennio è stato concepito sulla base della convinzione che il depotenziamento del sistema di welfare avrebbe consentito alle imprese di ottenere maggiori profitti (associati a minori salari diretti e indiretti) e, dunque, a un maggior tasso di crescita, generato dal reinvestimento dei profitti stessi. È opportuno chiarire che questo modello presuppone l’esistenza di una duplice precondizione: a) I profitti accumulati dalle imprese devono essere reinvestiti in attività produttive e non

usati

a

fini

speculativi.

Diversamente,

viene

meno

il

meccanismo 37


dell’”accumulazione per l’accumulazione” che è a fondamento della riproduzione capitalistica e ci si muove in un regime di ‘finanziarizzazione’, ovvero di acquisizione di profitti mediante scambio di denaro contro denaro. Il che è precisamente quanto è accaduto. I profitti delle imprese finanziarie sono aumentati da circa il 10% dei profitti complessivi al netto delle imposte, nel 1980, a oltre il 40% nel 2007. b) Il reinvestimento dei profitti può generare crescita economica a condizione che vi sia crescita della produttività (o almeno non una sua riduzione). Su quest’ultimo aspetto, le rilevazioni disponibili segnalano che, in tutti i Paesi OCSE, il tasso di crescita della produttività del lavoro è stato significativamente più alto negli anni settanta rispetto al ventennio successivo. Sia sufficiente ricordare che, su fonte OCSE, l’Italia ha registrato la più elevata dinamica della produttività del lavoro nel 1976 (+6%, a fronte del –1.5% del 2009), e che la più elevata dinamica della produttività del lavoro negli Stati Uniti si è avuta nel 1971 (3.9%). In altri termini, i Paesi industrializzati hanno sperimentato la più alta crescita economica nei periodi nei quali è stata maggiore la spesa pubblica ed è stato maggiore il potere contrattuale dei lavoratori. E tuttavia, a fronte di questa evidenza, i principali Governi dei Paesi OCSE (l’Europa in primis, Italia inclusa), perseverano nel cercare di fuoriuscire dalla crisi con politiche economiche che segnano un ulteriore passo indietro rispetto alla tutela dei diritti dei lavoratori e delle garanzie offerte dallo Stato sociale. Sperare di far ripartire la crescita economica mediante riduzioni della spesa pubblica in regime di crisi significa, in fondo, non essere molto lontani da un atto di fede. 3 - C’è da dubitare che lo tsunami finanziario che ha investito (e sta investendo) l’Italia sia interamente imputabile alla scarsa credibilità del Governo Berlusconi, sebbene sia indiscutibile che quella esperienza di governo sia stata caratterizzata da un immobilismo irresponsabile. Per dimostrarlo, occorre ripercorrere sinteticamente ciò che è accaduto negli ultimi mesi, e chiarire preliminarmente i termini del problema. Dalla scorsa estate, l’Italia è stata oggetto di ‘attacchi speculativi’ di inaudita intensità, ovvero di vendita in massa di titoli del debito pubblico, con successiva difficoltà nel collocarli sui mercati anche a tassi di interesse elevati. La riduzione del prezzo dei titoli di Stato implica, infatti, che il tasso di interesse ottenibile dai risparmiatori aumenta, ponendo lo Stato italiano nella condizione di dover offrire un tasso più elevato per i nuovi titoli emessi.

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E’ così aumentato il differenziale dei rendimenti fra i titoli italiani – in particolare i buoni del Tesoro con scadenza decennale - e i titoli del debito pubblico tedeschi, prefigurando una condizione nella quale lo Stato italiano potrebbe trovarsi impossibilitato a ripagare il debito contratto con i sottoscrittori dei buoni del Tesoro e dichiarare fallimento. L’opinione dominante fa propria la convinzione secondo la quale questo fenomeno sia stato, in ultima analisi, determinato dal basso tasso di crescita dell’economia italiana (il che è condivisibile) e, soprattutto, dalla scarsa credibilità del Governo in carica (il che dà adito a qualche dubbio). Innanzitutto, va chiarito – ove ve ne fosse bisogno – che non è possibile dare una misurazione della ‘credibilità’ di un’Istituzione. Stando all’opinione dominante, la credibilità di un Governo la si concepisce – in questa fase, e nel nostro caso – sulla base del rispetto delle ‘raccomandazioni’ della Banca Centrale Europea. Le quali – è opportuno ricordarlo – suggeriscono misure di austerità ancora più drastiche rispetto a quelle fin qui messe in atto: riduzione della spesa pubblica, maggiore precarizzazione del lavoro e facilità dei licenziamenti, privatizzazioni, liberalizzazioni, aumento dell’età pensionabile, riduzione dei costi della pubblica amministrazione e suo snellimento, con possibile riduzione degli stipendi – e maggiore mobilità - dei lavoratori del settore pubblico. La convinzione che gli attacchi speculativi siano mossi dalla scarsa credibilità del Governo non sembra trovare adeguati riscontri empirici. Nell’aprile 2011 lo spread fra Btp e Bund tedeschi era circa pari a 120 ed è rimasto sostanzialmente stabile fino ad agosto. Nell’agosto scorso si è registrato un picco di 350 punti base, al quale ha fatto seguito una significativa flessione durante il mese di settembre. A ciò ha fatto seguito un’ulteriore impennata, che ha portato i differenziali a circa 600 punti base, con successiva riduzione di 100 punti. Fra aprile ed ottobre non si registrano iniziative governative di rilevanza tale da determinare queste oscillazioni. E non si capisce per quale ragione, a fronte dell’immobilismo governativo, i cosiddetti “mercati” abbiano generato questa volatilità. Si potrebbe avanzare la congettura secondo la quale la risposta del Governo Berlusconi alla lettera della BCE degli inizi di agosto sia stata ritenuta eccessivamente vaga e che, per questa ragione, il Governo abbia improvvisamente perduto credibilità. Ma appunto di congettura si tratta e, dunque, di qualcosa che andrebbe dimostrato.

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La domanda più rilevante che occorre porsi, e che pare del tutto oscurata nel dibattito italiano, è banalmente cosa sono i mercati ai quali si fa qui riferimento, e, per conseguenza, quali fattori – economici e politici – muovono la speculazione. E’ una domanda centrale, dal momento che l’impopolarità dei provvedimenti che i “mercati” implicitamente chiedono (e che l’Unione europea esplicitamente raccomanda) può essere politicamente giustificata solo se vi sono ragioni cogenti e di massima urgenza per attuarli.

E’ chiaro che, in questa materia, data l’opacità che caratterizza le

transazioni finanziarie su scala globale, è facile scivolare in teorie del complotto. Ma, a fronte di questo, alcune indicazioni possono essere fornite. “Milano Finanza” ha recentemente riferito che “sui mercati si è diffusa la voce che sia stata Goldman Sachs a innescare le vendite di Btp, poi seguita dagli hedge funds e dalle altre banche d’oltreoceano”. Goldman Sachs è la più grande banca d’affari al mondo, ha guidato numerosi processi di privatizzazione e, secondo la classifica stilata annualmente dalla Vault, risulta anche essere la banca più prestigiosa del mondo. Il fatto che Goldman goda di elevata reputazione la candida naturalmente come leader della speculazione sui titoli del debito pubblico. Ciò a ragione del fatto che, come rilevava Keynes, la speculazione è “l’arte di capire cosa gli altri operatori di mercato pensano riguardo al futuro” e, stando alla sua ben nota metafora, per indovinare quale ragazza vincerà un concorso di bellezza non conta il giudizio del singolo, ma la capacità del singolo di capire come voterà la maggioranza dei giurati. In altri termini, l’attività speculativa è basata su meccanismi che hanno a che vedere con convenzioni ed effetti di imitazione, così che, se uno speculatore è ritenuto altamente affidabile, è ‘razionale’ per chi lo segue fare le stesse mosse. Un recente comunicato di Goldman Sachs così recita: “Un governo tecnico [in Italia] avrebbe una maggiore credibilità rispetto ad altri esecutivi”. Il prof. Mario Monti è stato vicepresidente di Goldman Sachs. In prima approssimazione, non sembra difficile concludere che gli equilibri politici in Italia siano (quantomeno) profondamente influenzati da una banca di Jersey City. Si tratta di una conclusione di prima approssimazione, dal momento che questa congettura non spiega interamente la volatilità degli acquisti/vendite dei titoli del debito pubblico italiano. Vi è di più. La storia recente insegna che gli attacchi speculativi sono seguiti da ondate di privatizzazioni e di compressioni salariali (e dei diritti dei lavoratori): è accaduto in Italia a seguito della crisi del 1992, sta accadendo in Grecia. Su queste basi, si può 40


affermare che gli attacchi speculativi sui titoli del debito pubblico italiano non hanno nulla a che vedere con le dimensioni del debito stesso, hanno poco a che vedere con i “fondamentali” della nostra economia (non peggiori dei nostri principali partner europei) e che, dunque, sono mossi, in ultima analisi, dalla convinzione che un esecutivo ‘tecnico’ – per di più guidato da un uomo che ha lavorato per le Istituzioni che guidano la speculazione - realizzi un programma di politica economica che consenta l’acquisizione di patrimonio pubblico nazionale: niente altro che il dominio della finanza sulla politica.

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Come usare McLuhan nell’epoca delle reti


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McLuhan: nell’occhio del ciclone Alberto Abruzzese

È probabile che noi – convinti cultori della figura di McLuhan in quanto vero grande padre fondatore della mediologia – costretti a combattere la frigidità o più spesso ancora l’ostilità mostrata nei suoi confronti dagli studiosi di comunicazione di etichetta accademica, abbiamo abusato sin troppo dei suoi splendidi slogan. Alla fine di queste note, mi sarà difficile non ricorrere ancora a qualcuna delle sue “illuminazioni”. Ma – celebrandolo ora in un quadro talmente frequentato e esteso di occasioni pubbliche che parrebbe finalmente dimostrare un universale consenso nei suoi confronti – penso sia venuto il momento di intrattenerci con lui in modo radicalmente diverso. Controtendenza. Anzi, lo confesso, da tempo mi frulla nella testa l’idea che – a volere essere responsabili del nostro presente e quindi sentire l’urgenza di leggere i destini che si celano nei linguaggi digitali – bisognerebbe cominciare a “dimenticare McLuhan”. Credo che sia il modo migliore per sfruttarne l’insegnamento e onorarlo. C’è una notevole differenza tra quello che si intende quando diciamo “il sapere” e quello che si intende quando diciamo “cercare di sapere”: nel primo caso prevale l’idea di accumulo, accumulazione, di conoscenze acquisite e rubricate, mentre nel secondo caso prevale l’idea dell’atto stesso del conoscere, prendere conoscenza, in tutta la sua fragranza. Come al risveglio. McLuhan, per la sua capacità di sfruttare al presente la propria vastissima erudizione e insieme prenderne le distanze, riducendola a un semplice fondale di stimoli abilmente sottratti alle viscere dei testi, non eccelle per un sapere consolidato quanto piuttosto per il suo formidabile modo di cercare di sapere attraverso ogni frammento di ciò che, assunta una giusta postura critica, si apre al nostro sguardo: letteratura, tv o pubblicità che sia. Un metodo critico, il suo, che scompone e ricompone il significato dei testi in modo inatteso, im-previsto, sino ad allora non-visto, tale dunque da avergli fruttato la meritata reputazione di grande anticipatore. La qual cosa ha a che vedere con le qualità di un veggente. Del buon veggente, infatti, non conta tanto ricordare i vaticini di cui è stato capace – essi sono predizioni di un tempo ormai trascorso – ma conta piuttosto imitare e 45


raffinare le pratiche che gli hanno consentito risultati tanto eccellenti da spiegare il futuro attraverso il presente, attraverso appunto le sue pieghe. Tuttavia – ecco il problema – il nostro presente non è più il suo futuro. Lui è stato in anticipo, noi siamo in ritardo. Dunque “dimenticare McLuhan”. Tanto peggio per quanti si sono rifiutati di leggerlo e condividerlo quando sarebbe stato necessario. Ecco, è qui il motivo dell’ambiguità del titolo che vi propongo di dare al mio contributo per questo nostro omaggio al suo intuito di studioso dei media durante la grande fase di elettrificazione del mondo che è ormai alle nostre spalle, immersi come siamo nella sua avanzata digitalizzazione. Il mio titolo gioca su una frase “nell’occhio del ciclone”, attribuendo ad essa un doppio e forse triplo senso. Può, cioè, riferirsi al tempo di tempesta che oggi stiamo vivendo noi tutti qui raccolti nel culto di un precursore di tempeste. Ma può anche riferirsi direttamente a McLuhan e al ruolo davvero fondamentale che ha avuto nel teorizzare la natura sempre più immersiva delle piattaforme espressive realizzate dai media tecnologici Qui, il riferimento all’occhio del ciclone rimanda all’immagine del maelstrom evocata da McLuhan per dimostrare il rapporto tragicamente partecipativo, reciprocamente coinvolgente, tra ricercatore e oggetto della ricerca. Da Poe alla Sposa Meccanica. In mezzo Walter Benjamin, quasi che dell’autore dei Passages McLuhan sia stato una reincarnazione: potremmo persino immaginarci lo strano evento di un breve incontro tra i due, se il primo, giunto ai confini dell’Europa, non si fosse suicidato e il secondo, così attratto da navigazioni testuali, fosse andato a cercarlo in qualche biblioteca del Vecchio Mondo, oppure lo avesse incrociato per caso tra la gente di Manhattan, in libreria o magari al cinema, proprio come Woody Allen avrebbe finto di fare con lui un poco di anni appresso. Il fatto che ora siamo noi, eredi di McLuhan, ad essere nell’occhio dell’epocale trapasso dalla elettrificazione alla digitalizzazione del mondo, ci impone di capire che, nel presente mondo delle reti, s’è aperto un accadere in tutto diverso: il punto di catastrofe – in cui il tempo e lo spazio delle percezioni umane precipitano con la violenza di un vortice inarrestabile – ha compiuto un altro “salto”. S’è spinto oltre l’evento mediatico che McLuhan ci ha raccontato in netto anticipo, parlando di TV come se si trattasse di linguaggi digitali, mondi virtuali e metamorfosi della carne: appunto, quanto noi ancora crediamo che sia la attuale sostanza del nostro tempo a venire. E allora il significato che ora ci sfugge – pur essendoci dentro, pur vivendolo – bisogna saperlo cercare con la 46


medesima attitudine alle arti della veggenza che McLuhan ha dimostrato di usare a suo tempo, in una dimensione dell’esistenza mediatica del mondo arrivata davvero a compimento solo dopo la sua morte. Dico arti della veggenza a ragion veduta, data l’insistenza con cui – a chi lo interrogava sul destino della società moderna, quindi di sistemi di potere affidati al reciproco vincolo tra innovazione e progresso, tra creatività e salvezza – rispondeva attribuendo soltanto all’arte la capacità di inventare, cioè trovare e quindi vedere e tradurre l’inatteso, il nuovo. Una posizione, questa, perfettamente in linea con le sue attese di persona religiosa, comunque parimenti certa della caducità umana e del senso divino del mondo; e in linea con l’estetica hegeliana, che già a suo tempo aveva attribuito alle forme universali dell’arte la facoltà di dovere attendere intere epoche per essere finalmente compresa dal suo pubblico. Di conseguenza McLuhan ha dotato di capacità di anticipazione non le scienze ma l’arte. La differenza tra dire arti della veggenza e dire veggenza delle arti sta tutta nella distanza tra chi si colloca nella prospettiva del sacro e chi invece si colloca nella prospettiva religiosa. C’è chi, scegliendo la prima, il sacro, può arrivare a sfiorare la dimensione religiosa del sociale, e c’è chi, scegliendo questa dimensione, può arrivare a sfiorare la dimensione antisociale del sacro. La fede nella formula cristiana del dio che si fa carne e della carne che si fa dio, ha fatto sì che McLuhan potesse resistere al sacro così come al sociale, e dunque sfiorare l’origine senza perdersi nel suo disordine e sfiorare le leggi della società senza lasciarsi anestetizzare dal suo ordine. L'idea della contrapposizione fra linguaggi del vedere e linguaggi del sentire, elaborata da McLuhan come fondamento delle sue riflessioni sul rapporto tra media e società, fu in gran parte letta secondo ben altra contrapposizione, assai di moda negli anni Settanta come nei Novanta. Essa opponeva tra di loro i valori alti della cultura di élite e i valori bassi e triviali della cultura di massa e dei consumi. Una opposizione che chiamava in causa, tra le altre questioni di fondo (impegno contro evasione, scuola contro industria culturale, colti contro i prodotti di mercato, ecc) la questione cruciale della serialità televisiva, il suo stretto giro (reciproco finish) tra consumo, produzione e consumo. Questa contrapposizione era apparentemente di buon senso, almeno per quanti credevano di potere sostenerla semplicemente confrontando Quer pasticciaccio brutto de via merulana con il Tenente Colombo, la Fedra di Racine con Beautiful, oppure i 47


telefilm americani con il grande cinema d’autore, l’educazione familiare e civica con i cartoni animati giapponesi, l’arte con la pubblicità, la politica con i mercati del consumismo. Ma – a parte la debolezza teorica e culturale con cui veniva impostata – tale opposizione ideologica (politica, estetica e etica) non coglieva il vero punto della questione, minando le basi stesse del proprio ragionamento e le sue pretese di universalismo. Di fatto, essa sfruttava una tradizione di pensiero legata al ruolo egemonico detenuto dalla scrittura – dal libro, dalle leggi, dalla stampa, dal romanzo – nella formazione della vita moderna: tradizione forte e incontrastata nei secoli proprio in virtù della scrittura stessa in quanto medium

alfabetico cresciuto in una sua

straordinaria simbiosi con lo sviluppo del pensiero, delle forme del sapere, delle sue istituzioni e pratiche: da Gutenberg e dall’umanesimo sino ad arrivare al “contratto sociale”, alla caduta dei vecchi regimi aristocratici e alla nascita degli stati nazionali e delle loro istituzioni. A partire dall’asse giudaico-cristiano della civiltà occidentale – non a caso attraversato e diviso da varie posizioni iconoclaste – è la scrittura ad essere stata il medium più adatto a esprimere tanto la religiosità quanto la razionalità strumentale dei regimi di potere delle classi egemoni (non fa eccezione ma anzi conferma la regola il fatto che tra gli antichi invece delle caste alte fossero gli schiavi a funzionare da “apparecchiature mnemoniche” e “macchine da scrivere”, esattamente come un manager detta oggi i suoi comandi ad una segretaria o a un registratore) . Su questi presupposti, l’orizzonte dicotomico dialettico e manicheo del Novecento è stato attraversato dallo scontro e insieme dall'integrazione tra civiltà della scrittura e civiltà dell’immagine. In particolare nell’epoca televisiva, nata come estremo compimento del design moderno, che – applicato agli spazi e agli oggetti d’uso del pubblico metropolitano – si era sempre più esteso, seppure in modi disuguali, alla vita intima e quotidiana della collettività. A quella vita d’ogni giorno e d’ogni luogo la televisione aveva dato una piattaforma espressiva ineguagliabile rispetto ai media precedenti. E tuttavia, quanto più essa si faceva vera e propria forma di vita sociale, insieme pubblica e privata, tanto più il sapere alfabetico era spinto a diffidare di un linguaggio che sembrava volere fare sempre più a meno della scrittura. Non a caso i ceti più vincolati alle tradizioni alfabetiche hanno sempre contrapposto la radio (parola senza immagine) alla TV, ritenuta in quanto immagine, se non di per se stessa vuota, comunque carente sul piano dei contenuti e quindi sul piano concettuale e conoscitivo. Non a caso, infine, per anni la cultura italiana (e non soltanto) ha sostenuto che il teatro, 48


recita di una parola scritta, potesse ed anzi dovesse essere trasmesso o messo in scena dalla TV a fini educativi e identitari, così da ridare alla artificiale spettacolarità del video la dignità, o meglio autorità di cui manca, a meno di non essere la diretta traduzione scenica di un testo cartaceo. Infine, si pensi alla influenza del giornalismo scritto sul giornalismo televisivo. Va anche aggiunto che lo scontro tra scrittura e immagine è stato in larga misura asimmetrico, in quanto qualsiasi rivendicazione del valore dell’immagine era comunque costretta a passare appunto attraverso una elaborazione intellettuale scritta o in ogni caso verbale. Le ragioni del successo di massa delle immagini potevano essere dette solo attraverso la parola, che in quanto “sapiente” forniva alla loro natura, in massima parte effimera, la stabilità di una giustificazione teorica e insieme la paternità di nobili tradizioni iconiche, passate e presenti, di cui potere essere pur sempre considerate una derivazione. Così, l’impalcatura ideologica della scrittura finiva per dettare il proprio punto di vista anche a chi si faceva fautore dell’immagine – e della sua straordinaria funzione di stimolo dei processi di socializzazione realizzati dall’industria culturale – per il semplice fatto che, in quanto di parte progressista, non poteva esprimersi contro le piattaforme audiovisive predisposte dallo sviluppo tecnologico. Tale sviluppo, infatti, era tendenzialmente orientato – dopo le aberrazioni totalitarie del nazismo e del comunismo – verso la piena realizzazione di regimi democratici fondati sulla opinione pubblica o quantomeno su una sua efficace simulazione mediatica. Questa contrapposizione tra scrittura e immagine, libro e media, stampa e televisione, era questione dibattuta su un fronte e l’altro in modi parimenti ideologici; ed era un nodo politico-culturale che tornava sempre ad appoggiarsi, esplicitamente o implicitamente, al pensiero di Adorno e Horkheimer, all’autorità sapienziale che la Scuola di Francoforte si era conquistata trattando i rapporti gerarchici tra arte, cultura di massa, media tecnologici durante decenni – anni trenta, quaranta e cinquanta – fondativi e cruciali per le metamorfosi della civiltà occidentale. Era una autorità, quella dei francofortesi, garantita dalle prestigiose basi culturali e capacità intellettuali che facevano da sostegno al loro impianto concettuale e insieme emotivo, fortemente identitario e vocazionale: la tradizione hegeliana della grande cultura borghese, il pensiero negativo scaturito dalla crisi di tale tradizione, e la tradizione marxiana, ancora priva dei suoi sviluppi politici e delle sue deformazioni marxiste. Era un pensiero autoritario che aveva al suo cuore il problema della Tradizione, della continuità e 49


discontinuità della Storia, del significato del Progresso moderno; e che poneva i processi di civilizzazione della società industriale di fronte al dramma dell’identità umana e del suo Destino. Affrontare la qualità emergente nei media di massa e nell’industria culturale significava cogliere un conflitto epocale – un trapasso socio-antropologico – tra le capacità razionali del pensiero, delle sue forme di conoscenza, e le capacità evocative dell'immagine (quasi sempre sinonimo di cose fatte merci). Immagini: quindi illusioni trascinanti e diaboliche come a loro tempo erano state stigmatizzate dalla cultura protestante e prima da quella ebraica, sino a farsi presenti nella società dello spettacolo come potenti fattori di distruzione della verità delle scrittura, e dunque ultima e definitiva separazione delle forme divine o comunque universali del mondo dalla realtà contingente delle cose. Ad una sorta di sintesi o meglio semplificazione del pensiero francofortese – dotato alla sua fonte di formidabili capacità etiche e teoretiche – finì per rivolgersi ogni testimone e divulgatore di destra, di centro e di sinistra: le agenzie di formazione e di socializzazione cattoliche, per un verso; gli intellettuali marxisti e l’intero fronte delle culture dell’umanesimo e dell’idealismo, per l’altro verso. Gli intellettuali, pur dividendosi sul versante ideologico, si aggregavano su quello corporativo a misura del progressivo indebolirsi dei ceti colti a fronte delle forme di dominio espresse dai ceti emergenti dell’industria e della politica. A schierarsi o comunque simpatizzare con il francofortismo – divenuto esempio di una Cultura d’elite capace di contrapporre la propria coscienza critica alla barbarie della civilizzazione (non solo del nazismo e del fascismo, ma anche dell’imperialismo hollywoodiano) e ai valori dei ceti medi – furono in gran parte intellettuali vincolati a tradizioni pre-industriali o peggio ancora a interessi residuali, “in perdita”. In modi a volte diretti e assai più spesso indiretti, costoro riprendevano, divulgavano o semplicemente echeggiavano per proprio conto le posizioni espresse nella Dialettica dell’Illuminismo, facendo delle pagine specificamente dedicate all’industria culturale americana da due grandi sociologi europei, una specie di prontuario ideologico della opposizione dell’intellettuale nei confronti dei linguaggi della società moderna. Comunque, la ripresa del pensiero di Adorno ha prodotto modelli teorici e posizioni politico-culturali che in realtà non hanno saputo centrare il suo punto focale: la sua teoria critica è assai più complessa di quanto abbiano creduto o voluto credere i suoi estimatori, pensando che essa si rivolgesse semplicemente alle forme espressive 50


