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Quaderno di comunicazione rivista di dialogo tra culture


Quaderno di comunicazione nuova serie

Direzione Angelo Semeraro Comitato di Consulenza Scientifica Alberto Abruzzese Marc Augé Egle Becchi Ferdinando Boero Raffaele De Giorgi Derrick de Kerckhove Paolo Fabbri Pina Lalli Michel Maffesoli Roberto Maragliano Mario Morcellini Salvatore Natoli Peppino Ortoleva Mario Perniola Agata Piromallo Gambardella Augusto Ponzio Elena Pulcini Antonio Santoni Rugiu Aldo Trione Ugo Volli Segretario di Redazione Mimmo Pesare

Pubblicato con il contributo del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione erogato tramite il Dipartimento di Filosofia e Scienze sociali dell’Università del Salento

Amministrazione e abbonamenti Mimesis Edizioni Redazione via Risorgimento, 33 - 20099 Sesto S.G. - Italy telefono +39 02 24861657 / 24416383 fax +39 02 89403935 www.mimesisedizioni.it mimesis@mimesisedizioni.it Sede legale della società MIM Edizioni Srl Via Chiamparis, 94 33013 Gemona del Friuli (UD) info.mim@mim-c.net fax +39 0432 983175 La rivista può essere acquistata rivolgendosi alla casa editrice o alla sig.ra Luisa Fumagalli (luisa@mimesisedizioni.it). Si può comprare la rivista anche on-line: http://www.mimesisbookshop. com/shop/ È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia, anche a uso interno o didattico, non autorizzata. Registrazione presso il tribunale di Roma n. 600/99 del 14/12/1999

Tutti i numeri del Quaderno sono consultabili al sito web: www.quadernodicomunicazione.com


Indice

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Questo numero (a.s.)

Emergenze, preveggenza

p. 13

Pietro Clemente, Nel 2049. Immaginazioni di un antenato

p. 21

Ferdinando Boero, Ci dobbiamo preoccupare?

p. 31

Franco Martina, Alle sorgenti dello spirito pubblico

p. 41

Roberto Malighetti, Intra ordinem. Emergenza, cooperazione, sovranità

p. 45

Luciano Ponzio, Responsabilità della scrittura nella riproduzione dell’identico

p. 57

Diana Salzano, Preveggenze di rete, reti di emergenza

p. 65

Antonio Iannotta, La sveglia di Marshall McLuhan

p. 73

Luigi Prestinenza Puglisi, Ecologie contemporanee

p. 79

Zaira Magliozzi, Architettura 2010-2060

p. 83

Peter Sloterdijk, Design di una società co-immunitaria

p. 89

Studi e Ricerche

p. 91

Mara Benadusi, Sri Lanka: tsunami 2004. Il futuro-presente dell’emergenza umanitaria

p. 103

Irene Falconieri, Politiche pubbliche. Il caso etnografico di un comune della Sicilia Nord-orientale

p. 113

Igor Scognamiglio, Campania infelix

p. 121

Giovanna Salome, Martinica. Gestione della catastrofe invisibile


p. 131

Reset

p. 133

Marina Boscaino, La descolarizzazione a tappe forzate

p. 143

Stefano Cristante, Scienze della Comunicazione tra “amenità” e proiezioni

p. 151

Tessiture

p. 153

J. Rifkin, La civiltà dell’Empatia (A.Semeraro)

p. 155

P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita (A.Semeraro)

p. 157

R. De Monticelli, La questione morale (A.Semeraro)

p. 159

S. Žižek, Vivere alla fine dei tempi (M.Pesare)

p. 161

F. Carmagnola, M. Bonazzi, Il fantasma della libertà (M.Pesare)

p. 163

M. Recalcati, Cosa resta del padre? (M.Pesare)

p. 164

E. Pulcini, L’invidia. Una passione triste (E.Fabrizio)

p. 167

C. Formenti, Felici e sfruttati (G.Forges Davanzati)

p. 169

M. Pesare, Abitare ed esistenza (C.Degli Atti)

p. 170

P. Gobetti, Lo scrittoio e il proscenio. Scritti letterari e teatrali (M.G.Barone)

p. 172

P. Calefato, Metamorfosi della scrittura. Dalla pagina al web (L.Carbonara)

p. 173

A. Belardinelli, Che intellettuale sei? (A.Semeraro)

p. 177

Autori

Il 27 settembre ci ha lasciati Antonio Santoni Rugiu, più volte presente con i suoi scritti nel QC, del cui Comitato di Garanzia faceva parte. Unendoci alla famiglia, agli amici, ai colleghi e agli allievi che lo ebbero caro, dedichiamo questo fascicolo alla memoria della sua intensa attività di studioso dei fatti educativi e comunicativi.


Questo numero

Nell’invitare alla collaborazione di questo XII fascicolo del QC, sostenevamo che è venuta a mancare quella capacità di prevedere – arte del buon governo di sé e della cosa pubblica – che in altre stagioni fu ritenuta virtù rivoluzionaria, anche se tutte le rivoluzioni storicamente inventariabili non seppero poi preconizzare le ragioni dei loro stessi fallimenti se non attraverso gli occhi di cassandre inascoltate e vilipese. Preveggenza – sostenevamo – è capacità di analizzare segni, lanciare sguardi oltre il visibile, attivare quel teoreín con cui i greci indicavano un’intensificazione dello sguardo attraverso l’osservazione attenta che portava lo spettatore a superare la indistinzione delle cose. Più forte del teoreín era l’óssestai del vedere partecipe, curotrofico e preveggente; forma verbale desiderante, contagiosa, e perciò utile all’apprendimento per via emulativa. La capacità di preveggenza, sinonimo di precognizione, preconoscenza, chiaroveggenza e altro ancora, è oggi clamorosamente ignorata, quando non del tutto disdegnata, dal mondo scientifico. La diffidenza viene forse dal largo uso che ne ha fatto la teologia, attribuendo a un solo dio la conoscenza di tutte le cose possibili e immaginabili, fin dall’inizio. Nella sua Guida dei perplessi, Maimonide, riteneva però che questa facoltà onnisciente dell’onnipotente non fosse sufficiente a privare gli uomini dalla responsabilità delle loro azioni. E su quella strada lo avrebbero seguito altri autorevoli padri della Chiesa. Più tardi, con Hobbes, il principio della responsabilità sarebbe entrato tra i prodromi del pensiero liberale. Il mondo classico era stato ricco di icone divinatorie e di metafore legate alla visione. Cassandra, Tiresia, Tersite, oracoli e sibille: tutte figure dotate a diverso titolo di virtù premonitrici. Tersite, privato della vista, sarebbe stato compensato dagli déi con la capacità di prevedere il futuro. Edipo avrebbe rinfacciato a Tiresia la sua cecità, perdendo egli stesso la vista dopo la fatale hamártema (colpa), sicché a Sofocle toccò di prestare a Tiresia le parole da rivolgere a Edipo: “Poiché hai rinfacciato la mia cecità, ti dico che tu hai gli occhi ma non vedi il male entro il quale ti trovi”. Su Cassandra e la maledizione di Apollo lascio la parola a Boero che ne parla più avanti. Umberto Curi, esaminando questi antichi miti a vantaggio delle generazioni del web, commentava che: “il problema non è se il prigioniero della caverna o Edipo o Tiresia vedano o se siano ciechi, quanto piuttosto di do-


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mandarsi che cosa essi vedano, e rispetto a che cosa siano ciechi”, che è come dire in quali modi questa physis possa essere modificata tramite una paidéia. Possiamo ancora educare a sguardi lunghi, oltre la superficie delle cose, del già visto e del già detto? Possiamo ancora affidarci agli intellettuali, allenatori del futuro, e alle aule scolastiche e universitarie per questo addestramento? O siamo già fuori dal tempo consentito? La questione, su scala più grande, è se questa capacità predittiva e desiderante dell’óssestai sia passata nelle mani di quei guardiani delle speranze che sono gli intellettuali, abituati a lasciare i loro messaggi in bottiglie affidate ai mari e alle maree. Su questa figura sociale, in bilico tra ascetismo e acrobatica – per dirla con Sloterdijk –, i discorsi si riaprono in continuazione, soprattutto quando le piazze prendono coscienza dei conflitti di valore in cui siamo immersi e delle passioni (tristi) che ci agitano, e torna ogni volta la domanda sul come siamo divenuti ciò che siamo (si vedano qui la riflessione di Franco Martina sul neoimpegno della cultura e le tessiture tra Che intellettuale sei? di Berardinelli, La questione morale di Roberta De Monticelli). Prevedere le conseguenze delle scelte (e delle non scelte) è un atto di responsabilità intellettuale che andrebbe posta in agenda con una certa urgenza. La previsione gramsciana, poco richiamata per la verità in queste pagine, aveva qualcosa a che fare non tanto con gli aspetti scientifici della conoscenza quando se ne gerarchizzino le forme di accesso, quanto con i limiti di ogni sapere separato, chiuso nel bozzolo del proprio specialismo. In tal senso Gramsci non la poneva sul crinale di uno sterile conflitto tra scienze dure della physis e concezione umanistica storica (senza la quale “si rimane specialista e non si diventa dirigente” – scriveva –, mutuando in parte il pensiero di Pareto). Lo specialismo resta cosa utile e necessaria per fare avanzare scienza e conoscenze, ma senza società, ossia senza comunicazione, esso non diventa cultura popolare; non incide sull’organizzazione sociale. “Si può prevedere nella misura in cui si opera [...]” – scriveva nelle Note a Machiavelli –, aggiungendo che la previsione è “un modo pratico di creare una volontà collettiva” (ed. Gerratana 1975, p.1404). C’è da prendere atto che non si sono fatti significativi investimenti cognitivi sull’empatia sociale; che la pasoliniana luce del futuro ha cessato di ferirci, e che il futuro sta progressivamente uscendo dal vocabolario d’uso delle nuove generazioni. Servirebbero invece previsioni, utopie, poesia e arti poietiche, e forse anche un po’ più di intellettuali eretici, nel significato più proprio che il lemma racchiude. Non solo compilatori di lunari e almanacchi disciplinari, ma interpreti infedeli, e anche un po’ visionari; non solo scienza, ma un di più di fantascienza; non più glosse a margine del consolidato, ma intersezioni tra emisferi geografici e mentali. “Manca una bella sintesi del progressismo accanito e cieco ma lungimirante della mia generazione” mi scrive Pietro Clemente in uno scambio di mail intercorso nella preparazione di questo numero. E non manca di farmi notare i vantaggi di una perdita del futuro in un presente lungo che ne ha invaso i territori. “Forse è proprio la perdita del futuro escatologico – scrive – che ci ha fatto riconciliare con il tempo plurale delle differenze, con l’idea che il futuro non è uno, lo stesso, il ‘migliore’ per tutti”. Ecco un bel modo di rinnovarsi senza rinnegarsi di una generazione che non può non dirsi gramsciana.


*** Emergenza è con tutta evidenza una delle categorie più utilizzate nel linguaggio politico contemporaneo e in quello dei mezzi di comunicazione. Un tema ricco di sollecitazioni, su cui gli autori di questo fascicolo hanno scavato con ricerche anche originali, soprattutto i giovani ricercatori della vilipesa università pubblica. L’agenda dell’emergenza registra cose molto diverse tra loro: la crisi economica globale come l’esplosione di una centrale nucleare, le perturbazioni climatiche particolarmente intense, l’arrivo di centinaia di migranti, la gestione dei rifiuti, il traffico eccessivo che rischia di congestionare una città, la morte di civili durante una guerra. Questo e molto altro ancora, per Irene Falconieri. Letta in chiave millenaristica, come ha fatto di recente Žižek (Vivere alla fine dei tempi, recensito da Pesare in Tessiture), essa si drammatizza nelle figure dei quattro cavalieri di una apocalisse prossima ventura.

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Antonio Iannotta, giovane ricercatore, si affida a McLuhan, una tra le più forti stature preveggenti del Novecento, per riprendere in mano le corna del dilemma emergenziale e previsionale: Guardiamo il presente in uno specchietto retrovisore. Arretriamo nel futuro. Può sembrare uno di quei paradossi che mandano in evidenti godimenti i sociologi della comunicazione, ma il punto è che se spingiamo lo sguardo oltre la terra ferma del qui-e-ora, il mostruoso del cattivo passato (che non vuole passare) riemerge e ci investe con la violenza di uno tsunami. Senza il fardello storico del passato non si dà la possibilità di pensare al futuro e si rimane prigionieri della coazione al sempre-identico. Günther Anders (che volle definirsi un filosofo per caso), passato attraverso l’inferno dell’Olocausto, ci ha avvertiti sull’inadeguatezza del nostro sentire, che non è un difetto tra tanti, “ma la peggiore delle cose che sarebbe potuta accadere”. E che puntualmente è accaduta, o quanto meno ci ha provato e ci riprova, con ondate cicliche di revisionismo e negazionismi. Le culture popolari, prescientifiche e “sensitive”, sentono e sanno prevedere. Quel sentire non è solo, come nella concezione rinascimentale che straordinariamente ha saputo interpretare il compianto Badaloni, un fatto naturale: l’indistinto uomo-natura dovuto alla contiguità preindustriale degli esseri umani con i fatti naturali, bensì il carico di esperienza che le culture subalterne hanno accumulato nel loro lungo cammino di emancipazione. Nel metastorico demartiniano si difende e si preserva la presenza minacciata degli umili. Il magismo e la ritualità trasfigurano e mitigano la durezza del principio di una realtà alienata e reificata. Badaloni richiamava – tra gli altri – Machiavelli, che nei Discorsi ebbe a scrivere: “Innanzi che segnino i grandi accidenti, vengono segni che gli prognosticano o uomini che gli predìcano” (e faceva l’esempio del Savonarola). Per il fondatore della scienza politica moderna, interpretazione e rivelazione si trovano in una regione di ambiguità, tra “invenzione” e lettura ermeneutica degli eventi. La base ontologica della semiotica restava “l’aere pieno di intelligenze avvertitrici”. Forse oggi prevediamo meno – di nuovo Clemente – ma teniamo più forti speranze. “Forse non basta pensare che una cosa succeda, bisogna farla succedere”. L’esercizio di immaginare il futuro va fatto, per rispondere alle emergenze del tempo e per evitare di vivere in uno stato emergenziale continuo. Ecco riemergere la necessità di creare una volontà collettiva, di cui parlava Gramsci.


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Per il filosofo sloveno l’emergenza assume il volto minaccioso del collasso ecologico, della riduzione biogenetica degli uomini a macchine manipolabili, del controllo digitale totale sulle nostre vite e della crescita delle esclusioni sociali. Il quadro prospettato in questo libro monstruum è di una violenza sconosciuta nel passato: speculazioni finanziarie e catastrofi di vario tipo (naturali, fisiche, mentali). La crescita progressiva delle situazioni di rischio – e la necessità di dovervi far fronte – comportano una riorganizzazione dei poteri e delle competenze, rendendo ogni aspetto della vita collettiva suscettibile di diventare fenomeno emergenziale da gestire con procedure d’urgenza. Beck ce lo aveva già spiegato nel 1994. L’abuso di questo strumento e delle retoriche che lo accompagnano, sostiene qui Falconieri, non rispondono a logiche casuali, ma seguono un preciso progetto politico e comunicativo. L’evocazione di una situazione di emergenza non deriverebbe tanto dalla necessità di risolvere con urgenza un problema, quanto dal bisogno di riproduzione e legittimazione della classe politica e delle élite dirigenti. In Italia (dove l’emergenza costerebbe 13.5 miliardi, stando alle stime prudenti dei giornalisti Rizzo e Stella) il ricorso a misure e strumenti non ordinari ha una tradizione consolidata. L’emergenza è pur sempre un business e in quanto tale conviene molto più di un’ordinaria attività preventiva e manutentiva. A tale proposito Agamben ha parlato del nostro Paese come di un vero e proprio laboratorio politico-giuridico: attraverso decreti d’urgenza vengono sperimentati nuovi modelli legislativi che diventano successivamente fonte ordinaria di produzione del diritto. L’ampliamento dei poteri assegnati alla Protezione civile ad esempio, ha moltiplicato le emergenze, contribuendo a rendere lo stato d’eccezione il paradigma dominante di governo, con ciò influendo negativamente sulle capacità di prevenzione e di intervento nei territori esposti a diversi fattori di rischi. Vere e proprie forme di abuso del territorio, di espropriazione degli spazi quotidiani e di deportazione dei cittadini si sono visti, ad esempio, nella gestione della crisi aquilana. Non v’è dubbio che una gestione perennemente emergenziale della cosa pubblica indebolisca le capacità e la volontà di progettazione, contribuendo semmai a rafforzare una cultura del vivere sociale ancorata a un eterno presente, incapace di immaginare un futuro che vada oltre il domani. In nome dell’emergenza – sostiene a sua volta Roberto Malighetti, aprendo l’analisi sull’intero scacchiere globale – gli organismi internazionali e transnazionali agiscono sul territorio come “sovranità mobili”, realtà che impongono imperativi legittimati dalla difesa di valori proclamati come universali [...]”. Proviamo a mettere un punto qui, sia pure provvisorio. A quanto sostengono alcuni degli autori, l’emergenza conviene; apre varchi eccezionali alla regolamentazione ordinaria e all’ordinaria amministrazione della cosa pubblica di cui si nutrono i gruppi influenti, le organizzazioni malavitose e criminali, i Grands Commis di ogni rango. L’economia mainstream non ha i tempi delle democrazie; marcia veloce via internet, decide digitando e promuove governance spericolate, signori dei fini senza mezzi, che non sanno più cosa sia una fede pubblica, né sembrano preoccupati per le ricadute delle decisioni adottate su quelli che sopravverranno. Come ha potuto fiorire e trionfare una neoideologia dell’utile privato a scapito della felicità pubblica? Come si è potuta verificare una mutazione tanto repentina


Domandarsi con Umberto Curi “cosa vediamo e rispetto a che cosa siamo ciechi” significa modificare profondamente gli statuti di una paideia umanistica. Sloterdijk – di cui per concessione dell’editore Cortina riportiamo le ultime pagine del recente Devi cambiare la tua vita – prova a riformulare l’imperativo categorico di ogni etica off course, in un imperativo ecologico. Convinto della necessità di un “filosofare previsionale”, l’imperativo del presente assume nel filosofo tedesco contorni più definiti; un nuovo stringente rapporto tra biosfera e biopolitiche. “Agisci come se gli effetti del tuo agire siano conciliabili con la permanenza di una vita autenticamente umana sulla Terra”. Il design di una società globale co-immunitaria richiede risposte audaci, e si tratta di modificare innanzitutto il lessico simbolico quotidiano che adoperiamo: chi dice “umanità” o “solidarietà” usa oramai parole vuote; l’umanità – fino a prova contraria – più che un organismo aggregante non è che un aggregato di organismi del tutto incapaci di integrarsi in funzioni operative. Lo stesso concetto di mondo è un residuato ideologico che nasconde l’egoismo dell’occidente e delle potenze emergenti. Molto prossima alla rifkiana civiltà dell’empatia, la prospettiva da Sloterdijk di un’altra civiltà richiama la necessità di continue ascese; piccoli, quotidiani progressi su se stessi per vincere le inerzie di una totalità inerme. Non disponiamo che delle nostre personali responsabilità. E la via “ascensionale” dell’autoriforma tracciata da Sloterdijk costituisce un persuasivo aggiornamento nella prospettiva di una paideia dell’oltre (Ümbildung). Assumere l’intero pianeta nella sfera degli interessi personali per rendere globale una comunità immunitaria non sarà facile. Se ciò avverrà, sarà il frutto di una volontà collettiva – ancora Gramsci – , continuamente alimentata dal desiderio di ciascuno a superare se stesso, vincendo le resistenze dei localismi e dei nuovi conformismi. * * * Alle acute analisi di Falconieri, Malighetti e altri autori a cui si è fatto riferimento, si aggiungono nel fascicolo contributi più specifici: Luciano Ponzio segnala le responsabilità della scrittura; Franco Martina copre il versante dell’analisi cultu-

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quanto profonda proprio in un momento in cui vi sarebbe il bisogno di una più forte tutela dei beni comuni? Le spiegazioni ci sarebbero tutte. La cecità previsionale deriva non tanto dal sentirsi tutto sommato bene in questo presente e dal compatire quelli che annegano al largo – come nella feconda metafora di Blumenberg –, quanto dall’interruzione nella trasmissione di memoria. Come dire che non sappiamo più adoperare la storia come un grande libro dell’esperienza umana, e siamo più affascinati dai suoi salti e dalle discontinuità. Non tutto è prevedibile, d’accordo: in gran parte non sono prevedibili gli eventi naturali, come non lo è il comportamento umano; e molte previsioni si sono rivelate sbagliate: d’accordo anche su questo, ma scienza e conoscenza hanno progredito sul principio di causalità. Gli effetti sono in larga parte riconducibili alle loro cause, anche se la catena di cause ed effetti non è immutabile nel tempo. Gli studia humanitatis non meno delle tecniche e dei laboratori scientifici allenano alla ricerca delle cause e mettono in conto l’irruzione dell’imprevisto, senza farsene né sorprendere né soverchiare.


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rale e politica, su cui gli accademici per lo più tacciono pensosi; Diana Salzano riflette sulle emergenze educative per internauti; Luigi Prestinenza Puglisi indica l’obiettivo di un habitat né nostalgico né punitivo, ecocompatibile e Zaira Magliozzi ci informa sulle tendenze dell’architettura nel prossimo mezzo secolo. In Reset Marina Boscaino discute sull’emergenza scuola e Stefano Cristante sui corsi di studio in Scienze della Comunicazione tra emergenze e progettualità. Agli studi più specifici di Antonio Iannotta su quel grande preveggente che fu McLuhan, di Mara Benadusi sul futuro-presente dell’emergenza umanitaria e di Igor Scognamiglio sull’emergenza Campania, Pietro Clemente spariglia le carte con un godibile saggio di fantantropologia e Ferdinando Boero, nel suo “Ci dobbiamo preoccupare”, aggiunge la non trascurabile annotazione che, in presenza di emergenze, finiamo sempre con l’affidarci proprio a chi ha proposto soluzioni che hanno portato all’emergenza che si sta affrontando, senza tener conto dei problemi posti da chi ci aveva già avvertiti. Non solo darwinismo dunque, ma anche masochismo sociale! Boero richiama la maledizione di Apollo, e possiamo condividere con lui che “tutta la nostra storia è costellata di intelligenza e di stupidità” e che “bisognerà vedere chi delle due l’avrà vinta”.

Con questo dodicesimo fascicolo si esaurisce il mio compito di direzione del QC, una rivista alquanto insolita nel panorama di studi di scienze della comunicazione, fondata insieme all’omonimo corso dell’ateneo salentino nel lontano 2000. Il QC si è venuto consolidando nel tempo, con nuove, libere collaborazioni di studiosi e di promettenti firme giovanili attratte dall’attività di ricerca in un campo di studi fortemente voluto per allargare il dialogo tra le generazioni, le culture della comunicazione e i saperi sociali. Nel firmare quest’ultimo numero è doveroso ringraziare quanti vi hanno collaborato – in particolare i colleghi più attivi del Comitato di Garanzia – con la ragionevole previsione che la rivista continuerà a vivere in una nuova serie, di cui altri validi colleghi assumeranno la direzione, migliorandola e – ove occorra – rinnovandola.

a. s.


Emergenze, preveggenza



Pietro Clemente Nel 2049. Immaginazioni di un antenato

Io ho pensato che morirò nel 2027 e quindi sarà con gli occhi di un bisnipote che immaginerò quegli anni. E quindi immagino e spero di essere allora diventato per lui un ‘antenato’ con il cui ricordo farà anche i conti. Cosa assai difficile. Ma ci spero. Come li starà vivendo gli anni Quaranta? Che mezzi di locomozione avrà? Sarà in mezzo a guerre locali? Berrà il caffè la mattina appena alzato? Conoscerà ancora il rito del pasto familiare? Avrà arti cibernetici, si muoverà nello spazio in modo nomade gestendo complessi dispositivi miniaturizzati per lavorare in un contesto virtuale? Arriverà un paio d’ore prima a Parigi dopo che sarà stata fatta la TAV, o prevarrà il senso del rispetto dei mondi locali e in questo caso della Val di Susa? La Toscana in cui vivrà sarà desertificata o somiglierà ancora a quella attuale, sarà più africana e cinese e latinoamericana di ora? Su questo potrei scommetterci e vedrei anche un sodalizio tra sardi e meridionali emigrati negli anni Sessanta in queste terre dipinte da Ambrogio Lorenzetti e coltivatori africani e latinoamericani, i cinesi li immagino più manifatturieri. Visti da questo bisnipote come saranno gli anni che viviamo noi ora, che ci sarà scritto nel suo libro di storia contemporanea? Su questo credo sia più facile immaginare. Anni cupi, anni di transizione, anni di guerre diffuse, di catastrofi naturali. Tutto quello che c’è di nuovo in questi anni era già stato immaginato nei decenni precedenti. Non a caso questi anni sono stati inaugurati dall’incredibile attentato alle Torri Gemelle. Forse, dirà il libro, negli anni Dieci del Duemila non è stato fatto nulla per fermare la catastrofe naturale, erano gli anni dell’acqua e sono stati un buco nell’acqua, e noi nel 2049 dobbiamo produrla artificialmente. Oppure diranno: in quegli anni non fu fatto nulla per evitare la guerra globale, e noi qui nel 2049 studiamo storia nei bunker con atmosfere artificiali in mezzo a guerre continue tra le nuove superpotenze: l’India e il Brasile, emerse dopo che la Cina è stata piegata da disastri naturali. Ma la fanta/antropologia non deve portare sfortuna, anzi forse è l’occasione per esprimere desideri, per sognare una rinascita dell’homo ludens che la faccia finita con l’homo necans. Il futuro non ha però l’aria di essere roseo, anche per piccole proiezioni: si capisce che le famiglie saranno sempre più scombinate, che i bimbi saranno affidati sempre più ai nonni che sono migranti digitali e non nativi digitali e che quindi


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hanno poco da insegnare ai nipoti salvo antiche storie e magari salde etiche. Non si cucinerà più in casa. Per ogni cosa che si sceglierà di fare ci sarà il modo di tornare indietro, oltre la ormai diffusa revirgination ci sarà anche la rimoralization, il re-birthing. Ci saranno nuovi stati imperiali o invece diffusi piccoli e mobili gruppi locali? Un futurologo ha parlato di industrie come circhi, di gruppi di creativi come bande di cacciatori primitivi, mobili e dotati di strumenti informatici di grande efficacia al posto delle armi (magari avranno anche il kalashnikov?). Non credo molto all’uso della nozione di barbaro scelta da Alessandro Baricco, emigrato nel 2026 (La Repubblica, agosto 2010), per indicare la futura civiltà della comunicazione cibernetica, mobile, liquida, superficiale. Già Ernesto de Martino aveva parlato negli anni Cinquanta di “imbarbarimento della storia”, dovuto alla irruzione di masse subalterne e di popoli ex coloniali. Parlare di imbarbarimento è una mossa tradizionale in Italia. È un riferimento implicito al nostro Medioevo e al plasmarsi di una nuova civiltà romano-barbarica. Anche Carducci definendo “l’Itala gente dalle molte vite” pensava ai grandi innesti di civiltà diverse lungo la storia medievale. Pensava agli italiani popolo vario e ibridato da diverse storie. Credo che saremo sempre più felicemente ibridati e la fase attuale del razzismo gridato e spiattellato sarà certo superata dall’ordine delle cose, anche se non mancheranno conflitti. Ma credo che non avremo pace, il mondo sarà pieno di armi e di guerre. Sia detto però con un po’ di ironia e una buona mescolanza di gioco e di disperazione. In verità molti di noi sono legati al futuro da prosaiche connessioni, ad esempio io ho contratto un mutuo trentennale per acquistare una casa a una figlia, il mutuo scade nel 2035, otto anni dopo la mia supposta data di morte, o – in ipotesi diversa – ai miei 93 anni. Bancari e banchieri fanno di continuo previsioni, ma suppongo che le facciano con le dita incrociate dietro la schiena e ferri di cavallo nelle mutande. Se uno ha dei risparmi deve comprare dei corni di corallo perché il mercato mondiale e la finanza sono meccanismi micidiali, tigri che nessuno sa cavalcare, sono la faccia crudele del capitalismo: togliere la pensione a milioni di anziani pur di riuscire in una speculazione finanziaria, che orrore! Questa sarebbe la superiorità del mercato. Da ex marxista devo dire che non avevo torto quando pensavo il peggio possibile dei capitalisti e dei banchieri, in effetti la prova del nove è sempre questa: se il mercato ha più vantaggio nel produrre una crema depilante per i baffi delle signore di 57 anni che non nel produrre un medicinale che eliminerebbe l’AIDS nell’Africa più desolata, di sicuro ignora l’Africa, a meno che investire in Africa non serva da pubblicità per vendere un altro prodotto scarsamente consumato. Le lobbies americane che contrastano anche Obama e che oggi terrorizzano il mercato USA sono eticamente dei mostri, sono proprio ciò che noi pensavamo da ragazzi delle Sette Sorelle e delle loro organizzazioni criminali che allignano per tutelare i propri interessi, e via ricordando. Ci dobbiamo inventare qualche altra cosa nel futuro, che non sia il comunismo (come dice una barzelletta famosa ma non animalista: occorreva sperimentarlo prima sui cani, in effetti direttamente sugli umani ha dato risultati disastrosi), perché del capitalismo e delle banche non se ne può più. Questa è un’emergenza che finora non ci dà preveggenza. Le nostre idee di futuro sono calate di quotazione in


Una postilla dal passato A Matera nel 2010 (tutti i testi sono riportati sulla rivista Antropologia Museale n.25-26) nel quadro di un congresso di antropologi, di antropologi del museo e del patrimonio, dedicato alla sfida: Essere contemporanei, abbiamo tenuto i primi incontri di fantantropologia. Li abbiamo fatti notturni, per dare il segno di una certa eccezionalità, tanto notturni che una sera i responsabili del centro provinciale multimediale di Matera ci hanno cacciati via all’una di notte e abbiamo continuato a discutere in piazza. Per me è stato un esercizio importante. Infatti è un po’ di tempo che il tempo mi disorienta. Fino agli anni Settanta per me il tempo era progressivo ed ero convinto che il futuro non poteva non essere meglio del passato. Poi questa mia fiducia un po’ positivista e figlia

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modo drammatico. Da antropologo dei musei posso oggi suggerire di non buttare via tutti i pensieri e le pratiche degli anni Sessanta e Settanta, ma di metterli appunto nel museo, come luogo dei depositi e dei repertori delle cose che servono per salvare il futuro. Ma come mai gli antropologi del museo si mettono a guardare ora nella sfera magica? Cosa c’entra con il loro mestiere, con i musei? Forse abbiamo la sensazione che i musei avranno un ruolo importante nel futuro che disegniamo: saranno delle capanne tecnologiche, nuovi monasteri di salvezza della memoria sotto un cielo attraversato da tracciati esplosivi, o saranno dispositivi mobili, chiusi dentro un oggetto della dimensione di un cellulare, matrici di costruzioni educative e informative realizzabili in vari luoghi dello spazio, supporti dove sarà racchiusa, come risorsa del futuro, la memoria delle diversità culturali che si saranno trasformate e forse dimenticate. Luoghi di salvezza delle tante ricette dell’affrontare la vita quotidiana create da civiltà e tempi diversi che aiuteranno a salvare il mondo. Sarà un mondo tragico quello del 2049 ma la gente sarà più mondiale di ora e per forza di cose dovrà essere più solidale: le nostre conoscenze e i nostri musei con le tecnologie povere, i saperi del territorio, la trasmissione orale della memoria, il dialogo tra manualità della terra, delle cose, del pane e cibernetica globale aiuteranno a vivere, e a difendere il mondo dalla banalità. Insomma per essere contemporanei che è il programma della mia associazione dei musei (SIMBDEA: Società Italiana per la Museografia e i Beni DemoEtnoAntropologici) abbiamo bisogno di immaginare il futuro e di progettarci dentro senza illusioni: magari guardando in faccia la bruttezza del tempo che ci aspetta avremo il coraggio di contrastarlo e di rendercelo migliore. Così mi sento di dover pensare almeno per quel bisnipote del 2049.


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del mio marxismo (anzi della mia ricca varietà di forme del marxismo) mi è venuta meno. Era su di essa che facevo le mie previsioni, per lo più sbagliate, ma dotate di un piano di aggiustamento (questo fattore è stato meno attivo, quell’altro avverrà fra dieci anni ecc.) nel quale recuperare quella teleologia o escatologia che ha accompagnato i miei sogni giovanili di società futura. La fine dei sogni coincise con i quarant’anni. Dopo un lungo tempo di transizione verso qualcosa, sono rimasto folgorato prima dal modello temporale del padre di Marguerite Yourcenar (della cui autobiografia sono stato un lettore affascinato anche come antropologo), un uomo che non aveva mai un attimo pensato se non al presente, il futuro sembrava non averlo mai riguardato. Questo modello di tempo – non particolarmente fecondo di previsioni ma capace almeno di partire dal sé e dall’esistente e non dal non-ancora o dall’altro-sé-futuro che dà senso al presente – lo ho poi approfondito anche con alcuni scritti Giacomo Marramao, quando, in occasione dell’arrivo del terzo millennio, data foriera di scansioni minacciose del tempo, la rivista Ethnologie française (n.1, 2000) mi propose di scrivere qualcosa su Pliures, coupures, cesure du temps1. Lo feci riflettendo sul tema delle Apocalissi culturali, tratto dagli studi dei primi anni Sessanta di Ernesto de Martino, sui movimenti religiosi e sui “deliri di fine del mondo”. Studi che si aprivano anche al bisogno di un pensiero visionario non solo apocalittico (anche se credo che noi antropologi sentiamo il carattere forgiativo del senso apocalittico del futuro, ci aiuta a vedere meglio il mondo di oggi, senza le lenti rosa confetto dei media e dell’Occidente, e ci aiuta a immaginare un futuro in cui avere un ruolo di resistenza umanistica, coerente forse con la marginalità dei nostri studi, e la scarsa fiducia nel futuro che in essi si respira. Volendo aggiungere uno spunto si può dire che nella situazione attuale dell’Università italiana c’è rischio scomparsa, rischio apocalisse). Marramao ci dava una idea di tempo cairologico, di tempo à la Benjamin istante-presente, sottratto all’escatologia e al servizio della futurizzazione, ovvero un tempo privo della implicazione di essere – noi – al servizio del futuro (il socialismo, il liberalismo compiuto, la società cristiana matura, l’islam vittorioso) e riletto sull’idea di partire da noi, dalle nostre esperienze e dai nostri sogni.


Cogliamo l’emergenza, ma siamo in difficoltà nella previsione quantitativa e in quella uso-banchieri. Devo dire che anche i sociologi non aiutano a sopravvivere, ho visto alcune analisi previsionali fatte sul 2020 in Toscana, basate sugli indici medi di incremento di motorizzazione, consumi, ecc, che sono un invito implicito a suicidarsi prima della data di scadenza. Come si fa a pensare il mondo futuro senza introdurre dei correttivi di natura qualitativa? Non si è capito in che razza di emergenza siamo? Io soffro già di crisi di panico all’Ikea, figurarsi nel mondo previsto per la Toscana 2020. So che i miei nipoti saranno più resistenti, ma poi perché denunciare il fatto che i giovani stanno sempre più soli in casa con il computer se gli prevediamo intorno un futuro spaventoso. Qui l’emergenza e la preveggenza compiono però un corto circuito: ad esempio, negli anni Novanta era apparso tra gli indici statistici quello di un avvio di de-urbanizzazione dei grandi centri sovraffollati dell’Europa, sembrava un inizio di trasformazione, di bilanciamento e un buon esempio per il mondo. Quel dato nel nuovo millennio è del tutto saltato a favore di una ripresa massiccia e catastro-

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In un certo senso in queste temporalità risulta leggibile una svolta dell’antropologia che è anche della mia generazione: la pensabilità della contemporaneità delle differenze culturali e dei movimenti di futurizzazione che avvengono dal loro continuo incontrarsi e rifarsi i confini nel mondo globale. Forse è proprio la perdita del futuro escatologico che ci ha fatto riconciliare con il tempo plurale delle differenze, con l’idea che il futuro non è uno, lo stesso, il migliore per tutti, ma è un tempo dalle movenze di danza sghemba (stile Marta Graham), pluridirezionale, emotivo, aperto, più difficile da vedere direzionalmente ma più interessante da cogliere da vicino, anche nella memoria. Il fatto che non troviamo insensato, nostalgico e codino il film di Olmi su Terra madre, o il rilancio dei contadini di tutta la terra proposto e propagato da Carlin Petrini, è legato al cambiamento della nostra idea di futuro. Forse prevediamo meno, ma teniamo più forti speranze, pensiamo meno il mondo, e più la memoria del contadino che faceva l’orto sotto casa, nell’idea che domani lo possiamo fare noi quell’orto, per sopravvivere, se riusciamo a sottrarlo al cemento, e se riusciamo a prendere una vanga in mano (magari andiamo al museo a vedere in un vecchio documentario come si faceva a seminare o ancor peggio a veder come venivano usati i bastoni da scavo per trovare radici commestibili e simili). Sono previsioni che non contrastano con il senso tragico che molti di noi sentono guardando al futuro, e che ha un effetto di panico su di me, pensando ai nipoti e ai loro figli, tra questi quello con il quale ho immaginato l’inizio della mia riflessione sul 2049.


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fica di riurbanizzazione. Forse non basta pensare che una cosa succeda, bisogna farla succedere. L’emergenza e la preveggenza devono essere connesse da movimenti, pratiche. Forse l’unico visibile movimento di questo tipo è stato quello del global social forum? Di Greenpeace? Ma tanti altri piccoli e plurali movimenti ci sono stati ovunque. L’antropologo Michael Herzfeld2, lavorando in varie aree del mondo ci ha proposto di chiamare “modernismo unificatore” un movimento neoliberale, ma di fatto autoritario, di gestione dall’alto degli spazi di diversità del pianeta. Contro di esso gli antropologi si schierano, in modo di volta in volta diverso e locale, con le popolazioni che resistono e difendono i saperi, le memorie, le pratiche dell’abitare nella costruzione mobile di uno spazio relazionale vicino. Gli alberi rivendicano la loro singolarità contro la foresta che li vuole pietrificare nell’identità.

Ritorno al futuro: i buoni vinceranno Per potere dialogare con i miei colleghi fantantropologi mi sono letto varie cose futuriste , ma ciò che ho trovato più efficace a produrre in me esercizi mentali, footing immaginativo, è stato il libro di J. Attali, Breve storia del futuro3. Attali è personaggio discusso, legato allo staff di Mitterand, non ha poi disdegnato di essere consulente di Sarkozy, ha in ogni caso una esperienza economica, finanziaria, politica mondiale. Il suo dialogo con il marxismo è ancora molto esplicito nel tratteggiare il futuro. La sua analisi parte dalle origini della storia umana e dalla radicatezza dello spirito commerciale capitalistico nella storia dell’ominazione, per raccontare infine nove forme di capitalismo. L’ultima fase, la nona e quella in corso è legata al nomadismo californiano e tutte le fasi sono legate alla storia delle città. La sua idea è che si andrà nel futuro vicino alla decostruzione degli Stati e al formarsi di un Iperimpero mercantile libero da vincoli, ad altissimo livello di conflittualità e di innovazione e di produzione di imprese tecnologiche nomadi ed ipernomadi (bande, circhi) che si spostano nello spazio con tecnologie mobili e trovano sul posto risorse, forse risorse umane, magari schiavi, chissà (ma da lui ho preso l’immagine di possibili musei futuri ipertecnologici, nomadi, capaci di fare educazione e ricreare saperi perduti dove l’iperimpero farà terra bruciata). Immagina dunque successivamente una fase di iperconflitto con nuove ostilità e alleanze; la formazione su scala globale di eserciti pirati e corsari, col profilarsi di guerre di penuria legate all’esaurimento dell’acqua e del petrolio. Guerre poi tra corsari e sedentari. Chissà i figli dei miei nipoti dove si troveranno, temo per loro. Forse dovrebbero già cominciare ad addestrarsi. I miei nipoti intanto sono dei veri nativi digitali mentre le mie figlie e la mia generazione è di migranti digitali un po’ sofferenti per la cittadinanza informatica parziale. Forse tra i loro figli ci saranno sia pirati che sedentari, e magari aiuteranno a mettere d’accordo le due fazioni, in una pace che potrebbe concludersi a Montaperti, luogo di glorie antiche di Siena dove i miei nipoti vivono e i loro figli forse anche. Montaperti, emblema di glorie senesi ma in realtà luogo di guerre internazionali simili – benché più antiche e lente – a quelle piene di morti e di dolore che oggi si diffondono e che nel futuro dell’Iperimpero e dell’iperconflitto saranno quotidiane.


Note 1 P.Clemente in collaborazione con E.De Simoni, A.Mancuso, Le gouvernement du temps. Notes sur l’arrivée di millenarie, pp. 9-21. 2 Mi riferisco qui in particolare a Evicted from Eternity: The Restructuring of Modern Rome, Università di Chicago, 2009 e a Pom Mahakan: umanità e ordine nel centro storico di Bangkok in I. Maffi (a cura di), Il patrimonio culturale, numero 7 di Antropologia , 6, 2006. 3 Roma, Fazi, 2007 (Une bréve histoire de l’avenir, è il titolo originale sempre del 2007).

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Come si vede, in fondo in fondo si tratta di un modello marxista, in cui al posto del comunismo c’è l’impresa relazionale. Devo dire però che non mi dispiace, se non fosse per le troppe morti che intravedo nei miei discendenti e contro le quali non posso fare niente. Penso che forse mi conviene vivere fino a 93 anni e pagare almeno tutto il mutuo della casa con la mia pensione, se me la lasceranno godere, almeno garantirò qualcosa di più ai figli dei miei nipoti, il resto andrà come deve andare. Attali usa un modello di futuro fortemente lineare e progressivo, anche se catastrofico come linea di sviluppo. Il tempo rizomatico e sghembo (danza alla Marta Graham) e quello progressivo forse possono andare insieme e ibridarsi nell’esercizio del pensiero. Attali mi è stato molto utile, e anche solo per tutte le immaginazioni, ben fondate, che fa sulle compagnie assicurative e su come esse controlleranno la biopolitica, e la differenza tra norma e patologia, il suo libro merita di essere letto. Ma alla fine, facendo vincere le imprese relazionali e non le compagnie assicurative (ipotesi da non escludere e da sorvegliare), fa vincere i buoni e io ne sono contento. Penso comunque che vada fatto l’esercizio doloroso di immaginare il futuro per rispondere alle emergenze del tempo. Ma va fatto in tanti e insieme. Come diceva Don Milani, “sortirne insieme è la politica”, riattivare una politica del futuro significa riprendere a dialogare e intravedere, nell’eclissi dell’Università, nuove generose alleanze intellettuali, gruppi di lavoro misti per organizzare la resistenza, promuovere un buon futuro dentro il presente, difendersi da quello cattivo. Facciamolo almeno per i nipoti, per diventare antenati e come tali poter essere ricordati.

Pietro Clemente

Secondo Attali, dallo shock dell’iperconflitto emergeranno gli unici centri solidali che il mondo avrà potuto sperimentare, quelli dei “transumani e delle imprese relazionali”, questi centri saranno gli eredi o le continuazioni di Emergency, di Medici senza frontiere, di Greenpeace, del volontariato sociale che si farà sempre più impresa relazionale e assumerà dimensioni globali. In questa fase si paleserà la possibilità ultima immaginata : l’iperdemocrazia. Una fase nuova dell’umanità mai vista ancora, e ricca di nuove possibilità sociali.



Ferdinando Boero Ci dobbiamo preoccupare?

Le preoccupazioni e la previdenza Le preoccupazioni riguardano la previsione che qualcosa potrebbe andar male, accompagnata da uno stato di ansietà dovuto a “cose brutte” che ci potrebbero capitare. Le persone apprensive si preoccupano per eventualità a volte improbabili e si rovinano la vita attendendo eventi tremendi che potrebbero alterare significativamente le loro vite. La preoccupazione è una sorta di patologia, soprattutto se infondata. Una parola simile, ma positiva, potrebbe essere: previdenza. Essere previdenti significa prevedere eventi negativi e agire in modo da essere pronti ad affrontarli. Gli Italiani sono più previdenti degli Americani, per esempio. Noi siamo molto risparmiatori, e tendiamo a non fare troppi debiti, mentre gli Americani spendono più di quello che guadagnano, comprando tutto a credito. Siamo anche previdenti come Stato. Abbiamo una buona previdenza sociale e, fino ad ora, i nostri vecchi hanno di che sostenersi nel momento in cui non possono più lavorare. Abbiamo una buona previdenza sanitaria, e tutti sono curati nelle strutture pubbliche. Barak Obama ha dovuto lottare non poco per dare agli Americani qualcosa di paragonabile al nostro servizio sanitario. L’altra faccia della medaglia è che non amiamo il rischio. Gli inventori, negli USA, trovano subito qualcuno che apprezza le loro idee ed è pronto ad investire, mentre in Italia è quasi impossibile. Le nostre aziende, di solito, comprano idee collaudate da altri, per non rischiare di investire in imprese che non portano a buoni profitti. Non spendono quasi nulla in ricerca e sviluppo; non amano rischiare, e non si preoccupano di restare indietro. Preferiscono l’uovo oggi alla gallina domani. Nella saggezza popolare, quella dei proverbi, sono considerate entrambe le possibilità: chi non risica non rosica; tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino e, a questo punto, uno non sa più che fare. Il che è abbastanza comune con la saggezza popolare: chi fa da sé fa per tre; l’unione fa la forza, ecc. Vivere secondo questi suggerimenti non è facile.


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Che fare? Noi siamo una specie razionale, dotata di mente analitica. Osserviamo gli eventi, identifichiamo schemi di accadimenti e siamo in grado di collegare le cause con gli effetti. Questo, però, lo sanno fare anche molti animali. Gli uccelli che mangiano insetti, per esempio, all’inizio della loro vita tendono a mangiare qualunque insetto. Ci sono insetti, di solito molto colorati, che contengono sostanze repellenti. Se un uccello ne mangia uno ne riceve una sensazione spiacevolissima. E non ne mangia più. Questa è la base della cultura: la possibilità di fare congetture tipo: se... allora. Se mangio questo insetto, allora sto male. Questo identifica un’emergenza. La preveggenza fa sì che l’uccello vada oltre, nel ragionamento, aggiungendo... e quindi. Se mangio questo insetto, allora sto male, e quindi non ne mangio più. Si individua una situazione, si associa la causa con l’effetto e si cambia comportamento. Noi siamo meglio degli altri animali, da questo punto di vista. Noi siamo in grado di identificare schemi, come quello dell’insetto repellente, ma siamo anche in grado di comprendere i processi che determinano quegli accadimenti. Solo noi sappiamo estrarre le sostanze chimiche dall’insetto e siamo anche in grado di isolarle, di testarle in modo sperimentale e magari anche di sintetizzarle. Siamo superiori, per questo? Dipende. Dipende dai risultati che otteniamo con il nostro comportamento: se le nostre azioni risultano a nostro vantaggio, allora siamo superiori e la selezione naturale ci favorisce. Se invece le nostre azioni risultano a nostro svantaggio, allora... siamo dei fessi. Faccio un esempio. Noi siamo stati così in gamba da capire come funzionano gli atomi e siamo stati anche in grado di trovare sostanze, come l’uranio o il plutonio, che contengono enormi quantità di energia. E siamo stati anche in grado di controllare quell’energia, in modo da farla sprigionare pian piano e trarne vantaggio. La scoperta dell’energia nucleare è una grande conquista dell’intelletto umano. Però siamo anche in grado di usare quegli stessi principi per fare in modo che quell’energia si sprigioni tutta assieme; e costruiamo ordigni nucleari dal potere distruttivo immane. Inoltre, da un lato l’energia atomica ci offre dei vantaggi, ma evidentemente non siamo stati in grado, a parte rare eccezioni, di comprendere appieno gli svantaggi. Si può essere molto intelligenti e, contemporaneamente, si può anche essere stupidi. La stupidità è un tratto molto distintivo della nostra specie.

Della stupidità Non ci sono animali stupidi. Il motivo è molto semplice: vengono immediatamente eliminati dalla selezione naturale. La stupidità uccide, là fuori. Noi, invece, ci siamo affrancati, almeno temporaneamente, dalla selezione naturale e siamo in grado di proteggerci dalle avversità della natura. Dato che siamo animali sociali, le invenzioni degli individui intelligenti e capaci sono messe a disposizione anche di chi non è intelligente e capace. Il che è giusto e bello, se si tratta di modi per vivere meglio. Ma se si tratta di invenzioni che possono essere potenzialmente pericolose? Di solito gli individui intelligenti e capaci non diventano politici. Gli


Uccidere gli animali e raccogliere le piante fa parte della nostra natura di cacciatori e raccoglitori. Abbiamo inventato l’agricoltura quando abbiamo ucciso e raccolto tutto quello che c’era da uccidere e raccogliere e non era rimasto quasi più niente. Oggi, negli ambienti terrestri, non è più possibile trarre risorse da animali o vegetali che vivano allo stato di natura, selvaggi. Tutto è allevato e coltivato, semplicemente perché ben poco di selvatico è rimasto. In mare ancora possiamo trarre cibo da popolazioni naturali (con la pesca) ma oramai siamo alla fine e stiamo passando all’agricoltura anche in mare (si chiama acquacoltura). Con la conservazione dei cibi ci siamo anche affrancati dalla dipendenza della variabilità naturale nella disponibilità di risorse. Il fatto è che non ci sappiamo fermare. Siamo talmente bravi che abbiamo stravolto gli ecosistemi naturali, e li abbiamo trasformati in agro-ecosistemi. Ora siamo nei guai. Perché gli ecosistemi naturali sono essenziali per la nostra sopravvivenza. Se li distruggiamo, poi non abbiamo i beni e i servizi che la natura ci offre, e senza i quali non possiamo sopravvivere. Siamo abbastanza bravi per ottenere vantaggi a breve termine, ma non siamo abbastanza bravi da guardare lontano, e da renderci conto del lungo termine.

Problemi o soluzioni? Una volta, a una presentazione delle facoltà universitarie agli studenti liceali, mi sono trovato in compagnia di un collega di ingegneria. Ben vestito, con giacca e cravatta e piglio deciso (io ero andato alla riunione in bicicletta e vestito di conseguenza). Dice: “non ha importanza quale branca dell’ingegneria sceglierete. L’importante è acquisire la mentalità dell’ingegnere. Un ingegnere è una persona a cui si dà un problema, e lui trova la soluzione.” Wow! Che dire? Io dovevo presentare la Facoltà di Scienze, e dissi: “Uno scienziato (tra virgolette, perché la parola è molto impegnativa) è una persona a cui si dà un problema e lui ne trova altri tre. Se il problema è stato risolto (sempre tra virgolette) da un ingegnere, lo scienziato ne trova altri trentatre.” Ovviamente la mia era una battuta, e sono molto grato agli ingegneri. La casa dove vivo l’hanno costruita loro e il computer con cui scrivo, la bicicletta con cui mi muovo e anche l’automobile, se posso andare dall’altra parte del mondo in poco tempo è merito loro; e l’elenco dei meriti degli ingegneri è infinito. Gli ingegneri sono persone fantastiche. Però, pensandoci, sono anche quelli che han-

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La natura

Ferdinando Boero

intelligenti e capaci producono novità che saranno usate da altri. Questi altri saranno altrettanto responsabili? Di solito non lo sono. Le moderne tecnologie sono impiegate al massimo livello per l’industria bellica. Per uccidere. Se poi queste invenzioni possono anche fare del bene, è un effetto collaterale. La nostra storia è fatta di grandi intelligenze e di grandi scoperte, messe poi in mano a stupidi decisori.


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no progettato gli imballaggi per i quali oggi siamo sommersi di spazzatura. Sono quelli che hanno progettato industrie altamente inquinanti che stanno mettendo seriamente a rischio la nostra sopravvivenza. Insomma, hanno risolto brillantemente tutti i problemi, ma ne hanno innescato altri. Loro malgrado, intendiamoci. È la loro formazione che li porta a comportarsi in questo modo. Agli ingegneri bisogna spiegare che ogni soluzione genera altri problemi. Non ci sono pasti gratuiti. La saggezza popolare direbbe: non si fanno frittate senza rompere le uova, però un po’ di uova bisogna tenerle, perché se pensiamo solo in termini di meglio un uovo oggi che una gallina domani poi può succedere che non ci siano più galline, visto che le galline vengono dalle uova. Apparentemente noi stiamo rompendo tutte le uova, ci stiamo ingozzando di frittata, abbiamo anche tirato il collo alla gallina, pensando in termini di pochi, maledetti e subito, e ora ci stiamo rendendo conto di aver fatto qualche erroruccio di valutazione e di aver confidato troppo nella nostra abilità nel “fare le cose”. Visto quello che sto per dire, qualcuno potrebbe obiettare che sto dando un colpo al cerchio e uno alla botte, ma io rispondo con in medio stat virtus. Vediamo perché. Gli ingegneri devono fare il loro mestiere e devono trovare le soluzioni ai problemi, alle emergenze. Gli scienziati, però, devono fare altrettanto il loro mestiere e devono essere messi in grado di identificare i possibili problemi che potrebbero derivare dalle soluzioni degli ingegneri, agendo in modo preveggente. In medicina questi problemi si chiamano effetti collaterali di un farmaco. E gli effetti devono essere valutati non solo nel breve termine, ma anche nel lungo. In medicina chi investiga sugli effetti collaterali dei farmaci non è visto come un nemico del progresso. Anzi, ci sono agenzie che non permettono che un farmaco venga messo in vendita se prima non è stato testato adeguatamente. Chi smercia farmaci non testati viene trattato come un criminale. Intendiamoci, ogni farmaco viene sviluppato a fin di bene, per risolvere problemi, emergenze. Nessuno progetta farmaci pensando che facciano del male. Però si chiede che la soluzione contingente all’emergenza (il farmaco) sia prodotto in modo preveggente, in modo da prevenire eventuali effetti collaterali. Perché può accadere che la magica soluzione, dopo un po’, porti a problemi maggiori del problema che si è brillantemente risolto. Nessuno mette in dubbio questo principio. Tuttavia, se si parla di ambiente invece che di corpi umani, la storia è completamente differente. Chi mette in guardia dagli effetti che la nostra azione può avere sull’ambiente è visto come un nemico del progresso. Un professionista del No. Il risultato è che stiamo distruggendo gli ambienti che ci sostengono.

La lunga muraglia adriatica Se percorrete in treno la linea adriatica, e prendete un posto finestrino, lato mare, vi accorgerete che il mare è vicino alla linea ferroviaria. Molto vicino. Il motivo è semplice, la ferrovia è stata costruita praticamente sulla spiaggia. Perché farla nell’interno, dove ci sono terreni di proprietà di qualcuno? Perché iniziare


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processi di esproprio, cause con avvocati e poi costruire ponti, viadotti, gallerie? Meglio la spiaggia! Non è di nessuno (perché da noi le cose di tutti non sono di nessuno) e non pone particolari problemi per quel che riguarda la costruzione di una linea ferroviaria. Centinaia di chilometri di ferrovia sono stati così costruiti. Presumo da ingegneri. Esiste un’altra categoria di esperti, questa volta scienziati: i geologi. I geologi studiano, tra le altre cose, la dinamica dei litorali. Dinamica significa che i litorali si muovono. Certo, non lo fanno in modo rapido, però nel lungo termine si muovono. Dei tratti di costa entrano in erosione, altri tratti di costa sono magari in crescita. I sedimenti sono portati via da qui, e sono riportati lì. I fiumi, con le loro piene, portano sedimenti al mare e sono quei sedimenti che limitano, o annullano, gli effetti dell’erosione causata dalle onde. Una parentesi: abbiamo cavato sabbia dagli alvei dei fiumi per fare le case (le fanno gli ingegneri) e abbiamo costruito dighe (fatte da ingegneri) per approvvigionarci di acqua. Io vivo in una casa fatta con quella sabbia e bevo acqua ottenuta con quelle dighe e mangio prodotti agricoli annaffiati grazie a quelle dighe. Però quelle dighe e quelle cave impediscono che i sedimenti arrivino al mare. Abbiamo risolto dei problemi e ne abbiamo creato altri. Torniamo alla ferrovia. Dopo un po’ si è presentato un problema (che un geologo avrebbe facilmente previsto, ma chi li ascolta, quei menagrami?): il mare si è mangiato la spiaggia lungo un tratto di costa, mettendo a repentaglio la sicurezza della ferrovia. Che fare? Se uno ha un problema, va da chi ha le soluzioni, non va mica da chi trova altri problemi, no? Gli ingegneri hanno detto: non c’è problema! Facciamo un bel muro di protezione e tutto è risolto. Magnifico! Peccato che quell’opera, in quel posto specifico, abbia innescato processi erosivi nei litorali vicini. Che fare? Beh, è ovvio, un bel muro, no? Il risultato, ora, è che ci sono centinaia di chilometri di muro al posto della spiaggia. E il bello è che quella spiaggia dovrebbe attirare i turisti che vengono da noi per la bellezza del nostro mare. In qualche città costiera si è pensato: non c’è più la spiaggia? e che problema c’è? Costruiamo dei bei casermoni proprio sul mare e tanti locali notturni dove la gente si può divertire. Non credo che alla lunga sia una bella soluzione. Dopo aver “murificato” tutto il litorale, ora si sta pensando a come risolvere il problema del muro (ma non era una soluzione?). Togliamo i massi, succhiamo la sabbia sui fondali del largo (ci sono strumenti che lo permettono) e spariamola sul litorale, in modo da fare un ri-pascimento delle spiagge. Questa soluzione, però, è solo temporanea. Il mare toglie e i fiumi dovrebbero ridare. Ma i fiumi non hanno più questa possibilità perché sono sbarrati e perché le sabbie dei fiumi sono state utilizzate per fare i muri delle nostre case. E quindi questa soluzione cura il sintomo (la spiaggia che se ne va e poi il folle muro) ma non cura la causa. Ancora una volta c’è emergenza affrontata senza preveggenza.


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La soluzione La soluzione è di allontanarsi dalle spiagge. La ferrovia non si può fare sulla spiaggia. Punto e basta. Saranno sempre gli ingegneri a fare il progetto e a realizzarlo, ma per farlo bene dovranno ascoltare i geologi. Gli ingegneri diranno come fare la ferrovia, ma devono essere i geologi a dire dove farla.

Emergenza e preveggenza L’emergenza dell’erosione costiera non si sarebbe presentata se fosse stata ascoltata la preveggenza dei geologi. Molte emergenze sono dovute ad assenza di preveggenza. Meglio: sono dovute a scarsa considerazione per la preveggenza. Perché come siamo abbastanza intelligenti da costruire ferrovie, così siamo abbastanza intelligenti da saper “guardare” il territorio. Chi prende le decisioni deve saper ascoltare i vari esperti e deve poter mediare tra chi propone soluzioni e chi pone problemi. Invece, e qui subentra la stupidità, chi propone soluzioni è visto come un personaggio positivo, mentre chi pone i problemi è percepito come negativo. Quando ci sono le emergenze, e qui la stupidità diventa veramente rampante, ci si affida nuovamente a chi ha proposto soluzioni che hanno portato all’emergenza che si sta affrontando, senza tener conto dei problemi posti da chi ci aveva già avvertito e che continua a farlo.

Perfezione

Aquila. Centro storico

Aquila. New town

In natura la perfezione non esiste, perché, proprio come per il lavoro degli ingegneri, anche in natura ogni soluzione genera problemi. L’evoluzione implica una continua risposta ai problemi posti dall’ambiente. Se l’evoluzione portasse a perfezione, gli organismi, essendo perfetti, non avrebbero più alcuna spinta a evolvere. Non è così. La vita persiste per una continua messa a punto, chi propone


Chi usa il termine Cassandra per definire chi avverte (con preveggenza) che il nostro modo di affrontare le emergenze potrà portare a emergenze ben più gravi, evidentemente non conosce la storia di Cassandra. E già, perché Cassandra prevedeva catastrofi ma la maledizione di Apollo faceva sì che non fosse creduta. Le catastrofi avvenivano e quindi le sue predizioni erano giuste. Solo che gli imbecilli, accecati da Apollo, non le ascoltavano e poi ne pagavano le conseguenze. Chi parla di Cassandre è stupido! Noi siamo stupidi intelligenti, ossimori. Abbiamo grandi abilità nel fronteggiare le emergenze, ma ci disturba la preveggenza degli effetti collaterali della nostra abilità. Chi mette in guardia da questo rischio (i geologi che dicono che poi ci sarà l’erosione costiera e si porterà via la ferrovia) sono Cassandre. Così come vengono chiamati Cassandre gli ecologi che ci avvertono che lo sviluppo deve avere dei limiti e che sarebbe meglio che li ponessimo e li rispettassimo noi, in prima persona, invece di vederci costretti a subire i limiti che comunque la Natura ci porrà. La maledizione di Apollo ci sta portando allegramente alla rovina. Abbiamo tutti i mezzi per capire che non va bene quel che facciamo e abbiamo, o meglio avremmo, tutti i mezzi per fare in modo da vivere in modo armonico rispetto all’ambiente. Solo che non lo vogliamo fare. Preferiamo l’uovo oggi e non ci importa se magari, lasciandolo crescere, potrebbe diventare la gallina dalle uova d’oro. Non ci sono solo le mitologie greche a darci queste lezioni. Sono anche nella Bibbia.

