Amor Roma Mag - Gennaio 2015

GENNAIO - 2015 amorromamag.it

ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE

Portuense 201

MODA/FASHION BLOGGER:

I consigli di Federica Basso

BRAINSTORMING CON…

Alessandro Ferraro

EX MATTATOIO

CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA

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/ REDAZIONE /

MARIA CHIARA MINGIACCHI

GIOVANNI ACQUARULO

CRISTINA ALLEGRA

ANDREA BALLARINI

LUCIA BALLETTI

VALERIA BIOTTI

MARCO BORROMEI

CARLOTTA CINICIA

OTTAVIA GALIERO

VALERIA BORDONI

ILARIA MARCHETTI

FEDERICA MOTTA

GIOVANNA PAPPALETTERA

LAVINIA PICCOLOMINI

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DANIELE TROVATO

“NON È VERO CHE LA VITA TI SORPRENDE. QUELLO CHE FA, SOPRATTUTTO, È CONFERMARTI AL TUO POSTO”.

Diego De Silva

/ SOMMARIO GENNAIO 2015 /

Direttore Responsabile MARIA CHIARA MINGIACCHI Collaboratori: GIOVANNI ACQUARULO CRISTINA ALLEGRA ANDREA BALLARINI VALERIA BIOTTI GIULIA BLOCAL VALERIA BORDONI MARCO BORROMEI CARLOTTA CINICIA OTTAVIA GALIERO ILARIA MARCHETTI FEDERICA MOTTA GIOVANNA PAPPALETTERA LAVINIA PICCOLOMINI LAURA SOLARI MONICA SPERABENE DANIELE TROVATO Vignetta idea e testo: VALERIA BIOTTI disegno: LUCIA BALLETTI Progetto grafico CARLA LADAU / ONNI S.r.l.

Elaborazione grafica SALVATORE MALVASO Scrivi a: REDAZIONE@AMORROMAMAG.IT DIRETTORE@AMORROMAMAG.IT chiuso in redazione il 23 dicembre 2014 Periodico di attualità Anno 2 - numero 1 gennaio 2015 Autorizzazione Tribunale di Roma n. 7/2014 del 21/01/2014 Editore responsabile: PASQUINO EDITRICE S.r.l.

Via Sabotino, 46 - 00195, Roma info@pasquinoeditrice.it Concessione pubblicitaria: S.I.P.A. S.r.l. - Servizi integrati per aziende Via Sabotino, 46 - 00195 Roma P.IVA e C.F. 11749291008 www.serviziintegratiaziende.com email: segreteria@serviziintegratiaziende.com Stampato presso: MILIGRAF SRL 36, Via Degli Olmetti 00060 - Formello (RM)

4/ VIGNETTA 5/ EDITORIALE 6/ FOTO DEL MESE di Maria Chiara Mingiacchi 8/ IDEE WEEKEND A…MILANO di Valeria Bordoni 10 / EASY NATURAL FOOD di Lavinia Piccolomini ricette di Food4fun 13 / PRODOTTI NATURALI: LA MELOGRANA di Carlotta Cinicia 14 / ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE: PORTUENSE 201 di Valeria Bordoni 20 / IPSE DIXIT: APOLOGO SULL’ONESTÀ di Italo Calvino 23 / STARTUP: TUTORED di Giovanna Pappalettera 25 / DÉCOUPAGE di Giovanna Pappalettera 28 / STORIE: INTERVISTA A ILARIA CUCCHI di Valeria Biotti 30 / FOCUS: VIAGGIO NELL’EX MATTATOIO di Maria Chiara Mingiacchi 35 / WHO - WHAT - WHEN - WHERE STREET ART AL TRULLO di Giulia Blocal 36 / CINEMA: MOMMY di Marco Borromei

38 / SERIE TV: FARGO di Marco Borromei 40 / MODA: PAZZA PER LE FELPE di Federica Basso 44 / BRAINSTORMING CON...

ALESSANDRO FERRARO di Valeria Biotti 50 / GIRADISCHI: L’ANNO CHE STA ARRIVANDO di Giovanni Acquarulo 54 / IL LOCALE DEL MESE: IL PANE E LE ROSE di Valeria Biotti 56 / ROMA NARRANTE: FRANCESCO PECORARO di Daniele Trovato 57 / IL FINTELLETTUALE: CENT’ANNI DI SOLITUDINE di Andrea Ballarini 58 / C COME CULTURA: I NUMERI di Monica Sperabene 59 / GIALLI ROMANI: MINO PECORELLI di Daniele Trovato 61 / ECONOMIA IN PILLOLE di Sergio Allegra 64/ B&B BEAUTY E BENESSERE 66 / OROSCOPO di Carlotta Cinicia 68 / DA VICINO NESSUNO È NORMALE APPUNTI DI PSICOLOGIA di Ilaria Marchetti

In copertina: particolare dell’entrata dell’ex mattatoio – Testaccio, Piazza Orazio Giutiniani.

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/ I BALLETTI-BIOTTI /

satira e dintorni

idea e testo: VALERIA BIOTTI disegno: LUCIA BALLETTI 4

/ EDITORIALE /

LA SVOLTA E RIVOLTA DEL PUBBLICO IMPIEGO - RIVOLUZIONE NECESSARIA, CON MERITOCRAZIA E CORAGGIO di LAURA SOLARI Il rischio più grande è che, in tempi di crisi e bui, in questi passaggi d’epoca interminabili, le scintille che si innescano sempre più frequentemente siano solo un’inesorabile “guerra tra poveri”. Le mancate riforme attuate finora, da tutti i governi che si sono alternati da vent’anni a questa parte, ci consegna un paese fanalino di coda di un’Europa – che fatica anch’essa – che difficilmente potrà trovare le energie per ripartire se non verranno realizzate alcune riforme necessarie e oramai ineludibili: quella fiscale, quella del pubblico impiego, quella del costo del lavoro. In tempi di tanta e tale povertà, spesso anche mentale e culturale, con un tasso di disoccupazione tra i più alti, licenziamenti a raffica e disperazione, il pubblico impiego, quello statale, il “posto fisso” intoccabile, resta l’ultimo baluardo di una sicurezza che Italia e italiani vanno via via perdendo. In parte è vero, in parte no. La Pubblica Amministrazione necessita di regole più stringenti su molti fronti: vanno disciplinate le assenze per malattia (è imbarazzante commentare la notizia secondo la quale l’80% dei vigili romani il 31 dicembre scorso sia rimasto a casa “malato”, colpito da un improvviso virus – è vero però che dietro questa assenza di massa esistono altre ragioni legate alla rotazione del personale e al rinnovo del contratto), vanno ridotti gli sprechi e tagliati gli stipendi di molte dirigenze apicali, vanno accorpati alcuni servizi e vanno sicuramente resi più efficienti e moderni molti settori. Ma, soprattutto, va applicata la “meritocrazia”, ed è necessario iniziare a parlare di “licenziamento”: chi non lavora bene non va premiato (vedi salario accessorio), ma chi non lavora affatto – e quindi il suo lavoro risulta superfluo – va, senza troppi giri di parole, “licenziato”. Il pubblico impiego, però, non diventi la “scusa” per parlare di sprechi enormi e di dissesto: il governo Renzi, a ragione, metterà nuovamente mano alla PA per rafforzare il controllo sulle assenze per malattia e fare in modo che il licenziamento venga applicato con rigore anche agli statali; ma a chi parla di “casta” va detto che per loro esiste un blocco del contratto che risale a sei anni fa e che non sarà rinnovato neppure quest’anno; che il “salario accessorio” è a rischio in molti enti locali, a iniziare dalle future aree metropolitane e a quello che sarà di loro. Nessuno dice che nella PA opera, in molti settori, un personale altamente qualificato che, spesso, svolge più mansioni contemporaneamente per le quali non viene né pagato, né premiato, con mezzi che definire medievali è un eufemismo e con pochissimi incentivi a fare meglio e di più: molti lo fanno comunque, per un senso del dovere innato o per passione. Si tace anche sul fatto che uno stipendio medio di un funzionario senza salario accessorio, nonostante le numerose responsabilità, si aggiri attorno ai 1.100 euro. Nessuno dice che i dipendenti pubblici siano i più tassati di tutti, a rischio TFR e a rischio pensione. E tutti tacciono sulla riforma che ha coinvolto le Province italiane: una riforma che di fatto ha svuotato gli enti di poteri e soldi senza attuare un vero piano di riordino, lasciando il destino di lavoro e lavoratori nel più assoluto caos. Nessuno parla dello spreco senza fine di denaro pubblico nella sanità, sotto il “controllo” e la gestione delle incapaci Regioni.

Ben vengano, quindi, le riforme, a patto che non siano solo vuoti annunci elettorali.

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/ FOTO DEL MESE /

GRAZIE ROMA….COMUNQUE Foto di MARIA CHIARA MINGIACCHI

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/ UN WEEKEND A... /

MILANO di VALERIA BORDONI

O mia bella Madonnina, che te brillet de lontan tutta dòra e piscinina, Ti te dòminet Milan Una delle più celebri canzoni di Milano di Giovanni D’Anzi scritta nel 1935 si riferisce alla Madonnina dorata che si trova sul Duomo, capolavoro dell’architettura gotica e domina la piazza. Siamo in pieno centro storico, tra Corso Vittorio Emanuele II e Via dell’ Arcivescovado.

Ci troviamo nella Capitale economica dell’ Italia. Volti seri e grigi come il cielo che li sovrasta, pioggerellina costante che sembra ad alcuni non faccia nessun effetto, camminano senza neanche accorgersene. In questo periodo le strade sono allestite dagli addobbi natalizi.

La classe e l’eleganza contraddistinguono la città. Tra le strade passano i caratteristici tram arancioni che sono uno dei simboli della città.

COME ARRIVARE DA ROMA: • Aereo tempo stimato 50 minuti • Treno freccia rossa 3 ore circa • Automobile 6 ore circa (572km)

COSA VISITARE: Duomo, simbolo del capoluogo lombardo, è una cattedrale gotica che si trova al centro di Milano, dedicato a Santa Maria Nascente, è la quarta cattedrale d’Europa. Voluta dall’ Arcivescovo Antonio de’ Saluzzi (1386) che promosse la ricostruzione nel più antico luogo religioso della città. 210 gradini per arrivare sulle terrazze a piedi, è possibile salire con un ascensore.

La Galleria Vittorio Emanuele II è un passaggio coperto che collega Piazza Duomo a Piazza della Scala, fu progettata dall’architetto Giuseppe Mangoni e realizzata a partire dal 1865 in uno stile eclettico, ha la forma architettonica tipica della seconda metà dell’ 800 milanese. Oggi sede di numerosi negozi di griffe e marchi prestigiosi, oltre che famosi caffè, ristoranti e hotel di lusso. È considerata, con via Montenapoleone e via della Spiga, uno dei luoghi dello shopping di lusso. Castello Sforzesco sontuosa dimora dei Duchi di Milano e potente strumento difensivo durante

l’occupazione francese, è oggi un importante polo culturale, la Pinacoteca custodisce capolavori del Canaletto, del Mantegna, del Bellotto e molte altre opere. Il Cenacolo dipinto da Leonardo da Vinci nel refettorio di Santa Maria delle Grazie è una delle mete più ricercate, non dimenticatevi di prenotare la visita con largo anticipo. CURIOSITÀ: Parco Sempione, la zona di San Babila e per i famosi aperitivi Brera, le colonne di San Lorenzo, i grattacieli, il famoso Pirellone, la scultura di Cattelan a Piazza affari, sede della Borsa di Milano.

Arte: Mostra di Lucio Fontana e Yves Klein (foto), Chagall, Van Gogh (Piazza Duomo) DIVERTIMENTO: I Navigli, una location romantica e vivace allo stesso tempo, animata da ristoranti, bar e locali notturni. E per chi vuole divertirsi tutta la notte alcuni tra i locali più conosciuti sono The Club, il Borgo del tempo perso, l’ Hollywood, il Tocqueville e l’ Old fashion, dove capita spesso d’ incontrare personaggi dello spettacolo.

DOVE MANGIARE: Armani Restaurant che si trova all’ ultimo piano dell’ hotel, elegante e raffinato. Se amate la cucina giapponese il Sushi è di gran moda. Se preferite integrarvi completamente nella Milano storica si consiglia il ristorante Boeucc, Zucca in galleria, Bagutta, il Jamaica e Caffè Donini. COSA MANGIARE: Piatti tipici: il risotto alla milanese, la cotoletta alla milanese e il Panettone, un dolce tipico nato proprio a Milano.

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/ E A S Y N AT U R A L F O O D /

TUTTE LE FORME

DELLA SOIA teoria a cura di LAVINIA PICCOLOMINI ricette di FOOD4FUN

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rmai ve ne sarete accorti, la soia é ovunque. Moltissimi alimenti che un vegetariano o un vegano scelgono di non mangiare vengono riprodotti in versione “veg” con l’ausilio di questo legume.

Hamburger, polpette, spezzatini e ragù, l’ingrediente fondamentale è sempre lei, pronta a donarci le più nobili proteine di origine vegetale. Non contenta, contribuisce a mantenere bassi i livelli di colesterolo cattivo grazie al suo contenuto di grassi polinsaturi, e ci rifornisce di buone quantità di ferro e potassio. A meno che non siate stati molto attenti alla foto presente sullo scorso numero del nostro magazine, sono quasi certa che non l’abbiate mai vista nella sua forma originale, prima che venga trasformata in latte, tofu, spaghetti o bocconcini disidratati. La soia è un fagiolo tondo e di colore giallo, contenuto in un baccello verde quando ancora acerbo, per diventare poi marrone-violetto quando giunge a maturazione . Viene prodotta in varie parti del mondo, dalla Cina al Giappone fino al Sud America, passando anche dagli Stati Uniti. In alcuni di questi paesi è consentita la coltivazione di soia OGM, che è invece vietata in Italia. Per questo, se volete stare alla larga dagli organismi geneticamente modificati, è importante controllare sempre la provenienza e preferire la soia coltivata nella nostra penisola. Un tempo associata solo alla cucina asiatica, la soia è ormai presente in molte corsie dei nostri supermercati, dove si rivela nelle sue molteplici forme. La salsa di soia (o shoyu) è un condimento a base di soia, grano (quindi non è adatta ai celiaci), acqua e sale. La differente proporzione di soia e grano utilizzata per produrla ne determina il colore, e ovviamente anche il sapore. Quella con più alta percentuale di soia è la salsa tamari, è considerata la salsa giapponese originale, ed è forse anche la più saporita. Si può usare per condire riso e verdure, così come per marinare il tofu. A proposito di tofu... cos’è quel mattoncino biancastro che qualcuno pensa di poter mangiare come se fosse uno stracchino, per poi rimanere traumatizzato a vita? Il tofu, conosciuto anche come “formaggio di soia”, ha in comune col formaggio solo il metodo con cui viene prodotto: il latte di soia viene fatto cagliare (coagulare, rapprendersi) grazie all’utilizzo di diversi tipi di cagli. I cinesi usano

il solfato di calcio, i giapponesi il cloruro di magnesio, io userei il limone. Dopodichè viene pressato in stampi, solitamente in forma di parallelepipedo. Solo i palati più fini (ma devono essere proprio finissimi) riescono ad apprezzare il sapore del tofu al naturale, così come esce dalla sua confezione. Io sono onesta e preferisco dirvi che, se volete avvicinarvi a questo prodotto, fareste meglio a scegliere una di quelle varietà affumicate, alla piastra, o insaporite con erbette o verdure. Quando avrete cominciato ad apprezzarlo per la sua versatilità e facilità di preparazione, ad esempio facendolo a dadini e tostandolo per qualche minuto in una padella antiaderente, magari con l’aggiunta di una manciata di semini di sesamo, vi verrà la voglia di spingervi oltre e sperimentare qualche marinatura, che non mancheremo di proporvi tra le ricette dei prossimi mesi. Il tofu è la parte proteica ideale per un’ottima insalata, o come base per la preparazione di cremine da proporre come antipasto. Un’altra forma in cui la soia vi si sarà palesata è quella granulare o in bocconcini. Più semplice da trovare nei supermercati specializzati, questo alimento a base di farina di soia sgrassata e ristrutturata, si prepara molto velocemente, basta reidratarlo e poi scolarlo bene, ed utilizzarlo come fosse macinato per un ragù, per uno spezzatino al sugo, o per preparare i medaglioni della ricetta di questo mese. Non voglio confondervi troppo le idee ma nemmeno posso lasciarvi senza fare un chiarimento sui germogli di soia: non si tratta di soia, bensì del fagiolo mungo, un fagiolino piccolo e verde, semplicissimo da far germogliare anche in casa.

/ RICETTE / Easy natural food” sono ricette 100% vegetali, semplici e veloci. Scegliamo gli ingredienti nel rispetto dei sapori, della stagione e del mangiare sano. “EASY” è la preparazione dei cibi. Fondiamo la nostra cucina sulla cottura a vapore o al forno, l’uso di frutta e verdura di stagione, farine integrali o cereali, poco sale e olio extravergine d’oliva. “NATURAL FOOD” è l’assortimento dei prodotti di prima qualità, che selezioniamo con cura. Ricerchiamo alimenti freschi, di stagione, integrali, poco manipolati o lavorati in modo che non perdano i principi nutritivi, senza grassi idrogenati. “EASY NATURAL FOOD” è un modo semplice per gustare gli alimenti Promuoviamo l’uso di farine integrali, cereali e latte non vaccino, per un’alimentazione naturalmente bilanciata tra proteine vegetali, carboidrati e grassi.

MEDAGLIONI DI SOIA Polpette di soia al cavolo cappuccio rosso su crema “zenzerata” di zucca . Senza lattosio e senza glutine.

Tempo: 45 minuti (30 min cavolo e soia, 15 min doratura al forno) Costo: basso Ingredienti per 4 persone: 300 gr di soia gialla (forma di granulato), 150 gr cavolo rosso, 2 cucchiai di farina di grano saraceno, pan grattato di segale QB, 1 uovo, olio EVO, sale rosa dell’Himalaya, peperoncino, vino bianco, acqua, un po’ di porro, carta forno ZUCCA ZENZERATA Vellutata di zucca al sapore di zenzero.

Tempo: 15 minuti Costo: basso Ingredienti: mezza zucca, zenzero, pepe, una patata.

Premessa Da tempo, ho introdotto nella mia alimentazione la soia, che per il suo valore proteico può essere un buon sostituto della carne. Da accompagnare, preferibilmente, con le verdure. Questa ricetta nasce dalla curiosita’ di provare la soia gialla in forma granulare, che si vende in confezioni da 500 gr e cuoce facilmente in acqua per 15 minuti. Fino a qualche anno fa, compravo al supermercato le classiche polpettine o hamburger di soia, comode sì, ma anche facilmente riproducibili. Cosi’ ho iniziato a farle in casa. Almeno sono sicura del “bio” e che, soprattutto, non ci siano addensanti, agenti lievitanti, glutine, etc...Poi quando ne faccio tante, le congelo, così sono pronte per essere infornate (solo per qualche minuto), non appena mi ritorna la voglia.

Preparazione Lavate e sminuzzate con la mezza luna il cavolo cappuccio rosso da cuocere in una pentola di acciaio con fondo spesso, insieme a un cucchiaio di olio e un pezzetto di porro. Mescolate spesso, lasciando cuocere a fuoco medio con coperchio per qualche minuto. Se serve, aggiungete mezzo bicchiere di acqua tiepida, coprite e lasciate cuocere fino a quando il cavolo non sarà morbido. Dovrà essere ben cotto, ma scegliete voi il tempo di cottura assaggiandolo di tanto in tanto. Di solito, 25/30 minuti dovrebbero bastare. Nel frattempo, in un’altra pentolina, fate cuocere la soia gialla con un po’ d’acqua, per circa 15/20 minuti finchè diventi morbida, ma non troppo … dovrà finire di cuo-

cere insieme al cavolo. Quando saranno cotti entrambi, unite la soia al cavolo e lasciate tostare l’impasto per un paio di minuti. Poi aggiungete un po’ d’acqua, come per cuocere un risotto (a fuoco medio). Anche qui, state attenti alla cottura, fidatevi del vostro intuito. Considerate che l’impasto non deve essere liquido, giammai brodoso. Il consiglio è girare per tutto il tempo, solo verso la fine, aggiungete altra acqua, perche’ l’effetto che ricerchiamo e’ un composto asciutto, direi denso, pronto per dare forma ai medaglioni. Di qui in poi, mettete da parte le pentole, lavorerete solo con le mani. Il passaggi successivi sono l’impanatura e la cottura al forno. Lo faremo seguendo quattro semplici passaggi: 1) passate le polpette nella farina (ottimo addensante) 2) poi nell’uovo sbattuto (è un legante, serve per la lievitazione e per amalgamare gli ingredienti) 3) infine nel pan grattato (che dara’ l’effetto di doratura) 4) infornare per circa 15 min a 180° Per ammorbidire le polpette, ci piace servirle su una CREMA DI ZUCCA. Si tratta di una semplice vellutata arancione, morbida, calda, di stagione che ben si abbina alle polpette viola. Tagliate a piccoli pezzi la zucca e fatela cuocere in una pentola con acqua, sale, zenzero e una patata, per 20 minuti, finchè non saranno morbidi. Poi levate la buccia e frullate i pezzi con il minipimer per ottenere la crema. Ad essere sinceri l’accostamento soia - zucca, e’ sia un abbinamento di sapori che di colori. La soia e’ un gusto molto “neutrale”, quindi e’ il caso di accostarla con sapori vivaci come la zucca, ancor piu’ se arricchita da un pizzico di zenzero. Inoltre l’abbinamento dei colori viola e arancione (molto autunnali) ravviva il piatto, la tavola, la cucina e le giornate fredde, spesso umide, in cui a fine giornata il desiderio piu’ grande e’ mangiare qualcosa di caldo e gustoso, se colorato, ancor meglio; sarete ripagati dalla lunga giornata e vi tornerà il buon umore.

