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GLI ARTIGLI DEL CONDOR /America Latina

GLI ARTIGLI DEL CONDOR

di Patrizia Sacco - Coordinamento A.L.

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L’America Latina è sempre stata considerata, a volte in maniera un po’ stereotipata e superficiale, il paese delle dittature e dei colpi di stato. Negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso questa era purtroppo la realtà dei fatti nel cosiddetto Cono Sur, ossia la parte meridionale del continente americano.

Il Paraguay viveva fin dal 1954 sotto il pugno di ferro di Alfredo Stroessner, record delle dittature latinoamericane essendo stato deposto nel 1989. Anche in Brasile dal 1964 si susseguivano governi militari che avrebbero permesso libere elezioni solo nel 1989. In Cile Pinochet si era impadronito del potere deponendo il legittimo governo di Salvador Allende l’11 settembre 1973: lo manterrà fino al 1990, quando un referendum dirà un grande no alla sua dittatura. In Argentina il golpe era arrivato nel 1976 e per fortuna del paese le giunte militari continueranno solo fino all’’83, mentre l’Uruguay subiva governi forti tra il 1973 e il 1985. Non erano da meno Perù e Bolivia, nazioni in cui i colpi di stato hanno una lunga tradizione.

È quasi scontato che i governi di questi paesi, accomunati da un’impostazione autoritaria e antidemocratica si guardassero l’un l’altro senza ostilità, ma anzi con una certa simpatia, e fossero ben disposti a collaborare nel reprimere ogni dissenso interno. Che fra loro ci fosse una specie di patto di mutua assistenza era stato più volte denunciato, ma tutto era ridotto a pura teoria, per la quale non mancavano i negazionisti.

Nel dicembre 1992 però avviene un fatto che trasforma la teoria in realtà. A Lambarè, in Paraguay, un giudice riesce ad avere accesso all’archivio di una caserma, dove sospettava fossero nascosti documenti relativi agli anni della dittatura. Quelli che troverà saranno definiti “Archivi del terrore”, testimonianze delle tragedie di decine di migliaia di cittadini sudamericani arrestati arbitrariamente, rapiti, incarcerati, torturati, uccisi, fatti scomparire in quei due decenni nei paesi del Cono Sur. Tutto ciò era frutto di un piano segreto che prevedeva il coordinamento e la collaborazione di governi, eserciti, servizi di intelligence e forze di polizia che operavano per reprimere ed eliminare qualsiasi forma di opposizione. Il Plan Condor (Operazione Condor) era finalmente venuto alla luce. Secondo un documento presente nell’archivio il suo scopo era di “salvare la civiltà cristiana e occidentale dalla morsa del comunismo” e appariva evidente che il governo degli Stati Uniti non ne era all’oscuro ma che addirittura la CIA lo aveva patrocinato.

Le conseguenze di questo piano furono enormi per l’intero continente: i morti e gli scomparsi si possono contare a decine di migliaia. Varie centinaia di bambini nacquero nelle prigioni segrete e furono sottratti alle madri per essere affidati con adozioni illegali a famiglie gradite ai governi. Moltissimi fuggirono dai rispettivi paesi rendendosi conto del pericolo, e cercarono rifugio in Europa e Nord America, lasciando così il Sud del continente privo di un’intera generazione. O per meglio dire gran parte del mondo latinoamericano fu privata del meglio di quella generazione, dei giovani cervelli pensanti e dei cuori palpitanti di impegno morale e civile; un fatto che lasciò conseguenze profonde e durature nelle società così menomate.

Da quegli avvenimenti sono trascorsi decenni e in tutti quei paesi c’è stato un ritorno alla democrazia e a un maggior rispetto dei diritti; un processo lento che in alcuni casi ha portato a un riesame di quanto avvenuto e in altri solo a un tentativo di seppellire il passato doloroso in un oblio pieno di nebbie e segreti mai svelati. Non In Italia però.