Cacciati dall’Eden Nel Paradiso Terrestre Adamo ed Eva avevano la Natura a loro disposizione. Bastava allungare una mano e i loro bisogni erano soddisfatti. Spiegato in termini antropologici, erano cacciatori e raccoglitori, proprio come sono stati i primi esseri umani. Il Creatore, però, pose un limite all’uso del Giardino: il frutto

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La maledizione di Apollo

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le soluzioni sbagliate viene cancellato dalla selezione, chi ha buone soluzioni viene premiato. Ma il premio è temporaneo. In natura, l’adeguatezza di una specie si misura con la possibilità di lasciare discendenti. Le specie di maggiore successo sono quelle rappresentate dal maggior numero di individui (in gergo si chiama fitness). Ma il numero non può crescere all’infinito, perché il nostro pianeta è un sistema finito e non permette la crescita infinita (anche se gli economisti sono fiduciosi che sia possibile e anche auspicabile). Chi ha più successo quindi, cresce, cresce, cresce fino a quando il sistema che lo sostiene non ce la fa più a reggere il suo peso. La storia della vita, decifrata con la paleontologia e anche con la genetica, ci dice che la vita media di una specie è di qualche milione di anni. Poi o c’è l’estinzione o la specie diventa un’altra specie, evolve. Questo schema, probabilmente, vale anche nella vita di tutti i giorni. Tutto necessita di continue messe a punto, non ci sono soluzioni definitive.


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proibito. Ci viene raccontato che si trattasse del frutto della conoscenza del bene e del male (in qualche modo metafora dell’etica, che quindi sarebbe un peccato: il peccato originale). Ma lo si può interpretare anche alla lettera. Il frutto proibito è il concetto di limite all’uso delle risorse del giardino. Perché tutto ha un limite. Lo abbiamo superato, rovinando il Giardino. Scacciati dall’Eden, siamo stati condannati a lavorare. La cacciata dall’Eden altro non è che la descrizione del nostro passaggio da cacciatori e raccoglitori ad agricoltori. Come cacciatori e raccoglitori eravamo troppo efficienti, troppo bravi. E abbiamo distrutto tutto. Invece di estinguerci, come forse sarebbe stato giusto, la nostra intelligenza ci ha permesso di inventare l’agricoltura. Il resto della storia lo conoscete. Ora siamo di nuovo di fronte a un limite. Ma non ce ne accorgiamo. Pensiamo che la nostra intelligenza possa risolvere tutti i problemi. Gli economisti mainstream, quelli che sono ascoltati dai governi, vogliono la crescita infinita, senza considerazione per il concetto di limite. E tutti i capi di Partito dicono che bisogna crescere. Ci sono economisti saggi, come ci sono ingegneri e politici saggi, ma spesso i vincenti sono stupidi. E chi avverte che ci sono limiti allo sviluppo viene deriso proprio come Cassandra. E gli stolti lo chiamano proprio Cassandra!

Gli stolti Tornando alla ferrovia sulla spiaggia, non può non venire in mente il Vangelo di Matteo: (24) Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. (25) Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia. (26) Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia. (27) Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde, e la sua rovina fu grande.

Togliete la casa e sostituitela con “ferrovia” e il gioco è fatto. Oltre ai geologi, anche Gesù avverte che non si costruisce sulla sabbia. Nella parabola non ci sono le onde del mare perché forse, a quei tempi, nessuno era tanto stolto da fare la casa proprio sulla spiaggia. Neppure gli stolti più stolti. Oggi sì, perché c’è il cemento armato.

Conclusione Abbiamo tutti i mezzi per agire in modo responsabile. Abbiamo la possibilità di identificare schemi di accadimenti e di comprendere i processi che li determinano: cause ed effetti. Abbiamo la possibilità di costruire opere meravigliose per migliorare la nostra vita. Abbiamo conoscenza dei segreti della Natura. Possiamo identificare emergenze e abbiamo la preveggenza di comprendere i rischi insiti nel nostro agire.


Pieter Bruegel the Elder, The Parable of the Blind Leading the Blind (1568) Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte

29 Emergenza e preveggenza: ci dobbiamo preoccupare? Ferdinando Boero

Potremmo vivere in armonia tra noi, e con la Natura. Tutte le filosofie e tutte le religioni, e tutte le mitologie, predicano proprio questo. Persino la canzone più popolare del secolo scorso, Imagine, di John Lennon, lo suggerisce. Ma basta un imbecille e John Lennon ci viene tolto. La saggezza popolare avverte: La madre degli imbecilli è sempre incinta. Di John Lennon ce n’è uno, di imbecilli ce ne sono tanti. Sempre di più. La strategia più giusta, più umana, per ovviare a tutto questo dovrebbe essere la promozione della cultura. Sto parlando di Cultura con la C maiuscola, non quella fatta solo di poesie a memoria e dimostrazione di teoremi. Sto parlando di sapere come funziona il nostro pianeta. In modo che un laureato in economia abbia abbastanza cultura da capire che la crescita infinita è impossibile e che deve mettere il degrado ambientale nel suo bilancio. In modo che un laureato in ingegneria sappia come funziona l’ambiente nel quale inserirà le sue opere. E abbia l’umiltà di ascoltare chi, di ambiente, ne sa più. Poi, anche se non sanno Il Cinque Maggio a memoria... fa lo stesso. Gli economisti e gli ingegneri, cinesi o statunitensi, non lo sanno, anche se hanno una cultura. Ma tutti dovrebbero sapere come funziona il mondo, visto che ci vivono. Ma gli stolti ci dicono cose tipo: la cultura non si mangia, e a me viene da chiedere loro: i soldi si mangiano? si respirano? si bevono? si ammirano per la loro bellezza? Tutta la nostra storia è costellata di intelligenza e di stupidità. Oggi, però, viviamo in tempi interessantissimi. I più interessanti di sempre. Oggi la storia si è unificata, non c’è più la storia dei singoli Paesi. Non c’è più un altro posto dove poter andare se tutto crolla nel posto dove stiamo. Ci sono ancora movimenti migratori, ma l’impatto della popolazione umana sul pianeta è oramai globale. La barca è una, ed è in corso un’emergenza planetaria. La preveggenza per salvare la barca esiste. Ora bisogna vedere se vincerà la stupidità o l’intelligenza. Su quale delle due scommettereste?



Franco Martina Alle sorgenti dello spirito pubblico

La crisi strutturale che ci attraversa ha stimolato una larga riflessione culturale che, in alcuni suoi tratti, sembra prefigurare una sorta di neo-interventismo intellettuale. Un fenomeno tanto più interessante perché segue il lungo silenzio degli intellettuali dopo il crollo catastrofico del comunismo reale e l’attacco alle Twin Towers. Tra le tante opere che animano il dibattito in questo senso, due possono essere isolate per tentare una riflessione specifica, quella di Maurizio Viroli, La libertà dei servi e quella di Franco Cassano, L’umiltà del male. Due testi che possono sembrare in contrasto ma, da altra angolazione, si prestano a un confronto dialettico. Non a caso sono usciti presso lo stesso editore (che sul tema non è propriamente disinteressato) e nella stessa collana. Entrambe le opere utilizzano strumenti culturali per intervenire, abbastanza direttamente, nel dibattito politico. Né va trascurato il fatto che questa irruzione della cultura sul terreno politico avviene al di fuori di ogni rispetto disciplinare. Cassano, che è un sociologo, si serve soprattutto di testi letterari; mentre Viroli, che è un filosofo della politica, prende a piene mani dalla cassetta degli attrezzi professionale, ma lo fa non en philosophe bensì da cittadino che sente il dovere di intervenire in un passaggio avvertito come emergenziale. Si potrebbe dire che di fronte alla crisi democratica torna a farsi sentire la dimensione critico/propositiva della politica della cultura contro la politica del potere. Un modo di considerare la politica non immediatamente come atto del potere, come azione destinata a incidere sulla realtà sociale per modellarne i contorni o indirizzarne il cammino; quanto invece per quella che ne è l’altra sua essenza: quella di critica del potere. Riportare l’attenzione sul nesso, come si diceva una volta, di politica e cultura significa, anche, mettere in primo piano il presupposto ideale sotteso a ogni azione politica degna di questo nome. 1. Anche se non mancano riferimenti storici nel suo ragionamento, Viroli basa l’analisi su una serie di testi e di rimandi di carattere soprattutto filosofico-politico che presuppone la sua precedente riflessione propriamente filosofica, in particolare L’Italia dei doveri (Rizzoli, Milano 2008), e sembra voler raccogliere il testimone lasciato da due grandi vecchi: Norberto Bobbio, con il quale aveva intrecciato un


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Dialogo intorno alla Repubblica (Laterza, RomaBari 2003), scritto all’inizio del lungo periodo del berlusconismo trionfante e Paolo Sylos Labini, del quale mette in esergo una pagina tratta dal suo testamento intellettuale, Ahi serva Italia. Un appello ai miei concittadini (Laterza, Roma-Bari 2006). Insomma, la prospettiva in cui egli si muove è chiaramente illuminata da quello che il giovane Hegel definiva “lo spirito del nord”; per dire di una morale incardinata sui principi protestanti, ancorché rigorosamente laici, che deve ispirare la politica sotto ogni profilo. Non importa essere pochi o molti, ma essere in pace con la propria coscienza, anche a costo di rinunciare alla libertà e agli affetti familiari. Chi vive secondo la religione del dovere sente la responsabilità di essere d’esempio, e gli esempi, è noto a tutti, educano più delle parole (Viroli, 2010,p. 121).

Viroli contrappone la libertà dei servi a quella dei cittadini. La prima si caratterizza per le insufficienze di una libertà pensata in termini esclusivamente negativi. Teorizzata da Benjamin Constant prima e poi da Isaiah Berlin, essa si definisce come libertà dell’individuo di poter esplicare la propria potenzialità senza interferenze. Ma, come aveva osservato già Hobbes, una simile libertà è compatibile con un potere politico assolutistico; nel senso che la cura esclusiva della sfera dei propri interessi, con i quali si identifica la libertà, può non entrare in conflitto con il potere politico. In quest’ottica quella libertà finisce con l’accettare quel potere e perciò si caratterizza come “libertà dei servi”. Al contrario, la libertà del cittadino, quella repubblicana, è tale in quanto non accetta nessun potere assoluto, perché percepito come potenziale fattore di condizionamento della libertà individuale: …essere liberi non vuol dire tanto non essere ostacolati, oppressi, quanto non essere dipendenti da un uomo o da alcuni uomini che hanno sopra di noi un potere arbitrario o enorme (cit., p.12).

E poi, più precisamente, sottolinea: La libertà dei cittadini… non è una libertà dalle leggi, ma una libertà grazie a o in virtù delle leggi. Perché ci sia vera libertà è necessario che tutti siano sottoposti alle leggi, o, come recita il classico precetto, che le leggi siano più potenti degli uomini (cit., p.13)

Questi due modi di intendere la libertà vengono utilizzati da Viroli per leggere la realtà odierna


Ma da dove nasce la libertà dei servi e come si può trasformare in libertà di cittadini? Le due domande sono strettamente correlate. E così le considera lo stesso Viroli che colloca la ricerca della risposta per entrambe in un ambito morale: come la libertà dei servi nasce da un’assenza o insufficienza di coraggio, simmetricamente la libertà repubblicana postula il coraggio di chi fa il proprio dovere senza aspettarsi premi o gratificazioni. Dov’è da sottolineare che legare la libertà al coraggio consente a Viroli, evidentemente, di sfuggire all’obiezione un po’ sofistica, di considerare come libertà anche quella di chi rinuncia alla libertà. Insomma, un vigliacco non potrà mai essere libero, anche se si chiama Seneca o Petronio. Si può quindi comprendere il pessimismo con cui egli guarda alla emergenza democratica che registra in Italia Non si vede all’orizzonte un leader politico che voglia davvero, o possa, liberarci dalle corti. Ritengo più realistica l’ipotesi di una dissoluzione del potere enorme per iniziativa di cortigiani che desiderano sottrarsi alla dipendenza e guadagnare il centro, seppure in una corte necessariamente minore, dato che nessuno di essi potrà concentrare nelle sue mani un potere paragonabile a quello del signore spodestato o uscito dalla scena ( cit., p.110-111)

Un pessimismo tale che investe la stessa efficacia anti-autoritaria degli istituti democratici (p. 111). Di qui la conclusione per cui: La sola alternativa alla libertà dei servi è la libertà dei cittadini e soltanto un leader politico che capisca in che cosa consiste questa libertà e l’ami con tutto se stesso o se stessa potrà costruire in Italia le condizioni politiche e di costume che renderanno difficile la rinascita di un sistema di corte (ibid.).

Al leader spetta, dunque, il compito di avviare una vera e propria rinascita morale che deve poggiare su alcuni principi precisi: intransigenza contro il cedimento, difesa della Costituzione, educazione morale e civile, amore della libertà, sdegno contro gli allettamenti della libertà dei servi e la rassegnazione (p.138). È evidente come Viroli carichi eccessivamente il ruolo del leader. La figura che ne traccia assomiglia più a quella di un Mosé che deve far transitare un popolo non

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Agli occhi di una persona che abbia un sentimento anche minimo della propria dignità, nessuna servitù è tanto penosa quanto quella che non nasce dalla forza, ma dalla dipendenza dal potere enorme di un uomo (cit., p.29)

Franco Martina

italiana, caratterizzata, appunto, dalla presenza di un “potere enorme o arbitrario”. Una formula che, evidentemente, è usata per marcare una distanza dalle forme tradizionali di autoritarismo o assolutismo. Per questo egli lo colloca non all’interno di un sistema istituzionale, ma nel sistema di corte, dove il vincolo di subordinazione si attiva in virtù non di una oppressione, bensì di una dipendenza e, servendosi anche delle tesi del Discorso sulla servitù volontaria di Etienne de La Boétie, commenta:


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completamente convinto che a quella del leader repubblicano che incarna le virtù di un popolo. La considerazione di alcuni passaggi storici che egli positivamente richiama, avrebbe potuto consigliare conclusioni assai differenti. Sia il primo che il secondo Risorgimento furono fenomeni positivi per la nostra storia collettiva, come Viroli sottolinea, ma è difficile dimostrare che essi furono l’effetto dell’opera di un leader. Se vogliamo considerare la nascita dello Stato nazionale come il risultato più importante del Risorgimento dobbiamo certamente riconoscere una egemonia piemontese, e di Cavour in particolare, ma è lecito aggiungere che quel risultato non sarebbe stato raggiunto senza l’apporto di altri soggetti e di altre forze. E se la riflessione si sposta dal terreno più propriamente politico a quello della formazione della coscienza civile il quadro si complica enormemente. Così come si complica se guardiamo al secondo Risorgimento. Anche qui non mancarono certo i leader, ma essi interagivano con movimenti e partiti di massa. L’esito politico più significativo di questa fase, lo Stato repubblicano e la sua Costituzione vanno certo correlati con l’impegno di leader di grande statura, ma essi erano l’espressione di una nuova sensibilità, di una nuova soggettività politica, come mostrò lo stesso referendum del 2 giugno. Si può legittimamente sostenere, come fa Carlo Galli (Galli, 2010, Il diritto, pp. 38-42), che la spinta propulsiva dei valori posti a fondamento della Costituzione sia oggi in crisi, e non solo per la particolarità della situazione italiana, ma non si può negare che quei valori sono ancora largamente parte integrante della nostra storia e che in essa hanno agito in forma strutturale, modellando non solo le istituzioni ma la coscienza civile di quanti sono chiamati ad operare dentro di esse. Insomma, è giusto e opportuno, di fronte alla gravità della crisi italiana, richiamare di continuo la lezione e l’esempio di Salvemini di Gobetti, di Rosselli, ma la situazione in cui oggi noi siamo immersi non è quella di allora. La convinzione che eadem sunt semper omnia, che la condizione umana è sempre la stessa perché tale è la sua natura, non deve essere disgiunta dall’attenzione per il continuo mutare dell’orizzonte storico in cui l’esistenza si proietta. 2. Viroli sarebbe, probabilmente, un interlocutore ideale per Franco Cassano. Tanto il primo è saldo nella convinzione della forza della sola virtù, quanto il secondo è dubbioso sull’aristocrazia etica e sulla sua effettiva capacità di contribuire positivamente a una lotta di emancipazione. La riflessione di Cassano anche se chiaramente pensa alla realtà italiana e alla vicenda del berlusconismo, tuttavia si muove in un orizzonte più ampio e tocca una serie di problemi diversi, che espone, come anche Viroli, con una prosa affascinante e con una notevole capacità argomentativa. Il nucleo centrale del suo ragionamento si trova nella particolare lettura che egli fa dell’ormai citatissima Leggenda del Grande Inquisitore, un testo nel testo, che si trova ne I fratelli Karamazov. Cassano ne riprende il contenuto, concentrando la sua attenzione sulla imputazione principale che il Grande Inquisitore fa a quello che presume sia il Cristo ritornato non nella originaria Terra santa ma nella Siviglia dalle vie roventi nel XVI secolo, quella di avere basato la sua prospettiva di salvezza su un atto di libertà dell’uomo, un compito del tutto superiore alle sue forze. Il Grande Inquisitore, insomma, imputa a Gesù di aver aperto le porte della salvezza solo per i


L’Inquisitore, sottolinea Cassano, non è né un traditore né un eretico. Dalla sua figura emerge soprattutto il disprezzo per l’arroganza delle élites, che si appagano della loro perfezione morale e disprezzano i deboli proprio per la loro fragilità. Egli mette in evidenza l’importanza e attualità della Leggenda richiamando i termini di un Streitgespräch, svoltosi nel febbraio del 1965, tra Arnold Gehlen e Theodor W. Adorno. La discussione riguardava il ruolo delle istituzioni, con una propensione di Gehlen a ritenerle fondamentali per compensare insufficiente cittadinanza degli individui e la convinzione di Adorno che esse siano un presidio autoritario e perciò limitativo della libertà individuale. Un contrasto che, con le dovute differenza, sembra rispecchiare quello tra il Grande Inquisitore e Gesù. Scrive Cassano Ritroviamo qui il problema in cui ci siamo già imbattuti: la prospettiva dell’emancipazione è una prospettiva difficile, che raramente è diventata maggioritaria tra le stesse classi sociali che ad essa avrebbero dovuto essere interessate (cit., p.70).

Su questa base si comprende meglio la valenza politica del ragionamento. Pur riconoscendo l’importanza dei valori e delle figure che li incarnano, egli mette in guardia dal ritenere che essi abbiano efficacia per la pura affermazione di se stessi. L’aristocratismo etico si chiude in una forma sterile di minoritarismo politico e produce, quindi, l’effetto opposto a quello desiderato: rafforza poteri autoritari o populistici. La figura del Grande Inquisitore, invece, obbliga a un’autocritica e a un difficile confronto su un terreno diverso. Chi sta con gli ultimi deve essere capace di confrontarsi anche con le loro debolezze, con il loro bisogno di certezze e di sottomissione, con un’idea del divino molto terrestre, immediata e profana (cit., p. 18).

Ma in che cosa consiste esattamente la debolezza dell’uomo? da dove deriva questa fragilità? da dove nasce il bisogno di certezze? quale funzione deve svolgere una natura terrestre della divinità? Porsi queste domande non è irrilevante. Se si deve accettare la sfida che pone il Grande Inquisitore. Evitando, però, la doppia conseguenza che per lui comporta: di conculcare la libertà, da un lato, e di trasformare l’aspirazione al bene nella pratica di un potere luciferino (del quale lo stesso Inquisitore è consapevole) basato su mistero, miracolo e autorità.

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Il vantaggio dell’inquisitore, scrive, quello che gli ha permesso nel corso di quindici secoli di occupare ed usurpare lo spazio della predicazione evangelica sostituendo ad essa una macchina di potere, sta tutto nella sua visione più realistica dell’uomo, nella scelta di attenderlo non alle grandi imprese edificanti, ma nel momento della debolezza e del bisogno (Cassano, 2011, p.15).

Franco Martina

forti, non curandosi invece di quanti sono privi del coraggio di affrontare il peso della libertà.


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La riflessione intorno alla fragilità dell’uomo si può considerare una sorta di filo rosso che accompagna l’intera storia della modernità, in termini laici, da Machiavelli a Kant. Ma per ciò che riguarda questo ragionamento la risposta si trova proprio nel testo di Dostoevskij, là dove il Grande Inquisitore dice: ... a noi sono cari anche i deboli. Essi sono viziosi e ribelli, ma finiranno col diventar docili. Essi ci ammireranno e ci terranno in conto di dèi per aver acconsentito, mettendoci alla loro testa, ad assumerci il carico di quella libertà che li aveva sbigottiti e a dominare su loro, tanta paura avranno infine di esser liberi (Dostoevskij, 1991, p.270)

Chi rinuncia alla libertà, chi non regge il peso della soggettività piena lo fa per paura. La paura non è, come sostiene Viroli (cit., p.45), una conseguenza della servitù volontaria, bensì la sua causa. Nello straordinario affresco della piazza di Siviglia, Dostoevskij colloca prima un Gesù silenzioso, che attrae con l’amore; poi il Grande Inquisitore che domina sulla paura (cit., pp. 265-266). Sull’importanza della paura, anzi sulla sua produttività politica, ha di recente richiamato l’attenzione Carlo Galli. La sua analisi parte dalla rilevazione della diffusa utilizzazione politica della paura, sulla sua “produttività politica”, appunto, e dopo un rapido sguardo al mondo classico si concentra sulla realtà moderna, riesaminando le letture che di quel problema ha fatto il pensiero politico-filosofico da Machiavelli a Nietzsche. In conclusione del suo lavoro Galli richiama alcuni dei principali motivi che rendono il problema della utilizzazione politica della paura di straordinaria attualità, ma, proprio per questo, indica anche una necessaria via di ricerca. Liberamente circolante nel nostro mondo globale come immediata reazione ai rischi che vi germogliano, oppure sapientemente inoculata e coltivata da governi e altre agenzie di comunicazione nei corpi sociali e individuali, oppure ancora brutalmente suscitata da assassini fanatici e spietati, legata alla legge o alla infrazione della legge, la paura condiziona ancora la nostra ragione e la stessa soggettività moderna, sia che questa voglia affermare i propri diritti minacciati sia che abbia bisogno di un nemico – dentro o fuori lo Stato – per potere dare un nome alla propria angoscia, per trovare uno sfogo, un capro espiatorio, alla violenza strutturale del mondo. Il discorso della paura, sostenuto da paurosi discorsi sulla paura, non cessa di essere operativo e produttivo; mentre resta ancora inadempiuto il compito di depotenziarlo con efficacia; di conservare cioè il soggetto nella sua autonomia liberandolo dalla colpa, di pensare l’individuo senza le sue paure, di praticare una pace senza violenze, un’universalità confidente e amica – non timorosa – delle differenze (Galli, 2010, p.28).

Dunque, il compito che abbiamo di fronte, con sempre più drammatica urgenza, è quello di depotenziare la paura. Un’alternativa alla risposta interessata del Grande Inquisitore non può che partire da qui. Il punto di discrimine dell’alternativa è molto netto, e in ciò la Leggenda è chiarissima,: quello di non sfruttare la paura per limitare o annullare la libertà e l’autonomia dei singoli. Non negarla o evitarla, non irriderla o esorcizzarla, ma semplicemente affrontarla per quello che è: una componente ineludibile della nostra natura di esseri finiti e per questo esposti alla necessità della morte, alla possibilità della malattia, alle eventualità di un mondo sempre più aperto e mutevole.


Egli è comparso in silenzio, inavvertitamente, ma ecco -cosa strana- tutti Lo riconoscono. Spiegare perché lo riconoscano, potrebbe essere questo uno dei più bei passi del poema (cit., p.265)

Appunto, potrebbe essere. Per comprendere quel silenzio, per cui “tutti lo riconoscono”, occorre rivolgersi altrove, ossia al “testo” originale. Come intuisce il Grande Inquisitore Gesù non può aggiungere nulla a ciò che ha già detto affidandosi, nel momento fondamentale, non alle parole, ma all’esempio, a un atto. In un commento in margine al volume su Gesù di Joseph Ratzinger, Claudio Magris (Corriere della Sera dell’11 marzo 2011) si è soffermato sull’episodio dell’orto del Getsemani e in particolare sul momento che precede l’arrivo di Giuda e l’arresto di Gesù (Mc. 14, 32-42). Lì Gesù si mostra nella sua umanità più profonda: quella di un essere che ha paura, che sente nel suo volto più terrificante, tanto da chiedere al Padre di allontanare da lui il calice. Ma il Padre non risponde, così come non risponderà quando sarà sulla croce, vero Deus absconditus. E i discepoli dormono. In questo abisso di solitudine e di paura Gesù decide, esercita la sua libertà e accetta che si compia il suo destino di figlio dell’uomo secondo la volontà del Padre. In questo episodio, forse, non c’è solo un conflitto tra la doppia natura di Gesù, quella divina e quella umana, ma anche un conflitto all’interno della sua stessa natura umana: da un lato la paura di andare incontro alla morte, dall’altra la fede, cioè la decisione di affidare il proprio destino alla “volontà di Dio”. Per leggere in termini laici questo testo, in cui Magris vede “uno dei momenti eterni della storia dell’uomo”, sarà sicuramente necessario rinunciare all’idea che il sacrificio di Gesù possa aver esorcizzato per sempre la paura della morte nell’uomo; ma, più semplicemente permetterà di riflettere sulla più straordinaria idealizzazione della capacità dell’uomo di usare la sua debolezza, la sua fragilità per il bene altrui: non in un orizzonte di certezza, di verità, ma di umana possibilità. In questo senso sono pienamente condivisibili le considerazioni di Magris. Come sappiamo, questa paura, giustamente recalcitrante al dolore e all’umiliazione, viene vinta; la volontà umana di sottrarsi alla pena, supera, lottando, se stessa e accetta di inverarsi in quella volontà di redimere il dolore degli altri. Non è Dio che, con un

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Ma su questa strada il testo di Dostoevskij è pressoché inservibile. È vero che in esso non c’è esclusivamente la lunga requisitoria del Grande Inquisitore, ma che vi si rappresenta un confronto tragico tra due concezioni del rapporto tra la Chiesa e la modernità; tra due modi inconciliabili di pensare il valore della coscienza individuale e quindi della libertà. In questo confronto il Grande Inquisitore mostra la sua signoria usando la parola, mentre Gesù gli oppone il suo silenzio. Lo stesso silenzio nel quale ricompare e con cui risponde ai fedeli che subito lo riconoscono. Interpretare quel silenzio immediatamente come segno di debolezza o di sottomissione è un grave errore. Come la luce nel buio, la verità di Gesù risuona nel silenzio, perché essa non si mostra nelle parole ma nell’esempio. Cosa dice quel silenzio? Nel testo di Dostoevskij questo aspetto del confronto resta del tutto irrisolto.


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aiuto miracoloso, tira fuori la volontà umana da quel no iniziale; è la volontà umana, il Gesù uomo, che lottando si innalza alla propria verità, alla superiore realizzazione di se stessa, che è sacrificarsi per la salvezza degli altri. Ma, potremmo chiedere, non è proprio questo che avviene pure in ogni uomo, dotato di sola natura umana e senza pretesa di averne pure una divina in senso specifico, quando riesce a vincere la propria angoscia, l’ansia per la sua sorte particolare, e a realizzare un valore che trascende la sua individualità accidentale, psicologica?

Ma non è proprio questo ciò che sta accadendo al di là del Mediterraneo? In Egitto, in Tunisia, in Siria, nello Yemen? Non una ristretta élite, non frange o classi sociali ma intere popolazioni scendono in piazza e sfidano poteri spietati, rischiando la vita affinché altri abbiano la possibilità di viverne una più degna di questo nome. Difficilmente l’Occidente potrà dire qualcosa a quei movimenti; non dal punto di vista politico, né da quello di una cultura che perfino nelle sue punte progressive ha considerato il colonialismo una condizione necessaria dello sviluppo o della civiltà, come nei casi di Tocqueville o di Engels. Invece l’Occidente può imparare molto da essi, quale che sia il futuro immediato che li attende. Di fronte a un mondo convinto che apparire sia un’alternativa a non essere, emerge una inattesa lezione che dimostra quanto l’essere sia più importante dell’apparire. Dai poveri, dai deboli, da quelli che siamo abituati a vedere sui gommoni alla deriva nel mare, viene una lezione di libertà e di dignità per tutti. 3. Proprio riflettendo su questi fermenti che agitano il nostro presente, dobbiamo convincerci quanto è decisivo, per noi come altrove, che la cultura non resti chiusa nei libri, nelle istituzioni, ma diventi un sapere diffuso e agisca come opinione pubblica. Perché ciò possa avvenire sono necessarie almeno due condizioni. Primo. Occorre che il mondo della cultura esca dalla cura esclusiva del proprio specialismo e si assuma la responsabilità di un nuovo impegno. Definiamolo come neo-impegno. Una definizione necessaria soprattutto per rimarcare la distanza rispetto al significato che il termine ha avuto nel Novecento. Un impegno della cultura oggi non può essere pensato, infatti, in funzione della propaganda o della difesa di principi e valori ideologici. L’impegno della cultura può avere valenza politica solo se la cultura si mantiene rigorosamente separata dalla politica stessa. Così come la politica si legittima in relazione all’uso e alla gestione del potere, così la cultura si legittima in relazione all’uso che si fa del logos. Il fronte sul quale la cultura si deve impegnare riguarda la difesa del discorso, della parola dall’abuso che può esserne fatto. In una delle Lezioni americane, quella dedicata all’esattezza, Italo Calvino usciva improvvisamente in una considerazione che va ancora letta e meditata con attenzione: Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che di più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze (Calvino, 1988, p.58).


Bibliografia Calvino, I., 1988, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Torino, Einaudi. Cassano, F., 2011, L’umiltà del male, Roma-Bari, Laterza. Dostoevskij, F., 1879, I fratelli Karamazov; tr. it., 1991, Milano, Garzanti. Galli, C., 2010, Il diritto e il suo rovescio, Udine, Forum. Galli, C., 2010, La produttività della politica della paura da Machiavelli a Nietzsche, in «Filosofia politica», a.XXIV, n.1, aprile. Viroli, M., 2010, La libertà dei servi, Roma-Bari, Laterza.

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La constatazione di Calvino non era circoscritta alla letteratura ma anzi riguardava lo stesso uso delle immagini, e quindi i due fondamentali veicoli della comunicazione, anche se non nasceva dall’ambito della comunicazione. La povertà e l’aridità del linguaggio riguardavano anche la vita delle persone e la storia delle nazioni, con l’effetto di rendere “tutte le storie uniformi, casuali, confuse, senza principio né fine”. Ma Calvino, e questo è il punto, non si limita alla sola denuncia, perché sente l’urgenza di un intervento attivo. Di fronte a una vita che perde ogni possibilità di forma, scrive, “cerco d’opporre l’unica difesa che riesco a concepire: un’idea della letteratura”. Un’idea di letteratura di opposizione e di difesa. A un quarto di secolo di distanza abbiamo potuto constatare quanto in profondità quella pestilenza sia andata propagandosi e quanto siano maturi i tempi per invertire la tendenza. Il secondo punto riguarda le grandi agenzie formative, cioè la sorgente dello spirito pubblico. Non le istituzioni, che in quanto tali non possono veicolare discorsi etici senza un effetto autoritario; mentre esse debbono accogliere anche chi critica o nega i principi costituzionali che le legittimano. Lo spirito pubblico risulta dalla coscienza di chi nelle istituzioni vive e lavora e si deve ispirare al principio che la paura non va alimentata, sfruttata, giustificata, ma dev’essere filtrata dalla forza del discorso razionale e quindi orientata in un orizzonte di comprensione, condivisione, compassione.



Roberto Malighetti Intra ordinem. Emergenza, cooperazione, sovranità

Nella difficile ricerca di determinarsi, le politiche di cooperazione internazionale tentano di resistere agli esiti fallimentari coniugandosi con termini che convincano della nobiltà della causa e promettano rinnovati impegni e obiettivi ambiziosi. La produzione di sviluppi eccezionali è notevole: alternative development, self-reliance development, grass rooted development, participatory development, human development, market-friendly, sustainable development. Articolando veri e propri ossimori, le risemantizzazioni hanno prodotto ingegnose alleanze di parole contraddittorie a giustificazione di paradossali unioni fra crescita e ambiente; sviluppo e riduzione delle disuguaglianze; partecipazione e controllo; pace e guerra; violazione del diritto internazionale e ingerenza umanitaria; legge del più forte e assistenza ai più deboli; scorta armata e carattere neutro delle iniziative. Recentemente la categoria “emergenza” ha hegelianamente inverato la mitologia e la pratica dell’aiuto umanitario, risolvendo le contraddizioni e le antinomie (Malighetti 2005). Sottrae immediatamente i programmi di cambiamento pianificato alla sostenibilità e alla partecipazione così come al confronto con i risultati. Produce una configurazione fondata sulla standardizzazione delle procedure, trasferibili immediatamente dove le strategie politiche lo richiedano e sulla coniunzione fra l’approccio verticistico (they-have-the-problem-we-have-the-solution-approach: Arnfred 1998, p. 77) con modelli organizzativi basati sulla performatività e sull’efficacia in maniera totalizzante. Attraverso il principio di ingerenza umanitaria, le azioni emergenziali superano le basi del diritto, realizzando una forma di sovranità arbitraria, senza alcuna mediazione, fondata sul potere di sospendere la validità della legge (Schmitt 1921, Agamben 2003). Colludono con strategie politico-diplomatiche miranti all’eliminazione di tutti gli ostacoli, innanzitutto gli Stati, che contrastino il programma neoliberista di globalizzazione.

Emergenza permanente I programmi di emergenza si caratterizzano per il fatto di essere implementati dopo l’evento che li provoca, spesso nella fase più acuta della crisi. Sotto la pressione dell’urgenza, l’intensa attività si fissa come non negoziabile. Trasfigura


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i problemi sociali in questioni tecniche, inaugurando modelli organizzativi che fondano la loro legittimità sulla performatività e sull’efficacia in maniera univoca, impedendo modalità alternative. Pensa al sottosviluppo e alle tragedie della fame e della guerra in termini apolitici, meccanici e naturali, come semplici risultati di esplosioni sporadiche, legate a stati endemici di warfare tribalistica o a una storia apologeticamente ritenuta locale e non globale. L’interazione evidente fra comportamenti umani e catastrofi naturali, come anche fra catastrofi naturali e fattori politici, è rimossa, insieme agli effetti determinati dai cosiddetti equilibri internazionali e alle competizioni su risorse in continua diminuzione. In quanto “macchina anti-politica” (Fergusson 1990), il dispositivo dell’emergenza sospende la politica, alimentando il fatalismo, l’assistenzialismo, la dipendenza e neutralizzando le potenzialità di innovazione locali. Al fine di garantire produttività, ordine, stabilità e sicurezza, le imprese emergenziali si servono sempre più spesso dell’apporto della logistica militare, estendendo quella che Pandolfi (2005) definisce la “zona grigia” di operazioni belliche giustificate come operazioni umanitarie in cui gli attori civili hanno sempre meno margini di autonomia e libertà. In una sorta di “pronto soccorso mondiale” (Hours 1998), le organizzazioni non governative e umanitarie si appoggiano operativamente alle stesse forze armate che hanno invaso un territorio straniero. Sovente sono costrette a svolgere un ruolo ausiliario all’occupazione dei militari, dovendo ripulire le macerie e avviare i disegni di ricostruzione in modi che finiscono con l’erigere una barriera di protezione e sostegno alle pratiche di occupazione. In nome dell’emergenza gli organismi internazionali e transnazionali agiscono sul territorio come ciò che Pandolfi (2005), utilizzando un concetto di Appadurai (1996), chiama “sovranità mobili”, realtà che si spostano nel mondo imponendo regole e imperativi, legittimati, sotto la bandiera di valori proclamati come universali. Coniugando l’ideologia del sans-frontierismo degli anni Ottanta con il neoliberismo e l’anti-politica, esercitano strategie globali di controllo del territorio che violano la sovranità degli stati e promuovono forme di dominazione sostenute dal potere mediatico, da quello dei mercati e dalle guerre giuste. Comunità di esperti si mobilizzano per disaggregare le reti di influenza, per concepire nuove alleanze e modificare le strategie d’autorità locali. Riproducendo i meccanismi di cooptazione delle politiche dell’Indirect rule (Malighetti 2002), designano competenze, distribuiscono ruoli e integrano gruppi ed élites nel circuito internazionale, promuovendoli alla funzione di negoziatori di forme di governance deteritorializzate e de-localizzate. Questi poteri coercitivi costringono alla partecipazione o, meglio, a essere partecipati, solamente assoggettandosi alle identità determinate da categorie progettuali che annullano le specificità degli attori sociali. Sussumono gli interlocutori in grandi classi ideali che enfatizzano l’omogeneità, la solidarietà e l’agire collettivo e producono forme sociali organiche, culturalmente autentiche e pure, organizzate all’interno di confini territorialmente, linguisticamente, etnicamente, religiosamente, razzialmente rigidi e chiusi. Ignorano l’articolazione interna dei gruppi, la varietà delle relazioni di potere che determinano l’accesso alle risorse e il loro controllo, nonché la molteplicità dei modi in cui le iniziative si articolano con le contraddizioni, gli interessi e le forme di stratificazione sociale.


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Le politiche neoliberiste e la conseguente crisi del welfare state keynesiano, hanno portato le ONG ad entrare a far parte di un sistema di relazioni con le istituzioni politiche, economiche e gli attori privati. Sostenute dal crollo del sistema westfaliano delle relazioni internazionali, fondato sulla sovranità nazionale e dall’affossamento dell’ONU dopo l’11 settembre, le ONG hanno assunto un ruolo di crescente autonomia dagli Stati, creando forme di diplomazie non governative parallele, consolidate attraverso il riconoscimento di uno statuto consultivo da parte delle istituzioni internazionali. Partecipano a importanti processi decisionali in sostituzione ai governi, contribuendo a indebolire la sovranità statali, a delegittimare i poteri pubblici e la nozione stessa di politiche pubbliche. La gestione privata dell’umanitario, libera dalle reti “democratiche” del controllo elettivo, risponde ai donatori piuttosto che ai meccanismi di rappresentanza, riuscendo ad esercitare pressione sugli enti che erogano fondi e sull’arena politica. In questo contesto le ONG sono costrette a rincorrere le emergenze per sopravvivere e a mettere in campo un’imponente meccanismo in grado di affrontare la competizione per la raccolta dei fondi. Molte organizzazioni intervengono direttamente nei mercati, intrecciando rapporti con le multinazionali, con fondi di investimento e agendo come organismi bancari. L’uso dell’informazione, determinata dalle regole di mercato e dalle necessità di sopravvivenza, costringe a manipolare il lavoro umanitario e a produrre eventi mediatici a colpi di dichiarazioni e di immagini dal forte carattere emotivo per evocare l’indignazione, la compassione e la necessità morale dell’azione. In molti casi servono a sollevare le reticenze del pubblico riguardo agli interventi intrapresi in palese violazione delle più elementari norme del diritto. L’apparato dell’emergenza si costituisce all’interno di un campo politico che si legittima attraverso la semiotica dell’immagine e la retorica della compassione e della necessità. Tale palcoscenico mediatico, che Boltanski (1997) definisce “sofferenza a distanza”, ha eliminato ogni possibilità critica e di controllo (Ackerman 2006). Viene alimentato da un’ostentata e insieme fortemente censurata visibilità, accecante nella sua vacuità, secondo un registro focalizzato sulla drammatizzazione dell’evento emergenziale a discapito della miseria ordinaria e della sofferenza strutturale (Farmer 2003). La fine dell’emergenza produce la sospensione dell’attenzione dei media, l’immediata interruzione delle imprese, il trasferimento della macchina organizzativa negli emergenti scenari dello scacchiere geo-politico. Appellandosi all’emergenza, le “sovranità mobili” esercitano il potere di sospendere legalmente la validità della legge, realizzando una sovranità pressoché assoluta. Come ha mostrato Agamben (2003) citando Schmitt (1921), lo stato di emergenza autorizza poteri enormi, imposti richiamandosi alla sicurezza, all’accoglienza, al soccorso o ai diritti umani. Determina, paradossalmente, una forma di inclusione escludente (Agamben 1995) che trasforma gli esseri umani in entità astratte pronte a essere censite, contate e quantificate, catalogate, etnicizzate e in ogni caso identificate da poteri alieni. Mentre la legge classica pensa in termini di individui e di società, cittadini e Stato, il biopotere (Foucault 1976) dell’emergenza, ragiona in termini di corpi indistinti e de-localizzati, da nutrire, sfamare, vestire, curare, secondo le strategie e le categorie diagnostiche dell’amministrazione, esportabili in tutti i contesti. La dimensione biopolitica evidenzia le condizioni


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giuridico-politiche dei rapporti fra Stato e individui, svelandone i paradossi: in nome dell’emergenza i cittadini sono trasformati in semplici corpi, in “astratta nudità dell’essere nient’altro che uomo” (Arendt 1951 p. 415) o in nuda vita (Agamben 1995)

Inclusione escludente Raccogliendo criticamente l’eredità dei teorici della dipendenza e dell’antropologia dinamista, i recenti approcci antropologici analizzano la cause del sottosviluppo, della fame e della povertà, come il risultato delle relazioni di dipendenza con le società occidentali (Escobar 1995; Arce, Long 2000; Moss, Lewis 2005). Esaminano come la configurazione dello sviluppo faccia inesorabilmente parte del processo di espansione del sistema capitalistico mondiale e analizzano la società civile della cooperazione, un’arena eterogenea con composta da milioni di organizzazioni e di lavoratori e un fatturato di miliardi di dollari che la colloca fa le prime dieci economie mondiali. Segnalano come lo iato incolmabile, ma efficacemente rimosso, fra i programmi delle varie agenzie per lo sviluppo e l’attualità delle pratiche sociali reali, concepito nel gergo della cooperazione come conseguenze non previste o effetto collaterale, produca un efficiente strumento di potere. Si manifesta in termini sia egemonici nei confronti delle popolazioni bersaglio, sia prestigiosi, capitalizzando riconoscimenti e risorse finanziarie da spendere politicamente ed economicamente all’interno dei paesi sviluppatori. Come suggerisce Fergusson (1990) ciò che più conta nell’analisi di un progetto di sviluppo non è il fallimento o quello che non riesce a fare, quanto quello che, fallendo, realizza. Diverse prospettive hanno chiarito come l’istituzionalizzazione e la professionalizzazione della cooperazione internazionale all’indomani del secondo conflitto mondiale, nel momento in cui il potere statunitense è subentrato al colonialismo Britannico e Francese, siano stati importanti strumenti di governo delle relazioni internazionali. In piena Guerra Fredda funzionarono per prevenire l’adesione al campo sovietico, privando nel contempo i popoli dell’opportunità di definire autonomamente le proprie forme di vita economica politica e sociale (Esteva 1992). Successivamente si sono coniugate con nuove categorie, come quella di “emergenza”, continuando a promuovere visioni tecnocratiche, ancorate a prospettive evoluzionistiche unilineari e alla categoria illuministica di progresso: considerano il trasferimento di beni, la fornitura di servizi e di assistenza tecnica e la costruzione di infrastrutture, sufficienti a determinare automaticamente una crescita teleologicamente indirizzata verso forme socio-economiche più perfette, identificate coerentemente agli interessi dei gruppi sviluppatori. L’evidenza scientifica ha chiarito come nel corso delle decadi dello sviluppo, inaugurate negli anni Sessanta dalle Nazioni Unite, gli unici paesi a svilupparsi siano stati quelli dei benefattori. Gli altri, al contrario, sono stati sottosviluppati, in conseguenza alle relazioni politico-economiche che dominano, in modo violentemente iniquo, la scena internazionale. Le prove empiriche dimostrano che gli approcci al cambiamento pianificato non solo si sono dimostrati empiricamente insostenibili, teoricamente insufficienti e incapaci di stimolare un processo di svi-


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luppo nel cosiddetto Terzo Mondo. Soprattutto hanno partecipato all’ampliamento del gap tra ricchi e poveri, producendo sempre più gravi contraddizioni interne e dipendenza esterna. Già il Primo Rapporto Mondiale sullo Sviluppo Umano pubblicato dal United Nation Development Program nel 1990 (UNDP 1990 p. 51), aveva eloquentemente rilevato come il trasferimento netto di 49 miliardi di dollari dai donatori ai soggetti bersaglio, attuato nel 1980-82 avesse prodotto, negli anni 1983-89 un corrispondente indebitamento da parte dei secondi di 242 miliardi di dollari. La storia insegna come siano sempre stati i poveri ad aiutare i ricchi. I principali attori della cooperazione internazionale sono pesantemente condizionati dalle priorità dei finanziatori che decidono della destinazione dei fondi in vista dei propri orientamenti ideologici, politici ed economici. Spesso i programmi di aiuto sono vincolati all’obbligo da parte dei paesi che li ricevono di usare tecnologie o aziende dei cosiddetti donors, ostacolando le capacità di sviluppo locali, già compromesse dalle barriere doganali dei mercati, sviluppati e dalla loro contemporanea immissione su mercati che cercano di liberare, di merci drogate dalle sovvenzioni governative. La maggior parte delle somme date o prestate sono spese nei paesi donatori o vi fanno ritorno: rimborso del debito, fuoriuscita di capitali, trasferimenti illeciti di profitti, fuga di cervelli, acquisti di beni e materiali. L’organizzazione sviluppista è così integrata nel sistema dittatoriale dei mercati, dominato dagli stessi stati-nazione che hanno governato il passaggio dalla colonizzazione ad una nominale indipendenza e ora indirizzano, coerentemente ai propri interessi, i piani di aggiustamento strutturale imposti dal FMI. Fa parte di un’evoluzione fondata necessariamente sullo sviluppo del sottosviluppo e costruita sulla frontiera fra esclusione e inclusione, garantendo pieni diritti e prosperità a poche aree del pianeta e alle parti minoritarie delle popolazioni che hanno accumulato ricchezze e privilegi attraverso lo sfruttamento della maggioranza. Concede ai contingenti di schiavi, ai proletari, ai migranti, agli indigeni e agli indigenti, ai disoccupati, ai profughi, forme di cittadinanza limitata, astrattamente, al piano giuridico e coerente ai disegni di integrazione parziale e alle condizioni di funzionamento del sistema. Costruisce sui differenti statuti negativi (senza terra, senza lavoro, senza diritti, sans papiers) dei variegati eserciti industriali di riserva (Marx 1867), un’esclusione coerente ad un’inclusione eccezionale, limitata, al più, alla prospettiva di una precaria riproduzione biologica della forza lavoro, resa sempre più incerta dall’annullamento dello stato sociale. In tale senso l’ordinamento dell’emergenza riformula, in modo paradigmatico, le ideologie e le pratiche di integrazione sociale asimmetrica, selettiva e dinamica. Operando attraverso il dispositivo dell’eccezione e della sospensione della norma, istituzionalizza l’esclusione ai fini dell’inclusione e del dominio. Come hanno discusso Schmitt (1921) e Agamben (2003), la struttura della relazione di eccezione costituisce, etimologicamente (ex-capere), la forma della relazione che include qualcosa attraverso la sua esclusione, realizzando una sovranità totale che si situa, nel contempo, fuori e dentro l’assetto giuridico, fondando la legge mentre la sospende. La presunta deroga temporale e contestuale alle norme tende a diventare una modalità consuetudinaria e mobile del contratto sociale (Agamben 2003): la ricorrente ricorsa a mezzi straordinari finisce con lo standardizzarsi e invertire


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il rapporto tra regola e emergenza, producendo un effetto perverso di continuità e ubiquità dell’emergenza, congruente con le strategie dei poteri che traggono profitto dall’universalizzazione di tale stato (Benjamin 1955). Bibliografia Ackerman, B., 2006, La costituzione di emergenza. Come salvaguardare la libertà e diritti civili di fronte al pericolo del terrorismo, Roma, Meltemi Editore. Agamben, G.,1995, Homo Sacer I. Il potere sovrano e la vita nuda, Torino, Einaudi. Agamben, G., 2003, Stato di eccezione, Homo Sacer II, Torino, Bollati Boringhieri. Appadurai, A., 1996, Modernity at large: cultural dimensions of globalization Minneapolis: University of Minnesota Press; tr. it., 2001, Modernità in polvere, Roma, Meltemi. Arce, A., Long, N., 2000, Reconfiguring modernity and development from an anthropological perspective, in Arce, A., Long, N., 1999, Anthropology, development and modernities: Exploring discourses, counter-tendencies and violence, London Routledge, pp. 1-32; tr. it., Malighetti, R., 2008, Oltre lo sviluppo. Le prospettive dell’antropologia, Roma, Meltemi, pp. 51-108. Arendt, H., 1951, The Origins of Totalitarianism, New York, Harcourt; tr. it., 1999, Le origini del totalitarismo, Torino, Edizioni di Comunità. Arnfred, S., 1998, From quest for civilization to war against poverty. Observations regarding development discourse, in Arnfred, S., Marcussen, H.S. (a cura di), 1998, Concepts and Metaphors: Ideologies, Narratives and Myths in Development Discourse, Occasional Paper no 19, IDS Roskilde. Benjamin, W., 1955, Schriften, Suhrkamp, Verlag, Frankfurt am Main; tr. it., 1962, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Torino, Einaudi. Boltanski, L., 1997, La souffrance à distance: morale humanitaire, médias et politique, Paris, Métailié; tr. it., 2000, Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media, e politica, Milano, Rafaello Cortina. Escobar, A., 1995, Encountering Development: The Making and Unmaking of the Third World, Pinceton, Princeton University Press.; tr. it. parziale, 2001, in Malighetti, R. (a cura di), Antropologia Applicata, Milano, Unicopli, pp. 293-308. Esteva, G., 1987, Regenerating people’s space, Alternatives, n. 10, 3, pp. 125-152. Farmer, P., 2003, Pathologies of Power. Health, Human Rights and the New War on the Poor, University of California Press, Berkeley,. Fergusson, J., 1990, The Anti-Politics Machine: “Development”, Depolitization and Bureaucratic Power in Lesotho, Minneapolis, University of Minnesota Press; tr. it. parziale, 2001, in Malighetti, R. (a cura di), Antropologia Applicata, Milano, Unicopli, pp.265-274. Foucault, M., 1976, La Volonté de savoir, Parìs, Gallimard. Hours, B., 1998, L’idéologie humanitaire ou le spectacle de l’altérité perdue, Paris, L’Harmattan. Malighetti, R., 2001, Antropologia Applicata, Milano, Unicopli. Malighetti, R., 2002, Post-colonialismo e post-sviluppo: le lezioni dell’antropologia coloniale, in «Antropologia», n° 2, Roma, Meltemi. Malighetti, R., 2005, Oltre lo sviluppo. Le prospettive dell’antropologia, Roma, Meltemi. Marx, K., 1867, Das Kapital: kritik der politishen ekonomie, Dietz, Berlin ; tr, it., 1967, Il capitale, Vol. 1 (2), Roma, Editori Riuniti. Moss, D., Lewis, D. (a cura di), 2005, The Aid Effect: Ethnographies of Development Practice and Neo-liberal Reform, Pluto Press, LondonPandolfi, M., 2005, Sovranità mobile e derive umanitarie: emergenza, urgenza, ingerenza, in Malighetti, R., Oltre lo sviluppo. Le prospettive dell’antropologia, Meltemi, Roma, pp. 151-186. Schmitt, C., 1921, .Die Diktatur, Munchen, Duncker e Humbkot; tr. it., 1975, La dittaura, Roma-Bari, Laterza. UNDP, 1990, Lo sviluppo umano, Torino, Rosenberg e Sellier.


Luciano Ponzio Emergenza scrittura nella riproduzione dell’identico Non c’è opera d’arte che non faccia appello a un popolo che non esiste ancora (Gilles Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?) L’universo delle immagini non solo si mette in mostra, ma folleggia (Vladimir Jankélévitch, Il non-so-che e il quasi-niente)

In un mondo ormai scomparso (Baudrillard 2009) anche il futuro non è più quello di una volta. Nella nostra forma sociale, la produzione del discorso è insieme controllata, organizzata, distribuita secondo determinate procedure – pratiche spesso rafforzate col supporto istituzionale, come una certa pedagogia di formazione e prevenzione, funzionali a poteri in grado non solo di padroneggiare gli eventi ma persino di anticiparli. Insomma, un certo “ordine del discorso” (Foucault 1971) si limita al principio di basarsi sulle regole del gioco di un’identità che deve avere – costi quel che costi – la forma della ripetizione e della conferma. L’istruzione/ostruzione e la tendenza a un certo conformismo schematico non riescono Ecriture-Peinture: Le Arti Sorelle, dittiperò a isolare e a mettere alle corde, e nelle co, cm 120x50 ciascuno circa, acrilico, condizioni di non potersi esprimere, la scrittucollage, vernici su tessuto nero, 2007 ra; non quella scrittura presa alla lettera come oggetto linguistico chiuso e autosufficiente che parla solo di sé, bensì la scrittura che non rinuncia a ricercare, ad avanzare, ad anticipare, a pre-vedere, a inoltrare il tratto di una realtà non scritta. Tale capacità della scrittura di capire prima il corso degli eventi, di essere in anticipo sulla vita – “non fosse che per un’ora”, dice Majakovskij a proposito della poesia – risulta dunque l’unico atto di resistenza e vera spina nel fianco alla normalizzazione dello status quo. “Un grande scrittore nasce dalle contraddizioni del suo tempo. Conosce prima di altri l’ineguaglianza delle cose, il loro spostamento, il corso del loro mutamento. Gli altri ancora ignorano il dopodomani. Lo scrittore lo definisce, ne scrive, e ottiene il disconoscimento” (Šklovskij 1940, it. 1967, pp. 15-16). È altrettanto certo che questo mantenimento dell’ordine – anche se tenuto al guinzaglio di una certa rappresentazione ideologicamente filtrata – non è né stabile, né costante, né incondizionato. Come faceva notare Klee, pittore-scrittore


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dell’invisibile, il visibile costituisce solo un esempio isolato ed è presumibile che esistano, celati nell’idolatria, ben più numerose “realtà” e che, nella sua forma presente, “questo” non è l’unico mondo possibile (P. Klee, “Confessione creatrice”, 1920, it. in Klee 2004). L’emergenza vista e dichiarata secondo l’ottica dominante è l’emergenza funzionale alla riproduzione dell’identico e dunque considerata, paventata e affrontata in vista del mantenimento a tutti i costi dell’ordine convenuto, con un – irresponsabile e pericoloso – eccesso di “zelo” (ideologico-politico) giustificato dalla “necessità” della prevenzione e conseguentemente dall’inevitabilità dell’intervento (nella nostra metafora in senso estetico e chirurgico ma letteralmente anche in senso militare) per il normale maquillage rappresentazionale. La vera emergenza è invece quella dell’appiattimento e del soffocamento nell’identico, è ciò che, con Walter Benjamin (1931, in Benjamin et alii, 1995, pp. 9-12), potremmo chiamare “il carattere distruttivo dell’attuale”, nei cui confronti è vitale reagire al più presto tramite il recupero della facoltà dell’inventiva, della scrittura non ridotta a trascrizione, ma decostruzione e riscrittura, de-scrittura rispetto a ciò che la rappresentazione dell’identico descrive prescrivendo e proscrivendo. È vitale non soltanto vedere come effettivamente stanno le cose, ma anche rivedere e riconfigurare. La facoltà di scrittura, di rimodellazione, di ricombinazione, attitudine specifica dell’animale umano in quanto “animale semiotico”, in quanto “animale sintattico”, capace del “gioco del fantasticare” (Peirce; Sebeok, 1981, it. 1984) consiste proprio in questa riflessione critica e innovativa. Essa lo pone nella condizione di unico responsabile dell’intera vita sul pianeta terra, la quale – ormai è sempre più evidente –, è in stretto rapporto con una vita umana che ritrovi la sua qualità di vita umana. E tale qualità peculiare sta proprio nella scrittura come riconfigurazione del mondo attraverso strategie testuali di cui le forme artistiche (disegno/pittura/letteratura/poesia/teatro ecc.) non sono che un aspetto. Un aspetto che diventa puramente esornativo se isolato, sporadico e soprattutto se separato dalla “responsabilità senza alibi” (v. Bachtin, “Arte e responsabilità”, scritto-manifesto del 1919) di ciascuno nei confronti del proprio Umwelt, che, a differenza di quello degli altri animali, ha la caratteristica specie-specifica di essere rimodellizzabile (v. J. von Uexküll, 1934, it. 2010). Nella realtà esibita, poiché pre-scritta, tutto è perfettamente collocato, prevedibile da cima a fondo: dai nomi mal ritagliati e dispensati in termini, ai libri di testo di Stato (soprattutto sorvegliati sono quelli di storia), agli arruolamenti identitari, alle adesioni condivise, senza fare una piega. In essa vi sono messaggi che servono essenzialmente a stabilire, a prolungare, a mantenere, a tenere in vita, a vivificare la comunicazione, a verificare se il canale funziona, se l’ingranaggio informativo è perfettamente oliato, ad attirare l’attenzione, a portare sull’attenti l’interlocutore. Se la pecca più grande di questo mondo è l’omissione di realtà a favore di una realtà esibita che continua a pre-scrivere guerre senza ritorno – in cui il seppellimento non è certamente semina di pace –, di contro possiamo dire che la scrittura, come scrittura emergente, non solo in emergenza nei confronti di un mondo morto in piedi, ma anche capace di (ri)emergere, di tirarsi fuori dal pantano, dall’imbroglio rappresentazionale, costituisce lo strumento di ritrovamento, di dis-occultamento di una realtà tenuta celata nell’idolatria degli oggetti.


il disegno, se non il disegnare o la disegnatrice, è cieco. In quanto tale e nel momento in cui si compie, l’operazione del disegnare avrebbe qualcosa a che vedere con l’accecamento. In questa ipotesi aboculare (aveugle [cieco] deriva da ab oculis: non da o attraverso gli occhi, ma senza gli occhi) resta da capire come il cieco possa essere un veggente, come abbia talvolta una vocazione da visionario (Derrida, 1990, it. 2003, p. 12).

Alla scrittura, ma una scrittura visionaria, nel senso che è essa stessa a produrre ciò che vede, è consacrato, stando al titolo, un noto dipinto di René Magritte: La chiaroveggenza (1936). L’architettonica dell’artista-veggente consiste qui nel “tradimento delle immagini”. In questo dipinto, Magritte dipinge un artista – che nella fisionomia del volto gli somiglia tanto da poter dire che si tratterebbe di un autoritratto – seduto di spalle a chi guarda e di fronte a un cavalletto. Il personaggio dipinto fissa l’immagine di un uovo poggiato sull’angolo di un tavolo, mentre la sua mano è sospesa nell’azione di dare (quadro nel quadro) un ultimo tocco di pennello all’immagine di un uccello in volo. È chiaro che Magritte, in quest’opera, alluda alla percezione a distanza nel tempo e nello spazio (precognizione) del

49 Emergenza scrittura nella riproduzione dell’identico Luciano Ponzio

Bisognerebbe prima di tutto mandare in frantumi la fiaba della scrittura come allontanamento dalla vita, intesa come arte visionaria, onirica, fantastica, deviata, astratta, impressionista e con l’accusa di non poter mai diventare abbastanza verisimile. Del resto, la mania di soffocare e di contraffare ogni cosa pur di averne il controllo ha finito con il confondere anche le acque della scrittura attribuendo pure a essa l’imperativo di trascrivere, di riprodurre fedelmente la realtà, la rappresentazione esatta del mondo. A tal punto che la scrittura è stata spesso etichettata, quasi per diffidenza superstiziosa, come arte visionaria, bizzarra, delirante, espressione allucinata, non fosse altro perché altera profondamente le proporzioni, gli oggetti, i toni della realtà rendendoli irriconoscibili, anomali, perché mai visti prima. La capacità della scrittura di stare “sulla soglia” tra arte e vita, di evadere e invadere i luoghi comuni del discorso, è ribadita dal rapporto ambiguo, metaforico, figurale, iconico (Peirce) in cui essa si congegna alternandosi tra contiguità e similarità, in una posizione eccedente, altra, instancabilmente in agguato di fronte alla realtà reale, all’attuale, alla contemporaneità, alla modernità e a ogni formula stereotipata e pre-scritta della comunicazione-informazione. L’ineliminabile complicità tra senso e suono (“Le poème cette hésitation prolongée entre le son et le sens”: Valéry, 1943) fa sì che la scrittura si insinui dissidente nelle trame della rappresentazione; rappresentazione che, nonostante non preveda (a ragione) alcuna possibilità d’uscita dialogica e alcuna dilatazione semantica, viene fatta detonare al suo interno dalla scrittura stessa che, così facendo, mette in circolo risonanze di suoni ed enunciazioni, veri e propri attentati al principio di identità, pronti a far saltare la trasmissione, a spezzare la catena di significati e frasi fatte che costituiscono la spina dorsale dell’informazione. È importante far notare che tale scrittura, dalla capacità abduttiva di ipotizzare, di collegare, di cogliere implicazioni, necessaria per creare il disegno di una visione preveggente, predittiva nei confronti della società ferma nelle stazioni della ripetizione e dell’identico, dimostra una certa irrilevanza dell’avere la vista ridotta. Si direbbe, anzi, con Derrida, che


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veggente e alla somiglianza di quest’ultimo alla visione dell’artista nei confronti del mondo degli oggetti. L’artista per eccellenza è colui capace di configurare una scrittura in grado di presagire, di pronosticare, indovinare, di farsi interprete di sogni, di vagheggiare finanche utopie, nel tradurre, nel trasporre la realtà sulla tela o altri supporti, pre-vedendola. Così come avviene nella buona resa di una traduzione rilevante (Derrida, 1998, it. 2000) – e non in quella pedissequa del tradurre parola per parola – in cui il testo tradotto è lo stesso altro, pre-visto, ancor prima di essere realizzato, nella sua possibilità di spostamento, di metamorfosi, di durata in un tempo grande, rispetto a quello della sua contemporaneità e anche della sua lingua. Come fa notare Todorov (2007, it. 2011), a proposito della preveggenza della scrittura, Turner non ha inventato la nebbia di Londra, ma è stato colui che l’ha percepita, raffigurata, pre-vista abduttivamente, nella resa dei suoi quadri; lo stesso vale per la letteratura: la scrittura di Balzac, più che trovare i suoi personaggi per strada, li crea, li pre-vede, e una volta introdotti, inscritti nella vita, nella società contemporanea, da quel momento non si cessa più di vederli. Dunque, ciò che conta nella creazione è soprattutto la tensione della visione, prestando ascolto e accogliendo quei segni iconici che il mondo offre già, ma che la rappresentazione tiene celati nel mondo delle cose. Si tratta di fermare l’idea del mondo, di andare più lontano di quanto dia a vedere la rappresentazione, al di là dell’occhio, oltre l’orizzonte, altrove; un altrove che è del mondo, ed è nel mondo come continuo rimodellamento, reinvenzione e rinnovamento. L’occhio offeso dalla rappresentazione dominante ritorna occhio aperto, occhio tagliato per vedere; tagliato in un duplice senso, non solo capace, ma anche, in riferimento all’occhio reciso all’inizio di Un chien andalou di Buñuel e Dalí (v. Talens, 1986; it. 2009), liberato da ciò che gli impedisce una visione lungimirante, preveggente, a perdita d’occhio (appunto). Il patto tra l’occhio e il visibile viene spezzato dall’aveugle-voyant che, per vedere, strizza gli occhi fino all’accecamento: cieco di fronte alle apparenze pur di abolire ogni principio di realtà. Come nota ancora Derrida:

Percetto, cm 18x13 (Taccuini), inchiostri, acquerelli, 2010

Nel momento in cui si apre un varco originario, nella potenza tracciante del tratto, nell’istante in cui la punta della mano (del corpo in generale) si spinge avanti a contatto della superficie, l’inscrizione dell’inscrittibile non si vede. Improvvisata o meno, l’invenzione del tratto non segue, non si regola su ciò che è presentemente visibile, e che sarebbe posto là davanti a me come un tema. Anche se, come si dice, il disegno è mimetico, riproduttivo, figurativo, rappresentativo, anche se il modello è presentemente di fronte all’artista, bisogna che il tratto proceda nella notte. Esso sfugge al campo visivo. Non solamente perché non è ancora visibile ma perché non appartiene all’ordine dello spettacolo, dell’oggettività spettacolare – e quindi ciò che fa avvenire non può essere in sé mimetico (Derrida, 1990; it. 2003, pp. 62-63).


