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Diritti delle donne in America Latina /America Latina

DIRITTI DELLE DONNE IN AMERICA LATINA

a cura del Coord. America Latina

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Nel panorama della tutela dei diritti umani in America Latina (che peraltro presenta preoccupanti segnali di regresso in questi ultimi anni), le donne continuano ad essere particolarmente vulnerabili.

Infatti esse da una parte subiscono spesso in maniera più grave le conseguenze di violazioni generalizzate, a causa di una condizione sociale ed economica più debole e per l’effetto di una cultura largamente “machista” che pervade il continente.

Inoltre, esse sono vittime di violazioni specifiche, in quanto donne, a cominciare dai propri diritti sessuali e riproduttivi negati, per non parlare della pratica dello stupro e in quanto madri, perché testimoni e unica voce che spesso si leva a denunciare e a chiedere giustizia per le vittime, mariti, figli/e e nipoti.

Nell’impossibilità, dato lo spazio a disposizione, di dare un quadro esauriente del problema, cerchiamo di esemplificarne alcuni aspetti.

Parlando di diritti sessuali e riproduttivi non si può non parlare della difficile situazione delle donne in Centroamerica. Per esempio, in El Salvador l’aborto è stato criminalizzato in tutte le circostanze dal 1998, anche quando la gravidanza è il risultato di stupro, incesto o quando la vita della donna incinta è a rischio. Molte donne e ragazze hanno perso la vita o sono state imprigionate a causa del divieto totale di abortire.

In El Salvador non solo si criminalizza ogni donna che subisce una cessazione indotta della sua gravidanza, ma si crea anche un’atmosfera di sospetto nei confronti delle donne quando subiscono emergenze ostetriche e addirittura verso i medici, che sono scoraggiati dal fornire assistenza in casi di gravidanze a rischio o aborti.

Le prove dimostrano che il divieto totale di aborto non riduce il numero di aborti, ma aumenta il rischio che le donne muoiano a causa di aborti illegali e non sicuri. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha avvertito che le leggi restrittive sull’aborto mettono a rischio particolare di aborti non sicuri le donne che vivono in condizioni di povertà e quelle che vivono in aree rurali e isolate. Negli ultimi anni, diverse donne salvadoregne, spesso provenienti da ambienti poveri e svantaggiati sono state imprigionate dopo processi iniqui, caratterizzati da prove inconsistenti e scarsa difesa legale. Tutte avevano sofferto di complicazioni legate alla gravidanza al di fuori di un ospedale e sono state accusate di aborto. Esse hanno subito condanne fino a 40 anni di reclusione per omicidio aggravato.

Alcuni casi recenti di liberazione di donne a seguito della riduzione delle loro condanne non deve far dimenticare che almeno altre 27 donne sono ancora incarcerate sotto la draconiana legge salvadoregna sull’aborto.

L’altra faccia dello stesso problema può essere rappresentata dal Perù, dove nella seconda metà degli anni Novanta, il governo dell’allora Presidente Fujimori mise in atto un programma di pianificazione familiare che si concretizzò nella sterilizzazione forzata di oltre 300.000 donne e che si rivolse soprattutto alle fasce più povere della popolazione, come contadine ed indigene di lingua quechua.

Vi sono prove evidenti che il personale sanitario coinvolto subisse pressioni affinché venissero raggiunte determinate quote di sterilizzazioni e che, in molti casi, le donne non avessero dato il loro consenso libero e informato. Risulterebbe che le donne che si opponevano all’operazione e le loro famiglie venissero minacciate di multe, pene detentive o revoca del sussidio alimentare. Diciotto donne sarebbero morte e diverse avrebbero riportato problemi cronici di salute per la mancanza di un’adeguata terapia post intervento.

Nonostante il dolore fisico e mentale subìto e spesso ancora vivo, molte delle vittime hanno trovato la forza per intraprendere una battaglia per ottenere giustizia, che è iniziata con le prime indagini nel 2004, indagini che in più di un’occasione sono state chiuse e poi riaperte a seguito di pressioni nazionali e internazionali.

A luglio 2016 la Procura penale di Lima ha tuttavia deciso di archiviare il caso di oltre 2.000 vittime di sterilizzazione forzata, affermando che quanto avvenuto all’epoca non costituirebbe un delitto di lesa umanità. Questa sentenza ha rappresentato una dolorosa battuta d’arresto, ma non ha piegato queste donne che continuano nella loro strenua battaglia per ottenere verità, giustizia e riparazione.

In Messico, nella “guerra contro il narcotraffico” la tortura è generalizzata, ma se ne ignora il forte impatto sulle donne. Amnesty International nel 2016 ha analizzato la storia di 100 donne che hanno denunciato torture e altre forme di violenza durante il loro arresto e interrogatorio da parte delle forze di sicurezza. Hanno subito colpi brutali, minacce, semi asfissie, scariche elettriche sul corpo, molestie sessuali, stupri con l’intenzione, in molti casi, di fare loro “confessare” delitti gravi.

Delle intervistate 72 hanno denunciato violenza sessuale, 33 hanno denunciato stupri. Tutte permangono in prigione, accusate di delitti gravi, senza adeguata assistenza medica o psicologica. E i loro torturatori sono impuniti.

Una di loro è Verónica Razo, madre di due figli, aveva 37 anni quando nel giugno 2011, mentre stava camminando per strada nel centro di Città del Messico da una macchina scesero degli uomini armati senza uniformi che la rapirono. Fu portata in un magazzino della polizia federale dove fu picchiata, quasi soffocata, sottoposta a scariche elettriche e ripetutamente violentata da diversi poliziotti. È stata costretta a firmare una “confessione”. Da allora è in carcere in attesa dell’esito del processo. Il suo caso è stato adottato da Amnesty International, e continue sono le pressioni presso le autorità competenti perché venga immediatamente rilasciata e i suoi torturatori sottoposti a giustizia.