P.S. Variazioni di Medaglioni Con altri tipi di VERDURA, ce ne sono tante da usare, ma quelle che vi consiglio sono il radicchio, le zucchine, le melanzane, gli spinaci, i carciofi. Non sarà difficile, basta sostuire la verdure e seguire i passaggi della ricetta. Ricetta SENZA UOVA, per i vegani o per chi vuole stare più leggero. Un uovo, può essere sostituito con una delle seguenti opzioni: 2 cucchiai di latte di soia in polvere mescolato con 2 cucchiai di acqua (1 cucchiaio da minestra corrisponde a circa 10 grammi), 2 cucchiai di fecola di patate, 2 cucchiai di amido di mais (maizena), 2 cucchiai di tofu tritato (in questo caso il tofu, se in panetto, va frullato con il liquido della ricetta, se è vellutato aggiunto all’impasto), 2 cucchiai di farina di ceci

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/ P R O D OT T I N AT U R A L I /

MELOGRANA

“IL FRUTTO DELLA FERTILITÀ E DELLA RINASCITA” di CARLOTTA CINICIA

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a Melagrana è lo splendido e prezioso frutto autunnale dell’albero di Melograno. Originario dell’Africa settentrionale e Asia Occidentale si è poi largamente diffuso nel Nord America ed in tutto il mediterraneo. Appartiene alla Famiglia delle Punicaceae ed il nome deriva dal latino antico malum (mela) e granatum (con semi) quindi letteralmente “mela con semi”. È una bacca carnosa, di colore rosso, chiamata balausta, con buccia spessa, con varie cavità separate da membrane con appunto all’interno dei semi meravigliosi color scarlatto e carnosi, di forma prismatica molto succosi. Nell’antichità era ritenuta un vero miracolo di Madre Natura per la sua particolarità, proprietà, per la sua forza; l’albero di Melograno riesce a sopravvivere anche in habitat molto ostili.

La pianta era ritenuta sacra a Giunone e Venere e la troviamo motivo di decorazione ornamentale delle colonne del Tempio di Salomone. In passato vi era l’usanza di lanciare la melagrana a terra , poiché era ritenuto frutto della fertilità, come buon augurio per avere tanti figli come sono i suoi semi. Ancora oggi in Turchia la sposa fa’ cadere a terra una melograna ed i chicchi che ne usciranno corrisponderanno al numero dei figli che potrà avere. Simbolo anche di rinascita e resurrezione, lo troviamo accompagnare la morte, come ad esempio sulla tomba di Osiride dove germoglia un melograno dopo che esso viene ricomposto da Iside, o sulle pareti tombali di varie tombe etrusche o romane. Nel mito di Persefone, figlia di Demetra, Ade, il Dio degli inferi, dopo averla rapita e portata nel suo mondo, prima che Ermes venuto a riprenderla la portasse via, le fa’ mangiare alcuni semi di melograna con l’inganno. Questi semi costrinsero Persefone a vivere 6 mesi l’anno nella Luce ed a tornare 6 mesi l’anno nel Mondo degli inferi. Lei quindi diventa in seguito la Regina degli inferi, una guida pronta a ricevere

nel mondo dei morti le anime. Come vedete di nuovo si ripropone il tema morte - rinascita. Nella Grecia antica era prescritta come antielmintico per curare i casi di diarrea cronica e le infezioni parassitarie. Il grande medico Ippocrate elogiava questa pianta attribuendogli virtù eccezionali. Per il suo simbolo di fertilità ci sono dipinti e affreschi che raffigurano Gesù tenere tra le mani questo frutto così prezioso. Alto è il suo contenuto di Vitamina C e di potenti antiossidanti. Presente anche la vitamina A e quelle del gruppo B, minerali quali calcio, magnesio, potassio, rame, zolfo, fosforo e ferro e sostanze come l’acido ellagico, acido borico, acido malico, acido clorogenico, acido pantotenico. Le proprietà che si riconoscono oggi sono astringenti, “antiemorragiche in particolare per le emorragie intestinali e vaginali” (Dizionario ragionato di erboristeria e di fitoterapia, di A. Bruni), antidiarroiche e diuretiche. Adatta per chi ha bisogno di aiutare l’intestino ed i reni in quanto è drenante. Contiene potenti proprietà antiossidanti (in particolare per i lipidi) e rinforza il sistema immunitario. È antisclerotico e ultimamente sembra siano state ipotizzate proprietà anticancerogene grazie alla presenza dell’acido ellagico.

Secondo alcuni studi condotti presso l’Università di Los Angeles, un bicchiere di succo di melagrana al giorno potrebbe ostacolare il tumore perchè l’acido ellagico pare in grado di provocare il “suicidio” delle cellule impazzite. In India viene usata contro la sterilità, ritenuto molto efficace. La troviamo in vendita nei mesi di ottobre, novembre, dicembre e gennaio ed è perfetto per preparare un succo con i semi dei suoi frutti freschi togliendo la parte bianca che è invece amara e si consiglia di consumarla immediatamente in quanto l’aria e la luce ossidano velocemente i suoi principi attivi. È decisamente un frutto da inserire nella nostra dieta.

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/ ARCHEOLOGIA INDUSTRIALE /

MIRACOLI DA RICONVERSIONE: NASCE PORTUENSE 201 - DAL LATTE ALL’ARTE di VALERIA BORDONI Spazi in disuso che riprendono vita e forma. Tante le aree di Roma nelle quali l’abbandono prolungato si è trasformato in degrado. La Roma di oggi: caotica, trafficata e inquinata tra l’ex Mattatoio di Testaccio e l’ex zona industriale di Ostiense, degli Stabilimenti Mira Lanza, dei Mulini Biondi e oltre il Porto Fluviale, si scoprono luoghi di un passato dimenticato che ritornano alla luce, parliamo della ex Vaccheria Riccioni (1910), abbandonata e riscoperta tra alcuni progetti presenti in archivio, che ci mostrano le funzioni delle varie strutture: la latteria, la vaccheria, la tettoia per i carri, le stalle per i cavalli, l’ abitazione del fattore e i magazzini. Il comprensorio era adibito alla produzione e vendita del latte, l’attività durò fino agli anni 50, poi fu chiusa per la troppa vicinanza alla nuova città che si stava formando. Un’ idea di recupero che ha creduto in un processo di crescita in un luogo dimenticato e che ha investito sulle aree dismesse di Roma, assegnando alla struttura un valore di continuità e non di perdita. Nel rispetto dell’architettura esistente nasce “Portuense201” che prende il nome dall’ omonima via.

La struttura è stata interamente riconvertita in loft e studi, un borghetto dove architetti, produttori, artisti, registi, start-up e designer si fondono. La stalla diventa una location per mostre d’arte, la latteria un pool di produttori e registi, i magazzini una start-up, tra pareti rinfrescate che non hanno nascosto il valore di un tempo, la modernità rivive sul passato che si ricorda, che si racconta, che rinasce. L’ idea dei proprietari, nipoti della famiglia che costruì il complesso, è riutilizzare quello che già esiste senza creare nuove strutture. Manuela Tognoli architetto e designer, direttrice dello stabile, si rende disponibile a rispondere alle nostre domande.

L’ investimento sostenuto a quanto ammonta? Le chiedo questo per capire se è più conveniente ripristinare un edificio in disuso o piuttosto crearne uno nuovo.

“Il recupero del complesso – spiega Manuela Tognoli – è durato circa 3 anni, ed è stato un investimento totalmente voluto e finanziato dalla mia famiglia. Possiamo facilmente stimare che il concetto di “recupero” è notevolmente più vantaggioso rispetto alla ricostruzione anche in termini economici: naturalmente l’incidenza dei lavori è sempre da valutare, ma preservare il fascino di costruzioni o manufatti del passato è senz’altro un valore aggiunto che attrae interesse, infatti molti altri complessi di questa zona stanno seguendo questa strada”.

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1-2) LABEL201

ideato e diretto da Manuela Tognoli, trasforma l’ ex stalla in uno studio di architettura di interni e galleria d’arte contemporanea, un luogo di interazione tra realtà diverse che operano nella promozione e nello sviluppo artistico e creativo organizzando mostre, installazioni e performance di artisti nazionali e internazionali. Nella foto la mostra Sedeo ergo sum 3.0.

3) DUGONG

società di produzione audiovisiva, sviluppa progetti di alto livello culturale, dai documentari ai film di finzione, ai video arte. Crede nel network come sinergia tra co-produzioni e ama il lavoro di squadra sinonimo di forza e creatività. Tra i lavori ricordiamo “Stella Maris” di Giacomo Abbruzzese, “Séance” di Yuri Ancarani, “Amori e Metamorfosi” di Yanira Yariv, “La Strada dei Samouni”, “Recuiem” di Valentina Carnelutti. Tutti hanno ricevuto importanti riconoscimenti nei Festival internazionali.

4) EUROFILM

società di produzione cinematografica che produce film e documentari sociali su temi di attualità italiani ed internazionali. Fra i film distribuiti in tutto il mondo “La Siciliana ribelle” di Marco Amenta (Vincitore di oltre 30 premi internazionali), “Il Fantasma di Corleone” (nominato miglior documentario ai “Globi D’Oro” e ai “Nastri d’Argento”), “Silvio Mon Amour” documentario sui 20 anni di Berlusconismo (in onda in Francia in prima serata). Attualmente Eurofilm sta producendo Polvere Rossa film che affronta il delicato tema dell’Ilva di Taranto. Il film è scritto da Giancarlo De Cataldo e Marco Amenta ed è stato finanziato dal Ministero dei Beni e delle Attività culturali.

5) STUDIO TAMAT

è uno studio di progettazione architettonica e di design d’interni che pone particolare attenzione all’utilizzo di materiali riciclabili, ecosostenibili e riutilizzabili nel rispetto dell’ ambiente. Un team che crede nei principi e li porta avanti con grande competenza.

LA BOTTEGA D’ARTE LODA,

utilizza stoffe, pietre, legno, ceramiche incarnandoli nel desiderio di armonia. Tutto nel riuso ecologico dell’ arte.

6) ARCHEMA STUDIO

crede da sempre di limitare gli interventi relativi alla nuova edilizia e di sviluppare tematiche legate alle idee di “recupero”, “restauro”, “riuso” e “ristrutturazione”, proponendo un concetto morale che migliori gli edifici costruiti per una riconciliazione tra la cultura e l’ambiente.

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Dall’ idea alla realtà? Quali passi avete seguito?

“La possibilità di convertirli in studi si è compresa passo dopo passo, durante i lavori di restauro delle aree più grandi. A quel punto un veloce business- plan ci ha permesso di valutare l’idea di creare un vero e proprio “distretto”, basandoci anche sulle esperienze simili nord-europee”.

Alla base, oltre all’amore per l’architettura e per l’arte, c’è la volontà di creare una rete d’impresa e quindi uno scambio tra le diverse competenze e professionalità di ognuno?

“Il legame affettivo con il luogo, ma anche un’ idea imprenditoriale volta alla valorizzazione e riqualificazione, hanno indirizzato il progetto originario verso la trasformazione dell’ intero complesso in un “distretto” culturale e creativo, coinvolgendo realtà professionali diversificate a convergere in un’unica area.

Questo aiuta anche nelle relazioni lavorative, potendo offrire ai clienti diversi servizi. Una sorta di “studio diffuso”. Le occasioni per dare visibilità al nostro lavoro sono molto importanti e curate personalmente da me insieme a tutta la comunicazione: “Open Studios” è l’evento durante il quale tutti gli studi sono aperti al pubblico e mostrano i propri lavori. Un po’ come succede nelle Accademie d’ arte”.

Oggi all’ interno troviamo Label201, Dugong Production, Eurofim, STUDIO TAMAT, WOW Architettura, Archema Studio e Design, Quandoo, Studio BS e la Bottega d’arte LoDa. LABEL201 ideato e diretto da Manuela Tognoli, studio di architettura di interni e galleria d’arte contemporanea.

DUGONG società di produzione audiovisiva che sviluppa progetti di alto livello culturale, dai documentari ai film di finzione, ai video arte. Crede nel network come sinergia tra co-produzioni e ama il lavoro di squadra sinonimo di forza e creatività.

Nello stessa location EUROFILM, società di produzione cinematografica che produce film e documentari sociali su temi di attualità italiani ed internazionali. STUDIOTAMAT è uno studio

di progettazione architettonica e di design d’interni che utilizza materiali riciclabili ed ecosostenibili nel rispetto dell’ ambiente.

La Bottega d’arte LoDa, stoffe, pietre, legno, ceramiche. Tutto nel riuso ecologico dell’ arte. Si prosegue con due studi di architettura: WOW Architettura: un’esclamazione di stupore tra la bellezza e la naturalezza delle costruzioni che rispettano l’ambiente. Archema Studio crede nelle idee di recupero, restauro e riuso, proponendo un concetto morale che migliori gli edifici già costruiti. Dalla progettazione alle start up, si chiama Quandoo e offre servizi di prenotazione di ristoranti presenti in 8 paesi d’Europa. Studio BS, un’ artista diviso tra l’Italia e gli Stati Uniti dove espone le sue opere (New York, Miami e Toronto).

Un’ aria nuova che si respira da giovani che credono nel legame con il passato, che credono in una Roma che merita di essere valorizzata e apprezzata, non dimenticata. Non ci voltiamo più dall’ altra parte, non faremo finta di nulla ma valorizzeremo chi migliora la città. Tanti ancora gli edifici presenti a Roma completamente abbandonati che meritano una giusta destinazione ma che al momento sono solo un ricovero provvisorio per senza tetto: l’ex fabbrica della Penicillina al 10Km della Tiburtina, il “Centro Onde Corte Rai Way” (Rai International) a via di Tor Pagnotta, manufatti industriali nel Porto Fluviale e tra via del Flauto e la A24 zona Collatina, i “Residence Roma” a Bravetta, il “Casale Bocca di Leone” nell’Agro Romano. Edifici che erano stati inseriti nel progetto “Punti verdi Qualità”, che promosse l’ex sindaco di Roma Walter Veltroni, ma che in realtà non ebbero mai inizio. A luglio di quest’anno è stato presentato al Macro di Testaccio il Progetto europeo TUTUR Temporary Uses as a Tool for Urban Regeneration, che permetterà di mappare tutti gli immobili inutilizzati a Roma per avviare un percorso di riprogettazione che snellirà la burocrazia. Il sogno di pensare alla nostra Roma come la immaginiamo non ci consentirà di essere indifferenti fino a quando non la vedremo risorgere dalle macerie. Un concetto che deve avere basi e fondamenta, bisogna sfruttare tutto quello che già esiste senza aumentare ancora di più la creazione di nuovi blocchi di cemento.

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A CENA CON GLI AUTORI DELLE BUONE AZIONI SOCIALI “PER CAMBIARE IL VENTO, BISOGNA SOFFIARE FORTE, NON BISOGNA FERMARSI MAI E NON SI PUÒ ESSERE SOLI”

L’

Associazione Nazionale dei Pedagogisti Familiari desidera ringraziare tutte le Personalità, gli Amici e i Collaboratori intervenuti al Tradizionale Galà di Natale, nella meravigliosa cornice dello Sheraton Roma Hotel, lo scorso 12 dicembre. Una serata particolarmente ricca di emozioni, grazie alle presenze illustri e alle testimonianze preziose e appassionate di tutti coloro i quali si sono avvicendati sul palco.

Un momento magico, irripetibile in cui le molteplici attività di valore in cui sono quotidianamente impegnati l’Istituto Nazionale di Pedagogia Familiare e l’Associazione Nazionale dei Pedagogisti Familiari, tutti i fronti sui quali combattono sfide e battaglie di Civiltà, Cultura, Giustizia per l’affermazione dei Diritti Umani negati dei Minori e delle Famiglie si sono composti in un quadro d’insieme ricco e prezioso come le Persone che ogni giorno vi si dedicano con passione e dedizione. L’ANPEF è stata, dunque, lieta di festeggiare gli autori delle Buone Azioni Sociali, che hanno ricevuto il prestigioso Premio in Pedagogia Familiare: Paola Gravela, Rossella Guzzoni, La bambola Pezzolina e la sua mamma Marina Gramucci, Massimo Bardi, Massimo Rosselli del Turco, Viviana Normando; e Stefania Petrera, destinataria di un riconoscimento particolare.Due Riconoscimenti Speciali sono stati tributati a Personalità particolarmente impegnate nella difesa dei Diritti Umani: l’Ambasciatore Juan Fernando Holguin ha ritirato la targa che ha premiato il Governo dell’Ecuador e la sua Rappresentanza Diplomatica in Italia, mentre il secondo Riconoscimento è stato tributato a Salvatore Adduce, Sindaco di Matera, Capitale Europea della Cultura 2019. Sono stati, inoltre, premiati i Sindaci dei Comuni che hanno aderito con Delibera al Programma Nazionale ‘Mai più un Bambino’, per la particolare sensibilità dimostrata nell’Azione Istituzionale, volta alla difesa dei Minori.La serata ha rappresentato l’occasione per “gettare il cuore oltre l’orizzonte” e iniziare a progettare le battaglie future, gli ‘orizzonti impossibili’ da rendere sempre più vicini, alla portata. Organizzata assieme all’Istituto Nazionale di Pedagogia Familiare, con il patrocinio della San Remo Musica Classic, la collaborazione dell’Associazione Nonne e Nonni Penalizzati dalle Separazioni, dalla Maison Des Artistes ed il sostegno della BCC, è stata arricchita dalla gradita presenza di moltissime Personalità e Rappresentanti delle Istituzioni nazionali – come la

Sen. Rosetta Enza Blundo - ed esteri – come l’Ambasciatore della Bolivia - a testimonianza di un’asse importante e di un’amicizia strettissima tra Paesi, uniti dal comune impegno a favore dei Diritti Umani. Il tutto suffragato dalla presenza graditissima della stampa, in particolare della Giornalista Safiria Leccese. Testimonial d’eccezione del Programma “Vivere senza Psicofarmaci” Daniele Masala, Campione Olimpico di Pentatlon, che ha ribadito con forza l’importanza di affermare i principi di onestà e salute, per promuovere non solo un’idea di sport etico ma anche di una vita sana, ricca di valori e di valore. Spazio, dunque, a chi ce l’ha fatta e ha portato la propria testimonianza, spazio per i progetti in essere ma anche a quelli che vedranno la luce nell’immediato futuro, con la presentazione in anteprima di un volume eccezionale “Papà…portami via da qui” (Armando editore) scritto dalla Prof.ssa Vincenza Palmieri e dall’Avv. Francesco Miraglia, con postfazione dell’Avv. Francesco Morcavallo e con il contributo del Giornalista Vittorio Bonanni, dedicato alla storia di Anna Giulia, una bambina sottratta alla propria famiglia, ai propri genitori. La storia di una singola bambina, certo, ma anche di tutti quei bambini ingiustamente allontanati dagli affetti più cari. Momenti emozionanti di spettacolo hanno animato una serata di festa, condotta brillantemente dalla Conduttrice Televisiva Monia Gambarotto ed impreziosita dall’esibizione toccante e straripante d’energia della cantante Ally, così come dal trio acustico “Quei Tre”, che ha aperto la serata. Non sono mancati momenti di vera e propria arte, grazie alla presenza dell’attore Rodolfo Baldini - accompagnato del traduttore LIS Thomas Bhuling – e ai quadri di Sabrina di Giacomo e Marco Rocchi. Una serata indimenticabile, in cui si è affermato, ancora una volta, che “Per cambiare il vento, bisogna soffiare forte, non bisogna fermarsi mai e non si può essere soli”. (V.B.) ISTITUTO NAZIONALE DI PEDAGOGIA FAMILIARE Viale Trastevere, 209 A – Roma Tel 06/5803948 – 06/5811057 http://www.pedagogiafamiliare.it

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/ IPSE DIXIT /

APOLOGO SULL’ONESTÀ NEL PAESE DEI CORROTTI di ITALO CALVINO

C’

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era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente cioè chiedendoli a chi li aveva, in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo d’una sua armonia. Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito; anzi, benemerito: in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale quindi non escludeva una superiore legalità sostanziale. Vero è che in ogni transizione illecita a favore di entità collettive è usanza che una quota parte resti in mano di singoli individui, come equa ricompensa delle indispensabili prestazioni di procacciamento e mediazione: quindi l’illecito che per la morale interna del gruppo era lecito, portava con se una frangia di illecito anche per quella morale. Ma a guardar bene il privato che si trovava a intascare la sua tangente individuale sulla tangente collettiva, era sicuro d’aver fatto agire il proprio tornaconto individuale in favore del tornaconto collettivo, cioè poteva senza ipocrisia convincersi che la sua condotta era non solo lecita ma benemerita. Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale alimentato dalle imposte su ogni attività lecita, e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare.