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Lo sguardo riproduce “l’immagine intellettualizzata del mondo” (Bataille, 1949; it. 2000, p. 37). L’occhio è difeso, è fornito di una rappresentazione che lo corazza, lo protegge, gli dà fiducia, garanzia, sicurezza, lo fornisce di tutti i comfort. Lo sguardo è “soggetto all’errore del suolo fisso” (Bataille, 1947-48, it. 2000, p. 20), crede in ciò che vede, in ciò che si dà come reale, schiantandosi inevitabilmente sulla rappresentazione che si basa su un’ottica selettiva come assemblaggio di una serie di fissazioni. Nella scrittura, invece, ogni fissità dello sguardo mono-prospettico ordinario, risultante dall’acutezza costitutiva dell’occhio, è superata. La scrittura, infatti, reinventando se stessa nel ricercare una visione, non più innocente di fronte al mondo delle apparenze, prevede e predice ciò che non obbedisce e non aderisce all’Imago Mundi. È in essa che l’animale umano dichiara la sua posizione e inizia a farsi un mondo esorbitante rispetto alla necessità, eccedente rispetto al bisogno, promuovendo il movimento di un’arte in grado di rivendicare il diritto all’infunzionalità: una scrittura fuori servizio che, osando l’inosabile, figura ed esibisce se stessa come stratagemma straripante di abduzioni audaci. La scrittura predilige operare per icone, cioè con quella parte “degenerata” (Peirce) del segno che, diversamente dalla sua convenzionalità di simbolo, e dalla sua necessità di indice, non si lascia rappresentare, accedendo al mondo dell’invisibile con un movimento non diverso da quello in cui avvengono le “grandi rivoluzioni scientifiche”, in quanto ipotesi, simulazione, esperimento, che si protende oltre i limiti dello sguardo verso la possibilità di una nuova visione e, tramite essa, anche di progettazione di un mondo nuovo, mondi possibili o impossibili che siano. Solo la scrittura configurata nelle sembianze di eccedenza induce lo stato di fatto a rivedere le regole del gioco e riapre il gioco. Dato che il limite del noto e della conoscenza è il vero motore del senso, la scrittura instaura rapporti con ciò che è solitamente impedito, visivamente offeso, convenzionalmente segregato, ideologicamente occultato, realisticamente celato. Si tratta della scrittura che sfrutta la possibilità artistica di concedersi un riposo rispetto ai testi di comunicazione, di informazione e formazione, per eseguire continue operazioni di spostamento e smottatura intente a far vacillare la realtà esibita quale eccesso di realtà, come sopraffusione del reale – che è, al tempo stesso, omissione di realtà. La rappresentazione è strettamente collegata con l’identità, e quest’ultima con l’opposizione, il conflitto, l’arruolamento, lo schieramento, la guerra, come extrema ratio della logica della rappresentazione. A tali arruolamenti la scrittura Sur le Son et Les Sens, cm 18x24, risponde disertando. Pur di sostenere e giustificare inchiostri, pigmenti, acquerelli, il mondo della rappresentazione, nella rappresencollage, 2011


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tazione non manca il ricorso a trucchi, a mezzucci e a subdoli espedienti, destinati generalmente al successo, soprattutto per il fatto che il mantenimento e la riproduzione costante della realtà rappresentazionale è certamente più rassicurante del suo smascheramento. Si preferisce restare legati al visibile, non spingersi oltre il suo orizzonte, restare ancorati al tangibile stato delle cose. D’altronde, l’invisibile inquieta. Il peggior nemico è quello che non si lascia vedere. E in questo mondo di guerra, quando non c’è un nemico invisibile bisogna inventarselo (1984 di Orwell docet). Se il terrorismo non esiste o desiste, il sistema se lo inventa (d’altronde la stessa cosa accade con virus e pandemie influenzali). Bisognerebbe dunque partire dal presupposto che vi è, da un lato, la messa in discussione del mondo fatto solo da enunciati affermativi, organizzati in rispetto della trama del mondo e, dall’altro lato, lo spostamento visionario pre-veggente, un mondo da fare, anziché già fatto e da riprodurre: un movimento senza fine, una inesaudibile con-figurazione. Bisogna andare oltre. Innanzitutto, uscire dai segni dell’identità: a essi fanno solitamente appello le guerre, giuste, necessarie o preventive che siano, e i terrorismi che ne dipendono e le giustificano. Persiste in ogni caso l’idolatria nei loro confronti. Emblematico e plateale è il caso Twin Towers: la loro distruzione, innumerevoli volte reiterata davanti agli occhi del mondo intero, già pre-vista sullo schermo cinematografico, è già inscritta nel loro ruolo di simboli identitari. D’altronde, la maggior parte delle cose che accadono nel mondo della rappresentazione non costituisce evento, poiché quest’ultimo sta nell’ordine della discontinuità e della rottura (v. Baudrillard e Morin 2004). Si tratta di una realtà la cui violenza è nascosta nell’evidenza: la violenza della distruzione di posti di lavoro e di risorse umane come conseguenza della competitività, dell’automazione o della crisi di turno; la violenza della distruzione dell’ambiente e della vita; la violenza di ordinaria amministrazione, quella che fa parte del corso normale delle cose; fra cui la guerra come extrema ratio, la guerra inevitabile, necessaria, preventiva (il luogo comune dell’argomentazione è che prevenire è meglio che curare!), guerre fatte passare per giuste e confezionate ad arte con interventi militari spesso ingentiliti linguisticamente in chirurgici, in umanitari o di pace. Sempre attuale risulta quindi la scrittura nell’enunciato orwelliano “la guerra è la pace”, se non fosse che è stato meglio e più direttamente espresso nell’affermazione della necessità della guerra preventiva (profeticamente, in 1984, vi è il cosiddetto psico-reato, cioè è vietato anche solo pensare in modo divergente dai dettami del governo totalitario del Grande Fratello). Obiettore nei confronto dell’uniformità, rifiutandosi di farsi reclutare dalla realtà, chi di scrittura si occupa resta impenitente fuori divisa, fuori appartenenza, fuori omologazione, fuori schieramento, infedele e disertore. Soltanto come disertori della realtà, come disertori dell’identità, della sua logica conflittuale, oppositiva, si può ostacolare l’inevitabilità della guerra inscritta nella realtà delle cose. La progressiva distruzione del pianeta per antropizzazione, insieme all’autodistruzione nei teatri di guerra in nome dell’eguaglianza e dell’uniformità, è sotto gli occhi di tutti, ormai così tanto diffusa nell’aria che respiriamo che non s’avverte più, come lo smog. Basterebbe pensare alle immagini coloratissime di popolazioni ormai inglobate nella civiltà progredita e nell’omologazione dominante; aborigeni australiani e amerindiani delle riserve che, per quanto riesumati nella loro origina-


Il linguaggio sfugge al modo d’essere del discorso – vale a dire alla dinastia della rappresentazione –, e la parola letteraria si sviluppa a partire da se stessa, formando un reticolo in cui ogni punto, distinto da ogni altro, distanziato anche dai più prossimi, si situa in rapporto con tutti gli altri in uno spazio che al tempo stesso li ospita e li separa. La letteratura non è il linguaggio che si avvicina a se stesso fino al punto della sua bruciante manifestazione, ma è il linguaggio che si colloca il più lontano possibile da se stesso; e se in questo suo porsi “fuori di sé” svela il proprio essere, questa improvvisa chiarezza rivela uno scarto più che un ripiegamento, una dispersione più che un ritorno dei segni su loro stessi (Foucault, 1986, it. 1998, p. 14).

Dal trionfo ingannevole del sistema a livello globale, dalla condanna a una condizione

Testo, Tessuto, Trama, Tela, Scrittura. Omaggio a Roland Barthes, cm 100x70, acrilici e collage su tessuto nero, 2006

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rietà, rientrano perfettamente nei teatrini della rappresentazione: ormai nient’altro che segni residui di un massacro etnico che ora si presenta nella versione democratizzata della riconciliazione. È evidente che vige un tipo di omologazione che s’imprime sulla faccia di questo mondo in termini d’indifferenza dilagante, di ostentata presa di posizione indifferente (indifferente alla sofferenza altrui, alla fame e alla sete nel mondo, alla pena di morte, al surriscaldamento e all’inquinamento del pianeta, dall’abuso violento nei confronti degli indifesi, al maltrattamento brutale di animali inermi, ecc.). Nei riguardi della fame la rappresentazione è spietata: bisogna morire di fame legittimamente: per denutrizione, per disoccupazione o per sfruttamento; bisogna morire di fame in modo appropriato, e quando ciò è richiesto: il condannato a morte che si rifiuta di mangiare, poiché la sua condanna non consiste nel farlo morire di fame (come accadde al conte Ugolino) viene alimentato a forza fino al giorno della sua esecuzione. Tutto ciò non è niente altro che il solito vano affannarsi per la difesa parossistica di un’esistenza arroccata, (an)estetizzata, in un mondo che continua ad essere caratterizzato – anzi è caratterizzato proprio dall’esserlo sempre di più – dalle emergenze di turno: la crisi, la caduta delle borse, la disoccupazione strutturale, l’emigrazione dilagante, l’aumento dei senzatetto, degli affamati e degli assetati, il traffico di armi, la guerra, la diffusione della droga, lo sfruttamento minorile, il mercato del sesso, la ricerca di mano d’opera a basso costo nei sud del mondo, speculando e approfittando dell’impoverimento altrui. Il solo modo che ci rimane per vedere l’altro, per vedere dal punto di vista dell’altro, è formarsi un punto di vista, “farsi un’ottica”, come diceva Cézanne, escogitare uno stratagemma di scrittura là dove si vedono e si fanno sempre e solo le stesse cose: una scrittura capace di rendersi portavoce di tutt’altro mondo, portata com’è a lavorare inoperosamente (Blanchot), come se da questo fosse già fuori.


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di uniformità e omologazione, e da una mondanità che è data a vedere come un pullulare di segni in cui l’interessante è subalterno all’interesse di affermazione, di conferma, di prevalenza e di prevaricazione (in cui i più non creano, indaffarati come sono a riprodurre l’eterna rappresentazione), la scrittura, ritraendosi, si sottrae, si tira fuori. L’età della rappresentazione si chiude inevitabilmente su se stessa. La rappresentazione non è libera ma legata, prigioniera di tutti gli idola che la compongono. La scrittura si configura come la più preveggente delle facoltà, pre-testo d’incontro con l’altro, incontro di parole, incontro di culture, incontro di voci, ascolto. Bibliografia Bachtin, M. M., 1919, “Iskusstvo i otvetstvennost’”, «Arte e responsabilità», in Bachtin 1979; tr. it., 1988, pp. 3-4. Bachtin, M. M., 1979, Estetica slovesnogo tvorčestva, Izdatel’stvo “Iskusstvo”, Moskva; tr. it., 1988, L’autore e l’eroe, Torino, Einaudi. Barthes, R., 2003, La préparation du roman, I et II. Notes de cours et séminaires au Collège de France 1978-1979 et 1979-1980, Paris, Seuil; tr. it., 2010, Galiani, E., Ponzio, J., La preparazione del romanzo, 2 voll., Milano, Mimesis. Bataille, G., 1947-48, La limite de l’utile (Fragments), in Œuvres complètes, 1970-1988, 12 voll., Paris, Gallimard; tr. it., 2000, Il limite dell’utile, Milano, Adelphi. Bataille, G., 1949, L’art, exercice de cruauté, in Œuvres complètes, 1970-1988, 12 voll., Paris, Gallimard; tr. it., 2000, L’arte, esercizio di crudeltà. Da Goya a Masson, Genova, Graphos. Baudrillard, J., 2009, La scomparsa della realtà. Antologia di scritti; tr. it., 2010, Bologna, Lupetti. Baudrillard, J., Morin, E., Jeudi de “Istitut du Monde Arabe”, www.imarabe.org; tr. it., 2004, La violenza del mondo, Como-Pavia, Ibis. Benjamin, W., 1931, “Der destruktive Charakter”, in W. Benjamin, Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedermann e H. Schweppenhäuser, IV, 1, pp. 396-401, Frankfurt/M, 1972; tr it. di P. Segni, “Il carattere distruttivo”, in W. Benjamin et alii, Il carattere distruttivo, «Millepiani», 4, Milano, Mimesis, 1995, pp. 9-12. Blanchot, M., 1973, La folie du jour; tr. it., 1982, La follia del giorno, Reggio Emilia, Elitropia. Deely, J., Petrilli, S., Ponzio, A, 2005, Semiotic Animal, Ottawa, Legas. Deleuze, G., 2003, Deux régimes de fous, Textes et entretiens 1975-1995; tr. it., 2010, Due regimi di folli e altri scritti, Torino, Einaudi. Derrida, J., 1998, Qu’est-ce que c’est une traduction relevante; tr. it,, 2000, Che cos’è una traduzione ‘rilevante’?, in «Athanor» 3, 1999/2000, pp. 25-45, Roma, Meltemi. Derrida, J., 1990, Mémoires d’aveugle. L’autopotrait et autres ruines, Paris, Réunion des Musées Natiounaux; tr. it., 2003, Memorie di cieco. L’autoritratto e altre rovine, Milano, Abscondita. Foucault, M., 1986, La pensée du dehors, Montpellier, Fata Morgana; tr. it, 1998, Il pensiero del fuori, Milano, SE. Foucault, M., 1971, L’ordre du discours, Paris, Gallimard; tr. it., 2004, L’ordine del discorso, Torino, Einaudi. Jankélévitch, V., 1980, Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien, Paris, Seuil; tr. it., 2011, Il non-so-che e il quasi-niente, Torino, Einaudi. Klee, P., 1920, Schöpferische Konfession, Berlin, Erich Reiss; tr. it., 2004, Confessione creatrice e altri scritti, Milano, Abscondita. Merleau-Ponty, M., 1966, Le doute de Cézanne, in Id., Sens et non sens, pp. 15-44, Paris, Nagel; tr. it., 2004, Il dubbio di Cézanne, in Senso e non senso, pp. 27-44, Milano, Il Saggiatore. Orwell, G., 1949, Nineteen Eigthty-Four. A Novel, New York, Penguin; tr. it, 2001, 1984, Milano, Mondadori. Pasolini, P. P., 1972 (2003), Empirismo eretico, Milano, Garzanti.


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Diana Salzano Preveggenze di rete, reti di emergenze

Internet è il regno delle emergenze, nel senso maffesoliano di effervescenze sociali, risultanze di combinatorie creative, innesti ideativi, condensati di surplus cognitivo e affettivo e nel senso, più allarmante, di necessarie strategie di vigilanza e monitoraggio dei percorsi di senso e di consumo, di socializzazione e costruzione identitaria delle nuove generazioni. L’internet literacy, l’alfabetizzazione alle tecnologie di rete e le capacità previsionali diventano allora una risorsa fondamentale per chi voglia esercitare una funzione di orientamento, quanto mai difficile per gli adulti, digital immigrants in un mondo di nativi digitali (Prensky 2001) che sono i giovani di oggi. Eppure, una guida all’uso corretto delle risorse telematiche non è delegabile né rinunciabile, come si evince chiaramente dal recente rapporto internazionale Eu Kids Online (Livingston, Haddon, Görzig, Ólafsson 2011) diretto da Sonia Livingstone1 e Leslie Haddon. Lo studio coinvolge un network internazionale di ricerca finanziato tra il 2006 e il 2009 dalla Commissione Europea, con lo scopo di promuovere un uso più sicuro e vantaggioso di internet e delle nuove tecnologie online da parte dei minori, contrastando i contenuti illegali e indesiderati dall’utente finale. Il lavoro, che si muove nel solco della tradizione degli Internet studies, prende in esame il consumo della rete di oltre 23 mila ragazzi tra i 9 e i 16 anni di 25 Paesi europei, tra cui l’Italia, e si concentra sull’analisi comparativa dei rischi e delle opportunità nelle diverse nazioni interessate2. I giovani sono i primi e i più entusiasti utilizzatori di ICT3 e l’età in cui i bambini accedono per la prima volta ad internet si è sensibilmente abbassata rispetto ad un recente passato4. Il modellamento sociale del web da parte delle giovani generazioni registra tappe veloci e difficilmente prevedibili. Il digital divide, relativo ai diversi background socioculturali, all’età, al sesso, al livello di istruzione e all’appartenenza territoriale segna, infatti, differenti modalità di approccio ad internet da parte dei giovani e diverse soglie di rischio e opportunità. La sovrastimata abilità dei minori di navigare in modo competente la rete porta i genitori ad atteggiamenti eccessivamente lassisti e deresponsabilizzanti nei confronti dei propri figli o, al contrario, a posizioni allarmistiche, protezionistiche5, tabuizzanti. Un incerto orientamento nei confronti della tecnologia telematica conduce gli adulti ad adottare misure spesso inadeguate di tutela del minore, sempre più libero di dedicarsi a pratiche di alfabetizzazione informale, non guidate cioè da figure educative


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significative. La scuola, dal canto suo, fatica a integrare pratiche di insegnamento in presenza con modalità di e-learning e a ri-mediare (Bolter, Grusin 1999) la cultura testuale del libro in un approccio ipertestuale. È sempre più urgente allora un programma di media education e, in particolare, l’introduzione dell’internet literacy6 nei curricola scolastici La forza pervasiva dei social network nel promuovere pratiche integrate di socializzazione online e offline, di costruzione identitaria e di costante confronto con il gruppo dei pari porta le giovani generazioni a muoversi con disinvoltura, ma spesso in modo irriflesso e problematico, nel cosiddetto web 2.0 . Pur fuori da ogni intento demagogico e ideologico che costringa gli usi della rete nella griglia valutativa dei valori con cui i processi di socializzazione della modernità hanno controllato, in modo censorio o critico, l’espandersi di culture trasgressive (Abruzzese 2008) dobbiamo tener conto che determinati usi di internet possono nascondere insidie che richiamano a una necessaria attenzione e vigilanza. Nella piena consapevolezza che i media digitali sono il mondo che siamo7, le forme immanenti della nostra espressività, dobbiamo tuttavia riconoscere che le insidie del web come il cyberbullismo, il cyberstalking, il grooming8, lo sfruttamento commerciale, la violenza dei contenuti e dei comportamenti telematici, i siti snuff9, pro-ana10 o dedicati al suicidio dimostrano che se è nata una società delle reti non è ancora nata una civiltà delle reti (Abruzzese 2008) che ha bisogno di tempo e assiduità di frequentazione per potersi sedimentare. A causa però di un digital divide culturale, ancora purtroppo consistente, l’adulto è spesso impotente e disorientato rispetto all’immanenza di un medium la cui grammatica è costantemente in fieri e incontra la velocità sinaptica e la ideatività spugnosa dei giovanissimi prima ancora che le istanze autoritative e pedagogiche delle agenzie di socializzazione tradizionali: Qui, nelle comunità professionali e sapienziali, ci si attende o rivoluzioni immediate o nuove frontiere di sopravvivenza, conservazione, consenso, controllo; là, nello smanettare affettivo di milioni di esseri umani, la metamorfosi nasce dall’interno, nei tempi e nelle forme silenziose e rumorose, senza sintassi e senza grammatica, spesso familistiche e amorali, del non-sapere (…). Il ‘nuovo’ in quanto metamorfosi profonda sta accadendo tra le mani dei semplici più che nella testa dei dotti (Abruzzese 2009, p. IX).

I social media sono parte integrante della routine quotidiana dei nostri giovani, sono strumenti che coordinano sempre più gli eventi del mondo offline e, grazie alla frequentazione collettiva degli ambienti mediali, sta prendendo forma per via esperienziale piuttosto che cognitiva una nuova cultura. La logica dei media digitali, diversamente da quella televisiva, “permette alla ‘Gente Un Tempo Nota Come IL Pubblico’ di creare ogni giorno valore per sé e per gli altri”(Shirky 2010, p. 38).


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Nell’economia postgutenberghiana della rete il prosumerismo comunicativo e la peer production (Tapscott, Williams 2006, p. 70) annullano la differenza tra produttori e consumatori. Gli user generated contents integrano al downloading pratiche di uploading e incrementano la generosità ideativa di quella che lo scrittore Nicholas Carr (2006) ha battezzato digital sharecropping, mezzadria digitale, una sorta di cognitariato (Berardi 2001) che lavora gratis in internet aumentando i guadagni dei capitalisti dell’informazione. Il mezzadro cognitivo è tuttavia felice di condividere, di abbandonarsi al piacere della reciprocità (Kelly 2005) e di conquistare prestigio e reputazione; le sue motivazioni sono intrinseche, sono quelle per cui la ricompensa è l’attività stessa. La Commons-based peer production (Benkler, Nissenbaum 2006) origina una vera e propria semantica generazionale (Jenkins 2006) e designa un sistema che opera solo grazie a contributi spontanei, che si affida al dilettantismo, alla creatività espressiva e al surplus cognitivo. Le motivazioni sociali rendono più forti quelle personali; le reti partecipative incoraggiano l’appartenenza e la condivisione che, a loro volta, rinforzano l’autonomia, la competenza e il desiderio di ulteriore connettività. Insieme alla spinta comunitaria e culturale, l’abbassarsi del costo di condivisione delle conoscenze ne aumenta esponenzialmente la combinabilità. Il proliferare di comunità di pratiche testimonia il sorgere di nuove culture della condivisione11: “Oggi che i social media hanno radicalmente ampliato il raggio d’azione e l’emivita della condivisione, l’organizzazione della condivisione ha assunto molte forme” (Shirky, 2010, p. 136). È la motivazione, unitamente alle caratteristiche del medium internet e alle sue inedite possibilità espressive, a creare surplus cognitivo. Notevoli e numerose sono le motivazioni che spingono i giovanissimi a connettersi alla rete e ad abitare i social network: la possibilità di ibridare forme comunicative12 e spazi sociali di rappresentazione identitaria13, la peer production e il costante self e other-monitoring14, attività estremamente gratificanti nella fase evolutiva in cui è fondamentale un costante rapporto con il gruppo dei pari, la costruzione performativa del sé15, l’intensificazione emotiva, l’estensione e implementazione delle reti sociali, la libertà ideativa e molte altri scopi e istanze. A fronte di queste immense ed inedite opportunità che la rete dischiude si profilano all’orizzonte nuovi rischi che creano emergenze significative in termini di risposta educativa e di monitoraggio delle modalità d’uso di internet da parte dei minori. La Livingstone (2009) distingue questi rischi in tre macrocategorie: quelli basati sui contenuti (problematici e spesso indesiderati dall’utente), quelli fondati sul contatto (che vedono il minore impegnato in una comunicazione personale o peer to peer) e quelli riferibili al comportamento (dove il giovane è impegnato nel ruolo di attore volto a produrre contenuti o contatti pericolosi). La condivisione di informazioni personali tra gli


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adolescenti può creare le precondizioni per molti dei rischi appena citati16. I rischi connessi ai contenuti, per lo più violenti e pornografici e quelli relativi ai contatti17 sono i più comuni. La percentuale di rischio online sale in modo direttamente proporzionale all’età del fruitore e le tipologie di rischio variano in relazione alla variabile gender18. In Italia, dove la percentuale d’uso della rete da parte dei ragazzi è decisamente inferiore alla media europea (meno del 65%), il tasso di rischio online è ovviamente più basso e oscilla (come altrove), in base alle competenze di navigazione e alla familiarità d’uso del mezzo, tra le due polarità idealtipiche del principiante a basso rischio19 e dell’imprudente esperto20. I computer e webcrimes (Saponaro, Prosperi 2007, p. 192) ripropongono in chiave tecnologica antichi reati come la pedopornografia, il bullismo ecc. che coinvolgono i minori, innescando processi di vittimizzazione mediale elettronica individuabili in due categorie concettuali: la vittima nel virtuale e la vittima del virtuale (p. 196). La prima categoria fa riferimento soprattutto alla pedopornografia online: L’accesso ampio e veloce, la pervasività del consumo, il continuo aggiornamento dei dati, la facilità nel reperire e scambiare materiale a basso costo e la sicurezza dell’anonimato hanno notevolmente amplificato questo scottante problema, normalizzando pratiche illegali (Calcetas Santos 2004) 21. La seconda categoria è ascrivibile invece all’ambito della patologica net addiction22, la dipendenza da internet che, secondo molti studiosi, miete vittime soprattutto tra i giovani culturalmente avvantaggiati e single e causa i classici sintomi da dipendenza: abuso in termini di tempi di connessione alla rete, alienazione dal mondo offline, perdita del sonno ecc. Naturalmente la net addiction non dipende solo dalle persone o dal medium ma da un’interazione complessa tra utenti, strumento e contesti di vita. I MUD23 o MMORPG24 ovvero i giochi di ruolo in rete25, l’online gambling (il gioco d’azzardo attraverso casinò telematici) e il cyber sex compulsivo26 rappresentano un esempio di tale preoccupante dipendenza27. L’accesso ai siti per adulti dove è possibile scaricare materiale pornografico, le chat erotiche e la cosiddetta prostituzione light tramite webcam (Tonioni 2011, p. 45) costituiscono un’altra grave emergenza della rete a cui guardare con attenzione. La pornografia ha registrato in internet un cambio di scala: l’enorme disponibilità di immagini ha normalizzato il nudo, spostando le frontiere dell’erotismo sulla fantasia e sull’offerta di nicchia, più situazionale, più collegata ad un senso di costruzione personale di significato (…). Se la pornografia specializza le sue caratteristiche di ‘contenuto’, il sesso, ovvero le relazioni tra persone e non la relazione tra persona e contenuto, è passato attraverso diverse forme collegate ai vari tipi di stimolazione anche sensoriale (dalla fantasia condivisa in chat testuale alla webcam, all’incontro tra avatar laddove prima c’era solo il telefono) (Granieri 2009, pp. 113-114).

I giovani utenti, per evitare l’intimità relazionale o seguire un impulso trasgressivo, possono decidere di entrare in ambienti virtuali che riducono al minimo l’esigenza di coinvolgimento emotivo e che consentono di esercitare un forte controllo sul partner digitale. Abbandonare un partner con un semplice click conferisce un grande senso di onnipotenza, “insieme alla vana illusione di non poter essere mai abbandonati poiché fondamentalmente non vi è relazione” (Tonioni 2011, p. 47).


Note 1

Direttore del dipartimento di Media e Comunicazione presso la London School of Economics. Come responsabile dell’Osservatorio Violenza Media Minori dell’Università di Salerno ho partecipato alla ricerca nel ruolo di stakeholder per l’Italia. Il report della ricerca è rinvenibile all’indirizzo: www.eukidsonline.net. 3 In America, come rivela un’indagine del 2007 realizzata da Pew Internet, più del 64 per cento degli adolescenti crea contenuti online oltre che fruirne. In Europa, invece, si registra un livello relativamente basso di creatività e partecipazione, probabilmente imputabile a una scarsa 2

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Luoghi di incontro telematici28 normalmente frequentati da minori iscritti al sito o qui dirottati da spam pubblicitario presente su siti per bambini e adolescenti possono diventare delle vere e proprie sex chat. Nonostante esistano programmi filtro che possono limitare l’accesso a determinati ambienti di rete, il minore può accedere a molti di questi mentendo sulla propria età29. Allo stesso modo, negli stessi siti, un adulto malintenzionato può adescare un bambino fingendo di essere un suo coetaneo. Il peering di immagini e video pornografici e la realizzazione di video amatoriali condivisibili in rete sembrano essere ormai pratiche diffuse di molti adolescenti per affermare la propria presenza e identità. I social network hanno normalizzato il consumo pornografico, soprattutto per la fascia d’età dai 19 ai 24 anni, in quanto siti come Facebook e Myspace costituiscono un depistaggio per eludere il controllo morale di genitori, docenti e datori di lavoro (Abruzzese 2008). L’opportunità immersiva ed interattiva degli ambienti di rete è una grande risorsa a livello apprenditivo ed esperienziale ma può diventare rischiosa per quei minori in formazione che tendono a sfumare il confine tra il sé incarnato e il sé desiderato (Turkle 1997), a vivere cioè in modo incerto e precario il proprio nucleo identitario offline, proiettandosi nell’identità idealizzata sperimentabile nei virtual playgrounds30. Lungi dal patologizzare il mutamento connesso al naturale sviluppo evolutivo e alle mutate abitudini mediali dei nostri giovani è necessario però affrontare i problemi connessi alla leggibilità, sicurezza e affidabilità dei contenuti e degli ambienti di rete. La partita si gioca tra istanze di media literacy e di empowerment dell’adulto e del minore, rimedi top down di lenta e localistica regolamentazione statale31, provvedimenti autoregolamentativi, monitoraggio parentale (filtri e software di controllo) e maggiore sicurezza nei processi di progettazione e safety by design32. Il ruolo più importante nel processo di tutela dei minori rimane comunque quello dei genitori che possono orientare una fruizione consapevole e attenta di internet; è proprio alle famiglie che il report EUKO offre un prontuario con regole elementari da rispettare33. La preveggenza di possibili rischi aiuta ad eludere lo spettro dell’emergenza che, nel caso dei media digitali, scatena troppo spesso un panico morale eccessivo e fuorviante, reazione tipica di una logica tabuizzante. Nell’ottica embedded, invece, secondo cui la rete è il mondo della virtualità reale (Castells 1996), del senso comune nell’accezione di una piena condivisione di idee e risorse, i nostri giovani, se opportunamente orientati, possono vivere la splendida opportunità di veder crescere in proporzione maggiore “la quantità di senso e di conoscenza del mondo esperita personalmente (…) rispetto a quella conosciuta socialmente” (Borrelli 2009, p. 188).


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competenza, connessa ad una più recente e quindi minore familiarità con le tecnologie di rete e alle limitate possibilità espressive offerte dai pochi siti frequentati. 4 L’età media del primo accesso alla rete in Italia è, infatti, di 10 anni e il 96 per cento dei giovani internauti tra i 9 e i 16 anni naviga almeno una volta a settimana. 5 I sistemi di selezione e controllo dell’informazione online o quelli di protezione dell’utente sono ancora poco conosciuti e praticati in modo discontinuo. 6 L’Unesco ha realizzato nel gennaio del 2007 un Media Education kit e sta sviluppando degli indicatori transnazionali per la valutazione dell’information literacy. 7 Il “‘mondo che siamo’ che (i) media partecipati e orizzontali ci consegnano è un mondo tendenzialmente popolato di prosumer culturali, piuttosto che di pochi produttori da una parte e molti consumatori dall’altra” (Borrelli, 2009, p. 5). 8 Con questo termine si intende significare la pedofilia e pedopornografia online. 9 In tali siti è rappresentato ogni tipo di tortura e atrocità. 10 I siti pro-ana incentivano, estetizzandola, l’anoressia (Piromallo Gambardella 2009). 11 Dall’economia di scambio, risultato di un adattamento alla scarsità di risorse, siamo passati ad un’economia del dono, conseguenza di un adattamento all’abbondanza (Granieri 2006, p. 68). 12 Pubbliche e private, sincrone, asincrone e semi-sincrone. 13 Il profilo su facebook corrisponde allo spazio di scena goffmaniano, la bacheca allo spazio di palcoscenico laterale, la messaggistica privata è assimilabile allo spazio di retroscena (Goffman 1959). L’autorappresentazione stilisticamente elaborata mira a creare una cifra identitaria di successo, apprezzata e riconosciuta dal gruppo dei pari. L’identità esibita è fortemente connessa all’esigenza di continua connessione. 14 Il monitoraggio delle proprie e altrui performance comunicative è fortemente praticato in ambienti di rete come facebook, twitter ecc. 15 Si origina una vera e propria testualizzazione e digitalizzazione identitaria, una oggettivazione ed estetizzazione del proprio profilo in rete. 16 Bisogna osservare però che solo il 39% del campione indagato dalla ricerca si è imbattuto in contenuti o in relazioni potenzialmente pericolosi. 17 I rischi da contatto vedono una consistente diffusione del cyberbullismo ed una, per fortuna, rara presenza di molestie sessuali. 18 È più probabile che i ragazzi cerchino contenuti violenti, offensivi o pornografici o che siano invitati a connettersi a siti porno, che incontrino offline qualcuno conosciuto solo online e che forniscano ad estranei i propri dati personali. È più facile, invece, che le ragazze restino involontariamente turbate da materiale offensivo, violento o pornografico, che chattino online con degli sconosciuti, che ricevano apprezzamenti sessuali indesiderati; esse sono più prudenti nel confidare i propri dati personali a chi non conoscono. Sia i ragazzi che le ragazze sono a rischio di molestie sessuali e di atti di bullismo online (Livingstone 2009). 19 Sono ascrivibili a questa categoria i giovanissimi, soprattutto femmine, appartenenti alla working class, i cui genitori hanno poca familiarità ad internet ma esercitano un costante controllo sui propri figli. 20 Si tratta per lo più di ragazzi di sesso maschile appartenenti alla middle class, estremamente abili in rete ed esposti ad un numero più elevato di rischi e opportunità. 21 I siti pedopornografici commerciali sono spesso indicizzati sui motori di ricerca oppure si nascondono dietro siti pornografici in apparenza legali e pubblicizzati attraverso spamming. Nei canali non commerciali, invece, il materiale prodotto e diffuso è quasi sempre amatoriale. Nei primi tre mesi del 2011 sono nati più di 18 mila nuovi siti pedofili (www.telefonoarcobaleno. org). Dal rapporto Euko emerge tuttavia che solo il 14% dei minori europei tra i 9 e i 16 anni dichiara di aver visto o ricevuto in Internet nell’ultimo anno immagini sessuali. I più esposti al rischio risultano essere i giovani dell’Europa del nord e dell’est. 22 In America questa patologia colpisce sin dal 1995 centinaia di persone mentre in Italia i primi casi sono piuttosto recenti. 23 Multi User Dungeons. 24 Massively Multiplayer On-line Role Playing Game. 25 In tali giochi mancano spesso “gli aspetti di espressione e condivisione dei contenuti emo-


Bibliografia Abruzzese, A., 2008, Ai confini del post-umano. Il caso youporn. Quando il 2.0 si fa ‘piccante’, «7thfloor», 21 novembre. Abruzzese, A., 2009, “Un attimo prima di rientrare nella placenta del mondo”, in Burgess, J., Green, J., Youtube, Cultura e Società, Milano, Egea. Benkler, Y., Nissenbaum, H. 2006, Common-Based Peer Production and Virtue, «The Journal of Political Philosophy», 14 (4). Berardi, F., 2001, La fabbrica dell’infelicità. New economy e movimento del cognitariato, Roma, Derive&Approdi. Bolter, J.D., Grusin, R., 1999, Remediation. Understanding New Media, Cambridge, MIT Press; tr. it. 2000, Remediation. Competizione e integrazione tra media vecchi e nuovi, Milano, Guerini e Associati. Borrelli, D., 2009, Il mondo che siamo. Per una sociologia dei media e dei linguaggi digitali, Napoli, Liguori. Calcetas Santos, O., 2004, “La pornografia infantile su Internet”, in V. Mastronardi, a cura, L’abuso dei bambini su Internet. Fine del silenzio, Roma, Armando Editore. Carr, N., 2006, “Sharecropping the Long Tail”, pubblicato sul blog: Rough Type, 19 dicembre (Cfr. http://www.roughtype.com/archives/2006/12/sharecropping_t.php)

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tivi, la creatività intesa come creazione di scenari (…) usando solo la fantasia, l’opportunità di fare esperienze reali e mettere alla prova le proprie risorse, abilità, idee” (Tonioni 2011, p. 4). 26 Il disturbo è particolarmente indagato dal prof. Alvin Cooper del Marital Services and Sexuality Centre di San Josè. 27 Per quanto concerne i MMORPG, la strutturazione di gioco innesca un meccanismo basato sull’autoefficacia o meccanismo di rinforzo positivo: “con la missione superata si acquistano punti, oggetti e nuove abilità del personaggio, potere e prestigio tra i giocatori (…) tutti rinforzi positivi che potrebbero motivare il giocatore ad andare avanti nel gioco con più frequenti e prolungati collegamenti al fine di sentirsi sempre più competente ed efficace” (Tonioni 2011, p. 10). Il gioco condiviso, inoltre, alimenta il senso di appartenenza e vicinanza, il bisogno di sentirsi accettati dai pari che tanto interessa gli adolescenti. Nei mondi virtuali, l’idealizzazione stereotipata degli avatar grafici, l’identificazione in modelli simulati predisposti dal software, il moral desengagement (di cui parla Dario Varin a proposito degli effetti della televisione violenta sugli adolescenti) sembrano riproporsi come rischi amplificati. 28 Un esempio è Smeet: http://it.smeet.com/ 29 Per molti ragazzi l’incontro con la pornografia avviene in modo involontario attraverso pop-up, e mail o junk mail. 30 Bisogna notare però che l’esigenza di simulare la propria identità, tipica del postmodernismo radicale, è oggi sempre più sostituita da quella di integrare spazi di vita online e offline e di costruire un’epistemologia interpersonale, una riconoscibilità sociale in rete, come postula l’etnografia connettiva di C. Hine (Salzano 2008). 31 Fondamentali in Italia sono le leggi 269/1998 e 38/2006. In particolare, la legge 38, introducendo la categoria di pornografia virtuale, regola le disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo internet. 32 Si realizza attraverso molteplici iniziative: criteri preferenziali per filtrare le informazioni, sistemi di verifica dell’età, rating, etichettamento dei contenuti, modalità opt-in/opt-out (che regolano l’accesso a o il rifiuto di comunicazioni commerciali), iniziative di tutela dei dati personali dei minori, servizi di moderazione, schermate d’allarme sui siti porno, comandi per denunciare abusi nelle chat ecc. 33 esortare i propri figli ad evitare pratiche comunicative rischiose e a non accettare incontri con individui conosciuti online, controllare periodicamente la cronologia del computer e il contenuto dell’hard disk nonché mail e allegati sospetti, usare buoni antivirus e filtri di controllo parentale, collocare il pc in una stanza centrale della casa piuttosto che nella camera dei bambini rappresentano importanti pratiche di monitoring e orientamento all’uso di internet.


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Castells, M., 1996, The Rise of the Network Society, Blackwell, Oxford; tr. it. 2002, La nascita della società in rete, Milano, Università Bocconi Editore. Goffman, E., 1959, The Presentation of Self in Everyday Life, Doubleday Anchor Books, New York ; tr. it. 1969, La vita quotidiana come rappresentazione, Bologna, Il Mulino. Granieri, G., 2006, La società digitale, Roma-Bari, Laterza. Granieri, G., 2009, Umanità accresciuta. Come la tecnologia ci sta cambiando, Roma-Bari, Laterza. Jenkins, H., 2006, Fans, Bloggers and Gamers. Exploring Partecipatory Culture, New York University Press, New York; tr. it. 2008, Fan, blogger e videogamers. L’emergere delle culture participative nell’era digitale, Milano, Franco Angeli. Kelly, K., 2005, We are the web, «Wired Magazine», 13 agosto. Livingstone, S., 2009, Children and the Internet., Polity Press, Cambridge; tr. it. 2010, Ragazzi on line. Crescere con internet nella società digitale, Milano, Vita e Pensiero. Livingstone, S., Haddon, L., Görzig, A., Ólafsson, K. 2011, Risks and safety on the internet: The perspective of European children, Full findings, London, LSE. Piromallo Gambardella, A., 2009, “La presenza dell’anoressia mentale nella cultura mediatica. Dalle ingiunzioni della pubblicità alle provocazioni del web”, atti del convegno Il Cibo La Mente, Bracigliano (Sa), Arti Grafiche Cecom. Prensky, M., 2001, Digital Natives, Digital Immigrants, «on the Horizon», vol. 9, n. 5 Salzano, D., 2008, Etnografie della rete. Pratiche comunicative tra online e offline, Milano, Franco Angeli. Saponaro, A., Prosperi, G., 2007, “Computer Crime, Virtualità e Cybervittimologia”, in A. Pitasi, a cura, Webcrimes. Normalità, devianze e reati nel cyberspace, Milano, Guerini e Associati. Shirky, C., 2010, Cognitive surplus. Creativity and Generosity in a Connect Age, London-New York, The Penguin Press; tr. it. 2010, Surplus cognitivo. Creatività e generosità nell’era digitale, Torino, Codice Edizioni. Tapscott, D.,Williams, A., 2006, Wikinomics: How Mass Collaboration Changes Everythings, New York, Penguin Group; tr. it. 2007, La collaborazione di massa che sta cambiando il mondo, Bellaria (Rimini), Etas. Tonioni, F., 2011, Quando Internet diventa una droga. Ciò che i genitori devono sapere, Torino, Einaudi. Turkle, S., 1995, Life on the Screen: Identity in the Age of the Internet, New York, Simon & Schuster; tr. it. 1997, La vita sullo Schermo. Nuove identità e relazioni sociali nell’epoca di internet, Milano, Apogeo.


Antonio Iannotta La sveglia di Marshall McLuhan Guardiamo il presente in uno specchietto retrovisore. Arretriamo nel futuro Marshall McLuhan Sono un emisfero destro che parla a emisferi sinistri Marshall McLuhan

All’inizio dell’introduzione al suo primo libro, The Mechanical Bride, Marshall McLuhan evoca un racconto di E.A. Poe del 1841, A Descent into the Maelström. Seduto in cima a una montagna norvegese, quello che sembra un vecchio lupo di mare racconta a un ragazzo un’avventura di qualche anno prima. In realtà anche il marinaio è giovane, ma è invecchiato prematuramente per lo shock dell’avventura che sta raccontando, causata da una tempesta che aprì un vortice nell’oceano nel quale venne risucchiato insieme ai fratelli. Proprio i due fratelli, in preda al panico, si aggrapparono ai rottami più grandi e apparentemente più sicuri dell’imbarcazione ma precipitarono per sempre nel Maelström. Il giovane marinaio si rese conto, invece, che più pesanti erano i rottami più velocemente questi precipitavano nell’inferno del gorgo. E decise di aggrapparsi a un oggetto leggero, un barile. Riuscì in questo modo a salvarsi. Per analizzare i media elettrici, suggerisce da subito l’opera di McLuhan, va trovata una soluzione à la Poe: anziché spaventarsi e affidarsi a soluzioni già sperimentate, bisogna ricercare nuovi punti di osservazione. Il marinaio di A Descent into the Maelström, per dirla con McLuhan, riesce a porsi in salvo perché guarda la dinamica del vortice, senza farsi sopraffare dall’orrore, non solo studiando l’azione del gorgo ma “cooperando con essa” (McLuhan 1951, p. 11). L’intento di The Mechanical Bride era esplicito: porre il lettore al centro del Maelström del nuovo ambiente mediale in modo da fargli osservare da un’altra prospettiva i mezzi nel loro vorticoso processo di rotazione al fine di fargli trovare una strategia individuale di sopravvivenza. McLuhan non mancava poi di sottolineare come il marinaio di Poe individuasse la strategia di sopravvivenza attraverso il divertimento1 che, nonostante la situazione drammatica, egli provava nell’osservazione (razionale) del fenomeno. A partire dal suo modo di scrivere, definito da lui stesso “a mosaico o di campo” (McLuhan 1962, p. 21), un metodo di composizione giustappositivo


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che mette in risonanza con un uso virtuosistico della lingua, quasi mai reso nelle traduzioni a nostra disposizione, le sperimentazioni vortico-futuriste di epoca prebellica di Marinetti con lo stile di Wyndham Lewis, dadaista prima e surrealista poi, McLuhan non osserva mai i fatti culturali diventandone vittima, ma lo fa seguendo modalità diverse che gli derivano proprio da questo approccio. Giustapponendo la prima pagina del New York Times agli annunci pubblicitari, Li’l Abner di Al Capp2 ai comics di George McManus, i pun di Joyce alle prime analisi di mercato targate Nielsen, attraverso una vera e propria configurazione ipertestuale ante litteram. L’intento oggi dovrebbe essere evidente: mutare lo stesso osservatore, o invitarlo a darsi una mossa, per farsi egli stesso punto di fuga dell’osservazione. Alla dissociazione della sensibilità dell’uomo di Gutenberg, McLuhan contrappone la multisensorialità3 dell’uomo elettrico, discendente diretto dell’uomo tribale. Maurice Merleau-Ponty lo aveva detto molto chiaramente già nel 1945: “i sensi comunicano tra di essi aprendosi alla struttura della cosa”, per cui “la percezione sinestetica è”, o dovrebbe essere, “la regola” (Merleau-Ponty 1945, p. 308). Quando nel 1936 viene assunto per un anno dal Dipartimento di Inglese dell’Università del Wisconsin negli Stati Uniti, rendendosi conto del divario culturale enorme che lo separava dalle nuove generazioni di allievi sempre più attratti dai nuovi mezzi e dalle nuove forme di comunicazione e divertimento, McLuhan comincia ad accogliere nei suoi corsi, accanto agli amati Joyce e Mallarmè, il fumetto, la pubblicità, la stampa periodica, le trasmissioni radio-televisive e i linguaggi delle comunicazioni di massa: “Esisteva una barriera linguistica. O gli studenti imparavano la mia lingua o io imparavo la loro. Decisi che sarebbe stato meglio se fossi stato io a usare il loro idioma – ma non necessariamente perseguendo il loro stesso fine”4. McLuhan cortocircuita in maniera definitiva e programmatica la cosiddetta cultura alta con la cultura pop già alla metà degli anni Trenta. The Mechanical Bride, poi, è del 1951 e si pone consapevolmente come una vera novità nell’approccio metodologico allo studio dei processi culturali5. Mythologies di Roland Barthes apparirà solo sei anni dopo, per tacere dei ritardi dei nostri studiosi di punta: Umberto Eco, per fare un solo esempio, recepì in malo modo The Mechanical Bride, che venne tradotto in italiano solo nel 19846. Ancora oggi l’Italia è un paese che non insegna nelle scuole cosiddette superiori i linguaggi audiovisivi, e nemmeno la storia del cinema (o del fumetto o della radio o addirittura della televisione). Figuriamoci i linguaggi e i dispositivi della rete. Immergersi nuovamente, o per la prima volta, nell’opera di McLuhan risulta fondamentale per (ri)scoprire come lo studioso canadese abbia per tempo (nel 2011 non si festeggiano solo i cent’anni della sua nascita, ma anche i sessanta di The Mechanical Bride, e nel 2012 i cinquanta di The Gutenberg Galaxy, il suo testo maggiormente rivoluzionario e di rottura) dismesso gli occhiali della tradizione per inforcare delle ben più politicamente sconvolgenti lenti a contatto con cui percepire il tempo presente. Il pensiero dello studioso canadese è stato messo per decenni all’angolo, liquidato frettolosamente o non capito per nulla, come dimostra il ritardo editoriale di The Mechanical Bride. E si pensi allo spazio che McLuhan ha avuto in testi considerati basilari che hanno contribuito, nel bene e nel male, a formare generazioni di sociologi dei


Invece di tendere a diventare una gigantesca biblioteca di Alessandria, il mondo è diventato un computer, un cervello elettronico molto simile a quello di un racconto di fantascienza per bambini. E mentre i sensi vanno fuori da noi, il Grande Fratello [aggiustiamo il tiro della traduzione italiana, che trasforma Big Brother in Fratello Maggiore; n.d.r.] entra in noi. Così, se non riusciamo a renderci conto di questa dinamica, ci ritroveremo improvvisamente in una fase di terrori panici, assolutamente appropriata ad un piccolo mondo di tamburi tribali, di totale interdipendenza e di coesistenza imposta dall’alto (McLuhan 1962, p. 60).

“La nuova interdipendenza elettronica ricrea il mondo ad immagine di un villaggio planetario” (McLuhan 1962, p. 59): non male prevedere con tre decenni di anticipo Internet. Il ritorno di un’oralità tribale (il villaggio) nella nostra cultura (planetaria), in cui i media elettrici ed elettronici hanno modificato e continuano a modificare l’ambiente culturale e il nostro sensorio7, pone l’accento sul recupero della voce, medium a forte base performativa, e quindi dell’ascolto8. L’oralità secondaria (Ong 1982) sortita dall’impatto dei media elettrici è la chiave per comprendere appieno le dinamiche culturali e mediali della seconda metà del Novecento: prima fra tutte, per McLuhan, la questione del rapporto tra spazio visivo e spazio acustico. Le tecnologie e i media, ci dice ancora McLuhan, vanno intesi come estensioni capaci di riconfigurare il sensorio umano (McLuhan 1964). Di conseguenza, ogni re-mapping sensoriale (de Kerckhove 1991 e 1994) seleziona una gerarchia sensoriale, un modo di utilizzare le percezioni e di creare un proprio modello di lettura del mondo. La crisi in cui noi tutti incorriamo, e che ha sconvolto in maniera così evidente l’uomo che cercava di riemergere dalla guerra9 e dal nuovo sistema mediale è dunque innanzitutto una crisi percettiva dovuta al sovraccarico della mente bicamerale (Mcluhan, McLuhan 1988). Ogni percipiente così sovraccaricato si dibatte con due tipi di informazione non genetica (Frasca 2005), due tipi di sistemi culturali complementari che si autoescluderebbero se non si ricombinassero incessantemente in cerca di nuove definizioni. Da un lato un’informazione non genetica da spazio visivo che corri-

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media, in Italia e non solo (Miconi 2011). I manuali di Mauro Wolf, i libri di Gianni Statera (Società e comunicazioni di massa) e Roberto Grandi (I mass media tra testo e contesto), relegano McLuhan a ruoli a dir poco marginali, così come hanno fatto testi per altri versi fondamentali come il manuale di Melvin De Fleur e Sandra Ball-Rokeach sulle teorie delle comunicazioni di massa, o i testi di Dennis McQuail o di John Thompson. Con alcune straordinarie eccezioni, ovviamente, a partire da No Sense of Place di Joshua Meyrowitz. Le cose per fortuna sono cambiate, grazie soprattutto a una generazione di studiosi che negli ultimi anni si è produttivamente ri-confrontata con il pensiero mcluhaniano quando questo finalmente si è reso smaccatamente comprensibile con l’esplosione delle tecnologie a noi più strettamente contemporanee, in particolare con il meta-medium della rete. Jay David Bolter & Richard Grusin e Manuel Castells, solo per nominare i ricercatori forse di maggior successo nel campo dei media studies e delle dinamiche di Internet, hanno in McLuhan il loro mentore. Prendiamo questo passo di The Gutenberg Galaxy:


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sponde a un tipo di cultura lineare prospettica e logico sequenziale, dall’altro una da spazio acustico equivalente a una cultura risonante simultanea e proteiforme; l’una all’estremo implica l’ipertrofia dell’emisfero sinistro, l’altra punta sull’emisfero destro che i media elettrici contribuiscono a ri-funzionalizzare, modificando i rapporti tra vista, udito e tatto10, con le conseguenti modificazioni del nostro corpo11. Il tentativo di bilanciare questi due modelli culturali di percezione dello spazio è ancora oggi (figuriamoci ai tempi di McLuhan) in buona sostanza disatteso12. Siamo ancora, percettivamente parlando, in una “situazione di completo caos” (McLuhan, McLuhan 1988, p. 115). In un discorso radiofonico tenuto a Monaco il 14 marzo 1936, McLuhan ricorda che Adolf Hitler disse: “Proseguo per la mia strada con la sicurezza di un sonnambulo” (McLuhan 1964, p. 316). Lo spazio auditivo sonnambolico nel quale sono cresciute le generazioni tra le due guerre, era dominato da una comunicazione a flusso che scioglieva le distanze in un unico ambiente di interconnessi, anticipando di fatto l’implosione elettronica. Il “sortilegio orale”13 dei discorsi radiofonici hitleriani viene evocato anche in un ricordo personale da Eric Havelock, al quale si deve probabilmente il primo serio recupero dell’opera mcluhaniana all’interno di un contesto di ampio respiro culturale dopo la moda e il successo degli anni Sessanta e il tramonto dei decenni successivi (Coupland 2009)14, un ricordo di un giorno di ottobre del 1939 a Toronto, in un punto di ascolto radiofonico collettivo: Hitler ci esortava a cessare le ostilità e a lasciarlo in possesso di quanto aveva conquistato. Le frasi stridule, veementi, staccate, risuonavano e riverberavano e si inseguivano, in serie successive, inondandoci, tempestandoci, quasi annegandoci, eppure ci tenevano inchiodati là, ad ascoltare una lingua straniera, che nondimeno potevamo in qualche modo immaginare di comprendere. Questo sortilegio orale era stato trasmesso in un batter di ciglia, a distanza di migliaia di chilometri, era stato automaticamente raccolto e amplificato e riversato su di noi (Havelock 1986, p. 41).

Hitler si pose in qualche modo sulla stessa strada battuta da Welles con la messa in onda radiofonica di circa un anno prima di The War of The Worlds: una strada “onnicomprensiva totalmente coinvolgente dell’immagine auditiva della radio” (McLuhan 1964, p. 318). Una voce eterea che chiama alla mobilitazione e all’obbedienza, schiacciando su di sé il rapporto con il mondo da parte di chi ascolta. Una voce che per quanto non perfettamente intesa è in grado di parlare al nostro corpo, facendolo vibrare dal suo interno: da qui, secondo Havelock, si può far risalire la scoperta moderna dell’oralità15. Da quel momento si metteva in azione un lavorio sempre più pervasivo, volto alla costruzione di un nuovo modello di relazione tra i sensi, così come era avvenuto in passato e così come non mancherà di avvenire in futuro: Coloro che per primi sperimentarono l’affermarsi di una nuova tecnologia, sia essa l’alfabeto o la radio, rispondono calorosamente poiché i nuovi rapporti tra i sensi che all’improvviso s’instaurano per la dilatazione tecnologica dell’occhio o dell’orecchio pongono davanti a loro un mondo nuovo e sorprendente (McLuhan 1962, p. 48).

Il nostro sensorio viene sia narcotizzato che stimolato dai media e dalle tecnologie. È questa la grande intuizione dello studioso canadese. Il senso del mito di


L’ibrido, ossia l’incontro tra due media, è un momento di verità e di rivelazione, dal quale nasce una nuova forma. Ogni volta che si stabilisce un immediato confronto tra due strumenti della comunicazione [strumenti va inteso come media, come recita l’edizione inglese: a quando una nuova traduzione di Understanding Media? n.d.r], anche noi siamo costretti, per così dire, a un urto diretto con le nuove frontiere che vengono a stabilirsi tra le forme; e ciò significa che siamo trascinati fuori dal sonno ipnotico in cui ci aveva trascinati la narcosi narcisistica. Il momento dell’incontro tra i media è un momento di libertà e di scioglimento dallo stato di trance e di torpore da essi imposto ai nostri sensi (McLuhan 1964, pp. 65-66).