dell’industria culturale, ai regimi espressivi e sociali del capitalismo. C’è un passaggio della teoria critica di Adorno che, a non volerlo cogliere, fa crollare l’intera impalcatura del suo discorso, così da predisporlo – come di fatto è accaduto – ad una lettura rozzamente ideologica (la qual cosa, del resto, contrasta con le molte altre pagine adorniane che non trattano direttamente di industria culturale e che spiccano di geniali intuizioni). Il passaggio in questione riguarda il fatto di avere scelto il regime di senso delle avanguardie storiche come punto di vista da cui guardare tanto l’industria culturale di massa quanto la grande arte borghese, appunto quella forma espressiva, alta e indiscussa, che il francofortismo più “volgare” contrappone ai linguaggi del cinema, della televisione e a quanto altro ci sia di tecnologico e di inerente al campo delle merci e dei consumi. Mentre cultura di massa e tradizioni dell’opera d’arte si toccano ai loro estremi in quanto forme di totalitarismo sostanzialmente equivalenti, le avanguardie storiche si sottraggono a questo destino della soggettività moderna, in quanto sono costruzione simbolica di una verità – di un autentica rappresentazione del mondo – che non intende rispecchiare la realtà, sia essa quella dell’arte oppure quella della società, ma arriva a rivelarne il radicale nonsenso. Le avanguardie sono allora l’unica possibile rivelazione della società moderna, la più geniale rappresentazione della sua originaria impossibilità. Al contrario, la fortuna del francofortismo come “teoria critica” o “teoria negativa” della mercificazione dei rapporti sociali, della cultura, del lavoro e della persona (così come dell’arte) si può spiegare in base alle due ideologie di governo, di movimento e di classe – quella cattolica e quella comunista – restate a lungo egemoni in Italia, sino a saldarsi in modo esplicito, profondo e persino vocazionale nella tipica soluzione etica del cattocomunismo, sollecitata dalle crescenti necessità di una democrazia rappresentativa sempre più costretta a declinare verso un nuovo populismo. Queste due ideologie, e le loro molteplici combinazioni, condividevano – e se si pensa alla recente rielaborazione teorica del fronte progressista, ancora condividono – il problema della verità, religiosa o laica che fosse. Rispetto alla verità – dispositivo per cui l’individuo è il corpo (spirito e carne) in cui il mondo celeste e quello terreno si fanno parola umana – l'immagine in quanto trasparenza, vetrina e schermo della società industriale era seduzione, dissipazione, pubblicizzazione dell’effimero. In realtà, un essenziale memento mori. Affrontando contesti geopolitici diversi da quello italiano, dovremmo distribuire in altro modo la qualità dei loro specifici interessi laici e religiosi, ma se ne 51


ricaverebbe un qualcosa di analogo. L'aspetto più sorprendente della visione di McLuhan, invece, era il fatto di teorizzare – etimologicamente vedere – qualcosa di molto diverso dal francofortismo volgare e semmai più vicino, per certi aspetti, al ragionamento di Adorno sulle avanguardie e il significato trasgressivo della loro creatività; qualcosa che, fra l'altro, era in grado di interpretare assai meglio di altre analisi dei media l’intero sviluppo dell'industria culturale, dai primi anni del secolo scorso in poi. In sintesi, per McLuhan i linguaggi del vedere non sono soltanto quelli delle illustrazioni, dei fumetti, dello schermo, dell'immagine fotografica, cinematografica, televisiva, ma sono anche quelli della scrittura e dell'alfabeto. La tesi di McLuhan è una straordinaria approssimazione non alla verità del mondo ma alla costruzione dei rapporti di potere che, con le loro strategie comunicative, determinano la vivibilità e credibilità di un contesto sociale. Se si considera la storia dell'industria culturale come storia delle sue forme espressive, si può constatare che il ruolo della scrittura è restato sempre costante, ma, da essere una scrittura fatta per essere letta, ecco che – con la nascita del cinema, della televisione, e infine di campi espressivi destinati ad alimentare un vasto numero di apparecchiature audiovisive più personali, situate, e tra loro connesse – la scrittura non è stato più il solo medium verbale in grado di superare le barriere del tempo e dello spazio, ma è diventato il canovaccio, la programmazione, lo spartito che serve a produrre le immagini, e che dà a quelle immagini l'ossatura, la nervatura necessaria alla loro funzione sociale individuale e collettiva. C’è di più, e si tratta dell’indicazione più preziosa che McLuhan ci ha lasciato. In tre rapidi passaggi: 1) la contrapposizione ideologica tra civiltà della scrittura e civiltà delle immagini non conta nulla se si pensa che essa serva a criticare l’industria culturale e il trionfo sociale delle sue immagini a fronte delle tradizioni e istituzioni del libro, ed anzi è proprio nella loro integrazione che il sistema occidentale è andato progredendo; 2) a contare, e molto, è invece la contrapposizione materiale – territoriale, psicofisica, emotiva – tra i linguaggi del vedere, appunto scrittura e immagine, e i linguaggi del sentire, i sensi che toccano la pelle in quanto confine tra interiorità e esteriorità del corpo umano, ma anche i sensi che si estendono attraverso le protesi del corpo (dispositivi di potenziamento della sua forza, forniti dalla tecnologia), dunque nelle 52


zone di interferenza e insieme intersezione tra la carne del soggetto sociale e la carne delle relazioni sensoriali in cui individuo e collettività sono immersi; 3) la diversa qualità espressa dai linguaggi del vedere e i linguaggi del sentire – gli uni esclusivi e identitari e gli altri inclusivi e tribali – segna la differenza tra società e comunità, tra regimi chiusi, militari e nazionalisti, e regimi aperti, fortemente relazionali e simbolici, quali gli eventi della moda, dei concerti rock e dei consumi (McLuhan coglie in questi una natura che è già ai margini della modernità e insieme richiama il tempo delle origini). Il modo migliore per usare McLuhan? Penso che sia quello di intrattenersi su questi tre passaggi. La sua scrittura sfrutta molto l’aforisma e questo è un acceleratore del pensiero di chi lo legge. Gli aforismi di McLuhan ci lasciano la libertà di aggiornare sempre di nuovo i suoi punti vista tarandoli su ciò che oggi ci è richiesto vedere e capire. Essendo enigmatico, l’aforisma consente diverse interpretazioni, e queste si possono modificare nel tempo. Quello che dieci, venti anni fa potevamo dire di un aforisma di McLuhan oggi può ed anzi a mio parere deve trasformarsi – se il tempo che viviamo ce lo chiede – in una direzione completamente diversa. Allora, se in questi anni parliamo di McLuhan mentre ieri parlavamo di Adorno, quale può essere l’interesse di una lettura di Adorno attraverso McLuhan e di McLuhan attraverso Adorno? Adorno elabora un pensiero critico che ritiene possibile dare un senso alla società attraverso il non-senso: essere radicalmente negativi nei confronti della razionalità sociale ne rivela il significato nascosto; una rivelazione, dunque, una apocalisse (dimentichiamoci per sempre dell’ambiguità di regime che tanta fortuna ha dato alla opposizione e insieme conciliazione tra apocalittici e integrati!). È qui che Adorno è un grande interprete della modernità in quanto insanabile ed estrema contraddizione tra significato e significanti, paradosso. Dove il suo pensiero viene meno è, invece, laddove si fa sostanzialmente positivo, poiché tale è anche il pensiero negativo, ad esempio quando un grande teorico delle avanguardie storiche come lui arriva a non amare e anzi a disprezzare il jazz. C'è indubbiamente della grandezza nel non farsi piacere il jazz, segno di un tempo nuovo della metropoli che per essere compreso ha bisogno di corpi adeguati allo stesso sentire. E infatti posizioni come queste, in cui si saldano intelligenza della mente e intorpidimento dei sensi, non accadono nel pensiero affermativo di McLuhan. Ed è quest’ultimo che, evidentemente 53


godendo della propria esperienza di consumatore e di una cultura istintiva assai più che teorica (la qual cosa non gli ha impedito ed anzi gli ha facilitato l’elaborazione di teorie adeguate a regimi di senso di tipo affettivo), ha saputo intuire che anche l'estrema frontiera del pensiero d'avanguardia, la più rigorosamente estranea ai canoni del pubblico, si sarebbe fatta – anzi s’era già da tempo fatta – una preziosa risorsa dell'industria culturale. A soddisfare l’inconscio collettivo incorporato nei mercati della cultura di massa, non poteva bastare l’intellettuale organico alla società: ci voleva un genere di lavoro intellettuale che riuscisse ad essere organico a ciò che di irriducibile, inspiegabile, sacro la società rimuove e inibisce. E dunque, l’interiorità speculativa di Adorno trasforma l’esperienza delle avanguardie in una teoria assai più che in una pratica e dunque la vede come oggetto, la de-scrive dall'esterno, mentre, invece, la superficialità di McLuhan la vede dall'interno - ovvero in una zona sensoriale che travalica ogni confine tra soggetto e oggetto, tra il dentro e il fuori della pelle. Su questo versante dobbiamo molto alle riflessioni del giovane Derrick de Kerckhove, ma esiste anche una vasta letteratura nel campo della psicanalisi. Ancora: molte esperienze dell’arte estrema hanno infierito sulla pelle per esaltare la carne che essa nasconde e che al di là di essa preme (un impulso che risale al sacrificio: dalle sue origini primordiali al martirio barocco dei Santi , sino al cinema splatter del presente). Lo abbiamo accennato all’inizio: McLuhan nei suoi slogan ha spesso sostenuto che l’arte è il luogo in cui le cose del mondo si svelano. Credo che sia un errore pensare che oggi questa indicazione possa essere ribadita tale e quale. Penso, anzi, che neppure McLuhan si riconoscerebbe nelle retoriche con cui oggi si sostengono le magnifiche sorti della Bellezza e della Creatività in quanto palingenesi delle catastrofi postmoderne. Aiuta a discutere di questa faccenda un altro pensatore che scrive spesso per aforismi, Peter Sloterdijk, autore di un libro abbastanza voluminoso (Devi cambiare la tua vita, Raffaello Cortina 2010), dedicato all'educazione di sé; un tema che ha a che vedere con alcune funzioni della rete, sugli esercizi spirituali della rete in quanto forme del fare che accrescono la nostra persona: far ginnastica attraverso le nostre mani così come attraverso il nostro pensiero. In questo libro – in cui l'autore, come spesso gli capita, predilige un registro insieme incisivo e dispersivo, a volte smarrendosi ai margini del discorso che sembra inizialmente seguire – viene data una stimolante 54


definizione del momento attuale delle arti, distinguendovi la definitiva sua divaricazione in due modi tra loro distinti. Sloterdijk individua il momento di una frattura sostanziale tra i linguaggi dell'arte che procedono per imitazione e quelli che procedono per innovazione. Imitazione: l'arte – nel significato pieno, storico e sociale, antico e moderno, di arte – ha potuto durare, pur in tutte le sue variazioni e propagazioni, finché l'artista ha continuato a procedere per imitazione (la combinazione creativa tra ripetizione e variazione, combinazione che la accosta non poco all’immaginario). Su un altro versante, ormai dimentico del primo, Sloterdijk colloca il momento in cui sulle manifestazioni dell’arte come imitazione ha preso il sopravvento la necessità dell'innovazione: il momento in cui, finita un'esperienza irripetibile, inizia la fase in cui occorre, è necessario e inevitabile procedere per innovazioni continue. Uno degli autori più significativi in questo senso, a mio avviso è Maurizio Cattelan. Ma Cattelan piacerebbe a McLuhan? Potrebbe piacergli un artista così anti-religioso? Dunque: noi parliamo di McLuhan perché in passato McLuhan ha scritto su fenomeni che solo ora abbiamo finalmente riconosciuto nel nostro presente. Ha in qualche modo anticipato non pochi traumi e passaggi che oggi sono di attualità. Ma ciò che fu attuale per McLuhan è ancora l’attualità in cui crediamo di vivere? Come ho detto, non credo. E per questo penso che a noi mediologi resti da assolvere un compito molto arduo e che questa debba essere per tutti noi ricercatori la sfida maggiore da superare: capire quanto la vita attiva dei media si sia spinta oltre l’attualità in cui ci imprigionano le forme di comunicazione socialmente strutturate, distraendoci dai modi in cui è la nostra persona ed anzi la terziarietà mediatica in cui abitiamo a trasformarsi ben oltre noi stessi.

Penso, ancora, che il pensiero di McLuhan sia un pensiero fortemente trasgressivo nei confronti dei modi d’essere dei linguaggi della vista, dunque dei linguaggi del potere, dello spirito del tempo moderno. Ma il motivo della sua trasgressività – del suo potenziale critico, politico – va tuttavia di nuovo spiegato. Di-spiegato. Rimesso in discussione. Non può più essere affidato ad una semplice prospettiva religiosa. Quella di McLuhan è una prospettiva dotata di radici profondamente religiose: non a caso il suo pensiero, deprezzato dal progressismo laico, in questi decenni è stato ripreso e 55


riecheggiato soprattutto dalla grande cultura cattolica (si pensi a De Certeau). Per religiosità profonda intendo una professione di fede che sappia accogliere in sé anche la dimensione del sacro. Sappia essere eretico e cioè contraddire la religione, contrapporle la natura senza senso del sacro. Nelle sue pagine di contenuto religioso – tra le quali anche la corrispondenza privata con sua madre – McLuhan tratta in modo particolare la differenza tra protestantesimo (dal quale era stato educato) e cattolicesimo (al quale si è infine convertito). C’è qui un grande tema europeo, quello che altri definiranno nella differenza tra Ibsen e Shakespeare (autore particolarmente amato oltre che studiato da McLuhan). A differenza del protestantesimo, il cattolicesimo conteneva e per di più – grazie alla propria capacità di cristianizzare il paganesimo – riusciva a giustificare il fascino di suggestioni, mistiche quanto erotiche, fondate sulla simbolizzazione della carne e sulla incarnazione dei simboli. Niente di meglio per l’approccio mediologico di McLuhan al mondo. Tuttavia la dimensione attuale dei sistemi di potere nazionali e internazionali, la loro crisi in quanto regimi imperialisti e civilizzatori – e quindi crisi delle virtù del cattolicesimo, il più efficace nel rappresentare la formazione umanista del soggetto moderno e la sua aspirazione totalitaria – dovrebbe spingerci a rifiutare ogni forma di conciliazione tra la sfera del sacro e la sfera religiosa. Deve spingerci a rileggere McLuhan cogliendovi gli elementi che possono aiutarci a capire il presente senza concedere ad esso alcun futuro religioso. Un radicale rifiuto dello spirito religioso (cui dobbiamo le forme politiche della modernità) può avvicinarci a una dimensione del sacro priva di ogni implicazione divina. Il medium è il messaggio è per me uno slogan sempre verde: restando nella cornice di pensiero del suo autore, bastano pochi passaggi logici per arrivare a dire che medium, messaggio e corpo sono l’insieme di una continua e al tempo stesso discontinua metamorfosi dell’essere umano, del suo essere al mondo. Piegare il pensiero alla dimensione impensabile del sacro può aiutarci a dimenticare l’egemonia dell’umano, a sentirci marginali rispetto al rimanente delle cose.

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Message is the massage. Il pensiero di McLuhan alla prova della comunicazione digitale Davide Borrelli

Nel tempo delle reti e della comunicazione digitale si può utilizzare ancora la pionieristica riflessione mediologica di Marshall McLuhan? E se sì, in che modo? A oltre trenta anni dalla sua scomparsa che cosa resta attuale delle sue teorie e che cosa, invece, appare oggi particolarmente problematico, se non sorpassato? La nostra impressione è che il pensiero del grande studioso canadese debba essere usato, secondo una classica avvertenza wittgensteiniana, come una scala che si può gettare via soltanto dopo esservisi arrampicati e aver avuto l’opportunità di lanciare lo sguardo più lontano grazie ad essa. Il peggior servizio che si potrebbe rendere a un autore come McLuhan sarebbe quello di farne uno specialista dei media da studiare in modo ortodosso e filologico. Del resto, nessun autore è stato forse tanto refrattario alla specializzazione quanto McLuhan stesso, che la riteneva niente altro un’attitudine gutenberghiana condannata fatalmente all’estinzione nel mondo elettronico. Per lui «lo specialista è colui che non fa mai piccoli sbagli mentre avanza verso un grande errore». Per questa ragione non ci sarebbe niente di più alieno dal modo di pensare di McLuhan che aspirare a scrivere un contributo specialistico sul suo pensiero. Coerentemente con questa impostazione, accenneremo in estrema sintesi ad alcune delle sue riflessioni che a nostro avviso si sono rivelate più significative e feconde per comprendere la logica della società moderna, e successivamente argomenteremo le ragioni per cui, nello scenario della comunicazione online, la concezione che egli aveva dei dispositivi mediali come di protesi ed estensioni dell’uomo, necessiterebbe di essere concettualmente revisionata alla luce della nozione di impronta.

I media, im-postori della società «Niente può essere più lontano dallo spirito della nuova tecnologia che il principio ‘un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto’. Non puoi più andare a casa» (McLuhan, 1967: 16). Ecco una di quelle lapidarie e illuminanti osservazioni che, a nostro avviso, 57


hanno fatto di McLuhan un classico degli studi sui media, se per classico si intende un autore che magari abbiamo da tempo smesso di frequentare e di leggere senza che lui, però, abbia smesso di leggere la realtà in cui viviamo e di cui siamo fatti. L’idea di società prende forma storicamente dall’esperienza di «un certo numero di persone che dividono lo stesso luogo, che interagiscono in molte se non in tutte le loro attività, che si incontrano spesso e si parlano ripetutamente» (Bauman, 2002: 26). La prossimità, prolungata nel tempo, di individui che interagiscono nello stesso “posto” costituisce la più elementare e materiale evidenza fenomenica di qualcosa come una “società”. Le prime forme di telecomunicazione messe a punto nel XIX secolo hanno radicalmente sconvolto questo equilibrio e posto le condizioni per ridefinire e riaggregare la realtà degli uomini in inedite forme e pratiche di comunità senza contiguità. McLuhan ricorda che a quasi trent’anni dal brevetto del telefono, negli Stati Uniti il trauma simbolico e culturale della rottura dell’ordine del posto era ancora percepibile, tanto è vero che il significato dell’aggettivo phony, “fasullo, impostore”, veniva messo in relazione con telephony, quasi a indicare che una cosa che viene definita in questo modo «non ha più sostanza di una conversazione telefonica con un ipotetico amico» (1964: 282). In questa constatazione non c’è soltanto la sottolineatura, da parte dello studioso canadese, della stigmatizzazione di cui fu oggetto il telefono al tempo in cui questa vecchia tecnologia era ancora nuova (Marvin, 1988), così come delle resistenze culturali e sociali che furono opposte al suo uso, del resto comprensibili in quanto «qualsiasi innovazione minaccia l’equilibrio dell’organizzazione esistente» (McLuhan, 1964: 266). Vi è già una chiara intuizione della specificità funzionale del medium telefonico, e in generale di quale ruolo rivesta la telecomunicazione nella trasformazione delle forme di vita e delle istituzioni sociali nella modernità. Il telefono è stato sentito storicamente come un im-postore, innanzitutto nel senso che è un dispositivo di deterritorializzazione suscettibile di mettere in discussione le leggi e l’ordine del posto. Non esiste solo l’ordine del discorso, ma anche quello del posto. Un posto (nel senso di “luogo”), deve la sua qualità disciplinare (come quando si dice che “bisogna rimettere le cose a posto”) e individualizzante (“ogni cosa ha il suo posto”) al fatto di essere stato innanzitutto “posto”, cioè collocato, sistemato ordinato da un’istanza sovraordinata rispetto a cui il soggetto è passivo. La ferrea legge del posto sta già tutta nel fatto di essere im-posto. Non si può sfuggire ad esso, e non a caso la condizione di de-vianza si traduce sostanzialmente in una “deviazione”, in un essere 58


“fuori posto”. Di più, la legge del posto estende la sua presa disciplinare fino ad impadronirsi delle coscienze soggettive, se è vero che interiorizzarla comporta la rassicurante sensazione di “sentirsi a posto”. Ebbene, il telefono è un impostore perché rappresenta storicamente una via di fuga dalla spaziatura topografica dell’ordine sociale, l’opportunità di un innaturale corto circuito tra posti che la geografia e la società hanno imposto di mantenere separati, l’apertura nella vita quotidiana di un principio di eterotopia. Trasgressione e profanazione sono solo alcune delle parole che hanno dato forma al vocabolario del panico morale costruito intorno al medium telefonico. Esaminiamole sinteticamente. Che il telefono evochi l’immaginario di una trasgressione fuori controllo lo ricorda lo stesso McLuhan quando osserva che una delle più inattese conseguenze sociali del telefono è l’eliminazione delle case di piacere e l’apparizione della ragazza squillo […] La forma e il carattere del telefono, come di tutta la tecnologia elettrica, appaiono pienamente in questa clamorosa innovazione. La prostituta era una specialista, la ragazza squillo non lo è. Il bordello non era una casa, mentre la ragazza squillo non solo vive a casa ma può anche essere essa stessa una maitresse. La capacità del telefono di decentrare ogni operazione e di porre fine alla guerra di posizione come alla prostituzione localizzata, si è ripercossa, senza essere stata compresa, su tutte le attività del paese (1964: 283).

È stato opportunamente osservato che l’idea stessa di telefonata o-scena rappresenta in un certo senso una espressione tautologica (Peters, 1999), dal momento che il telefono per sua natura mantiene fuori scena, ma nello stesso tempo esibisce la presenza e il corpo di chi comunica. Si badi, non una sua rappresentazione estrinseca, ma propriamente la sua presenza diretta; non un simulacro della persona, ma una sua diretta emanazione, la voce. Quanto alla profanazione, i media elettrici funzionano tutti secondo una logica che definiremmo di profanazione. L'espressione latina pro fano significa “davanti al tempio”, e indica la posizione di chi si trova al di fuori di un luogo sacro, protetto e accessibile solo a un ristretto numero di persone che condividono uno specifico sistema di valori e di saperi. L'atto di profanare si riferisce, quindi, letteralmente al disseminare all'esterno i contenuti riservati che sono prodotti e custoditi all'interno di un ambiente informativo. Come ha osservato il filosofo Agamben, la profanazione è qualcosa di più della secolarizzazione. La secolarizzazione, infatti, si limita a spostare l'autorità divina nelle istituzioni terrene, ma di fatto ne lascia intatto il potere. Invece, la profanazione 59


neutralizza il potere e il prestigio di ciò che profana. «Entrambe sono operazioni politiche: ma la prima ha a che fare con l'esercizio del potere, che garantisce riportandolo a un modello sacro; la seconda disattiva i dispositivi del potere e restituisce all'uso comune gli spazi che esso aveva confiscato» (Agamben, 2005: 88). Ebbene, il telefono rende porosi i confini tra esterno ed interno, spazio pubblico e spazio privato, ruolo sociale e interiorità della persona. La novità del telefono sta proprio nell’aver determinato la possibilità di “restituire all'uso comune” pezzi di mondo e di esperienza umana, tradizionalmente emarginati ed esclusi dalla sfera pubblica.