Perché in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta ma neppure a rimetterci di suo ( e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse) la finanza pubblica serviva a integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune s’erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse che

in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza d’atto di forza ( così come in certe località all’esazione da parte dello stato s’aggiungeva quella d’organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori pur provando anziché il sollievo della coscienza a posto la sensazione sgradevole d’una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta. Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva d’applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino a allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché la soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse d’un regolamento di conti d’un centro di potere contro un altro centro di potere. Cosicché era difficile stabilire se le leggi fossero usabili ormai soltanto come armi tattiche e strategiche nelle battaglie intestine tra interessi illeciti, oppure se i tribunali per legittimare i loro compiti istituzionali dovessero accreditare l’idea che anche loro erano dei centri di potere e d’interessi illeciti come tutti gli altri. Naturalmente una tale situazione era propizia anche per le associazioni a delinquere di tipo tradizionale che coi sequestri di persona e gli svaligiamenti di banche ( e tante altre attività più modeste fino allo scippo in motoretta) s’inserivano come un elemento d’imprevedibilità nella giostra dei miliardi, facendone deviare il flusso verso percorsi sotterranei, da cui prima o poi certo riemergevano in mille forme inaspettate di finanza lecita o illecita. In opposizione al sistema guadagnavano terreno le organizzazioni del terrore che, usando quegli stessi metodi di finanziamento della tradizione fuorilegge, e con un ben dosato stillicidio d’ammazzamenti distribuiti tra tutte le categorie di cittadini, illustri e oscuri, si proponevano come l’unica alternativa globale al sistema. Ma il loro vero effetto sul sistema era quello di rafforzarlo fino a diventarne il puntello indispensabile, confermandone la convinzione d’essere il migliore sistema possibile e di non dover cambiare in nulla. Così tutte le forme d’illecito, da quelle più sornione a quelle più feroci si saldavano in

un sistema che aveva una sua stabilità e compattezza e coerenza e nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto. Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti. Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione ( non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso. Insomma non potevano farci niente se erano così, se le cose che stavano loro a cuore non erano direttamente valutabili in denaro, se la loro testa funzionava sempre in base a quei vieti meccanismi che collegano il guadagno col lavoro, la stima al merito, la soddisfazione propria alla soddisfazione d’altre persone. In quel paese di gente che si sentiva sempre con la coscienza a posto loro erano i soli a farsi sempre degli scrupoli, a chiedersi ogni momento cosa avrebbero dovuto fare. Sapevano che fare la morale agli altri, indignarsi, predicare la virtù sono cose che trovano troppo facilmente l’approvazione di tutti, in buona o in malafede.

Il potere non lo trovavano abbastanza interessante per sognarlo per sé (almeno quel potere che interessava agli altri); non si facevano illusioni che in altri paesi non ci fos-

sero le stesse magagne, anche se tenute più nascoste; in una società migliore non speravano perché sapevano che il peggio è sempre più probabile. Dovevano rassegnarsi all’estinzione? No, la loro consolazione era pensare che così come in margine a tutte le società durante millenni s’era perpetuata una controsocietà di malandrini, di tagliaborse, di ladruncoli, di gabbamondo, una controsocietà che non aveva mai avuto nessuna pretesa di diventare la società , ma solo di sopravvivere nelle pieghe della società dominante e affermare il proprio modo d’esistere a dispetto dei principi consacrati, e per questo aveva dato di sé ( almeno se vista non troppo da vicino) un’immagine libera e vitale, così la controsocietà degli onesti forse sarebbe riuscita a persistere ancora per secoli, in margine al costume corrente, senza altra pretesa che di vivere la propria diversità , di sentirsi dissimile da tutto il resto, e a questo modo magari avrebbe finito per significare qualcosa d’essenziale per tutti, per essere immagine di qualcosa che le parole non sanno più dire, di qualcosa che non è stato ancora detto e ancora non sappiamo cos’è.

Tratto da Romanzi e racconti – volume 3°, Racconti e apologhi sparsi, i Meridiani, Arnoldo Mondadori editore. Uscito su la Repubblica, 15 marzo 1980, col titolo “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti”.

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/ S TA R T U P /

TUTORED, LA LAUREA A PORTATA DI MANO di GIOVANNA PAPPALETTERA

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l mondo delle startup non finisce mai di stupire con le mille idee che ci propone. Anche se non propriamente originali, esse vengono messe in atto con molta intuitività ed efficienza, supportate inoltre da quella energia che solo un team giovane può garantire. Questo mese vi proponiamo un progetto che può essere definito interessante, se non essenziale, per il mondo degli studenti: le ripetizioni. A presentarcelo il giovane team di Tutored, giovane non solo dal punto di vista anagrafico visto che è nato da solo pochi mesi ma già presenta il carattere di una vera azienda.

Da chi è composta la squadra?

Siamo tutti ragazzi giovanissimi e studenti universitari.

Il team è composto da tre cofondatori: Martina Mattone, 25 anni, neolaureata in Giurisprudenza a Roma Tre, Nicolò Bardi, 20 anni, studente di economia e management alla Luiss, il quale si occupa della parte finanziaria, e Gabriele Giuliano, 22 anni, studia marketing e comunicazione alla Lumsa. Altri collaboratori full time, nonché parti integranti del team, sono Paolo Molinara, 22 anni, laureando in Ingegneria Informatica, la nostra business manager Alice Bignardi, 25 anni, specializzanda alla Cattolica di Milano e il grafico Flaviano Arbia, 23 anni.

Di cosa si occupa la vostra startup?

Tutored si occupa di ripetizioni universitarie. Grazie alla nostra piattaforma gli studenti entrano in contatto con dei tutor che, perlopiù, sono studenti più grandi o neolaureati nella stessa facoltà e che hanno dato l’esame con lo stesso professore. L’esperienza pregressa del tutor con lo stesso esame del richiedente è l’elemento chiave del nostro progetto. Questa idea è nata grazie all’edizione di InnovActionLab terminata a Giugno 2014 dove siamo stati selezionati tra le dieci migliori idee tra le edizioni di Roma, Milano e Cagliari. L’interesse che ha suscitato il nostro team, anche grazie ad una simpatica attività di

comunicazione, ha determinato poi la buona riuscita del nostro pitch al colloquio e quindi l’accesso nel programma di accelerazione di Luiss EnLabs, con un finanziamento di 60.000 euro iniziale che ci ha dato una prima spinta importante. Al principio abbiamo testato questa idea tramite un gruppo Facebook nel quale mettevamo in contatto tra loro studenti più giovani con quelli più grandi. Ascoltando le varie richieste, sviluppando nuovi cambiamenti e facendo nuove indagini sugli utenti che avevamo abbiamo arricchito il progetto e ci siamo focalizzati su questo aspetto essenziale, ossia inserire come tutor studenti che hanno conseguito lo stesso esame di cui si richiede la ripetizione.

Come si deve muovere uno studente per cercare un aiuto tramite il vostro sito?

Abbiamo cercato di creare un sito che sia facile, chiaro e in qualche modo giovanile. I nostri competitor molte volte hanno uno standard classico e retrò, noi invece abbiamo puntato tutto su una facciata moderna che trasmetta quella stessa energia che serve per affrontare le ore di ripetizioni. Una volta che ci si trova sulla home page basta inserire la materia interessata, aiutandosi anche con i vari filtri come città, università e facoltà. Dopo questo passaggio si apriranno tutti i profili dei vari tutor

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con foto, città e università di appartenenza e recensioni. Abbiamo dato particolare attenzione al profilo dei tutor perché vogliamo che risultino subito chiari e accessibili, che diano un rapido quadro generale dell’individuo e facciano capire la sua personalità per creare un legame con lo studente. La sezione di feedback è importante proprio per questo, non solo serve per un risconto personale ma dà maggiore visibilità a chi insegna. Uno dei nostri obiettivi è stato quello di rendere il sito più social possibile, per far sentire l’utente parte integrante di una community.

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Quali sono le prossime tappe?

Una scadenza importante sarà l’Investor day del 15 gennaio, giorno in cui esporremo agli investitori tutto il lavoro fatto e chiederemo un nuovo investimento per realizzare nuovi progetti futuri a 12 mesi. Siamo molto fiduciosi a riguardo perché crediamo che, nonostante siano presenti diversi competitori e molte difficoltà, il mercato delle ripetizioni debba essere ancora migliorato a livello online. Noi stiamo cercando di rendere più efficiente il tutto anche attraverso programmi che ti permettono di realizzare lezioni a distanza tramite una sorta di skype interno alla nostra piattaforma. Questo è uno degli obiettivi su cui stiamo lavorando molto. Un altro desiderio è quello di allarga-

re la piattaforma su più regioni d’Italia. In questo momento Tutored opera solo a Roma e Milano, l’idea è di arrivare leader in Italia entro 12 mesi e poi allargarci al mercato europeo per farci notare da big di settore internazionale, così da discutere di possibili acquisizioni e allargare il nostro business ulteriormente.

Qual è la vostra opinione sul mondo delle startup?

La startup potrebbe essere un modo creativo per rispondere alla crisi e a tutta questa negatività che si sta diffondendo negli ultimi anni. Da questo mondo ne viene fuori un’energia, una passione e un contesto giovanile molto dinamico che fornisce una grande rete di attività prodotte da giovani imprenditori che collaborano tra loro. È un ambiente molto stimolante anche se forse non viene ancora pubblicizzato come dovrebbe essere. Consigliamo a tutti di fare il primo passo senza avere paura, quindi di provare e gettarsi nell’impresa anche se non è facile far coincidere il lavoro, lo studio e il tempo per se stessi. Tutto quello che stiamo facendo in futuro sarà molto utile per la nostra crescita personale e i sacrifici verranno ripagati. Nella nostra startup tutti ci diamo da fare per portare avanti questo progetto. Il team, come dicono tutti, è essenziale ed essenziale è l’idea di creare una community basata sulla grinta e la fiducia in noi stessi.

/ D É C O U PA G E /

DECORO QUINDI SONO di GIOVANNA PAPPALETTERA

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ggetti regalati che non piacciono esteticamente, vecchie cornici abbandonate, scatole inutilizzate?

Il découpage arriva in nostro aiuto per valorizzare cose che pensavamo potessero andar perdute. Per spiegarci questa meravigliosa arte decorativa abbiamo intervistato Ilaria Mazza, 27 anni, studentessa di Ingegneria Civile a Roma Tre, che nel tempo libero si dedica alla realizzazione di particolari tecniche di grande effetto e creatività.

Cos’è in breve il découpage?

Il découpage è un’antica arte di decorazione utilizzata per qualsiasi tipo di materiale in cui si adoperano diversi tipi di carta come quella classica, carta di riso o tovagliolini in carta di riso. Già dal Seicento si decoravano oggetti e mobili attraverso una particolare tecnica cinese chiamata laccatura, ossia si ricopriva il tutto con della lacca che produceva una sorta di lucentezza all’oggetto. La bellezza del découpage è che puoi rivalorizzare vecchie cose che non ti piacciono, per riadattarle ai tuoi gusti. Per me è uno strumento che dà libero sfogo alla mia creatività.

Come hai iniziato questa avventura artistica?

La mia attività è iniziata circa quattro anni fa in modo un po’ casuale. Dovevo infatti fare un regalo al mio ragazzo e sono andata in un negozio di belle arti in via Ostiense. Entrando in questo negozio rimasi impressionata da quello che le ragazze riuscivano a realizzare, l’ambiente era bellissimo.

Per questo decisi che anche io volevo tentare di realizzare qualcosa di simile e così iniziai provando a fare gioielli molto semplici. La cosa più simpatica è che all’inizio in realtà il découpage non mi piaceva molto come tecnica, non mi ispirava più di tanto. Con il tempo però, stimolata dai corsi base che si tenevano in questo negozio, iniziai poco a poco a entrare in questo mondo per sviluppare sempre

più la mia creatività. I corsi infatti ti danno un’infarinatura generale della tecnica, poi sta a te continuare a provare e sperimentare personalmente. Scoprendo le varie tecniche si riesce a capire quale siano quelle che veramente ti piacciono e con cui riesci ad esprimere meglio te stessa. Inizialmente è nata come una curiosità ma poi, dopo aver fatto il corso base, mi sono dedicata alla produzione di video tutorial per condividere meglio questa passione. Al canale youtube ho poi affiancato il sito internet Sephila Creations, avendo così un appoggio più forte per la mia attività e maggiore spazio per spiegare bene i miei lavori. Punto ad avere un sito che sia sempre in continua crescita, anche perché il mio percorso di apprendimento è sempre in continua crescita, e che sia ottimale per quanto riguarda l’intuitività e la facilità di navigazione. Ad oggi sono molto soddisfatta perché viene seguito da circa 4000 utenti.

E che rapporto hai con i social network?

Ovviamente mi sono dedicata anche a tutti i social network, come Instagram, Facebook e Twitter perché sono canali di trasmissioni più immediati, dove si può comunicare facilmente con chi ti segue.

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Anche il riscontro e il feedback da parte delle persone è più dinamico e molte volte si muove attraverso il semplice passaparola. La mia pagina Facebook ha avuto un boom nell’ultimo periodo sopratutto grazie alle diverse collaborazioni che ho fatto e che mi hanno permesso di raggiungere più di 5000 utenti. Ultimamente ad esempio ho collaborato con un magazine online di di grafica, illustrazione e gadget personalizzati, chiamato la Fabbrica dei sogni, in cui abbiamo proposto tutorial a tema di halloween. Inoltre i social network mi aiutano a vendere i miei prodotti tramite un negozio online che si appoggia alla piattaforma DaWanda Italia. Devo dire che nel mio piccolo sono molto orgogliosa della mia attività.

Tecniche e materiali preferiti?

Il mio materiale preferito è il legno perché è più immediato, più economico, più leggero e più versatile.

Lo puoi trovare infatti in diverse forme e trasportare facilmente. Per quanto riguarda le tecniche, la mia preferita è ovviamente il découpage. Inoltre mi piace tanto lavorare con le paste polimeriche, quindi fimo, premo, cernit... perché permette di esprimere al meglio la propria creatività e infatti le uso per creare orecchini, bracciali e gioielli particolari o anche miniature di cibi e dolci vari. Inoltre mi diverto molto anche con la stoffa, per rivestire oggetti di tanti tipi, come scatole, tegole, cornici etc. e con la resina, per creare cammei resistenti con immagini per collane, bracciali, spille e tanto altro.

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Un consiglio per chi vuole cimentarsi in quest’arte?

Il mio consiglio è quello di provare sempre, senza aver paura di non riuscire bene. Con la paura non si cresce mai, in qualsiasi ambito della vita. Anche io mi sono lanciata in questo campo senza conoscere nulla e, sinceramente, sono più le cose che ho buttato che quelle realizzate. A poco a poco però sono riuscita a costruire una mia dimensione e continuo a lavorare sapendo che non si smette mai di imparare.

Un sogno per il futuro?

Il mio sogno sarebbe quello di realizzare un negozio di belle arti che fosse un punto di riferimento per tutti coloro che vogliono apprendere un’arte grazie alle partecipazioni di tutti quegli artigiani che stanno scomparendo nel tempo, come orafi, vetrai e falegnami. Mi piacerebbe personalmente fare un corso come insegnante perché adoro trasmettere la passione che io sento quando creo, dare consigli e vedere che gli altri riescono a creare qualcosa grazie alla mia esperienza. La condivisione penso che sia tutto nella crescita di una persona all’interno di una società.

/ TUTORIAL /

DÉCOUPAGE E GLITTER SU SFERA DI PLASTICA Occorrente: • sfera di plastica con divisore • finitura glitterata (oppure colla+glitter) • colore acrilico • primer • colla e carta da découpage • forbici/cutter • contenitore con acqua e panni assorbenti asciutti e puliti • nastri vari Step 1: prendete una sfera da 100 millimetri di diametro e, all’interno di una metà, stendete una finitura glitterata con un pennello a spugna piccola. Se non si ha questo tipo di finitura non preoccupatevi: stendete semplicemente della colla e prima che si asciughi versate dei brillantini.

Otterrete così lo stesso risultato. Con lo stesso pennello stendete del colore acrilico, in questo caso blu.

Step 2: prendete poi il divisorio della sfera. Esso presenta due lati: uno di diametro più piccolo che è rivolto verso l’interno (cioè la metà di sfera colorata precedentemente) e quindi non si vede ed un altro di diametro maggiore che invece si vedrà dalla sfera. Questo parte è quella che andrà lavorata e decorata. Su questa parte stendete un po’ di primer, usando sempre il pennello a spugna piccolo.

Nel frattempo prendete della carta per découpage e con

le forbici (o i cutter se si vuole essere più precisi) ritagliate l’immagine.

Step 3: immergete la carta in un contenitore contenente dell’acqua tiepida. Toglietela dopo circa un minuto e stendetela su un panno assorbente asciutto e pulito per eliminare l’acqua. Passando un altro panno assorbente asciutto e pulito sull’immagine si elimina l’acqua in eccesso.

Step 4: prima di incollare l’immagine sul supporto, stendete su di esso un po’ di colla per découpage (in alternativa potete usare della colla vinilica diluita con acqua).

Incollate poi l’immagine e ripassate la colla su di essa, partendo dal centro verso l’esterno per togliere le bolle che eventualmente si possono essere formate sotto la carta.

Se l’immagine che avete scelto è più grande del supporto, non vi preoccupate: incollatela lo stesso e poi ritagliate l’eccesso di carta con le forbici o il cutter.

Step 5: come ultimo step ma non strettamente necessario, sull’immagine stendete un po’ di finitura finale opaca.

A questo punto non resta che assemblare la sfera, inserendo il divisore e chiudendola. Quindi la si può decorare secondo i propri gusti, aggiungendo fiocchi, nastri e un gancino per poterla appendere.

Il lavoro quindi è terminato.

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/ STORIE /

“HO CAPITO QUANTA FORZA AVESSE QUEL RAGAZZINO COSÌ FRAGILE. E SONO STATA ORGOGLIOSA DI LUI”

- CHI ERA STEFANO CUCCHI di VALERIA BIOTTI

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uando i riflettori della cronaca volgono altrove il proprio sguardo, la vita di quelli che sono stati – spesso loro malgrado - protagonisti delle prime pagine dei giornali non si arresta d’improvviso ma continua a scorrere esattamente allo stesso ritmo, a procedere con lo stesso passo. Persone apparentemente ridotte a “personaggi” smettono di essere cibo per la nostra curiosità, ma continuano invece ad esistere così come continuano le loro battaglie per ottenere verità e giustizia. Oggi Ilaria Cucchi non è all’ordine del giorno di nessun tg. Nessun quotidiano raccoglie le sue parole. Eppure si è alzata lo stesso, alla solita ora.

Ha due figli meravigliosi, un lavoro impegnativo, un trasloco alle porte. E un fratello che le è stato ammazzato. Anche oggi, come tutti i giorni che Dio manda in terra, da cinque anni a questa parte, fino all’eternità. Quando Ilaria ha accettato di incontrarmi, mi sono domandata quale fosse il rischio più grave, con lei. Se quello di unirmi – pur non volendo – ad una schiera ben nutrita di avvoltoi; o forse, invece, quello di risultare inutile, ribadendo cose già dette e già sentite, senza aggiungere nulla di significativo né a lei né ai cittadini, ai lettori. Mi sono domandata se sarei stata in grado di porle domande senza ferirla, ulteriormente. Ero certa che questa fosse, senza alcun dubbio, l’intervista più difficile che avessi mai affrontata. Ho ristudiato le carte, riletto la storia, le dichiarazioni.

Ho recuperato le informazioni “a latere”, i commenti dei terzi e ho ricostruito gli ultimi 5 anni della battaglia della famiglia Cucchi; quello che è stato detto di Stefano e tutto quello che in troppi, invece - troppi testimoni, troppi rappresentanti delle Istituzioni - non hanno avuto il coraggio di dire. E ho capito una cosa: che di Stefano Cucchi noi non sappiamo nulla. Che di questo ragazzo del 1978, che all’epoca dei fatti aveva 31 anni, non abbiamo notizie al di là di un singolo elemento: quello che lo ha portato ad incontrare le Forze dell’Ordine, quella maledetta notte. Stefano aveva un problema con la droga, certo, ma forse è un po’ poco per capire chi fosse. Alcuni, invece, hanno ritenuto che fosse abbastanza e si sono permessi di dire che Stefano fosse solo un drogato, che Stefano “se la fosse cercata”. Incontrando Ilaria, allora, le chiedo se voglia restituire a suo fratello una immagine più completa e reale.

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- Chi era Stefano Cucchi?

In poche parole – e non lo dico perché era mio fratello – Stefano era il ragazzo più buono che abbia mai conosciuto. Era di un altruismo a volte imbarazzante. Era estroverso, sorridente. Una di quelle persone che sanno sempre regalarti un sorriso, anche nei suoi momenti più difficili; e ne abbiamo superati tanti. Questa è una delle cose che mi mancano di lui: la consapevolezza di sapere che lui comunque c’era, l’unica persona al mondo su cui sapevo di poter contare, anche con tutte le sue debolezze. Chiunque conoscesse Stefano - se chiedi al barista, al vicino di casa, alla signora che lo incontrava la mattina quando andava alla messa delle vecchiette

delle 8.00 a Morena - ti risponderà che era un ragazzo espansivo, allegro e buono. Poi dentro si sé aveva tante cose. Aveva, soprattutto negli ultimi periodi, delle difficoltà che noi purtroppo non avevamo percepito, ma era una persona bella veramente. Vorrei non essere io a dirtelo, vorrei che lo chiedessi agli altri conoscenti. Tutti ci hanno detto questo.