La sveglia è già suonata da tempo. È ora di ascoltarla, e magari di alzarsi. Note 1 Questo lo straordinario passo di Poe: “I now began to watch, with a strange interest, the numerous things that floated in our company. I must have been delirious – for I even sought amusement in speculating upon the relative velocities of their several descents toward the foam below”. Si potrebbe scrivere una teoria del divertimento incrociando l’opera di McLuhan con quella di Walter Benjamin: ai due non dispiacerebbe essere posti sotto l’egida di Poe. 2 Non possiamo non citare una delle battute più fulminanti – e forse incomprese – dell’intero opus mcluhaniano: “Vi piace Capp? Allora vi piacerà Finnegans Wake” (McLuhan 1951, p. 128). È insomma sulle tecniche e le forme dei media che è necessario ragionare prima che sul contenuto: da qui deriverà poi il sintagma “il medium è il messaggio”. 3 Dopo i tre testi fondamentali scritti in poco più di un decennio (McLuhan 1951, 1962, 1964), nel 1968 McLuhan, insieme a Harley Parker, chiarirà ulteriormente il concetto in Through the Vanishing Point. Space in Poetry and Painting. Il testo mette in valore una serie di intuizioni di Ernst Gombrich e ripercorre la storia culturale dell’uomo attraverso una lettura

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Narciso sta nel fatto, spiega McLuhan, che “gli esseri umani sono soggetti all’immediato fascino di ogni estensione di sé” (McLuhan 1964, p. 51). Se con “l’avvento della tecnologia elettrica” l’uomo ha esteso “un modello vivente di sistema nervoso centrale” (McLuhan 1964, p. 53), ogni nuovo ibrido mediale (un medium è sempre almeno due media, diceva spesso McLuhan), diffondendosi pervasivamente nel sociale, tende a ri-creare quel rapimento sonnambolico (eccola di nuovo la sicurezza da sonnambulo di Hitler) che McLuhan spiegava con la figura di Narciso come narcosi. Ecco che allora i rimproveri, spesso moralistici, mossi ai media, nella storia della cultura, finiscono col toccare tutti e sempre gli stessi tasti. John Durham Peters ha ricostruito da poco, in modo magistrale, la storia dell’attacco all’alfabeto mossa da Platone per bocca di Socrate del Fedro (Peters 1999), in quanto tecnologia che strega e istupidisce e si deve incrociare con questa il celebre atto d’accusa che si trova nel X libro della Repubblica a danno questa volta della poesia, ovvero, spiega Havelock, alla metodologia complessiva dell’insegnamento della cultura orale. Platone, insomma, vivendo in prima persona il passaggio dalla cultura orale alla civiltà della scrittura, e cioè da un sistema mediale a un altro, col suo specifico re-mapping sensoriale, tentava in tutti i modi di risvegliare la cultura della sua epoca. Per dirla con McLuhan, che secoli dopo avrebbe messo in valore il conflitto tipico di un altro passaggio mediale di portata epocale, dall’uomo di Gutenberg a quello elettrico, Platone stava vivendo sulla sua pelle e sulla costruzione del suo pensiero filosofico un altro conflitto:


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che incrocia la tecnologia della poesia con quella della pittura, per dimostrare come gli uomini si rivolgano anche inconsapevolmente alle arti nella speranza di aumentare la propria consapevolezza culturale. È lo spettatore il “punto di fuga” che completa l’esperienza pittorica artistica. 4 R. Schickel, Marshall McLuhan: Canada’s Intellectual Comet, «Harper’s Magazine», novembre 1965, cit. in Lamberti 2000, p. 21. Coupland non manca di chiosare: “Marshall aveva solo qualche anno più dei suoi studenti, ma era praticamente come se loro fossero scesi da Alfa Centauri. Parlavano in slang, conoscevano pochissimo la storia e quasi nulla della cultura del passato. Agli occhi di Marshall quei ragazzi vivevano in un eterno presente senza vederci niente di male” (Coupland 2009, p. 62). 5 Alla madre, figura centrale della sua formazione culturale, McLuhan definisce The Mechanical Bride come “una nuova forma di narrativa fantascientifica, con annunci pubblicitari e fumetti nelle vesti di personaggi. Invero, poiché il mio obiettivo è mostrare la comunità in azione piuttosto che dimostrare qualcosa, potrebbe essere considerata come una nuova forma di romanzo” (M. Molinaro, C. McLuhan, W. Toye (a cura di), Letters of Marshall McLuhan, Toronto, Oxford-New York, Oxford University Press, 1987, p. 217, cit. in Lamberti 2000, pp. 22-23). 6 Roberto Faenza, nell’introduzione all’edizione italiana, offre un’interessante spiegazione dei motivi del ritardo: “Non potendo ignorare che anche le omissioni editoriali hanno un significato, il ritardo con cui arriva questa traduzione non può non alimentare qualche sospetto. Primo tra tutti, quello che il vuoto attorno alla conoscenza del contraddittorio ma geniale pensatore canadese possa aver contribuito ad agevolare posizioni culturali presentate come originali e che risultano invece sostanzialmente mutuate”. Chi ha orecchie per intendere, allora, intenda, e tragga le conseguenze del caso. 7 Nel successivo Understanding Media, McLuhan è di una chiarezza abbacinante: “Dopo essere esploso per tremila anni con mezzi tecnologici frammentari e puramente meccanici, il mondo occidentale è ormai entrato in una fase di implosione. Nelle ere della meccanica, avevamo operato un’estensione del nostro corpo in senso spaziale. Oggi, dopo oltre un secolo d’impiego tecnologico dell’elettricità, abbiamo esteso il nostro sistema nervoso centrale in un abbraccio globale che, almeno per quanto concerne il nostro pianeta, abolisce tanto il tempo quanto lo spazio. Ci stiamo rapidamente avvicinando alla fase finale dell’estensione dell’uomo: quella, cioè, in cui, attraverso la simulazione tecnologica, il processo creativo di conoscenza verrà collettivamente esteso all’intera società umana, proprio come, tramite i vari media abbiamo esteso i nostri sensi e i nostri nervi. (...) Non v’è estensione, infatti, (...) che non investa per intero la sfera psichica e quella sociale. (...) Ora che – dopo l’avvento dell’energia elettrica – il nostro sistema nervoso centrale viene tecnologicamente esteso sino a coinvolgerci in tutta l’umanità e a incorporare tutta l’umanità in noi, siamo necessariamente implicati in profondità nelle conseguenze di ogni nostra azione” (McLuhan 1964, pp. 9-10). 8 “È qui in questione il rapporto tra realtà e coscienza. L’impiego dei media lo ha modificato, oppure è stato un cambiamento di questo rapporto che ha reso possibile i media? All’interno di limiti tecnicamente (almeno sembra) invalicabili, le modalità di ricezione possono differire molto a seconda della natura dell’ambiente culturale. L’ascoltatore che i media raggiungono è un essere individuale e storico: quali che siano le tecniche di lavaggio del cervello impiegate, è attraverso la sua storia che lui percepisce, sulla sua base che reagisce” (Zumthor 1983, p. 301). 9 Non a caso le nevrosi di tanti reduci della Grande guerra diedero la stura a Freud per una serie di studi seminali. Poi, per gli effetti della Seconda guerra mondiale, si veda Frasca 1996. 10 Stephen Kern chiarisce come e perché questo passaggio sostanziale sia avvenuto nel nostro sistema culturale, allorché all’inizio del secolo scorso si è compiuto il superamento degli spazi euclidei, presupposto obbligato per i discorsi che qui si stanno sintetizzando: “Intorno al 1830, il matematico russo Nikolay Lobačevskij annunziò una geometria bi-dimensionale, in cui attraverso qualsiasi punto parallelo ad un’altra linea dello stesso piano poteva essere tracciato un numero infinito di linee; nella sua geometria la somma degli angoli di un triangolo è minore di 180 gradi. Nel 1854, il matematico tedesco Bernhard Riemann inventò un’altra geometria bidimensionale, in cui tutti i triangoli avevano somme di angoli maggiori di 180 gradi (...). Se gli spazi della geometria non euclidea non erano abbastanza sconcertanti, c’erano altri nuovi spazi, che non potevano essere registrati da nessuna geometria. Nel 1901, Henry Poincaré identificò spazi visivi, tattili e motorî, ciascuno definito da parti differenti dell’apparato sensorio; mentre lo spazio geometrico è tri-dimensionale, omogeneo ed infinito, lo spazio visivo è bi-dimensio-


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nale, eterogeneo e limitato al campo visivo. Nello spazio geometrico, gli oggetti possono essere mossi senza deformazione, ma nello spazio visivo gli oggetti sembrano espandersi e contrarsi di dimensione se si muovono a distanze differenti dell’osservatore. Lo spazio motorio varia a seconda di quale muscolo lo registri, e, per questa ragione ‘ha tante dimensioni quanti sono i muscoli che possediamo’. Mach definì in modo simile gli spazi visivi, uditivi e tattili, che mutavano secondo la sensibilità e i tempi di reazione di parti differenti del sistema sensorio” (Kern 1983, pp. 168-169). 11 “Sul piano fisiologico, l’uomo è perpetuamente modificato dall’uso normale della tecnologia (o del proprio corpo variamente esteso) e trova a sua volta modi sempre nuovi per modificarla” (McLuhan 1964, p. 56). Il corpo, dunque, anche se “molto più lentamente di quanto non vorrebbero i cantori del postumano, [...] si modifica e, soprattutto, si percepisce modificato” (Frasca 2005, p. 19). 12 “Siccome l’uomo elettrico vive in un mondo di informazione simultanea, si trova sempre più escluso dal suo mondo tradizionale (visivo), in cui lo spazio e la ragione appaiono uniformi, connessi e stabili. Anziché con esso, l’uomo occidentale (legato alla visualità e all’emisfero sinistro) si trova in relazione costante con strutture di informazione simultanee, discontinue e dinamiche. L’atto uditivo, in quanto tale, si ha da ogni direzione contemporaneamente, in una sfera di 360 gradi. L’apprendimento avviene oggi, elettricamente, da tutte le direzioni contemporaneamente, in una sfera di 360 gradi, così che lo stesso apprendimento è stato riplasmato o recuperato, per così dire, in forma acustica. (...) Buona parte della confusione della nostra epoca deriva in maniera naturale dalla contraddizione tra l’esperienza dell’uomo occidentale alfabetizzato, da una parte, e il suo nuovo contesto di apprendimento simultaneo o acustico, dall’altra. L’uomo occidentale è scisso tra l’adesione a una cultura, o struttura, visiva e una uditiva” (McLuhan, McLuhan 1988, pp. 140-141). 13 Su quanto questo “sortilegio orale” sostanzi l’“emozione culturale” del ritorno dell’oralità nel nostro contemporaneo, con il conseguente “traumatico processo di accelerazione” dovuto alla “diffusione mondiale dei media elettrici”, si veda Frasca 2005, pp. 20-34 (si cita da p. 30). 14 Per anni McLuhan ha tenuto seminari per i dirigenti delle maggiori società americane e anche quando la sua fortuna andò scemando, anche a causa di una serie di ictus che lo debilitarono, e soprattutto in conseguenza all’asportazione di un tumore al cervello nel 1967, il nome di McLuhan era entrato così tanto nell’immaginario collettivo anglo-americano che nel 1977, come è noto, Woody Allen lo chiamò direttamente in causa in una scena memorabile nel suo Annie Hall (Io e Annie). Fu grazie a quel successo che gli venne concesso di fondare nel 1963 il celeberrimo Centro per la Cultura e la Tecnologia. 15 In meno di dodici mesi, tra il 1962 e il 1963, avrebbe notato Havelock anni dopo (Havelock 1986, pp. 31-38), venivano dati alle stampe cinque testi che sembrano collegati proprio a quel discorso di Hitler alla radio udito dallo studioso inglese nel 1939: Il pensiero selvaggio di Claude Lévi-Strauss, La galassia Gutenberg di McLuhan, il lungo articolo Le conseguenze dell’alfabetizzazione di Jack Goody e Ian Watt, L’evoluzione delle specie animali di Ernst Mayr e Cultura orale e civiltà della scrittura dello stesso Havelock.


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Kerckhove, D. de, 1991, Brainframes. Technology, Mind and Business, Utrecht, Bosch & Keuning; tr. it 1993, Brainframes. Mente, tecnologia, mercato, Bologna, Baskerville. Kern, S., 1983, The Culture of Time and Space 1880-1918, Cambridge (Mass.), Harvard University Press; tr. it. 1995, Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, Bologna, il Mulino. Lamberti, E., 2000, Marshall McLuhan. Tra letteratura, arte e media, Milano, Mondadori. McLuhan, M., 1951, The Mechanical Bride. Folklore of Industrial Man, New York, The Vanguard Press; tr. it. 1984, La sposa meccanica. Il folclore dell’uomo industriale, Milano, SugarCo. McLuhan, M., 1962, The Gutenberg Galaxy. The Making of Typographic Man, Toronto, University of Toronto Press; tr. it. 1976, La galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, Roma, Armando. McLuhan, M., 1964, Understanding Media. The Extentions of Man, New York, McGraw-Hill; tr. it. 2002, Gli strumenti del comunicare, Milano, Net. McLuhan, M., McLuhan, E., 1988, Laws of Media. The New Science, Toronto, University of Toronto Pres; tr. it. 1994, La legge dei media. La nuova scienza, Roma, Edizioni Lavoro. McLuhan, M., Parker, H., 1968, Through the Vanishing Point. Space in Poetry and Painting, New York, Harper Colophon Books; tr. it. 1988, Il punto di fuga. Lo spazio in poesia e pittura, Milano, SugarCo. Merleau-Ponty, M., 1945, Phénoménologie de la perception, Paris, Gallimard; tr. it. 1965, Fenomenologia della percezione, Milano, il Saggiatore. Meyrowitz, J., 1985, No Sense of Place. The Impact of Electronic Media in Social Behaviour, New York, Oxford University Press; tr. it. 1993, Oltre il senso del luogo. L’impatto dei media elettronici sul comportamento pubblico, Bologna, Baskerville. Miconi, A., 2011, McLuhan, un autore ancora attuale, in «Technology Review» 2, marzo-aprile 2011, indirizzo web: http://www.technologyreview.it/index.php?p=article&a=1941. Ong, W. J., 1982, Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, London-New York, Methuen; tr. it. 1986, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, il Mulino. Peters, J. D., 1999, Speaking Into the Air. A History of the Idea of Communication, Chicago, The University of Chicago Press; tr. it. 2005, Parlare al vento. Storia dell’idea di comunicazione, Roma, Meltemi. Zumthor, P. 1983, Introduction à la poésie orale, Paris, Seuil; tr. it. 1984, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino, Bologna.


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Come coniugare la salvaguardia dell’ambiente con le nuove tecnologie producendo un habitat contemporaneo, quindi né nostalgico né punitivo? Ecco una domanda alla quale oggi i progettisti di tutto il mondo stanno cercando di dare una risposta. Che si preannuncia complessa perché mentre è abbastanza semplice proporre di ritornare alla vita di un tempo, ridimensionando quei dispositivi meccanici ed elettrici che a partire dai primi del Novecento (i primi brevetti dell’aria condizionata risalgono al 1906 e l’aspirapolvere al 1902) l’hanno resa più confortevole, è molto più difficile prefigurare un modello di sviluppo sostenibile in cui le abitazioni godano i benefici che questa società delle telecomunicazioni, dell’informatica, del digitale promette senza subirne, o subendone al minimo, gli inevitabili portati negativi. Come accade a tutte le parole magiche, succede che il termine ecologia ognuno lo usi a modo suo: tanto è vero che in Italia oggi esistono contrapposte famiglie di architetti ecologically correct. A differenziarli è il rapporto che hanno con la tecnologia e con la ricerca formale. Vi sono innanzitutto gli ambientalisti che vedono in qualsiasi costruzione una minaccia. Secondo loro bisogna solo recuperare e riadattare l’esistente. Sono in prima fila contro la cementificazione anche quando, come è accaduto con il boicottaggio dell’auditorium di Niemeyer a Ravello, di natura incontaminata esisteva poco e nulla. Vi sono poi gli architetti tradizionalisti che guardano all’architettura vernacolare. Presenti in prima fila alle conferenze che Leon Krier tiene in Italia, comprano la rivista Abitare la terra diretta da Paolo Portoghesi. Una terza categoria è rappresentata dai lo-tech. Orientati verso una ricerca linguistica d’avanguardia, la perseguono attraverso l’uso di apparati tecnologici relativamente semplici e un intelligente uso delle risorse naturali. Tra questi vi sono i giovanissimi gruppi degli Avatar e di 2a+p: i primi nel progetto per VeMa presentato alla recente biennale di Venezia hanno mostrato alcune inaspettate possibilità del bambù, i secondi stanno da tempo lavorando sull’uso del verde all’interno dei processi costruttivi. La quarta categoria dei contestualisti raccoglie gli architetti particolarmente sensibili al tema di un contemporaneo landscape metropolitano cioè di un paesaggio in cui architettura e natura si integrano perdendo la loro originale diversità. Ci


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stanno lavorando, con approcci diversi, studi di notevoli dimensioni come quello di Benini i cui ultimi progetti sono spesso risolti nel sottosuolo per lasciare in superficie ampi spazi trattati a verde ed equipe decisamente sperimentali, come T studio e Metrogramma, con proposte in cui la dimensione territoriale è prevalente su quella edilizia. Alla quinta categoria appartengono gli “umanisti tecnologici”, quegli architetti come Renzo Piano e Mario Cucinella che lavorano su tecnologie avanzate ma senza mai cadere né in una eccessiva esibizione di strutture e impianti, come per esempio accade in molti edifici hi-tech, né in un troppo impersonale e autocompiaciuto – sino ai limiti del virtuosismo manierista – soft-tech, come negli ultimi edifici di Norman Forster o di Santiago Calatrava. Vi sono, infine, gli architetti che lavorano con il digitale e le interrelazioni. Pensano che l’edificio, diventando intelligente e cioè in grado di produrre feedback, rassomiglierà sempre di più a un organismo vivente. Questo programma di ricerca, a mio avviso molto promettente, oggi sembra essere caduto in disgrazia perché viviamo un momento in cui il nuovo produce ansia. Ma, se mi è lecito fare una previsione, la paura non durerà a lungo e proprio dalle nuove tecnologie verranno la gran parte delle innovazioni che renderanno migliore l’habitat in cui vivremo nel prossimo futuro. Esaminati in una prospettiva storica, molti progetti tra i più interessanti si ricollegano idealmente ad altri realizzati nella metà degli anni Ottanta quando nasce un nuovo sentire. Grazie all’opera di alcuni precursori che operano a livello internazionale, emerge una concezione del rapporto tra architettura e natura che scavalca le precedenti correnti neobrutaliste, razionaliste, postmoderne e anche organiche. Natura e architettura non sono più intese come due entità separate, anche se interagenti e complementari, ma come afferenti a un medesimo paradigma concettuale e quindi in larga misura fungibili l’una dall’altra. Ciò vuol dire che il verde diventa uno dei tanti materiali da costruzione, come avevano insegnato i Site e Emilio Ambasz, mentre la massa muraria, acquisendo intelligenza e diven-

Centro Culturale Kanak Jean-Marie Tjibaou in Nuova Caledonia. Photo by John Gollings


La seconda metà degli anni Novanta è particolarmente importante per la cultura architettonica italiana. Si registra un fiorire di energie – come sempre soprattutto di giovani: la cosiddetta Generazione Erasmus – che si affacciano alla ribalta producendo lavori innovativi. Sulla scia di quanto accadeva nella cultura architettonica mondiale, si riscoprono, coniugandole al nuovo modo di sentire la natura, le ricerche di avanguardia degli anni Dieci e, soprattutto, degli anni Sessanta quali la body art, la land art e il concettuale. Si usano materiali inusuali: tra questi il verde e gli oggetti poveri e poverissimi ripresi dal cheapscape metropolitano. Si sperimentano le valenze estetiche del caos, del complesso e dell’informe contro i

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tando una membrana permeabile, si trasforma in un dispositivo interattivo in grado di dialogare all’interno con gli abitanti e all’esterno con la natura circostante, con una radicale ridefinizione dello statuto dell’architettura che, a questo punto, non può più essere intesa come un che di artificiale che si Studio RPBW. Photo by Fregoso & Basalto contrappone al naturale dello spazio circostante. Realizzazioni come l’Institute du Monde Arabe di Parigi (1987) di Jean Nouvel o la Torre dei Venti di Yokohama (1986) di Toyo Ito che, tra le prime, danno forma ai nuovi concetti, diventano modelli ampiamente pubblicizzati, riferimenti sui quali orientare una produzione in cui i confini tra animato e inanimato, materia e energia, organico e inorganico diventano labili. Lungo questa direzione, anche se non in modo esclusivo, si muove la corrente decostruttivista che ha, con la mostra Deconstructivist Architecture al MoMA di New York, il suo momento di maggiore notorietà. Architetti quali Peter Eisenman o Zaha Hadid, che appartengono a questa tendenza, si orientano lungo una direzione trans-ecologica e morfogenetica mentre gli altri lavorano alla creazione di nuovi paesaggi metropolitani. Vi è poi l’High Tech che, in questi anni, si trasforma in Eco Tech con edifici di Norman Foster, Richard Rogers, Nicholas Grimshaw e William Alsop in cui la complessità tecnologica si apre all’ambiente e al paesaggio, anche al fine di conseguire consistenti risparmi energetici. A sintetizzarne le ricerche, cercando di tradurle in termini linguistici, provvede il libro di Charles Jencks, The Architecture of the Jumping Universe uscito nel 1995.


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precetti dell’ordine e della composizione equilibrata. Si abbandonano definitivamente le nostalgie storiciste della precedente stagione post modern per sperimentare inaspettate libertà formali. L’effervescenza italiana riflette una euforia diffusa. È in questi anni che con la telematica e internet si mette in discussione lo spazio concepito semplicemente in termini di hic et nunc e, grazie all’intelligenza artificiale, la concezione di involucro inanimato. Il Guggenheim di Bilbao, inaugurato nel 1997, evidenzia che è finita l’epoca della catena di montaggio fatta di elementi standardizzati e che si può cominciare a pensare in termini di unicum perché, come è stato ben sintetizzato, i nuovi metodi di produzione stanno ai vecchi come la stampante a getto d’inchiostro sta alla macchina da scrivere. Comincia a operare una generazione di architetti “nati con il computer”, da Greg Lynn a Nox, attenta alle ricadute ecologiche della propria ricerche. A fare il punto provvedono sul finire del ventesimo secolo i libri della serie La rivoluzione informatica nella serie l’Universale d’architettura (il primo esce nel 1998), riviste quali Domus che dedicano alle nuove frontiere pagine entusiaste e la biennale di Venezia del 2000 diretta da Fuksas che, pur con tutti i suoi limiti, lancia il messaggio che in architettura – e, finalmente, anche in Italia – si respira un nuovo sentire. Come spesso è avvenuto in passato, a un ciclo propulsivo e ottimista ne subentra uno riflessivo e tradizionalista. La critica conservatrice accusa sperimentatori e innovatori di cadere preda del mito tecnologico e della cosiddetta società delle immagini (il più importante di questi saggi, anche perché ne è il precursore: The Anaesthetics of Architecture di Neil Leach è del 1999). E in Italia, ai giovani che si abbeverano all’estero della nuova cultura architettonica si rimprovera di dimenticare le proprie radici. La bandiera dell’italianità dell’architettura viene sventolata contro di loro, così come contro le numerose Star straniere che, approfittando del mutato clima culturale, acquisiscono in Italia incarichi sempre più numerosi e importanti. Da parte degli stessi giovani si registra, contemporaneamente, una caduta di tensione dovuta sia a un prevedibile, anche se temporaneo, esaurimento delle energie creative sia al cattivo esempio di alcune Star straniere che, acquisito il successo commerciale, non esitano


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L’undici settembre del 2001 segna un punto di non ritorno. Si scopre che l’ottimismo riposto precedentemente nei magnifici destini progressivi della tecnologia era sicuramente eccessivo e che era giunto il momento per una architettura più responsabile, fatta meno di simboli e più di relazioni con gli uomini e la natura. I fatti che seguono l’abbattimento delle Twin Towers rafforzano queste ipotesi. Si acquista la consapevolezza che l’architettura deve riflettere su tre questioni: come acquistare una maggiore autenticità contrapponendola allo stereotipo linguistico della cosiddetta architettura firmata; come conciliare la standardizzazione imposta dalla globalizzazione con la pluralità delle culture locali, evitando di cadere nell’appiattimento dell’omologazione; come aprirsi a una prospettiva ecologica non punitiva, estranea all’ambientalismo dei divieti e delle privazioni. Dei tre temi il terzo appare più urgente e sollecita le migliori intelligenze anche perché, come aveva già intuito Bruno Zevi nel convegno Paesaggistica e grado zero (1997), ha forti valenze spaziali oltre che concettuali: implica infatti una sminuita importanza dell’oggetto in sé e per sé ed è correlato all’imperativo di un azzeramento linguistico. Se il paesaggio è ciò che ci circonda, materializza spazializzandolo il nostro rapporto con il mondo e quindi non ha senso riempirlo di retorica, caricarlo di turbe grammaticali e sintattiche, trasformarlo nell’apoteosi dello stile. Se in Italia si parla di paesaggio, negli altri Paesi, e in particolare in Olanda, si parla sempre più diffusamente di landscape, una parola che presto diventa quasi una formula magica, che ognuno adopera secondo una propria e particolare accezione. Il termine ha in sé un forte potere evocativo: allude contemporaneamente all’edificio, all’urbanistica, alla natura. Fa pensare al primo, ma all’interno di un contesto ambientale responsabile; alla gestione del territorio, ma senza monotematismi zonizzanti e astrazioni economiche; infine, al verde ma in quanto risultato di un complesso progetto di costruzione dello spazio antropizzato.

Luigi Prestinenza Puglisi

a ripetersi stancamente trasformando in cliché quelli che, in origine, erano stati input innovativi e vitali.


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In ogni caso, nonostante la pluralità di significati proiettati sui termini, non è difficile da parte di tutti concordare che per creare un nuovo paesaggio o landscape occorre una rinnovata consapevolezza ecologica che alla luce delle nuove tecnologie (ma senza ottimismi tecnicistici) riorganizzi, anche a partire dalle piccole cose, dai progetti a scala minuta, il rapporto con l’ambiente che ci circonda, con il pianeta nel quale abitiamo. Verso questa direzione di ricerca, come si diceva in apertura, si stanno muovendo negli ultimi anni un crescente numero di architetti che operano nel panorama internazionale. Aiutati in ciò anche dal valido supporto di alcuni studi di ingegneria che stanno sempre più orientandosi verso la progettazione di sistemi impiantistici che permettono di ottenere edifici a consumo zero, cioè energicamente autosufficienti. Gli architetti, come sostiene uno dei partner di una di queste società, la Arup, in una intervista sulla rivista A10 “non possono più curarsi di disegnare oggetti firmati ma devono realizzare edifici e quartieri densi di significato e di qualità che siano totalmente sostenibili e così possano contribuire al benessere delle persone, della società e dell’intera umanità”. Più che mai il prossimo futuro richiederà creatività e attenzione. Creatività per mettere a punto un progetto tecnologicamente avanzato e formalmente innovativo. Attenzione perché gli elementi con i quali ci si deve confrontare sono quelli di sempre. Note * Il testo raccoglie in forma libera, aggiornandoli, due interventi: un testo redatto per il numero N.17 della rivista The Plan, dic. 2006/gen. 2007 e la presentazione al catalogo della mostra Contemporary Ecologies: Energies for Italian Architecture curata per la DARC ed esposta alla biennale di Brasilia del 2006 e nel 2007 ad Hanoi.


Zaira Magliozzi Architettura 2010 - 2060

Cosa accadrà nei prossimi cinquant’anni di Architettura? Quali sono le tendenze oggi in atto, le più fruttuose, da tenere sotto osservazione, analizzare per tracciare un’ipotesi di futuro? Il 2010 è stato un anno importante per l’Architettura. È la consacrazione di due figure che raccontano approcci diversi. Tendenze su cui si gioca l’Architettura che verrà. La prima è Zaha Hadid. Per la famosa archistar anglo-irachena classe ’51, il 2010 è un anno da ricordare: RIBA Stirling Prize per il Maxxi, donna dell’anno per l’Outstanding Achievement di Londra, tra le 100 persone più influenti al mondo per il Time, Artista per la Pace Unesco. La prima donna a ricevere il Pritzker Prize (nel 2004) è già una delle stelle del firmamento architettonico. Alla fine degli anni Ottanta il suo nome è accanto a quello di Frank O. Gehry, Daniel Libeskind, Rem Koolhaas, Peter Eisenman, Bernard Tschumi e del duo Coop Himmelb(l)au nella mostra “Deconstructivist Architecture” curata da Philip Johnson al Moma di New York. Ma è dalla fine degli anni Novanta, quando elabora il progetto del Maxxi di Roma, che la sua ricerca si distacca dal movimento decostruttivista per sondare nuovi campi ed elaborare una ricerca formale costantemente oltre i limiti. Con il 2010, e l’inaugurazione del museo romano – il primo edificio che incarna in grande scala questa ricerca – si può dire di avere l’esempio concreto di un’architettura fino ad allora inimmaginabile. La sfida del limite, dell’universalmente concepito come possibile. Avvisaglie, ormai ben chiare sulla carta da qualche anno, che una nuova tendenza si sta facendo largo. Una ricerca che prende le mosse da un altro architetto molto attento alle potenzialità del computer. Greg Lynn, già dalla fine degli anni Novanta, sperimentava forme non euclidee, elaborava modelli tridimensionali utopici a simulare quello che conosciamo come perfettamente funzionante: gli organismi cellulari che si trovano in natura. È con l’architettura dello studio Zaha Hadid Architects, in cui fondamentale è il ruolo di Patrik Schumacher, storico braccio destro della Hadid, che questi esperimenti trovano un linguaggio formale concreto. “A seguito del suo completamento, il Maxxi continua ad essere un progetto teorico, un manifesto architettonico che dimostra l’esistenza di un nuovo stile in Architettura: il Parametricism” scrive


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Schumacher. A testimoniare l’importanza di questo edificio nell’affermarsi di un nuovo movimento che, dice, “sta per diventare il primo nuovo stile globale che potrà e dovrà sostituire il modernismo come vero stile di un’epoca”. Di cosa si tratta? La risposta nello scritto “Parametricism as Style – Parametricist Manifesto” presentato e discusso da Schumacher al Dark Side Club nel 2008, in occasione della Biennale di Venezia numero undici. È un metodo sistematico che si diversifica di fronte a una nuova sfida progettuale. Un processo dinamico, adattabile e flessibile che fa un largo uso del computer e di specifici programmi di modellazione tridimensionale, grazie ai quali è possibile sondare le forme più libere e diverse. Un approccio scevro da quei condizionamenti che la geometria euclidea e i classici metodi di progettazione hanno sempre imposto. Il repertorio di riferimento si ispira ai processi auto-organizzati della natura. Organismi viventi, perlopiù vegetali che con le loro leggi basate sulla ripetizione e variazione di forme geometriche, come il frattale, aprono all’Architettura un mondo di possibilità. Anche nella loro relazione con il mondo della progettazione ecologica. “Invece di mettere insieme rigide ed ermetiche figure geometriche, come tutti i precedenti stili architettonici, il parametricismo avvicina componenti malleabili in un gioco dinamico di mutue rispondenze e di adattabilità al contesto” aggiunge Schumacher. Sono pochi gli architetti ascrivibili a questa tendenza ma presenti in tutto il mondo: i cinesi MAD, gli olandesi FUR Architects, il gruppo UFO con sedi in tutto il mondo, i London Based Plasma Studio e Minimaforms, i newyorkesi Aranda\Lasch, gli americani AltN Research+Design e gli austriaci Moh Architects per citarne alcuni. Piccole e medie realtà, con molti progetti ancora su carta, ma testimoni di un’approccio fertile, apparentemente inesauribile. L’altro personaggio è Kazuyo Sejima. La giapponese, classe ’56, fonda insieme a Ryue Nishizawa lo studio SANAA. La scuola è quella riconducibile a Toyo Ito, con cui la Sejima, all’inizio della sua carriera, collabora. Un’architettura estrema, di sperimentazione formale sempre al limite tra reale e virtuale. Ma il 2010 restituisce al mondo un’immagine più matura della ricerca architettonica portata avanti dalla Sejima fino a quel momento. Prima il Pritzker Prize e poi la direzione della dodicesima Biennale di Architettura di Venezia, testimoniano il crescente apprezzamento verso il suo approccio. In alternativa alle chiassose architetture, ridondanti di forme complesse, qui c’è un punto di vista intimo e personale, quasi silenzioso tipico di quella cultura giapponese di cui è figlio. Un’architettura leggera, sensibile, fatta di luce più che di materia. In un continuo esercizio di mimesi e contrasti col contesto, senza perdere di vista l’aspetto spettacolare e affascinante. A ben guardare non è il solito minimalismo alla John Pawson, quello teorizzato dalla sua bibbia del ’96 “Minimum”. Nel tema scelto come filo conduttore della Biennale “People meet in Architecture”, ci sono gli elementi per leggere un’evoluzione del minimalismo così come lo conosciamo. Maggiore attenzione è posta alle tematiche sociali e alle dinamiche di sviluppo urbano. Un’architettura come luogo di aggregazione, spazio delle emozioni. Il minimalismo diventa poetico, fa i conti con la realtà, non si chiude nelle sue forme rigide e fredde ma si apre alla contaminazione.


Il modo migliore per capire il salto fatto in questo edificio è il video-raccontato, proiettato all’ingresso dell’Arsenale della Biennale, che segue i passi, le vicende dei fruitori del campus, tra più rinomati al mondo per l’ingegneria, la tecnologia e le scienze informatiche. Uno spazio silenzioso, a misura d’uomo, ma non convenzionale, che ristabilisce nuove dinamiche spaziali riformulando il rapporto uomoarchitettura e uomo-uomo. Tutto qui è calibrato per migliorare la socializzazione e l’interazione. Assente la gerarchia degli ambienti in favore di una commistione fluida delle parti. Alla voracità di spazi esuberanti si contrappone l’inappetenza, la sobrietà di ambienti silenziosi dove gli unici suoni sono quelli prodotti dai suoi abitanti. Una valida evoluzione dell’ormai logoro stile minimale, adatto solo a showroom e case disabitate. Discepoli giovani di questa nuova eredità sono il duo cino-olandese (con base a Brooklyn) SO – IL Solid Objectives – Idenburg Liu, la coppia italo-francese dei Lan Architecture con base a Parigi e il gruppo franco-olandese Powerhouse Company con sedi in Danimarca e Olanda per fare alcuni esempi. Ognuno, a suo modo, protagonista di ulteriori evoluzioni della stessa feconda corrente. È nella dialettica tra complessità parametrica e minimalismo emozionale, in questa alternante convivenza guidata dallo stesso denominatore di attenzione all’ecologia, che si giocherà il futuro, i prossimi cinquant’anni di architettura.

81 Zaira Magliozzi Architettura 2010 - 2060

In architettura, la traduzione di questo approccio è il Rolex Learning Center di Losanna, il nuovo centro della Scuola Politecnica Federal (EPFL) progettato dallo studio SANAA. Rigore ed emozione. Se da un lato è immediato l’aspetto di essenzialità, decisivo è quello emozionale che ne rappresenta il carattere più innovativo.



Peter Sloterdijk Design di una civiltà co-immunitaria*

Chi può udirlo? Per quanto riguarda le catastrofi imputabili all’uomo, il XX secolo è stato il periodo più istruttivo della storia universale. Da esso si è potuto imparare molto: le grandi sciagure presero avvio come progetti che avrebbero dovuto mettere sotto controllo il corso della storia a partire da un’unica centrale operativa. Furono le manifestazioni più pretenziose di ciò che i filosofi, seguaci di Aristotele e Marx, chiamarono “prassi”. Come profezie in chiave contemporanea, i grandi progetti vennero descritti come configurazioni della battaglia finale per il dominio della Terra. Agli uomini dell’epoca basata sulla prassi non accadde nulla che non fosse stato predisposto da loro stessi o dai loro contemporanei. Si potrebbe quindi dire che non v’è nulla nell’inferno che non fosse stato prima programmato. Gli apprendisti stregoni dell’organizzazione planetaria hanno dovuto sperimentare che l’incalcolabile anticipa i calcoli strategici di un’intera dimensione. Non stupisce dunque che i buoni propositi non si siano rispecchiati nei pessimi risultati. Gli sviluppi ulteriori si collocano nel solco della probabilità psicologica: i riformatori del mondo militanti presero le distanze dalle debâcle da essi causate e attribuirono alla sventura ciò che gli sfuggì di mano. L’interpretazione più convincente di questo modello di comportamento proviene dalla penna di un filosofo scettico: dopo un’avventura fatale, gli attori falliti praticano “l’arte di non esser stati loro”. Alla vigilia della catastrofe annunciata si vedono all’opera dei modelli analoghi: prima dei processi fatali, gli attori sul palcoscenico della politica si esercitano nell’arte di non aver compreso i segni del tempo. Gli occidentali sono bravi in questo comportamento (si potrebbe chiamarlo un procrastinare universale) per via di remote pratiche culturali ancorate in profondità: da quando l’Illuminismo ridusse Dio a una radiazione di fondo dell’universo o lo interpretò direttamente come una finzione, i moderni trasferirono l’esperienza del sublime dall’etica all’estetica. In conformità alle regole del gioco vigenti nella cultura di massa sorta all’inizio del XIX secolo, essi assimilarono la convinzione di poter sopravvivere del tutto incolumi al terrrore puramente immaginario. Ai loro occhi, tutti i naufragi avvengono soltanto per gli spettatori e tutte le catastrofi


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soltanto in virtù della piacevole sensazione di salvarsi. Essi ne deducono quindi che i pericoli siano sempre e soltanto una parte dell’intrattenimento, e i moniti un elemento dello show. Il ritorno del sublime sotto forma di imperativo etico da non prendere alla leggera coglie impreparato il mondo occidentale. Per parlare in questa sede solo di quest’ultimo. I suoi cittadini si sono abituati a recepire tutti i rimandi alla catastrofe imminente, anche quelli formulati in tono realistico, come un documentario horror, mentre i suoi intellettuali affrontano il loro appello come detached cosmopolitan spectators, decostruendo anche i moniti più seri in termini di genere discorsivo e classificando i suoi autori nella categoria dei gradassi. Tuttavia, anche se non fosse un genere estetico, si continua a nutrire pragmaticamente la convinzione che non sia urgente prendere le cose sul serio. Inoltre: una persona che volesse percepire individualmente i segnali presenti all’orizzonte non crollerebbe forse sotto il peso delle preoccupazioni? Ciò nonostante, i contemporanei si convinceranno prima o poi che non esiste un diritto umano che vieta di pretendere di più, così come non esiste un diritto che impone di affrontare soltanto i problemi di cui si riesca a trovare la soluzione con gli strumenti di bordo. Si equivoca la natura di questo tema, qualora si consideri problematico soltanto ciò che sembra risolvibile durante l’attuale legislatura. A maggior ragione, non si coglie l’essenza delle tensioni verticali presenti nell’esistenza umana, qualora si prenda avvio da una simmetria tra challenge e response. Chi si interroga sulla condizione dell’uomo trova pretese superiori da un lato ed eccedenze dall’altro…e nulla garantisce che il primo membro stia al secondo come il problema sta alla soluzione.

Chi lo farà? A prescindere dai provvedimenti che saranno attuati in avvenire per affrontare i pericoli riconosciuti, essi obbediranno alla legge della crescente improbabilità, che domina l’evoluzione surriscaldatasi. Da questa certezza possiamo dedurre perché la propaganda che circola tra Roma, Washington e Fulda, orientata alla conservazione dei valori, non offra una risposta adeguata all’attuale crisi mondiale, a prescindere da possibili effetti costruttivi in ambiti ristretti. Infatti, in che modo i “valori” sovratemporali, che finora si sono già dimostrati impotenti rispetto a problemi relativamente inconsistenti, dovrebbero d’un tratto acquisire il potere, di fronte a faccende più gravi, di operare la svolta verso il meglio? Se la risposta alle sfide attuali si potesse effettivamente trovare nelle virtù classiche, allora sarebbe sufficiente applicare la massima che Goethe formulò in una poesia del suo Divan occidentale-orientale intitolata “legato della fede anticopersiana”: Quotidiana conservazione di rigidi culti / per il resto non serve alcuna Rivelazione” (tr.it. in Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1997, p.359). Anche chi è disposto ad ammettere che questa sia la massima espressione della borghesia europea (sebbene nascosta sotto la maschera orientale) prima del suo fallimento storico capisce al volo che una semplice regola di conservazione non ci è di nessun aiuto. Accanto all’irrinunciabile preoccupazione di conservare ciò che ha dato


Dobbiamo al filosofo Hans Jonas la prova che non sempre la nottola di Minerva spicca il suo volo al calar del sole: Con la sua riformulazione dell’imperativo categorico in un imperativo ecologico, egli ha dimostrato, nella nostra epoca, la possibilità di un filosofare previsionale. “Agisci come se gli effetti del tuo agire siano conciliabili con la permanenza di una vita autenticamente umana sulla Terra”. In tal modo, l’imperativo metanoico nel presente, che eleva l’elemento categorico a fattore assoluto, acquista contorni sufficientemente definiti. Esso avanza l’impegnativa pretesa di coinvolgerci nella mostruosità dell’universale divenuto concreto. Ci chiede di soggiornare durevolmente nel campo in cui vige la superpretesa di affrontare enormi improbabilità. Poiché si rivolge personalmente a ciascun individuo, devo riferire il suo appello a me stesso, come se io fossi il suo unico destinatario. Si pretende che io mi comporti come se potessi sapere immediatamente quali prestazioni dovrei fornire, non appena interpreto me stesso come agente nella rete delle reti. Dovrei valutare in ogni istante le ripercussioni del mio agire sull’ecologia della società mondiale. Dovrei addirittura sfiorare il limite del

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buoni risultati, a noi s’impone soprattutto la novità delle situazioni, la quale rende necessarie risposte audaci. […] La legge della crescente improbabilità prospetta due superpretese in una: Da un lato, ciò che attualmente si sta svolgendo sulla Terra è una catastrofe dell’integrazione realmente operante: si tratta della globalizzazione inaugurata dal viaggio di Colombo nel 1492, messa in moto dalla sottomissione spagnola del regno azteco nel 1521, accelerata dal commercio mondiale tra il XVII e il XIX secolo e progredita, grazie ai veloci media del XX secolo, fino all’effettiva sincronizzazione degli accadimenti mondiali. Grazie a essa, le frazioni dell’umanità che vivono disperse, le cosiddette culture, diventano un collettivo instabile e lacerato da diseguaglianze, ma estremamente sincronizzato sul piano della transazione e della collisione. Dall’altro lato, si compie una progressiva catastrofe della disintegrazione, che si muove verso un punto di crash temporalmente indefinito, sebbene non infinitamente procrastinabile. Fra le due mostruosità, la seconda è di gran lunga la più probabile, perché si trova già sulla lista dei processi in corso. Viene supportata soprattutto dai rapporti di produzione e di consumo vigenti nelle regioni benestanti e nelle zone sviluppate del paese, nella misura in cui si fondano sul cieco ipersfruttamento di risorse finite. La ragion nazionale si sforza ancora di conservare posti di lavoro sul Titanic. Che l’esito sia il crash è probabile, anche perché esso comporta un grande risparmio sui costi psicoeconomici: esso porterebbe alla liberazione delle tensioni croniche che incidono su di noi in conseguenza dell’evoluzione globale. Solamente le nature fortunate sperimentano l’elevazione del Mount Improbable, fino all’altezza di una “società” mondiale integrata sul piano operativo, come un progetto vitalizzante per chi vi contribuisce. Solamente costoro sperimentano l’esistenza nel presente come un privilegio stimolante e non desiderano aver vissuto in qualche altra epoca. Nature meno fortunate hanno l’impressione che essere-nel-mondo non sia mai costato tanta fatica. In questo caso, c’è qualcosa di più evidente della formula della cultura di massa “dare la precedenza all’intrattenimento e per il resto aspettarsi che avvenga ciò che non può non avvenire”?


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ridicolo interpretando me stesso come membro di un popolo di sette miliardi di persone, sebbene anche la mia stessa nazione sia, ai miei occhi, fin troppo ampia. Dovrei affermarmi come cittadino del mondo, anche se conosco appena il mio vicino di casa e trascuro i miei amici. Per quanto non riuscirò a entrare in relazione con la maggioranza dei membri del nuovo popolo, dato che l’“umanità” non rappresenta né un valido destinatario né una dimensione che facilita gli incontri, tuttavia ho il dovere di considerare la sua presenza reale in ogni mia operazione. Dovrei diventare un fachiro della coesistenza con tutto e tutti, e ridurre la mia impronta nell’ambiente sull’esempio di una piuma.

Lotte tra sistemi immunitari Questa riflessione rende necessario un ampliamento del concetto di immunità: non appena si inizia a trattare modi di vivere nei quali è coinvolto lo zoon politikon uomo, bisogna fare i conti con la precedenza assegnata ai vincoli immunitari sovra individuali. In queste situazioni, può aversi immunità individuale solamente come co-immunità. In ottica sistemica, tutte le unioni sociali storiche sono interpretabili come strutture co-immunitarie, dall’orda primordiale fino agli imperi universali. Tuttavia, bisogna registrare che la ripartizione dei concreti benefici immunitari in “società” iperstratificate rivela fin dall’Antichità forti disuguaglianze. La disparità nell’acceso alle opportunità immunitarie venne avvertita già ai primordi come la manifestazione più acuta di “ingiustizia”. Essa fu esteriorizzata come oscuro destino oppure interiorizzata come oscura colpa. Tale sentimento poteva essere compensato, durante gli ultimi millenni, solamente da quei sistemi di esercizio sovra etnici comunemente chiamati “religioni”. Per mezzo di imperativi sublimi e universalizzazioni astratte della promessa di salvezza, esse tennero aperti gli accessi alle pari opportunità immunitarie di tipo simbolico. L’attuale situazione del mondo è caratterizzata dal non possedere alcuna efficiente struttura co-immunitaria per i membri della “società” mondiale. Al massimo livello, “solidarietà” è ancora una parola vuota. A essa ben si adatta la massima di un discusso giuspubblicista: “Chi dice ‘umanità’ cerca di ingannarti”. La ragione è ovvia: le unità solidaristiche effettive e co-immunitarie, sia oggi sia in passato, sono formattate su scala familiare, tribale, nazionale e imperiale, recentemente anche in alleanze strategiche continentali, e funzionano (quando funzionano) conformemente ai formati di volta in volta vigenti della differenza tra sfera personale e sfera estranea. Le riuscite alleanze finalizzate alla sopravvivenza, fino a prova contraria, sono dunque particolari: ormai, anche le “religioni universali”, in conformità alla natura delle cose, non possono che essere dei provincialismi su vasta scala. In questo contesto, perfino il concetto di “mondo” è un’espressione ideologica, perché ipostatizza il macroegoismo dell’Occidente e di altre grandi potenze, e non descrive la concreta struttura co-immunitaria di tutti i candidati alla sopravvivenza sulla scena globale. I sistemi parziali rivaleggiano ancora secondo una logica che, di norma, trae dai benefici immunitari degli uni i deficit immunitari degli altri. L’umanità non costituisce un superorganismo (come sostengono precipitosamente alcuni sistemici), ma, fino a prova contraria, non è altro che un


Tutta la storia è storia di lotte tra sistemi immunitari. Essa coincide con la storia del protezionismo e della esternalizzazione. La protezione si riferisce ancora a un Sé locale e l’esternalizzazione a un ambiente anonimo, del quale nessuno si assume la responsabilità. Questa storia abbraccia il periodo dell’evoluzione umana, nel quale le vittorie della sfera personale potevano essere pagate solamente dalla sconfitta della sfera estranea. In essa dominano i sacri egoismi delle nazioni e delle imprese. Poiché tuttavia la “società mondiale” ha raggiunto il limes e la Terra, insieme ai suoi fragili sistemi atmosferici e biosferici, ha rappresentato, una volta per sempre, il limitato teatro comune di tutte le operazioni umane, la prassi di esternalizzazione incontra il suo confine assoluto. Da questo punto in poi, un protezionismo della totalità diventa il precetto della ragione immunitaria. La ragione immunitaria globale è collocata un gradino sopra a tutto ciò che sono state in grado di ottenere le sue anticipazioni nell’idealismo filosofico e nel monoteismo religioso. Per questo motivo, l’Immunologia generale è l’erede legittima della metafisica e la reale teoria delle “religioni”. Essa richiede di andare oltre a tutte le distinzioni finora invalse tra sfera personale e sfera estranea. In questo modo, vengono meno le classiche distinzioni tra amico e nemico. Chi continua a seguire la linea delle separazioni finora invalse tra sfera personale e sfera estranea produce deficit immunitari non solamente per altri, ma anche per se stesso. La storia della sfera personale, intesa in senso troppo ristretto, e della sfera estranea, trattata in modo troppo negativo, raggiunge la sua conclusione nel momento in cui sorge una struttura co-immunitaria globale basata sull’inclusione delle singole culture, degli interessi particolari e delle solidarietà locali. Questa struttura acquisirebbe un formato planetario nel momento in cui la Terra, innervata da reti e infrastrutturata da schiume, venisse concepita come sfera personale e l’eccessivo sfruttamento, finora dominante, come sfera estranea. Con questa svolta, la dimensione concretamente universale diventerebbe operativa. La totalità inerme si trasformerebbe in un’unità protettiva. Al posto del romanticismo della fratellanza subentrerebbe una logica cooperativa. L’umanità diventerebbe un concetto politico. I suoi membri non sarebbero più passeggeri della nave dei folli rappresentata dall’universalismo astratto, ma collaboratori al progetto, assolutamente concreto e discreto, di un design immunitario globale. Sebbene, fin dal principio, il comunismo fosse un conglomerato di poche idee giuste e molte idee sbagliate, la sua parte ragionevole: presto o tardi, l’idea che i supremi interessi comuni e di vitale importanza possano realizzarsi solamente in un orizzonte di ascesi universali e cooperative acquisterà necessariamente nuova validità. Essa spinge verso una macrostruttura di immunizzazioni globali: co-immunità. Una struttura simile si chiama “civiltà”. Le sue regole monastiche vanno redatte ora o mai più. Esse codificheranno quelle antropotecniche che risultano conformi

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Ora o mai più

Peter Sloterdijk

aggregato di “organismi” di livello superiore, i quali non sono ancora stati integrati in un’unità operativa di livello supremo.


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all’esistenza nel contesto di tutti i contesti. Voler vivere al loro cospetto significherebbe prendere la decisione di assumere, in esercizi quotidiani, le buone abitudini di una sopravvivenza comune. Note * Per gentile concessione dell’Editore Raffaello Cortina che qui si ringrazia, vengono raccolte, in questo breve saggio, parti delle pagine finali del volume di Peter Sloterdijk, Du mußt dein Leben ändern: Über Anthropotechnik. Suhrkamp, Frankfurt am Main 2009, tradotto nel 2010 col titolo Devi cambiare la tua vita. La scelta del titolo e la ripartizione in paragrafi è redazionale. Devi cambiare la tua vita è recensito più avanti, nella sezione Tessiture [NdR].


Studi e Ricerche



Mara Benadusi Il futuro-presente dell’emergenza umanitaria. Nuove “ricette di intervento” a seguito dello tsunami del 2004

Sul buono e il cattivo kamma degli abitanti dell’isola: prolegomeni a una tsunamologia Nella divisione urbana di Tissamaharama, una piccola cittadina del distretto di Hambantota, nella provincia Sud dello Sri Lanka, si erge il Sandagiri, una grande Dagaba1 alta 50 metri. La pietra della struttura spicca con il suo candore tra le verdeggianti distese di riso che circondano l’area, antica capitale del regno di Ruhunu. Qui la leggenda vuole che il mitico re Devanampiya Tissa abbia ricevuto il primo insegnamento del buddhismo nel III secolo. Il monaco che attualmente dirige il tempio appartiene a quella categoria di bhikkhu2 istruiti e politicamente eminenti in Sri Lanka coinvolti nelle operazioni di soccorso e ricostruzione a seguito dello tsunami che ha colpito il paese nel 2004. È da lui che per la prima volta sono stata messa a conoscenza di una storia tratta dalla letteratura del Buddismo Theravada (in particolare dal Samudda-Vanija Jataka) che affronta il tema della calamità naturale che si abbatte sugli uomini di una bellissima isola, sotto forma di una serie di tsunami (Crosby 2008). La storia narra che solo metà della popolazione annega nel corso del primo maremoto. I nuovi abitanti, non tenendo conto degli avvertimenti dell’altra metà dei residenti, cominciano a far uso di alcol e riempiono l’isola di sporcizia defecando ovunque senza ripulire. Gli Dei, risentiti per l’inquinamento e la corruzione dilagante, cospirano tra loro per far spazzare tutto via dall’oceano. Una delle divinità, più compassionevole delle altre, mette in allerta gli abitanti, mentre un Dio rivale dice loro di ignorare l’avvertimento. Così gli isolani si dividono in due gruppi: alcuni seguono un leader imprevidente che non vuole dare ascolto alle avvisaglie, altri si mettono al seguito di una guida assennata e decidono di costruire una barca, munendola di approvvigionamenti nel caso il consiglio del primo Dio si riveli veritiero. Un secondo tsunami si abbatte a questo punto sull’isola. All’inizio il capo sconsiderato crede che i suoi possano mettersi in salvo perché le onde non superano le ginocchia, ma progressivamente lo tsunami cresce finché sommerge completamente tutti quelli che non si sono rifugiati nella barca. La storia mette in risalto la concatenazione tra le spiegazioni più frequenti che vengono offerte del disastro, che rispettivamente attribuiscono la responsabilità


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degli eventi alle divinità, alla natura e al comportamento dell’uomo3. Gli tsunami sono avvenimenti naturali (utu-niyama), ma la devastazione che produce il loro impatto varia a seconda dei comportamenti che gli uomini adottano, dipende cioè dal kamma-niyama, dalla precedente condotta individuale e/o collettiva di quanti sono colpiti dalla catastrofe. Se il proprio operato nel mondo fa inalberare gli Dei, questi possono scatenare le forze della natura, ma gli uomini sono messi in guardia attraverso messaggi premonitori (che nella storia vengono dati sia dai propri simili che dalle divinità stesse) e avrebbero la possibilità di agire in termini preventivi, per proteggersi nel corso dell’emergenza. Il buono o il cattivo kamma dei due gruppi di isolani influenza in pratica la sorte che tocca loro, così come determinante è l’atteggiamento dei leader, l’uno avveduto e l’altro dissennato. La storia ci permette di ragionare sull’ossimoro che offre il titolo a questo volume, “emergenze/preveggenza”. In caso di un evento eccezionale come una serie di onde anomale che portano con sé morte e distruzione, la situazione critica che ne consegue (definita comunemente “emergenza”) varia a seconda delle capacità predittive che si attivano prima dell’impatto della forza devastatrice (sotto forma di avvertimenti e sistemi di allerta). Nel racconto conoscere in anticipo l’eventualità che qualcosa accadrà, presentirne gli effetti e renderli noti sono – abbiamo detto – qualità tanto divine che umane. La preveggenza negli uomini implica sia la possibilità di prevenire il disastro (agendo in modo che l’ira degli Dei non si scateni, ad esempio), sia l’azione di preparazione, ultima via di salvezza contro una minaccia che, se non può ormai essere elusa, si può ancora mitigare attraverso azioni accorte e assennate. Il disastro, quindi, è selettivo, discrimina chi non affina le proprie capacità predittive, facendogli perdere la protezione degli astri (dis-astrum). La tesi che qui sosterrò è che negli attuali scenari dell’emergenza umanitaria su scala globale, in particolare a seguito del maremoto che ha colpito il Sud-Est asiatico nel dicembre del 2004, la resistenza della coppia ossimorica emergenze/ preveggenza ha subito forti contraccolpi. Mostrerò, infatti, come negli ultimi decenni sia andata progressivamente scemando la fiducia nei sistemi di conoscenza predittiva. Non mi riferisco solo al processo di erosione che hanno subito i dispositivi legati alla chiaroveggenza e precognizione che afferiscono alle cosiddette arti divinatorie e del vaticinio, ignorate o peggio ridicolizzate dal mondo scientifico ben prima della seconda metà del ’900. A perdere autorevolezza e affidaFoto 1: I rituali della resilienza. Arugam Bay (Sri Lanka), ottobre 2005


Il Giano bifronte dell’emergenza umanitaria: “ancora” vulnerabili e “già” resilienti Chiunque abbia assistito alla campagna mediatica legata all’imponente onda anomala dell’Oceano Indiano ricorderà lo shock e il moto di compassione suscitati, in quelle giornate natalizie, dalle immagini di panico, devastazione e dolore circolanti sui canali televisivi. La notizia è stata divulgata con forte clamore anche dai giornali, dalle principali antenne radio, locali e nazionali, e naturalmente ha avuto un grosso riverbero su internet, soprattutto grazie al fenomeno del “video-weblogging” o “vlogging”: una miriade di videoclip amatoriali girati in digitale e scaricabili con un semplice clic dai blog degli stessi film-maker, oppure da piattaforme di raccolta create appositamente per lo tsunami5. La sensazione dello spettatore occidentale è stata quella di sentirsi risucchiato nel mezzo degli eventi in un lasso di tempo minimo, visto che molti dei video erano disponibili online poche ore dopo il disastro. D’altronde l’efficacia delle tecnologie della comunicazione nell’accorciare le distanze che separano lo spettatore dalle vittime di un cataclisma di tale proporzione è stata analizzata già prima che si imponessero i media di seconda generazione (Boltanski 1999). Parafra-

Foto 2: Rovine. Panadura (Sri Lanka), ottobre 2005

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bilità a ridosso della fine del secolo XX sono stati, in un primo momento, i sistemi predittivi di tipo strettamente tecnologico, impostisi negli anni Sessanta e Settanta4. Stessa sorte è toccata, successivamente, anche ai sistemi probabilistici che, per i due decenni seguenti (fino alla fine degli anni Novanta), avevano stimolato una considerevole produzione scientifica intorno alla nozione di rischio (Revet 2011a). Vedremo altresì come, in conseguenza del congelarsi in un futuro-presente del tempo dell’emergenza, dal 2000 ad oggi si sia cominciato ad imporre sulla scena internazionale un dispositivo bi-focale di gestione dei disastri, risultante dall’interconnessione tra “tecniche futurologiche non predittive” e “strategie di risposta di tipo adattivo” (Walker, Cooper 2011). Nel seguire questa linea di ragionamento, prenderemo spunto dagli effetti mediatici, politici e umanitari determinati dallo tsunami del 2004, a cominciare dal caso dello Sri Lanka sul quale ho concentrato le mie ricerche etnografiche.


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Images © Photographer Angelo Samarawickrema Tissamaharama Buddhist Temple, 3rd century BC Tissamaharama, Southern Province, Sri Lanka Coordinates: 6°16’46”N 81°17’25”E Most impressive is the restored Maha Stupa, built by King Kavantissa in the 3rd century BC located between Tissa town centre and the tank. It was the largest dagaba in the island at the time. Today, for Buddhist pilgrims, it is one of the sixteen most sacred sites (Solosmasthana) in the country. The dagaba has a circumference of 165m & stands 55.8m high, is enshrined with sacred tooth relic and forehead bone relic of Buddha.


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sando la considerazione provocatoria di Jonathan Benthall (2010), i disastri come fenomeni di risonanza globale – a parte che per le persone colpite, naturalmente – non esistono in quanto tali se i media non si adoperano per farne circolare la notizia. Le immagini hanno il potere di definire il reale; per questo sono un elemento centrale nelle campagne umanitarie che fanno da contrappunto alle grandi emergenze. Tuttavia, se molto è stato scritto circa gli effetti mercificatori (Kennedy 2009), voyeuristici (Sontag 2004) e perfino “pornografici” (Halttunen 1995) delle rappresentazioni video e fotografiche associate alla sofferenza a distanza, un’attenzione ancora minimale viene dedicata alle strategie comunicazionali che, per mobilitare gli aiuti ai sopravvissuti, fanno leva su meccanismi differenti e per certi versi contrari, come quelli che proverò di seguito ad illustrare. È ormai cosa nota che alcuni disastri, per le loro caratteristiche di scala e per le dinamiche geopolitiche che attivano, suscitano un’eco mediatica maggiore di altri6. Le Organizzazioni Non Governative (ONG) e umanitarie stringono sodalizi con le agenzie di stampa e le principali antenne televisive e di radiodiffusione, a cui ricorrono per lanciare campagne di fundraising rivolte alle operazioni di soccorso. Nel farlo è innegabile che puntino sulla spettacolarizzazione del dolore e su una rappresentazione iconica dell’evento cataclismatico che ne congela la drammaticità, imprevedibilità ed eccezionalità, attribuendole a una forza naturale in grado di annullare le capacità umane di previsione e risposta. Lo tsunami del 2004 è sicuramente il momento in cui il circuito di scambio disaster-media-relief si è espresso in maniera più intensa e pervasiva. Eppure, il regime di attenzione mediatica che si produce a ridosso del cataclisma non dura a lungo, soprattutto quando la catastrofe (anche quella più improvvisa come un maremoto), da avvenimento “eccezionale”, finisce per cronicizzarsi nel tessuto sociale e politico del contesto colpito. È allora, quando la visione della sofferenza esaurisce il suo potere di richiamo sullo spettatore, che l’immagine della “vittima” sopraffatta dagli eventi lascia il posto a quella del “sopravvissuto”, capace di superare il trauma risollevandosi coraggiosamente sulle proprie gambe. In questo, più che nella mercificazione del dolore, lo tsunami del 2004 ha segnato un punto di svolta importante per le politiche di rappresentazione del disastro a livello internazionale. Mai, prima di allora, le immagini della ricostruzione avevano circolato con tanta intensità nei canali mediatici. Le ONG si sono trovate, infatti, nell’insolita situazione di dover rispondere alle aspettative dei numerosi donor privati con un senso di ownership sulle attività di soccorso, che avevano donato quasi la metà della somma stanziata per gli aiuti. Così in Sri Lanka l’estetica e le retoriche del donativo umanitario hanno trovato espressione in una pletora di rituali di devoluzione, di cerimonie di consegna e inaugurazione, attraverso le quali è stato enfaticamente cadenzato il momento del conferimento del dono: scuole, bambini felici, tante barche con i pescatori nuovamente all’opera (Benadusi 2011). Per traghettare il pubblico occidentale dalla fase del primo intervento a quella della ricostruzione e poi della prevenzione del rischio, dilatando così il tempo dell’emergenza e dell’aiuto, le organizzazioni presenti sul luogo del disastro hanno fatto leva sull’immagine della resilienza, invece che su quella della sola vulnerabilità. La figura del beneficiario vulnerabile, incapace di uscire dalla crisi


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senza un intervento esterno, ha lasciato gradualmente il posto a quella del superstite resiliente, capace di gestire con le sue forze le difficoltà del post-catastrofe. Per coprire il tempo disteso dell’emergenza messa a regime (Agamben 2003; Fassin, Pandolfi 2010) e assicurare che un flusso finanziario ininterrotto (anche se di intensità variabile) collegasse la fase che segue la catastrofe a quella che la precede e può in qualche modo anticiparla, non bastava – anzi, appariva ormai eticamente scorretto – giocare solo sullo shock, sull’ostentazione del dolore e sul senso di colpa del potenziale donatore privato. Non è un caso che, proprio a seguito di due eventi altrettanto drammatici e mediatizzati come l’onda anomala dell’Oceano Indiano nel 2004 e l’uragano Katrina nel 2005, la General Assembly of European NGOs abbia revisionato il “Codice di condotta sull’uso di immagini e messaggi pubblicitari” (adottato nel 1989), dichiarando esplicitamente che nelle campagne di fundraising bisognava offrire un quadro il più possibile bilanciato e integrato di entrambe le facce dell’emergenza umanitaria: l’assistenza esterna e le capacità di risposta endogene al contesto colpito, valorizzando altresì le occasioni di partenariato e collaborazione tra popolazioni locali ed esperti internazionali. Per tenere sveglia l’attenzione del pubblico e smarcarsi dalle critiche sull’uso spregiudicato delle tecnologie dell’immagine, le ONG stanno così rivedendo le proprie strategie di comunicazione, sforzandosi di mostrare che – anche in situazioni dove sembra impossibile che le persone conservino una loro dignità e capacità di azione – si possano mettere in circolo energie positive, investendo sulle risorse interne che le comunità possiedono. Dal post-tsunami del 2004, le nuove “ricette di intervento” (Haskell 1985) stanno cercando di dosare opportunamente

Foto 3: Rituali di conferimento del dono. Distretto di Ampara (Sri Lanka), novembre 2005


Sforzi adattivi ed esercizi futurologici: epistemologia della preveggenza limitata Oltre a influire sulle modalità di rappresentazione della catastrofe e sulle strategie di fundraising impiegate dalle organizzazioni umanitarie, lo tsunami del 2004 ha contribuito a trasformare le politiche e pratiche di gestione dell’emergenza adottate a livello internazionale. Sempre più si è diffusa la convinzione che, di fronte ad eventi catastrofici di tale portata, tanto imprevedibili quanto difficilmente controllabili ricorrendo alle sole attrezzature tecnologiche e di calcolo probabilistico, fosse indispensabile investire sui contesti nazionali e locali, diffondendo un’attitudine verso la preparazione e la resilienza come strumento di protezione e risposta. Ciò spiega il successo e la capillare diffusione di programmi e approcci strategici

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l’immagine della vittima pura e semplice (ridotta a “nuda vita”, se vogliamo usare un’espressione in voga) e quella del beneficiario resiliente, che si riappropria della sua autonomia, della dignità, di un contesto umano in cui vivere. Secondo le retoriche dell’umanitario, mentre i vulnerabili hanno solo bisogni e diritti basilari su cui intervenire, i resilienti possiedono abilità, competenze, capacità nascoste che vanno tirate fuori con professionalità. Se i primi necessitano di un aiuto eroico di cui si fanno ricettori passivi, gli altri diventano coautori del proprio processo di salvazione, stabilendo relazioni alla pari con le “controparti bianche”. Ancora vulnerabili ma già resilienti, i beneficiari dei progetti di emergenza sono così incoraggiati a fare uso, a seconda delle circostanze, di una o dell’altra faccia del Giano bifronte dell’intervento umanitario, calibrando con sapienza gli ingredienti che li rendono appetibili per il dono: un commovente bisogno di aiuto e allo stesso tempo una capacità indefessa di fronteggiare gli eventi (Revet 2011b; Olwig 2010). Le immagini della resilienza fanno in questo modo la loro apparizione sulla scena locale e globale del disastro, ritagliandosi spazi di visibilità sia sul web che offline, nei siti internet in cui le organizzazioni umanitarie lanciano le loro campagne di raccolta fondi, così come nei luoghi del disastro dove sempre più frequentemente approdano – accanto ai soliti donatori, ai giornalisti, agli esperti assoldati dalle organizzazioni non governative e ai molti volontari – anche centinaia di turisti, attratti da un’esperienza esotica sui generis. A Telwatta, nella costa Sud dello Sri Lanka, è stato costruito uno dei tanti musei dello tsunami, forse il più noto nel Paese, vista la sua collocazione strategica vicino alla famosa spiaggia di Hikkaduwa. Al suo interno sono raccolte migliaia di fotografie, scattate sia a ridosso dell’onda anomala sia nei mesi che hanno accompagnato il controverso processo di ricostruzione. Non si tratta di un semplice mausoleo commemorativo dove si celebra il ricordo delle vittime del maremoto. Telwatta è anche il museo della resilienza, dove i sopravvissuti dello tsunami sono ritratti in azione, mentre cercano di farsi largo tra le macerie oppure nello sforzo di riorganizzare il proprio habitat distrutto. Accanto a loro, gli operatori dell’umanitario, locali ed espatriati, assumono un ruolo di supporto, partecipano – invece che trainarle – alle fasi dell’emergenza, testimoniando il cammino intrapreso dai locali lungo la strada che conduce alla resilienza.