L’impronta della comunicazione vivente Se c’è un effetto di lunga durata che si può ascrivere direttamente all’azione istantanea dell’elettricità è di aver predisposto le infrastrutture di quella che, parafrasando Roberto Esposito (2010), si potrebbe definire una forma di comunicazione vivente. Già nell’idea dei media come estensioni del corpo è implicita una marcata torsione del comunicare in senso biopolitico: i media sono vettori somatici prima, piuttosto che semantici. Ma è nel concetto di simultaneità del villaggio globale che questa declinazione biopolitica si palesa con particolare evidenza. Mezzi di telecomunicazione istantanei come il telegrafo prima, e successivamente il telefono, diventano nella lettura che ne fa McLuhan, dei veri e propri “ormoni sociali” in quanto collegano parti, posti, funzioni e compiti che nella civiltà della scrittura rimanevano distinti e distribuiti in una catena sequenziale e gerarchica. «I media elettrici – spiega McLuhan – tendono a creare una sorta di interdipendenza organica tra tutte le istituzioni della società. [Sicché] con le comunicazioni elettriche le istituzioni politiche e commerciali assumono un carattere biologico» (1964: 262). Per questo aspetto il pensiero di McLuhan si dimostra ancora straordinariamente attuale e fecondo. Ma qui possiamo percepire anche il limite di una concezione che considera i media come protesi che estendono il soggetto umano nell’ambiente. Il sottotitolo del suo libro forse più celebre, Gli strumenti del comunicare, è in inglese The extensions of man, espressione che nell’edizione italiana non viene tradotta. Le “estensioni dell’uomo” ci pongono dinanzi l’immagine di un ultra-uomo. Dal significato di quell’avverbio ultra dipendono due diverse interpretazioni del rapporto fra media e 60


corpo. Com’è noto, il prefisso ultra può avere il senso di un superlativo che indica una misura eccessiva (come quando si dice “ultramoderno” o “ultranazionalista”), oppure può significare l’idea di superamento di un limite (come, ad esempio, negli aggettivi “ultraterreno” e “ultracentenario”). Nella prima accezione (che è poi quella che emerge prevalentemente in McLuhan), si afferma un’idea dei media troppo umana, che implica l’estensione e il potenziamento del soggetto: in base ad essa i media risultano prolungamenti dei sensi e degli organi corporei, come ad esempio il telefono che estende la voce e la tv che fa vedere a distanza. La seconda accezione apre, invece, a un’interpretazione postumana (Marchesini, 2002) o antiumanistica (Abruzzese, 2011): i media sono veri e propri ambienti vitali in cui il sistema uomo non si limita ad estendere le sue potenzialità percettive, comunicazionali e cognitive, ma ne forma e ne sviluppa costantemente delle altre man mano che interagisce con i nuovi stimoli e le nuove caratteristiche dell’ambiente mediato. Come è stato opportunamente osservato, McLuhan si mantiene, tutto sommato, all’interno della tradizione umanistica del soggetto moderno: quello che non cambia (per questo l’operazione è ancora “umanistica”) è proprio il soggetto, cioè l’entità (umana) che produce e trasmette attraverso l’ambiente mediale esteso. Il medium è il messaggio – ma il messaggio a sua volta è un’estensione del sé. [E invece la medialità è] il soggetto performativo, la condizione di “soggettivazione” o dell’esistenza in vita dei soggetti nelle loro pratiche culturali – e non l’estensione di “ciò che i soggetti dicono e fanno” (Carmagnola, 2011: 118-119).

Sulla base di questo presupposto potrebbe apparire legittima, ad esempio, la denuncia di quei critici di Internet che sottolineano il carattere narcisistico dell’ipertrofia del sé coltivata sulle piattaforme espressive del web. «Io sono il messaggio»: in questa frase si condensa tutta l’insofferenza che un saggista come Lee Siegel (2008) manifesta nei confronti dell’esibizionismo ipersoggettivistico che sarebbe alla base del mito dell’autoespressione in Internet. Se, però, si considera la comunicazione in rete alla luce del secondo significato che ha il prefisso ultra nell’espressione ultraumano, la prospettiva cambia radicalmente. In questo caso il sé non si estende in virtù della sua protesi telematica, ma si smarrisce per diventare null’altro che una impronta del suo esserci stato. La tattilità mcluhaniana assume, allora, un altro significato: mentre la protesi fa pensare a un’estensione del soggetto, l’impronta ci dice della sua frantumazione e disseminazione. 61


Dopo il celebre motto medium is the message e il forse meno noto ma non meno icastico medium is the massage, con cui McLuhan intese enfatizzare il carattere tattile della comunicazione elettronica, potremmo enunciare il principio per cui in rete non solo il medium, ma il messaggio stesso tende a strutturarsi sotto forma di massaggio. Anzi, quanto più i messaggi incorporano l'haecceitas, l’impronta singolare di chi li ha incontrati, toccati e taggati, tanto più potente è la loro capacità di toccare a loro volta nel profondo chi ne fruisce, di “massaggiarne” energicamente il corpo, cioè di catturarne l'interesse avvolgendolo nell'aroma di una moltitudine di

risonanze emotive, e di

tradursi per questo in immediata esperienza vivente. In questo senso su Internet diciamo che message is the massage. Sulla rete assistiamo ad un profondo mutamento dello statuto della recorded culture (Crane, 1992) e in genere della documentalità (Ferraris, 2009), che definiremmo – parafrasando lo storico dell’arte Georges Didi-Huberman (2008) – “comunicazione per contatto”. McLuhan ha avuto il merito di intuire come i media tradizionali funzionassero come protesi del corpo. Ma nella comunicazione digitale osserviamo che i corpi si estendono e si annidano fin dentro i contenuti e i messaggi stessi. Oggi non soltanto il medium, ma anche il messaggio è diventato massaggio. Basti pensare ai contenuti che circolano attraverso le piattaforme dei social network. Sta prendendo forma in essi un tipo di testualità più aperta, partecipativa, empatica, risultato di condivisione, collaborazione e reputazione. Una testualità che trasforma radicalmente il rapporto tra lettore e contenuti. Un contenuto postato in una piattaforma digitale non è semplicemente un documento (da docere “insegnare”, ossia trasferire segni di conoscenza) che trasmette informazioni simboliche a chi ne fruisce. È innanzitutto un monumento (da monere “ricordare”) che esibisce le impronte di chi lo ha esperito, consumato, vissuto e infine reso disponibile. La lettura che se ne fa lascia tracce sul testo che si legge, in modo che ogni atto di lettura viene incorporato all’interno del testo e, restando tracciabile, si fa esso stesso testo per ulteriori letture. Si parla di realtà aumentata per definire il mondo digitale, ma in questo caso sarebbe opportuno parlare specificamente di testualità aumentata. In altri termini, il testo non si dà al lettore come oggetto esteriore, impersonale e compiuto, ma si struttura dinamicamente arricchendosi delle soggettività e delle esperienze delle persone che sono a vario titolo legate al lettore. La navigazione attraverso la testualità digitale diventa un’esperienza comunitaria: ci orientiamo all’interno di reti di amici, e consumiamo notizie, video, brani musicali in quanto segnalati, taggati e improntati dalla loro personalità. 62


Se ci mettiamo alla ricerca di una teoria dalla quale ci aspettiamo che possa accompagnarci in queste nuove forme di documentalità e pratiche di soggettivazione, più che a McLuhan ci conviene forse guardare, per esempio, a un pensatore come filosofo Jacques Derrida che, in una videointervista sul senso della comunicazione mediata (nel caso specifico quella televisiva), ebbe modo di evidenziare la centralità dell’impronta come qualcosa che si presenta nella forma dell’«essere stato lì», e che restituisce «come ‘presente vivente’ […] ciò che è morto»: la più vivace affinità possibile sembra imporsi oggi tra quello che sembra il più vivo, live, e la différance o il ritardo, il differimento nello sfruttamento o nella diffusione di questo vivente. Quando uno scriba o uno scrittore del diciottesimo secolo o del diciannovesimo secolo scriveva, il momento dell’inscrizione non era conservato in quanto vivente. Si conservavano il supporto, le forme d’inscrizione, ma non si conservava nessuna traccia ‘vivente’, o pretesa tale, dello scrittore, del suo volto, della sua voce, della sua mano ecc. Al contrario, adesso, all’istante, stiamo vivendo un momento molto singolare […] il momento di una cosa che fu vivente, che è vivente, che si crede semplicemente vivente, ma che sarà riprodotta come vivente, con un riferimento a questo preciso presente, a questo preciso momento, in ogni luogo e in ogni istante, a settimane o ad anni di distanza, reinscritto in altre cornici o “contesti”. Il massimo di “tele”, cioè di distanza, di ritardo, di differimento, si farà carico di ciò che continuerà a restare vivente […] Ora, proprio perché sappiamo adesso, sotto la luce, davanti alle telecamere, mentre sentiamo risuonare le nostre voci, che questo momento live, vivente, potrà essere ed è anzi già captato in macchine che forse lo trasporteranno e lo mostreranno Dio solo sa quando e Dio solo sa dove, noi sappiamo che la morte è qui (1996: 41-42).

In questa sede non possiamo che limitarci a questa suggestione interpretativa. La ricerca sulla rete e sulla comunicazione digitale può contare ormai su una cospicua tradizione di studi e su molti validi e autorevoli analisti sociali, ma non si può affermare che abbia ancora trovato una personalità paragonabile a McLuhan, per la sua capacità di aprire l’orizzonte del nostro sguardo e della nostra comprensione. Se, e quando, emergerà una figura di pensatore simile a lui, allora potremmo disporre di una nuova scala su cui arrampicarci, e di cui, però, un attimo dopo, ricominciare a sbarazzarci. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Abruzzese A. 2011. Il crepuscolo dei barbari, Roma: Bevivino Agamben G. 2005. Profanazioni, Roma: Nottetempo 63


Bauman Z. 2002. Society under Siege, Cambridge/Oxford: Polity Press/Blackwell Publishers (trad. it. La società sotto assedio, Roma-Bari: Laterza, 2003) Carmagnola F. 2011. Il medium è il soggetto? LINK/Mono. Idee per la televisione: 115119 Crane D. The Production of Culture. Media and the Urban Arts, Newbury Park, Calif.: Sage (trad. it. La produzione culturale, Bologna: il Mulino, 1997) Derrida J. – Stiegler B.1996. Échographies de la télévision, Paris: Éditions Galilée/Institut National de l’audiovisuel (trad. it. Ecografie della televisione, Milano: Cortina, 1997) Didi_Huberman G. 2008. La ressemblance par contact. Archéologie, anacronismo et modernité de l’empreinte, Paris: Les Éditions de Minuit (trad. it La somiglianza per contatto. Archeologia, anacronismo e modernità dell’impronta, Torino: Bollati Boringhieri, 2009) Esposito R. 2010. Il pensiero vivente. Origini e attualità della filosofia italiana, Torino: Einaudi Ferraris M. 2009. Documentalità. Perché è necessario lasciar trace, Roma-Bari: Laterza Marchesini R. 2002. Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Torino: Bollati Boringhieri Marvin C. 1988. When Old Technologies Were New, New York: Oxford University Press (trad. it. Quando le vecchie tecnologie erano nuove. Elettricità e comunicazione a fine Ottocento, Torino: UTET, 1994) McLuhan M. 1964. Understanding Media. The Extensions of Man, New York: McGraw-Hill Book Company (trad. it. Gli strumenti del comunicare, Milano: Il Saggiatore, 1967) McLuhan M., Fiore Q. 1967. Medium is the Massage, (trad. it. Il medium è il massaggio, Mantova: Corraini Edizioni, 2011) Peters J.D. 1999, Speaking into the Air. A History of Idea of Communication, Chicago: University Press, Chicago (trad. it. Parlare al vento. Storia dell'idea di comunicazione, Roma: Meltemi, 2005) Siegel L. 2008. Against the Machine. Being Human in the Age of Electronic Mob, New York: Random House (trad. it. Homo interneticus. Essere umani nell’era dell’ossessione digitale, Prato: Edizioni di Piano B, 2011)

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Malgrado McLuhan. Appunti per una storia materiale dei media Andrea Miconi

1. Partiamo da una citazione un po’ sorprendente: La galassia Gutenberg, 1962: Il punto invece è questo: come è che diveniamo consapevoli degli effetti dell’alfabeto, della stampa o del telegrafo nel dare forma al nostro comportamento? Giacché è assurdo e ignobile essere plasmati da simili strumenti. La conoscenza non può ampliare bensì restringere il dominio del determinismo. La conseguenza del non esaminare i presupposti che ci derivano dalla tecnologia porta, senza che ve ne sia assolutamente bisogno, al massimo del determinismo nella vita umana. Liberarci da questa trappola è il fine di ogni processo educativo [McLuhan 1962: 324].

“La conoscenza non può” che “restringere il dominio del determinismo”: è così che, in un capitoletto dedicato alla forza della stampa e all’ingenuità della filosofia, McLuhan rovescia come un guanto le convinzioni associate tradizionalmente al suo nome. E in effetti, nelle infinite, estenuanti discussioni sul riduzionismo di McLuhan (che riprenderò in questa sede, almeno voglio illudermi, per l’ultima volta) abbiamo sempre trascurato di considerare un punto di vista, che è esattamente quello proprio di McLuhan. E allora perché non farlo, una volta buona? Ora, a guardare almeno la produzione più nota di McLuhan, il termine “determinismo” ricorre non più di tre o quattro volte, in alcuni passaggi della Galassia Gutenberg, che spaziano in modo scanzonato - e non sempre chiarissimo, va detto - dalle eredità di Cartesio alla scoperta dello spazio curvo, fino agli effetti del telegrafo elettrico e alla crisi della forma tipografica. Ad ogni modo l’intento di questi passaggi, come si legge dall’estratto precedente, è univoco, e per certi versi paradossale: mettere in discussione il determinismo, lanciare il sasso di un’ipotesi alternativa, e tutto questo, cosa ancora più singolare, proprio inserendo nel discorso la variabile della tecnologia. “La conseguenza del non esaminare” gli effetti della tecnica, scrive così McLuhan, ci 65


conducono “al massimo del determinismo”, a cui lo studio dei mezzi materiali può offrire invece una via di riscatto; laddove intere generazioni di teorici, per un bizzarro capovolgimento delle cose, di lì a poco gli avrebbero appiccicato proprio l’etichetta di determinista tecnologico. E dunque, che pasticcio è mai questo? Il fatto è che un’opzione determinista, a sentire il McLuhan di Galassia Gutenberg, sembra semmai quella che vede nella storia l’esecuzione di un progetto, lo srotolarsi razionale di uno schema di cause e conseguenze, di svolgimenti e premesse, senza gli accidenti, le imperfezioni e gli aggiustamenti che il peso della tecnica proietta sulle cose dell’uomo. Più precisamente ancora, è una spiegazione che risponde a sua volta alla visione del mondo ereditata dalla matrice alfabetico-tipografica, convinta di quella limpida, prevedibile organizzazione sequenziale degli eventi, che la scossa dell’elettricità avrebbe messo in discussione per sempre [McLuhan 1962: 328-334]. “Il modello dominante delle procedure nel mondo occidentale continua ad essere lineare”, si leggerà nella sintesi postuma della Legge dei media, anche se il telegrafo ha introdotto da “più di un secolo” la scintilla di una diversa organizzazione della conoscenza [McLuhan e McLuhan 1988: 115]: ed è chiaro, anche qui, come McLuhan non attribuisca alla tecnologia il potere di operare una piegatura completa, deterministica, della realtà, quanto quello di agire su di essa come forza di trasformazione, come un vettore di cambiamento destinato a negoziare con altri fattori, e ad infrangersi, con esiti variabili, sulle strutture già esistenti e sugli anticorpi del mondo sociale. Da quando il progresso tecnico ha preso a correre a ritmi insospettabili, così, lo studio della tecnologia non può che condurre nel dominio opposto a quello del determinismo, perché immette nel tessuto della storia la variabile impazzita dell’innovazione, e così facendo la sottopone al suo regime di instabilità, di stasi e fratture, di asincronie. In questo senso, la discontinuità tra la fase tipografica e quella elettrica sembra valere non solo sul piano dei contenuti storici e delle loro conseguenze teoriche, ma perfino sul livello metodologico dell’analisi, disturbando lo sguardo fino a costringerlo ad un faticoso allargamento della prospettiva ad un’infinità di fattori di modificazione: più il quadro è complesso, sostiene McLuhan attraverso la prediletta analogia con il campo elettromagnetico, e più una spiegazione determinista perde di credibilità. E qui, l’insistenza di McLuhan sullo scossone epistemologico indotto dalla “galassia Marconi” trova la sua più chiara conferma, fino al famoso paradosso dedicato all’era elettrica, dove le conseguenze, addirittura, possono venire prima delle cause… 66


2. Un altro passaggio della Galassia Gutenberg aiuta a codificare la questione negli stessi termini: la tendenza a ricercare una causalità monolineare può spiegare perché la cultura tipografica sia stata a lungo cieca nei confronti di ogni altro tipo di causalità. Ed è stato per il comune consenso della scienza moderna e della filosofia che oggi siamo passati dal concetto di “causa” a quello di “configurazione” in ogni campo di studio e di analisi [McLuhan 1962: 330].

Per quello che valgono le parole, insomma, McLuhan sembra intendere il determinismo come la presunzione di una spiegazione “monolineare” della storia, fatta a pezzi dalla spinta anarchica e decentralizzante, polifonica e sregolata, della comunicazione elettrica. Come un gioco di scatole magiche, così, le diverse fasi della storia conducono da un dominio epistemologico all’altro: durante il lungo regno della scrittura gli uomini, come pesci nell’acquario, non hanno saputo cogliere il condizionamento mentale operato dai media alfabetici dominanti; alla transizione con l’era elettrica, poi, tendono ancora ad applicare quei parametri di mono-causalità indotti dalla galassia Gutenberg; infine, errore dopo errore, salto dopo salto, le punte più avanzate della filosofia, della scienza e dell’arte possono guidare lo spirito alla comprensione della natura complessa e multidimensionale del reale. A voler tentare un paragone azzardato (molto azzardato, in effetti), è in certo modo lo stesso valico attraversato da Bourdieu, che non a caso inscrive il proprio disegno teorico nella comune, potente metafora del campo elettromagnetico, suggerendo il superamento della tentazione monocausale, della cosiddetta “ignavia positivista” della correlazione, in favore della “causalità strutturale”, propria di un più esteso e dilatato sistema di relazioni tra fattori [Bourdieu 1979: 94-97]. La causalità come un campo di forze, insomma, come una scacchiera tagliata da mosse e contromosse, da spinte diverse ed opposte: curioso che proprio a questi due autori sarebbe toccata un’accusa quasi unanime di eccessiva rigidità (McLuhan, perché troppo riduzionista; Bourdieu, perché troppo piegato all’ortodossia marxista), laddove il loro tentativo di rinnovamento metodologico sembra voler spingere in direzione perfino opposta. Ma questo, io credo, è il prezzo che abbiamo pagato alla ossessiva, ideologica volontà di rinuncia ad ogni teoria forte, che è il pensiero dominante degli ultimi tempi. Se torniamo alla Galassia Gutenberg, ad ogni modo, dalle pieghe dell’assurda prosa di 67


McLuhan affiora un aspetto di indubbia maturità, reso in modo esplicito dalla citazione precedente: la distinzione, in breve, tra determinismo e causalità. Ora, se nel discorso corrente le due cose vengono fatte spesso corrispondere, è soltanto in base a quel voluto equivoco che Richard Dawkins ha spiegato in modo esemplare qualche tempo fa: si attribuisce cioè ad una spiegazione riduzionista – che vuole scomporre un oggetto teorico in termini di variabili analitiche via via più semplici e più gestibili – la facile ipoteca di un determinismo “inesistente”, immaginato dai suoi detrattori, che darebbe invece conto dell’intera scala dei problemi in funzione di una sola causa scatenante. Il “riduzionismo”, prosegue Dawkins con feroce chiarezza, “è una di quelle cose, come il peccato, che vengono menzionate solo da coloro che le combattono”, perché attribuirlo a se stessi sarebbe “come ammettere di mangiare bambini”; eppure, così “come in realtà non c’è nessuno che mangi bambini, così nessuno è veramente un riduzionista in un qualsiasi senso contro cui valga la pena di prendere posizione” [Dawkins 1986: 33]. Da una parte il determinismo, così, e dall’altra la causalità: la linea spezzata del cambiamento, il sismografo della storia, che vive di infinite rifrazioni e perturbazioni, non sempre, non necessariamente ascrivibili alla matrice comune di una forza unica e dominante. Conclusione paradossale, se pensiamo che, da McLuhan in avanti (o forse già da Innis in avanti), la teoria dei media si sarebbe caricata invece del fardello di un pesante riduzionismo tecnologico; e su questo, allora, occorre fare il punto con leale chiarezza. Inutile negarlo, per molti versi è stato lo stesso McLuhan – autore colmo di incongruenze e di complicazioni, se mai ce n’è stato uno - a generare le premesse di una grande contraddizione, traducendo l’intuizione iniziale in uno schema di relazioni sistemiche tra forma tecnologica e tempo storico, secondo quel movimento in tre fasi – età orale, spazio alfabetico-tipografico, galassia elettrica – che avrebbe lasciato un’impronta indelebile sulla teoria dei media. Così, a modo loro, prima Walter Ong con la tensione ideal-tipica tra civiltà della parola parlata e della scrittura, poi Derrick de Kerckhove e Pierre Lévy con le loro semplificazioni del modello mcluhaniano, ancora Régis Debray con la propria versione della mediologia, e in fondo ancora Manuel Castells, con l’aggiunta della “galassia Internet” alle fasi già codificate dalla scuola di Toronto – insomma, in tanti, se non quasi tutti, si sarebbero arresi alla tentazione di

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ascrivere le condizioni di un’epoca all’impronta della tecnologia dominante1. Intendiamoci, tutte queste analisi (ad eccezione di quella di Debray, più esplicitamente determinista) sono incorniciate da accorte premesse metodologiche, che mirano ad escludere per principio un’opzione riduzionista a cui pure, nella sostanza, si sta dando corpo e validità: emblematico, in questo senso, proprio il caso di Castells, che da un lato prende le distanze dal riduzionismo mcluhaniano2, e dall’altro cerca di riprodurne, negli slogan come in alcuni essenziali snodi concettuali, la grande forza di spiegazione sprigionata dall’assunzione della centralità del medium nei processi storico-sociali. E tuttavia, quello che rimane sospetto nel modello dei grandi cicli della comunicazione è non tanto la centralità dei diversi mezzi dominanti nel caratterizzare le rispettive epoche – per certi versi innegabile, al di là della sua difficile traduzione scientifica quanto la regolare, cristallina perfezione del disegno complessivo, in cui ogni fase è segnata dal pieno, completo dispiegarsi di una matrice culturale: prima l’oralità remota dei clan, quindi la forza della scrittura, incarnata nei dispositivi razionali della legge e della città, ancora lo spazio dei flussi elettronici, e infine la riconfigurazione a rete di tutti i livelli del sistema sociale (emblematica, in questo senso, la perfetta simmetria tra le vicende tecnologiche, economiche, culturali e sociali, in cui Castells individua l’atto di nascita della network society). L’età della comunicazione orale e quella della scrittura, poi del libro, dell’elettricità e dei network: ad ogni tempo, insomma, una compiuta corrispondenza con il respiro culturale di un medium, come in un bizzarro ritorno alla più classica tentazione di una filosofia della storia hegeliana. E così, in fondo, fino alla tesi più radicale tra tutte, quella recente di Kevin Kelly, per cui lo sviluppo della tecnologia sarebbe dominato da una legge di necessità, che inevitabilmente, al di là dell’apparire di dettagli contingenti e superficiali, conduce alla realizzazione di alcune forme prefissate e precise [Kelly 2010: 131-135]. Una storia dei media così perfetta, però, è senza dubbio poco realistica, perché la prova della storia – lo insegna la teoria dell’evoluzione, da Darwin in poi [Darwin 1859: 176-177] – è fornita viceversa dall’imperfezione, con il suo deposito di detriti e sporcizia, le sue 1

I riferimenti sono Ong 1982, de Kerckhove 1991, Lévy 1994, Debray 1993, Castells 1996 e 2001, per restare ai casi più noti. Peccato, insomma, che il contributo più duraturo di McLuhan alla scienza dei media ne abbia preservato nel tempo non il contributo più forte – l’isolamento della tecnologia come variabile di spiegazione materialista della storia, e la scarnificazione analitica dei processi che ruotano intorno ad essa – ma quello più discutibile, ovvero la diluizione di questo concetto in una blanda ricostruzione per cicli del movimento storico complessivo. 2 La tesi di Castells, in questo senso, è che il determinismo tecnologico sia un’opzione sbagliata, perché la tecnologia, essendo “interna alla società”, non può agire su di essa come un vettore di cambiamento [1996: 5]. Sui limiti di questa lettura, peraltro molto diffusa, rimando a Miconi 2009 e 2011.