- Secondo te, perché lui non vi ha raccontato le cose che lo tormentavano?

Avevamo alle spalle un momento lungo e difficile, quello della droga. Dalla quale credevamo di essere usciti per sempre. Poi, ho scoperto nel tempo – e nel modo peggiore – che la parola ‘fine’ in realtà non c’era mai stata. Quando si parla della droga, difficilmente c’è la parola fine. C’eravamo illusi. Io credo che dopo tanta sofferenza subentri qualcosa nell’essere umano, come un rifiuto di ulteriore dolore, e quindi non l’avevamo visto, non ne avevamo avuto la capacità. Teneva dentro quelle stesse insicurezze che lo avevano portato precedentemente alla droga. Erano riemerse dopo l’enorme difficoltà nell’impatto con la società. Lui ce l’aveva messa tutta in Comunità. Si era detto e ci aveva detto “io non posso andare avanti così, devo riprendere in mano la mia vita”. Ed è stato un grande sforzo, perché già il fatto stesso di ammettere un problema del genere richiede un coraggio enorme. Lui lo ha fatto, sapendo di poter contare su di noi. Io l’ho visto rinascere, gradualmente, durante quel percorso. E’ entrato in Comunità ad ottobre.

Quella comunità prevede un periodo in cui non si possono avere contatti con la famiglia, né telefonate, né altro; sotto Natale, invece, ci chiamò. Poteva finalmente incontrare un membro della famiglia e aveva deciso di incontrare me. Ricordo lo stato d’animo con cui andai a quell’incontro: ero preoccupata di quale potesse essere la mia reazione emotiva. Poi, ricordo il momento in cui l’ho visto. Eravamo in una grande sala tutta circondata di vetri e Stefano aveva un sorriso raggiante che mi riportava alla mente quello che era mio

fratello come lo ricordavo io, prima del disastro. Lì ho capito quanta forza avesse quel ragazzino così fragile, quanta forza e quanto coraggio stesse dimostrando. E sono stata orgogliosa di lui.

- Cosa raccontava di quel periodo in Comunità?

Quando è tornato, ci ha raccontato come fosse la vita lì dentro e quanto lo facesse sentire importante e valorizzato avere delle responsabilità. Mi ha raccontato che il sapere che una determinata cosa fosse assegnata a lui – come poteva essere occuparsi della pulizia delle stanze, per esempio – se lui non l’avesse fatta, avrebbe comportato un disagio per tutti gli altri. Era importante e questo gli dava finalmente un ruolo nella società. Quel ruolo che non aveva trovato prima.

- Secondo te, come mai aveva avuto difficoltà?

Stefano era nato prematuro, di 7 mesi. Io ricordo di averlo vissuto i primi tempi, nell’incubatrice, come un estraneo quasi. Già un fratello minore, quando arriva, irrompe nella famiglia sconvolgendo tutto; per me, in quel momento, vedendolo nell’incubatrice era davvero “l’estraneo”. Era sempre il più piccolo di tutti ed era cresciuto con questo senso di inferiorità.

Si ferma un attimo, Ilaria, quasi sovrappensiero. La guardo sospesa e la attendo in silenzio.

Raccontandoti dell’incubatrice, adesso, mi viene in mente un salto enorme. Mi ricordo quando l’ho visto dopo la morte: era dentro una teca di vetro, così come l’ho visto appena nato. E allungavo la mano, cercando di toccarlo nella stessa maniera in cui lo facevo da bambina; e quel corpo non “mi apparteneva” più. Una sensazione terribile. Non mi era appartenuto in quei 6 giorni, in carcere e non mi apparteneva neanche in quel momento.

- E’ quasi impossibile non tornare a quei giorni Il pensiero di quello che deve aver passato, per me è un vuoto enorme, perché io non saprò mai quali siano state le sue sensazioni, i suoi pensieri. Sai quanto sia importante il sapere, anche per elaborare. E questo vuoto non consente mai di farlo totalmente: nessuno potrà darmi delle risposte. Lui era lì da solo, sapeva che stava per morire. Il giorno prima ha chiesto una Bibbia e ha scritto una lettera disperata a quella Comunità che lo aveva aiutato in passato. Conclude quella lettera dicendo “P.S. almeno rispondimi” … il che fa pensare a tante altre richieste cadute nel vuoto. Quello era il suo stato d’animo mentre era solo, tra atroci sofferenze e con la consapevolezza di stare per morire. Una lettera scritta intorno a mezzanotte, lui è morto alle 6 della mattina successiva. A volte mi dico che mio fratello è stato forte, ha rivendicato i suoi diritti fino all’ultimo istante della sua vita. Hanno detto che rifiutava le cure e l’alimentazione ma lui lo faceva a fasi alterne, con un preciso scopo ed era scritto anche nelle cartelle cliniche. Lui chiedeva di parlare con il suo avvocato perché a lui avrebbe raccontano quello che gli era successo. E questo è stato ignorato.

- Quindi era una protesta, una sorta di sciopero della fame.

Si, mio fratello è stato un grande, in realtà fortissimo. Ha usato l’unica arma che avesse in quel momento per incontrare il suo avvocato. Il fatto di essere stato pestato lui l’aveva raccontato a tanta gente. Il fatto che poi nessuno lo abbia denunciato è inquietante, imbarazzante. Oltre 120 persone, persone che fanno parte delle Istituzioni. Ad un certo punto c’è un Agente a cui mio fratello dice “guarda cosa mi hanno fatto i Servitori dello Stato” e l’Agente afferma “da quel momento ho deciso di prendere le distanze, pensando che ognuno dovesse stare al suo posto”. Qual è il posto, il compito di un Pubblico Ufficiale che riceve un racconto del genere?

Stefano si deve essere sentito abbandonato. E deve aver pensato che anche noi lo avessimo abbandonato dopo l’ennesimo tradi-

mento. Non era così, noi eravamo sempre lì, solo che nessuno ci dava sue notizie. Come si sono svolti quei giorni e il modo con cui è morto mio fratello, da solo, fa tanta rabbia, pensando al fatto che tante volte avevamo superato momenti difficili e la consapevolezza di potercela fare, insieme. Qualcuno ce l’ha negato, questa volta.

- Proviamo a tornare indietro, anche se so che non è facile.

Cosa gli piaceva fare?

Gli piaceva ascoltare la musica. Il suo cantante preferito era Renato Zero, che poi è anche il mio. Da ragazzi noi dormivamo in camera insieme. Lui aveva la fissazione per i film di Ritorno al Futuro. Li guardavamo ogni sera, li sapevamo a memoria - dopo aver passato la fase “Non ci resta che piangere”. E poi, la mattina, musica a tutto volume. Spesso, quando eravamo già grandi, magari io andavo a letto più presto di lui, lui arrivava, si accendeva la sigaretta a letto e poi la tv. E quante litigate ci facevamo! E quanto gli volevo bene.

Quanto mi riempiva la vita. Non ci si annoiava mai con mio fratello.

E’ sempre stato uno sportivo. Da ragazzino voleva fare scuola calcio e invece mia mamma a 6 anni l’ha segnato a Danza Classica, perché la facevo io, così era più pratico. E lui era un po’ il gallo nel pollaio, perché erano 3 maschietti in mezzo a tutte femmine. Gli piaceva ed era pure bravo! Poi, crescendo, i compagni hanno cominciato a prenderlo in giro; lui voleva tanto andare a scuola calcio e quando abbiamo convinto mia madre per lui è stata un’emozione fortissima. Lo sport ce l’aveva dentro. Anche dopo la Comunità, lo motivava molto. Infatti ha iniziato a coltivare la passione per la boxe, che è uno sport sano, una disciplina. Sognava di diventare un campione: era molto leggero, aveva una grossissima attenzione verso il corpo, era scattante… I ricordi della nostra infanzia sono meravigliosi, di quelli che ti segnano, ti danno dei valori.

- Condividi ancora gli stessi valori, dopo tutto quello che è successo?

All’inizio pensavo che quei valori fossero crollati. Essere cresciuti con certi insegnamenti e poi avere questo impatto con la realtà, ti fa dire “Cavolo, mi avete presa in giro per 35 anni: cosa mi avete insegnato? Non è così, ma ti viene da dire “Non era vero niente: dov’è il rispetto per l’essere umano che mi avete insegnato fin da bambina? Dov’era in quei 6 giorni?” Ma io credo ancora in questi valori. Cerco di trasmetterli ai miei figli e cerco di fondare il mio vivere quotidiano su questi valori, altrimenti lo stare al mondo non ha senso.

- Stefano è stato descritto dai giornali come un ragazzo debole. Parlando con te si avverte non solo un enorme affetto ma anche una profonda stima Mio fratello non era un eroe per quello che ha rappresentato e che ha portato al suo arresto. Ma poi lo è stato in quei 6 giorni. Ha combattuto con le unghie e con i denti. E’ stato di una forza incredibile. Perché le condizioni in cui era ridotto il suo fisico dopo quel pestaggio, probabilmente avrebbero ridotto un essere umano alla morte in tempi molto più rapidi. Mio fratello ha vissuto 6 giorni, tra dolori atroci. Ad un certo punto è letteralmente morto di dolore.

Ma lui amava la vita e si è aggrappato a quella vita in ogni maniera.

Non ha fatto altro che cercare contatti con l’esterno, cercare aiuto, perché fino all’ultimo momento ha pensato di potercela fare anche quella volta. Io non avrei avuto tutta quella forza, da sola, in quelle condizioni. Io questo vedo di mio fratello: la forza che ha avuto anche in quel momento”.

E non si può non parlare di quel momento e di quei sei giorni. Del significato di tutto questo: per Ilaria, per la famiglia Cucchi e per ognuno di noi. La chiacchierata con Ilaria, infatti, continua nel prossimo numero di Amor Roma Mag. Perché le ingiustizie riguardano ognuno di noi e continuano a riguardarci anche mentre sembra che l’informazione abbia trovato altro a cui pensare.

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/ FOCUS /

IN PRINCIPIO ERA IL MATTATOIO E ADESSO? di MARIA CHIARA MINGIACCHI

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rano gli albori del XX secolo - precisamente dodici anni prima – quando, alla fine dell’ottocento, l’architetto Gioacchino Ersoch, fu incaricato di progettare il nuovo stabilimento per la “mattazione”. Roma era ormai una città in crescita, con un assetto urbanistico nuovo, con nuove norme igieniche da rispettare che imponevano la costruzione di uno stabilimento fuori dal centro. Nasceva così il “mattatoio” nel quartiere Testaccio, la cui attività si interruppe nel 1975. È solo nel ’99, però, che il complesso viene via via ristrutturato per ospitare le attività previste dal piano di recupero: all’inizio i primi padiglioni della Facoltà di Architettura, poi la Città dell’Altra Economia nel Campo Boario, poi i padiglioni del Macro e la Pelanda, recentemente l’Accademia di Belle Arti ed oggi ancora Roma Tre ed i progetti del Comune. Eppure, nonostante molte fasi e lavori di recupero, oggi la realtà dell’ex mattatoio appare quanto mai frammentata, suddivisa fra tredici soggetti diversi, con l’80% della superficie degli spazi aperti recintata o inaccessibile. La Pelanda è spesso inutilizzata e anche i padiglioni del Macro non sono aperti ad orario continuato. Unica realtà viva resta quella della Facoltà di Architettura. Per il resto, si tratta di un’area che, per buona parte, versa in stato di completo abbandono, che non ha conosciuto un recupero totale e che non viene valorizzata con nuovi progetti e investimenti. Niente a che vedere con gli esempi europei del “Matadero” di Madrid o de “La Centquatre” di Parigi: edifici e stabilimenti che hanno subito una completa riconversione e valorizzazione, diventando i principali catalizzatori di arte e cultura delle due città. I due grandi progetti, realizzati in zone decentrate, hanno avuto il merito non solo di rinnovare uno spazio, ma di recuperare l’intero quartiere nel quale sono ubicati. Perfino ad Istanbul esiste una vecchia centrale elettrica - “La Santral” - da qualche anno diventata un campus universitario e un museo di arte contemporanea. A Roma, tutto questo, difficilmente avviene. In Italia, spesso, questo

non accade: esistono poche risorse per “recuperare”, mancano risposte moderne e funzionali ad esigenze e realtà nuove e forse, per alcuni versi, più frammentate e meno decodificabili.

L’ex mattatoio di Testaccio è un’ulteriore dimostrazione a cielo aperto della mancanza di recupero e valorizzazione che investe molte aree e molti pezzi fondamentali dell’archeologia industriale romana, obbligata a subire anni di incuria e abbandono, stretta tra la grandezza dell’esistenza passata e l’indefinita e vaga destinazione finale: uno spazio bello e vuoto che non viene restituito alla città, vissuto al minimo delle proprie potenzialità, per mancanza di risorse (?) o per la miopia delle varie amministrazioni che - tranne alcuni - faticano a pensare in grande e a immaginare Roma come una vera Metropoli? Prima di “Mafia Capitale” Marino aveva visitato l’area promettendo un progetto urbano immenso per l’area Ostiense-Marconi che, con un investimento complessivo da 121,6 milioni di euro, avrebbe interessato anche l’area del mattatoio. Queste erano le premesse e le promesse, questi gli accordi per restituire un volto nuovo a buona parte dell’archeologia industriale romana entro il 2018, ma resta difficile immaginare un grattacielo quando i primi piani sono di cartone e troppe le parole buttate per Roma.

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/ FOCUS /

IL MATADERO DI MADRID

- CENTRO CULTURALE METROPOLITANO E CATALIZZATORE SOCIALE -

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l Matadero sorge nella sede dell’ex mattatoio comunale di Madrid, nel quartiere Arganzuela, uno degli stabilimenti industriali più singolari e interessanti dell’architettura madrilena del XX secolo. Il complesso di edifici - che si sviluppa su una superficie di 165.415 mq - è stato realizzato tra il 1910 e il 1925, e utilizzato anche come magazzino di stoccaggio alimentare. La sua attività venne meno intorno agli anni settanta, quando alcuni edifici obsoleti furono riqualificati e trasformati in spazi destinati ad iniziative socioculturali. Nel 1990 l’area destinata agli animali bovini venne convertita nella sede del Ballet Nazional de Espana e della Compagnia Nazionale di Danza e nel 1996 il mattatoio chiuse definitivamente. Dopo la totale dismissione, le associazioni locali si attivarono e reclamarono l’uso degli spazi per attività socio-culturali, visto che il progetto di riconversione promosso dal comune prevedeva di affidare il recupero degli spazi a un operatore privato mediante la concessione del suolo pubblico per uso privato. Nel 2003 il comune decise di cambiare la strategia di progetto sull’area e di inserire la riqualificazione del Matadero in un programma di recupero del patrimonio storico madrileno, indirizzando la conversione degli spazi in un grande laboratorio di creazione e di produzione di arte contemporanea. Quello che nasceva, così, dal nuovo progetto era un centro culturale metropolitano, un luogo per l’arte e per il tempo libero e contemporaneamente un’opportunità, in termini di proposta culturale, per potenziare l’offerta pubblica.

Non solo centro culturale ma anche catalizzatore sociale e urbanistico: la riconversione del Matadero, infatti, ha coinvolto e contemplato il recupero dell’intero quartiere di Arganzuela e della zona più a sud della città e rappresenta oggi un caso emblematico di riqualificazione urbana attraverso un progetto culturale.

MATADERO MADRID Centro de Creación Contemporánea Plaza de Legazpi, 8 mataderomadrid.org

/ FOCUS /

LE CENTQUATRE DI PARIGI - DA SERVIZIO FUNEBRE MUNICIPALE A SPAZIO PER CREAZIONE E ARTISTI -

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e CentQuatre - inaugurato nel 2008 - è il nome di uno spazio di creazione e produzione artistica ricavato dalla vecchia sede del Servizio Municipale di Pompe Funebri della città di Parigi, un grande edificio industriale del XIX secolo. Il sito, completamente rinnovato, si inserisce in un grande progetto di riorganizzazione urbana, volto a valorizzare una zona di Parigi abbandonata, dominata da un paesaggio di ferrovie in rovina e lotti trascurati. Sono stati necessari più di due anni di lavori per trasformare le antiche pompe funebri municipali in un luogo dedicato alla creazione artistica attuale, battezzato « le ». Le CentQuatre si sviluppa su una superficie di 39.000 metri quadrati ed è suddivisa in: atelier, spazi espositivi e giardino sospeso.

Ubicato al numero 104 di rue d’Aubervilliers è un centro polivalente, reattivo, un luogo di incontro e di scoperta dove un’architettura monumentale si contrappone a spazi interni di una grande modernità e in cui tutte le discipline artistiche trovano il loro posto. Questo progetto di riconversione e di rigenerazione urbana, si presenta come una rilevante opportunità per perseguire obiettivi di crescita economica e sociale, attraverso l’uso di politiche culturali in contesti segnati da profonde marginalità. Le peculiarità del diciannovesimo arrondissement, noto per la presenza di 31 comunità provenienti da diversi parti del mondo, per un elevato tasso di disoccupazione, per la mancanza di zone commerciali, di servizi ricreativi ed educativi per il tempo libero, con uno scarso accesso all’arte e alla cultura e con standard di vita relativamente bassi, assegnano a questo progetto fortemente voluto dalla Municipalità di Parigi, un importante ruolo di mediatore culturale.

Per cercare di sopperire a tali fratture, Le CentQuatre mette a disposizione degli abitanti del quartiere alcune attività commerciali, una “maison des enfants” per i bambini da 0 a 6 anni, offre dei corsi di lingua francese, garantisce il “10% d’inserzione”, assicurando che un lavoratore su dieci sia una persona proveniente da situazioni marginali, ed inaugurerà entro la fine del 2009 un

nuovo spazio di 700 metri quadri, denominato “Startup Park”, destinato ad ospitare nuove realtà imprenditoriali che da meno di tre anni operano nei settori delle cultural industries.

LE CENTQUATRE 5 rue Curial Paris (19e arr) www.104.fr

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/ FOCUS /

CAMPUS E MUSEO D’ARTE CONTEMPORANEA - COSÌ SI TRASFORMA LA VECCHIA CENTRALE ELETTRICA DI ISTANBUL -

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a vecchia centrale elettrica di Silahtarağa riacquista nuovo splendore attraverso l’interessante progetto di recupero di archeologia industriale realizzato dall’Università Bilgi di Istanbul. Fu grazie agli ottimi rapporti politico-economici intrattenuti con l’Impero Austro-Ungarico, che la Compagnia Elettrica Ganz, con sede a Budapest, nei primi del Novecento venne incaricata di realizzare la prima, imponente centrale elettrica dell’Impero, alimentata a carbone: obiettivo prioritario al momento dell’inizio dei lavori era l’elettrificazione della capitale. Posta su di una superficie complessiva di 118.000 metri quadri, comprendenti i locali dei boiler e dei motori, gli edifici amministrativi, gli alloggi del personale e ampi magazzini per lo stivaggio del combustibile fossile, la struttura venne ultimata alla fine del 1913. Alla vigilia della “Grande Guerra”, il giorno 11 febbraio 1914, la nuova centrale di Silahtarağa iniziò l’erogazione di corrente elettrica alla rete tramviaria della capitale, giungendo a servire in pochi giorni i palazzi imperiali e alcuni sobborghi attigui. La centrale rimase in attività per quasi settant’anni fino al 1983 quando, considerata antiquata e particolarmente inquinante a causa della sua alimentazione a carbone, cessò la produzione di energia elettrica. Dopo l’esaurimento del suo ruolo produttivo, il destino della centrale istanbuliota fu molto simile a quello di impianti omologhi ubicati in tutte le parti del globo: ormai in disuso, il progressivo deterioramento dell’impianto lo inserì, di fatto, nel novero delle strutture che andavano a comporre il tessuto dell’archeologia industriale della città. Questo simbolo della modernizzazione post-imperiale del Paese rimase dimenticato per anni, finché nel 2004 il ministero dell’Energia assegnò all’Università Bilgi d’Istanbul

una concessione ventennale per il recupero dell’intera area e la riassegnazione della stessa ad attività accademiche e culturali. Il 17 luglio 2007 venne inaugurata la nuova “Santral Istanbul”, opera di un ambizioso progetto dell’Ateneo che contemplava la sostanziale integrazione di un nuovo campus dell’università stessa con due strutture museali.