Sempre in Messico, da tredici anni la “Caravana de Madres Centroamericanas” denuncia le violazioni dei diritti umani dei migranti del centro America che attraversano il Messico, affrontando uno dei viaggi più pericolosi al mondo.

Sono migliaia infatti i migranti che vengono rapiti, minacciati, picchiati, torturati e a volte uccisi da bande criminali. Si hanno anche evidenze di abusi commessi da agenti dello Stato.

La carovana è costituita soprattutto da donne che cercano figli e figlie, ma anche fratelli, sorelle, compagni, parenti che durante il loro viaggio verso gli USA sono spariti. Le manifestanti giungono dall’Honduras, dal Guatemala, dal Nicaragua e dal Salvador, con un percorso che copre ben 4 mila chilometri e segue la rotta migratoria.

In Argentina, dagli anni della dittatura ad oggi molte cose sono cambiate ma ce n’è una che è rimasta uguale: il lento e rituale girotondo che si ripete ogni giovedì intorno all’obelisco al centro di Plaza de Mayo, a Buenos Aires. A compierlo, settimana dopo settimana, passo dopo passo, sono essenzialmente donne, ormai anziane signore col capo coperto da un triangolo bianco, memoria di un pannolino infantile e del bimbo che un tempo lo aveva indossato, figlio o nipote amato e perduto, scomparso nei labirinti dolorosi della repressione di regime.

Il rito è sempre uguale, anche se loro sono sempre un po’ più lente e curve, ma è cambiata l’atmosfera in cui è immerso. Quando iniziarono a incontrarsi e a camminare in cerchio, mostrando al mondo la foto di chi era scomparso, le Madres e le Abuelas di Plaza de Mayo si trovarono al centro di un mondo che le guardava con uno stupore che si trasformò subito in fastidio ed ostilità. Le chiamavano pazze e vecchie rimbambite ma questo non le fermò.

L’atteggiamento poi cominciò a cambiare, consenso e sostegno arrivarono prima dall’’estero poi dal paese stesso con il ritorno alla democrazia: artisti internazionali cantavano di loro e per loro, gli scrittori raccontavano le loro storie, gli scienziati collaboravano per facilitare le loro ricerche, ci furono perfino candidature per il Nobel.

Ora il vento è di nuovo mutato, negli ultimi anni molti cose sono state messe in discussione. C’è chi le contesta e vuole rivedere il numero ufficiale dei desaparecidos, tagli a finanziamenti rendono difficile realizzare progetti sulla memoria e a Madres e Abuelas sono state perfino avanzate accuse di corruzione. Nonostante questo, le vecchie signore dal fazzoletto bianco continuano a chiedere giustizia e memoria e marciano con vigore sorprendente ogni giovedì.

Anche in Colombia vi sono madri che, come le madres di Plaza de Mayo, hanno avviato una lotta per i diritti umani che non è ancora terminata. Sono le madri di Soacha, località vicino a Bogotà, da cui nel 2008 sparirono 19 giovani, ritrovati alcune settimane dopo in una fossa comune nel nord della Colombia.

I giovani erano stati attirati con promesse di lavoro, venduti alle forze militari, assassinati e fatti passare come guerriglieri uccisi in combattimento. Rientrano fra i casi noti come “falsi positivi”: si calcola che tra il 2002 e il 2008 circa 3.000 civili siano stati sistematicamente vittima di uccisioni extragiudiziali di questo tipo. I militari utilizzavano tale messinscena per dimostrare la loro efficienza nella lotta contro i gruppi della guerriglia e ricevere in compenso denaro, promozioni o giorni di riposo per ogni cadavere.

Soltanto dal 2008 e grazie all’impegno delle madri di Soacha (che comprende mogli, sorelle e figlie dei giovani scomparsi) il fenomeno è stato portato alla luce e lo scandalo ha coinvolto numerosi militari. La battaglia di queste donne continua oggi per contrastare l’impunità e cercare di ottenere giustizia, vedendole doppiamente vittima: non solo hanno perso dei familiari, i cui casi restano ancora per lo più impuniti, ma per la loro ricerca di giustizia subiscono spesso minacce e persecuzioni.

Nonostante nel 2015 si contassero 3.430 indagini aperte dalla magistratura per casi di “falsi positivi”, la maggior parte dei militari coinvolti erano stati liberati, e dopo i recenti accordi di pace tra governo e Farc, i militari condannati hanno chiesto di beneficiare del Tribunale speciale per la pace, con il quale si prevede otterranno notevoli sconti di pena.

Una delle Madres di Plaza de Mayo al ex-ESMA vicino al ritratto di sua figlia scomparsa a 18 anni. Buenos Aires, Argentina, 2013 - Ph.: Espacio Memoria y Derechos Humanos

Una delle Madres di Plaza de Mayo al ex-ESMA vicino al ritratto di sua figlia scomparsa a 18 anni. Buenos Aires, Argentina, 2013 - Ph.: Espacio Memoria y Derechos Humanos

La marcia della “Caravana de Madres Centroanericanas” al passaggio del confine con il Messico. Ph.: Rubén Figueroa / Movimento Migrante Mesoamericano

La marcia della “Caravana de Madres Centroanericanas” al passaggio del confine con il Messico. Ph.: Rubén Figueroa / Movimento Migrante Mesoamericano