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sfasature cronologiche e le sue ruvidezze, e, per quanto ci riguarda, l’asimmetria tra tecnologia e tempo sociale. E allora, proviamo a tirare una riga su questo sviluppo del pensiero di McLuhan, e ad innescare le premesse di un ragionamento diverso. 3. Su questa tentazione di una corrispondenza piana tra un mezzo e il suo tempo, ad esempio, insiste la critica di Asa Briggs e Peter Burke alle riflessioni di McLuhan ed Elizabeth Eisenstein [1983: 17-25] sulla “rivoluzione” della stampa. Secondo Briggs e Burke, infatti, una tecnologia per comunicare non è in grado di produrre effetti diretti e lineari sulla cultura del proprio tempo, ma va studiata in funzione del contesto in cui viene calata [Briggs e Burke 2000: 32-33], e in primo luogo, nello specifico, in considerazione dei limiti dell’alfabetizzazione e della persistenza di altri modi comunicativi - il brusio dell’oralità e la potenza dell’immagine - che hanno a lungo frenato il dispiegarsi della galassia Gutenberg [Briggs e Burke 2000: 39-47]. Niente di nuovo, intendiamoci: si tratta dell’ennesimo ritorno dell’obiezione originale di Raymond Williams, per cui il medium va considerato insieme ad “altri fattori causali” [Williams 1974: 33], e non isolato come ipotetico e traumatico vettore di cambiamento. “Contestualismo”, lo chiamano per parte loro Briggs e Burke, lo studio parallelo di una tecnologia e del suo ambiente sociale di diffusione, che, a differenza del “determinismo”

di

McLuhan,

può

cogliere

la

natura

incerta

e

rallentata

dell’innovazione, il disperdersi nel tempo degli effetti della tecnologia, la vicenda alterna ed ingarbugliata della stampa, i cui reali “mutamenti sono avvenuti lungo almeno tre secoli”, e non certo nel breve periodo di una causazione diretta [Briggs e Burke 2000: 32-33]. Eppure, al di là dei termini e delle dottrine di riferimento, siamo sicuri che si tratti di una correzione sostanziale, rispetto all’analisi di McLuhan? E’ davvero dalla Galassia Gutenberg, che nasce il grande equivoco di un certo grossolano determinismo, o magari dalla sua progressiva semplificazione discorsiva, perfino dalla sua diluizione nel senso comune, da quella che Peppino Ortoleva [2011: 207] ha definito recentemente come una diffusa forma di “mcluhanismo volgare”? “Un simile cambiamento non è mai così rapido o completo come si potrebbe supporre”, annota McLuhan proprio della lunga rivoluzione del libro [1962: 248], con un passaggio che farebbe felice gli storici della lettura; per osservare in seguito, dopo un riferimento più o meno pertinente alla grande intraprendenza di Robinson Crusoe, che “nella prima età della stampa la gente non aveva ancora acquisito” quella capacità di analisi e di 70


riflessione astratta che pure è in certo modo intrinseca alla sua cornice di senso. E ancora: per tutti i secoli XVI e XVII la trasformazione della meccanizzazione delle arti manuali attraverso l’impiego del metodo visivo era proceduta abbastanza lentamente. Ma era un modo di procedere che comportava il massimo di interferenza con i metodi non visivi esistenti. Nel secolo XVIII il processo di applicazione della conoscenza aveva raggiunto una tale quantità di moto che ormai veniva accettato come un processo naturale […] [McLuhan 1962: 352].

Lentezza dei processi, e “interferenza” continua tra il vecchio ed il nuovo: tutto quello che abbiamo codificato come obiezione a McLuhan, insomma, per certi versi è già dentro McLuhan. E qui, allora, sta la profonda ambivalenza della stampa (e forse, per estensione, la sua forza misteriosa in quanto medium): vista da un punto di vista teorico, contiene in sé la piena potenzialità dei suoi effetti culturali, mentre, misurata a livello empirico, deve attendere il lento modificarsi delle condizioni storico-sociali, per plasmare davvero il mondo a sua immagine. Una tecnologia non può che penetrare in profondità l’ambiente di vita dell’uomo, tanto da “permearlo fino a quando non ne ha saturato ogni istituzione”, si legge negli Strumenti del comunicare, e così ha fatto la tipografia, certo, ma niente meno che nel corso degli “ultimi cinquecento anni” [McLuhan 1964: 190], quelli del “mezzo millennio borghese” di Thomas Mann, che nella superficie del libro avrebbe trovato i suoi fondamentali momenti di legittimazione. E qui, in poche righe, McLuhan torna così a sovrapporre i due fuochi della questione - il mezzo, sì, ma anche il contesto - e a stringere una difficile comunione tra il breve respiro dell’innovazione tecnica e il tempo lungo del cambiamento culturale, che è, in fondo, il vero, grande problema della sociologia dei media. Restiamo al caso del libro, ancora. Che gli effetti della stampa si siano dispiegati lungo un arco temporale così lungo, per prendere corpo compiutamente solo nel XIX secolo, è dunque un’evidenza già nota a McLuhan, e questo, ha scritto Renato Barilli in quel saggio memorabile che è Scienza della cultura e fenomenologia degli stili, se da un lato “suona a maggior gloria del fattore tecnologico”, dall’altro, all’opposto, spinge quasi a “neutralizzarlo” in una “invariante”, a dissolverlo in una “persistenza indifferente di 71


fondo”, che “gli fa perdere incisività e potere illuminante”. Un paradosso già chiaramente leggibile nelle pagine di McLuhan, prosegue Barilli, che interviene a salutare rettifica circa una presunta onnipotenza dello strato culturale-materiale, e anche a ulteriore scongiuro verso i rischi del determinismo: le omologie tra tecnologia e cultura alta ci sono quando ci sono, rispettano cioè una logica di grandi appuntamenti epocali, e non declinano certo in un piccolo cabotaggio di riscontri automatici, quasi di riflessi condizionati; non si tratta insomma di trovare dei corrispettivi tra l’un ambito e l’altro ad ogni passo, di decennio in decennio, in modi ingenuamente meccanici e speculari [Barilli 1982: 70].

Più dubbio, e su questo sono meno d’accordo con Barilli, è che dal caso della cultura tipografica si possa estrarre una morale metodologica più generale: se gli effetti della stampa appaiono lenti, carsici, diluiti nella partitura dei secoli, questo non toglie che le conseguenze dei media elettrici possano essere invece improvvise, secche, in alcuni casi perfino brutali. Che i media hertziani insistano su una temporalità diversa rispetto a quelli meccanici, anzi, è cosa su cui McLuhan ha insistito spesso, dando pienamente corpo all’assioma portante della sua teoria: che il mezzo è il messaggio, e quindi ognuno agisce a modo suo sul tessuto della storia, operando lo strappo di una differenza di senso pur nella continuità delle funzioni sociali della comunicazione di massa. I media elettrici agiscono più velocemente di quelli meccanici, e passi: in fondo, siamo abituati da sempre a vedere la storia come un progressivo restringersi del circolo temporale del progresso, un avvitarsi a spirale delle orbite dell’innovazione. Ma c’è di più, a ben vedere: secondo McLuhan, infatti, i media elettrici non solo hanno effetti tendenzialmente più rapidi di quelli meccanici, ma non agiscono con la stessa velocità in tutte le culture sulle quali si infrangono. Molto chiaramente, per restare ad un esempio di scuola, McLuhan osserva così che le conseguenze della radio si depositano sul fondo del sistema con tempi non sempre prevedibili, e comunque variabili: più improvvisi,

precisamente,

nei

paesi

meno

vaccinati

dall’industrialismo

e

dall’alfabetizzazione di massa, e quindi destinati ad essere travolti dal richiamo tribale della prima trasmissione elettrica, e trascinati nei recessi culturali del nazi-fascismo [1964: 316]. La comunicazione elettronica avrà effetti più morbidi negli ambienti 72


altamente alfabetizzati - si legge ancora in Understanding Media, proprio accanto all’azzardata denuncia “dell’ignoranza del professor Lazarsfeld” - per assumere invece toni di maggiore “violenza” nei paesi in cui “l’esistenza sociale” è ancora “un’estensione della vita familiare”, a cui il fuoco arcaico ed intimo della radio si offre come immediato e istintivo prolungamento [1964: 318-319]. E ancora: tuttavia le cose cambiano moltissimo a seconda che un medium caldo sia usato in una cultura calda o in una cultura fredda. Un medium caldo come la radio, per esempio, usato in culture fredde e illetterate, ha un effetto ben diverso da quello prodotto, mettiamo, in Inghilterra o in America dove la radio è considerata una forma di svago. Una cultura fredda o a basso livello d’alfabetismo non può accettare media caldi come la radio o il cinema a pure titolo di svago. Essi diventano fatti radicalmente sconvolgenti come lo è stato il medium freddo della Tv per il nostro mondo ad alto livello d’alfabetismo [McLuhan 1964: 40].

Naturalmente, non è detto che McLuhan abbia sempre ragione, nello specifico di queste osservazioni; né, a dirla tutta, possiamo essere certi che il “gradiente termico” dei media sia uno strumento concettuale utile (né, tanto meno, un modello dotato di una sana coerenza metodologica). Eppure l’indicazione di fondo rimane chiara, per quello che qui ci interessa, e ripetuta più volte nel testo: gli effetti dei media dipendono anche dalle condizioni del sistema in cui agiscono, dalla sua cultura e dalla sua storia tecnologica precedente, dal suo grado di separazione dagli stadi primari dell’esistenza, e questo, ancorché declinato in modo tutto particolare, è un esercizio di contestualismo puro e semplice, con buona pace di Briggs e Burke. E qui, infine, sta la vera, grande lezione di McLuhan: il ricorrere una spiegazione materialista della storia, secondo l’esempio degli autori da cui colse la sua più forte ispirazione storiografica, Arnold Toynbee e Harold Innis. Certo, parliamo di uno schema di spiegazione tutto particolare, perfino di un “nuovo materialismo”, come l’ha definito in ambito diverso Fernand Braudel [1949: 949], che non insiste soltanto sulle condizioni di dominio sociale, come quello marxista, ma anche sul terreno sconfinato della vita materiale, sull’evoluzione delle tecniche, sulle strutture del quotidiano; su quella deformazione dell’esistente che i media operano, senza destino, senza progetto, 73


senza necessità alcuna, come in quello sciame impazzito di trasformazioni, di spinte e controspinte, di accelerazioni e rallentamenti, che la seconda parte di Understanding Media ha cercato di rendere con mimetica caoticità. Se allineata a questa prospettiva materialista, un’ultima, tarda lettura del vecchio McLuhan – magari l’ultima davvero, un istante prima che venga il tempo di abbandonarlo allo scaffale dei classici – può dare ancora qualcosa, io credo, alla scienza dei media.

Riferimenti bibliografici

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Fashion is the medium. Attualità di McLuhan tra moda, culture giovanili e nuove forme di protagonismo digitale. Nello Barile

Quando si fa riferimento all’opera di M. McLuhan, in pochi sono portati ad associare questo grande pensatore a un mondo e a un filone di ricerche che invece deve molto alla sua lungimirante produzione. Mi riferisco al mondo della moda e all’insieme di teorie e di ricerche che vanno sotto il nome di fashion studies. Nonostante la sua sostanziale estraneità al settore e la sua indifferenza nei confronti di sociologi che hanno affrontato ben prima di lui l’analisi dei fenomeni di moda, a ben vedere il grande massmediologo canadese - di cui il mondo ha recentemente celebrato il centenario della nascita - ha parlato di moda in varie circostanze. Anzi, è possibile sostenere che la sua visione sia impregnata completamente di quelle che sono le regole di funzionamento del sistema moda, tanto che potremmo quasi individuare due principali livelli in cui s’articola la riflessione mcluhaniana: A) quello macrosistemico; B) quello più specificamente tecnico. Il primo livello d’analisi riflette su macroprocessi e su grandi cicli governati dall’innovazione, nonché sulle caratteristiche specifiche di un dato “medium” che condotte sino alle estreme conseguenze, superano il limite di rottura e impongono un nuovo assetto sistemico. Nel secondo livello d’analisi invece prevalgono le due concezioni economico/biologica e antropologica, che oscillano intorno al concetto di “packaging”, inteso appunto come sistema di conservazione energetica versus mezzo che comunica una certa identità sociale.

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Fig. 1: Rapporti tra i livelli tecnico/sistemico e biologico/antropologico nella concezione della moda di M. McLuhan

1) La visione che il mediologo appronta in Understanding media (1964) può essere comparata, nella sua sintesi essenziale, al funzionamento dei processi della moda, come esso è stato descritto da storici, sociologi e antropologi. Tale visione caratterizza principalmente il punto di vista di P. Sorokin ma ancor di più la generale sistematizzazione operata dallo storico inglese H. Toynbee, da cui McLuhan ricava parecchie suggestioni e soprattutto l’idea di un passaggio da forme comunicative obsolete, verso l’avvicendamento di nuovi assetti tecnici, organizzativi e culturali. In Toynbee tali progressi sono l’effetto dell’innovazione apportata da alcune “minoranze creative” che hanno il compito di traghettare le civiltà verso stadi di sviluppo superiori1. Alla base di quelle analisi e a diretto contatto con la visione complessiva dello sviluppo tecnologico da parte di McLuhan, troviamo un andamento ciclico che, seppur in modo diverso, dimostra come i vari stati della civilizzazione siano caratterizzati da un processo di ascesa-declino dei modelli dominanti in una data società. In tal senso McLuhan semplifica drasticamente il punto di vista di questi autori costruendo una visione dello sviluppo storico che è fondamentalmente triadica. Ad essa aggiunge 1

“Le nuove grandi forze sociali della democrazia e dell’industrialismo sono state suscitate da una ridotta minoranza creatrice, e la grande massa dell’umanità rimane ancora sostanzialmente a quello stesso livello intellettuale e morale a cui stava prima che le nuove titaniche forze sociali cominciassero ad emergere. Di fatto, la principale ragione per cui questo cosiddetto «sale della terra» occidentale corre, oggi, il pericolo di perdere ogni sapore, è perché la grande massa della società occidentale non è ancora salata” (Toynbee 1950, p. 284).

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un’idea molto più netta di ciclo – come vedremo forse più vicina al punto di vista di Sorokin – che non solo rappresenta una fase di consunzione e di perdita d’energia, conseguente al raggiungimento del picco, ma che indica anche un continuo ritorno del passato. Anzi, dopo aver accentuato gli aspetti più radicali di distacco da ciò che c’era prima, il nuovo ciclo prepara l’avvento di un nuovo regime in cui il passato non è più rinnegato, bensì ripristinato in forma diversa. Un tempo l'intensificazione del traffico dovuta all'avvento del denaro e delle strade aveva posto fine alla condizione tribale “statica” (come Toynbee definisce la cultura nomade dei cacciatori raccoglitori). E' tipico del capovolgimento che si verifica al limite di rottura il paradosso secondo il quale il mobilissimo nomade, cacciatore, raccoglitore, è socialmente statico, mentre la cultura dell'uomo sedentario e specializzato è dinamica, esplosiva e progressiva. La civiltà magnetica o città mondiale sarà statica e iconica, vale a dire omnicomprensiva (McLuhan 1964, p. 40).

Alla base di questo movimento ciclico, che ritorna inaspettatamente su se stesso, troviamo un concetto indispensabile per comprendere il pensiero di questo grande autore, come anche l’essenza stessa dei processi della moda. Tale concetto è ripreso principalmente da alcune riflessioni sulla fisica quantistica di Bohr e Heisenberg, ma la sua schematizzazione è riferibile a una serie molto più estesa di fenomeni che vanno dallo sviluppo tecnologico alla successione delle tendenze culturali e di consumo. Si tratta di ciò che l’autore definisce “limite di rottura”2, recuperando la definizione di Kenneth Boulding, ovvero il momento in cui il sistema “muta bruscamente in un altro e supera nel suo processo dinamico il punto dal quale non è più possibile tornare indietro” (ivi, p. 48). Tale concetto indica il livello in cui l’espansione di un dato processo tecnologico e culturale raggiunge un tale livello d’intensificazione, al di là del quale esso tende a consumarsi per diventare l’opposto di ciò che era. Questa idea è molto vicino ad alcuni schemi della teorie dei sistemi e della cibernetica, ma prelude anche ad alcuni modelli del marketing a differenza dei quali essa non contempla tanto la consunzione - ovvero la perdita di energia del vecchio processo che lascia il posto al nuovo - quanto piuttosto una concezione più radicale, secondo cui l’intensificazione del 2

“Il principio secondo il quale, nella fase dello sviluppo, ogni cosa appare in forma opposta a quella che finirà per assumere è piuttosto antico. L'interesse per la capacità che hanno le cose di capovolgersi nel corso della loro evoluzione appare con evidenza da tutta un serie di osservazioni, gravi o scherzose” (McLuhan 1963, p. 44).

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fenomeno precedente tende a stressare il sistema, al punto tale da farlo reagire con una sorta di crisi di rigetto. L’avvento del nuovo è pertanto inteso come qualcosa di diametralmente opposto a ciò che immediatamente lo precedeva. Questa specifica idea di obsolescenza, successivamente formalizzata nello schema della tetrade (McLuhan, McLuhan 1988), non indica solo l’abbandono di vecchie forme in favore delle nuove – il che lo renderebbe tipicamente industrialista e analogo allo schema elaborato da J. E. Calkins (Ewen 1988), ma che il passaggio da una vecchia “moda” a una nuova indica un salto, o meglio un’oscillazione tra polarità. Come nel passaggio dalla condizione tribale/orale a quella alfabetica, così anche al limite del processo di meccanizzazione e di geometrizzazione dell’abito, la società si prepara ad affrontare un nuovo salto che la proietta al di là del presente, in una forma di capovolgimento delle condizioni iniziali che sfiora il paradosso. La dinamica del limite di rottura indica il modo in cui l’intensificazione e la saturazione di un mezzo, preparano l’avvento di un nuovo mezzo o di una forma culturale a esso associata, le cui caratteristiche sono opposte a quello precedente. Dopo essere esploso per tremila anni con mezzi tecnologici e frammentari, il mondo occidentale è ormai entrato in una fase di implosione. Nelle ere della meccanica, avevamo operato un’estensione del nostro corpo in senso spaziale. Oggi, dopo oltre un secolo di impegno tecnologico dell’elettricità, abbiamo esteso il nostro sistema nervoso centrale in un abbraccio globale che, almeno per quanto concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo quanto lo spazio (ivi, p. 129).

La traduzione delle idee microfisiche e sistemiche nei termini di una sociologia della cultura fa sì che il modello elaborato da McLuhan assomigli molto a quello del sociologo della cultura P. Sorokin. Quest’ultimo fornisce al mediologo canadese lo schema basilare di una visione sistemica. Se Toynbee è certamente famoso per la descrizione dell’avvicendamento delle civilizzazioni in funzione di curve a campana che indicano lo sviluppo delle grandi civiltà della storia, Sorokin si spinge ancor più in avanti alla ricerca delle leggi che regolano il mutamento delle civiltà e delle culture, giungendo a formulare una definizione teoretica e omnicomprensiva della moda. Al di là della più celebre tripartizione dello sviluppo storico in base all’avvicendamento di una mentalità ideazionale, idealistica e sensistica, lo studio di Sorokin sul valore culturale dell’idea di tempo perviene a una schematizzazione molto simile a quella 80


fornita da McLuhan. Addirittura tale ricognizione storica utilizza alcuni indicatori che sono classificati attraverso cifre e che indicano il passaggio tra tre principali stadi di sviluppo, in base la valore del tempo: quello temporalistico, quella eternistico e quello misto. I dati raccolti dall’analisi storica consentono allo studioso di elaborare un istogramma nel quale sono riscontrabili le fasi di crescita e decrescita delle dimensioni citate nonché un punto di equilibrio di entrambi.

Fig. 2: Sintesi della ricerca di P. Sorokin sulle fluttuazioni tra le culture temporalistiche a quelle eternistiche

Se la prima forma è quella che contraddistingue il pensiero della comunità, ovvero di forme organizzative relativamente semplici in cui è impossibile intravedere una traccia di individualismo3, nella seconda trionfano i valori che sono costitutivi della modernità occidentale e che si ricollegano a vari livelli al valore guida che anima lo sviluppo dall’economia e dalla tecnica: il cambiamento. In quella che può essere letta come una formidabile analisi nei termini della sociologia dei consumi, Sorokin dimostra che la predilezione dell’uomo moderno verso prodotti e stili di vita mutevoli è la premessa stessa del declino della mentalità temporalistica, che raggiunge un punto di elevata esposizione proprio nel periodo che l’autore può osservare con i suoi occhi. Ad essa dovrebbe succedere una nuova mentalità eternistica. Queste cifre scarne a modo loro ci forniscono più di un elemento significativo. Esse mostrano che la nostra mentalità è divenuta sempre più "temporalistica": e coglie sempre meno gli

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Sulla relazione diretta tra affermazione storica dell’individualismo e diffusione della moda, insiste particolarmente G. Lipovetsky (1987).

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aspetti eterni e durevoli della realtà e sempre più gli aspetti transitori e passeggeri. Prima conseguenza di ciò è lo sviluppo di concezioni dinamiche della nostra mentalità[…] Tutto quanto è visto in uno stato di flusso, di mutamento continuo. Termini quali “essenza” o “natura immutabile” sono considerati con sospetto, stigmatizzati come “scolastci” o “metafisici” (Sorokin 1941, p. 499). Le categorie di “origine, sviluppo ed evoluzione” sono per noi le categorie fondamentali nello studio di qualsivoglia soggetto, dalla religione alla borsa valori (ivi, p. 503). Un’ulteriore conseguenza del temporalismo è la continua accelerazione dei tempi della nostra vita e il ritmo sempre più rapido del mutamento sociale. Il ritmo del mutamento ha ormai raggiunto una velocità pazzesca (ivi, p. 504). In questa corsa sfrenata la nostra età temporalistica divora i propri figli…Il nostro desiderio di avere sempre “l'ultimo ed il più nuovo”, rasenta ormai quasi la follia (ivi, p. 505).

Dopo tali premesse l’autore può giungere alla formulazione e all’applicazione di quella stessa idea di “limite di rottura” che ha sedotto anche lo studioso canadese, rispetto alla quale la definizione proposta da Sorokin sembra essere ancor più pertinente per spiegare la dinamica della moda contemporanea. La cultura temporalistica cui noi apparteniamo riduce in polvere relativistica i propri valori […] si divora da se stessa e prepara la propria distruzione. Essa si fa sempre più impossibile, avvelenante e mortifera, aprendo così la via al proprio declino ed all’ascesa della mentalità eternistica (ivi, p. 507).

Anche se non completamente, la coppia eternismo-temporalismo risulta essere sovrapponibile alla più celebre dicotomia tra il tribalismo e la meccanizzazione. La Galassia elettrica, invece, corrisponde a quello che per Sorokin può essere inteso come un “eternismo di ritorno” (ciò che W. Ong chiamerebbe invece “oralità secondaria” o “di ritorno”). Inoltre se Sorokin individua una fase “cuscinetto” nel passaggio tra le due – ovvero l’epoca in cui le due modalità coesistono in un regime “misto”- la visione di McLuhan è molto più radicale e si fonda su drastiche discontinuità. Grazie al parallelo tra questi due autori ho fin qui provato a definire gli aspetti salienti della sociologia della moda di McLuhan nel suo livello macro-sistemico. Già ne La sposa meccanica (1951) lo studioso intraprende una discesa dalla generalità sistemica verso una maggiore penetrazione dell’immaginario ad egli contemporaneo: il folclore consumistico dell’America negli anni cinquanta. Anche qui è possibile rinvenire una concezione della moda diluita in altri linguaggi espressivi, tanto che il riferimento ad 82


abiti o a stili di vita del suo tempo è quasi sempre filtrato dall’analisi dei messaggi pubblicitari. Ancor di più, al contrario di quanto ci si poterebbe aspettare dal titolo, in Understanding media troviamo un XII capitolo intitolato “Clothing Our Extended Skin”, che colloca in maniera esplicita la questione dell’abito all’interno di una più generale teoria sull’evoluzione dei media. Si badi bene “Abbigliamento come seconda pelle”, e non moda. L’analisi dello studioso canadese si dirige verso l’unità più essenziale e circoscritta della sociologia della moda e va a riflettere sulla natura del mezzo: l’abito. In quel capitolo, si affronta la moda come un epifenomeno di processi economici e comunicativi più estesi, ovvero la questione dell’abito da una prospettiva prettamente funzionale ed energetica. Gli economisti hanno calcolato che una società non vestita mangia il 40 per cento in più di una società abbigliata all’occidentale. Il vestiario, in quanto estensione della nostra pelle, aiuta a immagazzinare e a incanalare le energie, sicché l’occidentale può aver bisogno di meno cibo, ma può anche chiedere più sesso (ivi p. 129)

2) Il focus dell’analisi è slittato da un livello macrosistemico a uno più specificamente tecnico. La funzione primaria dell’abito come mezzo è specificamente protettiva e di conservazione del suo contenuto. L’idea che viene qui elaborata è indirettamente assimilabile a una tecnica che ha consentito lo sviluppo della logistica in seno al capitalismo industriale, per facilitare la protezione e il trasporto delle merci. In altri termini la funzione dell’abito come involucro che conserva energia è assimilabile a quella del packaging contemporaneo, come lo ha discusso più recentemente P. Virilio4 nella presentazione dell’opera dell’artista anglo-francese L. Orta (fig. 3): la combinazione di protezione del contenuto e di comunicazione di un’identità (Virilio 1996; Barile 2006). Dal canto suo McLuhan non parla esplicitamente di abito come packaging del corpo umano, ma di “container” e suggerisce indirettamente che questo arcaico dispositivo di conservazione possa evolvere e, in una fase di crescita della

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“Lucy's clothes emancipate themselves, expand to try to become a house, a pneumatic raft ... The garment becomes more than mere clothing ; it is a vehicle, a survival vehicle certainly but also a vehicle which protects against anonymity. Furthermore, like packaging, these clothes are covered with text. Their new role is to convey information. Sandwich men used to advertise, but here the message is of a different nature. Lucy Orta's work seeks to disturb us, to attract us inexorably, like packaging attracts customers, towards problems that are continually avoided nowadays…” (Virilio 1996).