SANTRALISTANBUL Eski Silahtarağa Elektrik Santralı Kazım Karabekir Cad. No: 2 Eyüp 34060 İstanbul Turkey santralistanbul.org info@santralistanbul.org

/ W H O - W H AT - W H E N - W H E R E /

Ultimamente il Trullo sta facendo parlare di sè grazie ai suoi Pittori Anonimi che -di notte e a loro spese- si mettono all’opera per colorare il quartiere. Non più solo un quartiere di poeti -quindi- ma soprattutto non più una periferia malfamata da evitare: i tempi della Banda della Magliana sono finiti. Un giro tra i cortili delle case popolari del Trullo è oggi una passeggiata tra mille colori, grazie ad un progetto di rivitalizzazione nato dagli stessi abitanti del quartiere che -pennello alla mano- si sono organizzati per dare un nuovo senso ai loro spazi in comune. I versi dei Poeti del Trullo sono arrivati sui muri, le scalinate si sono trasformate in arcobaleni, le aiuole hanno ripreso vita e le piazze e le facciate dei palazzi hanno cambiato volto attraverso un’esplosione di colori. All’iniziativa ha preso parte anche lo street artist Solo con il murales “Nina”, situato all’angolo tra via Massa Marittima e via Sarzana.

Giulia Blocal

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/ CINEMA /

MOMMY:

LA MAMMA E’ SEMPRE LA MAMMA, ANCHE PER XAVIER DOLAN di MARCO BORROMEI

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a venticinque anni, è canadese, e ha all’attivo ben cinque film (con un sesto in preproduzione) che ha realizzato come regista, sceneggiatore, attore, montatore, costumista e sottotitolista (il québécois non è una lingua così semplice). Xavier Dolan è amato e odiato da altrettanti giovani cineasti che vorrebbero essere come lui. Un’estetica impeccabile, storie lucidamente folli e un gran premio della giuria al Festival di Cannes 2014, proprio grazie alla sua ultima fatica: Mommy. Dolan si è pian piano affacciato sul panorama cinematografico sin dalla tenera età: comincia come attore bambino ed è, ancora attualmente, uno dei più importanti doppiatori canadesi. I primi film sono pressoché autoprodotti, indipendenti, e hanno circolato per lo più presso circuiti festivalieri. Il settantesimo Festival di Venezia ha ospitato la premiere mondiale del suo penultimo lavoro, Tom à la ferme. Mommy è la prima pellicola ad avere una vera distribuzione italiana presso le nostre sale. E per fortuna, oserei aggiungere. Il regista ha sempre avuto delle tematiche ricorrenti nelle sue storie, e una di queste è proprio il rapporto di amore conflittuale con il concetto di maternità. Le madri nei film di Dolan sono sempre delle figure chiavi. E per questa storia non poteva non tornare la sua attrice feticcio, Anne Dorval, nei panni di Diane, la protagonista, una madre pazzerella, non brillante e con un dubbio gusto in fatto di vestiario, a modo suo cinica, ma con un cuore grandissimo. Steve, suo figlio (interpretato da Antoine Olivier Pilon) è un ragazzo problematico, con violenti cambi d’umore e scatti di rabbia, cominciati dopo la morte del padre.

La situazione familiare non è delle migliori, anche dal punto di vista economico: Diane deve sbarca-

re il lunario, e Steve sogna di andare alla Julliard, ma non ha neanche un diploma. Irrompe nelle loro vite la vicina di casa, Kyla (Suzanne Clément), una donna gracile e balbuziente, che – poco a poco – stabilizza (o almeno, tenta di farlo) le esistenze di Diane e Steve e, così facendo, anche la sua. Il menage familiare che si viene a creare vede così la figura della madre sdoppiata nelle due donne. Kyla si trova a considerare i suoi vicini di casa la sua vera famiglia, piuttosto che quella apparentemente normale e borghese di casa propria. Steve però non riesce ad abbassare la testa e, in una visione più ampia, a staccarsi da sua madre. Il problema è che neanche Diane ci riesce, se non per un piccolissimo momento, che però porterà alla distruzione della vita normale che pian piano stavano creando, anche grazie a Kyla. Edipo la fa da padrone in questa storia d’amore materno e filiale piuttosto travagliata. Il tutto accompagnato da una colonna sonora composta da pezzi vecchi di decenni e più, e abbastanza commerciali, che vanno da Dido a Céline Dion, passando per Lana Del Rey. All’interno della narrazione dolaniana però acquistano una nuova aura di rispetto, portandoli alla stregua di musica di nicchia. L’immagine inizialmente è quasi claustrofobica, Dolan usa un formato di ripresa quadrato, come se fosse alle prese con una cornice di Instagram. Poi però va ad “allargarsi” e diventare un’immagine normale in momenti ben precisi del film, quando tutto respira un po’ di più. Mommy è la scelta canadese per la candidatura agli Oscar per miglior film straniero. Se supera la selezione per la cinquina finale, è pressoché scontato chi si aggiudicherà il premio che l’ultima volta è stato assegnato a La Grande Bellezza.

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/ SERIE TV /

MOLTE COSE POSSONO CAPITARE NEL BEL MEZZO DEL NULLA:

FARGO, LA SERIE di MARCO BORROMEI

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el 1996 fa la sua apparizione al Festival di Cannes Fargo, un film dei fratelli Coen. Conquista in men che non si dica un premio della giuria, e – successivamente – due premi Oscar, uno per la sceneggiatura e uno per la miglior attrice protagonista. Cos’ha di tanto originale questa storia? Si parla di truffe, omicidi e indagini. Niente di nuovo, a prima vista. Lo scarto in più gli viene dato dal tono e dallo stile, classico dei Coen. Uno humour nero, una black comedy che si fa grottesca e surreale. E la formula che l’ha reso vincente allora, rende vincente anche la serie tv che nasce sulle basi del film, e da cui riprende anche il nome. Fargo va in onda negli Stati Uniti sull’emittente FX. I fratelli Coen figurano come produttori esecutivi, mentre la scrittura è affidata a Noah Hawley, che dichiara, alla presentazione della prima stagione, che quella a cui il pubblico sta per assistere, non è una serie televisiva, ma un film da dieci ore. Quella che viene raccontata nella serie non è una storia collegata direttamente al film. Vengono ripresi ovviamente i luoghi (la cittadina è la stessa), la neve del Minnesota e una caparbia poliziotta, Molly Solverson (Allison Tolman) che, idealmente, segue le orme di Marge (interpretata da Frances McDormand nel film). In scena viene messo un meraviglioso criminale filosofeggiante, Lorne Malvo (interpretato da Billy Bob Thornton) insieme a Lester Nygaard (Martin Freeman), un timido e passivo-aggressivo agente assicurativo che si trova invischiato in

eventi più grandi lui e che sarà costretto a seguire le malefatte di Lorne. Non mancano ovviamente riferimenti e strizzatine d’occhio disseminate qua e là: pubblicità di cocktail White Russian, già visto ne Il Grande Lebowski, così come la famosa cippatrice in cui, nel film originale, si cerca di distruggere il cadavere del personaggio di Steve Buscemi. Sempre durante il corso della serie, viene addirittura ritrovata la valigetta sepolta proprio da Buscemi. E le critiche internazionali hanno apprezzato questa non rinnegazione del prodotto madre (soprattutto per quanto riguarda toni e stile) e, al contempo, questa autoaffermazione come narrazione in grado di sopravvivere a se stessa, senza alcun bisogno necessario di far riferimento al film da cui nasce.

Fargo è chiaramente uno show antologico, un trend che sta andando per la maggiore nelle serie crime o comunque che hanno a che fare con un mistero.

Una volta risolto, si esaurisce anche la forza della serie. Per questo la seconda stagione conserverà l’ambientazione della cittadina del Minnesota, ma cambierà personaggi, indagine e anche tempo: i protagonisti saranno i genitori di Molly, e l’intera stagione sarà ambientata alla fine degli anni Settanta. Altre dieci puntate che andranno in onda nell’autunno 2015 e che possono contare nel cast due nuovi acquisti: Kirsten Dunst e Jesse Plemons.

La prima trasmissione italiana della prima stagione invece si data 16 dicembre 2014, sulla rete televisiva Sky Atlantic.

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/ MODA: I CONSIGLI DELL A FA SHION BLOGGER /

PAZZA PER LE FELPE di FEDERICA BASSO

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1. UNA FELPA/CAPPOTTO

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In questo look indosso una maxi felpa.

Calda, avvolgente e dotata di una zip che le da l’aspetto di un semi cappotto. Colore total black con qualche dettaglio white, combinazione sempre perfetta.

2. UNA FELPA COLORATA In questa stagione sto riscoprendo il colore rosso. Non mi è mai piaciuto particolarmente ma devo ammettere che nell’ultimo periodo sta attirando sempre più la mia attenzione. Ecco perché l’ho scelto come colore per uno dei capi che più utilizzo.

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“Giallo senape-marrone cioccolato” adoro abbinare le tonalità’ dei colori ai nomi dei cibi: food vs fashion. In questo outfit indosso un pantalone ampio molto morbido con un maglione oversize e delle sneakers. Altro trend del momento e’ il vestirsi over, un po’ come se avessi rubato i vestiti al tuo lui e abbinare il tutto alle sneakers tornate di tendenza violentemente.

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3. UNA FELPA/VESTITO Anche in questo caso la felpa è maxi. Posso abbinarla a dei leggins per uscire o a dei semplici e caldi calzini per rimanere in casa. Felpa con cappuccio trasformata in comodo vestito, adatto a chi è alla ricerca della comodità assoluta.

ITALIAN BLOGGER, LIFESTYLE BLOGGER Amante da sempre della moda, ad un certo punto della vita ho scoperto quanto mi piaccia stare davanti l’obbiettivo di una macchina fotografica, a patto che dietro ci sia il mio fidanzato. Amo fare shopping, in particolare online, sono sempre alla ricerca di brand emergenti. Amo il sole, il mare, il caldo e la spiaggia, farei firma per il 30° tutto l’anno, d’inverno mi sembra di andare in letargo. Riservata ed introversa ho aperto il mio blog per condividere con voi questa mia passione e un domani chissà, realizzare un mio sogno nel cassetto... www.federicabasso.com

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/ BRAINSTORMING CON... /

ALESSANDRO FERRARO di VALERIA BIOTTI “Faccio l’illustratore perché amo leggere” – L’arte? Un atto di ribellione, una scommessa. È un atto doloroso e violento quello di tagliare - e rinchiudere in un numero ingeneroso e limitato di battute - gli orizzonti sfiorati in una chiacchierata sorprendente, rubata in extremis a giornale già chiuso, una domenica mattina. Incontro Alessandro Ferraro nel suo studio, nella via secondaria di un quartiere poco centrale di Roma, al di qua di una parete viva e rumorosa. Le espressioni che usa, precise, progressive, senza sbavature, ci avvicinano con accortezza a ciò che vuole dire. Mi risponde con attenzione, come se assaporasse il peso di ogni parola, chiusa nel palmo della mano, prima di poggiarla sul tavolo di legno e mostrarmela. Senza saperlo, riprende da dove eravamo rimasti un paio di numeri fa: dal Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz.

ll MAAM è stata un’esperienza bella ed importante.

Nel sopralluogo insieme a Giorgio de Finis, il curatore (si veda la sua intervista su “Amor Roma Mag” di ottobre), mi sono ritrovato di fronte ad una situazione assurda: un’ex fabbrica abbandonata, con gente che viveva in mezzo ai vecchi macchinari, e sono rimasto colpito dall’istallazione di questi architetti: quattro alberi all’interno di una corte esterna. Ho realizzato quattro pareti con l’idea di rappresentare degli Uccelli poeti, ognuno a cantare un verso in una lingua diversa. Ho pensato soprattutto ai bambini; che lì vivono, giocano, vanno a scuola e un giorno impareranno a leggere, molto probabilmente diverse lingue.

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Quindi è stato il luogo a fare affiorare quella particolare soluzione Gli interventi site specific sono interessanti perché ci si confronta con tutto l’ambiente. Quindi, più che una parete, cercavo una situazione che mi ispirasse. Quan-

do ho visto questa stanza, mi è venuto in mente Sigfrido, la storia di quando beve il sangue del drago ed impara a conoscere il linguaggio degli uccelli. E nella carcassa di questo drago gigantesco, silente - questa grande fabbrica – che ospita al suo interno persone che l’hanno trasformata in una casa, è stato come se avessi assaporato il sangue del drago. In questo misto di umanità, resti di un luogo dove macellavano i maiali e insieme, però, alla presenza dei bambini e della speranza che portano, ho pensato di lasciare un messaggio gentile. Queste pareti erano state già interessate da interventi di writers e io avrei dovuto coprirli del tutto. Invece ho disegnato questi uccelli lasciando che mantenessero il colore di ciò che stava sotto, prima di me, rispettando la memoria del luogo, e ho ridipinto tutto il resto di un rosa antico molto particolare, forte ma insieme gentile.

Questi uccelli poeti sono degli uccelli guerrieri; il luogo è occupato e c’è un’idea di guerriglia che coinvolge

diversi strati sociali. La mia idea è di lasciare che sia la bellezza l’unica arma possibile.

L’istallazione ha trovato spazio anche sul sito del MoMA Si, ma la risposta più forte l’ho avuta proprio da chi ci abita. Non è stata una risposta critica in termini colti, è stata una risposta affettiva: le persone venivano lì, scrivevano il loro nome, mi chiedevano di scrivere in arabo il nome dei loro figli. E questi uccelli cantavano il nome di una bambina oppure un verso di un poeta.

Cosa ti ha portato a fare l’illustratore?

Faccio l’illustratore perché amo leggere. E sono profondamente legato al rapporto tra scrittura ed immagini. Gli artisti sono liberi dalle esigenze di comunicare o da coerenze formali, mentre un illustratore deve mantenere un rapporto con il testo molto stretto.

Deve saper leggere quello che legge e concepire una rappresentazione che accompagni la lettura, che non la ostacoli ma la interpreti.

E riguardo al lavoro, invece, che esula dal contesto illustrativo?

Il disegno, la pittura, tutto ciò che è legato alla creatività non è riconducibile ad una finalità connessa necessariamente alla comunicazione di qualcosa. Un quadro, un’opera nasce per un’esigenza profonda, interiore, di far emergere un’immagine che si muove dentro. L’artista la riporta alla luce attraverso l’esperienza, il saper fare, la tecnica, l’uso dei materiali. Che non è né più né meno di quello che facciamo tutti i giorni quando vogliamo esprimere quello che pensiamo: lo facciamo con la voce, con gli sguardi, con i movimenti delle mani, del corpo.

Ma l’artista compie un passo in più L’artista sublima, va oltre la quotidianità; anche se ne

parla, la supera. Cerca di rappresentare qualcosa che spinge un po’ più avanti l’orizzonte del normale andamento degli eventi.

E’ un atto di sintesi, quindi, o è un atto che porta altrove?

Dovrebbe essere un atto di sfida. Un atto di rottura di quel qualcosa che si ripete, per necessità a volte, e che ci impedisce, poi, di vivere appieno il momento della nostra vita. L’artista dice “guarda questo momento è diventato un quadro, un’istallazione, un’esperienza” ovvero: “è possibile che nella tua vita tu produca cose indimenticabili senza saperlo. Invece lo devi sapere.

Quando parli con un bambino, lo devi sapere. Quando parli con una donna, lo devi sapere. Quando parli con un uomo, quando accadono delle cose nella tua vita, la tua presenza, il tuo movimento genera pensieri, emozioni, immagini. Quindi, sappi che tutto ciò che fai, nel momento in cui non è più speciale, nega completamente un pezzo importante della tua vita che è la creatività”.

E’ un atto di ribellione, quindi.

Certo. L’atto di ribellione dell’artista non è quello di dare fuoco alle cose, la sua non è una ribellione violenta; è opporsi al lasciare che le cose sembrino essere effettivamente molto meno di quello che in realtà sono e che, tutto sommato, convenga accontentarsi.

L’artista non ci sta perché dentro ha qualcosa che viene costantemente sollecitato - dalla ruota di una bicicletta, dal movimento di una mano, da una voce lontana - l’artista percepisce tutto questo e lo riconosce come speciale. Quindi si chiede “come faccio io a rendergli giustizia, a rappresentarlo?”. E poi c’è la vita privata. Cioè l’idea che l’artista metta in gioco la sua capacità interpretativa della realtà, dei rapporti, degli affetti e quindi esponga senza paura ciò che sente attraverso ciò che rappresenta.

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L’atto creativo è un atto individuale solo nel momento in cui si genera o rimane tale anche nel momento in cui gli altri ne fanno esperienza?

E’ sempre un atto individuale. L’artista non lavora per gli altri. Ma può lavorare con gli altri. Io non ho fatto il lavoro al MAAM per gli altri, l’ho fatto per me. Ma ho fatto una cosa, considerando il fatto che avrebbe vissuto insieme agli altri. Quindi non è un atto di generosità, è qualcosa ancora più importante.

E’ un atto di condivisione?

La condivisione, certo, c’è sempre. L’artista può stare chiuso nel suo studio, lavorare, avere la sua vita, le sue cose e produrre delle opere ma a me interessa di più l’artista che, oltre a saper fare questo, va a cercare situazioni d’incontro con altri; perché è proprio grazie quell’incontro che si genera quell’emozione, quella creatività, quell’invenzione.

Quanto è importante il fatto che ci sia una rispondenza tra ciò che l’artista ha espresso e ciò che viene percepito? La famosa “domanda sull’essere capiti” Non è importante, no. Perché l’artista non è che spieghi sempre quello che fa. Io so quello che sto facendo, perché lo sento, ne percepisco la direzione, l’andamento. Ho un’intenzione, un intento. Però l’effetto che farà sugli altri è una scommessa. Più l’artista è stato in grado di cogliere delle esigenze universali, più quest’opera rappresenterà un qualcosa di comune a molte persone.

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Nel momento in cui affiora questa intenzione, c’è un unico modo per esprimerla oppure operi una scelta di materiali e “codici” Questa è una questione di linguaggio. Innanzi tutto, questa storia dell’intenzione è legata a un fatto personale. Quello che conta è che ci sia un’immagine interna: qualcosa che si muove e spinge per uscire. Non

è un fatto di volontà, è un fatto che è parte del mio essere, della mia vita. Poi, nel mio caso, si manifesta attraverso il linguaggio pittorico. E’ come se scrivessi in una lingua che non conosco ma che solo qualcosa dentro di me conosce. Mentre lo faccio, è come se stessi cantando un verso in una lingua che so solo scrivere. E questa scrittura diventa un’immagine.

Cosa ha a che fare tutto questo con quello che chiamiamo “lavoro”, lavoro anche su commissione, per esempio.

Il mio lavoro è questo. E tutto questo è in stretto contatto con le dinamiche della realtà. Posso lavorare per un libro, per un giornale; l’illustrazione, strettamente connessa alla scrittura, ha tantissimi campi.

La committenza è uno degli aspetti fondamentali del nostro lavoro. E non è altro che “qualcuno che viene a raccontarti una storia”. E ti chiede di rappresentarla attraverso ciò che sai fare. Nell’incontro, si confrontano due idee di come quella stessa storia possa essere rappresentata, ma la sfida è proprio quella. Potresti avere delle idee che vanno oltre le aspettative del committente o che non hanno quella coerenza comunicativa che l’altro ti chiede. Io ascolto con molta attenzione ma poi quello che si forma dentro di me è un’immagine che è la risultante di quell’incontro. E’ una scommessa molto affascinante perché riguarda il rapporto con l’altro.

Come reagisce il committente quando si trova di fronte ad un’immagine che non si aspettava?

Nella migliore delle ipotesi, si spaventa. L’altro si aspetta qualcosa di cui è già cosciente ma quello che tu gli devi proporre è qualcosa del tutto inconscio.

Come se cogliessi qualcosa che sta dentro l’altro ma che l’altro non sa di avere. La scommessa è beccare quell’immagine. E proporgliela. Se tu l’hai saputa cogliere e rappresentare, l’altro rimane molto colpito.

Non è una risposta. E’ come una vela in più.

La dimensione dell’incontro è sostanziale, per te Non vedo niente di più interessante, nella vita. Poi ci sono momenti di elaborazione e di solitudine necessari; però non c’è niente di più importante del rapporto umano. Il resto, tutto il resto, è freddo. E’ emanazione, invenzione, rappresentazione, opera d’arte o d’ingegno, scoperta scientifica. Ma la qualità del rapporto umano, è quello che determina l’organizzazione del pianeta.

In questo momento stai facendo qualcosa che ti piace particolarmente?

Una serie d’immagini su La Tempesta di Shakespeare. E’ una cosa a lungo termine, un progetto che non si sa dove porterà. Sono molto legato alla Tempesta perché dentro c’è molto del mio immaginario e di ciò che amo. C’è una magia, ci sono delle invenzioni geniali e dei personaggi che mi sono molto cari. E non solo: parla anche di una situazione di crisi che poi ha un’evoluzione, una cosa fondamentale. Anche l’artista rappresenta un sentire critico della crisi che può vivere e da cui

normalmente ci proteggiamo con la quotidianità.

“Quotidianità” in quale accezione, sembra un termine dispregiativo.

Nel senso di quel circondarci di cose che conosciamo e che ci accompagnano ripetendosi come una giostra che ci gira intorno. E’ difficilissimo penetrare questa giostra perché ci protegge e abbiamo la pretesa che parli di noi. In realtà parla del lato peggiore di noi: ciò che abbiamo coscienza di essere o vogliamo essere, apparire. Ma è quando qualcuno riesce a rompere questo schema che ci riveliamo veramente. Il che è raro che avvenga violentemente. E’ sempre qualcuno che ci sale, su quella giostra, a creare uno squilibrio tale per cui si avverte il bisogno di cambiare vita e modo di pensare. Chi sale per distruggere non cambia niente, perché allora attiviamo un meccanismo di protezione che si autoalimenta. E’ quando non veniamo aggrediti, invece, che perde il suo senso e il suo movimento ciclico ripetitivo. E’ molto difficile avere il coraggio di fare questa cosa. Chi ci riesce, può dire di conoscere la felicità.