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indirizzati sia a rafforzare ex-post risorse endogene utili a fronteggiare l’emergenza, sia a diffondere anticipatamente un’attenzione vigile e costante verso le minacce incombenti. Il Quadro d’azione di Hyogo 2005-2015, adottato da 168 paesi nel corso della Conferenza di Kobe, incoraggia un approccio sistematico alla prevenzione del rischio-disastro che, fra le cinque priorità del decennio, include il lavoro di sensibilizzazione e formazione necessario a promuovere una cultura della sicurezza e della resilienza sia a livello politico che di società civile (UNISDR 2005). L’uragano Katrina nel 2005 e più recentemente il terremoto di Haiti nel 2010, e poi l’impressionante catastrofe che ha colpito il Giappone nel marzo del 2011, non hanno fatto altro che rafforzare la sfiducia nella conoscenza scientifica di tipo predittivo, accentuando l’importanza strategica – nelle politiche di gestione del disastro – vuoi degli approcci adattivi orientati alla resilienza, vuoi delle tecniche futurologiche non predittive funzionali a una maggiore preparazione. Emersa all’interno dell’ecologia sistemica negli anni Settanta, la nozione di resilienza come strategia operativa di adattamento alla crisi si è affermata nel settore della risposta ai disastri soprattutto nell’ultimo decennio, riscuotendo un generale consenso a livello internazionale (Walker, Cooper 2011). In Sri Lanka l’importanza del coinvolgimento diretto di persone e comunità nei programmi post-tsunami ha portato al proliferare di esperienze orientate al cosiddetto community-based disaster risk management (Heijmans 2009), un approccio partecipativo che – almeno nei documenti programmatici – si presenta come un’alternativa ai modelli di gestione top-down, incoraggiando la costruzione di comunità resilienti in grado di prendere parte autonomamente alle diverse fasi della ricostruzione. Le ricerche etnografiche condotte a ridosso del maremoto mostrano come le prospettive valoriali e strategiche sottese a tali esperimenti siano state in realtà tutt’altro che univoche e condivise, rivelando nei fatti un alto livello di contestazione intorno alle nozioni di comunità, partecipazione, resilienza (Benadusi 2010). Eppure, a due anni dall’onda anomala, il segretario Generale delle Nazioni Unite, William J. Clinton, ha fatto circolare un report in cui sono elencati dieci propositi che, a partire dall’esperienza post-tsunami, vengono assunti come schema di intervento in caso di catastrofe: l’approccio community-driven è la prima di queste proposizioni, poi richiamata nel punto dieci, dove si sostiene che le comunità dovrebbero uscire rafforzate dalle operazioni di soccorso, riducendo i fattori di vulnerabilità endogeni e sviluppando comportamenti resilienti (Clinton 2006). L’assunzione implicita in questo schema è che gli accadimenti futuri siano tanto inaspettati quanto difficilmente prevedibili. La resilienza, infatti, non richiede una capacità speciale di prevedere quello che avverrà, ma solo un’abilità nell’assorbire gli urti e accomodarsi agli eventi in qualsiasi forma inattesa si presentino (Walker, Cooper 2011). I futuri possibili sono determinati da questo “capitale”, che va pensato come una risorsa inerente a qualsiasi sistema sociale ed ecologico: un potenziale di adattamento costante ai cambiamenti. Contro le fantasie previsionali del calcolo probabilistico, i sostenitori della resilienza si fanno paladini di un’epistemologia della conoscenza limitata. Le società non sono nella condizione di prevedere e tanto meno controllare fenomeni complessi come le minacce che incombono negli attuali “regimi di emergenza”, possono solo – sfruttando le capacità proprie di qualsiasi sistema adattivo non lineare


Foto 4: Pescatori nuovamente all’opera. Panadura (Sri Lanka), ottobre 2005

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– disporsi costantemente al rischio e fronteggiarlo con flessibilità, anche sotto condizioni di estrema instabilità. Nell’ultima decade, inoltre, la resilienza ha assunto un’incredibile potere di ubiquità. Viene infatti impiegata, oltre che come strategia operativa per gestire la crisi, anche nella fase che prelude alla prossima, ineluttabile catastrofe. Come notano Walker e Cooper, la resilienza è considerata l’essenza di una vera cultura della preparazione (ib., p. 153). In un contesto in cui lo spettro delle possibilità catastrofiche si è allargato al punto da includere, nella stessa categoria di emergenza, tanto i disastri naturali che quelli tecnologici, gli attacchi terroristici così come le crisi finanziarie, gli effetti del cambiamento climatico assieme alle malattie infettologiche, la previsione dei futuri apocalittici è considerata un’evidente impossibilità logica. Non stupisce, quindi, che le autorità di governo facciano sempre più affidamento su un’abilità generica (sia umana che infrastrutturale) di adattamento a contingenze ignote e inconoscibili, propagandando come unica strategia di risposta un atteggiamento di prontezza e reattività costante: l’adattamento permanente dentro e attraverso la crisi. Così, per supportare la resilienza come scienza adattiva, si stanno progressivamente affermando – negli attuali scenari dell’emergenza umanitaria – tecniche futurologiche non predittive, fondate sulla convinzione contro-fattuale che, se i futuri stati di crisi non sono pronosticabili e tantomeno si possono evitare, l’unica via di salvezza è provare a simularli, in modo da non farsi cogliere del tutto impreparati. Come conseguenza dello tsunami del 2004, in Sri Lanka vengono effettuate periodicamente, sia a livello istituzionale che di società civile, simulazioni per


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la gestione del rischio disastro, che riproducono scenari catastrofici in modo da affinare – attraverso il gioco di ruolo e la performance immaginativa – modalità di risposta appropriate da parte dei partecipanti. L’Asian Disaster Preparedness Center (ADPC), in collaborazione con il Disaster Management Center (DMC) dello Sri Lanka e la Croce Rossa nazionale (SLRCS), ha organizzato un ciclo di simulazioni nelle aree costiere dell’isola, allo scopo di rafforzare sia la struttura organizzativa del paese in previsione di prossimi disastri, sia le capacità di risposta a livello locale. A partire dal 2006, anche il Servizio forestale degli Stati Uniti ha intrapreso in Sri Lanka una campagna di esercizi simulativi, come parte di un programma delle Nazioni Unite chiamato Indian Ocean Tsunami Warning System. Simulazioni basate su scenari catastrofici sono state realizzate perfino nelle scuole, per iniziativa del Ministero dell’Educazione e del National Institute of Education (NIE), e sono tutt’ora in corso. Analizzando il generalizzato proliferare di simulazioni di scenario a scopo preventivo in diversi contesti di emergenza, Andrew Lakoff (2006; 2008) vede nella cultura della preparazione una nuova forma di razionalità, fondata sull’assunzione che l’evento catastrofico sia ineluttabile. Secondo l’autore, gli esercizi futurologici non predittivi come gli scenario exercise non sono altro che un modo per rendere il futuro incerto presente e quindi suscettibile di intervento. Siccome la probabilità di eventi di tale complessità non è calcolabile (non si tratta di rischi ma di vere e proprie minacce), l’unico modo per affrontarli è essere esercitati all’eventualità che si verifichino, comportarsi come se il peggiore scenario dovesse attualizzarsi da un momento all’altro: non è una questione di se, ma di quando. L’epistemologia della conoscenza limitata fa leva sulla preparazione per organizzare un set di tecniche immaginative che servano a mantenere ordine in situazioni di emergenza, perché la prossima crisi è sempre alle porte. Vigilanza costante ed esercitazioni sono gli strumenti più idonei al nuovo paradigma di intervento, testato per la prima volta durante la guerra fredda (di fronte alle minacce di un attacco atomico) e poi applicato indistintamente ai disastri naturali, alle catastrofi ecologiche, alle malattie emergenti e al terrorismo. Un permanente stato di emergenza richiede un continuo stato di preparazione. Gli scenari catastrofici, però, non sono né pronostici né profezie, non si tratta di strumenti previsionali, ma di opportunità per esercitare capacità adattive di risposta. Possono essere considerati stratagemmi utili per disciplinare l’immaginazione, non per risvegliarla. La sorpresa viene pianificata, non è anticipata grazie ai poteri della preveggenza. Non a caso l’efficacia di queste simulazioni viene valutata non tanto in funzione delle conoscenze che mettono in circolazione, ma a partire dal senso di urgenza e ansietà che sviluppano tra i partecipanti (Lakoff 2006, pp. 264-266). La gestione dello tsunami che ha colpito il sud-asiatico, ormai sette anni fa, insegna come sia la temporalità profetica, capace di spiegare come il fato umano si prefigura nel presente e può essere anticipato, sia il gioco delle responsabilità individuali e collettive che prelude al disastro, non trovino collocazione nel futuro-presente dell’emergenza umanitaria.


Bibliografia Agamben, G., 2003, Stato d’eccezione, Torino, Bollati Boringhieri. Benadusi, M., 2011, Con-donare. Ipertrofia del dono nello Sri Lanka post-tsunami, in L. Satriani (a cura di), Il colore dei soldi. Culture, scambi mercati, Roma, Armando Editore [in corso di pubblicazione]. Benadusi, M., 2010, Dopo il disastro. Ondate umanitarie e proiezioni di comunità sulle coste di Mawella (Sri Lanka), in M. Benadusi (a cura di), Antropomorfismi. Traslare interpretare e praticare conoscenze organizzative e di sviluppo, Rimini, Guaraldi, pp. 247-268. Benthall, J., 2010, Disaster, relief and the media, Wantage, Sean Kingston Publishing. Boltanski, L., 1999, Distant Suffering: Morality, Media and Politics, Cambridge, Cambridge University Press. Clinton, W.J., 2006, Lessons learned from tsunami recovery: key propositions for building back better, New York, United Nation. Crosby, K., 2008, Kamma, social collapse or geophysics? Interpretations of sufferings among Sri Lankan Buddhists in the immediate aftermath of the 2004 Asian tsunami, «Contemporary Buddhism», n. 9(1), pp. 53-76.

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1 Una struttura a forma di cupola, solitamente di colore bianco, costruita per conservare le reliquie di Buddha o di altre figure del panteon buddista in luogo prospiciente al tempio. 2 Il monaco buddista in lingua singalese. 3 Sandrine Revet, riferendosi alla catastrofe che ha colpito il Venezuela nel 1999, definisce questi tre approcci “scenario religioso”, “scenario naturalista” e “scenario del rischio”, evidenziando come sia facile che essi coesistano in una medesima società. Il primo attribuisce il disastro a un Dio vendicativo, il secondo alle forze della natura e il terzo a una cattiva gestione territoriale da parte dell’uomo (Revet 2007). Molta della produzione sia divulgativa che specialistica sulle catastrofi, invece, tende a presentare queste interpretazioni come indipendenti l’una dall’altra e anzi non è inusuale imbattersi in letture che ricostruiscono la storia dei disastri suddividendola in fasi successive. Secondo questa prospettiva, l’emergere di un approccio “moderno” alla catastrofe andrebbe situato a ridosso del terremoto di Lisbona del 1755, in pieno periodo illuminista, quando alla Provvidenza viene sostituita una spiegazione del disastro centrata sulla responsabilità umana. 4 Alla fine degli anni Sessanta risale la fondazione del Centro Sismologico Internazionale di Edimburgo, mentre negli anni Settanta UNDP (United Nation Development Program) e FAO (Food and Agriculture Organization) mettono in piedi un sistema di allerta per sorvegliare la situazione della siccità e della fame nel mondo e la Word Meteorological Association (WMO), assieme all’Unione Internazionale delle Telecomunicazioni (ITU), si mobilitano nel campo della previsione degli eventi atmosferici (tempeste, cicloni, tornadi), nel tentativo di aumentare la rapidità nelle comunicazioni intercontinentali. 5 Geoffrey Huntley, un vlogger australiano abbastanza noto a livello internazionale, ha creato il website waveofdestruction.org come punto di raccolta per tutti i video amatoriali sullo tsunami del 2004. Un’iniziativa simile è stata promossa anche dalla Media Bloggers Association, su una piattaforma web in grado di ridurre i tempi di download dei filmati provenienti dai diversi paesi colpiti. Alcuni di questi prodotti amatoriali sono apparsi persino su trasmissioni televisive della CNN e della BBC, facendo molto scalpore nella cerchia dei giornalisti professionisti, messi in allarme dall’influenza crescente di questa giovane comunità di “reporter di prima istanza”. 6 Per avere un’idea di quanto sia selettiva l’attenzione delle agenzie mediatiche in caso di disastro, basti considerare che mentre una media di 7.000 dollari procapite è stata distribuita nei diversi paesi colpiti dallo tsunami del 2004, solo 3 dollari a persona sono stati spesi dopo le inondazioni in Bangladesh e Mozambico (secondo quanto dichiarato online dalla Tsunami Evaluation Commission).

Mara Benadusi

Note


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Fassin, D., Pandolfi, M. (a cura di), 2010, Contemporary states of emergency. The politics of military and humanitarian interventions, New York, Zone Books. Halttunen, K., 1995, Humanitarianism and the pornography of pain in Anglo-American culture, «The American Historical Review», Vol. 100, pp. 303-334. Haskell, T.L., 1985, Capitalism and the origins of the humanitarian sensibility, «The American Historical Review», n. 90(2), pp. 339-361. Heijmans, A., 2009, The social life of community-based disaster risk reduction: origins, politics and framing, Disaster Studies Working Paper 20, Aon Benfield UCL Hazard Research Centre. INISDR, 2005, Hyogo framework for action 2005-2015: building the resilience of nations and communities to disasters, Kobe, Hyogo (Japan). Kennedy, D., 2009, Selling the distant other: humanitarianism and imagery – ethical dilemmas of humanitarian action, «Journal of Humanitarian Assistance», http://www.humansecuritygateway.com/showRecord.php?RecordId=28358. Lakoff, A., 2008, The generic biothreat, or, how we became unprepared, «Cultural Anthropology», n. 23(3), pp. 399-428. Lakoff, A., 2006, Preparing for the next emergency, «Public Culture», n. 19(2), pp. 247-271. Olwig M.F., 2010, Acquiring “social resilience” through global and local organizations in the face of the flooding in Northern Ghana, paper presented at the EASA’s 11th Biennial Conference, Maynooth, Ireland. Revet, S., 2011a, Penser et affronter les désastres: un panorama des recherches en sciences sociales et des politiques internationales, «Critique internationale», n. 52 [in corso di pubblicazione]. Revet, S., 2011b, The local-global disasters scene: an ethnographic approach to the reconstruction process that has followed the 1999 floods in Venezuela, in M. Benadusi, C. Brambilla, B. Riccio (a cura di), Disasters, Development and Humanitarian Aid. New challenges for anthropology, Rimini, Guaraldi [in corso di pubblicazione]. Revet, S., 2007, Anthropologie d’une catastrophe. Les colée de boue de 1999 ai Venezuela, Paris, Presses Sorbonne Nouvelle Sontag, S., 2003, Regarding the pain of others, New York, Picador/Farrar, Straus and Giroux. Walker, J., Cooper, M., 2011, Genealogies of resilience: from system ecology to the political economy of crisis adaptation, «Security Dialogue», n. 42, pp. 143-160.


Irene Falconieri Esigenze del territorio e politiche pubbliche. Il caso etnografico di un comune della Sicilia Nord-orientale

1. Nel 1992, in occasione del Decade for Natural Disaster Reduction (1990/99), il Department of Humanitarian Affairs delle Nazioni Unite redige e pubblica un glossario, l’Internationally agreed glossary of basic terms related to Disaster Management, risultato del lavoro congiunto di organizzazioni intergovernative, non governative e agenzie nazionali. Il glossario, che ha lo scopo di fornire definizioni di base e una terminologia comune e riconosciuta a livello internazionale relativa alla gestione delle catastrofi naturali, così definisce l’emergenza: A sudden and usually unforeseen event that calls for immediate measures to minimize its adverse consequences. Nella definizione ufficiale del termine perché ci sia emergenza deve sopravvenire un evento brusco e generalmente imprevisto che provoca conseguenze drammatiche su cui bisogna intervenire con tempestività e urgenza. Nel ventennio che ci separa dalla pubblicazione del glossario e dalla promulgazione delle legge che istituisce, in Italia, il Servizio nazionale della protezione civile1 il termine emergenza ha enormemente ampliato il suo campo semantico diventando una delle categorie più utilizzate nel linguaggio politico contemporaneo e in quello dei mezzi di comunicazione. Possono costituire emergenza l’esplosione di una centrale nucleare così come nevicate particolarmente intense, il traffico eccessivo che rischia di congestionare una città e l’arrivo improvviso di centinaia di migranti, la morte di civili durante una guerra e la gestione dei rifiuti. La crescita progressiva delle situazioni di rischio, la necessità di gestirle e prevenirle comportano spesso una riorganizzazione di poteri e competenze (Beck 1994) e rendono ogni aspetto della vita collettiva suscettibile di diventare fenomeno emergenziale gestito attraverso l’utilizzo di procedure d’urgenza. Il sociologo economico Tonino Perna ritiene che l’abuso dello strumento dell’emergenza e delle retoriche che lo accompagnano non risponda a logiche casuali ma segua un preciso progetto politico e comunicativo (Lucà Trombetta, Perna 1988). L’evocazione di una situazione di emergenza non deriverebbe tanto dalla necessità di risolvere con urgenza un problema quanto dal bisogno di riproduzione e legittimazione della classe politica. Come tenterò di dimostrare in seguito, quando diventa rilevante solo ciò che emerge si deificano elementi fortuiti e vengono innescati processi di deresponsabilizzazione dell’uomo, della società e della classe dirigente. La processualità storica sembra essere sospesa dalle retori-


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che istituzionali a vantaggio di un presente senza memoria e senza futuro che apre le porte ad una molteplicità di interpretazioni e manipolazioni. In Italia il ricorso a misure e strumenti non ordinari ha una tradizione consolidata. Giorgio Agamben considera il nostro paese un “vero e proprio laboratorio politico-giuridico” (Agamben 2003, p. 27) in cui, attraverso la procedura dei decreti d’urgenza, si sono sperimentati nuovi modelli legislativi che, nati come strumento derogatorio ed eccezionale, sono diventati fonte ordinaria di produzione del diritto. L’ampliamento dei poteri assegnati alla Protezione civile2 ha moltiplicato le “emergenze” italiane contribuendo a rendere lo stato d’eccezione il “paradigma di governo dominante nella politica contemporanea” (Agamben 2003, p. 23) e influendo negativamente sulle capacità di prevenzione e intervento nei territori esposti a diversi fattori di rischio3. 2. A un primo sguardo l’emergenza di cui parlerò sembra rientrare perfettamente nella definizione fornita dal glossario delle Nazioni Unite: si tratta infatti di una calamità naturale di proporzioni eccezionali che ha colpito un tratto ristretto di territorio provocando la morte di trentasette persone e ingenti danni ad abitazioni, infrastrutture e attività commerciali. Un’emergenza riconosciuta dallo Stato italiano che dovrebbe predisporre gli strumenti e le dotazioni finanziare per affrontarla. In realtà, se ci si allontana dalla via maestra addentrandosi per i sentieri impervi in cui si snoda, appare subito chiaro a chiunque abbia la possibilità di trascorrere del tempo nei luoghi colpiti, chiacchierare con le persone che li abitano, spulciare le relazioni tecniche prodotte dagli esperti e gli articoli della stampa locale, che l’alluvione del primo ottobre può ritenersi piuttosto un disastro annunciato da più voci da cui è assente l’elemento di imprevedibilità. Esclusa la fase iniziale, in cui le immagini e le storie raccontate riescono a mettere in scena uno “spettacolo del dolore” (Boltanski 2000) capace di suscitare forti emozioni e umana pietà, la tragedia di Messina somiglia a un’emergenza banale e silenziosa che non riesce a catalizzare l’attenzione dei media e l’interesse della classe politica nazionale. La scelta di concentrare la mia attenzione su fatti apparentemente insignificanti sul piano politico e mediatico dipende da due ordini di motivi. Proprio nella loro apparentante banalità essi rendono evidenti le conseguenze che scelte, decisioni e indirizzi politici stabiliti a livello nazionale e internazionale provocano su micro contesti locali, mostrando come una gestione perennemente emergenziale della cosa pubblica abbia indebolito le capacità e la volontà di progettazione e stia contribuendo a rafforzare una cultura dell’abitare e del vivere sociale ancorata ad un eterno presente, incapace di immaginare un futuro che vada oltre il domani. Gli eventi da cui partono le riflessioni che seguiranno mi vedono coinvolta in prima persona come cittadina del comune di Scaletta Zanclea e vittima dei fatti accaduti. Ho quindi avuto l’opportunità di osservare sin dall’inizio le retoriche politiche e mediatiche e le pratiche istituzionali con cui è stata, ed è tuttora, raccontata ed affrontata l’emergenza. Le teorie socio-antropologiche e il metodo etnografico hanno rafforzato la convinzione che i fatti a cui avevo preso parte dovessero essere letti ed interpretati come processi politici (Ligi 2009) e costruzioni sociali (Revet 2007) le cui radici si diramavano nella storia e di cui l’evento alluvione costituiva solo la parte emergente.


Contrada Foraggine 3.10.2009

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1. Nel tardo pomeriggio del giorno 1 ottobre 2009 la provincia Sud di Messina è stata teatro di un evento alluvionale di proporzioni eccezionali,4 seguito da colate di fango, detriti e rocce che hanno colpito con particolare drammaticità il centro abitato di Giampilieri e il Comune di Scaletta Zanclea. Il ricordo di quella sera, della notte che ne è seguita e dei frenetici giorni che caratterizzano la fase di prima emergenza, è inciso nella memoria e nei comportamenti di quanti lo hanno vissuto e costituisce tuttora un argomento di discussione capace di catalizzare contrastanti emozioni. Nelle conversazioni private, durante gli incontri con i rappresentanti politici e le riunioni dei comitati, l’alluvione è spesso evocata con una data: Il “Primo” ottobre. L’enfatizzazione del riferimento temporale costituisce un elemento fondamentale per comprendere quanto avvenuto poiché le diverse visioni del tempo proposte dagli attori sociali che operano sul territorio, i diversi modi di guardare al passato e progettare il futuro sono frutto dei numerosi interessi che si scontrano nell’arena del post emergenza e danno luogo a molteplici strategie retoriche e politiche5. Pur essendo una data simbolicamente rilevante, non per tutti il “Primo” ottobre riveste lo stesso significato. Gli abitanti di Scaletta lo evocano come momento estremamente drammatico ma comunque collocato all’interno di un processo storico che segue una linea di continuità con gli anni che lo hanno preceduto. Al contrario, molti tra i rappresentati politici nazionali e locali tendono a sottolineare esclusivamente la rottura temporale che l’evento ha rappresentato evidenziando, a volte, le potenzialità latenti della catastrofe6, altre,

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Storia di un disastro annunciato


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utilizzandolo come retorica discorsiva capace di deresponsabilizzare l’operato e le scelte politiche che lo hanno preceduto. 2. Nei giorni 20, 21 e 25 ottobre 2007 l’intero litorale ionico della provincia di Messina è colpito da colate di fango, alluvioni e dissesti idrogeologici diffusi che investono i centri abitati e le infrastrutture. La gravità della situazione fa sì che il Governo italiano, con il Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 21 dicembre 2007, dichiari lo stato d’emergenza e successivamente emetta un’ordinanza di Protezione civile7 che destina alle zone alluvionate finanziamenti per il valore di 3.000.000 di euro da considerarsi a carico della Regione Siciliana. Una cifra irrisoria vista l’ampia estensione dei territori interessati dai violenti nubifragi8, ma che dovrebbe essere seguita, nelle parole dell’allora Capo dipartimento della Protezione civile nazionale, Guido Bertolaso, dall’invio di ulteriori fondi straordinari necessari per la mitigazione del rischio idrogeologico. Il Prefetto della città, cui sono stati assegnati poteri straordinari, incarica il Genio civile di redigere una relazione che individui gli interventi prioritari per garantire la sicurezza dei centri abitati9. Come si desume dalle perizie, a Scaletta è indispensabile effettuare “urgenti e inderogabili interventi al fine di prevenire pericoli per la pubblica incolumità e che riguardano, prioritariamente, la messa in sicurezza dei versanti della montagna e la sistemazione idraulica e forestale dei corsi d’acqua”. Interventi urgenti e inderogabili che non saranno mai effettuati10 e trasformeranno l’emergenza in una scatola vuota, così come avverrà per l’inchiesta aperta dalla Procura di Messina. Un’inchiesta senza indagati, che non riesce a produrre elementi rilevanti. La realistica previsione di quanto sarebbe successo se il territorio fosse stato sottoposto a stress ambientali di particolare intensità, era dunque scritta nelle perizie degli esperti11 e sarebbe stata leggibile da quanti avessero avuto l’interesse a capire e prevedere. Essa inoltre era stata annunciata dagli abitanti del piccolo comune12. Le voci di chi quotidianamente vive quei luoghi si erano levate a più riprese per denunciare i numerosi disagi provocati dal dissesto e dall’incuria del territorio. La costituzione di un comitato cittadino, il “Comitato 25 ottobre”, nato con lo scopo di attenzionare alle autorità competenti le condizioni di rischio in cui erano costretti a vivere gli abitanti di Scaletta e l’organizzazione di manifestazioni di protesta non erano servite ad attirare l’attenzione dei media e della stampa, né l’interesse di quanti avrebbero avuto gli strumenti per intervenire sui luoghi e attenuarne le criticità.

I miracoli dell’emergenza e la strategia del disimpegno 1. Il primo ottobre 2009, mentre interi quartieri erano distrutti, e decine di persone, in poche ore, stavano perdendo quanto possedevano di più caro, a Scaletta Zanclea sussisteva ancora lo stato di emergenza; un secondo Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri ne aveva, infatti, prorogato i termini al 31 dicembre 200913. A emergenza si aggiunge quindi emergenza; si moltiplicano i disagi e le situazioni di sofferenza e quando ancora gli alluvionati sono intenti a scavare nel fango per cercare di salvare i dispersi e recuperare quanti più beni possibili,


L’esperienza dell’Aquila ci offre la possibilità di prevedere che questi nuovi quartieri potranno essere realizzati in quattro o cinque mesi. Ci sarà uno stop al pagamento di imposte e tasse e dei mutui: nessun cittadino colpito da queste tragedie naturali può dire di essere stato abbandonato14.

Entrambe le affermazioni sono esemplificative di una politica che, disattenta ai luoghi e alle storie che li animano è concentrata solo sull’evento e le molteplici opportunità che esso può rappresentare. Come dimostrato da numerosi rapporti tecnici15, seppure la provincia di Messina sia tristemente nota per fenomeni di abusivismo edilizio, esso non è in alcun modo da considerarsi tra le principali cause delle conseguenze nefaste dell’alluvione, attribuibili piuttosto alla leggerezza di alcune scelte territoriali che hanno accentuato gli effetti del dissesto idrogeologico. La costruzione di nuovi insediamenti abitativi, Particolare 21.11.2009

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la classe dirigente si prepara a trasformare quei luoghi in un terreno idoneo alla sperimentazione del modello già applicato all’Aquila con il progetto C.a.s.e. e la costruzione di new town (Caporale 2010; Frisch 2010). Modello che i cittadini scalettesi rifiutano con forza: de-localizzare le loro abitazioni significherebbe infatti distruggere anche l’ultima speranza di normalità, spezzare il filo che unisce il presente al passato. Le parole di uno degli uomini pubblici più apprezzati del momento, Guido Bertolaso e quelle del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, le responsabilità individuate dal primo e le strategie di intervento proposte dal secondo, lasciano aperte le porte a due possibili strategie: l’intervento massiccio e il disimpegno. Puntando subito il dito contro l’abusivismo edilizio come responsabilità prima del disastro, Bertolaso indica i cittadini e gli amministratori locali tra i maggiori colpevoli, allontanando così le polemiche dall’operato della Protezione civile negli anni intercorsi tra le due alluvioni. Contemporaneamente offre una valida giustificazione al progetto di delocalizzazione che sarebbe stato annunciato dopo pochi giorni: se le abitazioni sono abusive e rischiose, diventa allora indispensabile la loro demolizione e il ricollocamento dei proprietari in nuovi e più sicuri nuclei abitativi. Allo stesso tempo il Capo del Governo offre la sua immagine come garanzia dell’efficienza del nuovo modello d’intervento che in quel momento appariva ancora come vincente. A due giorni dall’alluvione, proponendo la costruzione di new town anche per Scaletta e Giampilieri, Silvio Berlusconi dichiara:


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quindi di ulteriore cementificazione, contribuirebbe inoltre ad aumentare i livelli di rischio in territori caratterizzati da forti criticità ambientali. 2. L’espressione “abuso del territorio”16, utilizzata da alcuni abitanti di Scaletta, sembra più indicata a esprimere una condizione complessa che chiama in causa molteplici attori poiché il suo spazio concettuale riesce più efficacemente a contenere una spiegazione pluri-causale dell’evento. Come emerso da conversazioni informali, essa racchiude tutti quei fenomeni che nel corso degli anni hanno contribuito a rendere la provincia di Messina un luogo particolarmente vulnerabile, e individua precise responsabilità che chiamano in causa aspetti politici e sociali della storia locale. La stessa proposta di costruzione di new town, espressione conosciuta attraverso i racconti aquilani e diventata tristemente familiare nel post alluvione, è percepita, nell’immaginario locale, come un ulteriore “abuso del territorio”, un’espropriazione degli spazi quotidiani. Un tentativo di “deportazione” delle comunità locali, lo definisce l’ingegnere capo del Genio civile, che avrebbe dei costi economici e un impatto ambientale fortissimi e non interverrebbe in alcun modo sulla mitigazione del rischio. Il progetto di costruzione di nuovi centri abitati finanziati dal Dipartimento della Protezione civile è presto abbandonato: non ci sono i numeri sufficienti per giustificare i massicci interventi di delocalizzazione inizialmente previsti e nessuno tra i soggetti coinvolti sembra accogliere con favore le proposte del Presidente del Consiglio. Svanita questa possibilità, l’emergenza alluvione torna a essere un’emergenza esclusivamente siciliana e le accuse di abusivismo edilizio, da esca-

Panoramica 3.10.2009


Scaletta Zanclea è il paese in cui sono nata ed ho trascorso la mia infanzia. Il paese da cui sono fuggita e in cui sono tornata a vivere dopo molti anni. La casa che abitavo, le cui pareti celavano a uno sguardo esterno la storia della mia famiglia, era collocata non troppo distante da un piccolo torrente. Da lì ho avuto la possibilità di documentare la prima alluvione, quella del 25 ottobre 2007 e parte della seconda. Immagini impresse nella memoria, di cui non è rimasta traccia fisica. Il pomeriggio del primo ottobre 2009, con l’aumentare progressivo e ininterrotto dell’intensità della pioggia è apparso chiaro a tutti noi che stava per ripetersi quanto già successo qualche anno prima. Come ho avuto modo di appurare chiacchierando e raccogliendo le testimonianze degli abitanti del quartiere più colpito, quello in cui anch’io abito, la capacità di leggere e interpretare i segni, acquisita durante la precedente esperienza, aveva dato a molti la possibilità e la lucidità di mettersi al sicuro, di non rimanere intrappolati in quello che di lì a poche ore sarebbe diventato un inferno di fango. Così come avevo fatto due anni prima anche quel giorno stavo tentando di documentare quanto accadeva convinta che questa volta sarebbe stato mio dovere utilizzare il materiale raccolto per denunciare l’incuria e lo stato di abbandono del quartiere. Non posseggo più quella documentazione. Nell’interminabile sera del primo ottobre ho rischiato la vita e perso tutto quanto era in mio possesso. Mentre molte tra le persone che incontravo parlavano di miracolo, di immensa fortuna, di mani protettrici che mi avevano tirato fuori dal fango, continuavo a chiedermi i motivi per cui il mio piccolo paese sul mare era stato distrutto e tante tra le persone che mi avevano visto diventare adulta stavano soffrendo. Dopo un breve e caotico momento iniziale, un post-emergenza esistenziale, come ho preso a definirlo, caratterizzato dal desiderio forte di fuggire dai posti e dagli accadimenti ma soprattutto dalle etichette di vittima e miracolata che da più parti mi erano affibbiate e che rischiavano di far diventare la mia storia un aneddoto da raccontare ho capito che per riappropriarmi di quei luoghi e di quella storia avrei dovuto immergermi completamente negli eventi provando a ricostruirli, a tracciarne alcuni possibili percorsi. All’impegno civile, attraverso la partecipazione alle attività di un comitato cittadino, si è aggiunto quello intellettuale rappresentato dal lavoro di ricerca nell’ambito di un dottorato in antropolo-

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L’impegno intellettuale come strumento di azione sociale

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motage retorico per giustificare delocalizzazioni e ricostruzioni incontrollate, si trasformano in una strategia di disimpegno politico nazionale. A Messina i finanziamenti per l’emergenza continuano ad arrivare con estrema lentezza. Neanche le successive frane del 2010 e i fenomeni alluvionali del marzo 2011, che hanno ulteriormente mostrato la fragilità del territorio e la necessità di interventi urgenti, sono riusciti a diventare segni per interpretare il futuro. Nelle parole degli “alluvionati”, alla rabbia va sostituendosi un senso di rassegnazione che rischia di vanificare ogni azione collettiva intrapresa per tentare di tutelare le comunità.


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gia. Le resistenze iniziali dettate dalla consapevolezza delle difficoltà di giustificare metodologicamente il mio lavoro e la mia posizione per essere legittimata a fare ricerca in un terreno che mi vede così intimamente coinvolta, sono state superate dal bisogno di contrapporre al racconto ufficiale degli eventi una storia che partisse dal basso. Il metodo etnografico e le ricerche condotte nell’ambito dell’antropologia dei disastri (Benadusi 2010, Langumier 2008), lo sguardo critico e decostruttivo familiare alla disciplina antropologica (Fabian, 1983; Clifford 1988; Marcus, Fischer 1986) non solo rappresentano per me il principale strumento di osservazione e analisi ma sono fondamentali nel determinare decisioni e strategie d’azione. Nello svolgere il mio ruolo pubblico ho scelto di utilizzare le retoriche del tempo, un tempo altro rispetto a quello dell’emergenza e delle sue logiche di esproprio, demolizione e delocalizzazione. Retoriche che parlano di un presente che non cancella il passato e che riesce ancora a immaginare possibili futuri. Retoriche che offrono un’immagine dei luoghi e degli avvenimenti contestualizzata e storicizzata, che possa costituire il fondamento per progetti di mitigazione del rischio e messa in sicurezza del territorio il più possibile confacenti ai bisogni della popolazione e alle caratteristiche dei luoghi. Numerose sono i dubbi, le delusioni, i momenti di scoraggiamento ma capita che si apra uno spiraglio, come quando apprendo la notizia che Antonello Ciccozzi, dell’Università dell’Aquila, è stato nominato consulente antropologo dai PM che si occupano dell’inchiesta. Avrà il compito di chiarire se le informazioni date alla popolazione dalla Commissione Grandi Rischi ne hanno condizionato il comportamento inducendola a rimanere nelle proprie abitazioni. Piccoli eventi che conferiscono senso a grandi progetti. Note 1

Legge n. 225 del 24 febbraio 1992. Il D.L. del 7 settembre 2001, convertito con legge 9 novembre 2001 prevede che le disposizioni che disciplinano lo stato di emergenza descritte dall’art. 5 della legge n. 225 del 1992 siano applicate anche alla dichiarazione dei grandi eventi e rientrino nella sfera di competenze della Protezione civile nazionale. 3 Per un’analisi dei poteri assegnati dal governo Berlusconi alla Protezione civile di Guido Bertolaso si veda l’inchiesta di Bonaccorsi, 2009. 4 In un tratto molto ristretto di territorio, vasto non più di 10 Km, tra il villaggio di Giampilieri e il Comune di Scaletta Zanclea, sono precipitati, in poco più di tre ore, 300 mm di acqua piovana e 1600 fulmini provocando quello che i tecnici hanno definito come un fenomeno del tipo “bomba ad acqua”. 5 Non è possibile in questa sede approfondire la molteplice interpretazione dell’evento fornite dagli attori che ne hanno preso parte. A titolo esemplificativo si riportano le parole di un piccolo commerciante la cui attività è stata distrutta da entrambe le alluvioni rilasciate durante una intervista ad un’emittente locale: “Io parto da lontano, parto da quel famoso 25 ottobre 2007 (…) I nostri sacrifici se ne sono andati perché non siamo stati aiutati allora e rischiamo di non essere aiutati neanche ora”; e la risposta che il sindaco di Scaletta, il medico Mario Briguglio da ai suoi cittadini che chiedono chiarimenti in merito alla gestione dell’emergenza durante il Consiglio comunale del 13.01.2013: “Dovete mettervi in testa che dopo il primo ottobre niente può essere come prima. Dovete abituarvi all’idea di un paese diverso”. 2


Bibliografia Agamben, G., 2003, Stato d’eccezione, Torino, Bollati Boringhieri. Beck, U., 1992, Risk Society: Towards a New Modernity, 1992, London, Sage; tr. it., 2000, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Roma, Carocci. Benadusi, M., 2010, Dopo il disastro. Ondate umanitarie e proiezioni di comunità sulle coste di Mawella (Sri Lanka), in Antropomorfismi. Traslare interpretare e praticare conoscenze organizzative e di sviluppo, Quaderni del CE.R.CO, Rimini, Guaraldi, pp. 247-268. Boltanski, L., 1999, Distant Suffering. Morality, Media and Politics, Cambridge, Cambridge Cultural Social Studies; tr. it., 2000, Lo spettacolo del dolore. Morale umanitaria, media e politica, Milano, Raffaello Cortina Editore. Bonaccorsi, M., 2009, Potere assoluto. La Protezione civile ai tempi di Bertolaso, Roma, Edizioni Alegre. Caporale, A., 2010, Terremoti Spa. Dall’Irpinia all’Aquila così i politici sfruttano le disgrazie e dividono il Paese, Milano, Rizzoli. Clifford, J., 1988, The Predicament of Culture. Twentieth-Century Ethnography, Literature and Art, Harvard University Press, Cambridge, M.A.; tr. it., 1993, I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel XX secolo, Torino, Bollati Boringhieri. Fabian, J., 1983, Time and the other, Columbia University Press, New York; tr. it., 2000, Il tempo e gli altri. La politica de tempo in antropologia, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo. Frisch, G. J., 2009, Un altro terremoto. L’impatto urbanistico del progetto C.a.s.e. in «Meridiana» 65.66 pp. 59-84.

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Per un’analisi delle possibilità economiche offerte dai disastri in un regime di mercato capitalista si veda Klein 2007. 7 OPCM n 3668 del 17 aprile 2008 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 28 aprile 2008, n. 99. 8 I territori in questione sono rappresentati dai comuni di Messina zona sud, Scaletta Zanclea, Itala, Alì, Nizza di Sicilia, Fiumedinisi, Roccalumera, Furci Siculo, Pagliara, Giardini Naxos, Castelmola, Letojanni, Gallodoro, Forza d’Agrò, Antillo, Savoca, Mandanici, Roccafiorita, Limina, Mongiuffi Melia, Gaggi. 9 Relazione dell’Ufficio del Genio civile: 25.10.2007 – Descrizione dei danni alle infrastrutture pubbliche e private nei territori comunali della fascia ionica della provincia di Messina. 10 Alle zone di Scaletta e Giampilieri sono destinati solo 92 mila euro prelevati dal bilancio della Regione Siciliana, sufficienti alla realizzazione di due interventi consistenti in imbracature di massi con reti metalliche ai piedi del costone della montagna più a rischio. 11 La relazione prodotta dal Genio Civile era stata consegnata a tutti gli enti preposti alla gestione dell’emergenza. 12 Molte delle persone con cui ho avuto la possibilità di confrontarmi negli anni intercorsi tra le due alluvioni hanno spesso dichiarato: “Aspettano il morto per intervenire”; “si preoccuperanno di noi solo quando morirà qualcuno”. Nei mesi successivi l’alluvione del 2009, il senso di sfiducia e rassegnazione sembra essersi intensificato in buona parte della popolazione che lamenta di essere stata nuovamente abbandonata “nonostante i morti”. Colloquio del 20 ottobre 2010. 13 Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 23 gennaio 2009: Proroga dello stato di emergenza in ordine agli eccezionali eventi atmosferici verificatisi nei mesi di settembre, ottobre e novembre 2007 nei comuni della fascia Jonica della provincia di Messina. 14 Ziniti A., Messina, il rapporto shock del 2008 “Tutta l’area a rischio disastro”, «la Repubblica» 4 ottobre 2009. 15 Dipartimento della Protezione civile regionale, Report settembre 2010: Emergenza 1 ottobre 2009. Giampilieri – Scaletta Zanclea – Itala. Analisi dello stato di dissesto idrogeologico a Messina prodotta dagli ingegneri C. Fulci e L. Santoro. Conferenza dell’Ordine nazionale dei Geologi tenutasi nell’aula consiliare di Scaletta Zanclea il 26.11.1009. 16 Colloquio informale registrato, 8.03.2010.

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Klein, N., 2007, The Shock Doctrine, Klein Lewis Productions Ltd; tr. it., 2009, Shock Economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, Milano, Bur Rizzoli. Langumier, J., 2008, Survivre à l’inondation. Pour une ethnologie de la catastrophe, Lyons, ENS Éditions. Ligi, G., 2009, Antropologia dei disastri, Roma-Bari, Editori Laterza. Lucà Trombetta, P., Perna, T., 1988, “Introduzione” in Emergenza e solidarietà internazionale. La cultura dell’emergenza di fronte alle istanze del Terzo Mondo, Milano, Franco Angeli, pp. 7-25. Marcus, G. E., Fischer, M. J, 1986, Anthropology as Cultural Critique. An exeperimental moment in the human sciences, University of Chicago; tr. it., 1998, Antropologia come critica culturale, Roma, Meltemi. Revet S., 2007, Anthropologie d’une catastrophe. Les colée de boue de 1999 au Venezuela, Paris, Presses Sorbonne Nouvelle.


Igor Scognamiglio Campania infelix Ha da passa ‘a nuttata (E.De Filippo, 1992)

Storia di ordinaria emergenza Purtroppo in Campania sembra che l’alba di un nuovo giorno sia ancora lontana da venire. Lo stesso dicasi per l’inizio di questa nuttata, cominciata un tempo ormai memorabile, e diventata sempre più luminescente a partire dal 11 febbraio 1994, dovuta al crescere di una luna mediatica. Da quella data, in Campania, e in particolare per le province di Napoli e Caserta, inizia un lungo periodo in cui la munnezza assume un ruolo preminente nell’agenda delle istituzioni preposte a governare il territorio, superando il confine della gestione ordinaria, ed entrando, di fatto, in una consueta emergenza. Dall’emanazione del decreto a firma del Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, è un susseguirsi di commissari straordinari che hanno il compito di risolvere un problema che assume dimensioni sempre più catastrofiche, coinvolgendo amministrazioni di destra, di centro e di sinistra. Il Governo nazionale, attraverso la gestione prefettizia dell’emergenza, si sostituisce a livello territoriale a tutti gli altri enti locali coinvolti nello smaltimento dei rifiuti, esercitando poteri commissariali straordinari. Tra il 1994 ed il 1996 la gestione dell’emergenza rifiuti trova una soluzione nell’ampliamento della capacità di sversamento attraverso la requisizione di diverse discariche private in tutta la regione: una pratica che diventerà consuetudine nel corso degli anni a venire. Corre l’anno 1997 quando, su sollecitazione del governo nazionale, il presidente in carica della Regione Campania, Antonio Rastrelli, pubblica il Piano Regionale per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani che prevede la costruzione di cinque termovalorizzatori e la realizzazione di quattordici impianti per la produzione di Combustibile Derivato dai Rifiuti (CDR), da cui deriveranno le ormai famose ecoballe, ridotti, poi, rispettivamente a due e sette. È il momento in cui il cielo di questa lunga notte di luna piena comincia a oscurarsi di nubi nere e minacciose, portando il caos istituzionale all’interno dell’emergenza, come evidenziato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse: La preposizione alla gestione del settore, con atti del Governo nazionale, di un Commissario straordinario, che risale ormai al 1996, si è calata, pertanto, in un contesto


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ordinamentale caratterizzato dalla contestuale presenza di poteri in materia in capo alla Regione, alle Province e ai Comuni. Il susseguirsi di normative nazionali e regionali che hanno spostato funzioni e compiti tra tali autorità ha ulteriormente accentuato l’incertezza. Ne sono derivate confusione nella predisposizione degli interventi e sfiducia della collettività nei confronti dei pubblici poteri. Quando non si riesce a rispondere alla domanda su “chi fa che cosa”, è inevitabile la sovrapposizione di interventi fra più autorità, o al contrario l’assenza di qualsiasi intervento. Viene così a mancare la responsabilità per l’esercizio delle prerogative istituzionali, il che diventa tanto più grave quando i problemi concreti continuano a presentarsi nel segno dell’emergenza. Tale opacità del quadro delle competenze e dei poteri ha avuto come effetto quello di determinare un vuoto decisionale sulle questioni centrali relative all’avvio di un ciclo integrato, creando le condizioni, per un verso, per la strumentalizzazione delle funzioni pubbliche per fini clientelari e, per altro, per l’infiltrazione della criminalità organizzata (Barbieri, Piglionica 2007, p. 9).

In attuazione del Piano, nel 1998, il presidente Antonio Rastrelli, ancora nella sua qualità di commissario straordinario, indice la gara d’appalto per affidare a un soggetto privato la gestione del ciclo dei rifiuti. Successivamente il governo regionale cambia orientamento: la sinistra vince le elezioni, capeggiata dall’ex sindaco di Napoli, Antonio Bassolino, che assumerà anche il ruolo di commissario straordinario all’emergenza rifiuti. È il 2000: la gara bandita due anni prima si chiude decretando vincitrice l’Associazione Temporanea di Imprese (ATI) denominata FIBE (sigla ottenuta dai nomi delle imprese Fisia Italimpianti, controllata del gruppo Impregilo, la stessa Impregilo legata al gruppo FIAT, Babcock Envinronment GmbH, Evo Oberrhausen), che si aggiudica l’appalto per la costruzione di sette impianti di produzione di CDR e di due inceneritori, nonché per la creazione di diverse discariche in Campania. La principale concorrente dell’ATI FIBE è capeggiata dall’ENEL, che non ottiene l’appalto in quanto perdente su due dei quattro criteri fissati dal bando di gara: “merito tecnico, valore tecnico delle opere, prezzo offerto, tempo di realizzazione e messa in esercizio” (Demarco 2007, p. 192). In relazione al merito tecnico e il valore tecnico delle opere FIBE ottiene rispettivamente il punteggio di 7,4 e 4,2 contro 8,6 della diretta concorrente. A fare la differenza sono i voti sul prezzo e sui tempi. Sul prezzo, la Fisia chiede 83 lire per ogni chilogrammo di rifiuti da smaltire, a fronte delle 110 lire della concorrente; mentre per i tempi si impegna a consegnare gli impianti entro 300 giorni, tre mesi in meno rispetto alla proposta dell’ENEL. Sia i costi che i tempi, per cause che la magistratura sta accertando, non sono stati rispettati (ivi, pp. 192-193).

Il Piano regionale resta un meraviglioso libro dei sogni. I lavori di costruzione del termovalorizzatore di Acerra vanno a rilento per le inadempienze contrattuali della FIBE e, nel 2001, scoppia una nuova crisi, causata anche dal mancato decollo della raccolta differenziata, per la quale erano stati assunti migliaia di lavoratori presso i vari consorzi di bacino costituiti appositamente. A prevalere è nuovamente la logica delle discariche, che divengono panacea di ogni problema. Al di là delle ragioni che sono al fondo di tale fallimento, l’assenza di un ciclo integrato dei rifiuti ha fatto sì che le discariche divenissero, da elemento accessorio, nodo assolutamente centrale nello smaltimento dei rifiuti.


Tra il 2001 e il 2003 sono realizzati gli impianti di produzione di combustibile derivato da rifiuti. “costruiti male e fuorilegge” (Calabria, D’Ambrosio, Ruggiero 2008, p. 77). Demarco individua proprio nel CDR il secondo aspetto peggiore della mediazione politica meridionale rinvenibile in questa crisi. Ben presto ci si accorge che sui depositi di ecoballe c’è un sospetto volo di gabbiani, veri e propri topi con le ali. Che ci fanno i gabbiani a Marcianise, nell’entroterra casertano? I gabbiani sono attratti dai rifiuti, ma a Marcianise ci sono solo le ecoballe che dovrebbero essere rifiuti trattati, privati cioè della parte umida, quella che puzza e inquina, ed ermeticamente protetta con una sottile pellicola di plastica. [In effetti] le ecoballe cominciano ad essere definite per quel che sono: “rifiuto solido urbano tal quale”. Balle e basta, insomma. Senza eco. (…) E in un caso, a riprova di un trattamento assai parziale dei rifiuti, viene addirittura trovata una ruota di autocarro con tanto di cerchione e pneumatico. Camera d’aria compresa (Demarco 2008, p. 193).

In diretta relazione con il CDR, Demarco individua il terzo elemento nelle aree di parcheggio delle balle, sempre “in attesa di essere bruciate. Circa sei milioni di ecoballe stoccate tra Giuliano e Villa Literno. Un’ecoballa per ogni abitante della regione. Per bruciarle occorreranno non meno di 45 anni” (Calabria, D’Ambrosio, Ruggiero 2008, p. 77). Infatti, a tal proposito, il giornalista napoletano cita le simulazioni elaborate dal professor Antonio Cavaliere, esperto in combustione. Pensiamo a un parallelepipedo di quindici metri di altezza, per dieci di larghezza e dieci di profondità, o meglio ancora, immaginiamo che tutte le mattine, insieme col sole, a Napoli sorga una nuova villetta di centocinquanta metri quadrati. Sembra assurdo ma è così: ogni giorno viene innalzata una palazzina di immondizia di due appartamentini su due piani. Cosicché i nostri avanzi, nell’arco di un anno, occupano lo stesso spazio di un quartierino di 365 villette a schiera (Demarco 2008, pp. 193-194).

Il problema che si pone al nuovo commissario succeduto a Bassolino, Antonio Catenacci, è dove collocare tutte queste balle di rifiuti. Egli ha bisogno ogni mese di ben quarantamila metri quadrati di terreno, cioè molto più dell’equivalente di un campo di calcio, facendo letteralmente impazzire il mercato dei siti di stoccaggio.

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Un ciclo centrato sulle discariche, oltre che contrario alla normativa europea, è in realtà un non-ciclo. Esso rappresenta la perpetuazione del sistema tradizionale di smaltimento dei rifiuti in Campania, con una novità non di poco conto: la possibilità di utilizzare i poteri extra ordinem propri dell’istituto del Commissariamento. Il che ha significato una progressiva estromissione dai circuiti gestionali degli ordinari meccanismi di controllo politico-amministrativi, con il conseguente isolamento della struttura commissariale (Barbieri, Piglionica 2007, p. 11).


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Da un lato ci sono cave colme di rifiuti di ogni tipo, successivamente coperte e trasformate in terreni su cui edificare, dall’altro siti di stoccaggio per le ecoballe: la Campania si trasforma in una regione dove nascono le città dell’immondizia, come quelle descritte da DeLillo. Le città crescevano sulla spazzatura, centimetro per centimetro, guadagnando in altezza nel corso dei decenni man mano che i rifiuti sepolti aumentavano. La spazzatura veniva sempre ricoperta o spinta ai margini, nelle stanze come nel paesaggio. Ma aveva un suo impeto e reagiva spingendo a sua volta. Spingeva in ogni spazio disponibile, dettando schemi di costruzione e alterando sistemi di rituale. E produceva ratti e paranoia. Così la gente era stata costretta a sviluppare una risposta organizzata, ovvero a inventarsi un modo ingegnoso per disfarsi della spazzatura e costruire una struttura sociale ad hoc – operai, manager, addetti alla rimozione, saccheggiatori. La civiltà è costruita, la storia è guidata. (…) La civiltà non era nata e fiorita tra uomini che scolpivano scene di caccia su portali di bronzo e parlavano di filosofia sotto le stelle, mentre l’immondizia non era che un fetido derivato, spazzato via e dimenticato. No, era stata la spazzatura a svilupparsi per prima, spingendo la gente a costruire una civiltà per reazione, per autodifesa. Eravamo stati costretti a trovare il modo di liberarci dei nostri rifiuti, di usare quello che non potevamo gettare, di riciclare quello che non potevamo usare. La spazzatura aveva reagito alla spinta crescendo ed espandendosi. E così ci aveva costretti a sviluppare la logica e il rigore che avrebbero condotto all’analisi sistematica della realtà, alla scienza, all’arte, alla musica e alla matematica. (…) Consuma o muori. Questo è il dettato della cultura. E finisce tutto nella pattumiera. Noi creiamo quantità stupefacenti di spazzatura, poi reagiamo a questa creazione, non solo tecnologicamente ma anche con il cuore e con la mente. Lasciamo che ci plasmi. Lasciamo che controlli il nostro pensiero. Prima creiamo la spazzatura e dopo costruiamo un sistema per riuscire a fronteggiarla (DeLillo 1997, pp. 304-305).

L’organizzazione di questa città della spazzatura, come la descrive DeLillo, conduce la Campania ai vertici delle classifiche per numero di assunzioni nel settore della raccolta dei rifiuti. Demarco individua proprio negli LSU, lavoratori socialmente utili, il quarto caso del degrado campano, all’interno del quale si condensano tutte le peggiori pratiche del malgoverno meridionale. “Lavoratori socialmente utili, disoccupati organizzati, precari. Circa 2.316 lavoratori con stipendi di oltre 2.000 euro al mese, per 14 mensilità e impegnati in partite di briscola e mai schierati operativamente a combattere la guerra dei rifiuti” (Calabria, D’Ambrosio, Ruggiero 2008, p. 77). Demarco sottolinea come sia una trasmissione televisiva a portare, per la prima volta, alla ribalta nazionale lo scandalo, il 19 novembre 2006, con un servizio approfondito e argomentato di Bernardo Iovene sugli LSU e la crisi campana, all’interno di Report in onda sui RaiTre.

Evidenze di infelicità La crisi che colpisce la Campania tra il 2007 e il 2008, e la successiva del 2010, sono connotate da aspetti che le rendono differenti all’interno di questa assurda vicenda. La prima nasce per la saturazione delle discariche esistenti, versate per ogni tipologia di rifiuto, autorizzato o meno. Al Governo è Romano Prodi, la Regione è ancora sotto la guida di Bassolino, alla Provincia di Napoli siede Dino


In sostanza, al danno si aggiunge la beffa: i rifiuti sono inviati in Germania, dove sono trattati in maniera tale da ricavarne risorse, che a loro volta sono vendute nuovamente all’Italia. Quello che potrebbe essere un vantaggio economico, per una realtà depressa come quella campana, viene trasferito all’estero, alimentando un circolo perverso. Eppure questa soluzione non riesce a risolvere il problema, dunque si ricorre all’apertura di nuove discariche, o di quelle precedentemente chiuse, perché sature, alimentando la ribellione delle popolazioni locali, già vessate da ogni tipologia di abuso. A essa partecipano gente comune ed istituzioni locali, marcando in maniera evidente l’inefficienza nella gestione dei rifiuti da parte delle autorità competenti. Purtroppo le manifestazioni di protesta si fanno anche violente, con fenomeni di vera e propria guerriglia urbana contro le forze dell’ordine che intervengono per sedarla: sono addirittura innalzate barricate al fine di ostruire il passaggio degli autocompattatori diretti verso le discariche. Tra i cittadini che costituiscono comitati autogestiti, si infiltrano gruppi antagonisti e di criminalità organizzata che aggravano la situazione, con episodi di vero e proprio teppismo, rendendo ancora più duro lo scontro con le forze dell’ordine, ormai schierate in costante assetto anti sommossa.

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Di Palma, mentre al Comune di Napoli è al suo secondo mandato Rosa Iervolino Russo. Tutte istituzioni rette da coalizioni di centro sinistra, che avrebbero dovuto garantire una linearità, in termini gestionali, decisamente efficiente. Eppure la crisi dei rifiuti campani riuscirà a minare le basi di ciascuna di esse, conducendo l’elettorato, nel corso del tempo, a scelte contrarie, anche per il Comune di Napoli, se inserito in un contesto di carattere nazionale. Commissario ai rifiuti è il prefetto di Napoli, Antonio Di Gennaro, che autorizza lo smaltimento dei rifiuti in Germania, all’interno di siti per i quali la spazzatura campana è considerata una miniera d’oro, come riporta un articolo dell’ANSA. I rifiuti campani già smaltiti in Sassonia non sono stati bruciati nei termovalorizzatori tedeschi, ma sono stati riciclati per ricavarne materie prime secondarie e composti organici che verranno venduti all’industria. Il percorso dell’immondizia italiana in Germania lo ha spiegato all’ANSA una portavoce del Ministero dell’Ambiente della Sassonia, sottolineando che niente è finito in discarica. “Questi rifiuti non sono stati bruciati” negli inceneritori, ha detto la portavoce. Anzitutto, ha spiegato sono stati separati i rifiuti organici da quelli solidi, che diventeranno poi materie prime secondarie (plastica, metallo, etc.). Il resto, “una parte minore – ha proseguito – è stato trattato in un impianto meccanico-biologico e verrà venduto alle industrie”, le quali bruciano questo materiale trasformandolo in energia. Ma il grosso dei rifiuti campani diventa materia prima secondaria. E l’Italia, oltre a fornire l’immondizia, svolge anche un ruolo importante nella fase successiva del percorso di quest’ultima. Il Paese, infatti, è al terzo posto, con 2,01 milioni di tonnellate, della graduatoria degli acquirenti di materie prime secondarie (ANSA, 2008).


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La voce dei cittadini Il caso rifiuti in Campania assume un rilievo mediatico enorme, emergendo addirittura a livello internazionale, con gravi ripercussioni sulla stagione turistica locale. Eppure, a tutta questa evidenza strutturata, si contrappone la voce dei cittadini, che disconoscono l’attività svolta dal Governo nella soluzione del problema e, soprattutto, cercano di evidenziare gli atti di forza nel contrastare la protesta da parte delle forze dell’ordine. Ad aiutare loro in questa difficile battaglia, riuscendo a emergere in termini comunicativi, è un uso cosciente della Rete, attraverso la pubblicazione, su diversi siti Web, di filmati amatoriali che denunciano lo stato in cui versano i comuni presso cui non viene effettuata la raccolta dei rifiuti e, allo stesso tempo, di altrettanti filmati in cui sono ripresi gli scontri con le forze dell’ordine, o lo stato di assedio nei quali sono tenuti i cittadini dei comuni presso cui dovranno essere aperte le discariche. Inoltre sono aperti blog nei quali viene raccontato quanto accade, con una diffusione informativa destrutturata e alternativa a quanto offerto dai mezzi di comunicazione di massa. In sostanza, da parte dei cittadini, in varie forme, viene praticata quella che Castells ha definito “autocomunicazione di massa”, considerandola comunicazione di massa. L’impatto di questa controinformazione consente di far emergere con maggiore chiarezza gli aspetti del problema, evidenziando come la commistione tra politica, a tutti i livelli, imprese, tanto settentrionali quanto locali, e criminalità organizzata, abbiano condotto la Campania sull’orlo del baratro. Come afferma Benkler, gli effetti dell’introduzione di Internet sono infatti variabili e dipendono da quanto vengono turbate le componenti strutturali della sfera pubblica esistente, affinché gli individui possano “aprirsi un varco attraverso le proprie vite, raccogliendo osservazioni e formandosi opinioni che non sono più semplicemente materia di riflessioni private, ma di una conversazione pubblica sempre più ampia” (Benkler 2006, p. 229). Gli effetti si manifestano in tutta la loro evidenza in relazione all’incapacità del governo di sinistra di risolvere non solo questa emergenza, ma anche altre questioni di carattere nazionale. Infatti la caduta del Governo Prodi consente a Silvio Berlusconi di essere nuovamente eletto alla guida del Paese, al termine di una campagna elettorale che ha visto il tema dei rifiuti in Campania come elemento prevalente di dibattito e scontro. Il 21 maggio 2008 il nuovo Governo appena insediato tiene il suo primo consiglio dei ministri proprio a Napoli, ed elabora gli elementi costitutivi del decreto legge n. 90 approvato il 23 maggio 2008, convertito in legge n. 123 il 14 luglio 2008, attraverso cui si creano nuove fattispecie penali, si istituiscono aree di interesse strategico nazionale (rinvenibili nelle discariche precedentemente individuate dal Governo Prodi e nelle aree dove sorge il termovalorizzatore di Acerra), si introducono norme processuali penali speciali in materia di competenza sui reati riferiti alla gestione dei rifiuti e ai reati ambientali, si autorizza la realizzazione di ulteriori nuove discariche, si procede in deroga alla procedura ordinaria in materia di Valutazione di Impatto Ambientale in relazione a determinate aree. Il problema sembra essere definitivamente risolto, tanto che in poche settimane la raccolta dei rifiuti torna ad uno stato di normalità, anche grazie all’intervento


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del Genio Civile, della protezione civile e dell’esercito. Alla rilevanza, anche mediatica, concessa all’azione di Governo nella risoluzione della crisi, non corrisponde altrettanta enfasi ai limiti imposti ai diritti civili dei cittadini che risiedono nelle aree dove saranno aperte le discariche, o che vivono ai confini del termovalorizzatore di Acerra, un’area già fortemente inquinata e satura di sostanze altamente nocive, in attuazione del decreto legge approvato. Intere aree sono praticamente militarizzate, creando una crisi sociale, che però viene opportunamente sottaciuta. Cala un’inesorabile cortina di ferro sulla crisi dei rifiuti in Campania, che ridimensiona di fatto i diritti umani, civili e politici di molti cittadini, e contribuisce a rafforzare nell’opinione pubblica nazionale l’idea che, di fronte al rischio derivante da una qualsiasi crisi, l’unica soluzione è la determinazione dell’azione di governo, anche attraverso l’uso della forza. La “società del rischio” è in verità un riflesso semplice e parziale della capacità istituzionale di procurare un elevato grado di certezza, e di promettere legittimamente una certezza sempre più ampia e profonda. La società delle istituzioni non è principalmente società del rischio ma una società del controllo che, nella sua formidabile riuscita e la sua struttura concorrenziale, non può evitare che i suoi utenti acquisiscano una coscienza importante dei pericoli che si promette di eliminare. (…) Questa contraddizione strutturale definibile paradosso della sicurezza è il processo principale di motivazione nelle società della modernità recente. È per questa crepa che entra sulla scena sociale il ragionamento difensivo e probabilistico di una sicurezza totale, autosufficiente e garantita che copre tutta la traiettoria della vita individuale e familiare (Lianos, 2001, p. 160). L’introduzione della società del rischio, dapprima con la gestione commissariale e poi attraverso quella penale e militare, genera un doppio clima di opinione, come lo definisce Noelle-Neumann, cioè un affascinante fenomeno che può solo insorgere in circostanze molto particolari, solo quando il clima d’opinione della popolazione e l’opinione predominante fra i giornalisti divergono. (…) Un “doppio clima d’opinione” significa che, a seconda dell’utilizzo che fa dei media, la gente percepisce un diverso clima d’opinione. (…) Ogni qualvolta la valutazione del clima d’opinione si differenzia in base al consumo dei media, vale la pena di verificare l’ipotesi che si abbia a che fare con una caso di effetto dei media (Noelle-Neumann 1993, p. 275). Quanto detto induce, l’opinione pubblica internazionale a considerare la crisi chiusa, grazie al contributo dei mass media, quando non lo è affatto, nonostante la dichiarazione ufficiale del Governo il 17 dicembre 2009. Inoltre la perdurante assenza di un compiuto ciclo integrato dei rifiuti, contribuisce a far riemergere la crisi nuovamente tra la fine del 2010 e il 2011, rendendo vano quanto previsto dalla legge approvata nel 2008. Alle luci della ribalta internazionale torna nuovamente Napoli e il suo cancro. Ma una nuova coscienza civile, animata anche dall’uso dei social network sembra volerlo definitivamente estirpare, al di là delle vane promesse di guarigione che le istituzioni continuano a propinare.