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complessità sociale, svolgere una funzione comunicativa ovvero di costruzione e di espressione di una precisa identità sociale.

Fig. 3: Una delle creazioni di L. Orta che P. Virilio legge attraverso il concetto di packaging

Dal livello puramente tecnico-funzionale si passa a un livello antropologico e simbolico, in cui l’abito deve rendere riconoscibili i codici di appartenenza a una certa casta, classe, posizione sociale ecc. Il vestiario, in quanto estensione della pelle, può essere visto come un meccanismo per il controllo della temperatura o come un mezzo per definire socialmente la persona (ivi, p. 129). McLuhan non specifica in questa fase a quale periodo storico faccia riferimento il suo discorso, ma certamente l’apogeo di tale caratteristica segnaletica dell’abito è riferibile alla rivoluzione francese che smantella una gerarchia di potere impostata su determinati principi e regole e ne istituisce una nuova, che si pone diametralmente agli antipodi di quella precedente. Anche qui, la riflessione a cui perviene l’autore non è quella raffinata dello storico o del sociologo, ma è molto più schiacciata su grandi cambiamenti che hanno modificato ineluttabilmente il corso degli eventi storici. Va detto che il mediologo non conosce i passaggi fondamentali attraverso cui è evoluto il sistema moda e neanche l’epopea dei grandi artisti o l’evoluzione dei vari modelli imprenditoriali, ma in queste poche pagine esprime una potente intuizione che gli consente di mettere in collegamento il livello tecnico d’analisi con quello macrosistetemico. 84


La macchina da cucire creò la lunga linea dritta degli abiti, negli stessi modi in cui linotype appiatti lo stile del discorso (p. 130).

Il parallelo tra la macchina da cucine e la linotype apre la possibilità d’inserire l’evoluzione dell’abbigliamento nella più generale concettualizzazione sullo sviluppo dei media e, nella fattispecie, sul passaggio dalla galassia alfabetica a quella elettrica. La linea dritta della macchina da cucire sarebbe in grado di uniformare il discorso dell’abito come la linotype ha fatto con il discorso vero e proprio. L’industrializzazione dei modi di produzione della moda rappresenta non solo una decisiva innovazione di carattere commerciale, ma soprattutto un rivoluzionario cambiamento estetico e culturale. La tipografizzazione della linea dell’abito è difatti associabile non solo alla forma semplificata, rigorosa e operativa della divisa borghese ma anche a quella ancor più minimale e standardizzata della tuta dell’operaio. Sebbene McLuhan non abbia a disposizione tale riferimento, a me pare che la tuta dell’artista anglo-fiorentino Thayaht sia particolarmente rappresentativa del modo in cui la meccanizzazione industriale ha ridefinito la forma dell’abito al servizio della logica efficientista che ispira tutta la società dell’epoca.

Fig. 4: La tuta riprodotta dal futurista Thayaht che traduce in design l’ossessione grafica dell’artista per la lettera T

La forma a T della tuta - riproposta nell’ossessione palindroma del nome dell’artista e dello slogan con cui promuoveva la sua creazione “tutt’in tuta”(Barile 2011) – è in 85


effetti uno stilema dominante della società industriale e di massa, dalla famosa Ford modello T alla diffusione più recente della T-Shirt. Dalla riflessione sulle caratteristiche tecniche dell’abito si passa a una concezione più generale che investe lo stesso rapporto tra la meccanizzazione indotta dalla stampa a caratteri mobili e gli effetti dell’organizzazione fordista, intesa come appunto meccanizzazione dell’intero corpo sociale. Anche in questo caso interviene la legge del limite di rottura che regola il passaggio da uno stadio all’altro, o il salto da una certa forma tecnologica alla sua versione più avanzata. Il capitolo sull’abito pare esaurire la sua capacità di cogliere il rapporto tra un livello meramente tecnico e uno più sistemico che invece sarà individuato in uno scritto successivo. Mi riferisco a un formidabile articolo che l’autore ha pubblicato sulla famosa rivista di moda Harper’s Bazar, dal titolo Fashion is the language. L’incipit di questo articolo e la sua stessa struttura sono simili al capitolo già discusso. Si parte da una prospettiva storica che in questo caso esplicita la differenza tra l’uomo primitivo relegato in una dimensione tribale e quello alfabetizzato. Se il primo è gettato in uno stato di natura che si fonda sulla stretta integrazione con l’ambiente in cui sia uomini che donne “sperimentano una mistica della partecipazione”(ivi, p. 207), nel caso dell’uomo alfabetizzato si acuisce la differenza tra la concezione del corpo maschile e di quello femminile. Mentre il primo è stato praticamente rimosso dall’esperienza quotidiana affinché fosse visibile solo nelle occasioni di piacere e di dolore, il corpo femminile fu sin dall’inizio dei tempi “misterioso”, sodo ma “ripieno di uno spirito tremulo”, mentre l’attrazione erotica “non era suscitata dal suo corpo in quanto corpo, ma da quello spirito misterioso che lo permeava”(ivi, p. 209). In queste pagine è chiaro il riferimento ai modi in cui la costruzione del corpo varia nel passaggio dall’epoca prealfabetica alla Galassia Gutenberg. Già in Understanding media la riflessione del mediologo tendeva a mescolare un registro sobrio e analitico con uno stile provocatorio e oracolare, nel tentativo d’individuare da un lato le linee di tendenza che indicano l’evoluzione del costume nei suoi contenuti specifici; dall’altro di dedurre questi ultimi dal livello macro della teoria che presuppone la discontinuità tra le due epoche. L’enfasi posta dai processi di meccanizzazione sulla definizione tipografica dell’abito, avrebbe pertanto decretato il tramonto di quel “paradigma” e preparato l’avvento di una nuova visione e, dunque, di uno stile vestimentario del tutto diverso da quello precedente. Questa nuova epoca 86


celebra un ritorno prepotente della natura e della sua traduzione diretta nelle pratiche del vestire. A sostegno di questa tesi suggestiva lo studioso canadese adduce un argomento effimero e forse non del tutto convincente. Per questa ragione oggi ci è particolarmente facile riconoscere nel vestiario un’estensione della pelle. Nell’epoca del bikini e della pesca subacquea, incominciamo a capire che “il castello della nostra seconda pelle” è uno spazio e un mondo autonomo. Sono finite le mozioni dello striptease. La nudità può essere fonte di un’eccitazione lasciva soltanto per una cultura visiva che si è isolata dai valori tattili di società meno astratte (McLuhan1997, p. 131)

La nuova moda che contraddistingue l’era elettrica sarebbe dunque votata al culto di una nudità secondaria o “di ritorno”. Oltre alle figure pittoresche della donna in bikini e dell’uomo con la tuta da sub – che in effetti rievocano sia un certo immaginario televisivo sia un nuovo stile di vita legato alla centralità del turismo-balneare – nell’articolo su Harper’s Baazar, McLuhan torna sulla questione per includere in tale macrotendenza anche fenomeni più connotati culturalmente, come ad esempio la minigonna. La minigonna è un ritorno alle antiche tradizioni tribali, non semplicemente una moda. Anche gli uomini possono adottarla: il kilt tribale, sopravvissuto nell'uniforme del valletto, fu già l'abito da riposo di guerrieri (McLuhan 2003, p. 214).

Il fenomeno della minigonna è qui letto come il punto di connessione tra il ritorno della nudità secondaria e la più generale diffusione di nuove forme di tribalismo. Come ad esempio il Kilt che da un latro rimanda alla tradizione tribale scozzese e dall’altro anticipa la famosa invenzione di J. P. Gaultier, quando negli anni Ottanta rilanciò tale elemento non tanto per esprimere una nuova tribalità, quanto piuttosto per mettere in discussione i confini delle distinzioni di gender. Ancor più impressionante in queste pagine è la capacità di cogliere, al confine tra innovazioni mediali e nuovi stili di vita, alcune tematiche che, a distanza di molti anni, sono diventate centrali nella sociologia dei consumi. Mi riferisco al tramonto del consumo di massa in cui la moda sembra rivestire un ruolo centrale.

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La moda è stata obbedienza a una forma pubblica. L'individuo alfabetizzato indossava l'uno o l'altro tipo di vestiario semplicemente perché si faceva cosi. Da parte di tutti. Non perché lo voleva, non per sua ispirazione personale, ma semplicemente perché era quello che facevano tutti (ivi, pp. 213-214).

In queste pagine è sorprendente la capacità dell’autore di intuire la transizione dalle vecchie regole del sistema moda alle nuove, ma anche il modo in cui questa lungimiranza si scontri con un pregiudizio ereditato dalla tradizione patriarcale che ascrive al maschile la capacità produttiva mentre relega il femminile nella sua dimensione più propria che è quella del consumo. Nonostante l’ossessiva ripetizione del binomio donna-moda, McLuhan riesce a cogliere il sostanziale slittamento dall’epoca in cui prevale una moda impositiva, imitativa e massificata (appunto “alfabetica”), verso un nuovo assetto in cui prevale l’istanza di emancipazione e di auto-espressione, contro i vecchi diktat dell’impero dell’effimero. La moda non è più dettata dall'esterno; non ci si aspetta più che le donne si uniformino a regole esterne. L'abbigliamento non è più un imballo, un container. È diventato un'estensione della nostra pelle, del nostro carattere intimo. Ora ogni donna può prendere la propria posizione, affermare la propria identità. Non deve essere al passo «con i tempi»: ella crea il proprio tempo (ibidem).

Qui in un sol colpo il grande mediologo canadese riesce a mettere in sistema una serie di modificazioni che hanno interessato tanto i Fashion Studies quanto le nuove correnti del marketing. La moda in generale non è più un processo massificato, ma un momento di esaltazione della diversità dei suoi utilizzatori, dunque tanto decantata figura del “nuovo consumatore” è già tratteggiata nelle sue linee essenziali. Inoltre l’abito non è più, come si è detto prima, un “container” o meglio il packaging del corpo ma un’estensione della pelle e della sensibilità di chi l’indossa, ovvero del suo “carattere intimo”. Anche in questo caso sarebbe forse eccessivo collegare tale discorso alla ben più recente disamina di E. Illouz sulle trasformazioni dell’intimità attraverso l’evoluzione delle società moderna, ma il nesso tra moda, media ed esteriorizzazione del “capitale emozionale” (Illouz 2007) è certamente una linea di ricerca da approfondire. Infine il passaggio dall’essere “al passo con i tempi” alla creazione del proprio tempo, estende il discorso sul mero consumo alla costruzione sociale di una categoria 88


fondamentale come quella del tempo. Si potrebbe dire semplicemente che questo passaggio dal tempo collettivamente imposto a quello individualmente gestito prepara l’avvento della moltitudine, ovvero la disarticolazione del sistema lascia emergere le diversità puntuali, identitarie, locali e personali ecc. Sempre nello stesso articolo si concedono poche righe a una questione, o meglio a una categoria che è oggetto d’interesse in vari testi pubblicati dallo studioso. Mi riferisco ai giovani su cui si insiste per via del loro modo di vestire “trasandato” che è sinonimo di “modesto, semplice comodo”(ibidem) ma anche indicativo della capacità del teen-ager di opporsi agli schemi vestimentari degli adulti (alfabetizzati), nel tentativo di ricostruire uno spazio di autonomia all’interno del quale “molti adolescenti creano da sé il proprio abbigliamento” (ibidem).

Il tema delle culture giovanili ritorna in diversi lavori di McLuhan, a dimostrazione di un interesse che, in alcuni casi riesce a integrare una riflessione postuma e ben più sistematica di altri studiosi (in particolare dei Cultural Studies), con intuizioni riduzionistiche ma illuminanti. Se per vari motivi McLuhan non può intravedere la categoria e il fenomeno della sottocultura, agli studiosi che l’hanno adottata egli può certamente suggerire alcune utili integrazioni che, in alcuni casi, rappresentano vere e proprie chiavi di spiegazione. Così se Hebdige ha spiegato l’avvento delle sottoculture inglesi attraverso una chiave interna alla dimensione sociologica, ovvero riferendosi ai flussi d’immigrazione provenienti dai Caraibi, McLuhan non può che proporre un’interpretazione molto più astratta e tecnologica. Così in Dal Cliché all’archetipo, la causa che determina la formazione della gioventù spettacolare, è rintracciata nel lancio del satellite Sputink che all’epoca ha rappresentato un evento cruciale per l’immaginario della Guerra fredda, ma che è letto in questo caso come metafora più estesa della crescente estetizzazione della vita urbana e dell’emersione di nuove forme di protagonismo dal basso. Dall’epoca dello Sputnik e dei satelliti, il pianeta è stato circoscritto in un ambiente costruito dall’uomo che pone fine alla «Natura » e che trasforma il globo in un teatro da repertorio che va programmato. Shakespeare che al Globe enunciava « Il mondo non è che un palcoscenico, e tutti gli uomini e le donne soltanto attori» (Come vi pare, atto 1.1, scena 7) è stato giustificato dagli eventi più recenti in una quantità di modi che lo avrebbero colpito in quanto assolutamente paradossali. Vivere sotto l’arco di proscenio dei satelliti porta i giovani ad accettare ora i luoghi

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pubblici di questa terra come spazi teatrali. Avendo questa sensazione, adottano costumi e ruoli e sono pronti a fare « il loro gioco » ovunque (McLuhan 1994, p. 9).

L’idea suggestiva di un occhio posto al di là dell’atmosfera che induce a vedere la propria vita attraverso un punto di vista esterno e più astratto, ricorda certamente la visione cristiana come anche alcune teorie più recenti sul controllo e la società disciplinare. In questo caso, però, prevale una concezione olistica e panica che innesca, all’interno dei protagonisti dei nuovi “palcoscenici” urbani, una sorta di strana euforia. Anche se in una condizione sociale e comunicativa del tutto diversa, questa euforia somiglia molto a quella che oggi pervade il nuovo web e che esorta alla manifestazione di nuovi protagonismi. Ancora sul rapporto tra Tv e culture giovanili, sempre lo studioso interviene per sottolineare il processo paradossale in base al quale la controcultura americana sia figlia illegittima della diffusione della Tv e dei microfoni e di altre device dell’epoca elettrica (McLuhan 2002, p. 135). Come spesso accade nei confronti di McLuhan, le sue presunte predizioni dividono gli studiosi e i lettori, tra coloro che sentono nelle sue affermazioni il senso di qualcosa che è contemporaneo e altri che, invece, riconducono tale effetto al carattere oracolare della sua scrittura. Senza dover necessariamente essere sedotti dall’idea di un McLuhan “Nostradamus”, vanno considerate con assoluto disincanto quelle intuizioni che, in ultima analisi, sembrano davvero anticipare gli effetti sociali dei nuovi media. Questo forse solo perché McLuhan è capace di sviscerare la natura dei vecchi medium e, così facendo, ci consente di cogliere quella che potremmo definire una “re-mediation” retrodatata o implicita, ovvero ciò che i vecchi media hanno essenzialmente in comune con i “nuovi”, tanto che “i media elettrici appaiono qualcosa di più di un’approssimazione dei media digitali: piuttosto una prefigurazione”(Cristante 2002, p. 74). Così, ad esempio, parlando delle affinità elettive tra Tv e cultura americana, egli non fa altro che sviscerare quel nodo che, nell’ultimo decennio, è diventato il tema dominante della riflessione sui social media. Laddove i nordamericani avevano due piani distinti per la vita individuale e sociale, la televisione ha capovolto la situazione: l'esteriorità è arrivata nelle nostre vite sociali, mentre la nostra vita sociale è diventata di pubblico dominio (McLuhan 2002, p. 131).

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Un argomento per noi d’urgente attualità, come la soppressione dei confini tra vita pubblica e privata, era già tematizzato nella descrizione degli effetti del mezzo televisivo sui costumi degli Americani. L’affinità tra un tema che diventa scottante all’epoca del 2.0 e la sua definizione nell’ambito della società e della cultura di massa, ci suggerisce la possibilità di riflettere su altri quesiti dello stesso tipo. Come ha recentemente fatto notare S. Cristante (2010), in un saggio dedicato alla vocazione mistica di McLuhan, quando evidenzia l’affinità tra alcuni concetti portanti della mediologia mcluhaniana e alcune recenti tendenze imposte dall’innovazione tecnologica. Tra queste, la categoria toffleriana di prosumer e quella castellsiana di auto-comunicazione di massa, ci consentono di riallacciare al nostro tempo anche il discorso sulla moda. In questo passaggio McLuhan è già dentro l’autocomunicazione di massa, oppure, se si preferisce, già oltre l’orizzonte televisivo. L’idea di un teatro globale rinvia a evocazioni più simili a un social network che a un programma televisivo e, soprattutto, la suggestione della ricerca di informazioni rinvia a una compiutezza elettrica che solo il mondo digitale condiviso (i motori di ricerca) sarà in grado di esplicitare. McLuhan presupponeva questo processo già all’interno dei media broadcast, mentre la grande maggioranza degli studiosi degli anni sessanta e settanta del Novecento non vedevano nella tv che un deserto cognitivo, affettivo, esistenziale. McLuhan non prende in considerazione questi argomenti: per lui i nuovi e giovani fruitori dei media elettrici si trovano coinvolti in una contemporaneità onnicomprensiva di cui l’immagine tattile della tv, attraverso la sua disposizione a mosaico, è l’emblema (ivi, p. 71).

Cristante commenta un passo diverso ma molto affine a quello che ho qui discusso sul lancio dello Sputnik e sulla conseguente spettacolarizzazione della gioventù urbana. Ma il senso di questa analisi è anche utilizzabile per condurre verso il presente le riflessioni del Mediologo sul fenomeno moda. Oggi difatti la moda, intesa come sistema di costruzione simbolica e di promozione di determinate identità sociali, è in chiara competizione con altri strumenti che sfruttano la potenza comunicativa del web, ma anche con altre risorse più “morbide”, che sfruttano “gli asset del capitalismo emozionale, esperienziale e relazionale per costruire nuovi profili identitari”(Barile 2010, p. 88). La nuova moda pertanto entra da un lato in competizione con questi mezzi immateriali e decisamente più potenti, dall’altro si integra con essi tramite due specifiche modialità: quella che va dalla strategia alla tattica, ovvero dalle aziende alla 91


vita concreta dei consumatori e viceversa quella che va dalla tattica alla strategia, ovvero dalla singolarità di un profilo esistenziale alla sua promozione tramite social media. Non a caso uno studioso critico come L. Siegel (2008), ha intitolato “me is the message” (sulla scia del mcluhaniano “medium is the message”), il capitolo del suo libro dedicato all’analisi dei modi in cui i social media ci consentono di “impacchettare” le nostre identità (appunto self-packaging). Il selfpackaging di Siegel non è altro che l’auto-comunicazione di massa spostata dall’analisi infrastrutturale a quella del contenuto, ovvero del profilo psicologico e identitario degli users. Tale analogia edifica un ponte tra il passato e il presente e ci consente di colmare il gap esistente tra la lungimiranza di McLuhan nell’analisi dei media e l’impossibilità di approfondire il suo discorso sulle tendenze future della moda. Per tale motivo potrebbe essere d’assoluto interesse proseguire nel solco di tale analisi, al fine di sviscerare la relazione sempre più intima tra moda e new media. Del resto è capitato anche recentemente che una persona del tutto estranea alle logiche di funzionamento del sistema moda, fosse in grado di rivoluzionare quell’immaginario, costringendo creativi, pubblicitari e manager a confrontarsi con l’innovazione tecnologica incipiente. Mi riferisco alla biografia di M. Zuckemberg, rappresentata da D. Fincher in The Social network (2010). Una formidabile invenzione che, nascendo dalle vicissitudini e dallo sfondo esistenziale del suo ideatore, si presenta sin dalle origini come un mix esplosivo tra il rigore algoritmico degli ingegneri informatici di Harvard e la frivolezza dello stile di vita dei giovani universitari americani. Da discorsi banali come “chi mai si scriverebbe ‘fidanzato’ sopra una maglietta”, nascono le fondamenta di un modello relazionale e di un dispositivo che è al contempo di svago e di controllo. È illuminante il momento in cui il protagonista, descritto come un nerd che veste in jeans e flip flop, confrontandosi con il suo socio e cofondatore, parla del futuro di Facebook che deve cambiare continuamente, proprio “come la moda”. Caustica la risposta del suo amico, che agghindato nello stile proprio dei pubblicitari di Madison Avenue, replica: “…ma cosa sai tu della moda?”. Ecco, la stessa domanda andrebbe posta al grande mediologo canadese, in attesa di una sua risposta spiazzante, ma certamente in linea con le tendenze future.

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Riferimenti bibliografici Barile, N., Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda, Vol. II, Moda e stili, Roma, Meltemi, 2006. Barile, N. “Network come neotot. La socialità in rete e gli avamposti di un nuovo fascismo emozionale”, in Web 2.0, un nuovo racconto e i suoi dispositivi, a cura di Formenti, F., Aut Aut, n. 347, Luglio-Settembre 2010. Cristante, S. “McLuhan mistico della rete”, in Web 2.0, un nuovo racconto e i suoi dispositivi, a cura di Formenti, F., Aut Aut, n. 347, Luglio-Settembre 2010. Even, S., 1988, All Consuming images, The Politics of Style in Contemporary Culture, New York, Basic Books, trad. it, 1993, Sotto l’immagine niente. La politica dello stile nella società contemporanea, Milano, Franco Angeli. Illouz, E., Intimità fredde, Il Mulino, Bologna 2006. Lipovetsky, G., 1987, L'Empire de l'éphémère, la mode et son destin dans les sociétés modernes, Gallimard, trad. It., 1988, L'impero dell'effimero, Milano, Garzanti McLuhan, M., 1951, The Mechanical Bride: Folklore of Industrial Man, New York, The Vanguard Press, trad. 1984, La sposa meccanica, Milano, SugarCo, McLuhan, M., 1964, Understanding media, The Extensions of Man, New York, McGrawHill, trad. it., 1997, Milano, Il Saggiatore. Mcluhan, M., Watson, W., 1970, From Cliché to Archetype, New York: Viking, trad. it., 1988, Dal Cliché all’archetipo, Milano, Sugarco. McLuhan, M., McLuhan, E., 1988, Laws of Media. The new science, Toronto, University of Toronto Press; trad. it. 1994, La legge dei media. La nuova scienza, Roma. McLuhan, M., The Medium and the Light: Reflections on Religion, New York, Paperback, 2002; trad. italiana: La luce e il mezzo. Riflessioni sulla religione, Roma, Armando, 2002. McLuhan, M., “Fashion è medium”, in Colaiacomo, Paola e Caratozzolo, Vittoria (a cura di), Mercanti di stile. Le culture della moda dagli anni Venti a oggi, Roma, Editori Riuniti, 2002. Sorokin, P., 1941, Social and Cultural Dynamics; trad. it. 1975, La dinamica sociale e culturale, Torino: UtetSiegel, L., Against the Machine. How the Web Is Reshaping Culture and Commerce– And Why It Matters, Spiegel & Grau, New York 2008. Toynbee, A., 1950, Le civiltà nella storia, Torino, Einaudi Virilio, P., 1996, in L. Orta, Process of Transformation, Paris, Jean Michel Place editions, 1996.