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/ GIRADISCHI /

L’ANNO CHE STA ARRIVANDO (TRA UN ANNO PASSERÀ) di GIOVANNI ACQUARULO giradischi78@gmail.com Ogni mese una parola chiave, un percorso in forma di playlist, poggiando un disco dopo l’altro sul piatto delle nostre ondivaghe associazioni sentimentali. Giradischi sarà un juke-box a tema, le cuffiette con cui sfogliare queste pagine. Una rubrica fatta di canzoni, per tenere in forma quel potentissimo muscolo emotivo situato all’incirca all’altezza dello sterno, che per comodità chiamiamo cuore.

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U2, NEW YEAR’S DAY (1983)

DEATH CAB FOR CUTIE, THE NEW YEAR (2003)

La Storia ovviamente non è mai finita, nonostante la facile profezia di Francis Fukuyama pronunciata alla fine degli anni ‘80, e così il mondo unipolare ha proseguito placidamente a generare apocalissi private e collettive, passioni e rabbie sociopolitiche capaci di far tremare l’orizzonte. Qui però siamo con i piedi ben piantati nella prima parte dell’ultimo decennio col muro di Berlino, con i buoni da una parte, i cattivi dall’altra e il rock a cavalcioni della barricata a cantarci con chi stare. Gli U2 sono al terzo disco, quello che gli consente di bucare la cortina dell’anonimato e accedere a primi successi su scala globale, finendo tra i primi dieci di Billboard. Ma sarà proprio il propellente ideologico della guerra fredda, e più in generale i tanti conflitti cristallizzati sul mappamondo del secolo breve, a definire in questa fase l’identità della band irlandese. Questo è infatti il disco di Sunday bloody Sunday, per intenderci, e la stessa New year’s day, inizialmente scritta per la moglie di Bono, venne successivamente dedicata al movimento polacco di Solidarność. L’incipit musicale si attesta comodamente nella categoria Grandi Classici: l’urlo munchiano di Bono ha un che di archetipico, da karaoke senza tempo, così come le 4 note di tastiera suonate da The Edge, mentre Adam e Larry mettono in posta una macchina ritmica tanto minimale quanto formidabile. E dire che il tutto nacque da una jam piuttosto casuale, poco più di un cazzeggio intorno alla linea di basso di Fade to grey dei Visage, allora band new romantic sulla cresta dell’onda. «Tutto è tranquillo il primo giorno dell’anno», esordisce Bono. Ma è solo un inganno: «Sotto un cielo rosso sangue una folla si è radunata in bianco e nero». Lo sentite quel rumore di fondo, lì, tra i portuali di Danzica? È il motore della storia, instancabile. Anche il primo gennaio se ne sta lì, a carburare e a preparare il futuro.

«Così questo è il nuovo anno, e io non mi sento per niente diverso»: diciamocela subito la verità, al primo verso della prima canzone del disco, andiamo al punto senza giri di parole. Perché di questo si parla, quando parliamo di Capodanno. Hai voglia a gettare lavatrici per strada, lanciarti in trenini sudaticci come il più cinico dei Jep Gambardella, o accendere intrepido raudi come facevi quando avevi le braghe corte. Qualunque esorcismo non regge, se il cuore ti frigge per un amore precario e zoppicante, amplificato magari dall’assenza e dalla distanza. Anzi, il down del giorno dopo, se quel giorno è un maledetto e ferocissimo primo gennaio, può risultare davvero il colpo definitivo, proprio lì, al centro esatto del torace. Pietra miliare della musica indie statunitense,Transatlanticism già dal neologismo scelto per il titolo rivela l’ambizione di mettere in musica una tipologia precisa di dolore amoroso: quello che prende corpo nella lontananza geografica, nella separazione che piazza nel mezzo, fra te e il tuo amato, un oceano di acqua salata e cattivi pensieri. “Transatlanticità”, appunto: cioè la missione impossibile di solcare quella distesa in un soffio e riunire sulla terraferma ciò che quel mare ha separato. L’impresa è improba e al nostro – in un tripudio di chitarre riverberanti e stacchi chirurgici di batteria – la cosa non sembra sfuggire: «Mi piacerebbe che il mondo fosse piatto come nei tempi antichi, così potrei viaggiare semplicemente ripiegando la mappa. Basta aerei, treni superveloci, superstrade: non ci sarebbe nessuna distanza a trattenerci». La voce di Ben Gibbard, come un novello Carver, è quella di tutti quelli che verosimilmente vorrebbero svegliarsi direttamente il 7 gennaio, in un punto preciso dall’altra parte del mondo, occhi negli occhi di qualcun altro.

PEARL JAM, LIGHT YEARS (2000) Se è vero che il Capodanno porta con sé una dote ineliminabile d’uggia e di malinconia, la ragione profonda va rinvenuta nel concetto stesso della ricorrenza, per quel tanto di ciclico e riepilogativo che si trascina già nel nome: siamo insomma al tema delle grandi ricapitolazioni che, inevitabilmente, si affacciano nel momento in cui si cestina il vecchio calendario e si appende il nuovo alla parete. Lungo sospirone, e poi, micidiali e vendicativi, arrivano i consuntivi, i bilanci, i conti che non tornano mai. Sulla prima linea del fronte, ahinoi, si contano i caduti e le perdite, si accarezzano i nomi di chi si è avviato altrove, anzitempo, senza la cura del distacco. Con quella voce perfetta che apparterebbe all’uomo vitruviano di Leonardo, se solo potesse parlare, una di quelle da consegnare in vitro alla posterità, Eddie Vedder dedicò la sua Light Years a un’amica della band che lavorava in Sony, scomparsa tre anni prima. Lo fece durante il Pinkpop festival del 2000, in Olanda, quando i Pearl Jam erano probabilmente al culmine esatto della loro freschezza artistica, a pochi giorni dalla tragedia di Roskilde in cui morirono 9 fan, schiacciati e soffocati nella calca che si avvicinava al palco. Dall’alto di quella vetta si vedeva forse più lontano, e in quell’occasione il frontman del gruppo di Seattle pronunciò parole in qualche modo profetiche: «C’era una persona che conoscevamo, Diane, e non abbiamo mai avuto l’occasione per dirle addio. Questo è un saluto. E se hai buoni amici, amali mentre sono qui». Ma è un po’ tutta questa ballata elettrica a giocare col significato degli astri, con la luce amorevole di chi prende a splendere più forte una volta andato via: «Non eravamo che pietre, la tua luce ci ha reso stelle».

Buoni propositi per l’anno nuovo: fidarsi di quello che dicono le rockstar e tenersi care le nostre pietre, quelle che a nostra insaputa brillano di più.

WALKMEN, IN THE NEW YEAR (2008)

Poi ci sono gli ottimisti. Quelli inguaribili, incrollabili, monolitici. Quelli per cui il futuro è cosa lieve e desiderabile, come una caramella da scartare. Nella cerchia dei più speranzosi ci finisce a buon diritto anche Hamilton Leithauser, voce dei newyorchesi Walkmen, che sul nodo esistenziale del nuovo anno sfoggia un’ammirabile positività: «Sono sicuro che andrà così, questo sarà un anno buono». Così, secco, senza infingimenti. E poi, mezza strofa più in là, la sicumera del nostro rasenta la sfacciataggine: «Abbiamo vinto in modo schiacciante, i nostri guai sono alle spalle». Una roba che neanche il più luminoso dei Bob Marley ai massimi storici del fervore rastafari.

In realtà pare che il riferimento fosse alle presidenziali americane in calendario nell’autunno di quell’anno, le prime vinte da Barack Obama, e ci voleva davvero fegato per una scommessa simile, al buio, a tre mesi dal voto (il disco uscì nell’estate del 2008). Una cosa simile, ad onor del vero, la azzardarono anche i National (non a caso provenienti dallo stesso milieu indie-progressista), dedicando la loro vecchia Mr. November al candidato afroamericano. Ma questo in fondo è rock senza rughe sulla faccia, un animale a sangue caldo che macina eredità ingombranti con la felice inconsapevolezza della meglio

gioventù. Al diavolo dunque esorcismi e scaramanzie: qui l’anno nuovo lo si fronteggia con una Rickenbacker a tracolla e la camicia aperta ai fucilieri in attesa di far fuoco. Musicalmente, invece, In the new year è un purissimo mid-tempo d’alternativa, di quelli col torcicollo per quanto guardano all’indietro: organo vintage, chitarre anni ’60 solo appena più distorte, una batteria sempre sul punto di andare fuori tempo. Una specie di Bob Dylan in versione post-punk, per giunta con una voce che Mr. Zimmerman se la sognava la notte anche da ragazzo.

I pubblicitari di oggi lo chiamano post-heritage: citazionismo creativo, ripescaggio consapevole di riferimenti classici rivisitati in chiave contemporanea. Siamo nani sulle spalli di giganti, insomma, ma da lassù, storditi dall’aria fine che si respira ad alta quota, viene più facile lasciarsi il passato alle spalle. E il 2015, perfino questo 2015 che pare l’ennesimo sottopassaggio scuro e sdrucciolevole, potrebbe infine rivelarci cosa ci attende al di là del buio.

LUCIO DALLA, L’ANNO CHE VERRÀ (1979)

Per alcuni ingialliti canzonieri da parrocchia, lei è semplicemente Caro amico ti scrivo, pronunciato tutto attaccato. Succede, con i miti. Succede se l’attacco è talmente memorabile da aver infiltrato in profondità le falde dell’immaginario nazionale. E poco importa se quel testo, così storicizzato nell’almanacco della musica leggera italiana da aver quasi perso senso e significazione, contenesse – perfettamente in bilico – una miscela irripetibile di leggerezza e visionarietà, profezia e stravaganza. Con L’anno che verrà l’Italia di Dalla si lascia alle spalle il peggio degli anni ‘70 senza essere ancora finita nel peggio dei successivi. All’epoca della stesura, infatti, tutto era ostinatamente in piedi: la cortina di ferro, la scala mobile, i servizi deviati, i grandi partiti surrogato del cosmo. Il mondo era tolemaico, in bianco e nero, senza le vite liquide di oggi ad abitarlo più o meno precariamente. Attraverso la formula della lettera all’amico (e qui le interpretazioni divergono, c’è chi dice che fosse il suo compagno, e chi perfino che fosse uno dei tanti gesù cristi che costellano le sue canzoni), il cantautore bolognese compie allora un gesto che segna un prima e un dopo: da un lato archivia un decennio finito nelle mani di folli savanorola con la pistola (i versi «Si esce poco la sera compreso quando è festa e c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra» alludono alla paura della violenza terrorista), dall’altro evoca il futuro come vorremmo che fosse. Ed eccola, quindi, l’utopia che aiuta a camminare, come direbbe Galeano: il Natale che viene tre volte l’anno, il matrimonio dei preti («ma soltanto a una certa età»: rivoluzione sì, ma con juicio), cibo e luce in abbondanza, i muti che ritrovano la voce, l’amore da fare ognuno come gli va. Insomma, un mondo liberato dal pregiudizio e dalla grettezza morale, un sogno che bisognava sognare prima che diventasse solo riflusso e cinismo.

Guardatevela nell’abito meraviglioso confezionato da Dalla e De Gregori in Banana Republic, il tour di quell’anno, una cosa che sarebbe meraviglioso rivivere con la macchina del tempo.

E preparatevi alle cose belle, ché prepararsi, come insegna Lucio, è l’unica novità.

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/ IL LOCALE DEL MESE /

IL PANE E LE ROSE di VALERIA BIOTTI

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el cuore del quartiere Prati, dietro piazza Cavour, c’è il locale che non ti aspetti. Più propriamente ‘nella pancia’ del quartiere Prati, a via Ennio Quirino Visconti, alle spalle del Cinema Adriano, fa capolino “Il Pane e Le Rose”: un luogo sorprendente, che conquista già da un passo oltre la soglia e diventa subito casa. Una porticina piccola, solo qualche gradino ed ecco aprirsi quasi d’improvviso un ambiente accogliente, che si offre come un’autentica meraviglia. Soffitti a volta, di mattoni. Luce calda, d’atmosfera. Foto in bianco e nero, alle pareti. Sono i lineamenti indimenticabili dei volti delle leggende della musica a completare con stile e leggerezza la cura attenta ad ogni dettaglio che si respira all’interno locale, con un risultato intimo ma insieme rilassante ed informale. La stessa dedizione, lo stesso amore per le piccole cose lo si avverte scorrendo il menù. Ricco, articolato, completo e in continuo movimento, a declinare con brillante immaginazione i mille aspetti del piacere di assaggiare, assaporare, gustare; in cucina come nel bere. Dietro al bancone si muove Silvia. Leggera, veloce, ad occhi chiusi compone cocktail “fatti a mestiere”, come dice lei, di propria invenzione. “E’ l’aspetto più creativo del bere, in fondo - racconta perché ad aprire una bottiglia ci vuole molto meno”.

Combina gli ingredienti ad arte e a tema, come nel “Valentina” – lo short in coppa nato il 14 febbraio – ‘vodka, peperoncino e frutto della passione’, profumato e piccante - e propone mille varianti del Mojito, le cui versioni alternative sono richiestissime non solo d’estate ma anche nei mesi più freddi. Il gioiello del Pane e Le Rose si nasconde senz’altro in cucina.

Menù alla carta (una certezza!) e, in più, un secondo del giorno, se non addirittura due. Spesso a base di

carne, a volte con lavorazioni lunghe - 12 ore di cottura, marinatura di 24 - come, ad esempio, nella punta di petto alla Texana (24 di marinatura, 6/7 di cottura) o nel filetto alla Wellington, particolare interpretazione di quello classico. Da non sottovalutare i primi, creati, rivisitati da ricette italiane e romane classiche, e una lunga lista di strepitosi hamburger. “Il pane lo facciamo noi in casa, da quest’anno - precisa Guido, davanti ai fornelli - perché non eravamo soddisfatti di quello che trovavamo in giro: è un gran successo, la qualità è all’altezza”. I dolci, gustosissimi, nascono dalle sapienti mani di Mamma Sandra. Mamma un po’ di tutti gli avventori, che presto, molto presto, smettono di aggiungere “Sandra” e si limitano a chiamarla con un più consono, secco “Mamma”. Orgogliosa dei suoi due ‘figli naturali’ - Silvia e Guido - spiega lo spirito del luogo: “il nostro menù è in continua evoluzione e non è rilegato perché siamo gente irrequieta, qui”. A completare il tutto, un’offerta di musica dal vivo – il venerdì e il sabato – davvero di qualità. Acustica, principalmente rock ma non solo, anche qualche arrangiamento blues. Artisti di spessore; cover ma anche musica originale. Una certezza.

Il Pane e Le Rose è aperto dal lunedì al sabato. Dalle 18.30 alle 00.30 durante la settimana, ad oltranza il venerdì e sabato. E quando dicono “ad oltranza” è ad oltranza.

E sabato 17 gennaio 2015, Il Pane e Le Rose festeggia 8 anni di attività con una mega jam session! I musicisti ci saranno tutti: perché Guido, Silvia e Mamma Sandra sanno davvero farsi amare.

IL PANE E LE ROSE Via Ennio Quirino Visconti, 61 A Per info sul locale: www.panerose.it/index.html Per info sulla musica dal vivo: “IL Pane e le Rose” - gruppo pubblico - su FB

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/ ROMA NARRANTE /

LA VITA IN TEMPO DI PACE,

FRANCESCO PECORARO di DANIELE TROVATO

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ato nel 1945 a Roma, Francesco Pecoraro ha esordito nella letteratura una decina di anni fa, in età già matura. Le sue prime opere erano state notate e premiate, ma i grandi riconoscimenti per le qualità, indiscutibili, della sua scrittura sono arrivate quest’anno grazie a “La vita in tempo di pace” (Ponte delle Grazie, 2013), ultimo ispirato romanzo, quotato finalista del Premio Strega, apprezzato dalla critica e, mi risulta, dai lettori. Non so cosa facesse Pecoraro pima di scrivere narrativa, forse era un tecnico come l’ingegner Ivo Brandani di cui questo libro ci racconta la vita a passo di gambero, fuori dal presente, come un epitaffio. Una narrazione a doppia spirale dove la vita del protagonista è ripercorsa per episodi in due direzioni: in avanti verso un vicinissimo futuro in cui ogni capitolo scandisce l’ora della giornata di un quasi settantenne e alternatamente all’indietro, verso il passato, dove i passaggi cruciali di un uomo sempre più giovane e imberbe scorrono davanti ai nostri e ai suoi stessi occhi, sempre più indietro, alla ricerca del tempo perduto fin al fondo dell’infanzia. Lo stile di Pecoraro è ricco, esorbitante, vivacemente verboso, descrittivo, ondivago tra terza persona e discorso libero indiretto (come a guardare Ivo a un tempo dall’esterno e dall’interno), costantemente impegnato a condurre il lettore attraverso digressioni e divagazioni: in questa libertà labirintica la narrazione qualche volta s’impantana, altre volte trova felicemente ritmo e profondità. Pecoraro concede alla propria scrittura vezzi arbitrari (come le “&” commerciali che a volte sostituiscono le “e” di congiunzione per rafforzare il legame binario tra certi oggetti o concetti) e voluti pudori letterari, in cui ogni cosa o persona col quale il protagonista mantiene un rapporto intimo e atavico, viene privata del nome proprio. L’Italia è la Penisola, Roma la Città di Dio, i legami famiglia di Ivo Brandani, come sempre ineludibilmente ingombranti, si riducono alla categoria generica di Padre, Madre, Sorella Grande, via via ponendo distanza verbale tra il sé e ciò che sa toccarci nel profondo, davanti al quale si resta nudi

e indifesi anche da adulti. “La vita in tempo di pace” è un bel libro che chiude i conti sulla generazione dei padri, cui appartengono sia Pecoraro che Brandani, quella che è nata mentre rinasceva il paese (senza averne merito per ragioni anagrafiche), che aveva l’età giusta durante il ‘68(senza il merito di una rivoluzione realmente compiuta), fatta di individui convinti di “essere diversi” senza esserlo, che hanno ricevuto in eredità un mondo ancora in parte incontaminato, autentico, comunitario, soprattutto immerso in una dinamica di progresso (e non soltanto di sviluppo) che grazie a loro, una volta giunti a una arrogante maturità, si è bloccata, plastificata, irrimediabilmente impoverita. Visto da una prospettiva diversa, quella cioè della generazione dei figli, “La vita in tempo di pace” ha l’aria di una resa dei conti tardiva, tutta interna a quella generazione, franca e, qualche volta, francamente irritante. Pecoraro è uno scrittore eccellente, capace d’invenzione, affabulazione, profondità, ma il suo Ivo Brandani non ci piace, soprattutto dove ci somiglia, perché siamo suoi figli a cui è stata negata la ribellione e la negazione. Il fallimento di Ivo, di cui ci toccherà un giorno raccogliere i cocci, è quello di Padre (il nostro) e, in questo senso, “La vita in tempo di pace” rappresenta, prima ancora che una pregevole opera letteraria, un documento prezioso e fondamentale.

/ IL FINTELLETTUALE / L etture indis pens abili per o s tentare u na va sta c ul t ura se nza p e rde re te m p o a fa r sela .

CENT’ANNI DI SOLITUDINE di ANDREA BALLARINI

M

acondo è un piccolo villaggio isolato dal mondo da qualche parte in Sudamerica, probabilmente in Colombia, dove vivono i Buendia, degli spostati che si chiamano tutti allo stesso modo, così che non si capisce un cazzo di chi si tratti; ma tanto non è importante perché il libro è immerso in un’atmosfera vagamente psicotropa, tra il fiabesco e il realistico, e all’afflato poetico non si comanda. Il romanzo segue per un secolo (i cent’anni del titolo, appunto) la vita di sei generazioni dei Buendia. Josè Arcadio e Ursula, la coppia capostipite, si riproduce nonostante sulla stirpe incomba il minaccioso vaticinio della nascita di un bimbo dalla coda di porco che segnerà la fine della dinastia. Figli nipoti e pronipoti li imiteranno, riempiendo le quattrocento e passa pagine del romanzo di decine di Aureliano, Ursula e Arcadio. Pagine in cui succede di tutto, anche perché fra protagonisti e comparse ci saranno un paio di centinaia di personaggi. Tra i gringos che commerciano in banane - che sono sì gringos, ma portano la prosperità - e l’esercito che spara sugli scioperanti macondini (macondesi?), al colonnello Aureliano Buendia (vai a capire quale), rivoluzionario di professione, dopo il fallimento dell’ennesima insurrezione flippa il cervello e così decide di chiudersi nel suo silenzio e di mettersi a fabbricare pesciolini d’oro. A movimentare ulteriormente la trama ci sono anche altri personaggi che non appartengono alla famiglia, come lo zingaro Melquìades, un po’ cialtrone e un po’ alchimista, custode di imperscrutabili misteri racchiusi in arcane pergamene sanscrite, tra le quali una che poi si rivela essere il libro stesso che racconta tutta questa storia.