A questo punto sono certa che molti si chiederanno che cosa c’entri il nostro paese in tutta questa vicenda lunga e articolata. C’entra e molto. Si tratta di una questione di semplice calcolo, basta pensare a quanta parte della popolazione latinoamericana sia di origine italiana (in Argentina siamo intorno al 50%) per capire che i nostri connazionali non potevano non essere coinvolti in questa vicenda, sia dalla parte delle vittime che da quella dei carnefici.

Il 12 febbraio 2015 ha preso il via a Roma il Processo Condor, che vede sul banco degli imputati 33 ufficiali e funzionari delle dittature civico-militari al potere nei paesi del Cono Sud; l’accusa è di aver sequestrato e ucciso 42 persone accomunate dal fatto di possedere oltre a quella di uno di quei paesi anche la nazionalità italiana.

Al processo si è arrivati dopo una lunghissima inchiesta condotta dal procuratore Giancarlo Capaldo grazie alla legge che permette di giudicare nel nostro paese crimini contro l’umanità compiuti all’estero nei confronti di cittadini italiani.

Gli imputati sono tutti contumaci tranne uno: Jorge Nestor Troccoli, ufficiale dei servizi segreti uruguayani, noto come “il torturatore”, che una decina di anni fa, temendo le conseguenze di un cambio di direzione politica nel proprio paese ha rispolverato il passaporto italiano per venire a trascorrere tranquilli anni da pensionato a Marina di Camerota. Il termine “pensionato” però non deve far pensare a un debole vecchietto che cerca di dimenticare gli errori del passato: Troccoli ha solo 66 anni e al suo attivo c’è la pubblicazione di un libro “L’ira del leviatano”, dedicato a tutti i suoi camerati.

Le udienze del processo si svolgono con cadenza quasi mensile, i testimoni sono molti e vengono quasi tutti da lontano: una lunga teoria di ricordi pieni di un dolore che il tempo non ha attutito. Per molti di loro questo processo ha un valore speciale perché è la prima occasione di essere ascoltati dopo decenni di denunce senza risposta nel loro paese e spesso ringraziano la giustizia italiana per questa opportunità.

Un gran lavoro organizzativo e di sostegno lo sta svolgendo l’associazione 24 Marzo, che da sempre si occupa di temi legati alla giustizia e alle violazioni dei diritti umani nei paesi del processo. La fondazione Basso poi offre dopo ogni udienza la sua bella sede per un incontro tra alcuni dei testimoni e chiunque sia interessato al tema.

I giornalisti naturalmente sono invitati a questi eventi ma brillano per assenza sia qui che nell’aula di Rebibbia che ospita da circa un anno il dibattimento: la stampa italiana ha avvolto il processo in un silenzio imbarazzante.

Tranne vari articoli del Manifesto le grandi testate italiane ignorano quasi le udienze: per trovare qualcosa su Repubblica bisogna ritornare al maggio 2015, quando comparve in aula la figlia di Salvador Allende. C’è voluto il nome di un presidente per risvegliare la nostra stampa addormentata!

Cristina Fynn è arrivata da Montevideo, dove attualmente è assessore, per testimoniare contro Troccoli. La sua storia è intessuta di orrore e abuso: pur non svolgendo alcuna attività politica, ma solo per il suo ruolo in strutture di tutela sociale viene arrestata da agenti in borghese e portata in una prigione segreta. Sarà torturata per mesi, su di lei la picana elettrica verrà applicata nei punti più sensibili e segreti di una donna, fino a costringerla a firmare documenti di cui non conosce il contenuto. Trasferita in una prigione statale, rimarrà in cella per nove anni, tornando libera solo quando il suo paese inizierà un nuovo percorso democratico.

La sua deposizione al processo si è conclusa con questa dichiarazione che Cristina ha voluto regalare a tutti noi:

Sono viva grazie alla solidarietà degli italiani, perché durante la mia prigionia sono stata protetta dal gruppo di Firenze di Amnesty International. Perciò sono enormemente grata al popolo italiano e ho fiducia che la giustizia italiana possa aiutarci a raggiungere la verità, che è un modo di esercitare la giustizia.