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Per una mediologia della letteratura Giovanni Ragone

1. Del McLuhan studioso di letteratura conosciamo i principali focus. A Cambridge per il bachelor nel 1934-1936, influenzato dal new criticism di I.A Richards, studia le forme letterarie moderniste e sperimentali e si interessa alla struttura del paradosso in Eliot e Pound. Nella prefazione del 1969 a una raccolta dei suoi saggi letterari (The Interior Landscape) scriverà: “Richard, Leavis, Eliot e Pound e Joyce (…). Il mio studio sui media iniziò e rimane radicato su quegli uomini. (…) Gli effetti dei nuovi media sulle nostre vite sensoriali sono simili agli effetti della nuova poesia. Essi non cambiano i nostri pensieri ma la struttura del nostro mondo”1. La tesi per il Ph.D di Cambridge, nel 1939-40, è invece dedicata alle arti della parola, dall’antichità alla scolastica all’età elisabettiana, e culmina nell’analisi stilistica, sempre in chiave di discorso paradossale, del poeta e narratore inglese cinque-seicentesco Thomas Nash. Da un lato l’avanguardia artistica, dall’altro la forma mentis dominante nella cultura pre-moderna, attraverso il medium dominante della parola retoricizzata. Addottorato non a Cambridge , a causa della guerra, ma a St. Louis, e nominato professore in varie università (Wisconsin, St. Louis, Windsor nell’Ontario, e dal 1946 Toronto), McLuhan visita Pound in manicomio criminale nel 1946, ne difende pubblicamente l’opera poetica, strutturalmente polisemica e barocca, e tiene con lui una lunga corrispondenza, come aveva fatto in precedenza con il pittore e teorico ex-vorticista Wyndham Lewis, trasferito a sua volta in Canada. Studia ancora Eliot, Pound, Joyce (“i grandi sviluppi dell’arte simbolistica al centro della filosofia tomistica”2), le nuove tendenze della poesia inglese e, dall’altro lato, la tradizione della retorica fino al Cinquecento. Emergono intanto nuovi interessi, che lasceranno il segno: Poe, il fumetto, gli oggetti cult della cultura di massa, per i seminari finanziati dalla fondazione Ford, e per l’esperimento multimediale e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 1

M. McLuhan, Il paesaggio interiore, SugarCo, Milano 1996. M. McLuhan, Catholic Humanism and Modern Letters (1954), in Id., Letteratura e metafore della realtà, a cura di S. D’Offizi, I, Armando, Roma 2009, p. 57. 2

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simultaneo di The Mechanical Bride (1951), preludio a quello che sarà il Centro per la cultura e la tecnologia di Toronto (1963). Con questo, il background del McLuhan maturo è abbastanza definito: come dichiarò in una intervista del 1969, la prima intuizione della sua teoria generale dei media gli era venuta studiando i materiali della cultura popolare, ma una idea più sistematica gli era scattata in un secondo momento, tornando nel mainstream della letteratura, e reinterpretandolo in confronto ai modelli culturali e percettivi di massa: “mi resi conto … che i più grandi artisti del XX secolo: Yeats, Pound, Joyce, Eliot avevano adottato un nuovo approccio, fondato sull’identità dei processi di cognizione e di creazione. Mi resi conto che la creazione artistica è il playback dell’esperienza comune”3. Negli scritti di letteratura antecedenti Gutenberg Galaxy (un’ampia scelta è stata tradotta nel 2009-2011 su iniziativa di Domenico Fiormonte, Andrea Miconi e Alberto Abruzzese)4 ci sono in questo senso

alcuni

passaggi-chiave ricorrenti: la crisi e implosione della lingua codificata della scrittura, (“L’inglese e il francese sono, per così dire, mass media obsoleti”); il laboratorio joyceano come operazione d’avanguardia e di anticipazione dentro quella crisi (“Il Finnegans Wake è un dramma del linguaggio”); il cambiamento determinato da ogni nuovo canale di comunicazione (“esso determina una distinta forma di cultura”); e l’arte come “antenna” che collabora attivamente e formalizza la media morfosi (già nel saggio del 1951 su Joyce, Aquinas and the Poetic Process, accennando alla Philosophy of Composition di Edgar Allan Poe, McLuhan formula la stessa teoria che verrà esposta in modo sistematico nel postumo La legge dei media: il medium artistico simultaneamente intensifica e rovescia un processo, rendendo obsoleta una struttura e recuperando tratti delle strutture precedenti5; “il processo poetico è teso a scoprire e rintracciare”; preliminare a qualsiasi “creazione” è la “ricostruzione” e l’autore-investigatore è uno storiografo, o piuttosto un archeologo6). Su quella lunga esperienza letteraria si basa dunque il costante riferirsi al campo di sensori dei linguaggi artistici nella Gutenberg

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Intervista di Eric Norde a McLuhan, in Id., Dall’occhio all’orecchio, a cura di G. Gamaleri, Armando, Roma 1982, pp. 25-70. 4 M. McLuhan, Letteratura e metafore della realtà, cit., 3 voll., a cura di S. D’Offizi, Armando, Roma 2009-2011. 5 Marshall e Eric McLuhan, La legge dei media. La nuova scienza (1988), pref. di A. Abruzzese, Edizioni Lavoro, Roma 1994 6 M. McLuhan, Joyce, Tommaso d’Aquino e il processo poetico, in Id., Letteratura e metafore della realtà, cit., pp. 158-176.

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Galaxy (1962), dove la letteratura e le arti visive sono luogo privilegiato di verifica della rivoluzione e del conflitto dei media. Tuttavia l’influenza di McLuhan sul piano degli studi letterari è stata pari quasi a zero. Nonostante la fortuna di Understanding Media (1964) in America e molto più limitatamente in Europa, la discussione che si sviluppò in occasione dell’uscita del libro in Italia negli ambienti della neo-avanguardia – ai quali restava sconosciuta la precedente Galassia -, riuscì forse anche per questo a evitare di dover riflettere in senso mediologico sui rapporti tra letteratura ed “esperienza comune”; e l’Umberto Eco di Apocalittici e integrati dribblava lo spettro drammaticamente e pericolosamente dinamico della mediamorfosi evocato da McLuhan, orientando le tendenze più curiose e innovatrici del nostro ceto colto verso il gioco intellettualistico e tipicamente logocentrico di interpretare gli sceneggiati televisivi con la Poetica di Aristotele, la pubblicità delle saponette con l'oratoria gesuitica, le canzoni pop con Kant, e così via, sulla base della invarianza degli stessi schemi. In definitiva, la raccolta degli articoli italiani su McLuhan pubblicata da Gamaleri7 mostra che solo Renato Barilli arrivò a capire sul serio qualcosa; e in effetti la Galaxy fu tradotta in italiano solo nel 1976 e ignorata. Ma anche in Europa la possibilità di una mediologia della letteratura, e di una mediologia in generale, venne praticamente scartata. La svolta di McLuhan, che pure assimila e riutilizza le intuizioni degli anni Venti e Trenta europei, aveva i suoi fondamenti - come ha notato Gabriele Frasca8 - da un lato nella critica emergente delle strutture della modernità industriale (si stava allontanando nella memoria la paura e la retorica della guerra, si entrava nei Sessanta della contestazione e delle estetiche giovanili), e dall’altro nella nuova fase globalizzante dell’industria della comunicazione, del cinema e della televisione di marca americana. E sebbene la cultura francese fosse particolarmente effervescente (linguistica, formalismo, nouvelle histoire, tendenze strutturaliste in psicanalisi, antropologia, sociologia e filosofia), non si arrivò a sdoganare definitivamente McLuhan, che rovesciava scandalosamente l’approccio intellettualistico delle élites sulle tecnologie. A provarci, nel 1966, fu pour cause la !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 7 8

G. Gamaleri, Understanding McLuhan. L'uomo del villaggio globale, Kappa, Roma 2006. G. Frasca, La lettera che muore. La letteratura nel reticolo dei media, Meltemi, Roma 2004.

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rivista di Bataille, Critique (Bataille che aveva animato il Collegio di Sociologia postsurrealista del 1937-39 con Benjamin, Kracauer Caillois, Klossowski, Leiris …); ma ragionando soprattutto sulle affinità tra McLuhan, Lévi-Strauss (di cui scrisse anche Riesman nel 1966), e il Barthes di Mythologies. In seguito, negli anni Ottanta e Novanta, anche Baudrillard, Virilio e Débray riutilizzarono ampiamente McLuhan, naturalmente a modo loro, e senza far riferimento alle sue teorie sull’arte. Tornando all’Italia, quasi nulla accadeva fino ai Novanta, a parte i riferimenti a McLuhan negli uffici-studi della Rai e nell’ambito specializzato della televisione. L’incerta e fluttuante emersione della mediologia non derivò di lì, ma dall’imprinting benjaminiano di Abruzzese (tra Forme estetiche e società di massa,1973, La grande scimmia, 1979, Archeologie dell’immaginario, 1988, Metafore della pubblicità, 1988). Tuttavia la riscoperta di McLuhan, sempre da parte di Abruzzese e di altri intellettuali influenzati da lui verso la fine degli anni Ottanta9, fu molto importante per la costruzione di un impianto teorico autonomo. E anche più in generale, dopo che erano stati tradotti Havelock ed Ellis (1981), Ong (1987), e Goody (1988), tutti in diversi modi collegabili a McLuhan, la “scuola” di Toronto - ma più Ong che McLuhan, più l’idea di un antagonismo storico tra oralità e scrittura che una concezione complessa della mediamorfosi – offrì ad umanisti con un tipico imprinting sia francofortese (Benjamin, Adorno, Marcuse), sia semiotico-culturale (Bachtin, Barthes, Lotman), una nuova chiave di comprensione dei processi evolutivi della letteratura. Nel campo della critica letteraria si indebolivano le “grammatiche” basate su una pretesa isolabilità del segno, e fra antropologia, sociologia, architettura, cinema, arte e letteratura, si cominciava a percepire una dimensione mediale e collettiva dell’immaginario, se non ancora la deriva del medium letterario stesso nel flusso, come soggettività culturale e sociale. In quegli anni si iniziava ad evadere dalle discipline tradizionali, apolidi alla ricerca di chiavi interpretative a più dimensioni, e insofferenti verso la miopia dei nuovi specialismi, invariabilmente corporativi e subalterni.

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McLuhan era già fondamentale nel mio Editoria, letteratura e comunicazione, in Letteratura italiana. Storia e geografia. III. L’età contemporanea, Einaudi, Torino 1989.

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2. In quel movimento erano anche le basi di una seppur frammentaria mediologia della letteratura, che cercava il modo di saltare oltre le aporie della sociologia della letteratura di matrice lukácsiana. Anche nelle punte avanzate di quella tradizione, infatti -e penso a Franco Moretti – si insiste a considerare le opere come tipizzazione delle strutture del mondo sociale reale, schermi più o meno deformanti di un soggetto che vi esprime la propria concezione del mondo. A chi legge, o meglio, a un critico-sociologo, una volta riconosciute le strutture, spetta individuare i modelli di rappresentazione che lo scrittore utilizza nel suo lavoro, con le relative curvature dello schermo10. Uno schema implicito o esplicito di questo genere (spesso fatalmente ancorato alla critica dell’ideologia) si ripete anche in interpretazioni dei testi in chiave antropologico/simbolica, o direttamente filosofica, in pur interessanti semio-sociologie degli oggetti e delle pratiche della comunicazione letteraria, e perfino in tentativi di analizzare il gioco dei media all’interno del testo. L’idea dell’opera come riflesso, o tentativo di rispecchiamento più o meno riuscito delle relazioni sociali, finalizzato o comunque utile alla comprensione della società stessa, e soprattutto alla introiezione dei codici sociali (idea messa a punto a modo suo da Lukács e poi da Goldmann, ma che resta parzialmente valida per i funzionalisti, fino a Luhmann), non viene di solito messa in discussione, e del resto è una idea che ci avvicina, almeno parzialmente, al senso della letteratura. Tuttavia, manca qualcosa di essenziale. Per la mediologia, il senso di un’opera non è riducibile alla testimonianza, al risultato lasciato sul campo e quindi oggettivabile di un’azione ermeneutica e rappresentativa tentata da un soggetto storico. L’opera, come ogni altro medium, prende senso nel flusso dell’ambiente sensoriale, tecnologico, mediale e dunque sociale, ibridante e denso di immaginari, entro il quale scorrono proteiformi identità e memoria culturale. Prende senso in quanto esaspera, devia, modifica, agisce quel flusso. Questa è l’eredità di McLuhan, anche riguardo al nostro sentire la letteratura: la convinzione che creare un nuovo medium, un nuovo oggetto che comunica, sperimentale in senso artistico, o prodotto di massa, significhi comunque dare “forma”, trasformare l’esperienza collettiva, agire la metamorfosi. Le opere non !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 10

Si muove in questo senso anche Andrea Miconi, seguendo Moretti e contrapponendo gli schemi di un “determinista” Weber all’immaginazione sociologica e all’intuizione di Morin e di buona parte della sociologia del Novecento (Una scienza normale, Meltemi, Roma 2005); mentre di McLuhan viene apprezzato esattamente il suo espungere la letteratura, all’altezza di Understanding Media, da uno studio della realtà finalmente materialista e determinista (cfr: l’introduzione a M. McLuhan, Letteratura e metafore della realtà, I, cit.).

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sono, romanticamente, le forme essenziali di un’anima, di uno spirito del tempo a cui l’artista dà vita immortale; né, “realisticamente”, i testimoni più o meno fedeli di un’epoca e di una società. Le opere d’arte sono media, e dunque metafore, che ci trasferiscono da uno stato a un altro, nel vortice della mediamorfosi. E dunque la riflessione e la conoscenza sui media letterari, scarsamente supportate dall’elegante prospettivismo storico del sociologo della letteratura lukacsiano, implicano strumenti ibridi e complessi, trasversali alle discipline estetiche, alle scienze della cultura e della società, alla psicologia cognitiva. Considero tuttora Gutenberg Galaxy, dove per la prima volta emergono a sprazzi queste teorie, come il testo fondativo di una mediologia della letteratura in grado di saldarsi alle intuizioni di Benjamin e alle altre esperienze “sensibili” degli anni Trenta – Cinquanta: oltre a Empire and Communications di Innis (1950), vi agiscono profondamente Gombrich, Panofsky e l’eredità della scuola di Warburg, L’apparition du livre di Febvre e Martin, tra i fondatori delle “Annales” francesi (1958), e tra gli altri europei o europei fuggiti in America Cassirer, Huizinga, Popper, Auerbach, Curtius, Frye, Gilson, Maritain, Sartre, il francofortese Löwenthal, Polanyi, Einstein, Eliade, Frazer, R. Williams; oltre a decine di americani, per lo più psicologi, antropologi come E. T. Hall e scienziati. Ma la Galassia inizia - pour cause – dai materiali della letteratura: la narrativa orale antica, gli scrittori dell’età elisabettiana; il King Lear di Shakespeare, in una folgorante analisi sia sul piano metaforico sia a livello della struttura micro testuale11. Di qui parte una prima classificazione delle organizzazioni sociali “orali”, “scritte”, “elettriche”, e su quella “cosa soltanto che non sappiamo” riguardo alle cause della rivoluzione tecnologica; poi la struttura del cervello, la natura metaforica del linguaggio, l’instabile equilibrio fra corpo, tecnologie e culture, e il Novecento “elettrico” come scenario di crisi, tensione, globalizzazione e crollo definitivo di un intero sistema. Ecco le basi della scienza dei media: essi sono estensione dei sensi; mentre la cultura è il processo della loro interiorizzazione. La mente, nell’epoca della scrittura e della stampa è stata sottoposta all’estensione oggettivante della vista. E successivamente è stata sottoposta in modo inatteso (e !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 11

La Galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, a cura di Gianpiero Gamaleri, Armando, Roma 2004, p.36-40.

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inconsapevole) a un ritorno all’orecchio, al suono alla voce, in un nuovo ambiente elettrico, o elettronico. Non va sottovalutata l’ambizione di McLuhan nel fare i conti con l’intera civiltà della ragione e con la sua ultima incarnazione tayloristica: del forzoso compromesso tra l’energia del big bang elettrico e l’ordine della scrittura, qui viene dichiarata, e senza ritorno, l’implosione; ed è in questi termini che ci arriva la prima sistemazione organica e critica di una teoria del moderno (dopo la Dialettica dell’illuminismo, scritta in California da Horkheimer e Adorno durante la guerra e uscita nel 1947, ma a quanto sembra ignota a McLuhan). Tutta la Galaxy, in chiave mediologica ed ellitticamente, racconta l’ascesa e la catastrofe della civiltà gutenberghiana; in altri termini: l’origine e il rovesciamento della modernità occidentale. Vi sono radunati materiali, illuminazioni, e macerie, dall’antichità a James Joyce, come piattaforma di lancio per il decollo di un’altra storia - quella dei massmedia dell’era elettrica, che funziona secondo diversi principi. Il frammento iniziale del libro si chiude spostandosi rapidamente tre secoli dopo Shakespeare e Cervantes. Siamo negli anni Trenta del Novecento, quando la macchina gutenberghiana è ben oltre il tramonto, e le arti ne danno reinterpretazioni expost; come un epigramma assai criptico di Yeats. Esso mostra Locke, il grande anticipatore a fine-Seicento della filosofia dei Lumi, caduto in deliquio, in un giardino morto. Dove il giardino “sta a significare l’intreccio di tutti i sensi in armonia organica”; e la morte del giardino va messa in relazione al “trance ipnotico provocato dall’accentuazione della componente visiva dell’esperienza fino al punto in cui essa riempì tutto il campo dell’attenzione”12. Qui la metafora poetica e anticipata di una crisi terminale dello spazio/tempo meccanico ne rappresenta in chiasmo temporale – e malinconicamente – gli inizi: l’interiorizzazione della tecnologia alfabetica, portata al massimo grado di surriscaldamento dalla stampa, l’io diviso e schizofrenico come i suoi sensi, la riduzione del corpo a involucro… In un solo squarcio di analisi testuale si condensa il nucleo mcluhaniano della scienza dei media, inscindibile dall’immersione nel playback delle arti. Restiamo ancora sulla Galassia. L’ibrido, il multiplo, il simultaneo, il “galattico” sono secondo McLuhan i soli approcci scientifici possibili, nella metamorfosi più o meno !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 12

La Galassia Gutenberg, cit., p.41.

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rapida e violenta dei media. E in fin dei conti il libro tende a non ipostatizzare eccessivamente la forza dominante della parola scritta: solo più o meno un terzo dell’arco cronologico della scrittura è stato “tipografico”, imponendo attraverso la stampa una meccanizzazione della mente; ora si può rimettere a fuoco quel movimento, e osservarne gli effetti ex-post, mentre si sta vivendo in pieno una nuova fase. Essa non esclude affatto, e anzi implica, forme ibride fra il mondo elettrico e la scrittura: così per esempio il “ritorno” del primitivismo con le avanguardie artistiche del primo Novecento, e la “sacralizzazione” della tecnologia da parte di Marinetti e di altri, sarebbero “banalizzazioni ancora meccaniche” del gigantesco risprofondamento della cultura nel primato dell’orecchio. E d’altra parte, proprio il “denudamento della vita conscia e la sua riduzione ad un unico livello” nel tritacarne gutenberghiano ha prodotto – anche qui sulla lunga durata, come sfondo implicito ed oppositivo della civiltà della stampa – il “nuovo mondo dell’inconscio”: l’inconscio collettivo, con i suoi archetipi che si organizzano come sorgente della comunicazione di massa, fin dal XVII secolo (qui McLuhan lascia solo due paginette, ma quanto affascinanti!). Si annuncia esplicitamente Understanding Media. Ed è già chiaro, molte pagine prima, che il viaggio sarà più o meno lo stesso, seguendo le tracce del Maelstrom di Edgar Allan Poe (una metafora che sembra come una calamita per mediologi!): così come il vecchio marinaio che attentamente aveva osservato i movimenti del grande gorgo, anche noi, studiando “l’azione del nuovo vortice sul corpo delle vecchie culture”, ci salveremo. 3. Della possibilità di una mediologia della letteratura si è discusso, sulla base di idee non omogenee, in un convegno nel 2004, Letteratura fluida13. La proposta era in sostanza quella di rendere in qualche modo sistematico un approccio che si collochi sia sulla scia di Benjamin/Abruzzese che sulla scia di McLuhan. Le forme letterarie come metafore (nel senso operativo, produttivo) di soggettività mutanti; anzi come media e dunque soggettività mutanti esse stesse. Retrospettivamente, considerando l’intero arco storico della letteratura, l’operazione è affascinante, e porta a leggere con uno sguardo diverso, rivelatore nei testi di processi mai indagati, per esempio anche i classici, Dante, Boccaccio, il barocco, Zola, Conrad, Kafka, fino a Ballard e oltre14. I problemi teorici !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 13

Letteratura fluida, a cura di A. Abruzzese e G. Ragone, Liguori, Napoli 2007. In diversi volumi collettivi e lavori seminariali sono apparsi saggi di mediologia della letteratura di chi scrive, insieme ai contributi di diversi compagni di strada. Cfr. in Mutazioni. La letteratura nello spazio 14

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riguardano soprattutto la contemporaneità, poiché se è vero che una linea creativa del Novecento ha continuato sulla linea di crisi che dall’ultimo Ottocento implode in Kafka, giocando sulle metafore (mediali) della mutazione, dello spaesamento, dell’incubo postcatastrofe, del trash che risucchia il mondo, dell’esclusione e inclusione che diventano prima indecidibilità e liquefazione, nonsense e fascino dell’annullamento, è vero anche che il ruolo della letteratura come arte di avanguardia che scopre metafore nuove si è andato attenuando. Le derive attuali delle piattaforme estetiche e tecnologiche e degli immaginari, il fatto stesso che le operazioni artistiche sono diventate esplicitamente e coscientemente operazioni mediali, la riconfigurazione dei processi culturali e degli attori nella società in rete, sembrano indebolire il valore dello “scarto”, della operazione artistica sul flusso. Se così fosse, la letteratura contemporanea – anche quando non sia completamente assimilata negli schemi trans mediali della serialità - sembrerebbe dover interessare quasi solo come campo anticipatamente archeologico (del moderno, delle estetiche schermiche); o come una ripetitiva epica liquida, ostensione implosiva della metropoli e del consumo; da attraversare, quindi, per una passeggiata nelle dissolvenze del soggetto; o come un troppo esplicito esercizio di “resistenza” alla cultura delle reti, probabilmente subalterno; o come una lucida pratica di “tecnologia del sé”, tentativo di condensazione di un equilibrio che ancora coniughi pensiero e deriva audio tattile, parola riflessiva e installazione spettacolare, grazie alla tecnologia dello scrivere, rovesciata in un certo senso nel suo funzionamento tradizionalmente spersonalizzante. Dunque la domanda chiave - nella nuova, generale metamorfosi delle piattaforme estetiche dei nuovi media e di Internet, nella rivoluzione connettiva della rete, che senso assumono le forme letterarie? – trova risposte discordanti, almeno in attesa di una !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! dei flussi, a cura di G. Ragone e F. Tarzia, Liguori, Napoli 2004 (Nuove Metamorfosi. Kafka/Ellis); in Cuore di tenebra 2006, Metafore conradiane: media, corpi e immaginari, Liguori, Napoli 2006 (Per una mediologia conradiana); in Hi-story. Riscritture della storia nella fiction contemporanea, a cura di E. Ilardi e S. Martella, Liguori, Napoli 2007 (Memoria e letteratura); in .Letteratura fluida , cit.( Brucio e irradio); in Mediologia. Il cammino di una disciplina attraverso i suoi classici, a cura di M.. Pireddu e M. Serra, Liguori, Napoli, 2012 (La mente e il vortice. M. McLuhan, Gutenberg Galaxy); in Kafka e le metafore dei media, a cura di D. Capaldi, Liguori, Napoli 2012 (Il Castello e le metafore dei media). Particolarmente vicini all’impostazione prefigurata in G. Ragone, Introduzione alla sociologia della letteratura, cit., 1996 e 2000, sono anche: G. Frasca, La lettera che muore, cit., 2005; E- Ilardi, Il senso della posizione. Romanzo, media e metropoli da Balzac a Ballard, Meltemi, Roma, 2005; G. Ragone (e. alt.), Classici dietro le quinte. Storie di libri e di editori. Da Dante a Pasolini, Laterza, Roma-Bari 2009; F Tarzia, Mondi minacciati, La letteratura contro gli altri media, Liguori, Napoli 2009; E. Ilardi, La frontiera contro la metropoli. Spazi, media e politica nell'immaginario americano, Liguori, Napoli 2010; D. Capaldi, Kafka e il flusso dei media, in Kafka e le metafore dei media, cit., 2012.