Ciliegina sulla torta, l’autore dissemina a piene mani ricorrenti flashback e flashforward, quasi tutti uguali, così non si sa più se Aureliano Buendia si sia suicidato o fabbrichi pesciolini d’oro, ma il realismo magico vuole le sue vittime. In ogni caso, a pagina 421 nasce il bimbo porcocoduto e un uragano biblico cancella dalla faccia della terra Macondo, come del resto la

pergamena di Melquìades aveva previsto. Fine. Ma forse vi siete sbagliati ed è solo l’inizio.

L’ANGOLO DEL CONNAISSEUR

Un capolavoro.

Non aggiungere altro.

Il libro più formativo della vostra giovinezza. Non spiegare perché.

Se qualcuno si lamenta di non essere riuscito a capirlo, replicare che è come la poesia: non si deve capire, si deve lasciarsi trascinare. Osservazione che sottende sconfinate risorse spirituali.

Parlare della concezione circolare del tempo che, in effetti, dopo cinque o sei canne diventa molto più comprensibile.

Però l’incipit sulla conoscenza del ghiaccio è fichissimo. Convenirne.

Parlare dei flashback e flashforward di cui è intessuto il romanzo, ma chiamarli analessi e prolessi fa capire che non siete mica venuti giù con la piena.

Ricordare che al liceo farsi vedere con il vecchio Feltrinelli infilato nella tasca del cappotto, aumentava significativamente le possibilità di fare sesso.

ANDREA BALLARINI Coordinatore artistico del BeaCafé via Giano Parrasio 15, 00152 Roma www.beacafe.com andrea.ballarini@fastwebnet.it

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/ C C O M E C U LT U R A /

I NUMERI DAL PASSATO AL PRESENTE:

UN TESSUTO DIETRO LA VITA QUOTIDIANA di MONICA SPERABENE

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n progetto complessivo, oltre che una mostra, per scoprire i numeri che sono dietro le cose, una sfida a leggere la realtà che ci circonda oltre l’uso delle parole e delle immagini. “Numeri: tutto quello che conta da zero a infinito” è la mostra aperta al Palazzo delle Esposizioni dal 16 ottobre al 31 maggio 2015 per descrivere la storia evolutiva che è alla base della nostra quotidianità e del progresso. Accanto alla mostra una ricca proposta di film, incontri, sperimentazioni e visite guidate invita ad esplorare i numeri secondo diversi punti di vista, per svelare come essi costituiscano la struttura forte, l’ossatura più o meno evidente del nostro pensiero, delle relazioni con il mondo, lo spazio, il tempo, la natura, così come della produzione artistica nei secoli: i numeri risultano in sostanza l’implacatura portante della costruzione materiale e immateriale delle società. Il percorso espositivo è articolato in tredici tappe dove le suggestioni delle nuove tecnologie si affiancano alla storia dei grandi matematici e delle scuole scientifiche, alla narrazione dei numeri, alla loro rappresentazione attraverso diversi strumenti nei secoli - dal linguaggio del corpo, alle tavolette babilonesi in argilla, ai bassorilievi maya del primo secolo dopo Cristo - fino ad incontrare le prime macchine di calcolo, lo sviluppo delle scienze statistiche, lo studio dello spazio astronomico. I numeri costruiscono forme di linguaggio con logiche che possono variare da popolo a popolo ma si riconducono poi a sistemi comuni. Ideare, realizzare, comunicare, muoversi, esplorare sono costantanti attività dell’uomo che hanno a che fare con la logica e la grammatica dei numeri ovvero con il contare e misurare per diverse finalità. I prossimi incontri sono l’8 gennaio con “I numeri della guerra” in riferimento alla Prima Guerra mondiale quando “esplode” l’uso della matematica per l’uso delle armi (aeroplani, dirigibili, verso le armi chimiche) e il rapporto coevo con il discorso scientifico della scuola matematica italiana, una delle più importanti al livello internazionale; il 15 gennaio: “Contare e scrivere i numeri: le basi di numerazione e il linguaggio del corpo”, per parlare di come le civiltà hanno escogitato modi di contare con il corpo in modo simbolico, su diverse basi di calcolo. Il 22 gennaio, nell’appuntamento “Numeri nello

spazio della mente: come le scienze cognitive svelano origine e forma del pensiero matematico”, si analizzerà il rapporto dei numeri con i processi cognitivi e le relazioni spaziali. C’è poi “L’irragionevole bellezza dei numeri” perché in effetti il linguaggio dei numeri ha un fascino estetico nel segno fisico ma anche un riferimento a concetti filosofici che portiamo con noi dai tempi della Grecia antica in avanti: armonia, perfezione, equilibrio sono stati e sono alla base degli studi nelle rappresentazioni artistiche di pittori, scultori, musicisti, poeti e ovviamente sono alla base dell’architettura. Capita che i numeri spaventino anche e perciò “Niente più paura della matematica” ci esorta a fare amicizia con quel blocco mentale improvviso che crea la percezione di paralizzarci davanti a conteggi troppo complessi, mentre ne risolviamo molti altri senza quasi accorgercene in ogni momento della nostra quotidianità. Il programma si concluderà poi con l’appuntamento “Come la vita rispecchi i numeri e i numeri la vita” dove saranno illustrati gli studi sulle basi numeriche delle nostre emozioni, reazioni e conoscenza così come dei meccanismi cellulari che costituiscono il nostro corpo. C’è poi un calendario di laboratori finalizzati a diverse fasce di età: per le famiglie, le scuole dell’infanzia e le primarie (per informazioni: scaffaledarte@palaexpo.it), poi per la scuola secondaria (i programmi sono su www.coopculture.it). Orari della mostra: domenica, martedi, mercoledì e giovedì dalle 10.00 alle 20.00; venerdì e sabato dalle 10.00 alle 22.30; il primo mercoledì del mese dalle 14.00 alle 19.00 l’ingresso è gratuito per gli under 30.

/ GIALLI ROMANI /

OMICIDIO PECORELLI: ANDREOTTI, BADALAMENTI E IL GIOVANE CARMINATI di DANIELE TROVATO

S

iamo a Roma, via Tacito, il 1968 volge al termine e una mano sta ruotando la manovella meccanica di un ciclostile, un piccolo apparecchio meccanico che non richiede corrente elettrica e produce stampe economiche, di bassa qualità. Dal rullo del ciclostile escono le prime bozze di OP, Osservatore Politico, un’agenzia di stampa diversa da tutte le altre, che si occupa esclusivamente di indiscrezioni e scandali sugli uomini di potere: politici, prelati, militari, magistrati. OP è letto da un ristretto numero di abbonati, spesso appartenenti a quegli stretti ambienti, inclusa l’intelligence, di cui l’agenzia si occupa. Inoltre la linea editoriale sembra essere quella di pubblicare di tutto, delazioni, attacchi personali, ciarpame, ma anche scoop sensazionali, previsioni puntualmente veritiere, anticipazioni, analisi complesse e allusive. L’Osservatore Politico a volte non sembra nemmeno pubblicare notizie quanto inviare messaggi e, contemporaneamente, decodificare a sua volta quelli dell’informazione ufficiale. Il suo fondatore, l’anima e l’intelligenza dell’operazione, è Mino Pecorelli, Carmine all’anagrafe, avvocato molisano che dopo l’esperienza come capo ufficio stampa del Ministro Sullo, si è avvicinato al giornalismo. Pecorelli conosce tutti, ha informatori in tutti i centri di potere dello Stato, è vicino ad alcuni politici DC, come fonti dell’agenzia compaiono uomini del SID e prelati del vicariato di Roma, è iscritto alla Loggia P2 con tessera 1750. OP resta appannaggio di una cerchia relativamente ristretta per quasi dieci anni, ma viene letta con attenzione, è temuta e riesce ad influenzare gli ambienti che racconta, l’Osservatore in qualche modo non si limita a osservare. La svolta arriva nel 78, quando Pecorelli racimola presso alcuni suoi contatti di spicco, gli introiti pubblicitari per trasformare OP in una vera e propria rivista da vendersi nelle edicole. La nuova pubblicazione, destinata ad un pubblico e ad una risonanza ben più ampi, esce in edicola in concomitanza col sequestro Moro, lo segue nei quaranta giorni, pubblica lo scoop che sbugiarda il Comunicato n.7 delle BR, rivelatosi in realtà un falso, frutto di un depistaggio dei servizi. Tra il 78 e il marzo del 79, la rivista esce con continuità e, tra gli altri, attacca duramente la corrente andreottiana della DC, ne denuncia

l’intreccio viscoso tra politica, imprenditoria e ambienti di dubbia reputazione. Tra gli andreottiani ci sono anche figure con cui Pecorelli ha rapporti, come Evangelisti (il Presidente dell’AS Roma negli anni 60) e Carenini, i quali una sera a cena lo incontrano insieme al PM Vitalone, anche lui della stessa corrente ma in contrasto con Evangelisti. Qui le versioni si fanno discordanti, Vitalone negherà sempre, ma pare che Evangelisti abbia offerto denaro a Mino per non pubblicare un’inchiesta su Italcasse, in cui il Divo Giulio avrebbe un ruolo cruciale in una faccenda di fondi neri, finanziamento illecito, assegni e tangenti. Una vicenda intricata che passa per imprenditori come Nino Rovelli, costruttori come Caltagirone, in cui compariranno in seguito anche i nomi di criminali come Balducci e Calò. Forse Pecorelli si convinse, tanto che di lì a poco Evangelisti salderà un debito di 30 milioni con la tipografia per suo conto, ma c’erano anche altri scoop pronti, si parlava del memoriale di Arcaini (Italcasse) e di quello di Sindona (Banca Privata Italiana).

Nei suoi ultimi numeri la rivista OP aveva pubblicato anche le ultime lettere dalla prigionia di Aldo Moro ma l’ultimo numero, quello su cui forse si discusse nella cena con gli andreottiani, non uscì mai. Il 20 marzo del 1979 Pecorelli viene freddato con quattro colpi di pistola, in via Orazio, vicino alla redazione. Si cercano gli esecutori materiali, e i proiettili usati, dei rarissimi Gevelot, sono presenti anche nell’arsenale appena scoperto che la Banda della Magliana aveva dato in consegna ai NAR tramite Massimo Carminati, che faceva da intermediario fra le due organizzazioni. Tutti i neofascisti indagati, incluso Carminati, saranno prosciolti nel 1991, buio sui mandanti mentre negli anni si moltiplicano le ipotesi, del resto Pecorelli aveva pestato i piedi a molti. Sarà Tommaso Buscetta nel 1993 a raccontare di aver appreso da Badalamenti che l’omicidio era stato deciso per favorire Andreotti. Il Divo Giulio e Vitalone finiscono a processo coi mafiosi e di nuovo con Carminati. Nei tre gradi di giudizio il processo perde i pezzi: prima tutti assolti, poi Badalamenti e Andreotti condannati a 24 anni in appello, infine assolti anche loro in Cassazione. Mino Pecorelli è stato ucciso a colpi di pistola, 35 anni dopo non sappiamo ancora chi sia stato né per conto di chi.

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/ ECONOMIA IN PILLOLE /

LE NUOVE POVERTÀ di SERGIO ALLEGRA

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facile in questo momento essere portati a ritenere che la politica, i politici, i vuoti e inutili dibattiti televisivi siano la vera attualità. Invece, in questi giorni, nessun concetto è più attuale della povertà: il grande dramma che continua a crescere fra la popolazione in maniera esponenziale. Il processo di “impoverimento” è iniziato già da anni ma fino ad ora si è parlato di “rischio povertà”. Oggi, con la comunicazione degli ultimi dati Istat relativi al terzo trimestre 2014, è facile comprendere che il fenomeno non è più rischio ma realtà. Secondo una nota Adusbef e Federconsumatori, i consumi delle famiglie sono diminuiti dal 10,7%, pari ad una contrazione sul mercato di oltre 78 miliardi di euro. E i consumi finali nazionali hanno registrato una crescita nulla rispetto al secondo trimestre (+0,1% la spesa delle famiglie residenti, -0,3% la spesa della PA), mentre gli investimenti sono scesi dell’1%. L’economia italiana ha registrato una contrazione dello 0,1% rispetto al trimestre precedente. In termini pratici, questa diminuzione si concretizza in una sorta di tassa invisibile a carico delle famiglie. Ma cos’è la povertà? Chi può essere definito povero? Non c’è probabilmente concetto economico più immediato e comprensibile. Eppure, al contempo, il concetto di povertà resta sfuggente e controverso.

La sua definizione tecnica e la misurazione, infatti, sono mutate e continuano a mutare costantemente nel tempo e nello spazio geografico perché dipendono inevitabilmente dagli specifici contesti economici, sociali ed istituzionali. Per esemplificare: la povertà di una società sviluppata e industrializzata non può essere paragonata o valutata con gli stessi criteri con cui si valuta quella di una società c.d. sottosviluppata.

Dunque, cercare di definirla sarebbe impresa ardua che, date le premesse non porterebbe comunque alla soluzione. Inoltre, il concetto intuitivo, e che neanche gli economisti possono fare a meno di tenere in conto, è che povertà non è soltanto mancanza di denaro.

Per poterne parlare nel XXI secolo, conviene partire dalla definizione generale fornita dalla Banca Mondiale e il dato che emerge chiaramente in riferimento

alla società italiana è preoccupante. La povertà, per la Banca Mondiale, infatti, è carenza di cibo, fame e mancanza di un riparo stabile. Ma non soltanto. E’ anche il rischio di ammalarsi senza potersi curare, di non potersi istruire, di non avere a disposizione acqua potabile, di non poter lavorare, di non avere certezze per il futuro, di non veder rappresentate le proprie esigenze, di non poter incidere nelle decisioni collettive, di non essere liberi. Noi non abbiamo raggiunto questo limite. Ma possiamo sentirci davvero fuori dalla strada che conduce a queste condizioni? Considerati i dati odierni forniti dall’Istat in termini economici la risposta sembrerebbe essere negativa. Ma la rotta si può invertire. Il contesto economico e quello sociale sono strettamente collegati e l’uno è imprescindibile dall’altro. Questo vuol dire che l’intervento dello Stato dovrebbe essere strutturato su politiche economiche improntate al rilancio oltre che economico anche sociale. E’ proprio questo, in realtà, che vuol dire tendere al benessere di una popolazione. Questo potrebbe poi significare uscire dalle logiche di prevalenza dei mercati finanziari, quelli imposti dal sistema-Europa e che ci hanno portato qui, sul benessere e sulla floridità sociali di ciascuna, singola, popolazione.

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Sorta nel 1977, la Mediocredito Centro Italia S.p.A. è una società specializ-

La M.C.I. S.p.A. si propone come partner e fornitore di servizi alle imprese operazioni sul capitale proprio, per servizi di consulenza e gestione dei rischi aziendali.

qualitativi.

L’azienda, nei suoi quarant’anni di vita, ha dimostrato di essere capace di adeguarsi e di anticipare i cambiamenti del mercato, ed ancora oggi in presenza tinuamente l’offerta di prodotti e servizi, il punto di forza della M.C.I. S.p.A. sta nel cogliere tutti i vantaggi dell’innovazione, e nella convinzione che ogni la clientela, per il personale, per gli azionisti.

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/ B&B BEAUTY E BENESSERE /

IN FORMA DOPO LE FESTE,

TRA MONTAGNA, CORSA E SPA WINTER BEAUTY: LA PELLE AD ALTA QUOTA In inverno spesso si pensa di non proteggere la pelle dal sole. Errato. Una crema protettiva è indispensabile soprattutto per le pelli più delicate per proteggere sia dal sole che dal freddo. È anche la stagione delle settimane bianche: ad alta quota la nostra pelle necessita di più idratazione per essere protetta dal freddo e dal vento.

Semaforo verde, quindi, per creme dalla texture nutriente e corposa.

DD: DIETA DETOX DOPO LE FESTE

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La cosa più sbagliata da fare dopo le feste sono i digiuni forzati: non aiutano e ingigantiscono la fame, oltre a deprimere.

Sì, invece, a diete detox per depurare l’organismo ed eliminare le tossine e i chili accumulati. Per farlo, basta prediligere cibi che - per il loro contenuto - agiscono come “spazzini” disintossicando. Limoni: molto detox da bere al mattino appena svegli diluito in acqua tiepida. Carciofi: depurano fegato e cistifellea e sono diuretici. Germogli di broccoli: i broccoli in forma di germoglio contengono più sostanze benefiche dell’ortaggio adulto, da 20 a 50 volte più sulforafano, il principio che attiva importanti enzimi detossificanti e antiossidanti. Tè verde: è ricco di antiossidanti tra cui le catechine che stimolano la funzionalità del fegato. Mele: ricche di sostanze nutritive preziose, le mele sono uno dei frutti più ricchi di pectina, una fibra solubile che svolge un’azione disintossicante soprattutto a livello intestinale, aiuta a tenere sotto il controllo il colesterolo e favorisce lo sviluppo di una flora batterica simbiotica benefica. Verdure a foglia verde: insalata, spinaci, sedano e cicoria sono ricche di clorofilla e disintossicano dai metalli pesanti, dagli inquinanti e in generale dalle tossine.

SPORT: MEGLIO ALL’APERTO Le palestre salvano sicuramente dal tempo inclemente dei mesi invernali, tuttavia, anche nella stagione più fredda sarebbe meglio praticare sport all’aria aperta, per sette benefici: 1 si bruciano più calorie, 2 si rafforza il cuore, 3 si beve di più, 4 si diventa più tollerante al freddo, 5 si guadagna vitamina D, 6 ci si sente più felici ed energici, 7 si fa stretching e riscaldamento.

TERME A DUE PASSI DA ROMA Vicino all’aeroporto di Fiumicino, all’interno tenuta di proprietà del duca Ascanio Sforza Cesarini, sulla via Portuense, all’interno dell’oasi naturale di Porto, di fronte al Lago di Traiano, sono nate le QC Termeroma: una spa dove rigenerare corpo e mente immersi in antichi fasti romani. Nella prima sala relax con tanto di carrozza d’epoca, ci si può riposare su dei materassi e leggere. Scendendo nella zona vasche d’acqua calda si comincia il percorso benessere. Il nuovo centro QC Termeroma non offre solo una giornata di relax ma un vero e proprio soggiorno rigenerativo grazie al Luxury Hotel. Le camere hanno una stanza da bagno realizzata con dieci tipolgie diverse di marmi romani e si affacciano su una distesa di pini marittimi.

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/ OROSCOPO DI GENNAIO / di CARLOTTA CINICIA Finalmente ecco il 2015! Finalmente e con un grande sospiro di sollievo … Saturno si trova ora in Sagittario e, credetemi, non è nulla la pressione che ci porta rispetto a quando transitava nello Scorpione, transito durato per ben 2 anni e mezzo! Scrivo queste righe e già mi sento più sollevata e più serena. Parlo spesso di Saturno in quanto, chiamato giustamente “l’orologio dello zodiaco”, delinea realmente dei periodi precisi in cui facciamo esperienze specifiche in un settore della nostra vita e ci accadono (ma il caso non esiste per l’astrologia) eventi che ci portano a comprendere come noi viviamo quel settore della nostra vita e come possiamo migliorarlo per renderlo più autentico alla nostra natura. Saturno è stato anche chiamato, da alcuni studiosi, “il grande malefico” ma non è esattamente questa la mia visione.

Per la mia esperienza è certamente un pianeta forte e a volte impegnativo ma dipende molto da quanto noi ascoltiamo o no la nostra vera essenza. Se siamo autentici Saturno ci regala invece grandi soddisfazioni e conquiste importanti. È il pianeta dell’apprendimento, portando a coscienza tutto quello che abbiamo “registrato” da piccoli nella nostra anima, come pensieri, emozioni (inconsce appunto), attraverso le nostre figure di riferimento. Addirittura si ritiene che queste “registrazioni” avvengano già durante lo sviluppo del feto all’interno dell’utero, come espone Bruce Lipton nel suo libro “La Biologia delle credenze”. Quindi Saturno non è malefico ma porta a coscienza vissuti emotivi interiori (anche molto positivi) e poi li viviamo sul piano tangibile. Ora, da adulti, possiamo finalmente vedere e vivere queste esperienze come riflesso di condizionamenti e possiamo cambiare se non vanno bene per noi. È il pianeta che ci richiede sicuramente la maggior attenzione perché la sua energia si manifesta sul piano fisico, tangibile: dobbiamo fare, fare, fare, assolutamente fare! Il piano materico è il piano energetico più lento e che richiede delle doti molto precise e la prima in assoluto è la pazienza che è una dote eccelsa: “un momento di pazienza può evitare un grande disastro; un momento di impazienza può rovinare una vita intera” (Proverbio cinese).

Saturno, nel segno del Sagittario che è un segno di Fuoco, governato da Giove, veloce, curioso, bisognoso costantemente di stimoli nuovi, di nuove esperienze, attratto da tutto ciò che è lontano, dai viaggi lunghissimi, da luoghi sperduti e mai esplorati, dallo studio di materie e discipline insolite … può far pensare che un po’ tutti noi saremo stimolati a grandi cambiamenti, come di città, nazione oppure anche ad intraprendere nuovi e stimolanti studi per arricchire la nostra anima e renderci più vivi. Ci sarà una grande spinta verso il nuovo, il lontano, un grande movimento, ma questo avverrà sicuramente con molta consapevolezza e saggezza, grazie alle energie saturniane. Giove a gennaio invece continua a splendere nel Segno del Leone, regalandoci ancora tanta creatività, divertimento, allegria, gioia! Ottimo!