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Epilogo “Più i rifiuti saranno pericolosi, più diventeranno eroici. Terreno contaminato da radiazioni. Nel secolo a venire, arriveremo a considerare sacra questa terra, proprio come oggi la venerano gli indiani. Parco Nazionale del Plutonio. L’ultima dimora degli dèi bianchi. Turisti con maschere antigas e tute protettive” (DeLillo 1997, p. 306). Bibliografia Barbieri, R., Piglionica D. (a cura di), 2007, Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse. Relazione territoriale stralcio sulla Campania, Roma, Edizioni Camera dei Deputati. Benkler, Y., 2006, The wealth of networks: how social production transforms markets and freedom, Yale, Yale University Press; tr. it., 2007, La ricchezza della rete. La produzione sociale trasforma il mercato e aumenta le libertà, Milano, Università Bocconi Editore. Calabria, E., D’Ambrosio, A., Ruggiero, P., 2008, Biùtiful cauntri, Milano, BUR. Castells, M., 2009, Communication power, Oxford, Oxford University Press; tr. it., 2009, Comunicazione e potere, Milano, Università Bocconi Editore. DeLillo, D., 1998, Underworld, New York, Simon and Schuster; tr. it., 2000, Underworld, Torino, Giulio Einaudi Editore. Demarco, M., 2007, L’altra metà della storia. Spunti e riflessioni su Napoli da Lauro a Bassolino, Napoli, Guida. Lianos, M., 2001, Le nouveau contrôle social: toile institutionnelle, normative et lien social, Lille, L’Harmattan; tr. it., 2005, Il nuovo controllo sociale, Avellino, Elio Sellino Editore. Noelle-Neumann, E., 1993, The spiral of silence: public opinion, our social skin, Chicago, University of Chicago Press; tr. it., 2002, La spirale del silenzio. Per una teoria dell’opinione pubblica, Roma, Meltemi. Virilio, P., 1984, L’espace critique, Paris, Christian Bourgois éditeur; tr. it., 1998, Lo spazio critico, Bari, Edizioni Dedalo.


Giovanna Salome Gestione della catastrofe invisibile invisibile.. Le Drame del 16 agosto 2005 in Martinica1

La notte del 16 Agosto 2005 l’aereo MD-82 (della compagnia aerea colombiana West Caribbean) che effettuava il tragitto Panama-Martinica si è schiantato presso la regione montagnosa della Sierra di Perija, a 550 km a ovest di Caracas. Il disastro aereo ha comportato la morte di 152 passeggeri di origine martinicana e di 8 membri dell’equipaggio di nazionalità colombiana. La presa di coscienza dell’avvenuta catastrofe da parte dei familiari delle vittime e dell’intera popolazione martinicana indirettamente coinvolta dall’evento, non si è accompagnata a una visualizzazione dei segni concreti del disastro. Essa si è strutturata piuttosto a partire da canali differenti, quali l’annuncio ufficiale dell’incidente da parte delle autorità locali e la diffusione di particolari ed immagini della vicenda ad opera dei media che hanno contribuito a porre l’evento al centro di una mediatizzazione che ha reso possibile e alimentato la sua stessa esistenza. L’aereo, partito il pomeriggio del 15 Agosto con ampio ritardo da Panama City, era atteso sull’isola in tarda notte. Le ore di attesa trascorse tra il momento dello schianto e l’annuncio ufficiale del disastro, effettuato solo nella tarda mattinata del giorno seguente, hanno alimentato la confusione e i timori sperimentati dai familiari delle vittime, riuniti in attesa del ritorno dei propri cari nella hall dell’aeroporto del Lamentin. Le autorità locali hanno scelto di attendere alcune ore prima di effettuare l’annuncio ufficiale, al fine di poter disporre di un tempo minimo per mettere in azione un piano di contenimento della crisi, nonché per ottenere una conferma ufficiale da parte della Direzione dell’Aviazione Civile2. In poche ore la notizia dell’evidente ritardo del velivolo ha inziato a diffondersi sull’isola, e la paura che dietro tale ritardo potesse nascondersi qualcosa di più grave ha cominciato a serpeggiare tra i familiari in attesa. I notiziari esteri, come la CNN, hanno trasmesso a partire dalle prime ore del mattino il comunicato di un crash in Venezuela: “c’era un canale che mostrava la cartina di Maracaibo e il punto rosso lampeggiante. L’aereo è caduto. Non ci sono sopravvissuti”3. La catastrofe sembra spezzare l’equilibrio della comunicazione quotidiana comportando uno stravolgimento delle normali pratiche e un’accelerazione della percezione del tempo dettata dall’urgenza generata dall’evento: “Le premier signe d’un changement est l’annonce du drame qui s’effectue en


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deux temps: un bandeau défie en bas (ou en haut de l’écran) indiquant les grand caractéristiques de la catastrophe, puis une coupure d’antenne vient interrompre le cours des programme. On pénètre alors dans l’univers de l’édition spéciale” (Clavandier 2004, p. 33). Una parte degli abitanti è pertanto venuta a conoscenza del disastro aereo attraverso televisione, radio locale, telefonate con parenti residenti all’estero e internet ben prima di quei parenti che paralizzati dall’ansia erano rimasti in attesa all’interno dell’aeroporto. Questi ultimi hanno ricevuto conferma della morte dei propri cari solo a seguito dell’annuncio pronunciato da parte di un deputato martinicano dell’epoca: Sai, il mio cognome è Venkatapen, quindi è alla fine dell’alfabeto, ed è vero che quando ero in classe mi domandavo sempre perché mi chiamavano sempre per ultimo ed era quasi un’ingiustizia e poi questa volta quando hanno cominciato dalla A e i cognomi erano in ordine alfabetico questo ha fatto sì che il tempo scorresse ancora e mi dicevo quasi che non c’erano problemi, pronunciano dei cognomi, non diranno il mio e poi malgrado tutto il cognome è stato pronunciato e poi… è veramente allora, è veramente là come una specie di detonazione e poi, ecco è come, è in questo momento come se da qualche parte l’incidente si è prodotto là e ho realizzato, ci si è resi effettivamente conto che è la realtà. E in qualche modo lo choc è arrivato in quel momento4.

Il disastro aereo verificatosi sul continente sudamericano, al di là dei confini isolani, rappresenta una catastrofe dislocata in un altrove difficile da immaginare per la collettività martinicana. Il disastro irrompe bruscamente nella quotidianità isolana, delineandosi come un fatto sociale e politico, una realtà multiforme. I corpi delle vittime, ridotti a brandelli dall’impatto al suolo e rimpatriati a più di tre mesi di distanza dal disastro, hanno contribuito ad alimentare un vuoto capace di sollecitare nei parenti delle vittime delle risposte creative all’interno del processo di elaborazione del proprio lutto. Come i familiari delle vittime hanno dato senso a un evento violento ed inatteso? Quali reazioni e pratiche specifiche hanno messo in atto per rispondere alla crisi determinata dal disastro aereo? A partire dall’idea che una catastrofe non rappresenti un evento spazialmente e temporalmente circoscritto, bensì una realtà sociale e processuale (Hoffman, Oliver-Smith 1999), propongo una riflessione sul disastro martinicano seguendo una prospettiva che guardi all’evento non come un dato, ma come una costruzione sociale, un processo (Revet 2010). Il disastro non rappresenta un semplice agente esterno intervenuto a modificare equilibri precedenti e consolidati: esso è un evento che gli individui non si limitano a subire, ma vivono, incorporano e rielaborano, poiché : “disaster exposes the way in which people construct or frame their peril (including the denial of it), the way they perceive their environment, constitute their morality, and project their continuity and promise into the future” (Oliver-Smith, Hoffman 2002, p. 6). L’analisi di alcune pratiche discorsive e simboliche prodotte sul e attorno al disastro da parte dei parenti delle vittime, da me denominati le vittime indirette5, può offrire la possibilità di esplorare le strategie attraverso le quali gli attori sociali attribuiscono nuovi significati all’esperienza catastrofica e tentano di rispondere attivamente all’emergenza generata dall’evento partecipando al processo di costruzione sociale del disastro stesso. Se “Raconter sa catastrophe c’est aussi se


Immaginare il disastro: ““Le Le Drame” Drame L’incidente ha rappresentato per i familiari delle vittime, e per l’intera collettività martinicana, un evento eccezionale non solo a causa della distanza geografica che separava la popolazione dai segni tangibili del disastro, ma anche a causa del carattere violento di tali morti. L’evento si mostrava sfuggente, sfumato. Il processo di ricerca di senso ha richiesto in primis di dar forma all’evento per renderlo pensabile. La comunità martinicana ha dato vita nel tempo a un processo di addomesticamento della realtà catastrofica a partire da un atto di nomina. Attraverso un processo di appropriazione del linguaggio giornalistico, la catastrofe è diventata “le Drame”, un nome in grado di veicolare per le vittime indirette una modalità intima e condivisa per riferirsi al disastro, per poterne parlare. L’ invisibilità percettiva dell’evento, determinata oltre che dalla distanza fisica dai luoghi del disastro anche dall’assenza dei corpi delle vittime, si trasforma in un’invisibilità cognitiva (Ligi, 2009). Comprendere e accettare le Drame impone all’individuo di costruire delle rappresentazioni simboliche, narrative e visive dell’evento che permettano di poterlo immaginare e conoscere. La necessità di vedere con i propri occhi i luoghi nei quali si è consumato le Drame e di ricercare personalmente le tracce di un disastro solo intuito ha motivato, pertanto, la partenza di una folta delegazione di abitanti verso il continente sudamericano nei giorni successivi alla catastrofe. Il viaggio7 si configura per molti come un passaggio doloroso ma obbligato per “superare una tappa” dell’elaborazione del proprio lutto: “palpare un po’ meglio” – prendere visione dell’impatto prodotto dallo schianto al fine di accorciare una distanza fisica, percettiva e anche emotiva dall’evento. Le autorità francesi e

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raconter dans la catastrophe” (Revet 2008, p.429), le narrazioni possono rappresentare uno spazio intersoggettivo all’interno del quale le esperienze possono essere rappresentate e costruite. Attraverso una riflessione sul processo di ricerca di senso e di gestione dell’emergenza martinicana, attivata a seguito dell’incidente, procederò a un’analisi delle pratiche attraverso le quali gli attori sociali si dotano della possibilità di ricostruire, immaginare e affrontare la crisi generata dal disastro. La descrizione di alcuni strumenti utilizzati all’interno del processo di riappropriazione dell’evento si articolerà su due piani: uno più intimo, legato alla dimensione onirica alla quale gli individui fanno appello; uno pubblico connesso, invece, al processo di blaming di cui l’associazione dei familiari delle vittime - AVCA6- (costituitasi dopo la catastrofe) si fa portavoce. L’interpretazione e la rielaborazione del disastro aereo non rappresenta, dunque, un atto circoscritto al momento dell’impatto. Conferire senso alla tragedia sperimentata, ipotizzarne le cause si rivela non solo un passaggio obbligato per coloro che scelgono di non accettare passivamente il male provocato dal disastro, [poiché “un male senza senso farebbe troppo male” (Ligi 2009)] ma parte imprescindibile di quel processo di gestione dell’emergenza al quale i familiari delle vittime predono parte.


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venezuelane erano, tuttavia, consapevoli di non poter offrire ai familiari la possibilità di vedere un’ultima volta le salme dei propri cari, poiché deturpati a causa dell’urto violento dell’incidente. Ai membri delle famiglie recatesi in Venezuela fu mostrato, infatti, solo l’ingresso della stanza, presso la Facoltà di Medicina di Maracaibo, all’interno della quale i resti dei corpi erano conservati. Il problematico riconoscimento dei cadaveri, il difficile recupero e rimpatrio delle salme sull’isola, a più di tre mesi di distanza dal disastro aereo, hanno reso impossibile, pertanto, procedere al normale svolgimento delle cerimonie funebri tradizionali8, incidendo fortemente sull’immaginario collettivo delle famiglie. Immaginati sono, pertanto, gli ultimi istanti di vita delle vittime, delle quali non si posseggono reali testimonianze. Nessun passeggero è sopravvissuto all’incidente per raccontare cosa sia realmente accaduto e la registrazione estratta dalle scatole nere, rinvenute sul luogo del disastro, non ha permesso di ricostruire il momento dello schianto. L’impossibilità di immaginare le conversazioni, i sentimenti e le azioni delle vittime tormenta ossessivamente la memoria dei familiari, tanto da spingerli a porsi continuamente delle domande: “Come sono morti? Si sono resi conto che sarebbero morti? Hanno sofferto?”. Per tutte le vittime indirette questo si delinea come una delle caratteristiche peculiari dell’emergenza generata dal disastro. La diffusione, la socializzazione e l’interpretazione collettiva a posteriori di alcuni sogni si configurano come alcuni degli strumenti privilegiati per poter immaginare i particolari di un incidente che non è possibile ricostruire precisamente. Nel corso delle narrazioni le strategie retoriche messe in atto dagli attori sociali procedevano secondo una remémoration performative, dove rievocare permetteva di dar senso e concretezza ai ricordi e alle sofferenze sperimentate (Girard, Langumier 2006). Tuttavia, se da un lato raccontare consentiva di ripercorrere la disordinata esperienza catastrofica, dall’altro permetteva di plasmare nuovi strumenti e strategie per dar vita a un processo di risemantizzazione del disastro, parte di quel più ampio processo di gestione della crisi post-disastro sperimentata dai singoli individui. In tal senso, ritengo possa essere interessante riflettere sul ricorrente utilizzo da parte dei familiari dei segni premonitori nel corso delle narrazioni del proprio Drame. Per la maggior parte dei familiari era difficile accettare di “essere stati colpiti da un crash, quel genere di cose che si vedono alla televisione, che accadano in Francia, a Parigi”9. Il sentimento di impotenza percepito dinanzi al compimento di un disastro inaspettato, tuttavia, poteva forse essere attenuato dall’idea consolatoria che l’incidente non li aveva colti completamente alla sprovvista. Il racconto di alcuni segni premonitori, a tre anni dall’incidente, sembra offrire ai familiari l’occasione di venire a conoscenza dell’evento prima degli altri, sembra dotarli di strumenti utili per prepararsi emotivamente ad affrontarlo. Mia zia ha detto che la notte ad un certo punto (…) ha sentito come se le strappassero le interiora, ha avuto questa sensazione qua la notte (…) a partire da quel momento ha sentito che Jean era morto, nella sua testa era così, se le avessero detto il contrario ne sarebbe stata felice10.


Maëlle, che ha perso nel crash il cugino Jean e la sua fidanzata Sophie, esprime più volte nel corso dei nostri incontri la necessità di sapere come siano morti i suoi parenti. La donna attua una connessione tra il disastro e la dimensione onirica per riflettere sugli ultimi istanti di vita delle vittime. Maëlle mette in stretta correlazione due piani distinti in una logica di consequenzialità. In che modo l’attività onirica, esperienza che attinge profondamente alla sfera individuale dell’uomo, può costituirsi come una mediazione con la realtà catastrofica e come parte di quel processo di ricerca di senso che costituisce una parte fondamentale della gestione dell’emergenza da parte dei familiari a seguito del disastro? Nel corso di un’intervista decide di condividere con me un sogno fatto da una delle zie di Sophie. Sembrerebbe che ci sia una zia di Sophie che ha sognato la notte del crash, (ha sognato che) Sophie le diceva: “Zia, Jean mi ha lasciata”, e in effetti lei, nel suo sogno, le dice: “Beh, se ti ha lasciato, poco male, è la vita, troverai qualcun altro, etc.”. E avendolo fatto dopo il crash, che volesse dire in qualche modo: “Jean è morto prima di me”?. Perché è accaduto la notte del crash, dunque… non si saprà mai (…) dunque ci siamo detti che forse Jean era morto prima di Sophie e lei ha avuto il tempo di realizzarlo… non lo so… (…) ma lei ha fatto questo sogno12.

La lettura del sogno condivisa dalle famiglie di Jean e di Sophie permette loro di ipotizzare che il ragazzo sia morto prima di lei, lasciandola sola di fronte alla morte. Tale sogno, suscettibile di molteplici interpretazioni, impegna soprattutto la sfera femminile delle due famiglie in un processo di lettura e di elaborazione collettiva attraverso l’uso della parola onirica (Puccio, 1996). Se i segni premonitori sembrano pertanto permettere alla collettività di limitare l’azione del caso, nei sogni è possibile rintracciare forse uno strumento utile per immaginare l’inaccettabile. L’evento che segna dà vita a un processo interpretativo, più esattamente a una ricerca di indizi in grado di far emergere a posteriori ricordi di immagini oniriche suscettibili di alimentare un insieme di coincidenze con il disastro. Questo si chiama faire le rapprochement (Charuty, 1996). Quello che nel sogno appare una scena di vita vissuta, una ragazza lasciata dal proprio

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Per alcuni dei familiari il disastro aveva avuto inizio prima del suo annuncio ufficiale, ovvero al momento stesso dello schianto. I segni premonitori rappresentano forse la possibilità di anticipare l’evento inatteso, attraverso un intervento a posteriori sul racconto e sulla rappresentazione collettiva del disastro. La diffusione e la sedimentazione nella memoria collettiva di segni premonitori sembra veicolare la possibilità, da parte dei familiari, di ritagliarsi uno spazio di azione in cui limitare l’incontrollabile azione del caso. Tale strumento può configurarsi come uno dei tentativi di mediazione con la realtà catastrofica: attraverso le discussioni informali che ne permettono la trasmissione, i segni premonitori partecipano alla costruzione sociale del Drame.

Giovanna Salome

C’è chi ne è venuto a conoscenza in maniera differente, chi ha detto che il suo cane ha cominciato a piangere alle tre di mattina, perché l’incidente è accaduto alle tre di mattina, dunque c’è chi mi ha detto che si è svegliato alle tre di mattina … è vero, è falso, il loro sentimento dicono di esserne venuti a conoscenza alle tre del mattino11.


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fidanzato, a seguito dell’evento può, all’interno di un racconto a posteriori, trasformarsi in qualcos’altro. Il sogno sembra in grado di dire qualcosa in più su una morte oscura o su quei particolari di cui i famigliari sembrerebbero all’affannosa ricerca. La condivisione dei propri sogni all’interno del proprio gruppo familiare permette di convertire l’esperienza soggettiva del sogno in delle forme socialmente condivisibili e interpretabili. Sognando non si dà forma solo al proprio destino, ma anche a quello dei propri cari. Il messaggio veicolato dal sogno si costruisce, dunque, nella sua stessa socializzazione, ovvero nel suo racconto e nella sua elaborazione. L’importanza del sogno non si esaurisce pertanto nella codifica del messaggio, ma si rintraccia nella potenza generata da un linguaggio che permetta di parlare dell’interdit, di quegli ultimi minuti di vita prima dello schianto ed in questo modo del Drame (Puccio, 1996). Il significato che è possibile attribuire a tali rielaborazioni può essere dunque ricercato nella necessità dei familiari di conoscere per dare senso al disastro, intervenendo su di esso attraverso una modifica della narrazione stessa dell’evento. I sogni, in tal senso, possono configurarsi come uno spazio di azione per le vittime indirette, attanagliate da un senso di colpa generato dal non aver potuto aiutare i propri cari e dal non aver potuto essergli vicino nel momento del trapasso.

Il processo di attribuzione di colpa Il processo di risignificazione dell’evento si struttura anche attraverso un’imperante necessità di ricostruire le supposte cause e responsabilità all’origine della catastrofe. L’associazione dei familiari delle vittime, l’AVCA, nasce a pochi giorni dall’incidente con l’obiettivo di promuovere un’operazione di sostegno (psicologico, sociale ed economico) per le famiglie coinvolte, di ricercare la verità e determinare le responsabilità del disastro aereo e di fare in modo che ciò non si ripeta. L’idea che l’incidente aereo possa “essere accaduto per caso” si rivela, infatti, inaccettabile per la maggior parte dei familiari. Nella mia ricerca etnografica è emersa, da parte delle vittime indirette, non solo una radicata disillusione nei confronti di un progresso incapace di eliminare ogni sorta di pericolo dalla realtà, ma anche una profonda sfiducia nei confronti delle istituzioni che presiedono alla gestione e al controllo del progresso stesso. L’interpretazione della catastrofe da parte della popolazione martinicana travalica i confini della dimensione locale per giungere a una messa in discussione di un sistema legislativo e amministrativo più ampio. L’accusa pronunciata da parte dell’associazione si rivolge in primis all’aviazione civile francese che gestisce il controllo della sicurezza aerea. Essa viene ritenuta colpevole di non aver preso in considerazione la pericolosità della compagnia colombiana, già protagonista nel corso del 2005 di un altro incidente aereo. Nell’accusa rivolta da parte del presidente dell’AVCA l’aviazione civile diviene il simbolo dell’emanazione diretta del potere statale francese. All’interno di tale processo di ricerca di colpa lo stato francese viene, dunque, additato quale responsabile di una tragedia annunciata.


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Il processo di attribuzione di colpa portato avanti da parte dell’AVCA, può essere dunque riletto attraverso la nozione di blaming proposta da Mary Douglas: “L’ipotesi soggiacente è che, all’interno di un’organizzazione, ogni disgrazia di una certa gravità susciti una serie di interrogativi sulle responsabilità” (Douglas, 1996 [1982], p. 68). Nel caso di una catastrofe tecnologica, tali responsabilità, attribuibili esclusivamente agli uomini, risultano per i miei interlocutori ancora più imperdonabili. Se il blaming può essere considerato parte di quel processo di ricerca di senso attuato da una parte delle vittime indirette, ciò che, a mio avviso, risulta importante individuare sono le specifiche modalità attraverso cui esso viene messo in atto dai membri dell’associazione martinicana. L’elaborazione individuale del disastro si inscrive all’interno di un processo di ridefinizione identitaria attivato da parte di un disastro che colpisce, secondo molti familiari, l’intera popolazione martinicana: “era un popolo a essere rappresentato nell’aereo e io penso che questa sia la differenza. È un popolo che è stato colpito”14. Credo pertanto che occorra rileggere il processo di accusa rivolto alla statalità alla luce della complessa relazione intrattenuta da parte della Martinica, terra di schiavitù, colonia e dipartimento francese d’oltre mare oggi, con la Francia continentale. L’orizzonte di senso all’interno del quale la costruzione della catastrofe viene negoziata da parte degli attori sociali si è dunque costruito nella lunga durata, frutto di stratificazioni e sedimentazioni storiche che hanno contribuito a plasmare la realtà sociale martinicana. Comprendere la percezione della catastrofe sull’isola ci obbliga, pertanto, a inserire il processo di attribuzione di colpa all’interno della complessa dinamica centro-periferia che contraddistingue il rapporto tra la Martinica e la Francia. I riferimenti al sistema giuridico, e ai sistemi di controllo sulla sicurezza aerea, sono funzionali alla creazione di un confine immaginato a partire dal quale le vittime indirette possono avanzare delle richieste e rivendicare la propria centralità all’interno dell’evento catastrofico. Ogni società a seconda delle istituzioni che la controllano e dei conflitti che al suo interno si dispiegano, elabora le proprie originali soluzioni al problema della definizione dei pericoli e delle responsabilità. Affermare che il male è stato prodotto da un elemento esterno alla società, offre la possibilità agli attori sociali di ritracciare i confini della stessa collettività colpita, rafforzando l’ideale comunitario locale (Douglas 1996). Tale discorso inoltre trova una stretta rispondenza non solo sul piano simbolico, ma anche sul piano esperienziale, poiché esso agisce nella formulazione delle strategie di comportamento e nelle pratiche da adottare in casi critici, utili a canalizzare un malessere che in questo modo è possibile esorcizzare e manifestare secondo delle modalità socialmente codificate.

Giovanna Salome

Mi sono ritrovato in Francia a discutere con dei deputati e non dei deputati neri, dei deputati bianchi… che mi dicono: “Quest’aereo non sarebbe decollato da Parigi!”. Allora non decolla da Parigi, ma può decollare dalla Martinica? La Martinica non è in Francia? Allora lo è teoricamente, lo è sui documenti ma non nella pratica… (…) Cosa fa che un aereo di questo tipo sia stato scelto per la Martinica e la Guadalupa? Sarebbe stato scelto, in Francia? Ma perché [per] loro le frontiere dell’Europa sono la Francia e basta, ma qui si entra in un dibattito politico, l’aereo non è caduto dal cielo e bum13!


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Conclusioni L’analisi del processo di riappropriazione e di risemantizzazione del disastro mi ha condotto a riflettere su alcune specifiche pratiche agentive plasmate da parte delle vittime indirette al fine di rendere il disastro pensabile (l’atto di nomina dell’incidente e la narrazione di alcuni segni premonitori), comprensibile (il viaggio dei familiari in Venezuela e l’intepretazione dei sogni) e più accettabile (il processo di blaming formulato all’interno dell’AVCA). Il disastro irrompe nella realtà martinicana e genera dei vuoti che impongono a ogni individuo, intimamente colpito dal Drame, di attuare un processo di ricerca di senso attingendo i propri strumenti all’interno dell’ universo sociale nel quale egli è immerso. L’emergenza sembra delinearsi per i gli attori sociali sulla base di un’assenza (di corpi, di segni tangibili del disastro, di una gestione istituzionale efficace…). La comunicazione mass-mediatica, attraverso una scrittura sensazionalistica, interviene inoltre ad amplificare una distanza dall’evento pur offrendo dei mezzi utili ad attivare una forma virtuale di socialità che permette agli individui di condividere la realtà catastrofica esperita. Le vittime indirette ricercano all’interno del proprio gruppo familiare e della più ampia rete associativa una condivisione e una conferma della propria condizione di sofferenza. Attraverso la socializzazione del disastro essi danno forma al proprio dolore e al proprio vissuto oggettivandola in storie che, a diverso livello, partecipano alla costruzione sociale del Drame. Addomesticare il disastro, tentare di prevederlo e risemantizzarlo permette alle vittime indirette di riposizionarsi dentro e fuori l’evento, di conferire senso al disastro. Accorciare la distanza dal disastro, attingendo alla ricchezza del mondo onirico, dà forma a una necessità interpretativa, alla ricerca di indizi che aiutino a ricomporre il proprio universo di senso perduto, limitando l’inaccettabile azione del caso. La volontà di ricondurre l’esperienza onirica alla realtà esperita, attraverso la formulazione di un messaggio dal valore premonitore, sembra costituire per i familiari la possibilità di plasmare uno spazio di azione all’interno del quale ritagliarsi un ruolo attivo dinanzi all’emergenza generata dalla catastrofe. Parallelamente, all’interno dello spazio associativo, gli individui sembrano dotarsi della possibilità di rispondere all’emergenza attraverso un processo di attribuzione di responsabilità, in grado di trasformare le morti provocate dall’incidente non in una mera conseguenza del caso, ma in una ragione per combattere attivamente affinché un evento del genere non si verifichi più in futuro. Note 1 La ricerca etnografica è stata condotta in Martinica, dipartimento francese d’oltre mare (DOM-TOM), nel corso del 2008, tre anni dopo l’incidente aereo. 2 La notizia dello schianto fu comunicata inizialmente alle sole autorità, poiché la CCI (Chambre de Commerce et Industrie), che ha la concessione aeroportuale non aveva la facoltà di dare l’annuncio ufficiale fin quando esso non fosse pervenuto direttamente dalla direzione dell’Aviation Civile. A chiunque telefonasse per avere notizie del volo non veniva rilasciata alcun tipo di


Bibliografia Charuty, G., 1996, «Destins anthropologique du rêve», Terrain, n. 26, Mars, pp. 5-18. Douglas, M., 1996, Risk and Blame, London, Routledge; tr. it., 1982, Rischio e colpa, Bologna, Il Mulino. Girard, V., Langumier, J., 2006, «Risques et catastrophes: de l’enquête de terrain à la construction de l’objet», Genèses, n. 63, pp. 128-141. Hoffman, S.M., Oliver-Smith, A. (eds.), 1999, The Angry Earth. Disaster in Anthropological Perspective, London, Routledge. Hoffman, S. M., Oliver-Smith, A. (eds.), 2002, Catastrophe & Culture. The Anthropology of Disaster, eds., Santa Fe, NM: School of American Research Press. Ligi, G., 2009, Antropologia dei disastri, Bari-Roma, Laterza. Puccio, D., 1996, «Les rêves de Teresa», Terrain, n. 26, Mars, pp. 19-36. Revet, S., 2008, «L’ethnologue et la catastrophe», Problèmes d’Amérique latine, n° 69, Été-2008, pp. 99-120. Revet S., 2010, «Le sens du désastre. Les multiples interprétations d’une catastrophe “naturelle” au Venezuela», Terrain, n. 54, mars 2010. Salome, G., 2009, «Le Drame: percezione e costruzione sociale di una catastrofe in Martinica», Tesi di Laurea in “Discipline Etnoantropologiche”, Sapienza – Università di Roma.

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informazione, al contrario era richiesto sistematicamente di dirigersi personalmente in aeroporto dove una cellula di soccorso era stata velocemente costituita. 3 Intervista a François del 02/08/08. 4 Intervista a George del 23/07/2008. 5 In questa sede non è possibile esplorare la complessità della categoria di vittime indirette alla quale faccio riferimento. Tuttavia ritengo necessario esplicitare come tale categoria nasca dall’interazione e la competizione tra la categoria di vittima sancita dal diritto francese e internazionale in materia di incidenti collettivi, nonché dall’autodefinizione di vittima propugnata dall’associazione dei familiari delle vittime. Secondo le norme giuridiche in vigore solo i parenti in linea diretta possono rientrare al suo interno e richiedere un indennizzo, mentre per l’associazione tutti i parenti e amici che si ritengono gravemente coinvolti dall’evento possono rientrare in tale categoria. Per eventuali approfondimenti, cfr. Salome 2009. 6 L’association des victimes de la catastrophe aérienne du16 Août 2005 au Venezuela. 7 Durante la settimana successiva all’incidente aereo il dipartimento martinicano e lo stato francese hanno messo a disposizione due aerei per condurre una parte dei familiari e delle autorità locali in Venezuela. 8 Non mi è possibile esplorare in questa sede il tema della morte e della rielaborazione del lutto da parte delle vittime indirette a seguito del disastro, per eventuali approfondimenti cfr. Salome 2009. 9 Intervista a Stéphanie del 13/08/08. 10 Intervista a Maelle del 04/08/2008. 11 Intervista a Florent del 12/08/2008. 12 Intervista a Maelle del 04/08/2008. 13 Intervista a Fulbert del 05/08/08. 14 Intervista a Fulbert del 05/05/08.



Reset



Marina Boscaino La descolarizzazione a tappe forzate

Se dovessi pensare in termini sintetici la cifra di questo nostro tempo incerto e oscuro, penserei alla mancanza di indignazione. Penserei all’assuefazione, all’omeostasi del nostro spirito critico e della nostra reattività, annacquati, fiaccati e rammolliti dentro tempeste di notizie che perdono lo spessore del significato in una teoria di numeri, cifre, immagini che hanno smarrito l’aura. E che non significano più ciò che indicano, ma rappresentano un tributo indispensabile al rituale della (dis)informazione. Poi, come una ventata d’ossigeno inaspettata, arrivano segnali insperati di ripresa, di ritorno a se stessi, alla partecipazione, a quella parte, un tempo inalienabile, che è stata la cittadinanza attiva: questo hanno indicato le amministrative di giugno; questo – a maggior ragione – ha raccontato la grande vittoria nei referendum. Torno a sognare un mondo in cui una sinergia di forze, una militanza rinata sotto il segno comune dell’interesse generale, un’idea di bene comune coinvolgano non solo l’acqua, non solo la tutela dell’ambiente, ma la scuola pubblica. Temo che difficilmente questo possa accadere: l’agenda politica dei partiti, anche dei più sensibili, la tensione dei cittadini, anche più consapevoli, raramente si rivolgono verso la scuola. Eppure questa – come la sanità – è, individualmente o collettivamente, personalmente o indirettamente, qualcosa con cui abbiamo tutti avuto a che fare nell’arco della vita (a prescindere dalla fase della nostra esistenza che vi abbiamo trascorso), l’elemento forse più collettivo della Repubblica e lo strumento più significativo che un Paese ha per puntare a crescita e progresso, in una prospettiva lungimirante, svincolata dalla immediata contabilità del profitto.

Delegittimazione programmatica L’emergenza democratica – di cui si parlava a gran voce anni fa, ai tempi del fulgore pieno, tenace, inattaccabile del berlusconismo – si è tradotta in normalità paradossale ma non più sconvolgente, con la quale convivere in inerziale acquiescenza: leggi, comportamenti, costumi, affermazioni ad personam che hanno suscitato immediate reazioni solo in chi era già contro; anni pesanti, di inversione destabilizzante delle norme democratiche, esternazioni provocatorie e populiste,


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demagogiche promesse mendaci. Sebbene pesantemente attaccata, sia nella funzione sia nell’impianto, la scuola è rimasta fuori da tutto ciò. Ci furono fugaci promesse – nel pieno della campagna elettorale del 2001, quella della scuola “delle 3 i” – quando Berlusconi si sbilanciò in un’impegnativa quanto strumentale profferta: “ricopriremo d’oro gli insegnanti” (disse testualmente, con la consueta sobrietà). Da allora i nostri salari non sono mutati di una virgola; ma è aumentato a dismisura il tasso di delegittimazione che il governo – tra l’epica del fannullonismo di Brunetta e l’accusa di pericoloso sovversivismo comunista del premier, che ha incolpato a più riprese la scuola di “inculcare principi” contrari a quelli delle famiglie, trovando in ciò un facile appiglio per favorire nelle intenzioni e nei fatti le scuole paritarie – ha riversato sul personale della scuola pubblica. Operazione con doppia valenza: da una parte, la presunta inadeguatezza dei lavoratori della conoscenza accompagnava e dava significato all’azione di taglieggio della scuola pubblica che, al di là di dietrologie e allarmismi, ha l’amaro sapore di un’opera di volontaria dismissione dell’istituzione, della funzione e dei valori che essa rappresenta. Semplicemente liquidata, insieme a tutti i principi che essa ha incarnato e incarna. Dall’altra, una scure implacabile si abbatteva violentemente sulla creazione di pensiero critico e pensiero divergente, tentando sistematicamente quella reductio ad unum che avrebbe consentito sia di limitare il dissenso contro le politiche scolastiche sia di aumentare la possibilità di ridurre gli studenti a consumatori acritici. Le cose, per fortuna, qualche volta non sono andate proprio come avrebbero voluto i cantori del pensiero unico.

Impoverimento economico e culturale In ogni caso, tranne che in quel maldestro tentativo cui si è accennato, la scuola non è mai stata – a differenza di altri settori della società – oggetto di attenzioni (per quanto manipolatorie e fittizie) né di blandizie da parte dei governi Berlusconi. Immediatamente in essa si è individuato una sorta di nemico. Vuoi per l’ostinata mania ad identificarla come enclave di comunisti sessantottini; vuoi perché Berlusconi e i suoi non hanno mai fatto mistero di una sostanziale estraneità a fattori quali cultura e cittadinanza, che trovano il proprio luogo geometrico privilegiato proprio nella scuola. E così – da Moratti a Gelmini – si è individuato


Il progressivo imbarbarimento Ecco l’emergenza: il progressivo imbarbarimento del punto di vista su ciò che la scuola debba essere, sul suo mandato, sulle sue specificità – determinato da aperture neoliberiste degne delle peggiori tradizioni, condivise spesso trasversalmente dalle differenti compagini politiche, ma i cui migliori seguaci sono nel centrodestra – ha depotenziato la forza di impatto di principi ideali che ne costituivano il DNA. Non è stata l’acritica difesa d’ufficio dell’esistente a spingere gli insegnanti ad una resistenza ai limiti del verosimile, in un silenzio assordante di società civile e politica. Proprio la consapevolezza della perfettibilità dell’idea bella di scuola pubblica alla quale molti si sono formati e che hanno tentato di praticare, ci ha invece consentito di continuare a segnalare illegittimità, incuria, inerzia, indifferenza, impoverimento: la scuola delle 5 (vere) i.

La descolarizzazione a tappe forzate 135 Marina Boscaino

nella pubblica istruzione un possente serbatoio di risparmio, operando, come in macelleria più che sul tavolo da chirurgo, tagli che solo in parte si è tentato di rubricare sotto la mendace etichetta di riforma pedagogica. In realtà, pedagogia e didattica sono elementi assolutamente alieni al pensiero mercantilistico che, in maniera trasversale, ma certamente esasperata da parte del centrodestra, si è deciso di sovrapporre all’idea di scuola pubblica. E perciò non stupisce la cinica condotta dell’attuale governo, che sin dai primi interventi ha programmaticamente sostenuto la necessità di una “cura da cavallo”, nonché di un impoverimento economico, ma soprattutto culturale, della nostra scuola: a che serve la scuola pubblica? A cosa serve investire sulla scuola pubblica? Atteggiamento in completa controtendenza rispetto a quanto praticato dagli altri Paesi UE: disinvestire sulla cultura nei periodi di crisi è una scelta e non un dogma. “L’istruzione e la ricerca sono pilastri per la futura sostenibilità della nostra società”: così Merkel. La manovra quadriennale tedesca di 80mld, che punta a ridurre il deficit di quel Paese dal 5% al 3% entro il 2013, salvaguarda dodici miliardi di investimenti pubblici in ricerca, sviluppo e istruzione. Non tutta l’Europa è Bel Paese. L’emergenza, le emergenze che hanno investito la scuola pubblica negli ultimi anni in un sostanziale silenzio disinteressato dei media, occupati a raccontare più che altro il “folklore” dei precari in mutande, o i fasti dell’Onda, senza rendersi conto della tragedia culturale che si sta verificando nel nostro Paese, hanno ovviamente il sapore dei miliardi tagliati: otto, nello specifico, dal 2009 al 2011, a seguito di una Finanziaria, quella del 2008, in cui è confluita la legge 133/08 che con l’art. 64 – inserito nel suggestivo Capo II intitolato “Contenimento di spesa nel pubblico impiego” – la dice lunga sulle intenzioni e i principi a cui si ispira. Non per caso da esso derivano il decreto 169/08, quello del maestro unico e del bluff di “Cittadinanza e Costituzione” (annunciata, contratta nelle ore curriculari esistenti – poi tagliate – mai praticata, insomma) e i regolamenti della scuola superiore. Vuol dire, cioè, che le sedicenti “riforme” rivendicate dal governo trovano la propria esplicita ragion d’essere nel contenimento di spesa nel pubblico impiego: al diavolo il resto: didattica, cultura, cittadinanza! A cosa servono?


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Sarebbe lungo riepilogare le numerose sentenze avverse all’amministrazione che in questi anni hanno scandito le vicende della scuola italiana, quasi sempre in accoglimento di istanze dei lavoratori, parte di quei 130 mila senza volto che – tra docenti e Ata – sono stati lesi in un proprio diritto. Più utile e indicativo sottolineare come i campi di violazione vadano naturalmente a colpire gli elementi più deboli del sistema e gli ambiti più nevralgici di quella attuazione del dettato democratico che è la scuola della Repubblica: precariato, integrazione, svantaggio. Al punto da rendere i primi una sorta di categoria sociologica a se stante, etichetta in sé di uno stare al mondo negativo (e non del tutto esente da colpe, quando viene citato dal pensiero meritocratico, interventista e discriminatorio dei vari Brunetta di turno) e soprattutto irreversibile. Gli altri – quelli da integrare, gli svantaggiati, siano essi migranti, diversamente abili o semplicemente alunni in ritardo e che debbano essere reinseriti dignitosamente nel circuito scolastico – un problema fastidioso, affrontato in maniera sbrigativa e semplicistica, alla luce di una falsa democrazia e di un mal interpretato egualitarismo, senza un barlume di ricorso a tecniche di relazione, mediazione, pratiche didattiche alternative. Si ricordino – e sono solo alcuni esempi – le fantasiose iniziative leghiste sulle classi-ponte (nelle quali confinare tutti i migranti di un istituto), fortunatamente non accolte; o la sentenza 80/2010 della Corte Costituzionale, secondo cui sono illegittime le norme che fissano un limite al numero di posti degli insegnanti di sostegno (anch’essi sottoposti a razzia dalla l. 133/08) e che vietano di assumerne in deroga, in presenza di studenti con disabilità. Che il progetto politico del centrodestra consideri una necessità emarginare gli elementi deboli è evidente soprattutto dalla cosiddetta riforma della scuola superiore. Quella i cui regolamenti, appunto, sono stati dettati dal contenimento di spesa nel pubblico impiego. La nostra scuola è qualcosa di molto diverso da ciò che l’art. 3 della Costituzione sollecita in maniera mirabile: determinazione di condizioni identiche per ciascun cittadino, principio di uguaglianza. La scuola pubblica italiana, quella che – sempre secondo il dettato dell’art 3, 2° comma (È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese) rappresenta indubbiamente lo strumento più potente che lo Stato ha per tentare la rimozione di quegli ostacoli, delle barriere, degli svantaggi che l’origine socio-economica può imporre dal momento della nascita. Eppure, contrariamente a quanto previsto dal dettato costituzionale, la nostra scuola da strumento di rimozione, da ascensore sociale, si è trasformata progressivamente in dispositivo di immobilizzazione delle origini e delle provenienze. Nell’indifferenza generalizzata. Su questo tema si è giocata la partita del mancato innalzamento dell’obbligo scolastico a 16 anni, sostituito – nella trasversale fede nel valore taumaturgico delle parole e nella disinteresse dei più – dall’obbligo di istruzione: in sostanza, alcuni cittadini quindicenni assolvono l’obbligo interamente dentro la scuola costituzionalizzata (pubblica e, ahimé, paritaria): i liceali; altri nel concorso di quella e di agenti estranei ad essa, le agenzie formative (gli studenti di tecnici e professionali).


La Riforma contro la Scuola Non è un mistero che esista un rapporto necessario e specifico tra provenienze socio-economiche-culturali, rendimento scolastico e valutazione finale nella scuola media. Nei Paesi che praticano una valutazione seria del sistema e degli apprendimenti, esso viene individuato attraverso l’analisi della collocazione dell’istituto e della provenienza dell’utenza. Nel nostro Paese gli esiti sufficienti e mediocri della scuola media finiscono per confluire automaticamente – là dove non si disperdano o vadano ad aumentare le file dei lavoratori precoci – nell’istruzione tecnica e specialmente in quella professionale, che peraltro, accoglie la gran parte degli alunni migranti. Nell’a.s. 2008/09 su 130.012 alunni stranieri iscritti alle superiori, 27.895 frequentavano licei e istruzione artistica, 102.117 frequentavano istruzione tecnica e professionale1. Analogamente, nell’a.s. 2007/8 su un totale di 439312 studenti con disabilità iscritti alle superiori, 8586 frequentavano i licei e l’istruzione artistica, 34345 il segmento tecnico-professionale, di cui 25182 il professionale. È abbastanza per concludere che un Paese che avesse davvero a cuore cittadinanza garantita a tutti, diffusione di una cultura analogamente spendibile, crescita e il progresso, sarebbe approdato al convincimento che proprio sull’istruzione tecnica e professionale si dovesse incentrare un progetto di revisione didattico-pedagogica sostanziale, attraverso un impegno di risorse economiche, intellettuali, culturali in grado di rendere quel segmento del nostro sistema formativo idoneo a svolgere un ruolo emancipante. Invece è accaduto proprio il contrario. La cosiddetta riforma Gelmini, nel quadro di tagli draconiani del personale, con conseguente riduzione di tempo scuola, configura – grazie anche alla riforma del Titolo V della Costituzione e devoluzione dell’istruzione professionale alle Regioni – 20 sistemi scolastici differenti, che fotografano precisamente le diverse

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Infine, dallo scorso ottobre, alcuni assolveranno l’obbligo di istruzione nell’apprendistato. Nel nostro Paese, dunque – anomalia assoluta nell’Europa dei 27, la V ginnasio equivale a un anno di avviamento precoce al lavoro. Siamo davvero sicuri che i profili d’uscita del cittadino quindicenne di serie A (liceale) e di serie B (lavoratore) siano identici? Siamo davvero certi che entrambi abbiano goduto di quanto previsto dall’art. 3? Insistere su questi interrogativi non è più di moda: nessuno in questo momento sta cercando risposte significative, tantomeno oneste. Discorsi di questo tipo risultano misteriosamente impopolari, tanto a destra quanto a sinistra. Forse qualcuno intuisce che dire obbligo scolastico a 16 anni significa lavorare alacremente su un progetto diverso dall’esistente, per una scuola autenticamente riformata, messa in grado di accogliere differenti stili esistenziali, cognitivi, vocazioni, problematiche, lavorando anche sulla mediazione e la cura. Lontano anni luce dalla scuola-Gelmini, progetto discriminatorio che prende impropriamente il nome di riforma. Che amplifica a dismisura le condizioni di finto egualitarismo tra cittadini, sottolineando – attraverso un indebolimento programmatico dei segmenti più bisognosi di sostegno del sistema dell’istruzione superiore – la differenza di trattamento tra nati bene e svantaggiati.


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condizioni di vita e sviluppo che caratterizzano le aree da Milano ad Agrigento. L’unitarietà del sistema scolastico nazionale è un principio suggestivo evocato, ma di fatto non praticato; i proverbiali LEP (Livelli Essenziali di Prestazione) stentano non solo ad essere osservati, ma addirittura definiti; un diplomato di Enna non ha le stesse conoscenze, competenze e opportunità di uno di Cuneo o di Verona.

Il pregiudizio economicista Ecco l’emergenza: la scuola sembra aver definitivamente perso la propria specificità. Parlare della scuola, legiferare sulla scuola, riformarla, significava – ormai molto tempo fa – adottare un punto di vista che non potesse evitare di partire da pedagogia, didattica, antropologia, sociologia, psicologia, epistemologia. Oggi questo approccio è stato definitivamente affossato, indicato come inutile, liquidato frettolosamente insieme ai principi su cui la scuola della Repubblica si è determinata. Ad esso si è sostituita una lettura economica (o, meglio, economicista). Ma ancora di più – ed è fenomeno di questi ultimissimi anni – la scuola pubblica è trattata come amministrazione. Per la prima volta, nella figura del ministro della Pubblica Amministrazione e dell’Innovazione, Renato Brunetta, e nella sua rievocazione continua di concetti come semplificazione, efficienza, merito, disciplina, de-sindacalizzazione, che coinvolgono anche la scuola, assistiamo a una completa omologazione acritica della scuola alla PA. Si tratta di un passaggio culturalmente molto significativo e dagli effetti devastanti. Esso nega, in buona sostanza, alla scuola la propria unicità, insistendo esclusivamente su forma dei rapporti lavorativi, organigrammi, ratio delle figure professionali e non sul contenuto dell’impegno professionale. Che è un elemento – in questo caso più che in ogni altro – dirimente e fondativo. L’ansia di gerarchizzazione, di ordine (presunto), di autoritarismo, di premialità priva di parametri oggettivi per determinare il premio, di merito senza merito effettivo – che si coniugano con la manovra economica, che a sua volta “semplifica e razionalizza”, perché taglia definitivamente fuori una generazione di lavoratori – è il fulcro di un progetto che volontariamente evita di riconoscere alla scuola dignità professionale e gestionale autonoma e dimensioni culturali quali la collegialità, che sono il frutto della faticosa ricerca e dell’impegno di chi per anni ha investito sulla funzione emancipante e acculturante della scuola pubblica.


Sono anni che non ci si interroga più su cosa, come e perché insegnare. Si è rinunciato a studiare, a definire un impianto che possa dare il senso del rapporto reale tra la scuola e la complessità e la diversità, le cifre del nostro tempo. Il mandato della scuola è stato smarrito, svuotato, neutralizzato nella sua portata rivoluzionaria, relegando la scuola pubblica a serbatoio di risparmio, con un accanimento che confida – e la manovra economica che sta prendendo corpo proprio mentre scrivo e che dovrebbe ulteriormente penalizzare la scuola ne è ulteriore prova – sull’inerzia e sul senso di sconfitta di molti docenti e sul silenzio di gran parte di coloro che avrebbero strumenti e mezzi per sensibilizzare sulla catastrofe culturale (oltre che occupazionale e in termini di diritti) che si sta consumando. E ora che il berlusconismo sta mostrando segni di cedimento, ora che malinconicamente si sta annunciando il tramonto di un’epoca, il silenzio sulla realtàscuola fa ancora più impressione, racconta un’afasia che non è attesa del momento propizio, ma mancanza di prospettiva, di idee, di proposta politica.

Preveggenza della Repubblica Tra i meriti che coloro che ci governano hanno avuto c’è stato quello di far avvicinare alcuni di noi in modo più consapevole e attivo alla Carta Costituzionale. Tempo fa alcuni principi erano talmente scontati e si avviavano ad essere metabolizzati in maniera così automatica nella coscienza individuale e collettiva, da non aver bisogno di essere continuamente richiamati, evocati, ribaditi. Oggi non è più così. La difesa della Costituzione è diventata da un lato – come i numeri dei tagli e la protesta a suon di slogan – un atteggiamento di maniera, quasi l’esibizione di un viatico per autodenunciare a quale parte politica si fa riferimento. Dall’altro, però, essa è diventata altrettanto imprescindibilmente (e più seriamente) elemento identitario con il quale fare i conti in modo analitico, attraverso approfondimento, studio, necessità di comprendere la ratio alla base di determinati principi, norme, vincoli, libertà. La Costituzione è in pericolo perché in essa è scritta e descritta l’idea di una società giusta troppo diversa da quella che stanno cercando e in parte sono riusciti a mettere in piedi. Una società basata su principi di equità e giustizia, dove l’interesse generale non è mai subordinato al vantaggio di pochi. Dove le norme per essere tali devono seguire procedure e rispondere ad una esigenza autenticamente condivisa.

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Insegnanti: il mandato smarrito

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Funzione che nessun elemento della pubblica amministrazione può rivendicare come suo proprio. Questa “descolarizzazione” a tappe forzate della scuola e del Paese non potrà non produrre effetti catastrofici di cui – se la scarsa propensione alla rendicontazione (prima di tutto da parte del Governo) e la capacità di manipolazione dei dati ad uso e consumo della propria tesi continueranno ad essere l’unica forma di feedback disponibile – apprezzeremo gli effetti quando non ci sarà davvero più nulla da fare.


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Dove la Repubblica è garante e propugnatrice del bene di tutti, ed ha la funzione di partecipare – in ogni suo atto – alla costruzione di una società equa e di ribadire implacabilmente l’universalità di alcuni principi, di alcuni diritti e di alcuni doveri. Oggi che i valori costituzionali sembrano assumere sempre più la fisionomia di elementi prevalentemente formali, siamo stati reclutati tutti – come cittadini – all’esercizio della vigilanza. E tutti sentiamo la necessità di un nuovo, vero programma politico. La preveggenza sta lì, da sempre, nella Costituzione repubblicana. In essa la lungimiranza dei costituenti ha evidenziato – ponendoli affermativamente – tutti quei principi che la storia avrebbe avuto la tentazione (e, spesso, la capacità) di violare. La preveggenza (per quanto riguarda la scuola e le derive che sta subendo) sta soprattutto in quel capolavoro di equilibrio e di intenzioni positive che è l’art. 3, nella funzione suprema della Repubblica di individuare strumenti per la rimozione di ostacoli che impediscano la piena espressione della persona umana. La scuola pubblica è lo strumento per eccellenza: scuola intesa come elemento di dinamica socio-economico-culturale, come mezzo e luogo di emancipazione, ugualitarismo, pari opportunità. Ma non solo. Art. 9: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica”. (Entrambi, artt. 3 e 9, tra i principi fondamentali, imprescindibili e prevalenti rispetto a tutti gli altri, quelli che orientano prioritariamente azione, idee ispiratrici, vincoli, identikit di un Paese. Entrambi violati dalla deculturazione coatta che il neoliberismo galoppante e una visione asfittica del domani hanno imposto. ) Art. 33: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. (Ognuno di questi commi ci parla di una libertà. Nessuna è incondizionata, totalizzante, arbitraria, come invece quelle propugnate e praticate da chi in quella bella parola ha trovato la legittimazione alla propria mancanza di limiti. Le scuole private paritarie sono talmente libere da poter essere anche confessionali, purché siano “senza oneri per lo Stato”, che asseconda – a sua volta – il legittimo diritto per tutte e per tutti di frequentare scuole pubbliche, in cui sia assicurato il principio della libertà di insegnamento: non arbitrio soggettivo, ma garanzia collettiva. ) Art. 34, ecco i primi 3 commi: “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. (Si tratta di uno degli incipit più solenni e suggestivi, commovente direi, che evoca con toccante semplicità la grandezza di un’idea, di un principio, di un’istituzione, dello Stato che l’ha concepita.)

Chi ha dedicato la propria vita allo studio della Carta ha scritto parole illuminanti sulla Costituzione. Non è perciò mio compito né mia ambizione cimentarmi in un’attività che non mi compete. Ma credo comunque di poter dire che la riflessione quotidiana sull’oggi e su quel testo illuminante non può che mettere in evidenza il processo di de-costituzionalizzazione avviato nel nostro Paese. E al contempo farci tenere salda la barra della direzione da prendere, con consapevolezza, motivazione, intransigenza, dignità.


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1 “Gli alunni stranieri nel sistema scolastico italiano, a.s. 2008/9â€?, a.c. Servizio Statistico Miur, dicembre 2009. 2 DisabilitĂ in cifre, http://www.disabilitaincifre.it/indicatori/istruzione/istruzione.asp

Marina Boscaino

Note



Stefano Cristante Scienze della comunicazione tra “amenità” e proiezioni I rumors, le dicerie, sono vecchi quasi quanto la storia dell’uomo. Ma con la nascita di internet sono diventati onnipresenti. Ne siamo sommersi. Le voci false e infondate sono particolarmente moleste, provocano un danno reale a individui e istituzioni e spesso sono refrattarie alle correzioni. Possono minacciare carriere, programmi politici, funzionari pubblici e a volte la democrazia stessa. (Cass R. Sunstein, Voci, gossip e false dicerie, Feltrinelli 2010, p. 11)

Rai 3, 11 gennaio 2011. Va in onda il talk-show Ballarò. Mariastella Gelmini, Ministra della Scuola e dell’Università, rispondendo a una sollecitazione di Giovanni Floris, così si esprime: “(...) Allora è chiaro che i giovani sono – come dire? – sfiduciati, esiste un problema di precarietà, di difficoltà, nel rendersi autonomi dalla famiglia, nel poter avere dei figli. La condizione giovanile presenta dei problemi, ma la soluzione non è cavalcare le paure, piuttosto è avanzare delle proposte. Noi abbiamo pensato per esempio alla riforma della scuola superiore che ha voluto dare peso specifico all’istruzione tecnica e all’istruzione professionale perché riteniamo che piuttosto di tanti corsi di laurea inutili in Scienze delle Comunicazioni o in altre amenità servano profili tecnici competenti che incontrino l’interesse del mercato del lavoro.” Chiede Floris: “Scienze della Comunicazione viene classificata come amenità tout-court?” Risponde la Ministra: “Beh insomma, diciamo che non aiuta a trovare lavoro, questi sono i dati...” Floris: “Dipende come la fai però...” Gelmini: “No, le dico che purtroppo sono più richieste lauree di tipo scientifico, lauree che in qualche modo servono all’impresa.”1 Due anni prima (19 gennaio 2009) era stato il discusso anchor-man Bruno Vespa a dettare la linea culturale dominante. Al termine di una trasmissione di Porta a porta dedicata a un delitto efferato (caso Meredith), Vespa esclamava, rivolgendosi a un gruppo di studenti liceali presenti alla trasmissione: “Abbiamo bisogno di ingegneri, abbiamo bisogno di tecnici importanti. Una sola preghiera: non vi iscrivete a Scienze della Comunicazione, non fate questo tragico errore, che paghereste per il resto della vita!”2 Più o meno nello stesso periodo (marzo 2009) il Ministro del Lavoro Sacconi dichiarava alla stampa: “Nel curriculum di una persona, di un giovane in particolare, peserà nel dopo crisi anche la sua capacità di essersi messo in gioco, di aver accettato anche un lavoro manuale, umile. Conterà nel suo curriculum se è stato disponibile a svolgere un lavoro anche semplice con il quale ha imparato ad essere responsabile di una mansione, a raggiungere un risultato. Certo se è laureato in Scienza della Comunicazione non è che abbia molto appeal”3.