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accettabile descrizione del movimento, e delle metafore che esso determina. La questione non investe solo l’evoluzione delle forme: naturalmente esse sono più o meno ibridate con i processi estetici e culturali della rete, dal più che secolare “tradimento” della scrittura nel cinema e poi nella serialità televisiva e poi nei videogames, agli ibridi tra blog e formati tradizionali, e ad esperimenti di interattività; e del resto l’ibrido più colossale è dato dal trionfo di bestseller già progettati e predisposti per la versione cinematografica e televisiva. La questione investe anche e soprattutto la soggettività che viene implicata e trova espressione nelle forme (e nel consumo letterario). La letteratura, la vecchia arte della narrazione verbale e della poesia, riesce ancora a muovere il sensorio, l’immaginario, piazzando le sue zampate? Secondo Alberto Abruzzese, “la letteratura come mondo vissuto non può più ospitarci: scrittura che, interrogandosi sulla nascita di un nuovo mondo, quello metropolitano, si interrogava sulla propria morte in quanto voce interiore, parola, forma di veggenza a ritroso”15. E tuttavia, gli ultimi anni mostrano che la “figura” e la “struttura” metaforica del testo letterario rimane ancorata ai connotati storici, letterari, massmediatici, giornalistici e filmici dei suoi archetipi, piuttosto che sciogliersi, come teorizzavano sia Abruzzese che Paolo Fabbri in quel convegno, in forme percettive e mentali omologhe alla struttura fluida e reticolare dell’ambiente in cui abita. Sembra tramontata l’idea del blog come letteratura tout-court, anche se è vero che il gioco della metafora mediale e sociale sembra prodursi attraverso la produzione di media ibridi in misura maggiore che attraverso l’utilizzo reiterato delle vecchie forme. Forse perché – come iniziavo ad azzardare a mia volta in quell’occasione – il gioco autobiografico sull’esperienza sensoriale, sul sentimento individuale, sull’identità, e sulla relazione tra l’io e il noi è diventato più fluido e reversibile nel tempo velocissimo di un solo cambio di generazione. L’adattamento è naturalmente problematico, in una continua composizione della schizofrenia tra flussi digitali e luoghi, e tra industria culturale globale e reti sociali diffuse e costruite dal basso. Le metafore della mutazione pervadono e riplasmano incessantemente ogni processo, e non ci sorprendono più di tanto. La nostra angoscia non è quella del tempo perduto, né dell’inautentico, a cui siamo allenati, anche se resta come sottofondo un senso di colpa verso la madre Terra. L’angoscia è piuttosto quella del rischio (simmetrico all’immensità delle connessioni e degli sviluppi virtuali) !!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! 15

Clarimonde: agire metropolitano e postmetropolitano, in Letteratura fluida, cit.

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della fragilità delle nostre connessioni interne, perennemente reversibili verso l’esterno: l’insicurezza di Proteo. In sostanza, oscilliamo ancora su queste posizioni. Si vanno sul serio attenuando le funzioni tradizionali del testo letterario come luogo virtuale di auto-definizione, di costruzione di un nuovo equilibrio pubblico/privato, di spazi di identità e soggettività non subalterni? La letteratura fluida si riconfigura come medium dei prosumer della rete? Si tratta solo di marketing editoriale per “allargare” la narrazione alle culture del consumo? O il laboratorio letterario è ancora utile per ripensare ogni altra forma di comunicazione, attraverso un riaffiorare del contro-campo antinarcotico, del surriscaldamento metaforico, del risveglio ironico, da Roth a Palahniuk, da Houellebecq a Foster Wallace? O la letteratura che veramente ci interessa incarna molte varianti contemporaneamente (nel vecchio senso “catastrofico” del Don Quijote, o del Voyage au bout de la nuit)?!

105 !


!


McLuhan e il pensiero critico all’epoca delle reti: the International Journal of McLuhan Studies come esperimento critico di convergenza culturale Matteo Ciastellardi Con il supporto e il contributo critico di Emanuela Patti, Università di Cagliari

Introduzione: il medium, il messaggio Guardiamo al presente attraverso uno specchietto retrovisore. Marciamo all’indietro verso il futuro [Marshall McLuhan] Il 21 luglio 1911 nasceva ad Edmonton Herbert Marshall McLuhan, noto al grande pubblico

per

alcune

celebri

intuizioni,

spesso

accolte

come

slogan

della

contemporaneità, da “il villaggio globale” a “il medium è il messaggio”, divenuti un’icona negli studi di comunicazione tramite opere quali The Gutenberg Galaxy (1962) e Understanding Media (1964). La popolarità di McLuhan, suffragata dal costante riferimento del panorama culturale alle sue intuizioni più fortunate, ha visto nel 2011, in occasione del suo centenario, l’organizzazione di oltre duecento eventi in tutto il mondo per celebrare il suo pensiero e interrogarsi su come rivitalizzare il suo contributo intellettuale. In questa direzione è più che mai d’obbligo riconsiderare la lettura storica di McLuhan degli ultimi cinquant’anni cercando di andare oltre le etichette che hanno spesso limitato la sua ricezione ad un ruolo di “sociologo” e “guru dei mezzi di comunicazione di massa”. È invece proprio a partire dal riconoscimento apparentemente più immediato del suo lascito, con “The medium is the message”, che ci sembra opportuno rivalutare il suo pensiero. L’opportunità

è di una riflessione critica

interdisciplinare che offra nuovi strumenti di analisi in grado di riflettere e di interrogarsi allo stesso tempo sul mezzo e sul messaggio quali supporti metalinguistici della nostra epoca. Sulla base di queste motivazioni è nata l’idea di riprendere in mano, 107


in occasione del centenario, l’originario McLuhan Journal, iniziato da Eric McLuhan e Francesco Guardiani nel 1996, e farlo rinascere in un nuovo medium, The International Journal of McLuhan Studies, per capire, in ottica mcluhaniana, in che modo sia possibile oggi, nell’era della “network society” (Castells, 2003), affrontare in una rivista accademica le sfide delle digital humanities e la convergenza di vecchi e nuovi media.

1.

Dalla galassia Gutenberg alla galassia McLuhan

Tutte le culture sono da sempre caratterizzate da passaggi epocali che determinano il modo in cui la conoscenza viene tramandata e riprodotta. Il supporto di trasmissione, dal vettore umano della tradizione orale, passando per la chirografia, la stampa, i media audiovisivi, le basi dati, etc., ha sempre costituito l’oggetto privilegiato dell’indagine scientifica e dell’interesse speculativo, risultando il vero protagonista delle principali rivoluzioni culturali. Intorno al 700 a.C. l’invenzione dell’alfabeto ha segnato l’inizio dello sviluppo del pensiero occidentale e della scienza per come la conosciamo oggi. Tale invenzione ha permesso la nascita di una “Mente Alfabetica” (Havelock, 1982) che, mediante la demarcazione tra parlante e parlato (cioè del dispositivo umano rispetto all’oggetto della sua produzione teoretica) ha introdotto lo sviluppo della capacità critica affermando un nuovo modello intellettuale: il discorso concettuale (Castells, 2000). Il supporto alfabetico ha costituito così una pietra miliare nell’evoluzione della conoscenza seppur con un limite: da un lato la mente umana ha trovato piena espressività razionalizzando le percezioni in un nuovo ordine di segni, dall’altro ha fissato una soglia e creato una barriera verso le forme più empatiche che si sono espresse, da sempre, mediante canali non sintetizzabili nel dispositivo alfabetico: Creando implicitamente ed esplicitamente una gerarchia sociale tra cultura scritta ed espressione audiovisuale, il prezzo pagato per la fondazione della pratica umana del discorso scritto fu di relegare il mondo dei suoni e delle immagini al palcoscenico secondario delle arti, che affrontano la sfera privata delle emozioni e il mondo pubblico della liturgia. (Castells, 2000: 356)

L’introduzione della stampa ha fissato la dimensione dell’informazione e della conoscenza nella carta e nella popolarità di una specifica “interfaccia” come il libro 108


(Scolari, 2004) che si è rivelato il mezzo più fertile per mediare le esigenze di una cultura che ha scoperto di poter archiviare, razionalizzare, trasferire, diffondere e fissare la conoscenza al di fuori della propria memoria e dei propri apparati sociali. Quella che è considerata la “mentalità-libro”, primo derivato della cultura alfabetica, ha costituito un vero e proprio “brainframe” (De Kerckhove, 1993), una geometria lineare dell’intelligenza, che ha portato a definire le pratiche della comunicazione fino a orientare mente e comportamento umano verso lo sviluppo di specifiche capacità. Oggi il progresso di una società sempre più interconnessa, la commistione di linguaggi e di modelli appartenenti all’oralità primaria e secondaria (Ong, 1982), la diffusione capillare dei mass media e del web ha ridefinito la mentalità-libro, cambiando i ruoli tradizionali che appartenevano a lettore ed autore, aprendosi a possibilità immersive di partecipazione e condivisione e superando le costanti lineari di creazione e fruizione del pensiero. La trasformazione tecnologica e sociale ha portato a una re-integrazione tra scrittura, oralità e forme audiovisive della comunicazione: «Lo spirito umano riunifica le sue dimensioni in una nuova interazione tra i due lati del cervello, fra le macchine e i contesti sociali» (Castells, 2000: 380). Le nuove tecnologie hanno così diffuso nuovi prodotti e nuove abitudini nel consumo e nella produzione di conoscenza, fornendo molteplici estensioni e nuove possibilità a pratiche consolidate fin dagli anni ottanta, come la lettura ipertestuale di fronte a uno schermo interattivo (Nelson, 1987). La mentalità-libro non si è trovata però a dover cedere il passo a un paradigma culturale in grado di soppiantarla: è confluita in diversi spazi di dialogo, di articolazione e di ri-mediazione (Bolter e Grusin, 1999), ponendosi come forma-medium inglobata nelle nuove pratiche di gestazione del pensiero che stanno cambiando la nostra cultura con nuovi supporti perché stanno altresì rimodulando i nostri linguaggi (Postman, 1985). Questa transizione dalla stampa ai nuovi media può essere letta, con Manuel Castells (2000), come il passaggio dalla “Galassia Gutenberg” alla “Galassia McLuhan”: da un mondo che ha fatto della mentalità-libro e del principio di autorialità la sua cifra significativa, a un sistema che trova su supporti sempre più aleatori e su identità sempre meno marcate il canone della sua nuova impronta culturale. Del resto, se i media sono l’espressione della nostra cultura, ogni cultura cresce attraverso i materiali offerti dai media stessi (Castells, 2000) e ciò comporta una profonda influenza circolare che era già stata rilevata da Marshall McLuhan con la sua già citata popolare 109


intuizione che “il medium è il messaggio”, nei primi anni sessanta. A questa influenza circolare bisogna anche aggiungere i diversi linguaggi emersi dalla cultura scritta, dall’oralità e dei più recenti social media, in dipendenza dalle differenti necessità e trame comunicative. La Galassia McLuhan è andata definendosi secondo una segmentazione della società (Ito, 1991), legata soprattutto all’ingresso di media come la radio e la televisione, le cui tecnologie hanno portato il focus su un’informazione diversificata e specialistica, tale da indurre gli ascoltatori a essere sempre più definiti per ideologie, valori, gusti e stile di vita (Sabbah, 1985) . Tale segmentazione ha trovato piena liberà nelle sue diverse configurazioni soprattutto negli ultimi anni, quando una nuova “tecnologizzazione delle parola” (Ong, 1982) ha preso il sopravvento sui media più tradizionali: la nascita del World Wide Web. Internet, e il web come sistema principe per unire i diversi nodi di un network, risultavano sistemi molto specialistici in grado di connettere non più solo contenuti a persone, ma anche persone ad altre persone, condividendo informazioni e aumentando il livello e la frequenza dei contatti. L’introduzione di questa nuova tecnologia ha ridefinito nuovamente lo scenario mediatico, riportando alcuni caratteri della Galassia Gutenberg in una dimensione elettronica (di scrittura) più interattiva e meno gerarchica (libera partecipazione al costo di una connessione). In questo senso se la stampa, tramite l’interfaccia-libro, era stata protagonista indiscussa dello stadio precedente, la reinvenzione digitale di questo concetto ha portato a nuovi standard per preservare la conoscenza, produrne di nuova e condividere le esperienze del modello che si levava dopo una lunga stratificazione delle narrative tradizionali fondate sul prodotto-libro. In questo contesto, dove le già citate caratteristiche di linearità, autorialità, selezione dei contributi, etc. trovavano un differente dispositivo cognitivo, si è innescato un ampio dibattito critico sull’impatto della rete rispetto ai canoni tradizionali della mentalità-libro. La proliferazione di nuovi formati letterari, e-book, blog, e-zine e online journal ha consentito un accesso più semplice all’informazione, ricombinando gli elementi multimediali e quelli teorici di due tradizioni di pensiero e di espressione, offrendo inoltre la possibilità di entrare nel vivo del palinsesto critico dei contenuti. Tuttavia un certo tipo di cultura, specialmente accademica, non è riuscita a vitalizzare quanto altri settori il contributo derivante da questa rivoluzione digitale. Le digital humanities hanno dovuto farsi carico di limiti imposti dalle strutture di afferenza ai loro saperi che non sono ancora in grado di 110


accettare del tutto un passaggio verso scenari che rompono con una tradizione secolare; al contempo sono riuscite a definire nuovi assetti che preludessero a una razionalizzazione di questa transizione tra due “galassie” di saperi e pratiche, cercando gli strumenti più appropriati per esprimere un nuovo potenziale che è ancora difficile da gestire.

2.

La sfida delle digital humanities: autorialità critica e testualità 2.0

Come conseguenza degli effetti globali dovuti alla diffusione di computer, network e comunicazione elettronica, la digitalizzazione della comunicazione critico-accademica in ambito umanistico ha creato e continua a creare non poche perplessità tra gli addetti ai lavori, in quanto implica necessariamente cambiamenti etici e filosofici, formali e legali, pratici e procedurali, spesso percepiti in antitesi o in contrapposizione a forme di “intellettualismo” che costituisce il modello imperante. Tra alcune delle questioni più problematiche nell’ambito della critica accademica in rete figurano indubbiamente la questione dell’autorialità (nel doppio senso di auctor/auctoritas) e quella della testualità 2.0, espressioni di una scrittura digitale ancora ibrida nella sua concezione, che nel passaggio dalla galassia Gutenberg alla galassia McLuhan non ha ancora fatto veramente i conti con la sua base materiale, ovvero con quella che Katherine Hayes definisce “media-specific analysis” (MSA) (Hayles 2002: 29). Se in alcuni canali di critica, come i blog, la questione si è posta prevalentemente nei termini di un’autorialità non sempre riconosciuta, ora nell’accezione di auctor (nel caso di pseudonimi e anonimi, per esempio), ora in quella di auctoritas (nel caso di interlocutori non riconosciuti nei luoghi tradizionali di competenza), nel caso delle riviste accademiche digitali come quelle costruite e diffuse mediante pubblicazioni online sempre più sostenute da piattaforme aperte per la loro diffusione (i vari OJS – Open Journal System – ne sono un esempio), il problema è stato ovviato conservando la tradizionale idea autoriale della rivista accademica cartacea, ovvero mantenendo nel concetto di autorialità la sintesi auctor/auctoritas: l’Autore del contributo critico è riconosciuto sia nominalmente che istituzionalmente. In entrambi i casi l’interazione tra Autore-critico e Lettore (-critico, in gran parte dei casi) avviene, quando concessa, nella forma del commentario sequenziale del forum (il ‘botta e risposta’, evoluzione del pro e 111


contra scolastico) o, ancora più tradizionalmente, nell’intertestualità della citazione. A tale configurazione si aggiunge, in merito alla testualità propria delle pubblicazioni mediante OJS e sistemi analoghi, la monoliticità del testo critico che viene trasferito in rete quasi sempre come un pdf scaricabile e immodificabile, a cui non è generalmente possibile aggiungere dei commenti. Diversamente, seppur con limiti diacronici ed espressivi, supporti come i blog permettono di accogliere un testo elaborato, in maggiore o minore misura, con elementi ipertestuali e

normalmente

commentabile. Per quanto i blog di critica si prestino maggiormente ad un’interazione tra Autore-critico e Lettore-critico che muove i primi passi verso una logica 2.0, i ruoli restano tuttavia distinti sia sul piano della testualità, che si sviluppa in aree separate (il post e i commenti), sia sul piano dei ruoli. Se in questo cruciale passaggio storico dalla stampa alla scrittura digitale consideriamo la critica in rete nella prospettiva di una convergenza tra vecchi e nuovi media (Jenkins, 2008), le riviste accademiche, concepite nella loro tradizionale accezione cartacea come forum di discussione tra studiosi ed accademici della materia, di fatto trovano nell’ambiente elettronico nuove potenzialità per una più completa “rimediazione” (Bolter, 1999) in direzione di una maggiore collaborazione realmente 2.0. In questo senso, la MSA proposta dalla Hayes va qui necessariamente considerata nel contesto delle risorse che può offrire la Galassia McLuhan, vale a dire la network society, in cui l’Autore-critico, come qualunque Autore che scrive con un computer nell’era dell’ipetestualità e della globalizzazione, è un network decentrato di codici che, su un altro livello, serve anche come nodo all’interno di un altro network senza un centro (Landow, 1997).

3.

McLuhan e la revisione del concetto di rivista accademica

Con McLuhan non si è solo assistito a un passaggio cruciale nel modo di considerare il pensiero come profondamente dipendente e intrinseco al suo supporto di espressione, ma anche al già citato sistema di “rimediazione” che vede canali differenti non sostituirsi l’uno all’altro ma evolversi con un riassorbimento progressivo di caratteristiche che ogni supporto precedente lascia al nuovo. Partendo proprio da questi termini e dalla chiave entro cui il discorso accademico non 112


ha fossilizzato il suo patrimonio in modelli totalmente secolari e fuori dal contesto contemporaneo, il presente lavoro vuole introdurre una proposta che cerca di essere sintesi attiva di quanto finora esposto. La sfida è stata la realizzazione di un prodotto di natura accademico-editoriale che fosse in grado di fare esperienza di nuovi canali e di nuovi linguaggi tali da permettergli una differente gestazione del pensiero in merito alla sua comunità di fruitori/autori e alle sue maglie di validazione scientifica. La revisione del concetto di rivista accademica ha voluto quindi essere un esperimento aperto che, sotto la titolarità di un nome eclettico e visionario come McLuhan, rimettesse in moto le modalità critiche di un pensiero capace di essere al contempo accademico e trasversale, sostenuto da supporti tecnologici adeguati e da modelli editoriali che ne sancissero la validità e il rigore intellettuale. La proposta in termini concreti è la realizzazione dell’International Journal of McLuhan Studies. Il progetto, ripartendo dal lavoro originario di Eric McLuhan e Francesco Guardiani realizzato nel 1996, si è proposto come centro di convergenza e sintesi di una comunità ampia e frammentata che nel nome di McLuhan e delle sue intuizioni ha costruito aree di conoscenza e ricerca che si sono declinate secondo molteplici aspetti della cultura moderna e contemporanea. L’IJMS, in inglese, include una vasta gamma di discipline, accomunate dal nome del pensatore canadese ma anche dalle sue modalità di mettere a nudo gli aspetti più polifonici del tessuto sociale e culturale. Per questa ragione il Journal si apre ad aree come Education, Social Studies, Arts and Humanities, Politics and Economics declinate in sezioni quali McLuhan, the message and the global village (più focalizzata sulla vita e il pensiero di Marshall McLuhan), Education and the new scenario (volta allo studio dell’approccio critico delle istituzioni e dei modelli educativi e degli ambienti e delle figure che li caratterizzano), Social Media, networks and new dimension of life in digital culture (orientata alle ricerche legate al tema della rete, della cultura convergente, dei social media, della privacy, dell’emergenza e della complessità), Fiction and its ‘metaphors of reality’( orientata all’approccio critico e all’analisi delle Nuove Narrative, della letteratura e del cinema come espressione della realtà mediata), Art (and techne), from sensorial dimension to extended mind (aperta alle nuove pratiche dell’era elettrica, al mind-body problem, alle arti visuali e performative) ed Economic political dimension and globalization (che affronta le intersezioni tra media e politica). L’IJMS porta la scommessa di arrivare a una revisione del concetto di rivista accademica facendo del bagaglio culturale attorno alla figura di McLuhan e 113


dell’inesauribile continuum degli studi che da lui in poi si sono affermati un ‘metaforum’ di discussione aperta, sostenuto dalle tecnologie 2.0 del Web e alimentato da una comunità scientifica che può avvalersi dei supporti tradizionali per la sua fruizione. Infatti il Journal è pubblicato in cartaceo, presenta una versione online aperta (distribuita in ePub e mediante sistema OJS) e una variante digitale che caratterizza la vera e propria comunità di dibattito e dialogo sulle tematiche che sviluppa. Con queste particolari caratteristiche, la sfida raccolta è stata quella di trasformare lo spazio virtuale dei Journal accademici online, fondati su un approccio intellettuale intermittente, intertestuale ed esclusivo, in un più ampio e critico spazio ipertestuale, interconnesso e aperto non più limitato al carosello di diversi punti di vista, ma orientato a rendere la partecipazione collettiva degli esperti e degli studiosi un momento di dialogo e di confronto che non apparteneva più alla Galassia Gutenberg e non aveva ancora sufficienti strumenti di supporto solo nella Galassia McLuhan.

3.1

Il prodotto editoriale

L’edizione tradizionale del Journal, caratterizzata da una pubblicazione cartacea e da una triplice versione digitale online (ePub, OJS paper e versione “flipping”, cioè sfogliabile elettronicamente) e coperta da licenza Creative Commons per favorire la diffusione della ricerca scientifica, è costruita secondo aree di interesse che articolano le categorie precedentemente esposte con una struttura monografica che le sviluppa secondo un precisa proposta editoriale. Ogni numero monografico presenta la sezione Rumors (Editorials) che contiene una lettura critica complessiva del tema proposto per il Journal e la chiave editoriale con cui si è voluto creare un punto di vista aperto e dibattuto intorno agli argomenti toccati. Una seconda sezione, che copre la maggior parte del Journal, è quella dei Messages (Papers), costituita da tutti i contributi selezionati dalla Board editoriale dopo un processo di double-blind peer review. Oltre a contributi scelti di ricercatori ed esperti, in questa sezione sono ospitati anche articoli di eminenti studiosi riconosciuti a livello internazionale e invitati a contribuire con la loro lettura critica a temi specifici che il soggetto monografico richiede. Una terza sezione è From the Gutenberg Galaxy (Reviews), che chiede ad esperti di una determinata area la loro testimonianza relativa a specifici libri, articoli o ricerche, in modo da poter costruire un apparato di analisi che 114


superi la mentalità-libro grazie a un taglio obliquo e polifonico in grado di cambiare gli assetti di interpretazione critica tradizionali. Una sezione di interviste – On Air (Interviews) offre in cartaceo e in trascrizione i contenuti multimediali presenti nella Variante Digitale del Journal. Sono presenti poi due aree riservate a campi di studio che hanno costruito un loro percorso indipendente e maturo rispetto alla tradizione del pensiero McLuhaniano, seppur i riferimenti siano tanti e tali da non poterle scindere dal contributo del pensatore canadese: Media Ecology (che porta contributi nati sotto la prospettiva di questa area di studio) e Media Archeology (che vede una lettura sociostoriografica sui supporti e sulle tecnologie della comunicazione). Infine il prodotto editoriale conta su una parte di Probes, aforismi e citazioni di McLuhan che trovano nella Variante Digitale il loro spazio di analisi e di critica. 3.2

La Variante Digitale

La Variante Digitale non è la versione online dell’IJMS: per questo il Journal presenta già tre diversi formati che consentono la fruizione multi-device e gratuita in modo semplice e immediato. La Variante Digitale costituisce uno strumento di supporto critico e condiviso per elaborare e approfondire i contenuti del Journal e poter intervenire direttamente sui pezzi pubblicati, arricchirli, chiosarli o indicizzarli, mantenendo chiara l’identità autoriale e costruendo, allo stesso tempo, un percorso di analisi intellettuale aperta e comparata che possa sfruttare le soluzioni e i materiali presenti in rete per un più ampio e fertile discorso su ogni numero monografico. L’idea alla base è quella di replicare alcune sezioni del Journal e di promuoverne altre che non esistono. Lo sviluppo e la partecipazione collettiva alla Variante Digitale non significa necessariamente aderire a visioni e strumenti cosiddetti “2.0” (o 3.0) e neppure a un approccio marcatamente bottom-up di costruzione di un sapere condiviso, né di avere un ambito di gestazione “social” dei contributi: queste prospettive sono contemplate ma non vogliono essere la cifra significativa della Variante, poiché spesso questi aspetti arricchiscono in modo inadeguato i prodotti editoriali accademici, come l’analisi dello stato dell’arte ci ha permesso di osservare. La sfida, come è già stato notato, è di trasformare lo spazio virtuale dei Journal accademici online in un costrutto ipertestuale, interconnesso e aperto, non più limitato alla definizione di alcuni punti di vista o di pro e contra, ma a una partecipazione collettiva di esperti e studiosi che possano dialogare e confrontarsi con strumenti di scambio agevole e immediato. 115


La variante digitale si configura così come una piattaforma di accesso e scambio sociale con un’attenzione alla scientificità dei contributi e alla loro critica aperta. Il sistema principale resta una piattaforma CMS (Content Management System) per proporre e articolare tutti i materiali presenti, arricchita da un sistema OJS per la gestione degli articoli e del processo di valutazione; a questo sistema base si aggiunge un applicativo per la critica testuale online, chiamato Hermes, che consente di accedere a una serie di paper selezionati e lavorarvi in modo ipertestuale, arricchendoli e ampliandone la struttura base mediante forme di iperlink e di commento, notazione, editing multimediale che però rispettano sempre la forma dell’articolo originale. Le recensioni hanno un spazio di costruzione e intervento simile al microblogging, incentivando la proposta di nuove analisi e nuovi punti di vista. Le interviste trovano nella Variante Digitale la dimensione multimediale più estesa, potendo anche essere commentate e indicizzate non solo in base al video ma anche in base alle differenti idee che sono espresse e che hanno nella trasposizione testuale un ulteriore ambito di arricchimento. Le sezioni di Media Ecology e Media Archeology sfruttano una timeline espandibile per andare più a fondo e arricchire i contributi già presenti. Gli aforismi presenti nella versione cartacea trovano qui lo spazio critico per essere spiegati, rianalizzati e criticati insieme ad autori e ricercatori che ne offrono una scansione scientifica precisa. La Variante Digitale presenta infine una sezione chiamata The Wall che offre, numero dopo numero, un vero e proprio muro di contributi audiovisivi legati ai temi del Journal che possono essere non solo ascoltati e commentati, ma arricchiti con ulteriori feedback audiovisivi (registrazioni dirette) da tutti i partecipanti che hanno accesso e credenziali per poter pubblicare nella versione digitale.