ARIETE: Caro il nostro Ariete, questo gennaio si che inizia a farti stare veramente bene, finalmente! La congiunzione di Urano nel tuo segno e Plutone in Capricorno, posto in quadratura, stimolano ancora a grossi cambiamenti, dandoti un’immensa energia rivoluzionaria in tutte le sfere della tua vita (soprattutto per i nati nella seconda decade). Mercurio, Venere e Marte sono in Aquario e ti appoggiano in un bel sestile dandoti nuovi incontri e nuovi Amori! Saturno ora è in Sagittario insieme Giove in Leone che sono in trigono: ti rendono più sicuro, più fiducioso nonostante tutte questi cambiamenti e sai benissimo che andrà tutto bene. Probabile la proposta di un nuovo posto di lavoro, un lavoro che non hai mai fatto … bene ottimo, vai può essere il tuo talento. Giorni sensibili, in cui la Luna è nel tuo segno: 25 e 26.

TORO: Caro il nostro Toro, Saturno è uscito dallo Scorpione … ora si che ti senti leggero. Festeggia! Credimi, l’opposizione di Saturno è la configurazione più difficile (insieme a Plutone in opposizione) in campo astrologico. Ora premiati, stringiti la mano, sei stato bravissimo ed ora sei sicuramente una persona migliore. Se non ti uccide ti rende più forte! I primi giorni dell’anno saranno molto positivi e ti arriveranno tante proposte in ogni settore: nelle relazioni, nel lavoro, forse nuovi studi … insomma tutto inizia molto bene. Giove è in Leone e Marte, in questo mese di gennaio, è nei Pesci.

Questi pianeti ti appoggiamo, il primo con un bel trigono ed il secondo con un bel sestile … l’energia è tanta e ti si chiede di accelerare un po’ il passo e soprattutto fare esperienze mai fatte e tu, un po’ pigro, abitudinario e così dedito al lavoro e a produrre, non le accogli subito e volentieri, ma occorre farlo, devi imparare a ridere di più, a giocare, ad avventurarti un po’, è il momento giusto. Giorni sensibili, in cui la Luna è nel tuo segno: serata del 1, il 27 e 28.

GEMELLI: Caro il nostro Gemelli, il cielo di gennaio è veramente stimolante, con Marte ancora in Aquario e con Mercurio e Venere che entrano in Aquario. Non riuscirai a stare molto fermo (cosa impossibile per te!), a stare molto in casa: tanta gente, stimoli, svaghi, nuovi incontri con persone molto diverse dal tuo vissuto e perché no, una

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bellissima avventura, il periodo è buono, soprattutto per le donne nate nella prima decade. Per le donne Saturno in opposizione farà sicuramente vivere la relazione con tuo padre, marito o nuovo compagno in modo più forte e concentrato o ti farà sentire la mancanza di un compagno. Per gli uomini i riflettori sono sempre spostati sul rapporto con il padre e/o su se stessi, dando uno stimolo forte a disciplinare meglio il loro modo di essere a volte troppo dispersivo e superficiale. Quello che si hai intrapreso di nuovo negli ultimi mesi si stabilizza sempre di più a Gennaio. Giove continua ad appoggiare i nati della seconda decade regalando divertimento, creatività, gioco! Nettuno continua invece a quadrare il Sole per i nati nella prima decade, generando una sensibilità e fragilità insolita che non si riesce a gestire oppure facendoli trovare in situazioni in cui occorre prodigarsi e impegnarsi ad aiutare il prossimo in difficoltà. Giorni sensibili, in cui la Luna è nel tuo segno: 2, 3, 29, 30 e 31.

CANCRO: Caro il nostro Cancro, questo nuovo anno inizia richiedendoti di prendere decisioni molto importanti. Oltre a Plutone in opposizione in Capricorno, ci sono anche Mercurio e Venere. Avrai molto da capire su di te e gli altri ed occorre tirar fuori una forza che di solito senti di non avere (ma che hai!), occorre cambiare soprattutto il rapporto con gli altri. Il Cancro per la famiglia rischia di perdere la propria strada ed il proprio destino ed il 2015 inizierà con una prova per insegnarti che prima vieni tu e poi gli altri. Per fortuna Urano in Ariete in quadratura, soprattutto per i nati nella seconda decade, aiuta a renderti indipendente e Nettuno nei Pesci ti darà tanta fede che, nonostante gli impegni, le richieste, le responsabilità ti farà mantenere una buona pace e armonia con te stesso. Ti consiglio, per le configurazioni in atto, di fare pratiche spirituali per far uscire e incanalare le energie che senti forti in te, pratiche che ti portano a lavorare sul corpo come Yoga, Meditazione, Psicologia, Bionergetica, Rebirthing. Giorni sensibili, in cui la Luna è nel tuo segno: 4, 5 e mattina del 6.

LEONE: Caro il nostro Leone, questo nuovo anno va’ sempre meglio! Saturno è uscito dallo Scorpione e dalla quadratura … ora si

che tutto scorre nuovamente e molto meglio ed il vecchio, la vecchia vita, sta diventando un ricordo sempre più lontano. Con Mercurio e Venere in Aquario avrai tanti incontri nuovi e tanti stimoli, anche nuove proposte di lavoro possono affacciarsi nella tua vita, coglile come sai fare tu con sorriso ed entusiasmo. Saturno in Sagittario si pone in trigono ed ora stai iniziando a fare la vita che vuoi e si stabilizzerà sempre di più, non avere fretta di vedere tutto e subito realizzato, piano piano tutto prende forma. Inoltre Urano, sempre in trigono in Ariete, continua a darti stimoli per una vita nuova, stimolante, movimentata, libera! Il cielo è tutto con te! Giorni sensibili, in cui la Luna è nel tuo segno: dal pomeriggio del 6, 7 e 8.

VERGINE: Cara la nostra Vergine, questo nuovo anno diventa veramente importante per te! Saturno in Sagittario inizia a farti vedere (soprattutto per i nati nella prima decade) cosa devi veramente tagliare nella tua vita, perché tu sei maestra a prenderti tante responsabilità, troppe. Qui il tema principale si sposta sul padre, marito, compagno e sulla propria energia maschile, sulla propria capacità di portare Luce, Allegria in te e agli altri. Mercurio e Venere ti appoggiano in Capricorno solo i primi giorni poi sono neutrali in Aquario … non danno influssi significativi. Mentre Marte dall’Aquario si sposta nei Pesci, segno per te opposto nello zodiaco.

Avrai sicuramente delle situazioni psicologicamente difficili da gestire, nettuniane, ossia con persone che tu ami, che chiedono il tuo aiuto e tu egregiamente riesci, ma attenzione a non stancarti. Senti che vuoi liberarti di qualche incombenza, di qualcosa o di allontanare certe persone ma non sai come fare, non è ancora chiaro in te. Prova a stare in questa incertezza, è tempo di gestazione, abbi fiducia e aspetta cieli più sereni. Giorni sensibili, in cui la Luna è nel tuo segno: 9, 10 e mattina dell’11.

BILANCIA: Cara la nostra Bilancia, la vita cambia sempre di più e con il 2015, Saturno in Sagittario in Sestile e Giove in Leone sempre in appoggio con un sestile, ti stanno facendo vivere tutto in modo più chiaro, provando un’allegria e una gioia a volte mai provati.

Sicuramente sai ora benissimo cosa non vuoi più. A gennaio il Sole e Plutone in Capricorno ti porteranno tanti stimoli, dovrai fare cose mai fatte, lanciarti in nuove esperienze … fallo, non aver timore, l’importante è che lo fai a tuo modo, con grazia, eleganza, armonia, dolcezza e senza stravolgere troppo la tua natura che è così sensibile. Inoltre Mercurio e Venere in Aquario sapranno veramente darti quella leggerezza e fiducia che occorrono per affrontare nuove esperienze.

Urano in Ariete è sempre lì ad insegnarti la libertà di essere se stessi, a tagliare quello che non serve, a dire no quando occorre. Molto bene, continua così e non tornare indietro! Giorni sensibili, in cui la Luna è nel tuo segno: dal pomeriggio dell’11, 12 e 13.

SCORPIONE: Caro Scorpione, eccoci finalmente nel 2015. Saturno è andato via, ora si che ti senti come sei veramente: presente, forte, capace, concentrato. Giove in quadratura in Leone ci sarà per tutto gennaio e ti stimola a tirar fuori la luce in te, a far risplendere il tuo Sole, la tua gioia di vivere che è stata così messa a dura prova nel passato. Vedrai cosa ti blocca, te ne libererai e ti sentirai sicuramente più felice. Nel campo dei soldi e del lavoro il periodo si prospetta molto più buono. L’impegno, la pazienza e la costanza che hai dimostrato danno i loro frutti. Mercurio e Venere in Aquario in quadratura potranno portarti incomprensioni con il compagna/o ma di lieve durata. Marte in Pesci ti appoggia in trigono dandoti voglia di sport, movimento, azione. Giorni sensibili, in cui la Luna è nel tuo segno: 14, 15 e mattina del 16.

SAGITTARIO: Caro il nostro Sagittario, eccoci nel 2015. Questo anno per te è veramente un anno importantissimo perché Saturno entra nel tuo segno ed ora si prospetta una fase molto diversa. Ti potrai sentire giù, senza molta energia o nel pieno caos all’inizio di questa fase. Hai raggiunto un punto critico, hai speso male la tua energia o ne hai spesa troppa, hai preso strade che non dovevi e non sai come uscirne; se non ti accorgi degli errori e continui a farne rischi di avere enormi problemi. Ti potresti trovare ad un punto fermo, come immobile, e a non sapere più dove scagliare le

tue frecce. In astrologia quello che dai torna sempre e prima di tutto occorre dare a noi stessi: va’ rivisto totalmente il rapporto con se stessi, gli altri e la nostra sfera lavorativa. Dare a se stessi è un arte che si può apprendere ma occorre essere molto umili come è umile il bambino. Tu carissimo Sagittario ti senti sempre un po’ maestro (sei governato da Giove, Zeus il padre degli Dei) che ti da’ esuberanza, prosopopea, megalomania, questo sempre pensare alla grande, dall’alto, questo tuo vedere le cose ordinarie e semplici come noiose, sempre a guardarti intorno per cercare cosa ti dà piacere e vita. Va’ benissimo ma senza eccedere. Non è più tempo di fare solo quello. Nel tuo forte impeto di andare sempre al galoppo e scagliare frecce fai attenzione a non calpestare ancora troppi bei fiori delicati e ferire qualche cucciolo indifeso, ora con Saturno nel tuo segno torna tutto e subito. Giove in Leone e Urano in Ariete in un bel trigono ti appoggiano e ti permetteranno di cambiare facilmente e moderarti un po’. Giorni sensibili, in cui la Luna è nel tuo segno: pomeriggio del 16, 17 e 18.

CAPRICORNO: Caro Capricorno, nel mese di gennaio, che è il tuo mese, non solo Plutone continua ad essere nel segno, ma anche il Sole, Mercurio e Venere. Sarà un gennaio di iper lavoro, di progetti che iniziano, di nuove responsabilità. La rivoluzione è totale, come dico da mesi, ed è possibile che ci saranno difficoltà a lasciare andare e potrai trovarti in momenti di grande nervosismo, perché a te manca la capacità di fidarti della Vita, hai bisogno di controllare tutto e stai bene se hai il potere e tieni sotto controllo l’ambiente che ti circonda. Marte esce dall’Aquario e va’ nei Pesci ed insieme a Nettuno ti appoggiano, dandoti finalmente la possibilità di affacciarti ad esperienze nuove, che nutrono lo spirito, come ad esempio fare volontariato. Non è nella tua natura occuparti di queste cose così poco produttive ma hai raggiunto un punto critico. Oppure potresti sentirti insolitamente attratto da pratiche come lo yoga, meditazione o semplicemente da libri su argomenti spirituali, questo perchè devi allentare la tensione mentale accumulata nei mesi passati per cercare di controllare tutto. Infine potresti sentire un gran desiderio di lasciare tutto e tutti e andare a vivere dall’altra parte del globo. E’ Plutone nel tuo segno che ti genera grandi pulsione mai avute. Sotto i riflettori c’è anche il rapporto con il padre e/o compagno: cosa veramente di buono c’è per te? Cosa puoi fare per viverlo meglio? Giorni sensibili, in cui la Luna è nel tuo segno: 19 e 20.

AQUARIO: Caro il nostro Aquario, Saturno a gennaio è finalmente è uscito dallo Scorpione, finalmente stai lavorando per fare una vita completamente nuova. Qualcosa finisce o è finito per sempre o comunque le stesse situazioni che tempo fa’ vivevi male ora le vivi con molta tranquillità e stai decisamente meglio. Saturno in Sagittario in sestile ti appoggia e ti dà molta sicurezza e stabilità, mentre un bellissimo Giove in Leone in opposizione ti da una spinta ed una carica mai avuti in vita tua. Sei veramente molto più ottimista, molto più vitale, molto più sereno e felice. Mercurio e Venere inoltre, a gennaio, sono nel tuo segno e la spinta a nuovi incontri, flirt, divertimenti, svaghi, viaggi brevi è fortissima e sicuramente questo accadrà. Giorni sensibili, in cui la Luna è nel tuo segno: 21 e 22.

PESCI: Caro il nostro Pesci, questo cielo di gennaio è molto stimolante. Marte entra nel tuo segno e ti porta una spinta ed una carica fortissimi a fare di tutto…esagerando, come è tipico del tuo segno! Saturno invece, entrando in Sagittario, si pone in quadratura (soprattutto per i nati nella prima decade) e ti richiede due cose per te non molto facili: disciplina e costanza. Puoi sentirti molto stanco ma proprio per questo occorre capire meglio come incanalare le energie, energie che tu spesso tendi a disperdere perché sei tanto ricco nel tuo immaginario e fare i conti con la realtà fisica ti rimane difficile. Ma ho fiducia che riuscirai al meglio a trovare equilibrio. Avrai occasioni nuove ed importanti di lavoro o comunque è questa la sfera che devi rivedere. Nettuno continua ad essere nel tuo segno e ti spinge sempre di più verso tutto ciò che fa’ aumentare la tua creatività come le arti, oltre a darti una forte spinta ad aiutare gli altri. Giorni sensibili, in cui la Luna è nel tuo segno: 23, 24.

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/ DA VICINO NESSUNO È NORMALE: APPUNTI DI PSICOLOGIA /

LA DIREZIONE OSTINATA E CONTRARIA DELL’AMORE LEGGENDO ALAIN BADIOU di ILARIA MARCHETTI

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amore è una procedura di verità. Un’esperienza nel corso della quale viene costruita una verità sul Due, sulla differenza in quanto tale. Questa criptica definizione la troviamo in Elogio dell’amore (tradotto in Italia da ed. Neri Pozza, 2013), in cui in forma di intervista tra filosofi, Alain Badiou dichiara che la “scena del Due” propria dell’amore è il banco di prova del fare esperienza del mondo dal punto di vista della differenza in modo tale da costruire una verità nuova sulla differenza. Contro l’attuale concezione securitaria dell’amore, il filosofo francese, ci mette alle strette su come la nostra epoca sia capace di sotterrare e svilire la dimensione trasformativa dell’incontro d’amore. I legami del nostro contemporaneo che si reggono sull’accordo narcisistico tra due entità che guardano a se stesse, sono quelli a “rischio zero”, perché ci propongono l’assunzione del Due senza l’abbandono del primato dell’Uno. Questo significa che gran parte della panoramica del rapporto amoroso odierna è incentrata sul disimpegno, in modo tale che il profitto torna sempre a favore dell’identità del soggetto. L’incontro con l’altro in tale panorama deve avvenire dentro una sicurezza tale per cui il caso non ha dimora e l’imprevedibile differenza viene misconosciuta a favore della conferma dell’aspettativa di uno scambio scontato. Badiou ci chiarisce che l’amore di oggi è quello che evita l’esperienza autentica dell’alterità a favore di un contratto assicurato tra le parti, che si accordano per il benessere personale. L’amore oggi è vissuto come un rischio inutile, per questo è importante che possa favorire il minor spreco possibile di energia entro un’equilibrata economia delle passioni (cioè un consumismo continuo e moderato del piacere che non metta in discussione la “merce” a scapito del soggetto che la scambia). A fronte di questa deriva, Badiou rilancia invece la forza dell’impegno trasformativo che l’amore

può comportare per i due soggetti coinvolti. L’amore qui proposto è un gesto di fiducia nei confronti del caso.

Una concezione vicina all’ “Idea” di Platone, per il quale l’amore era lo slancio di una scintilla di universale.

Partendo da un momento inaugurale, che è l’incontro, l’amore e’ imparare a fare esperienza del mondo a partire dalla differenza e non più solo dall’identità. A fronte del coraggio di investire in un rischio e in una possibile sofferenza, l’amore rimane una delle poche esperienze possibili nel contemporaneo, in cui il soggetto non guardi solo al proprio interesse di riconoscimento. Seguendo la tesi dello psicanalista Jacques Lacan che parlava dell’amore come tentativo del soggetto di raggiungere l’essere dell’altro superando il proprio narcisismo, Badiou lo definisce “progetto”, “prova”, “costruzione”. Un lavorio costante e poco scontato ci sembra così l’amore, esperienza poco attuale e imprevista, incline a prendere la forma dell’invenzione. Diremmo che l’amore di Badiou è anticonformista e non proprio politicamente corretto, poiché non ha in mente la congiunzione e l’omologazione, bensì la separazione del due e l’esaltazione della differenza.La tesi di Badiou rilancia l’importanza della dimensione di processo propria dell’amore e cioè della sua durata. Quest’ultima è la vera scommessa dell’amore, che non si limita alla promessa del “per sempre”. L’incontro con l’altro è il caso a destinarcelo, la sua durata invece è rara e difficile oltre che dovuta al nostro impegno. “L’avventura ostinata” abbandona infatti col tempo l’estasi dell’inizio, ma se vorrà durare dovrà trovare una maniera diversa di reinventarsi. E allora momento fondamentale di questa costruzione è la dichiarazione dell’amore che Badiou associa all’atto poetico poiché in entrambi i casi il linguaggio si assume il grande rischio di far traghettare la casualità dell’incontro nella promessa del destino. La dichiarazione è un impegno, è il dire la du-

rata e l’ostinazione che vogliamo percorrere. Oggi tutto questo ci sembra quanto più difficile e improbabile, nell’uso così svilito del linguaggio, lontano da un gesto di verità e sempre pronto a sconfermare se stesso. Si susseguono dei punti, delle prove, nell’amore, in cui è necessario rimettersi in gioco, ci dice Badiou, esattamente come avviene nell’implicazione politica che alla stregua dell’amore è anch’essa procedura di verità. Un interessante parallelismo con la politica, ci indica che essa è il processo di verifica di quanto gli individui entro un collettivo siano capaci di creare uguaglianza (e lo Stato nasce per regolarizzare l’entusiasmo e il conflitto entro questo tentativo), in amore invece “si tratta di sapere se i due saranno in grado di assumere la differenza e abbandonare l’identità dell’uno”. Politicamente parlando, l’amore è un “comunismo minimo”, poiché in esso si contrappone l’interesse comune all’egoismo di ciascuno. Rimanendo sul registro della politica, Badiou ci suggerisce anche che la fratellanza appartiene all’esperienza amorosa, poiché come avviene in un collettivo, nella coppia si tratta di far coesistere differenze conciliabili. Sulla “conciliabilità” Badiou sostiene la distanza tra l’amore e la politica. In quest’ultima infatti sembra inevitabile la presenza del nemico e della difesa da esso, mentre nell’amore il conflitto prende la forma entro un dramma, sofferto e difficile, che ha sempre a che fare con la dialettica (a volte violenta) tra identità e differenza. Sussiste però un indissolubile legame tra amore e politica, che non dovremmo comunque dimenticare: in un contesto in cui vige la potenza della proprietà privata e del consumo capitalistico, l’amore non avrà vita facile. Per questo “se vogliamo aprirci alla differenza, ovvero a che il collettivo sia capace di esten-

dersi, una delle esperienze individuali praticabili è la difesa dell’amore. Al culto identitario della ripetizione è necessario contrapporre l’amore per ciò che è diverso, unico, per ciò che non ripete nulla, che è erratico e straniero”.

Alain Badiou è filosofo e scrittore, dal 1999 professore presso l’École normale supérieure di Parigi, dove ha fondato il Centre international d’étude de la philosophie française contemporaine. Il pensiero di Badiou si sviluppa intorno ad alcune polarità: il marxismo; la psicanalisi di Jacques Lacan; la matematica; la scrittura poetica, drammaturgica, narrativa. La sua filosofia proviene dalla riflessione ontologica matematica sulle dottrine costituitesi a partire dall’evento, ossia l’arte, la scienza, la politica, l’amore. Fra le sue opere: Peut-on penser la politique? (1985); L’etre et l’evenement (1988); Manifeste pour la philosophie (1989); Le nombre et les nombres (1990); Logiques des mondes (2006).

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