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Fino a qui il centrodestra. Ma anche Romano Prodi, Premier del Governo di centrosinistra dal 2006 al 2008, aveva più volte fatto notare come l’alto numero di iscritti a Scienze della Comunicazione rispetto alle facoltà scientifiche fosse indice di un cattivo rapporto tra la formazione e il mercato del lavoro4. Insomma, la considerazione negativa sui nostri corsi di laurea sembrerebbe politicamente bipartizan, seppure con un ben più evidente grado di stigmatizzazione da parte del centrodestra (fino al grido di dolore di Vespa, vera e propria perla comunicativa di questi anni). Quindi, verrebbe da pensare, di fronte a una così forte accentuazione critica vi saranno dati oggettivi che impongono ai politici e ai giornalisti considerazioni così pesanti. Invece no. I dati forniti da AlmaLaurea – ritenuti puntuali e credibili dalla comunità scientifica – non descrivono alcuno stato di emergenza dei laureati in comunicazione italiani, che a cinque anni dalla laurea (vecchio ordinamento quinquennale) lavorano nell’87% dei casi (contro una media nazionale dell’82%) e che anche nella laurea triennale sono sopra la media (49 contro 42,4%). Benino anche le nuove lauree specialistiche, con il 60% di occupati contro il 57% della media nazionale5. Se dunque la situazione dei laureati in Scienze (plurale) della Comunicazione (singolare; cfr. www.miur.it) non è peggiore di quella di tanti altri laureati (anzi, nella maggior parte dei casi è decisamente migliore) perché da parte della classe politica italiana nel suo complesso vi è un tale accanimento? Su cosa si fonda questo accanimento? Per senso di responsabilità le risposte a questi interrogativi vanno esaminate in chiave autocritica. Una prima notazione riguarda la strategia organizzativa attraverso cui si sono articolati i corsi di studi in Scienze della Comunicazione in Italia. Nel nostro Paese i media studies di elaborazione anglosassone sono giunti con molto ritardo. Mentre nel resto d’Europa prendevano piede in modo sempre più consistente – fin dagli anni Sessanta del Novecento – le aree di ricerca e di didattica in comunicazione (di massa, di impresa, pubblica, e così via) in Italia si è dovuto attendere l’inizio degli anni Novanta per i primi corsi (Salerno, Siena e Torino in primis, poi Roma “La Sapienza” e Lumsa). Corsi salutati da un subitaneo successo di partecipazione studentesca, verificabile nel grande afflusso di domande per sottoporsi al test di ammissione (i corsi erano a numero chiuso). In alcune realtà si poté optare, dopo un quinquennio di cosiddetta sperimentazione, addirittura per l’istituzione di nuove facoltà intitolate alle scienze della comunicazione. Tra queste nuove facoltà non si può non ricordare quella istituita presso “La Sapienza” di Roma, che raggiunse l’iperbolica cifra di circa 16mila studenti iscritti, diventando una delle facoltà più popolose d’Italia. Nel mentre però si liberalizzavano le iscrizioni cominciava, praticamente nello stesso periodo, una diminuzione (lenta ma progressiva) delle iscrizioni stesse, che coincideva a sua volta con una diffusione sempre più massiccia dei nuovi corsi in tutta Italia (più di settanta nei primi anni del 2000, un numero probabilmente eccessivo). Per capire il fenomeno occorre riandare al clima culturale presente in quegli anni nelle università italiane: l’esigenza di una riforma – sentita da settori am-


Prima di passare a esaminare un possibile insieme di motivazioni politico-culturali esogene anti-scienze della comunicazione vorrei ricordare inoltre un paio di autogol messi a segno dagli stessi corsi di laurea in Scienze della Comunicazione. Mi riferisco ad alcune celebri lauree honoris causa. In particolare quella a Vasco Rossi e quella a Valentino Rossi entrambe del 2005. L’intento autopromozionale delle università appariva evidente: piazzando un prodotto come Vasco o come Valentino nelle corde dei media si intendeva offrire una ribalta agli stessi corsi di studio, e attraverso questi alle università di insediamento. Più iscrizioni uguale più budget. E i media reagirono come previsto, dando ampio spazio alle cerimonie di laurea dei notissimi personaggi, con il loro ampio seguito di simpatia giovanile. Tuttavia fu sottovalutato l’effetto boomerang di quelle trovate apparentemente felici. Perché tra tutte le facoltà esistenti in Italia si scelse proprio Scienze della Comunicazione per laureare quelle celebrità? Perché – si disse – i due Rossi sapevano comunicare. In che senso? Nel senso che di fronte alle telecamere erano spesso disinibiti, divertenti e un po’ sopra le righe. Ciascuno a suo modo: Vasco con più irriverenza, Valentino con più ingenuità e tenerezza. Ma, soprattutto, erano incontestabilmente famosi e iper-mediatizzati. Ne esce un ritratto senz’altro poco articolato (del senso) delle scienze della comunicazione, e degli apparati scientifici

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plissimi della docenza e della popolazione studentesca – venne incanalata normativamente nella direzione del cosiddetto sistema del 3+2 con crediti formativi obbligatori (Cfu). Si sono spesi da allora fiumi di inchiostro sulla presunta bontà di questo sistema, su cui non intendo soffermarmi (anche se, come molti colleghi, ho maturato nel corso degli anni una valutazione assai critica su questo nuovo apparato organizzativo). Per quanto riguarda i corsi di Scienze della Comunicazione, è innegabile che il 3+2 abbia portato a due conseguenze: da un lato una formattazione/omologazione dei nostri corsi rispetto a tutti gli altri (va ricordato che le prime lauree in comunicazione erano a percorso quinquennale, a differenza di tutte le altre lauree di stampo umanistico, all’epoca quadriennali). In secondo luogo una frammentazione delle pratiche di insegnamento attraverso una distribuzione di crediti formativi in misura minima (ricordo personalmente insegnamenti che si componevano di soli 2 Cfu). Ciò non è imputabile alla cattiva fede di docenti e presidenti dei corsi: la verità è che l’arrivo del nuovo sistema colse tutti impreparati. In molte situazioni si credette di poter utilizzare le opportunità del 3+2 inserendo piccoli moduli che – nelle intenzioni dei proponenti – avrebbero esteso e ampliato le conoscenze degli studenti, non riuscendo a prevedere, invece, il pericolo di una frammentazione e di una parcellizzazione delle conoscenze. Moltiplicando gli insegnamenti da pochi crediti si è anche evocato un certo numero di docenze “esterne” (di derivazione più o meno professionale) all’interno dei nostri corsi, senza possedere né i budget per ancorarle continuamente alla didattica né la disponibilità a organizzare dei concorsi per rendere stabili queste presenze nell’ordinamento universitario. E ora, con la combattutissima riforma Gelmini del dicembre 2010, ci troviamo di fronte a corsi di studio che fanno una fatica enorme a poter contare sui requisiti minimi di funzionalità, a cominciare dai dodici docenti necessari per tenere in vita un corso triennale e dagli otto docenti necessari per un corso magistrale.


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(e dei talenti) a supporto della loro indagine e della loro didattica. Se Vasco Rossi non fosse mai arrivato al successo con le sue canzoni, se Valentino Rossi non avesse mai vinto una gara motociclistica, qualcuno si sarebbe mai accorto della loro capacità di comunicazione? È quindi evidente che questa loro qualità (ammesso che sia tale) dipende dal loro autentico talento (musicale/poetico nel primo caso, tecnico/sportivo nel secondo). Credo che l’università italiana avrebbe dimostrato un certo coraggio conferendo ai due personaggi lauree coerenti con questo ragionamento, ad esempio una laurea in Lettere a Vasco Rossi per i suoi testi e una Laurea in Ingegneria a Valentino Rossi per la sua conoscenza empatica dei motori. In questo modo si sarebbe sottolineato che anche all’esterno della formazione universitaria è possibile sviluppare un sapere, declinato sulle abilità e sulla dedizione, fondamenti di esperienze eccellenti. La scelta invece compiuta lascia ampi margini all’idea che i saperi tradizionali (letterari o tecnici) non avrebbero accolto le due esperienze, che sono state così premiate e riconosciute attraverso il pertugio opaco della capacità di comunicazione. Qualcosa che risulta poco chiaro e in fondo posticcio. Una capacità spettacolare appiccicata a capacità maggiori e determinanti. Fin qui la parte autocritica. In realtà però il pregiudizio radicatosi nell’opinione pubblica grazie alla comunicazione negativa dell’attuale Ministro e di altri esponenti del mondo politico e giornalistico non fa leva su una difficile organizzazione didattica nazionale e locale o su iniziative poco meditate da parte di alcune università. Il pregiudizio anti-scienze-della-comunicazione parte da più lontano e si fonda su un paradosso. Trovare qualcuno (politico, giornalista, imprenditore, sindacalista, eccetera) disposto a negare la fortissima accentuazione degli aspetti comunicativi nella società nel suo complesso è quasi impossibile. Detta in positivo: chiunque ormai riconosce – nella transizione da società industriale a società postindustriale, o, se si preferisce, da società fordista a società postfordista – un peso specifico alle nuove tecnologie della comunicazione, ai media e alla circolazione del sapere come fattori decisivi e inediti della tenuta e dello sviluppo sociale. L’insieme di questi fenomeni porta inoltre a toccare con mano il fatto che una parte non piccola della nuova occupazione (dei nuovi mestieri) sarà fornita dall’ambito comunicativo. Quindi ciò che i corsi di studio in Scienze della Comunicazione hanno evidenziato, anche in Italia, è l’urgenza di elaborare profili di studio coerenti con queste osservazioni, inserendo una proposta istituzionale nella caotica (e disegualitaria) navigazione del mercato del lavoro comunicativo. Non solo: quanto più la comunicazione diviene centrale nel nostro mondo, tanto più l’esigenza di saperne leggere i movimenti e le strategie deve diventare parte di un bagaglio conoscitivo critico da parte degli studenti. Ecco quello che tanti nostri corsi hanno cercato di portare avanti durante gli anni accademici: presentare agli studenti testi e materiali di studio che entrassero nel merito di scelte comunicative compiute da teorici, da imprenditori del settore, da specialisti e consulenti. Si è cercato di fare luce sulla storia dei media senza tralasciare la dinamica organizzativa dei media stessi, e il loro intreccio con legislazioni, apparati e organizzazioni.


Torniamo a noi. Checché ne dica l’attuale (e quindi transeunte) Ministro, i corsi in Scienze della Comunicazione non sono affatto inutili e non spariranno nonostante il bruciante desiderio di cancellazione che proviene dall’habitus culturale berlusconiano. Tuttavia i nostri corsi sono senz’altro perfettibili, e merita di essere presa in considerazione una revisione critica dei nostri percorsi didattici, specie ora che per molti di quelli inaugurati all’alba del XXI secolo si avvicina (o è già in atto o è addirittura già da tempo trascorso) il decennale dell’istituzione. La prima osservazione che intendo compiere riguarda lo statuto epistemologico dei nostri corsi. Se riflettiamo sulla condizione di partenza dei nostri studi – l’istanza interdisciplinare – occorre ammettere che non sempre la pluralità dei campi disciplinari implicati ha favorito una visione d’insieme dei fenomeni e delle prassi comunicative. Lo studio della comunicazione non può essere una semplice sommatoria di competenze specialistiche derivanti da campi di studio già da mol-

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Questa impostazione è di fatto antitetica rispetto alle narrazioni favolistiche sulla creazione di imperi mediatici nati dal talento imprenditoriale di una o poche persone. È di fatto opposta alla strategia di ingresso nel lavoro comunicativo possibile solo ai figli di professionisti del settore. O a coloro che sono disposti a sborsare decine di migliaia di euro per master gestiti direttamente da holding mediatiche. Ecco ciò che non piace a molti: che i nostri corsi di studi non solo si permettano di fornire una formazione ampia e interdisciplinare sui fenomeni comunicativi, ma che in più tentino di stimolare gli studenti a osservare criticamente i media, l’uso distorto dell’informazione, gli intrecci infecondi tra politica e comunicazione. Se la questione risiedesse soltanto nella difficoltà di impiego dei giovani laureati in Scienze della Comunicazione – come apparentemente sostiene la Gelmini – il fatto non sussisterebbe, o comunque riguarderebbe una più generale e complessa relazione tra saperi socio-umanistici e mercato del lavoro. Ma la Gelmini aggiunge una parola-chiave: “amenità”. Con questa espressione sarcastica si indica un giudizio di valore che equivale a “non serve”. Un corso di studio, come infatti aggiunge Gelmini, inutile. Nella mente di chi pensa che il sapere sia solo un insieme di pratiche standardizzate da ingurgitare, l’insulto si autogiustifica. Infatti in un ambiente pullulante di praticoni e di scimmiottatori, il laureato in Scienze della Comunicazione, portatore sano di innovazione (cioè di potenziale miglioramento professionale), è scomodo e inutile. Ameno. Viene da pensare che nell’immaginario di cui è imbevuta la Gelmini – l’immaginario culturale berlusconiano – non vi sia bisogno di energie di questo genere nei media: sono sufficienti le figure “esperte” e le veline. Ma forse sto esagerando. Per difetto. Non è stata forse una scelta politica tra le più limpidamente ideologiche quella dell’attuale presidente del Consiglio di inaugurare l’anno accademico presso la sede del Cepu? Cosa vuole dire questa scelta? C’è forse una struttura imprenditoriale che riesca a rappresentare in modo migliore del Cepu che il sapere è una merce, che il sapere si compra e che l’università pubblica è sostanzialmente inutile?


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to tempo formalizzati, come l’economia, la sociologia, la semiotica, la linguistica, la storia, la filosofia. Dobbiamo questo chiarimento a noi tutti, ma soprattutto agli studenti. Sono convinto che la comunicazione possa aspirare a una propria densità cognitiva fatta di immersioni in profondità nelle questioni di fondo in essa implicate. Un laureato in Scienze della Comunicazione non deve limitarsi a conoscere i percorsi storici dell’umanità: deve possedere un’idea forte della storia della comunicazione. Quindi non solo, ad esempio, come si può leggere la formazione dei movimenti totalitari nell’Europa del XX secolo, ma come quei movimenti comunicavano, quali media privilegiavano, quali politiche culturali mettevano in essere. Dovessimo affrontare lo studio di eventi e fenomeni del passato (anche remoto), la logica cognitiva non dovrebbe cambiare: la democrazia ateniese può essere rivisitata anche dal punto di vista comunicativo, giacché l’osservazione di fondo è che gli esseri umani hanno sempre comunicato e che da sempre la comunicazione ha rappresentato una condizione biopolitica decisiva. Lo stesso dicasi dell’economia della comunicazione e dell’informazione, e persino della filosofia della comunicazione (come rientra tale tematica nella riflessione filosofica degli antichi e dei moderni?). Penso che uno sguardo attento alla comunicazione potrebbe essere considerato come preliminare alla ricostruzione complessiva dello studio della società: da uno scettro o da una corona si può risalire alle abitudini comunicative del potere medievale, e da queste all’esercizio del potere, ai conflitti tra impero e papato, alle modificazioni del governo dovute alla costruzione e all’edificazione territoriale, alle credenze e agli apparati di sorveglianza. La formazione culturale di cui abbiamo bisogno – e che abbiamo bisogno di scambiare con gli studenti – parte a mio avviso dal riconoscimento della centralità comunicativa dell’essere umano. In questo senso riuscire a presentare l’articolazione dei fatti comunicativi come una delle grandi strategie sociali di conservazione e innovazione umana dovrebbe rappresentare uno sforzo collettivo degli studiosi coinvolti. È perfettamente ovvio, d’altronde, che una strategia cognitiva come questa necessita per affermarsi di un lavoro di medio-lungo periodo sui raccordi tra i diversi aspetti disciplinari specifici. Abbiamo bisogno di ponti epistemologici, di ricongiungimenti tematici e metodologici. E questa soluzione, in ambito didattico e accademico, significa un ritorno autorevole (e diffuso) alla pratica del seminario. Il confronto tra prospettive diverse con l’obiettivo di estendere la pratica della conoscenza in profondità dei fenomeni comunicativi. Questo approccio non è affatto neutro o meramente retorico. La trasformazione del docente universitario in burocrate – con l’infittirsi di mansioni prevalentemente d’ufficio e di registrazione e con la frammentazione della didattica, nonché con un aumento oggettivo dei carichi di lavoro dovuto alla mancanza di turn-over accademico – è agevolata e accelerata dalla riforma Gelmini. Ampliare invece il lavoro cognitivo – non solo con la propria attività di ricerca individuale, ma soprattutto con il confronto dialettico tra diversi ambiti – rappresenta un’inversione significativa della tendenza a considerare l’università un luogo dedicato a una didattica statica e ripetitiva, tanto più anacronistica se in evidenza è un campo cognitivo in tumultuoso mutamento come la comunicazione. Inoltre,


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Nel bilancio che possiamo fare dopo circa un decennio di istituzione dei nostri corsi urge considerare un altro aspetto decisivo. Quest’aspetto riguarda l’ambito delle prassi comunicative rese possibili agli studenti. A molti di noi docenti di Scienze della Comunicazione è capitato in questi anni di compiere viaggi all’estero per motivi accademici. A molti di noi è capitato di fare lezione o partecipare a convegni all’interno dei corsi di Scienze della Comunicazione di altri Paesi, soprattutto europei. A nessuno di noi sarà sfuggito come in molti casi la situazione delle infrastrutture comunicative a disposizione degli studenti sia decisamente migliore di quella della maggioranza dei corsi di studio in comunicazione del nostro Paese. Il deficit italiano rispetto alle attività laboratoriali è palese. Credo non sia più possibile considerare questo handicap alla stregua di un vuoto da colmare con la buona volontà didattica. O i ragazzi e le ragazze che studiano con noi hanno a disposizione telecamere, microfoni, software per il montaggio audiovisivo, studi e mixer oppure semplicemente non possono apprendere e autoapprendere. Approcci teorici alla comunicazione sono auspicabili e praticabili. Ma l’assenza di una simulazione del lavoro necessario per dare vita a un’esperienza formativa nell’ambito dei media rischia di precludere ai nostri studenti un pezzo rilevante di formazione. Certamente molti nostri corsi di studio presentano una densità cognitiva maggiore di molti corsi esteri dello stesso tipo. La maggiore preparazione teorica dei nostri migliori laureati rispetto ai loro coetanei europei mi sembra tangibile. Chi ha insegnato all’estero ha potuto – credo – avvedersi di un nostro punto di forza. Nello stesso tempo abbiamo toccato con mano il fatto che uno studente di Scienze della Comunicazione (per esempio in Spagna, Germania e Olanda) abitualmente deve superare prove pratiche rivolte alla gestione di un programma radiofonico o televisivo, alla costruzione di soggetti e di sceneggiature, al montaggio audiovisivo. È stato almeno in parte irresponsabile creare dei corsi di studio in Scienze della Comunicazione senza la certezza di poter contare su un’area tecnico-produttiva a piena disposizione della didattica e degli studenti, anche se è vero che il varo dei nostri corsi ha coinciso con la brusca transizione dai budget universitari dignitosi ai budget zero dell’epoca Tremonti-Gelmini. Oggi però c’è un’opportunità in più a nostro vantaggio, offerta da tecnologie a costo molto basso e da software e piattaforme multimediali gratuite. Proprio in un periodo di vacche magrissime possiamo tentare un recupero legato all’area del fare, mettendo in campo tutte quelle chance (a cominciare dalle webradio e webtv) che possano coinvolgere e addestrare gli studenti, nonché migliorare l’accessibilità pubblica dei nostri corsi di studio e della nostra didattica. È sempre più semplice e sempre meno costoso realizzare cataloghi podcast contenenti lezioni

Stefano Cristante

potenziare la pratica del seminario significa offrire all’attenzione degli studenti uno strumento meno routinario delle lezioni. Con la propensione al seminario si amplia e si riconnette a un’idea universalistica la stessa offerta formativa. Cioè si offre agli studenti qualcosa che eccede i rigidi moduli della programmazione didattica, e li si spinge a un esercizio critico permanente stabilito sulle fondamenta dello scambio di visioni dei fenomeni e di metodi per capirli e interpretarli.


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e conferenze, iniziative e tavole rotonde. Ne risentirà non solo la diffusione del nostro mondo nella vita collettiva (per ogni navigante l’università sarà accessibile e frequentabile), ma soprattutto lo studio dei nostri ragazzi, che vedrà moltiplicate le fonti cognitive (perché avere a lezione in aula duecento studenti, di cui la metà svogliati, quando è possibile a tutti ricevere la lezione scaricandola dall’archivio della webtv universitaria? Magari con cento studenti presenti in aula e altri cento connessi da casa la didattica viaggerebbe più spedita). Infine, un’ultima osservazione che riporta all’esordio di questo scritto. Grazie alle rozze dichiarazioni di ministri, politici e anchor-men si è cercato di diffondere un’immagine negativa dei corsi di laurea in Scienze della Comunicazione. Chiunque può pensarla come gli va in quel momento, ma non i Ministri della Repubblica. È inaudito che un Ministro che dovrebbe rappresentare il trait d’union tra il governo e l’università usi contro uno dei suoi corsi di studio parole che equivalgono a un anatema. Nella società dell’informazione le dichiarazioni dei politici di primo piano (e tra questi ovviamente i ministri) ricoprono un valore particolare, perché sono megafonate violentemente dai media e arrivano alle orecchie di tutti. Compresi gli studenti e le loro famiglie. Ed è comprensibile che molti genitori e molti studenti liceali prossimi all’iscrizione universitaria possano prendere sul serio le dichiarazioni ministeriali, sbagliate nel merito e scorrette nella modalità comunicativa. In questo modo ai nostri corsi di studio è stato arrecato un danno. Se nel futuro dovessero persistere prese di posizione simili da parte di membri del Governo nei confronti dei nostri corsi di studio esprimo l’auspicio che i docenti e gli studenti di Scienze della Comunicazione sappiano rispondere con sdegno e fermezza. Ogni giorno facciamo del nostro meglio perché si accrescano le nostre competenze e migliori la situazione dei nostri studenti. Essere insultati e considerati inutili da chi dovrebbe governare e migliorare la nostra qualità organizzativa generale (e fa invece il contrario) non è cosa da far passare ulteriormente sotto silenzio. Note 1 fonte: http://istruzione.liquida.it/focus/2011/01/13/il-ministro-gelmini-contro-scienzadelle-comunicazioni-e-una-laurea-inutile 2 fonte: http://www.comunitazione.it/leggi.asp?id_art=4826&id_area=4&mac=2. 3 fonte: http://centrodestra.blogspot.com/2009/03/crisi-economica-sacconi-giovani-siano. html. 4 fonte: http://www.politicaonline.it/?p=325. 5 fonte: http://www.studenti.it/universita/iniziative/scienze-comunicazione-laura-inutile-datialmalaurea-smentiscono-gelmini.php.


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Jeremy Rifkin La civiltà dell’empatia. La corsa verso la coscienza globale nel mondo in crisi Milano, Mondadori, 2010, pp.634, € 22,00 Rovesciare il tavolo del turbocapitalismo, ossia di un’organizzazione profittevole delle risorse disponibili, non sarà facile. E tuttavia non abbiamo scampo se vorremo sfuggire a quella che Rifkin definisce la tempesta perfetta: ossia al convergere di tre macrofattori negativi: l’esaurimento delle fonti energetiche tradizionali; l’accelerazione del cambiamento climatico e l’inasprimento dei conflitti locali. The Age of Empaty, tradotto da Mondadori col titolo di Civiltà dell’empatia è un libro monstruum, una summa del lungo cammino dell’umanità tra progressi e regressioni, tra spinte empatiche e accumuli entropici. I due concetti (empatia/entropia) si fronteggiano, perché se è vero che il progresso umano ha richiesto un continuo aumento di entropia per sviluppare empatia, è altrettanto vero che se non crescerà entro questa stessa generazione una sensibilità empatica più profonda, l’umanità andrà incontro alla sua fine. La specie umana rischierebbe l’estinzione – e questo è il vero paradosso – proprio nel momento in cui sta giungendo a una più matura coscienza biosferica. C’è però una via d’uscita. Potremmo essere

prossimi alla fine di questa fase storica, e solo all’inizio di un’avventura completamente nuova. Rifkin guarda al modello climatico, un termine con cui definisce un modello di sviluppo economico sostenibile. Il concetto di comunità quasi climatica, è entrato a far parte della letteratura scientifica grazie all’ecologo Eugene Odum. Diversamente dalla comunità in sviluppo, che hanno bisogno di più forte impiego di energia, le comunità climatiche raggiungono un equilibrio consumando tanto quanto importano, senza accumulazione. L’eccesso di produzione viene sostituito da una produzione calibrata e sostenibile. Una necessità oramai, se si considera che la produzione ha già iniziato la sua curva discendente (cosa che i più ottimisti prevedono tra il 2030 e il 2035 e i più pessimisti già in questo decennio). Si impone perciò una accelerazione nella produzione di energie rinnovabili, a basso impatto ambientale, incrementando la gestione del fabbisogno energetico sul modello tecnologico delle reti informatiche. L’autore ritiene possibile una riconfigurazione delle reti energetiche mondiali, utilizzando l’Information and Communication Tecnology (ITC) che ha consentito il successo di internet. Per milioni di persone sarebbe così possibile produrre proprie energie rinnovabili direttamente a casa, nei condomini, negli uffici, nei negozi, nei parchi, esattamente come producono e condividono informazioni nel cyberspazio. A questa ipotesi Rifkin dà il nome di capitalismo distribuito, che caratterizzerebbe la terza rivoluzione industriale. Non si tratta


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di fantascienza. Vi sono esperienze che vanno in questa direzione a Saragozza, nella periferia di Parigi, in Sardegna, e in piccoli comuni del nostro paese; l’autore stesso è impegnato in progetti per Roma capitale e la regione laziale. Ma anche multinazionali come la IBM, la General Electrics, la Siemens e altre stanno facendo il loro ingresso nel mercato della rete elettrica intelligente per trasformare le reti di distribuzione in interreti intelligenti, in modo da consentire ai proprietari di grandi fabbricati di produrre la propria energia e di condividerla con altri. Si tratta di una riglobalizzazione dal basso, simile a quella che attraverso i social network rende possibile a due miliardi di giovani lo scambio di comunicazioni, informazioni, appuntamenti e appelli in tempo reale. Funziona così: attraverso l’accesso a reti di distribuzione intelligenti, milioni di produttori locali di energia rinnovabile potranno condividere energia in quantità e qualità superiore a quella generata dalle vecchie forme di produzione centralizzate basate sul petrolio, carbone, gas naturale e uranio a cui ci siamo fin qui affidati. Attraverso le arterie e i nodi del sistema reticolare potremo condividere le quantità di energie non utilizzate per i propri consumi, commercializzandone le eccedenze. La transizione verso la terza rivoluzione industriale richiederà una radicale riconfigurazione dell’intera infrastruttura economica di ciascun paese, ma l’aspetto più interessante di questo bestseller di Rifkin è di tenere in tensione questa trasformazione con una necessaria e radicale riforma educativa, perché questa svolta storica richiede una vera e propria rivoluzione culturale. Seppure in presenza di forti trasformazioni scientifiche e tecnologiche l’autore spiega quali siano le conseguenze dell’essere ancora in gran parte dipendenti dalle idee sulla natura umana formulate nel secolo XVIII. Idee peraltro già messe in discussione da Goethe, il quale riteneva che il migliore approccio alla natura sia quello partecipato, più che quello freddo dell’osservatore distaccato della cosa, o delle cose in sé. Solo di recente – negli ultimi cento anni –

questo atteggiamento è venuto modificandosi, grazie anche ai contributi di scienziati della mente e delle relazioni che sbrecciando le mura della fortezza freudiana, ebbero una visione diversa della natura umana. Sarebbero sopravvenuti in tempi più recenti studi sperimentali, fondati su un’attenta osservazione clinica: Fairbairn, Kohut, Winnicott, Batwin, Bowlby, Ainswort e altri dopo di loro. Dispiace solo di non trovare in questo elenco i nomi di Montessori e di Bollea, che dettero un serio contributo agli studi sull’infanzia in Italia, vincendo molti radicati pregiudizi piagetiani, tra cui quel bambino della ragione degli anni Settanta che avrebbe dovuto correggere quel bambino tutto sentimento e fantasia delle pedagogie ministeriali influenzate dall’attivismo e dalle carte dei diritti universali. Spiega Rifkin come molte generazioni di bambini abbiano trovato l’esperienza dell’apprendimento sconfortante e alienante; come il mondo adulto che fissa i principi educativi dei sistemi scolastici si sia sempre aspettato che i bambini abbandonassero per tempo lo stupore, la fantasticheria, il magismo che accompagna questo stadio della vita, assegnandoli a un ruolo di spettatori della scena adulta. Prima ancora dell’avvento della televisione, di cui si è detto tutto il bene e tutto il male possibile, è stata l’organizzazione scolastica ad abituare ad atteggiamenti passivi. Ma questo, dopo il Lambruschini (che vedeva le scuole di Europa simili ad ergastoli) non è stato più ammesso. Il metodo scientifico è in evidente contrasto con quasi tutto ciò che sappiamo della natura dell’uomo e del mondo: nega l’aspetto relazionale della realtà; inibisce la partecipazione e non lascia alcuno spazio all’immaginazione empatica. Agli studenti, in pratica, si chiede di diventare alieni nel mondo (p. 563). Le scoperte scientifiche degli ultimi decenni hanno aperto strade nuove, favorendo una prospettiva empatica. Si pensi al valore della scoperta dei neuroni specchio dell’équipe di Parma guidata da Rizzolatti, e di altre più recenti acquisizioni delle neuroscienze. Ciò che sorprende Rifkin è come dall’osservazione di alcuni scienziati sui comportamenti dei primati si siano potute aprire spiegazioni di tale profondi-


Il legame empatico insomma è un passaggio chiave per creare adulti in grado di impegnarsi emotivamente nei confronti dell’intera biosfera. La questione del principio educativo riemerge con forza: i bambini che sviluppano un ethos empatico fin dai primi banchi di scuola saranno poi adulti in grado di costruire una società più attenta, pacifica e civile.

Il programma Roots of Empaty, portata a modello, e adottato in molte scuole americane e canadesi, crea i presupposti di un ambiente di apprendimento collaborativo, in cui i giovani allievi condividono pensieri e sentimenti con gli altri. L’apprendimento diventa un’esperienza cooperativa più che una vicenda personale. L’istruzione collaborativa tende a spostare il baricentro dell’impegno educativo dalla singola mente alle forme di relazione. Il vetusto e non più sostenibile modello gerarchico di apprendimento cede così il posto a un’organizzazione reticolare della conoscenza. In questa prospettiva l’apprendimento diventa l’acquisizione di un modo di pensare critico, e questo atteggiamento trasforma la classe in un laboratorio di manifestazioni empatiche che arricchiscono il processo autoformativo. Questa rivoluzione copernicana presuppone ovviamente insegnamenti e insegnanti collaborativi, mentre sappiamo bene come nelle classi tradizionali si continui a porre l’accento sull’apprendimento come esperienza personale e competitiva. Solo l’empatia insomma potrà salvarci. E quest’ultimo saggio di Rifkin è senz’altro il più ambizioso e impegnativo. Sarebbe perciò auspicabile accordargli l’attenzione che merita. Angelo Semeraro

Peter Sloterdijk Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica Milano, Raffaello Cortina, 2010, pp. 565, € 36,00 Peter Sloterdijk è un topografo della Modernità, ben noto agli studiosi italiani almeno dagli anni Novanta (Critica della ragion cinica, Milano, 1992) e – dieci anni dopo – L’ultima sfera. Breve storia della globalizzazione (Roma 2002), un saggio che ha introdotto in larghe fasce di opinione pubblica un disincanto via via crescente per le

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tà da mutare completamente lo scenario delle relazioni umane. Come si sia arrivati alla comprensione della mente non per un ragionamento concettuale, ma attraverso una simulazione diretta; attraverso la sensazione (il “sentire” emozionale e compassionevole), più che attraverso il pensiero. Se ne deduce che la specie umana conservi istintivamente la capacità di “mettersi nei panni degli altri”, sperimentando pensieri e comportamenti altrui come se fossero propri. Adam Smith del resto ne aveva avuto intuizione, scrivendo nel 1759 un libro sui sentimenti morali, anche se toccò poi a Edward Titchener, allievo del padre della psicologia moderna Wilhelm Wundt, avviare un interesse per l’empatia nelle comunità di scienziati di Londra, Vienna, New York, definendola un comportamento attivo, di piena disponibilità dell’osservatore a diventare parte dell’esperienza dell’altro suo simile. Questa memoria profonda della specie, sostiene ora Rifkin, andrebbe disseppellita dalle costruzioni ideologiche tese al profitto, alla competizione, all’assimilazione e alla distruzione dell’altro che connotò le prime mosse della Modernità. Come fare? Che mezzi abbiamo? Torna qui la questione formativa. Rifkin sembra fiducioso su un’inversione di rotta in questa direzione. E ci informa che in molte scuole americane i programmi di sviluppo dell’empatia cominciano già negli anni della prima alfabetizzazione. I bambini imparano quell’alfabeto delle emozioni che Gordon definiva la nostra capacità di trovare la nostra umanità nell’altro. Riferisce come gli insegnanti abbiano riscontrato che lo sviluppo di competenze empatiche porta a un miglioramento dei risultati scolastici della classe, a costruire cittadini del mondo collaborativi e solidali.


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magnifiche sorti del pensiero globalizzato. Con la morte di Derrida è oggi il pensatore più autorevole e originale. Il discorso attorno a questo voluminoso Tu devi verte in buona sostanza sulla conversione (metanoia) e l’autoperfezionamento, ovvero sulla necessaria riforma del Sé (Selbstverbesserung) quale necessario presupposto di una riforma del mondo (Weltverbesserung). E aggiungiamo pure in premessa, prima di analizzare i passaggi più rilevanti di questo vero e proprio tractatus, che l’unica autorità a cui si sentirebbe di poter affidare questo imperativo è la crisi globale, preludio di una catastrofe dalle dimensioni immense di cui molti segni premonitori sono riconoscibili a occhio nudo. Prima di prendere di petto l’imperativo di una necessaria conversione, l’autore avverte il bisogno di un largo giro di boa attorno alla Modernità e ai suoi irrisolti problemi. Il primo dei quali è un pregiudizio da rimuovere in fatto di religione e di religioni. Il rifiorire di religiosità appare l’ultimo approdo del disincanto globale. Solo il Vecchio Continente si gode ancora qualche ultimo scampolo di laicismo (ma fino a quando?). In realtà – e questa è la prima tesi enunciata da Sloterdijk – non si tratterebbe di un ritorno della religione, innanzitutto perché non di religione ma di religioni si dovrebbe parlare; in secondo luogo perché ciò che per comodità indichiamo come religioni in forte risveglio, di fatto non sono che “mal compresi sistemi di esercizio spirituale”, sia che vengano praticati a livello collettivo, sia che vengano eseguiti a livello individuale. Le religioni in altri termini fanno parte della costituzione immunitaria della natura umana di natura simbolica e rituale. C’è qualcosa di nuovo però sotto il sole, almeno a livello cognitivo. Questo “nuovo” è che grazie alla scoperta, la conoscenza e la portata dei sistemi immunitari delle scienze del Bios, nulla di ciò che appariva può rimanere ben saldo in sella. Con qualche iniziale esitazione si è oggi compreso che sono proprio i sistemi immunitari l’elemento tramite il quale gli esseri viventi e le culture diventano tali in senso proprio. Dobbiamo agli allievi della biologia ottocentesca la sbalorditiva idea secondo la

quale esseri viventi relativamente semplici come insetti o molluschi posseggono una sorta di “preconoscenza” innata dei rischi mortali cui possono andare incontro. Vista sotto questo aspetto, la vita degli individui è dotata di competenze autoterapeutiche che si rapportano con l’imprevisto ambientale, in modo diverso, a secondo della specie. Una competenza che si acquista tramite adattamento. Nella specie umana infatti, l’Umwelt (ambiente) perde i confini e diventa Welt (mondo), in quanto ambito che integra fattori manifesti e latenze. Il passaggio all’Aperto – per dirla con Heidegger, o con Rilke – avviene gradualmente, e per via di progressivo adattamento-competenza. Nella sfera umana – ci ricorda e sistematizza l’autore – esistono almeno tre sistemi immunitari che si integrano in termini funzionali. Nel corso dell’evoluzione mentale e socioculturale – spiega – si sono formati due sistemi integrati, finalizzati al trattamento preventivo delle lesioni: da un lato le pratiche socio-immunologiche, di tipo giuridico e solidaristico, ma anche militare, attraverso le quali l’individuo societario risolve le sue controversie con aggressori vicini o lontani. Il terzo sistema è costituito dall’ordine simbolico, (psico-immunologico) attraverso il quale – fin dalle origini – gli esseri umani riescono a far fronte agli eventi minacciosi con misure di prevenzione immaginaria. La neuro-immunologia si occupa oggi dell’intreccio tra più sistemi di trasmettitori – nervoso, ormonale, immunitario – per lo più inconsci, ma indagabili dall’esterno, ed è per questo che una scienza della cultura è possibile. Un approccio ai sistemi immunitari di tipo simbolico è diventato oggi una condizione indispensabile per la sopravvivenza della civiltà, e per questo che diventa necessaria una scienza della cultura. Di questa Sloterdijk dichiara di volersi occupare, nell’intento dichiarato a) di delineare una bibliografia generale dell’Homo immunologicus; b) di delineare una antropotecnica, intendendo con questo termine le condotte fisiche e mentali basate sull’esercizio, con le quali gli esseri umani hanno tentato di


agire tecnicamente, ubbidendo al mandato etico dello sforzo continuo. Obbiettivo: l’autoperfezionamento continuo. Migliorarsi trovando gratificazione nella sfida continua che lo sforzo comporta. In quanto educazione allo sforzo ed esercizio continuo, il sistema formativo ha bisogno di dotarsi di buoni allenatori, in grado essi stessi di un continuo esercizio autocorretttivo. Gli allenatori di una paideia in prospettiva antropotecnica sono i garanti di un sistema immunitario vigile e reattivo. Essi stessi in training continuo. Perciò da essi si esige più tensione verticale, ossia quell’autorevolezza necessaria a convincere coloro che stanno vivendo con poco sforzo a sforzarsi di più, a cambiare abitudini, a modificarsi. Una buona paideia e buoni allenatori sono riconoscibili dalla loro capacità di sostituire gli imperativi delle pedagogie eteronome con discreti congiuntivi autopoietici. L’aspetto mobilitante di questa nuova sfida non è sfuggita a Pietro Perticari nel presentare il saggio di Sloterdijk al pubblico italiano. Dopo decenni di debolezza formativa – scrive – si va finalmente ricreando uno spazio critico della formazione della sfera umana che tende a saldarsi con quella domanda di conversione che ha caratterizzato da sempre la vera filosofia (p. XXIX). Angelo Semeraro

Roberta De Monticelli La questione morale Milano, Raffaello Cortina, 2010, pp. 186, € 14,00 Sempre più spesso siamo portati a chiederci come siamo arrivati alla situazione drammatica in cui versa l’etica pubblica. Il denso, impegnativo saggio di De Monticelli cerca di rispondervi cercandone le ragioni in quello scetticismo pratico, degenerato in vera e propria pandemia cinica che ha colpito innanzitutto le élite per poi diffondersi a tutti i livelli. Il saggio si apre con una domanda, anzi con una serie di domande, la prima del-

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ottimizzare il proprio sistema immunitario per far fronte ai rischi. L’Homo immunologicus è l’individuo in lotta con se stesso, preoccupato per la propria condizione; e perciò in allenamento continuo, e non aspetta i rappresentanti delle “scienze umane” per compiere quel passaggio da natura a cultura che fin dal principio si presenta collegato a una vasta zona mediana popolata di pratiche imitative e ripetitive. Ma di quale cultura parliamo? La nostra catastrofe è oggi il conformismo populista mediatizzato. Cultura dunque degradata in sottoculture della persuasione attraverso assuefazione. Sloterdijk veste i panni di Platone nel mito della caverna, e attacca il cuore della decadenza del cosmo mediatizzato. Riprendendo i temi de Il mondo dentro il capitale (non ancora completamente tradotto in italiano, ma cfr. Meltemi 2006) nell’età della globalizzazione, lo spazio interno del capitale gli si presenta come spazio di esclusione, senza precedenti. Si chiede cosa ne sia stato dell’Umanesimo, che ci ha lasciato in eredità i libri, la lettura e lo studio come vaccino contro la ferocia e la barbarie dei tempi nuovissimi. Cosa sia accaduto ai grandi testi greci: Omero e Platone, ma anche il Convivio di Dante, che fu un manifesto contro lo stato ferino. Sta di fatto – si risponde – che i libri sono entrati in conflitto con le nuove forme di comunicazione a distanza e hanno dovuto adeguarsi alla cultura televisiva o ai nuovi formati elettronici. Lo stesso è capitato alla città e alla cittadinanza, costretta ad adeguarsi alla cultura videocratica e pubblicitaria. I prodotti dello scrivere e della città sono ora nelle mani di manager, che trattano i libri e i cittadini come neutri oggetti di profitto. A questa catastrofe, l’autore oppone un’acrobatica che abbia come obiettivo l’elevazione e l’eccellenza (la “scalata di tutte le scalate”). L’etica acrobatica, come filosofia e come civiltà pedagogica è l’arte di far emergere l’oltre (che è anche altro). L’oltre, inteso (nietzschianamente) come al di là è abbordabile e realizzabile attraverso l’esercizio. Una paideia antropotecnica pone perciò alla nostra Modernità un imperativo “senza scampo”: devi cambiare la vita! Ossia, devi tornare a porti le domande essenziali e


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le quali è se possa esservi un fondamento di ragione per il pensiero pratico. Cosa debba intendersi per pensiero pratico l’autrice lo chiarisce subito: si tratta di un pensiero che articola giudizi di valore e ispira la produzione di norme e comportamenti in campo morale, giuridico, politico. Da qui altre due domande: “ci sono verità, ossia ricerca di conoscenza in questi campi, o sono irrimediabilmente affidati all’arbitrio soggettivo, all’urto degli interessi, alla ricerca del potere, dell’utile personale, alla guerra fra i diversi”? Il problema è il rapporto con la verità: non quella con la lettera maiuscola, ma quella socratica, a portata di tutti ma impegnativa per ciascuno, perché comporta la responsabilità di spiegare e giustificare, riconoscere e validare. Le risposte a queste domande indulgono a uno scetticismo maggioritario e di maniera, – e non è questione che si possa sottovalutare – dal momento che il pensiero pratico nient’altro è poi che “coscienza dei conflitti di valore in cui siamo immersi, delle passioni che ci agitano; l’urto delle idee (antilogia la chiamava Platone) che dividono le piazze e la società civile “(p. 17). Lo scetticismo toglie serietà alla nostra vita e rende irrilevante la nostra realtà di individui capaci di agire in base a ragioni anche morali, e di scegliere liberamente, assumendosi in pieno le responsabilità delle scelte compiute. In questo senso, “opporsi allo scetticismo pratico significa per l’autrice difendere la realtà delle persone che siamo, insieme alla serietà della nostra vita”. Perché sono le nostre prese di posizione che ci fanno diventare ciò che siamo; e difendendole difendiamo la nostra identità. E perché esistere è una cosa seria che richiede coraggio, scelta e coerenza (p. 21 e passim). L’essere diventati come siamo richiede innanzitutto un necessario sguardo indietro, laddove affondano le radici del senso comune. Per l’autrice si tratta perciò di rileggere quel Rinascimento talentuoso, ricco di opportunità e individualità che seppero imprimere uno slancio nuovo alle lettere, alle arti e alla scienza. La lista degli umanisti sarebbe lunga e include alcuni padri nobili delle lettere e del pensiero: Montaigne, La Rochefoucauld, Machiavelli, Guicciardini. I codici della borghesia operosa – ma profondamente scettica – affondavano però

le radici in una rescissione tra conoscenza, coscienza e interesse individuale (il particulare). S’introdusse la convinzione che pensare in un certo modo non dovesse necessariamente comportare un agire conseguente e coerente. Bisognerà attendere il Discorso sopra lo stato presente del costume degl’Italiani perché quella rescissione tra fini e mezzi venisse indicata dal Leopardi come disastrosa per i “costumi” nazionali. “Le classi superiori sono le più ciniche di tutte le loro pari nelle altre nazioni. Il popolaccio italiano è il più cinico dei popolacci”. Sarebbe toccato poi a Francesco De Sanctis spiegare attraverso pagine indimenticabili della sua storia letteraria quanto quel tarlo avesse profondamente agito sulla storia d’Italia. Le antivirtù guicciardiniane – doppiezza, furbizia, menzogna, nepotismo non trovarono limiti in quella civiltà dell’apparenza che riusciva a velare l’ipocrisia con lo scetticismo di maniera. Una volta venute poi meno le stesse ragioni dell’apparire – e siamo all’oggi – lo scetticismo si sarebbe deformato in un assoluto cinismo. I tempi che viviamo inverano l’analisi leopardiana di una mancanza di classi dirigenti dotate di responsabilità civili e politiche, di onore e spirito di appartenenza alla nazione, in grado di offrirle un respiro progettuale per il presente e il futuro. È da qui che secondo De Monticelli occorre ripartire. Richiamando i fatti di cronaca italiana degli ultimi lustri, ella tesse il filo conduttore di un male antico, che a suo parere è quello di una “profonda depressione dell’individualità personale” (solo l’individuo può tentare di tenere insieme libertà e moralità), “a vantaggio di un particolarismo servile da un lato e della logica della consorteria dall’altro, a danno della maturazione delle persone e delle virtù della cittadinanza” (p. 70). L’autrice profonde qui il suo maggiore impegno nel seguire una pista filosofica per un rilancio del tema dell’etica nell’età dei diritti. Ed è in questa parte del saggio che le posizioni si fanno più nette, frutto di una ricerca che se da una parte reinterpreta sub specie relativistica buona parte del pensiero che muove da Nietzsche ad Heidegger, senza trascurare di segnalare le contraddizioni del “darsi legge da sé” kantiano, tutti figli – a


diffusa propensione allo scetticismo etico. Restituire dignità alla morale e farla crescere nella dimensione pubblica comporta uno scambio aperto con l’ethos di ciascuna persona (ambiente, tradizione, linguaggio, usi e costumi, life skill, ecc.). Richiede insomma una forte crescita culturale e una profonda trasformazione del politikum. Due condizioni su cui qui e ora non s’intravedono segnali incoraggianti. Vi sono nuovi doveri che si pongono all’educazione, e questo saggio ha il merito di segnalarli, rinnovando un interesse per la paideia socratica, a cui dedica pagine importanti (pp. 170-174). Se da una parte infatti va guadagnata l’attenzione genitoriale per quella libertà del bambino che può crescere solo tra norme e divieti di cui sia immediatamente riscontrabile il fondamento (e ciò vale per tutto il processo della “individualità primaria” che dall’infanzia si estende a un’adolescenza sempre più lunga), è altrettanto importante trasmettere ai membri di una comunità vitale quella normalità “secondaria” che rende moralmente adulti solo quando gli individui siano pronti a prendere liberamente posizione rispetto all’ethos della comunità in cui si è stati allevati e cresciuti. Autenticare o respingere quell’ethos, a seconda che sia o non sia fonte di vita autentica, costituisce per ciascun individuo la prova di una raggiunta autonomia morale. Rendersi moralmente adulti è la sfida di questo libro, che non si arresta – come si è detto – innanzi alla denuncia dell’imbarbarimento della vita nazionale, ma apre spazi di riflessione interessanti per chi voglia decidere cosa fare di sé e della propria vita, etiamsi non esse Deum. Angelo Semeraro

Slavoj Žižek Vivere alla fine dei tempi Milano, Ponte alle Grazie, 2011, pp. 624, € 26,50 Slavoj Žižek, classe 1949, sta probabilmente attraversando quella fase della

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suo avviso – delle “sofistiche” del Novecento, dall’altra riformula lo spazio dell’etica come “il dovuto di ciascuno a tutti”, da cui fa scaturire un grappolo di corollari di grande rilievo sul terreno pratico. Perché la partita aperta contro lo scetticismo e il relativismo non è solo teorica, ma essenzialmente pratica, ossia – qui e oggi – politica, nel senso che una moderna democrazia esige un livello di normalità morale che il nostro paese è ancora ben lontano dal poter sperare. E le ragioni della mancata trasformazione degli italiani da sudditi a cittadini dovrebbero essere ben chiare per chi conosca appena un po’ la storia d’Italia. La rivendicazione di libertà delle coscienze e del libero autosviluppo di ciascuno, che sono alla base dei diritti moderni di cittadinanza, ha guadagnato poco terreno dai tempi del Sillabo di Pio IX (1864), con l’aggravante che oggi le gerarchie ecclesiastiche possono influenzare direttamente i governi della cosiddetta seconda repubblica su materie sensibili che attengono alle libertà delle persone, misconoscendone tuttavia la loro competenza morale, ossia la libertà di coscienza. La morale della chiesa cattolica, a cui gli italiani hanno delegato la guida morale, è fonte di paradossi. Da una parte pretende di gestirne gli aspetti prescrittivi della morale individuale, dall’altra chiude gli occhi innanzi ai più evidenti fenomeni di immoralità del potere pubblico. Torna perciò opportuno un giudizio che l’autrice fa valere affidandosi a una delle pensatrici più intense del Novecento, Jeanne Hersch, laddove questa pensatrice descrivendo la progressiva evanescenza dell’ordine ontologico dalla vita sociale afferma che una libertà vuota è per l’uomo un fardello troppo pesante. Non sfugge alla De Monticelli che sollevare la questione morale nel nome della libertà di coscienza significa votarsi a una solitudine impolitica. La coscienza impone di essere giusti e di parlar chiaro, ma queste forme di parresia socratica non pagano in termini di fascino sociale. Portare ragione e morale laddove impera la forza e lo sberleffo mediatico per i “moralisti” richiede una certa dose di coraggio civile. La libertà dei servi è fin troppo diffusa, e mal sopporta di essere smascherata dalle “anime belle”. All’autrice non sfuggono le difficoltà a invertire la


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sua produzione scientifica che potrebbe farlo transitare dalla figura di brillante ma arruffato conferenziere di una pop-filosofia divulgativa ed effervescente a un periodo della sua vita che lo legittimi tout court come uno dei pochissimi pensatori viventi in grado di ri-definire gli stilemi del dibattito internazionale. Fino a qualche anno fa il filosofo di Lubiana era più conosciuto per le tesi radicali dei suoi pamphlet, per le scorribande giocose tra Althusser, Lacan, Marx e Heidegger, rivisitati con la sfrontatezza che si addice a un ribelle dell’accademia (per questo tratto, forse, accostabile solo a Michel Onfray), riletti in chiave assolutamente caleidoscopica, a volte quasi dadaista, ma sempre originale e “sul pezzo”, cercando di rendere utile e divulgativo il lavoro di sedimentazione dei classici. L’opera di Žižek, mi pare possa essere ben circostanziata proprio per questa tensione che molti, volgarmente, hanno definito pop-filosofica; ma che in realtà sta tutta nel tentativo di strappare la scrittura heideggeriana, i capisaldi marxiani, i ghirigori lacaniani, alle secche dei dipartimenti e alla musealità degli interpreti iperspecialistici. Non si tratta di banalizzazione ma di messa in fruizione di una lente che interpreta quella che Foucault definiva l’ontologia dell’attualità. E Žižek (pur coi suoi modi coloriti e con le pittoresche trovate che gli abbiamo spesso visto tirar fuori nei festival filosofici nei quali spessissimo recita il ruolo di star), negli ultimi dieci anni, non ha lesinato a costruire scenari suggestivi per provare a decifrare la contemporaneità e i media alla luce del suo lacano-marxismo eterodosso. Le oltre seicento pagine di Vivere alla fine dei tempi, tuttavia, restituiscono uno Žižek più sistematico e maturo, oltre che affascinante. Intendiamoci, anche in questo generoso saggio di recente pubblicazione il pensatore sloveno mette in atto una continua opera di detournement rispetto agli oggetti d’analisi che si prefigge di scandagliare e rispetto agli strumenti e agli autori che decide, di volta in volta, di mettere in campo. Ma, a differenza di molti suoi lavori precedenti, che spessissimo erano organizzati (anche dal punto di vista editoriale) in forma di raccolta di saggi, qui il filo rosso dell’intero

testo è costituito da un delicato rapporto tra un oggetto e un metodo di lavoro. L’oggetto, come si può facilmente evincere dal titolo, è quello, quasi escatologico, dell’apocalisse socio-culturale data dallo smembramento dell’era capitalistica, quasi un’ultima vestigia della Modernità, una vestigia che neanche le acrobazie dei postmoderni e le paranoiche visioni di Touraine e di Fukujama erano riusciti a esorcizzare. Il capitalismo è fallito e sta morendo, dice Žižek, il suo sistema globale, dopo aver scricchiolato negli ottimistici anni Novanta, denuncia ora il suo collasso e a registrarne tale tracollo sono una serie di elementi che, impietosamente, Žižek ribattezza “I quattro Cavalieri dell’Apocalisse”, ovvero la crisi ecologica, la rivoluzione biogenetica, gli squilibri del sistema economico-finanziario e le fratture sociali su scala mondiale. Se questo è l’oggetto, il metodo è dato da una sorta di autopsia del “tempo della fine” che Žižek mette in atto non tanto e non solo aiutandosi coi rodati elementi della geopolitica internazionale, ma, da buon lacaniano, attraverso una lettura dell’immaginario e dei suoi prodotti culturali. E allora i ferri di tale autopsia si avvalgono tanto delle mani nobili dei Francofortesi, di Mao Zedong, del Postrutturalismo e della dialettica hegeliana, quanto del cinema di Hitchcock, di Altman e di Lynch; tanto delle visioni di Kandinskij, Hopper e Kraus, quanto di icone ultra-pop dell’immaginario novecentesco, come Kung-Fu Panda, le morbose stanze di Eyes Wide Shut e persino l’italianissimo Pasqualino Settebellezze, alias Giancarlo Giannini. E proprio in un’ottica di trivellazione metodologica dell’immaginario culturale per decifrare i moti lunghi delle transizioni sociali, Žižek compie quest’autopsia del mondo capitalistico occidentale puntando il microscopio su cinque parole chiave che delineano altrettanti capitoli del libro: Rifiuto – Collera – Venire ai patti – Depressione – Accettazione: le cinque fasi di elaborazione di un lutto, di una perdita, secondo il modello Kubler-Ross, che l’autore flette sul corpo in frammenti dell’umanità contemporanea e del suo immaginario. Solo scontrandoci con questi cinque momenti dell’uomo-mondo potremo


Mimmo Pesare

Fulvio Carmagnola, Matteo Bonazzi Il fantasma della libertà. Inconscio e politica al tempo di Berlusconi Milano, Mimesis, 2011, pp. 108, € 8,00 Questo agile saggio è tra i primi prodotti editoriali del gruppo di ricerca OT – Orbis

Tertius – Ricerche sull’immaginario contemporaneo, coordinato da Fulvio Carmagnola presso l’Università di Milano Bicocca. In realtà l’organo scientifico del gruppo è l’omonima rivista, OT, che con i primi due volumi monografici, Fantasma (2008) e Pop porn (2010), aprono un indirizzo di ricerca esplicitamente rivolto al concetto di immaginario, così come si è declinato nelle scienze sociali del Novecento e con una scrittura analitica ma al tempo stesso innovativa e fresca. Il gruppo di studiosi che gravitano intorno a OT lavora in maniera transdisciplinare, ragionando sulla fenomenologia dell’immaginario e delle immagini che costellano le rappresentazioni socio-culturali del nostro tempo e le derive di consumo che ne definiscono gli esiti di massa, con una metodologia della ricerca che usa fondamentalmente gli strumenti della filosofia e della psicoanalisi. L’affilato approccio critico della rivista si riflette in Il fantasma della libertà, quasi un istant book, per l’urgenza del tema trattato, ma con un gradiente scientifico che lo allontana anni luce dai tentativi, sempre più numerosi e spesso piuttosto vacui, di definire il fenomeno Berlusconi attraverso la lente delle sociologie e delle politologie, salvo pervenire a esiti da rotocalco. Carmagnola e Bonazzi, fanno interagire proficuamente la formazione teoretica con il pensiero lacaniano, e questo consente loro di analizzare il berlusconismo non già come l’ennesima rappresentazione dell’ennesima leadership ubuesca o dell’ennesima dittatura mediatica, ma come sintomo (anzi sinthome, in senso lacaniano) dell’inceppamento che si è venuto a creare tra il desiderio moderno e il godimento ipermoderno. Come si può facilmente intuire dalla produzione saggistica degli ultimissimi anni, nel dibattito scientifico si sta consolidando una linea interpretativa che tende a scorgere la cifra delle società contemporanee in quello che Freud definirebbe il “rifiuto della castrazione simbolica”, ovvero nel tramonto delle istituzioni (reali, come i Partiti e le organizzazioni statuali, o simboliche, come le figure pedagogiche e le istituzioni educative) che, in qualche modo, creino dei confini e dei limiti all’agire. La famosa evaporazione del padre costituisce, anche

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reindirizzarci su un nuovo cammino di costruzione del futuro; e l’elaborazione del lutto del capitalismo moderno è tanto più fattibile quanto più si sia capaci di leggere i sintomi delle sue vicende culturali, oltre che sociali ed economiche. La postmodernità, insomma, è finita con l’11 Settembre e la nuova antropologia che si delinea a partire da quella tragica data è rappresentata da un nuovo soggetto (non più quello scabroso del periodo precedente) che ha i tratti dell’ineffabilità, dell’inquietante estraneità del non conosciuto, del non razionalizzabile, sospeso tra i fondamentalismi religiosi, il turbo-consumismo e le icone pop transnazionali. In questo senso, dopo aver analizzato i perché dell’offuscamento ideologico moderno (prima) e postmoderno (poi), Žižek interpreta le fratture sociali che hanno generato i terrorismi internazionali come forma di protesta trasversale (e metonimica, direbbe Lacan) al sistema globale delle relazioni politiche, economiche e sociali. Che è, primariamente, una lotta tra simboli dell’immaginario collettivo, un vero e proprio braccio di ferro tra Oriente e Occidente, a colpi di immagini sacre e volti profani. Ma Žižek, da sempre, non è un apocalittico senza speranze: se Vivere alla fine dei tempi legge il futuro come una crisi concreta del rapporto tra locale e globale, tuttavia consegna il futuribile proprio alla speranza di una umanità emancipativa, in cui uno smart mob è importante almeno quanto un picco positivo dei mercati internazionali.


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in questo caso, il grimaldello per capire come sia stato possibile arrivare dove si è arrivati, senza ricorrere al lamentoso e sterile j’accuse nei confronti delle masse. Qui si ragiona, invece, su come sia avvenuta una mutazione antropologica in cui siamo quasi condannati a un Super Io sociale che ci inchioda al godimento senza lasciare spazio al desiderio. In tal senso, e in sintonia con i recenti saggi di Žižek, Recalcati, Fiumanò, ma anche di Sloterdijk e Zoja – per altri versi – è come se l’uomo ipermoderno abbia lasciato impoverire il proprio Inconscio, inteso come giacimento immaginifico del desiderio, per lasciarlo colonizzare da un Super Io sociale che, al contrario di quello che accadeva nella teoria freudiana, invece di stabilire regole e far adempiere la Legge, condanna l’umanità gadgetizzata dei talk show e dei reality a “godere”, a spingere al massimo le leve della trasformazione in turbo-consumatori. E il fenomeno Berlusconi si iscrive proprio in questo frame: non ha più molto senso, osservano acutamente Carmagnola e Bonazzi, mettere in gioco le categorie moderne usate da Weber, Horkheimer, Habermas e neanche quelle della sociologia dei media di Castells. Berlusconi ha imposto la sua leadership all’Italia proprio perché è davvero antimoderno: egli riesce a saltare la mediazione della Legge perché personifica l’osceno della politica, tante volte utilizzato da Žižek come feticcio della contemporaneità. La differenza tra l’archetipo cinematografico del Caimano (Berlusconi nella narrazione filmica di Moretti) e l’archetipo del Divo (Andreotti in quella di Sorrentino), sta fondamentalmente nella estimità del primo, contro la distanza istituzionale del secondo: mentre il charisma del leader moderno poggia su un grigiore disincarnato e lontano che riverbera l’assoluta alterità simbolica della Legge (Andreotti, Berlinguer), il Caimano fa dell’allegoria e del somatismo (il ghigno associato alla “parola magica” Libertà) la chiave per impersonare il desiderio delle masse. Non c’è più distanza dal corpo del leader (come nella lettura di Belpoliti) e in questo significante abita il godimento liberato dei vincoli della Legge che il pubblico adorante possiede nel suo corredo antropologico.

Allora, più che usare concetti che hanno fatto la storia del Novecento, come quello di “coscienza reificata” di Lukàcs o le teorie dei Francofortesi sul carattere di desiderio reazionario (che appartiene al potere nella misura in cui esso si esplicita come il vettore che sfrutta a suo vantaggio i desideri repressi del popolo utilizzandoli contro l’interesse di quest’ultimo), gli autori suggeriscono di utilizzare il pensiero di Deleuze e soprattutto di Foucault per analizzare il berlusconismo come peculiare forma di “potere acefalo”. Secondo Foucault, infatti, il potere non nega e non proibisce, ma “soggettivizza”, “produce”. E produce, passando a Lacan, la messa in scena del godimento, della trasgressione, perché una quota di segreto (e sui segreti, veri o dissimulati, si gioca la dialettica e la semiologia del Caimano) è “necessaria” al potere; anzi, il potere ha addirittura bisogno di un “supplemento osceno”, dice Foucault, per auto legittimarsi. E Žižek quasi parafrasando le parole del filosofo di Poitiers, rincara la dose, affermando che l’ordine simbolico non può strutturalmente stare in piedi senza un lato segreto, osceno. Ebbene, all’interno del fantasma di questa oscenità, il leader contemporaneo, l’archetipo del Caimano, ha reso vincente la sua biopolitica, fondata su una incarnazione della coazione al godimento che rappresenta l’esito ultimo dei meccanismi di funzionamento dell’immaginario politico nel tempo della sua crisi e dello svuotamento dell’ordine simbolico ufficiale che la politica professa. E in questa politica che non abita più tra gli scranni del Parlamento ma sotto i riflettori dei talk show, i vizi privati (che un tempo dovevano essere attentamente separati dalle pubbliche virtù) costituiscono la nuova biopolitica che fa presa sui corpi e sul sentire collettivo. Il potere, dunque, “soggettivizza” incorporando la trasgressione e, attraverso la figura del Caimano, la spinta al godimento assoluto assume la forma di un imperativo categorico che rifiuta la castrazione. Ecco “cosa” è Berlusconi: la transustansazione delle paillettes e dei balconcini di “Drive in” all’interno della vita politica. “Berlusconi non gode al posto nostro” scrivono Carmagnola e Bonazzi, “gode per


Mimmo Pesare

Massimo Recalcati Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna Milano, Raffaello Cortina, 2011, pp. 189, € 14,00 Dopo L’uomo senza inconscio, il fortunato e densissimo saggio dello scorso anno, in cui Massimo Recalcati descriveva e analizzava le patologie derivanti dalla condizione di “spaesamento trascendentale” del soggetto ipermoderno, in Cosa resta del padre?, l’autore mette sotto l’affilatissima lente della psicoanalisi lacaniana un oggetto per certi versi già passato in rassegna nel testo che lo aveva preceduto. Si tratta della cosiddetta evaporazione della figura paterna, un elemento che, secondo Recalcati, non solo caratterizza la temperie ipermoderna e le dinamiche che ne definiscono le caratteristiche psico-relazionali, ma che (molto più significativamente) fanno comprendere in maniera profonda l’attualità delle analisi lacaniane per l’antropologia contemporanea. Probabilmente la differenza semantica che intercorre tra il concetto di paternità per Freud e per Lacan, potrebbe riassumere bene proprio lo scarto di significato che ha delineato il superamento della Modernità, sia dal punto di vista filosofico, sia da una prospettiva più propriamente clinica e psicoanalitica. Il discorso di Recalcati potrebbe essere riassunto in una tesi fondamentale: la figura paterna rappresenta il vettore che unisce la Legge al Desiderio; ma il gradiente di questa proposizione viene spiegata utilizzando una serie di questioni che disegnano un quadro molto articolato. I temi trattati sono tanti, alcuni prettamente lacaniani, altri originali: la dissoluzione della inter-

dizione classica della figura paterna, la questione epistemologica della ereditarietà, il problema del soggetto in rapporto al suo desiderio, la metamorfosi della famiglia contemporanea, la sfida a dio, solo per citarne alcuni. Tuttavia il discorso di Recalcati si dipana attraverso tutte le possibili sfumature che rendono comprensibile il significato di Lutto del Padre, a partire dalla figura totemica dell’orda primigenia freudiana di Totem e tabù, fino alla trasfigurazione di esso nel papi berlusconiano. Per inciso (e prosaicamente), quest’ultimo rappresenta proprio la degenerazione ipermoderna della legge di castrazione simbolizzata tradizionalmente dalla figura paterna e ne cristallizza impietosamente tutte la caratteristiche, quasi fosse un memorandum escatologico di quello che abbiamo di fronte se viene depotenziata la carica simbolica del divieto che il padre personifica: l’allergia alla Legge; l’ostentazione della falsa onnipotenza del proprio Io; il rifiuto di ogni limite nel nome di una libertà vacua; l’esacerbazione del narcisismo e del corpo come “macchina del godimento” (e non “macchina desiderante”, nell’accezione deleuziana, che sarebbe molto più incline alle tesi di Lacan); l’assenza del pudore come spazio dell’intimità, come luogo dello stare presso di sé. Il papi berlusconiano è la summa dell’evaporazione del padre in senso psicoanalitico e antropologico: la sua figura non è umanizzata. E per umanizzare la figura di un padre, è necessario “potersene servire”, spiega acutamente Recalcati: di un padre occorre farsene qualcosa, collocarlo nella giusta cornice simbolica che ne determina il peso specifico in termini di identificazione e divieto. Fare “Lutto del Padre” non equivale a bandirlo, a rimuoverne il senso e il ricordo; significa invece accettarne l’ereditarietà. Ma cosa vuol dire “ereditare”, si chiede Recalcati? Probabilmente la risposta più congrua è quella che lega il verbo ereditare a un complemento oggetto tipicamente lacaniano: ereditare significa ricevere la facoltà di desiderare e metterne in moto tutte le potenzialità. La questione della trasmissione del desiderio è, dunque, una delle spine dorsali del testo: la famosa

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tramite nostro. È lui che gode tramite l’immaginario che organizza biopoliticamente il nostro godimento idiota”.