Conclusioni Parlare di pensiero critico nell’epoca delle reti è una sfida alla complessità culturale che i diversi strumenti offrono a supporto di comunità accademiche, di ricercatori, di studiosi e appassionati. L’espressione critica trova oggi, infatti, la sua più feconda modalità di confronto interdisciplinare. Ripartire da McLuhan, che è stato uno dei più attenti pionieri contemporanei verso la convergenza di saperi, discipline e modelli di comunicazione, significa trovare un avamposto culturale sul quale poter sperimentare al 116


meglio le possibilità che molti dei nuovi strumenti offrono. Tenendo presente la costante necessità di non lasciare in silenzio il passato che ha portato alle attuali forme di dialogo ed espressione polifonica, la sfida è di arrivare a definire un tessuto partecipativo in grado di misurarsi costantemente non solo con la materia del messaggio che la transdisciplinarietà richiede, ma con i molteplici supporti e le diverse forme relazionali che le stesse discipline oggi devono tenere in considerazione. A questa sfida stiamo cercando di rispondere con cautela intellettuale e con entusiasmo creativo tramite l’International Journal of McLuhan Studies: uno “specchietto retrovisore”, come direbbe McLuhan, con il quale tentiamo di comprendere il presente e tramite cui vorremmo offrire una piattaforma condivisa per incamminarci verso il futuro.

Bibliografia Castells, M., 2004. The Network Society: A Cross-Cultural Perspective, Cheltenham, UK; Northampton, MA: Edward Elgar Pub. Ciastellardi, M. & Patti, E., 2011. The International Journal of McLuhan Studies. Understanding Media, Today. McLuhan in the Era of Convergence Culture, Barcelona: UOC Press. Bolter, J.D. & Grusin, R., 2000. Remediation: Understanding New Media 1st ed., Boston: The MIT Press. Castells, M. & Castells, M., 1996. The Rise of the Network Society, Malden, Mass: Blackwell Publishers. Castells, M. & Castells, M., 2000. The Rise of the Network Society 2nd ed., Oxford!; Malden, Mass: Blackwell Publishers. Havelock, E.A., 1982. The Literate Revolution in Greece and Its Cultural Consequences, Princeton, N.J: Princeton University Press. Hayles, N.K. & Burdick, A., 2002. Writing Machines, The MIT Press. Ito, Y., 1991. “Johoka as a driving force of social change”, Keio Communication review, 12, pp.33-58. Jenkins, H., 2008. Convergence Culture: Where Old and New Media Collide Revised., NYU Press. 117


Kerckhove, D.D., Brainframes: Technology, Mind And Business 1st ed., Bosch & Keuning. Landow, G.P., 1997. Hypertext 2.0: The Convergence of Contemporary Critical Theory and Technology 2nd ed., The Johns Hopkins University Press. McLuhan, M., 1962. The Gutenberg Galaxy; the Making of Typographic Man, Toronto: University of Toronto Press. McLuhan, M., 1964. Understanding Media; the Extensions of Man 1st ed., New York: McGraw-Hill. Nelson, T. (Theodor H.N.), 1987. Literary Macines Edition 87.1, Published by the author. Ong, W.J., 1991. Orality and Literacy: The Technologizing of the Word, London!; New York: Routledge. Postman, N., 1985. Amusing Ourselves to Death: Public Discourse in the Age of Show Business, New York: Viking. Postman, N., 1982. The Disappearance of Childhood, New York: Delacorte Press. Sabbah, F., 1985. “The new media”, in Castells M. (edited by). High Technology, Space, and Society, Beverly Hills, Calif: Sage Publications. Scolari, C., 2004. Hacer Clic: Hacia Una Sociosemiótica De Las Interacciones Digitales 1. ed., Barcelona: Editorial Gedisa.

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McLuhan, il moderno e il postmoderno Stefano Cristante

La questione di come le scienze sociali possano – o debbano – affrontare i mezzi di comunicazione è stato argomento generalmente assai noioso fino all'avvento dei principali lavori di Marshall McLuhan, Galassia Gutenberg (1962) e Understanding Media (1964). Il controverso pensatore/esploratore canadese, di cui ricorre proprio quest'anno il centenario della nascita, spostò in poche pagine piene di scosse elettriche il timone della conversazione: il punto non era più se i media erano decisivi o no nella società e se facevano bene o male agli individui. Il focus era piuttosto sulla natura dei media. Che cos'erano effettivamente la tv, la radio, il cinema, il fumetto e gli altri mezzi espressivi, messi in relazione con oggetti (il denaro, la casa, la ruota, l'orologio) che venivano anch'essi trattati come media, cioè – nel linguaggio di McLuhan – come estensioni degli esseri umani (protesi). Questa impostazione consentiva all'autore l'invenzione di alcuni celeberrimi aforismi, atti a divulgare il concetto percettivo (percetto per McLuhan) che i media inducevano sul pubblico degli utilizzatori non solo effetti (espressione carica di precedenti meccanicistici) ma addirittura mutazione nei rapporti tra esseri umani e mondo. La parola mutazione non appartiene al lessico di McLuhan: tuttavia è impossibile non pensare al mutare profondo delle menti e delle modalità di uso/consumo del mondo qualora si accetti la presenza pervasiva dei media nella nostra vita e se ne riconosca la costituzione formale. Il medium è il messaggio, infatti. La comprensione (understanding) dei media è preclusa alle scienze sociali fino a che l'azione cognitiva è ancorata alla persistenza del senso comune. Il ritornello conformista recita (a tutt'oggi) che “i media non sono buoni o cattivi di per sé, ma secondo l'uso che se ne fa”. McLuhan, rischiando il linciaggio da parte della comunità intellettuale internazionale, scrisse che non era affatto importante stabilire cosa volesse dire usare bene o male la televisione, ad esempio privilegiando nel palinsesto delle emittenti i documentari culturali o viceversa le partite di calcio. Il contenuto dei media era questione tutto sommato marginale. Il fatto essenziale diveniva la comprensione della natura tecnologica dei media, di cui non si poteva che dedurre un ruolo intensificativo e 119


interattivo (i cosiddetti media freddi) o viceversa l'inondazione informativa capace di colmare le percezioni sensoriali specifiche (l'udito nel caso della radio, medium caldo per eccellenza). I modi attraverso cui McLuhan arrivò alle sue conclusioni sono eccentrici per la saggistica della sua epoca, e anche per la nostra. Citazioni inattese e ad amplissimo spettro, metafore sorprendenti, prosa che si innalza nella speculazione raffinata e provocatoria e quindi si abbassa di colpo sui bassifondi delle produzioni culturali. McLuhan è stato un pensatore raramente incasellato tra i postmoderni, eppure è difficile trovargli collocazione più adeguata. McLuhan morì alla fine del 1979, lo stesso anno in cui uscì La condizione postmoderna di Jean-Franҫois Lyotard. Il filosofo francese dichiara fin dagli esordi del suo “Rapporto sulla conoscenza” (sottotitolo del libro) alcuni salti di qualità della società industriale moderna (“le società più sviluppate”) che portano alla decisione di “chiamarla postmoderna”. “La definizione – prosegue Lyotard - è corrente nella letteratura e critica del continente americano. Essa designa lo stato della cultura dopo le trasformazioni dalle regole dei giochi della scienza, della letteratura e delle arti a partire dalla fine del XIX secolo. Tali trasformazioni saranno messe qui in relazione con la crisi delle narrazioni”. Se il libro del filosofo francese avesse contemplato un capitolo specifico sui media, l'introduzione mcluhaniana di Understanding media ne sarebbe stata una feconda prefigurazione. Credo che una parte dei problemi e delle polemiche tra i mediologi italiani sul “che pensare” intorno alla società delle reti derivi da quell'ormai antico dibattito sulla condizione postmoderna. Vi è stato – credo – un indubbio merito da parte di alcuni studiosi italiani di media (a cominciare da Alberto Abruzzese) nel dispiegare un'indagine a largo spettro (si potrebbe dire “antropologica”) sulle forme espressive della modernità. Indagine sulla creazione di pubblico da parte dell'industria culturale mentre crescevano i media di massa, ricerca sul surplus cognitivo delle avanguardie storiche nell'era televisiva, sperimentazione di letture diagonali dei più poveri tra i media (ad esempio sul fumetto pornografico degli anni '70) per arrivare a comprendere la mutazione degli immaginari collettivi orientati dalla tecnologia. L'approccio mediologico di Abruzzese – anche al di là della sua controversa ricezione da parte della pubblicistica d'autore nazionale – ha comportato uno stretto legame con il 120


postmoderno. Con qualche ambiguità, la principale delle quali è stata la comunanza prospettica di elementi estetici sul mondo in accadimento e l'ansia di leggere il futuro nel presente. Postmoderno, al di là delle intenzioni di Lyotard, ha preso a significare una tendenza para-artistica alla visione del futuro in atto. E anche la mediologia italiana ha rischiato questa succursale della ricerca antropologica primigenia. Il modo in cui si è guardato a film come Blade Runner o a storie a fumetti come quelle di Moebius e di Druillet dice molto sull'istanza di “indursi/indurre stupore” attraverso nuove visioni. La metropoli cambia il suo statuto in megalopoli e diviene il regno di una sorta di multitempo estetizzante: piramidi maya che ospitano multinazionali della manipolazione genetica, abiti anni '20 spruzzati di tecnologia del XXI secolo, cibi multi-etnici, tecniche di elaborazione dell'immagine derivate dallo sviluppo prepotente del digitale e dalla presenza informatica di massa. La metropoli, per i mediologi italiani e soprattutto per Abruzzese, è stata la cornice principale dell'elaborazione teorica, mater-polis di tutti i media moderni e di massa. La metropoli con i suoi reticoli, le sue esplosioni irrazionali, i suoi passages, i suoi immaginari asimmetrici. La metropoli con i suoi schermi, prima quello seduttivo e rappresentativo del cinema, poi quello accelerato e claustrofobico del video. Cosa cresceva nelle periferie delle metropoli, quali nuovi e potenti barbari se ne stavano appropriando silenziosamente? Nel frattempo, a partire dall'inizio degli anni '80 del XX secolo, uno degli oggetti privilegiati dell'indagine di Lyotard – l'informatica – conquistava nuovi formidabili spazi di penetrazione collettiva. Il legame sociale digitale diventava ancora più evidente con la creazione di internet. Il problema non era più il reticolo metropolitano, ma la rete a livello globale. Pratiche di massa annunciate non da Blade Runner di Ridley Scott (sociologicamente assai meno visionario dell'omonimo romanzo di Philip K. Dick) ma da Neuromante di William Gibson. Giovani cowboys del cyberspazio pronti a perdere le proprie catene metropolitane e a proiettarsi nel Big Risk del sabotaggio della nuova società tecnocratica. Un immaginario non del tutto inedito (già il riferimento alla frontiera americana ne è indizio) e tuttavia potente perché imposta la condizione postmoderna in una cornice tecnologica di nuovo tipo. Il vecchio McLuhan ne aveva sentito l'odore, durante le sue passeggiate nevrotiche nel boulevard dei media degli anni '60: il suo famoso Global Village poteva benissimo essere l'antenato fricchettone di un nuovo spazio di scambio vibrante nell'unico connettore universale planetario: 121


l'elettricità. Questo atteggiamento è entrato in risonanza con le ricerche sulle forme estetiche dei media: ai mediologi italiani McLuhan è piaciuto per questo. Non perché profetizzava l'avvento di sorti magnifiche e progressive dell'industria culturale, ma perché proponeva una lanterna per illuminare lo spazio ottuso dei media tentando di coglierne le tendenze meno evidenti. McLuhan infatti usava le parole come pallottole multimediali: diceva Village, e non Town o City. Villaggio, quindi ritorno di una forma precedente di aggregazione umana, e tuttavia globale. L'espressione potrebbe essere sostituita sensatamente da Wired Village, villaggio interconnesso. Ma perché villaggio e non città, perché non metropoli? McLuhan ce lo spiega nel breve saggio sull'automazione che chiude Understanding media, quando attribuisce all'elettricità il valore di un super-medium che allaccia gli esseri umani in una connessione permanente, e ciononostante riadattata a una condizione di neo-tribalità, stabilendo una indissolubile concatenazione tra sviluppo dell'immagine audiovisiva dominante (Abruzzese parlerebbe di “potere dello schermo”) e nuova esplosione di oralità (mediata, quindi “secondaria”, ma non per questo meno potente), dopo secoli di egemonia dei saperi e dell'esperienza gutenberghiana della scrittura seriale a stampa. La difficoltà dei mediologi italiani consiste nell'aver sposato (non senza iniziali resistenze) sia la condizione postmoderna proposta da Lyotard e immaginata da McLuhan attraverso l'esplorazione tecno-psichica dei media sia il postmodernismo come anelito culturale ad una condizione postumana. Internet e poi altri media dello spazio digitale hanno prodotto in questo senso ulteriori problemi. Non solo sul versante “duro” e spigoloso della questione (di chi è il potere nella dimensione delle reti digitali e delle piattaforme multimediali? Chi sta cambiando l'economia-mondo attraverso l'esplosione della vita telematica di massa?) ma anche su quello (forse) più raffinato del mondo che si ricrea nell'utilizzazione collettiva di internet e dei social media. Nel cosa accade negli immaginari collettivi nel momento in cui Internet ne rappresenta il pilastro (un pilastro per nulla “immateriale”). I tracciati di ricerca risentono di questi contrasti e di queste percezioni. In parte si opera come se lo scarto cognitivo indotto dalle nuove tecnologie fosse riassorbibile da un'indagine attenta principalmente alla formazione sempiterna di poteri e domini di nuove lobby e gruppi egemonici, che vanno ridisegnando le geografie politiche globali e locali. In parte si lavora sui segmenti di fascinazione del legame sociale digitale come si 122


trattasse ancora di una visione da presentare con l'eleganza di una moda rivoluzionaria. Scrivendo il cambiamento come una stazione privilegiata di abbondanze semiotiche e semi-letterarie. Rispondendo alla domanda “Cos'è, quindi, il postmoderno?”, Lyotard scriveva che “è indubitabilmente parte del moderno”. E aggiungeva qualche riga dopo che il “postmodernismo finalmente compreso non è modernismo al suo termine, ma modernismo nel suo stato nascente, e questo stato è costante”. Il dibattito nazionale sul postmoderno e la sua fine annunciata sembra ruotare in questa fase sulle conseguenze non

previste

della

crisi

delle

grandi

narrazioni

otto-novecentesche,

che

coinvolgerebbero anche il presupposto postmodernista (più che postmoderno) del primato dell'interpretazione e sul relativismo esasperato delle proposte filosofiche. Se valga o meno una pretesa di senso che indaghi non solo che cosa il pensiero recente ha descritto del mondo, ma anche di quale mondo abbia prodotto. Lo scarto postmoderno, in questa prospettiva, abbandona il terreno fecondo della crisi della modernità attraverso indagini a largo spettro antropologiche (tali considero i lavori di Lyotard e l'esplorazione dei media da parte di McLuhan) e diventa il pensiero medio (né forte né debole, a ben vedere) di un'epoca inaugurata in Occidente da Ronald Reagan e da Margareth Thatcher e in Italia dalla marcia dei 40mila tecnici della Fiat all'inizio degli anni '80. Un periodo che non solo non si è ancora chiuso, ma che ha dimostrato le straordinarie attitudini della modernità tecnonichilista a creare disagi di massa e a rendere abissi le disuguaglianze sociali.

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NOTE BIOGRAFICHE

Relatori “Comunicazione e Menzogna” Vanni Codeluppi Vanni Codeluppi è sociologo dei consumi. Ha insegnato nelle Università di Urbino, Palermo e IULM di Milano. Attualmente è docente presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione e dell’Economia dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Ha tra l’altro pubblicato i volumi Consumo e comunicazione. Merci, messaggi e pubblicità nelle società contemporanee (Angeli, 1989), La pubblicità. Guida alla lettura dei messaggi (Angeli, 1997), Lo spettacolo della merce. I luoghi del consumo dai passages a Disney World (Bompiani, 2000), Che cos’è la pubblicità? (Carocci, 2001), Il potere della marca. Disney, McDonald’s, Nike e le altre (Bollati Boringhieri, 2001), Manuale di Sociologia dei consumi (Carocci, 2005), La vetrinizzazione sociale. Il processo di spettacolarizzazione degli individui e della società (Bollati Boringhieri, 2007), Dalla corte alla strada. Natura ed evoluzione sociale della moda (Carocci, 2007) e Il biocapitalismo. Verso lo sfruttamento integrale di corpi, cervelli ed emozioni (Bollati Boringhieri, 2008).

Elena Esposito Elena Esposito ha studiato in Italia e in Germania, e insegna Sociologia della Comunicazione all’Università di Modena e Reggio Emilia. Ha pubblicato molti saggi sulla teoria dei sistemi sociali, sulla teoria della memoria e sulla teoria della moda, tra cui Soziales Vergessen. Formen und Medien der Gedächtnis der Gesellschaft, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 2002 (versione italiana parziale Laterza, Roma-Bari, 2001); I paradossi della moda. Originalità e transitorietà nella società moderna, Baskerville, Bologna, 2004 (versione tedesca Suhrkamp, Frankfurt a.M., 2004); Probabilità improbabili. La realtà della finzione nella società moderna, Meltemi, Roma, 2008 (versione tedesca Suhrkamp, Frankfurft a.M., 2007). Al momento lavora sulla gestione del tempo nei mercati finanziari, argomento sui cui ha già pubblicato „Zeitmodi“, Soziale Systeme 12, 2: 2006, pp.328-344 e „The Time of Money“, Soziale Systeme, 13, 1-2: 2007, pp.265-274. 1! 25


Guglielmo Forges Davanzati Guglielmo Forges Davanzati è professore associato di Storia del pensiero economico e titolare dell'insegnamento di Economia Politica dei sistemi di Welfare presso la Facoltà di Scienze Sociali, Politiche e del Territorio dell'Università del Salento. Ha scritto numerosi articoli scientifici su riviste internazionali concentrando i suoi interessi, in particolare, sulle relazioni fra mercati finanziari e mercato del lavoro. Ha recentemente pubblicato Credito, produzione, occupazione: Marx e l'istituzionalismo (Carocci, Roma 2011) ed è stato insignito del premio EAEPE-KAPP 2012 per il miglior articolo pubblicato da un economista europeo nel 2011 nell'ambito della teoria economica istituzionalista.

Alfredo Reichlin Giornalista e politico, fu partigiano italiano tra le Brigate Garibaldi durante la Resistenza. Allievo di Palmiro Togliatti, fu vicesegretario della Federazione Giovanile Comunista Italiana. Nel 1955 entrò ne l'Unità, di cui tre anni dopo divenne direttore. Deputato nazionale del PCI fin dal 1968, durante gli anni Settanta entrò nella direzione nazionale del partito e collaborò gomito a gomito con Enrico Berlinguer. Dal 1989 al 1992 fu "Ministro dell'Economia" del governo ombra del Partito Comunista Italiano. Alfredo Reichlin è stato il presidente della commissione per la stesura del "Manifesto dei Valori" del Partito Democratico. Tra le sue opere: Dieci anni di politica meridionale. 1963-1973 (Editori Riuniti, 1974) e Classi dirigenti e programmazione in Puglia (1976). Il midollo del leone. Riflessioni sulla crisi della politica (Laterza, 2010).

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Relatori “Come usare McLuhan nell’epoca delle reti”

Alberto Abruzzese Docente di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi. Responsabile scientifico del Master in Management dei processi creativi. Presso la IULM è stato Preside della Facoltà di Turismo, Culture e Territorio, e ProRettore allo sviluppo, innovazione e ai rapporti internazionali. Ha insegnato Sociologia delle comunicazioni di massa all’Università “La Sapienza” di Roma e Sociologia dell’arte e Sociologia della cultura a Napoli. È stato a lungo Direttore del Master in Ideazione, Management e Marketing degli Eventi Culturali presso la Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università “La Sapienza” di Roma. È autore di saggi sulla comunicazione e sui nuovi media, in un lungo percorso teorico che va da Forme estetiche e società di massa (Marsilio,1973) fino a Sociologie della comunicazione (con P. Mancini, Laterza, 2007). Svolge ricerche sulle comunicazioni di massa e organizza ricerche, convegni e seminari. Ha svolto attività di ricerca (varietà, telefilm, palinsesto, soap-opera, ecc.) per la RAI e per Mediaset, per il CNR e per il Ministero dei Beni Culturali, e si è dedicato a un’intensa attività pubblicistica su vari quotidiani e periodici (Rinascita, Manifesto, Espresso, Mattino), intervenendo sulle strategie espressive e sulle politiche culturali di cinema, TV, informazione.

Nello Barile Nello Barile insegna Introduzione ai media e Sociologia dei processi culturali nel Corso di Laurea in Relazioni pubbliche e pubblicità dell’Università IULM di Milano. È autore di numerosi articoli sui consumi, sulla filosofia dei media e sulle implicazioni sociali delle nuove tecnologie. Tra le sue più recenti pubblicazioni: La mentalità neototalitaria (Apogeo, 2008) e Sistema moda. Oggetti, strategie, simboli, dall’iperlusso alla società low cost (EGEA, 2011).

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Davide Borrelli Professore associato di Sociologia dei processi culturali, si occupa di storia dei media e dell’industria culturale. Fra le sue ultime pubblicazioni: Pensare i media. I classici delle scienze sociali e la comunicazione (Roma, 2010) e Il mondo che siamo. Per una sociologia dei media e dei linguaggi digitali (Napoli, 2008).

Andrea Miconi Insegna Introduzione ai media e Sociologia dei processi culturali presso l'Università IULM di Milano. Negli anni passati ha partecipato al progetto di ricerca “Società delle Reti, Inclusione Digitale e Spazi Pubblici”, e attualmente lavora alla ricerca “Screen- Servizi e Contenuti per le Reti di Nuova Generazione” per l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. Dirige, con Alberto Abruzzese e Domenico Fiormonte, la collana “Scenari della Comunicazione” per l'editore Armando, ed è membro della redazione della rivista “Problemi dell’Informazione”. Ha

curato

l'edizione

italiana

dell'opera

di

Harold

Innis, Impero

e

comunicazioni (Meltemi 2001) ed è autore di Una scienza normale. Proposte di metodo per la ricerca sui media (Meltemi, 2005). Tra le pubblicazioni recenti, Origini e struttura della network society (Laterza, 2012).

Giovanni Ragone Insegna Mediologia, Mediologia della letteratura, dell'arte e dello spettacolo, Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università di Roma “La Sapienza”,

Direttore

del

Centro

interdipartimentale

di

ricerca

e

servizi

DigiLab. Interessi di ricerca e lavori rilevanti in diversi campi: la Sociologia dei media e dell’immaginario, l’editoria e gli ambienti digitali, la pubblicità, la comunicazione della memoria culturale, il digital heritage, l’e-learning, la mediologia della letteratura, i sistemi avanzati di istruzione superiore, la letteratura comparata e la letteratura italiana. Ha coordinato ricerche e convegni su catastrofe ambientale e media, sull’editoria digitale e sulla comunicazione delle istituzioni culturali sul web. Ha diretto per la casa editrice Liguori (Napoli) la collana scientifica “Mediologie”, con A. Abruzzese, G. Frezza, G. Pecchinenda, e dirige la 1! 28


collana "e-Media Books. Tra le pubblicazioni scientifiche recenti: Classici dietro le quinte. Storie di libri e di editori italiani, da Dante a Pasolini (Laterza, 2009); La mente e il vortice. M. McLuhan, Gutenberg Galaxy, in Mediologia. Il cammino di una disciplina attraverso i suoi classici, a cura di M. Pireddu e M. Serra (Liguori, 2012).

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