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interdizione alla Cosa materna di Freud, che la Legge di castrazione paterna stabilisce, è proprio ciò che apre al desiderio. Dunque la Legge (il padre) non è una minaccia ma, al contrario, la condizione del desiderio stesso. La contemporaneità, dissolvendo la funzione simbolica del Nome-del-Padre, che è l’unico elemento in grado di arginare il godimento e promuovere l’unione tra la Legge e il Desiderio, crea un grande vuoto: rimuovendo la funzione pedagogica ante litteram della legge paterna, l’uomo diventa, appunto, senza inconscio, cioè senza la capacità di alimentare il suo desiderio. In quest’ottica la figura paterna porta con sé una reale possibilità di strutturazione della propria individuazione personale. E tale possibilità si rende concreta solo se “si usa” la figura paterna come resto, cioè come testimonianza etica e non come principio primo di garanzia ontologica di protezione e salvezza eterni. In altri termini, il resto del padre, che sopravvive anche alla sua morte, non ha valenza ideologica o teologica, ma costituisce semplicemente un gesto di responsabilità nei confronti del proprio desiderio. Questo atto singolare, poiché passa attraverso l’atto simbolico della nominazione che sancisce la filiazione, non avviene necessariamente nelle figliolanze di sangue: il “tu sei mio figlio” (l’amore del nome, detto in termini lacaniani) presuppone un riconoscimento del figlio come Altro, come differenza assolutamente asimmetrica e inassimilabile alle regole biologiche. E tale scarto abissale è testimoniato da Recalcati attraverso le immagini e le parole di alcuni personaggi della letteratura e del cinema. Come nel caso dei padri falliti dei film Million Dollar Baby e Gran Torino di Clint Eastwood, nei quali il fallimento paterno si rende evidente solo nei rapporti coi figli di sangue, ma si riabilita imprimendo una forte carica educativa nei confronti di figli eletti: l’eredità che eccede la genealogia. Come nel caso del rapporto tra figlio e padre morente in Patrimonio di Philip Roth, in cui la domanda fondamentale è “un padre può morire”? ma soprattutto “cosa lascia”? e la risposta di Recalcati è “lo scarto”, non le grandi opere, ma i residui della vita, gli scarti fisiologici e maleodoranti che rappresentano quello che Heidegger defini-

va l’Ent-fernung, il dis-allontanamento. Infine, come nel caso de La strada, di Cormac McCarthy, in cui, in un mondo senza legge, il padre è (quasi omericamente) “colui che porta il fuoco”, una testimonianza dell’avvenire come possibilità. Quella possibilità per cui, venuta meno la Legge ideologica, universale e teologica, alla figura paterna resta il compito di indicare i sentieri interrotti attraverso i quali è possibile “esistere senza voler morire e senza impazzire”. Mimmo Pesare

Elena Pulcini Invidia. La passione triste Bologna, Il Mulino, 2011, pp. 168, € 15.00 Con Invidia, si conclude la serie dedicata ai Sette vizi capitali curata da Carlo Galli per Il Mulino. Elena Pulcini ci presenta questa “passione triste” con gli strumenti dell’introspezione psicologica, dell’analisi sociale e della retrospettiva storico-concettuale. La più silenziosa, inconfessabile e terribile delle passioni, l’invidia è la sofferenza ed il malessere di chi sente nel bene dell’altro la diminuzione e imperfezione del proprio essere. Essa è dunque innanzi tutto passione relazionale, come ci viene spiegato anche attraverso l’etimologia della parola, da in-videre, che è il guardare male di chi appunto soffre osservando le qualità che l’altro possiede. Ma è anche il patire, attraverso questo sguardo, ciò che non si è e si desidera essere, che non si ha e si desidera avere. Ciò che è nell’altro, diventa agli occhi dell’invidioso limite della sua potenza e possibilità di espandersi; ciò che nell’altro è il suo bene, diventa impossibilità di raggiungerlo; ciò che all’altro conferisce fama, onore, stima sociale, si riflette nell’invidioso alimentando il senso di frustrazione e inferiorità. La chiave di lettura che Elena Pulcini ci offre in questo prezioso, agevole e vivace


della felicità altrui e, al contrario, gode del male altrui” (Ethica, Libro III, Def. XXIII). Nella visione dell’autrice, che qui ricalca il noto studio di Banasayag (L’epoca delle passioni tristi), l’invidia ha l’esclusiva di essere, rispetto agli altri vizi capitali, “un vizio senza piacere” (p. 21); non vi sarebbe nulla nell’invidia che consenta all’invidioso di godere del proprio peccato, come accade nel godimento della propria eccellenza (superbia), dello sfogo aggressivo (ira), dei piaceri (gola e lussuria), del possesso (avarizia) o dell’ozio (accidia). La citazione spinoziana ci consente anche di capire che il duplice volto dell’invidia, quello che provoca odio verso la felicità altrui e quello che provoca godimento del male altrui, appartiene alla stessa medaglia di un vizio mai pago di se stesso. La gioia che l’invidioso prova per le disgrazie che colpiscono chi è oggetto della sua invidia è pur sempre una “gioia maligna”, sempre rancorosa, astiosa, risentita; un serpente che si mangia la coda, che inquina una personalità livida di odio, perfida, vendicativa. L’invidia, insomma, si alimenta solo del negativo; se è passione che dipende dal rapporto sociale, dal desiderio mimetico, diventa poi antisociale, quando ciò che si desidera e ama non si può o non si riesce a conquistare, convertendosi così in oggetto di odio e di risentimento (il riferimento è agli studi di Girard, alla nietzschiana genealogia della morale, alle riflessioni psicologiche di Scheler, autori molto presenti in tutto il discorso). A differenza delle altre passioni, poi, ha la caratteristica di essere poco riconoscibile: nessuno infatti dichiarerebbe di non essere felice per le qualità che l’altro possiede, ma preferisce simulare una falsa contentezza per mascherare la propria sofferenza e dunque il proprio sentimento di inadeguatezza; l’invidia allora diventa compagna dell’ipocrisia, perché ha bisogno di dissimulare. L’invidia, inoltre, sembra assumere i contorni di una vera e propria passione universale, sia nel senso che tutti possono esserne tanto vittime quanto soggetti, sia nel senso che essa attraversa tutte le epoche storiche e le tipologie di società. L’autrice ce lo spiega attraverso una retrospettiva storica che parte dall’antica Grecia, con la

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volumetto, è tutta contenuta in questa prospettiva relazionale e riconoscitiva da cui l’invidia scaturisce, laddove l’altro diventa la misura esclusiva con la quale si percepisce il proprio valore. Non basta però evidenziare come l’invidia scaturisca dalla relazione, occorre anche analizzare la tipologia relazionale, perché, com’è ovvio, esistono relazioni nelle quali il confronto con l’altro conduce all’emulazione, alla competizione e alla simpatia. Per generare invidia occorre innanzi tutto dare valore agli stessi beni, quello dell’altro deve cioè essere un bene a cui l’invidioso conferisce un valore importante per la costruzione della sua identità; occorre poi essere con l’altro in una relazione di “prossimità”, di vicinanza e similitudine, partire insomma da condizioni di pari opportunità: “l’uguaglianza […], è il presupposto per eccellenza dell’invidia, in quanto autorizza il confronto, lo rende commensurabile e legittimo […]: se siamo uguali, perché lui/ lei sì e io no?” (p. 15). Ma l’invidia può avere a che fare con il semplice desiderio di essere come l’altro, con le sue qualità (bellezza, ricchezza, successo, fascino, cultura) anche per il solo fatto di non essere come lui e non perché nella propria scala dei valori si dia peso a tali qualità. Incontriamo qui le acute analisi che l’autrice intrattiene sul rapporto dell’invidia con la superbia, la gelosia e l’ira, sui loro comuni aspetti e sulle differenze che le distinguono; oppure sul carattere irrazionale e nichilistico dell’invidia che da desiderio frustrato di espansione dell’io si converte in disperante autodistruzione, se questa è necessaria per distruggere l’altro. È in questo recare danno, in quest’esito distruttivo e disgregante che l’invidia da passione diventa vizio o peccato, secondo una gradualità del male che può andare dalla semplice svalutazione pubblica dell’altro, fino alla calunnia, al tradimento e all’omicidio (come nel caso di Cristo). Si comprende quindi perché l’invidia sia stata annoverata tra le “passioni tristi”, quelle che nella spinoziana geometria delle passioni discendono con deduttiva necessità dalla tristitia e dall’odio: “L’invidia è odio in quanto s’impadronisce talmente dell’uomo che questi si rattrista


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sua intramontabile letteratura di miti, eroi e divinità, attraversa la civiltà giudaicocristiana (si pensi a Lucifero, a Caino e Abele), la società medioevale, quando si codifica il vero e proprio settenario dei vizi capitali, fino a giungere, passando per la modernità, ai giorni nostri; senza trascurare leggende e pratiche che si sono sedimentate nella cultura popolare (si veda la credenza nel malocchio). Decisamente originale è il capitolo centrale sulla metamorfosi che la condanna pre-moderna dell’invidia subisce con il passaggio alla società moderna, quando cioè individualismo e capitalismo stimolano la formazione di contesti competitivi, nei quali, secondo l’autrice, l’invidia “trova la propria humus ideale” (p. 57). Essa in un certo senso riceve la propria legittimazione nell’affermazione dell’homo oeconomicus e dei suoi valori, primo fra tutti l’utile declinato come affermazione di sé, concorrenza, ricchezza, accumulazione di beni, lusso, prestigio sociale. Il confronto serrato con Mandeville e Adam Smith consente di evidenziare il ruolo propulsivo che la civiltà moderna ha consegnato all’invidia per lo sviluppo economico e il benessere sociale. Ma quando l’individualismo, con il suo illimitato desiderio di possedere e di essere, si universalizza grazie al principio democratico di eguaglianza, intesa come eguali possibilità di realizzare se stessi, ecco che l’invidia può manifestare, meno ottimisticamente, tutti i suoi effetti corrosivi e patologici. Essa cioè va a mortificare lo stesso principio di eguaglianza, che quando si coniuga con l’invidia, invece di esaltare e promuovere le differenze si converte in una passione livellante, “nell’affannosa e coattiva tendenza, acuita dall’invidia, all’eliminazione di ogni differenza” (p. 83). Da qui ancora si dirama un altro interessante percorso di carattere etico-politico che nel riattualizzare l’egualitarismo delle differenze dei meriti (Rousseau) e dei bisogni (Marx) rimarca come al contrario dell’invidia, che può generare solo una falsa eguaglianza, solo la giustizia, sostenuta spesso da pulsioni emotive come l’indignazione verso situazioni di insopportabile discriminazione, possa restituirci un’eguaglianza “antilivellatrice”.

Di particolare intensità argomentativa e emotiva è il lungo paragrafo sull’invidia che colpisce l’universo femminile, dove con pacato ma intenso scavo culturale e psicologico l’autrice cerca di fare chiarezza sull’atavica identificazione che unisce l’invidia alle donne. Uno stereotipo che l’autrice più che smontare, intende spiegare alla luce della condizione di subalternità e debolezza nella quale le donne sono state costrette; invidiose dunque, perché “costrette all’invidia”, e non perché esista una presunta natura incline al vizio. Ma soprattutto invidiose non degli uomini – altro stereotipo sanzionato dalla lettura freudiana della sessualità infantile, ormai largamente superato dalla psicoanalisi e dalla filosofia di genere – bensì delle stesse donne. Una passione, quella dell’invidia, che ha la sua genesi nel rapporto madre-figlia, analizzato con il supporto delle favole e della letteratura psicologica più avvertita sull’argomento, ma che tuttavia ha anche il potere di consegnare alle donne, quale antidoto dell’invidia, “una tensione solidale”, “un desiderio di appartenenza”, che si attiva ogni volta che si tratta di soccorrere, soprattutto nel pubblico, il bisogno, il diritto, la difesa dell’altro. Gli aspetti più inquietanti dell’invidia tra donne sono però il segno dei tempi, i quali valorizzano il successo, la carriera, il conseguimento di ruoli di prestigio e potere, la seduzione, la bellezza e giovinezza, obiettivi che scatenano tra donne competizioni spesso sleali e subdole, come non solo la letteratura, ma i più potenti mezzi cinematografici e televisivi raccontano. E infatti, il potenziamento del mito del successo, della società dello spettacolo e dei consumi, la massificazione della cultura e del gusto, che caratterizzano la cosiddetta “società liquida”, riconsegnano all’invidia terreno fertile per rigenerarsi tenacemente in una corsa al possesso di beni effimeri, al raggiungimento del successo facile, all’imitazione di modelli di bellezza e opulenza, che tuttavia denota, ancora una volta, un’inconscia volontà di livellamento. Con la differenza che la volontà di abbassare gli altri al proprio livello, implicita nel rischio dell’eguaglianza, si converte nella società di massa, in vuoto conformismo, che è


Elena Maria Fabrizio

Carlo Formenti Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro Milano, Egea, 2011, pp. 149, € 18,00 La rimozione della categoria del conflitto costituisce, da almeno un ventennio, la base sulla quale è stata edificata la riflessione dominante sui cambiamenti sociali. Si tratta di ciò che Carlo Formenti, in questo breve e densissimo libro, definisce “lo spettro del console Menenio Agrippa”, il console autore del celebre apologo nel quale convinse la plebe romana a non ribellarsi alle decisioni del Senato. Si tratta di una visione dominante che si rappresenta come pensiero unico, in nome della presunta “fine delle ideologie”. È bene chiarire che la fine delle ideologie, in questa prospettiva, significa sancire su basi scientifiche la scomparsa dei conflitti e, in particolare, il venir meno del conflitto capitale-lavoro. E, per quanto attiene all’oggetto studiato da Formenti, significa accreditare l’idea che la rete è un luogo nel quale – in regime di democrazia ed eguaglianza – il lavoro diventa creativo e incessantemente volto alla produzione di innovazioni, a beneficio dell’intera collettività. In un’accezione più generale, si ritiene che la riproduzione capitalistica, in assenza di interferenze esterne al funzionamento di un’economia di mercato, non genera

esiti conflittuali, né può presupporli. In tal senso, l’accumulazione si autolegittima, producendo spontaneamente la migliore possibile allocazione delle risorse, a vantaggio di tutti. Merita di essere rilevato che questa impostazione non solo rimuove dall’analisi economica e sociale la categoria del conflitto, ma non tiene conto della correlata categoria del potere. Queste rimozioni costituiscono l’ovvio (e implicito) esito della fondazione epistemologica della visione dominante, la quale – adottando il paradigma della scelta razionale – si propone come teoria oggettiva e universale, approssimabile alle ‘scienze esatte’, in grado di dar conto dei fenomeni sociali ed economici indipendentemente dal contesto storico, sociale e istituzionale nel quale essi si svolgono. È bene chiarire che ogni modello che intenda fornire una rappresentazione delle dinamiche economiche e sociali si basa su ipotesi e premesse che, per loro stessa natura, non possono essere neutrali. Non possono esserlo dal momento che, anche a prescindere dall’esistenza di una domanda politica di teorie scientifiche a sostegno di interessi consolidati, il singolo ricercatore produce idee sulla base della sua specifica visione pre-analitica, ovvero della sua visione del mondo e, dunque, consapevolmente o meno, del suo orientamento politicoideologico. Da ciò segue che, nell’ambito delle scienze sociali, nessuna teoria può considerarsi più vera di un’altra e che, dunque, in ogni momento esistono teorie che si pongono in radicale contrapposizione, essendo basate su presupposti fra loro inconciliabili. È significativo rilevare che la sostanziale differenza fra una teoria che si propone come scientifica e una teoria critica è che la prima, per definizione, non può esplicitare i presupposti pre-analitici che ne sono a fondamento. Essa si ritiene vera perché rispetta il duplice requisito della coerenza interna e della falsificabilità empirica. La scelta delle ipotesi è del tutto irrilevante. Ma ciò che conta è che, poiché si tratta di una teoria vera (o che si approssima alla verità scientifica), non può ammettere l’esistenza di teorie critiche, alle quali, di fatto, non fornisce legittimazione.

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desiderio di abbassarsi al livello degli altri, di attingere più che agli stessi beni, agli stessi modelli di vita che tali beni veicolano e valorizzano. Consapevoli che l’invidia è la peggiore delle passioni, il più malefico dei vizi, si tratta di capire come salvaguardare se stessi e la società da questa passione ancestrale e primordiale capace di rigenerare, come un’Idra immortale, il suo potere disgregante e distruttivo.


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La riflessione di Formenti, estremamente originale, si pone in radicale contrasto con questa visione, riproponendo una lettura marxista delle dinamiche sociali, con particolare riferimento al ruolo dei nuovi media nel generare relazioni di gerarchia, potere, subordinazione, in un ambiente macro-sociale nel quale il conflitto (e lo sfruttamento) assume una rilevanza centrale. Al tempo stesso, l’autore è critico anche nei confronti degli approcci post-operaisti, stando ai quali – nel capitalismo contemporaneo – la produzione di valore discende dalla creatività individuale e collettiva (la “moltitudine”), che si esercita in primo luogo proprio mediante l’incessante trasferimento di informazioni e conoscenze in rete. Con riferimento al primo aspetto, Formenti argomenta che “sui lavoratori salariati che operano nelle imprese, le nuove tecnologie esercitano un dominio ancora più schiacciante di quello esercitato dal macchinario fordista, visto che a essere oggetto di coercizione, controllo e disciplinamento è ora la mente più del corpo” (p. 116). Si tratta di una tesi che, ad avviso di chi scrive, è pienamente condivisibile, sebbene lasci una questione aperta, in quanto riferita all’impianto teorico marxiano. Tale questione rinvia al problema della misurazione (quantomeno in termini reali) dello sfruttamento in un’economia nella quale assume peso crescente la produzione di beni intangibili e, soprattutto, in un’economia nella quale il processo di valorizzazione – come riconosciuto dall’autore – ha prevalentemente luogo attraverso la produzione di conoscenza. Formenti ritiene irricevibile anche l’impostazione post-operaista, basata sull’idea che esista una “moltitudine” in grado di espletare la funzione di “soggetto della rivoluzione”, secondo l’impostazione di Negri e Hardt. La critica dell’Autore è su questo aspetto dirimente: “… dal momento che il capitale non può vivere senza porre il tempo di lavoro come misura unica e fonte di ricchezza, non è possibile sfruttare il potenziale liberatorio del general intellect”. E ancora (p. 98): “Il paradosso del nuovo operaismo consiste … nell’affermare che nulla è più lavoro, ma che, al tempo stesso, tutto diventa lavoro”. E vi è di più. Formenti (pp. 99 e ss.) fa riferimento alla

finanziarizzazione e alla crisi economica globale, generata da crescenti disuguaglianze distributive e dall’esplosione del credito al consumo soprattutto negli Stati Uniti. Rileva correttamente che il credito al consumo ha costituito un potente dispositivo che il capitale ha posto in essere per “scongiurare il rischio di crisi da sottoconsumo”. Sebbene l’autore non ampli l’argomentazione, è qui implicita l’idea – ampiamente documentata sul piano empirico – che la modalità di competizione prevalente nel capitalismo contemporaneo è basata sulla compressione dei costi di produzione e dei salari in primo luogo, o mediante il prolungamento della giornata lavorativa (Marx, 1980 [1894], Il Capitale, Editori riuniti, pp. 283 ss.). È cioè estrazione di plusvalore assoluto. E lo è ancor più nei Paesi periferici dello sviluppo capitalistico. In questo scenario, sembra davvero problematico ritenere che la valorizzazione del capitale avvenga sempre mediante l’appropriazione di conoscenze prodotte dalla “moltitudine”. Stando a Marx, la riproduzione capitalistica, nel suo alternarsi ciclico, può non aver bisogno di nuove conoscenze, dal momento che il capitale può ridurre il salario al di sotto del suo valore (ibid., p. 287). Se si accoglie questa tesi, l’impostazione di Negri e Hardt quantomeno non può avere valenza generale, proprio perché intende fornire una teoria generale della riproduzione capitalistica, che, per sua natura, non tiene conto delle diverse modalità con le quali – in differenti assetti istituzionali e in differenti momenti storici – il capitale si riproduce. In definitiva, questo volume, che l’autore definisce un pamphlet, non ha obiettivi propositivi (cfr. pp. 143 ss.). Come si legge nell’Introduzione, “questo è un libro esplicitamente e orgogliosamente ideologico”, interamente dedicato al polemos, volutamente non accademico. Va dato merito, anche per questo, all’autore: nel dominio del pensiero unico, scrivere un volume orgogliosamente ideologico va salutato come un atto di onestà intellettuale piuttosto raro nell’Accademia italiana. Guglielmo Forges Davanzati


Milano, Mimesis, 2011, pp. 180, € 16.00 In tempi come questi il concetto di spazio è quanto mai sottoposto a una radicale riformulazione. Che cos’è lo spazio? E soprattutto, si può ridurre alla sua variante propriamente fisica? Possiamo, oggi, legittimamente, considerare lo spazio soltanto come luogo, come esperienza tridimensionale, in senso classico? Nel mondo che abbiamo davanti ai nostri occhi il concetto di spazio risulta sempre più ricco e articolato, massicciamente ridefinito dalle incursioni dei nuovi media nelle nostre vite. Come pensare lo spazio in una piattaforma di economia relazionale come FaceBook, per esempio? O come indicarlo in un contesto in cui siamo sempre più portati all’always on, alla permanente connessione in rete attraverso dispositivi in continua evoluzione? Il concetto di abitare è un concetto plastico e multiforme che intrattiene un rapporto con lo spazio, certo, ma che non si esaurisce in esso, perchè abitare è una funzione attiva dell’essere umano, cioè, spiega Pesare sulla scia di alcune grosse elaborazioni teoriche novecentesche, abitare vuol dire metaforizzare uno spazio, alterarlo per mezzo delle nostre proiezioni esistenziali. Il lavoro presenta una ricca e affascinante panoramica su alcune opzioni teoriche del secolo scorso che fanno dell’abitare un Grundproblem, una questione di rilevanza fondamentale per tutte le scienze che prendono in analisi l’umano e i dispositivi di funzionamento della società. Abitare ed esistenza mira, quindi, alla legittimazione teorica del concetto di abitare, metodologia di ricerca che offre alla filosofia una potenzialità analitica dirompente, in grado di rispondere all’esigenza di proporre letture adeguate del senso profondo dei fenomeni che attraversano la nostra attualità. Il primo riferimento, da studioso di Heidegger, non poteva che essere per l’autore

di Essere e tempo e riguardare una lettura ontologica del concetto di essere-nel-mondo (In-der-Welt-sein). In tal senso vanno le considerazioni che portano tale nucleo ontologico dell’esperienza della soggettività a essere assimilato con il “trattenersi in un rifugio”, con le problematiche del soggiornare, dell’essere al riparo. Pesare procede cercando di mettere in luce la centralità del concetto di abitare nell’ontologia heideggeriana, seppur riconoscendone la collocazione marginale nell’opera del filosofo tedesco. Marginale ma decisiva, visto che l’irrompere della concettualità composita delle tematiche spaziali sarebbe alla base dell’interruzione di Essere e Tempo. Per ridefinire il senso della spazialità esistenziale si prendono in esame gli scritti della svolta di Heidegger, in cui trovano posto esplicite disanime del concetto di abitare, fino al celebre (rispetto a tali questioni) Costruire, abitare, pensare. Pesare ci porta a leggere l’altrettanto celebre espressione heideggeriana “Il linguaggio è la casa dell’essere” proprio come esemplificazione dell’incursione dei temi legati alla spazialità nella speculazione del filosofo tedesco. Il linguaggio rappresenta il luogo in cui si manifesta l’evento dell’essere, ma di questa casa, fatalmente, noi non siamo tanto i proprietari, quanto gli ospiti, a dir la verità alquanto confusi e legati ai proprietari legittimi da una certa estraneità. Nella casa dell’essere, cioè nel linguaggio, non è tanto l’uomo a possedere il linguaggio, quanto il linguaggio a possedere l’uomo. A questo punto, quindi, Heidegger sembra non bastare più e la ricerca di Pesare vira verso una doppia direzione. Da una parte verso la definizione delle strutture antropologiche dell’immaginario, per analizzare la provenienza delle forme simboliche all’interno delle quali prende forma il nostro modo di sentire il mondo. Tali forme rappresentano la condensazione di processi storici all’interno dei quali circolano gli elementi dei miti, dei riti, delle rappresentazioni. A questo primo scopo rispondono i riferimenti a Gilbert Durand, su tutti. Emerge come il regime notturno dell’immaginario collettivo sia costellato dai simboli dell’intimità, simboli che co-

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Mimmo Pesare Abitare ed esistenza. Paideia dello spazio antropologico


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appartengono all’universo di significato dell’abitare. Tali riflessioni consolidano l’ipotesi che l’esperienza dell’abitare possa rappresentare una sorta di invariante antropologica, un carattere fondativo dell’essere umano e delle sue disposizioni etiche legate all’esperienza della dimora e dell’interiorità. Ma, dicevamo, l’elaborazione heideggeriana è completata anche in un’altra direzione, quella che prende le mosse dalla consapevolezza di non essere (per tornare alla metafora del proprietario e dell’ospite) tanto a casa propria, anche quando siamo accomodati proprio sul nostro divano. Le elaborazioni prese in esame mirano a far luce su un’altra grossa eruzione della teoria novecentesca, quella rappresentata dal concetto di inconscio. Tematica tanto monumentale quanto controversa che Pesare sceglie di seguire, principalmente, nella sua variante lacaniana. Per Lacan l’individuo non è che portatore del discorso dell’inconscio, ed è quest’ultimo a costituire il vero soggetto in questione. Al fondo dell’inconscio si trova il desiderio, altra categoria centrale nella filosofia contemporanea. Il desiderio è preso in una dialettica senza scampo con la béance, la mancanza-a-essere, una falla originaria che il nostro desiderio tenta di colmare continuamente, ma anche inutilmente, verrebbe da dire. Le argomentazioni di Pesare portano a chiedersi se, in fondo, la strutturale incolmabilità di tale mancanza originaria possa rappresentare sia il tratto fondamentale del modo in cui il desiderio opera in noi, che un certo grado di criticità e di impossibilità dell’esperienza dell’abitare. È al culmine di tale processo senza soluzione che Pesare ci porta a riconsiderare il tema dell’abitare come risposta alla domanda insostenibile del desiderio e alla cura (Winnicott, ma anche Foucault) come prassi, come condotta etica (l’ethos greco nella accezione heideggeriana significa proprio luogo dell’abitare) che realizza il bisogno innato di trovare un luogo che possa fornire riparo alle umane erranze. Cosimo Degli Atti

Piero Gobetti Lo scrittoio e il proscenio. Scritti letterari e teatrali (a cura di G. Davico Bonino) Nardò, Edizioni Controluce, 2010, pp. 259, € 20,00 Morì a soli venticinque anni, eppure la sua opera, il suo pensiero, la straordinaria intraprendenza e il lucidissimo, vivace intelletto hanno fatto di Piero Gobetti uno dei più grandi uomini di cultura italiani, di tutti i tempi. Il suo intervento sulla scena politica ed intellettuale del Paese fu così incisivo, graffiante e significativo che il dibattito sulla sua figura è costantemente aperto e stimolante, gli studi sulla sua opera si susseguono a ritmi ancora oggi incalzanti e le pubblicazioni che lo riguardano, anch’esse fitte e frequenti, apportano sempre una nuova sollecitazione, un contributo inedito, una tessera originale che concorre a ricostruire il prezioso mosaico di questo grande personaggio. Di notevole interesse è, a questo proposito, il volume edito nel 2010 dalle edizioni Controluce di Nardò (Lecce) dal titolo Lo scrittoio e il proscenio. Scritti letterari e teatrali, curato da Guido Davico Bonino, autore di una accuratissima introduzione che esordisce sottolineando un dato “che non cessa di stupirci e di accenderci, ogni volta, di ammirazione: la sua opera, prodigiosa per varietà di interessi e vastità di orizzonti, si esprime tutta, come una fiammata, nel giro di sette anni” (p. 7). In effetti, il giovanissimo Gobetti, neanche diciottenne, fonda nel 1918 la rivista Energie nove, d’impronta liberale-einaudiana (Einaudi era stato suo insegnante al liceo); inizia poi a studiare il russo con l’amatissima Ada (splendido l’epistolario, curato da Ersilia Alessandrone Perona e pubblicato nel 1991 da Einaudi) e ne diventa traduttore; abbraccia con veemenza le lotte del movimento operaio torinese e, avvicinatosi al comunismo, inizia a collaborare al gramsciano L’Ordine Nuovo come critico teatrale, raccogliendo la non facile eredità


dice mai niente” (p. 57), o che è asservita al potere dell’amicizia o del favore. Si salva Papini, che ha il coraggio della stroncatura, “arma libera e onesta” (ibid.). Lo sguardo attento del giovanissimo Gobetti si sposta poi sull’editoria italiana, monopolio quasi totale, all’epoca, della casa editrice Treves contro la quale scaglia uno scritto ironico e esplicitamente accusatorio: tra le varie “invettive” contenute nell’articolo, si legge per esempio che “l’editore deve essere un iniziatore di cultura, un organizzatore di lavoro spirituale e Treves è solo un tipografo” (p. 62), oppure “Treves ha una concezione tutta sua dello scambio e del commercio per cui crede che non sia possibile realizzare guadagni se non ingannando il compratore” (p. 63). Di particolare intensità le pagine dedicate a Dante, del quale Gobetti tenne una commemorazione indirizzata ai commilitoni durante il servizio militare. “Il fascino della sua arte – scrive Gobetti – nasce dalla complessità degli elementi ch’egli ha ridotto nell’unità della visione fantastica” (p. 72), “Dante è l’ultima espressione perfetta del Medioevo e la prima affermazione del mondo moderno” (ibid.). Nella seconda parte del volume, più corposa, sono raccolti gli scritti teatrali per lo più tratti dalla sua attività di critico per L’Ordine Nuovo, dove prese il posto di Antonio Gramsci. Gobetti ha solo vent’anni ma una maturità intellettuale e una padronanza tali da esprimere giudizi su commediografi, attori e sul teatro in generale con vigorosa fermezza. Inoltre, come fa notare Davico Bonino, “indipendente com’è, per età, per istinto e cultura, non si sente affatto obbligato a uniformarsi al metodo di chi lo ha preceduto” (p. 16). Il curatore, poi, ci ripropone l’articolo con cui Gobetti inaugurò la sua attività di critico teatrale sulla rivista gramsciana: un pezzo di fondamentale importanza che Davico Bonino non esita a definire “programmatico”, rintracciando in esso le basi dell’ideologia critica gobettiana secondo la quale la poesia drammatica è “opera d’arte” tanto quanto quella epica o lirica perché tutte “visione del mondo dello spirito rappresentato dall’artista nell’intimità del suo animo” (p. 97).

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del fondatore che, in questa rivista, svolgeva proprio quel compito (gli scritti teatrali di Gramsci sono stati ripubblicati integralmente nel 2010 da Aragno in un volume curato proprio dallo stesso Davico Bonino); fonda poi un’altra rivista, La rivoluzione liberale, nella quale, oltre ai precedenti obiettivi liberali e di rinnovamento morale della classe politica e della società, vengono propugnate anche nuove istanze sociali a favore della partecipazione del popolo alla vita dello Stato; si sposa, fonda una casa editrice che avrà il suo nome; con l’avvento del fascismo, la conseguente strenua e feroce lotta di Gobetti contro il regime e la pubblicazione del celebre volume La rivoluzione liberale. Saggio sulla politica in Italia, inizia una lunga catena di arresti, pestaggi e persecuzioni che contribuiranno in maniera decisiva alla sua morte prematura; alla fine del 1924, nonostante i continui sequestri della rivista, pensa bene di fondarne un’altra, Il Baretti, consacrato esclusivamente alla letteratura per la quale, d’altra parte, dimostra un’acutissima competenza anche quando, nello stesso periodo, pubblica con la sua casa editrice gli Ossi di seppia di Montale; sofferente di cuore e indebolito ancor di più dalle frequenti aggressioni degli squadristi, muore nel 1926 in un piccolo paese della Francia, dove era intenzionato a proseguire la sua attività editoriale. Tutto questo in sette anni. Di questa brevissima ma irrefrenabile e intensa carriera, il volume di Davico Bonino (arricchito anche da un prezioso ritratto gobettiano steso da Carlo Dionisotti) ha inteso restituire al pubblico gli scritti che Gobetti dedicò alla letteratura e soprattutto al teatro, sparsi per lo più sulle sue riviste (Energie Nove e Il Baretti) e su L’Ordine Nuovo, ma anche su altri periodici quali Il Popolo Romano, L’Ora, Il Lavoro e Scene e retroscene, a suo nome o con vari pseudonimi come Rasrusat, Macouf, Silvio Alfiere o addirittura Baretti Giuseppe. Per quanto riguarda la prima parte del libro, in cui si raccolgono articoli di carattere letterario, emergono alcuni dati di particolare curiosità. Primo fra tutti, lo scetticismo di Gobetti nei confronti della stessa critica letteraria che troppo spesso offre un tipo di recensione “che vuol dir tutto e non


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Tra i numerosi scritti dedicati al teatro vanno segnalati quelli su Pirandello: recensioni ad alcuni spettacoli, analisi schiette e inclementi degli interpreti o dissertazioni puntuali sull’arte dell’autore siciliano che lo portano, per esempio, a scrivere che “la sua riforma è tutta interiore e personale […] tutta la filosofia che si ritrova in Pirandello non è astratta cultura, non brillante paradosso, ma forma mentis dell’autore […]. L’arte di Pirandello non cerca strani abissi di tenebroso tecnicismo filosofico o nubi irraggiungibili d’astrattezza; ma esprime semplicemente, limpidamente l’anima dell’autore. Colpa del lettore, se non intende” (p. 143). Insieme agli articoli sui commediografi italiani (per i quali non dimostra grande stima) e sui singoli attori (non asettici profili, ma meticolose valutazioni), come Ermete Zacconi, Emma Gramatica, Eleonora Duse, Alda Borelli, Angelo Musco, Dina Galli, Armando Falconi, Maria Melato, Antonio Gandusio e Ruggero Ruggeri, risaltano anche, per valore oltre che per interesse, gli scritti dedicati agli autori stranieri e al teatro sperimentale, in particolare quello di Anton Giulio Bragaglia che, “per l’assenza di mezzi sarà ricchissimo” (p. 189). È proprio nel teatro sperimentale che Gobetti ripone le sue speranze per il futuro di quest’arte, perché questo genere “potrebbe diventare la base, il direttore, il suscitatore del teatro italiano: il cervello, il centro della nuova spiritualità estetica, perché le minoranze impongono ai più non solo il pensiero, ma il gusto stesso” (p. 190). Maria Ginevra Barone

Patrizia Calefato Metamorfosi della scrittura. Dalla pagina al web Bari, Progedit, 2011, pp. 110, € 16,00 Leggerezza. Rapidità. Esattezza. Visibilità. Moltepicità. E Metamorfosi della scrittura.

Indagando l’attitudine all’accumulo di comunicazione virtuale che ha prodotto la proliferazione della parola e soffermandosi sulla sottile linea che separa i lettori dai leggenti o gli scrittori dagli scriventi (Barthes), Patrizia Calefato traduce la messa in scena della scrittura, e sottolinea come le pratiche linguistiche si possano associare a pratiche di accettazione e preservazione del proprio essere al mondo. In questo senso i processi dell’aumento smisurato di social network, comunicazione pubblicitaria, ipertesti, sono il tessuto attraverso cui il corpo si in-scrive nelle pratiche sociali. È nello scambio tra invenzione e realismo che la parola plasma le tracce linguistiche in mappature di mostrazione segnica, allargando le sue sfaccettature al mezzo fotografia, grafica, moda. L’autrice rielabora le lezioni americane di Italo Calvino, mettendole a confronto con le possibili evoluzioni contemporanee. Mentre parla di Leggerezza, Calvino fa riferimento ai bits, flussi informativi senza peso a cui le macchine obbediscono; la Rapidità esige la velocità dello scambio comunicativo poiché, per dirla con l’autore delle Lezioni americane, “nella vita pratica il tempo è una ricchezza di cui siamo avari”; l’Esattezza richiede una definizione e trasparenza dei concetti che oggi fa i conti con la sovrapproduzione dell’informazione; la Visibilità intesa come ‘repertorio del potenziale’ e paragonabile ai rimandi immaginativi del web; la Molteplicità è l’infinita concatenazione di pensieri e re-azioni da cui oggi siamo sedotti, un condominio perecchiano di incroci e impastamenti. La scrittura è una pratica di traduzione. La costruzione del significato linguistico è dato dal passaggio dalla testualità verbale alla testualità informatica, (De Mauro), una farsi che diventa spiazzamento quando pensiamo ai sistemi di autocorrezione della macchina informatica. Al rituale della tessitura, l’autrice associa il pensiero di Giorgio Raimondo Cardona, che dice della capacità del corpo di inscriversi nel mondo attraverso la parola. Derrida definisce questa pratica di tra-scrizione/traduzione uno “spartito teorico”, una mappa di tracce che diventano ritmo, tempo, distanziamento, différance. Un guardare di traverso, un prendere le


la carta stampata e il digitale, nella grande opera aperta (Eco) che è oggi lo scenario comunicativo, trasformandoci noi stessi da osservatori/viaggiatori attenti e fotografi/videoamatori, quindi autori/scrittori di scene di vita reale. Si percorre lo stretto “intersecarsi e significarsi reciproco” di pelle e lingua, “un sistema attraverso cui il corpo e l’occhio vengono toccati dal rivestimento”. Quando la scrittura incontra lo sguardo feticista della moda diventa maschera e artificio. Il tra-vestirsi di gestualità (est)etiche diventa proiezione di distinzioni e dis-uguaglianze, fondato su “una sorta di filosofia del nulla” (Barthes), che parafrasata, come dice l’Autrice, diventa un lavoro sul “nulla del mondo”, così come la parola e i racconti hanno vita dal nulla/tutto della creatività. C’è un rapporto molto stretto tra identità e lingua. C’è una specie di pelle intorno alle parole che è una sorta di “ordito del movimento umano” (Appadurai) e che crea una sorta di (auto)rappresentazione di una identità letteraria. Il linguaggio è un congedo e una rinascita, e la scrittura è per noi, come ha scritto Foucault, “la presenza reale, assolutamente lontana, scintillante, invisibile, il destino necessario, la legge ineluttabile, il vigore calmo, infinito, misurato di questo stesso pensiero”. Lara Carbonara

Alfonso Berardinelli Che intellettuale sei? Roma, Nottetempo, 2011, pp. 95, € 7,00 Deve pur esserci una qualche ragione se gli intellettuali da un po’ di tempo hanno ripreso a pensare se stessi e il proprio ruolo. Sui paradossi della loro presenza pubblica l’editore romano Nottetempo ha raccolto scritti e brevi saggi presentati tra il 2007 e il 2010 dal saggista e critico letterario Alfonso Berardinelli, che si fa apprezzare per una scrittura sottilmente umoristica e a tratti di garbata auto parodia.

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distanze che ricorda la leggerezza di Perseo con Medusa (Calvino). Liquidamente, la Calefato attraversa i secoli, da Seneca, passando per Sciascia, fino a Pier Paolo Pasolini e Roberto Saviano per arrivare alla scrittura letteraria dei social network, che hanno alimentato la sete di giustizia dei giovani. Il risultato della diffusione capillare delle informazioni sono state quelle che l’autrice chiama le rivoluzioni euro-mediterranee della scrittura. Dall’Egitto alla Libia, da Twitter a Facebook, la coscienza del web è diventata coscienza di popolo, tracciandosi come un processo di metamorfosi, traduzione e trasmissione ideologica. Riconoscere, trasmettere, tra-dire i discorsi rompendone la linearità; uno snodarsi della realtà fuori riga fra nessi, nodi, reti, trame, percorsi, intrecci; una proiezione in suggerimenti trasversali, è l’incisione del testo fuori di esso, il suo collegarsi ad altri segni, il suo penetrare altre pagine, il suo sviluppare altri temi, il suo navigare in un flusso errante e nomade. L’ipertesto e la sua spazialità. È l’argomento che l’autrice correda di citazioni in cui perdersi e poesie visive da evocare. Dalle suggestioni labirintiche di Bruce Chatwin all’indagine identitaria di Maurice Blanchot, la trasfigurazione linguistica arriva fino alle emoticon del web, ai commenti condivisi alle gratificazioni virtuali, una sorta di dimensione corporea e materica delle parole. Tale agire segnico che permette di conservare la traccia dell’umore o del pensiero immobilizzato in poche righe, è, ad ogni modo, un bisogno implicito e sussurrato di esistenza, affermata dai segni a cui ognuno può dare un significato arbitrario. La Calefato esplora l’ibridazione linguistica nelle varie sfaccettature dei discorsi sociali. La complessità delle metodologie comunicative rende il lettore/scrittore un nomade tra le righe, un girovago dei segnali, un flâneur della carta, un pescatore di perle nella rete. “Il viaggio sembra cucirsi, incollarsi addosso ai corpi, aderire quasi alla carne e agli indumenti di cui il corpo si riveste… Vestire il viaggio, indossare cioè la condizione del viaggiatore in ogni momento del quotidiano”. Grazie alla fluidità che contraddistingue il nostro sapere multiforme ci si può aggirare con flessibilità tra


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Per la verità libri e librini che da diversa prospettiva hanno riaperto discorsi sul ruolo degli intellettuali ne sono entrati tanti in libreria, in questi ultimi mesi. Di questa categoria sociale si è denunciato da più parti lo smarrimento, i silenzi, il conformismo. Nell’ordine, si tratta di autori come Asor Rosa (Il grande silenzio), Pier Luigi Battista (I conformisti) e Michela Nacci (Storia culturale della Repubblica). Se il primo titolo riflette sullo “smarrimento”, il secondo ha puntato più decisamente l’indice contro gli intellettuali di sinistra, ammalati di narcisismo, mentre il terzo ha voluto ricostruire la lunga parabola storica che sta tra il chierico sociale e il giornalista, sostenendo che le funzioni che i primi svolsero negli anni della prima repubblica sono poi passate oggi nelle mani dei secondi (si veda in proposito il saggio di Franco Martina su QC/11). Letture di diverso peso e intensità, mescolando le quali si esce rafforzati nell’idea che questa categoria sociale è oggetto se non proprio di rimpianto, certamente di nuove sollecitazioni. Parlando di questo pezzo di classe dirigente, alcuni autori avvertono l’esigenza di ripartire dalle trasformazioni che ha investito la stessa cultura, e le domande allora si slargano sull’epoca nostra: a che punto dello sviluppo storico – se uno sviluppo storico esiste – ci collochiamo: di quale polo facciamo parte in un mondo multipolare; cosa è esattamente l’Occidente, se di esso facciamo ancora parte? Il comune denominatore sembra insomma lo smarrimento e la difficoltà a creare nuovi punti di riferimento in un mondo che non ha più centri ma molte periferie. Il librino Nottetempo di Alfonso Berardinelli non disattende alcune di queste domande, ma preferisce affrontarle nella consapevolezza che l’indipendenza intellettuale sia oggi nient’altro che un inquietante anacronismo. Nel secolo della politica, sostiene, le scienze sociali presero a considerare gli intellettuali come categoria, ceto sociale, corporazioni e gruppi di pressione. Il risultato è che i cultori di scienze sociali hanno finito con lo studiare e valutare se stessi in quanto ruolo e funzione sociale. Di fatto però, anche come prodotto sociale, sostiene l’autore, gli intellettuali

hanno funzionato soprattutto in quanto individui. Difendendo se stessi; marcando una differenza e una distanza dalla politica – con cui sempre hanno intrattenuto rapporti ambigui, e in alcuni casi bruschi o burrascosi – essi hanno difeso l’individualità di tutti, gli spazi di libertà di cui ogni individuo ha assoluto bisogno. Ben pochi scienziati sociali hanno potuto descrivere e diagnosticare gli orrori del secolo da cui proveniamo, come invece riuscirono a fare scrittori non solo antipolitici, ma notevolmente antisociali (bastino i nomi di Kraus, Anders, Canetti, Montale, Gadda, Pasolini e anche l’affabile e rassicurante Calvino, che ha parlato forse un po’ troppo di futuro per indurci a maggiore benevolenza per il presente). Non v’è dubbio che la loro sia stata una critica sociale politicamente disarmata, che non è valsa a cambiare il mondo di cui erano parte. Berardinelli scompone quel blocco sociale che va sotto il nome di intellettuali in tre diverse tipologie: i Critici, ben distinguibili e distinti dai Metafisici e dai Tecnici. Oggi però sarebbe difficile trovare allo stadio puro Metafisici o Tecnici, mentre è più frequente incontrare figure ibride e complementari, con forti aspirazioni all’esercizio critico. Si dà il caso però che “fra l’Essere da ritrovare e la Macchina da far funzionare, qualcuno, semplicemente, si trova a disagio”; “qualcuno” pensa che “qualcosa non va” (p. 32). Questo terzo stato di intellettualità – socialmente e politicamente irrilevante –, che vorrebbe riportare i Metafisici coi piedi sulla terra e attrarre i Tecnici nel regno dei fini, finisce col ritrovarsi nella debole e meno autorevole categoria dei Critici. Dubbioso e spoglio di ogni potere, il Critico è il temutissimo convitato di pietra di ogni governance che voglia imprimere imperativi pratici alla collettività nel segno del Progresso e dello Sviluppo, chiamandoci tutti a prender partito sulle grandi opzioni epocali. Stretto tra queste soverchianti entità, sostiene l’autore, al Critico resta poco spazio, perché egli è portato a credere, o non credere, ma sempre su qualcosa di relativo. Rispetto alla categoria dei Metafisici che si muovono con agilità tra le radure degli Assoluti, e quella dei Tecnici, affollata di sociologi, politologi, specialisti


l’A: – è la solitudine, il sogno incondiviso, e – proprio a ragione dell’esclusione – le capacità divinatorie, evocative, previsionali; una lucida preveggenza del più lontano. L’autore lascia la parola conclusiva a Calvino, per il quale il guaio del prossimo è essere prossimo, le più belle città sono invisibili, e il sig. Palomar guarda il mondo dalla distanza di sicurezza del suo osservatorio astronomico. L’affabile Calvino non ha voluto drammatizzare, ma introducendoci nel nuovo millennio ci ha lasciato l’ossessione della leggerezza e dello sguardo da lontano. Angelo Semeraro

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del management e della comunicazione, i Critici lavorano prevalentemente sul senso comune, sulla pluralità dei linguaggi e delle culture. Le pagine di questo libretto sono di conforto anche a quella categoria di invisibili che si ritraggono da una scena sociale affollata da tecnocrati. In esse ci si imbatte perfino in un breve ma significativo elogio della misantropia. Spesso infatti il Critico è assimilato al misantropo, l’eretico. Molière alla mano, l’autore ci porta a considerare la Misantropia come forma rovesciata di una più intensa Filantropia. Il misantropo detesta la socievolezza, ma non l’umanità. La socievolezza è il salotto buono di quell’amour propre di russouiana definizione, dove “pur di andare d’accordo col mondo e con le sue convenzioni, l’individuo soffoca in se stesso i migliori impulsi alla verità e alla giustizia” (p. 47). L’Alceste del Misanthrope, al pari dell’Amleto shakespeariano – indocile di fronte al dovere a agli imperativi che la sua figura pubblica gli imponeva – mette in scena lo scontro tra un individuo irriducibilmente fedele a se stesso e l’ambiente nel quale è immerso. L’Alceste – incalza l’A. – rifiuta il teatro, le maschere e giochi di ruolo; le falsificazioni e le ipocrisie; contrappone il suo bisogno di verità e di chiarezza all’ipocrisia e alle abitudini all’adattamento che tengono unito il mondo sociale (p. 49). Misantropia come critica sociale, insomma. L’autore tesse l’elogio del solitario (e della solitudine) come destino assegnato ai Critici, le cui vite individuali sono un laboratorio di conoscenza esperienziale. Ai sistemi teorici e ai trattati essi preferiscono la forma letteraria della confessione, dell’autoanalisi, del diario, e anche dell’invettiva. Da Montaigne a Rousseau, da Baudelaire e Kierkegaard, via via fino a noi (Kraus, Orwell, Weil) essi preferirono mettere a nudo il loro cuore. Nessuno si è mai chiesto se Kraus, Orwell o Simone Weil fossero di destra o di sinistra, e sarebbe problematico classificare Kraus come scrittore satirico più che filosofo della società o moralista del linguaggio. Orwell fu un giornalista, un politologo o un socialista libertario? E Simone Weil: una santa rivoluzionaria o antirivoluzionaria? Ciò che li accomuna – sostiene



Autori

Mara Benadusi Ricercatrice di Antropologia Culturale nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Catania, oltre che membro del collegio docenti del dottorato in Antropologia e Studi Storico-linguistici dell’Università di Messina. I suoi ambiti di ricerca riguardano l’antropologia dell’educazione, le dinamiche di apprendimento situato e l’etnografia dei contesti umanitari. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Disasters, Development and Humanitarian Aid. New Challenges for Anthropology (con C. Brambilla e B. Riccio, Guaraldi 2011), Antropomorfismi. Traslare, interpretare e praticare conoscenze organizzative e di sviluppo (Guaraldi, 2010), La scuola in pratica. Prospettive antropologiche sull’educazione (Città Aperta, 2008). mara.benadusi@unict.it

Ferdinando Boero Professore ordinario di Zoologia presso l’Università del Salento, associato all’Istituto di Scienze Marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche, fa parte di Faculty of 1000. Fa parte dei comitati editoriali di riviste internazionali di ecologia, biologia evoluzionistica, zoologia, biologia marina. Dirige l’Italian Journal of Zoology. Ha partecipato o diretto progetti finanziati da Comunità Europea, Nazioni Unite, National Science Foundation of the USA, CNR, MIUR, MIRAF e amministrazioni locali. A Lecce ha fondato un laboratorio che, nel 2003, è entrato a far parte del network europeo di eccellenza “Marine Biodiversity and Ecosystem Functioning”. Ha pubblicato svariate monografie e saggi su riviste nazionali e internazionali in materia di biodiversità marina e biologia evoluzionistica e i saggi Ecologia della bellezza (2006) e Ecologia e evoluzione della religione (2008). Nel 2005 gli è stato attribuito il Premio internazionale Manley Bendall per l’Oceanografia, Medaglia Albert 1er,dell’Institut Océanographique de Paris. boero@unisalento.it

Marina Boscaino Insegnante di Italiano e Latino in un liceo classico di Roma. Ha collaborato con diverse case editrici. Redattrice del Dizionario Storico della Lingua Italiana Salvatore Battaglia e del Grande Dizionario dell’Uso di Tullio De Mauro. Dal 2001 al 2008 ha collaborato con il quotidiano “L’Unità”, occupandosi esclusivamente di politiche scolastiche; attualmente collabora con “Il Fatto Quotidiano” sugli stessi temi. Nel 2009 ha pubblicato Sistemi Scolastici Europei a Confronto (Visual Grafika Edizioni) e nel 2010 Digital Prof (Sei), con Marco Guastavigna. Interviene regolarmente su una serie di riviste, tra cui “Adista” e “Libero Pensiero” e cura una rubrica fissa sul sito scolastico “pavone Risorse”. È membro


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del comitato tecnico scientifico di “ProteoFareSapere” e dell’associazione “Per la scuola della Repubblica”. marina.boscaino@gmail.com

Pietro Clemente Antropologo culturale, insegna presso l’Università di Firenze. Presidente di SIMBDEA associazione organizzatrice di Essere contemporanei, Matera. pietro.clemente@unifi.it

Stefano Cristante Insegna Sociologia della Comunicazione all’Università di Lecce e a partire dal 2010 è il presidente del Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione (Unisalento). Si occupa prevalentemente di sociologia dell’opinione pubblica e dei consumi culturali. Dirige l’Osservatorio di Comunicazione Politica dell’Università del Salento. Tra le sue pubblicazioni: Prima dei mass media (Egea, 2011), Comunicazione (è) politica (Bepress, 2010), Media Philosophy (Liguori, 2006), L’onda anonima (a cura di), Meltemi, 2004); Breve storia degli eventi culturali (Bevivino, 2004). stefano.cristante@gmail.com

Irene Falconieri Dottoranda di ricerca in Antropologia e Studi storico-linguistici presso il Dipartimento di Scienze Cognitive dell’Università degli Studi di Messina e Cultrice della materia in Antropologia culturale. Si occupa di politiche pubbliche e pratiche istituzionali in contesti di post-disastro. Ha collaborato con la cattedra di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli studi di Messina. irene.falconieri@gmail.com

Antonio Iannotta Dottore di Ricerca in Scienze della Comunicazione. Si occupa di cinema, fumetto e letteratura del Novecento. Collabora con le cattedre di Letterature Comparate, Sociologia dei Processi Culturali, Teoria e Tecniche delle Comunicazioni di Massa presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Sociali e della Comunicazione dell’Università di Salerno. Tra le sue pubblicazioni: Lo sguardo sottratto. Samuel Beckett e i media (Liguori, 2006); Romanzi grafici e miniserie. Le nuove strategie editoriali della Bonelli, in L’Audace Bonelli. L’avventura del Fumetto Italiano (2010); Luci fiammeggianti, neri assoluti. Sull’illuminotecnica beckettiana, in Nero chiaro. Lo spazio beckettiano e le messe in scena di Giancarlo Cauteruccio (2010); Manhattan, la New York di Sex and the City, in È tutto Sex and the City. Moda, metropoli, amicizia e seduzione in una fiction televisiva (2011). Collabora con la rivista Quaderni d’Altri Tempi. È nella direzione organizzativa del Salone Internazionale del Fumetto Napoli COMICON. antonio_iannotta@hotmail.com

Zaira Magliozzi Architetto e redattore freelance. Dal 2006 cura la rubrica “Corrispondenze” nella rivista presS/Tletter. Dal 2008 è redattrice della rivista presS/Tmagazine e corrispondente dall’Italia per la rivista Compasses - Emirati Arabi. Dalla sua nascita è redattrice nella sezione Architettura della rivista italiana “Artribune”. Ha collaborato con L’Arca e The


Roberto Malighetti Professore straordinario di Antropologia culturale presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca. Si è interessato di epistemologia, metodologia delle ricerca, antropologia dello sviluppo, conducendo le ricerche sul campo soprattutto in Brasile sulle culture afrobrasiliane. Tra le sue pubblicazioni: Il filosofo e il confessore (1991), Alla ricerca dell’identità (1998), Dal Tribale al Globale (con U. Fabietti e V. Matera, 2000), Antropologia Applicata (2001), Il Quilombo di Frechal. Identità e lavoro sul campo in una comunità di discendenti di schiavi (2004), Oltre lo sviluppo (2005), Politiche dell’identità (2007), Clifford Geertz. Il lavoro dell’antropologo (2008). roberto.malighetti@unimib.it

Franco Martina Professore di Storia e Filosofia nel Liceo scientifico “Cosimo De Giorgi” di Lecce. Collabora con “Belfagor” Tra le su pubblicazioni: Il fascino di Medusa. Per una storia degli intellettuali salentini, (Schena, 1987); ha introdotto una nuova edizione di Guido Dorso, La rivoluzione Meridionale, (Palomar, 2005); ha scritto su riviste e volumi collettanei su intellettuali e politica. francomartinaf@libero.it

Luciano Ponzio Ricercatore confermato in Filosofia e Teoria dei Linguaggi nella Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università del Salento. Dal 2004 insegna Semiotica del Testo e si occupa, in particolar modo, del testo artistico. Tra le sue pubblicazioni: Icona e Raffigurazione. Bachtin, Malevič, Chagall (2000; nuova ed. 2008), Visioni del testo (2002; IV ed. 2010), Lo squarcio di Kazimir Malevič (2004), Differimentismo (2005), Differimenti. Annotazioni per un nuovo spostamento artistico (2005), L’iconauta e l’artesto. Configurazioni della scrittura iconica (2010). luciano.ponzio@unisalento.it

Luigi Prestinenza Puglisi Critico di architettura, laureato in architettura (1979) e specializzato in pianificazione urbanistica (1980). Scrive per Domus, L’ Arca, Monument, L’Architettura, Ottagono, Il Progetto, Costruire, Spazio Architettura, Arch’it. Ha scritto testi per la RAI e svolto ricerche per il CNR. Coordina le sezioni “Scritti” e “Grandi Eventi” della Universale di Architettura, fondata da Bruno Zevi, edita dalla Testo & Immagine di Torino; le collane “Architettura oggi, nuove tendenze” e “L’architettura in pratica” della Testo&Immagine. Ha scritto Rem Koolhaas, trasparenze metropolitane (Torino 1997); HyperArchitettura, spazi nell’età dell’elettronica (Torino 1998); This is Tomorrow, avanguardie e architettura contemporanea (Torino1999); Zaha Hadid (Roma 2001); Silenziose Avanguardie, una storia dell’architettura: 1976-2001 (Torino 2001); Tre parole per il prossimo futuro (Roma 2002); Introduzione all’architettura (Roma 2004). l.prestinenza@agora.it

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Architects Newspaper (Usa). Co-autrice di TheNewArchinTown, blog che seleziona le più importanti notizie in Architettura, Design e Arte. zairamagliozzi@yahoo.it


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Giovanna Salome È laureata in Discipline Etnoantropologiche all’Università “ La Sapienza” di Roma e sta svolgendo un dottorato di ricerca in “Antropologia e studi storico-linguistici” presso l’Università degli Studi di Messina. Si occupa di antropologia medica e di antropologia dei disastri. Ha svolto attività di ricerca presso l’Ospedale San Camillo-Forlanini sulle narrazioni di malattia dei pazienti e in Martinica sulla percezione e la rielaborazione sociale del disastro aereo del 16 Agosto 2005. Attualmente conduce una ricerca di terreno a Port-au-Prince dal titolo: “Catastrofe, emergenza e mobilitazione sociale: un’etnografia del post-disastro ad Haiti” finanziata dall’Axa Research Fund. giannasalome@hotmail.com

Diana Salzano Professore associato in Sociologia dei processi culturali e comunicativi. Insegna Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa presso il corso di laurea in Scienze della comunicazione e Sociologia dell’industria culturale presso il corso di laurea in Editoria e pubblicistica dell’Università di Salerno Tra le sue ultime pubblicazioni: Violenza, Media e Minori in Comunicazione e partecipazione. Sociologia per la persona nella ‘Società-Display’ (2010); Prossimità dismorfiche: ricomposizioni ottiche dello sguardo mediatico in Vicino Lontano, Quaderno di comunicazione, n. 11 (2010); Le coordinate del sé nella geografia dei media, in Dire di sé, Quaderno di comunicazione, n. 10 (2009); La poetica dell’esplorazione: giovani surfers nel mare della rete, in I consumi culturali dei giovani; Etnografie della rete. Pratiche comunicative tra on line e off line (2008); Reti di senso e pratiche comunicative in ambienti digitali, in Comunicazione & Significazione. Fenomeni culturali e rappresentazioni sociali tra mass media e new media; (con Piromallo Gambardella A., Paci G.) Violenza televisiva e subculture dei minori nel meridione (2004); L’immagine assolta in Violenza e società mediatica (2004); Lo sguardo disancorato. Società globale e comunicazione (2003). diana_salzano@yahoo.it

Igor Scognamiglio Laureato in Scienze della Comunicazione. Si occupa di comunicazione attraverso i nuovi media, dal punto di vista professionale e accademico. Borsista di ricerca presso l’Università di Napoli Suor Orsola Benincasa, si è occupato di didattica multimediale e di relazioni sociali che si svolgono all’interno di Internet e, in particolare, dei social network, pubblicando diversi contributi scientifici. Conduce presso il Suor Orsola Benincasa un laboratorio sulla promozione on line, e collabora con la cattedra di Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa. Secondo classificato al concorso RAI “Mencucci” 2004 con la proposta di ricerca “Media-blog: l’uso del blog come strumento di misurazione e produzione”. igorsco@unisob.na.it


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