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IL FUTURO SARÀ DI TUTTA L’UMANITÀ Intervista agli autori /Attualità

IL FUTURO SARÀ DI TUTTA L’UMANITÀ Intervista agli autori

di Giuseppe Provenza

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Abbiamo intervistato gli autori del libro “Il futuro sarà di tutta l’umanità – Voci dal carcere” di Antonella Speciale ed Emanuele Verrocchi, Dissensi Edizioni, 2015. (1)

Antonella, di Acireale, si occupa di laboratori di scrittura autobiografica e creativa presso gli istituti penali per minori e adulti.

Emanuele, di Sulmona, sindacalista, si occupa, fra l’altro, di immigrazione e di politiche per la legalità.

Dal libro, che riporta le riflessioni degli autori sulla base delle loro esperienze come volontari nelle carceri, accompagnate anche da interessanti e talvolta toccanti composizioni dei carcerati, emerge con chiarezza l’antico dilemma, mai risolto da Beccaria in poi, se, nei confronti di chi viola la legge, debba prevalere la punizione, in particolare il carcere, o la riabilitazione.

Chi ha a cuore i Diritti Umani non ignora come a base di questi si ponga il concetto di dignità di ogni essere umano, senza condizioni né eccezioni, e non può, quindi, che privilegiare ogni percorso che conduca alla consapevolezza dell’errore e all’affermazione della parte migliore che certamente esiste in ogni essere umano.

Tuttavia è un percorso sempre difficile e in alcuni casi anche senza successo.

Nel libro si legge di questa speranza, che la punizione sia strumento per la rinascita di una nuova persona, speranza che vive in tanti operatori e si manifesta in tante persone che stanno vivendo la triste realtà del carcere e che, dal libro si scopre, possono trovare momenti di catarsi lavorando con operatori, come i nostri autori, che, con il loro meritorio e difficile lavoro, offrono a coloro che stanno pagando un lodevole contributo al recupero della loro parte migliore.

La lettura di questo interessante lavoro e di ciò che delle persone che stanno pagando hanno saputo esprimere, offre la speranza che si possano ogni giorno di più conquistare, pur affrontando una difficile strada, metodologie sanzionatorie sempre più umane ed efficaci nella strada del recupero.

La lettura del libro ha fatto sorgere alcune domande raccolte in questa intervista agli autori.

D. Vorrei iniziare questa intervista dall’art. 27 della Costituzione Italiana, da voi citato, che, fra l’altro dice: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Evitando ogni generalizzazione e riferendoci esclusivamente alle vostre esperienze dirette, avete riscontrato casi di mancato rispetto di questi principi? E viceversa ricordate episodi di autentica umanità e casi di detenuti realmente riabilitati?

R. È interessante notare come nella Costituzione si faccia riferimento alle “pene”, non necessariamente al carcere, innanzi tutto, luogo in cui oggi si sconta normalmente la pena. Ebbene, la prigione è di per se stessa contraria al senso di umanità: è una gabbia dove un uomo rinchiude un proprio fratello. Dover chiedere di potersi spostare da un punto all’altro dell’edificio, vivere in pochi metri quadri gomito a gomito con altri uomini, chiedere di potersi fare la doccia, essere vessati, maltrattati e spesso, ahimè, picchiati. Cosa c’è di umano, vi domando? I casi di autentica umanità in un luogo così infernale stanno solamente nella coscienza di singole persone (dunque non nel sistema) che, nonostante lavorino là dentro, svolgono il loro mestiere senza perdere la propria umanità (cosa peraltro difficile in un ambiente così patogeno). Il carcere, dunque, non riabilita nessuno, questa è una falsa idea da sfatare, peggiora chiunque, e non è certo un luogo per recuperare e reintegrare le persone che hanno commesso crimini. Conosco persone che hanno cambiato vita, soprattutto ragazzi incontrati all’IPM, che l’hanno fatto per loro volontà, e grazie a input esterni diversi, anche grazie agli operatori volontari e alla scuola, del resto. (A.S.)

D. Uno dei primo capitoli “Libertà” fa riflettere. Un detenuto si chiede “Chi è veramente libero ?” e continua “io sono veramente libero” …… “la libertà è pensiero”. È certamente vero e viene da chiedersi se tanti non siano stati finalmente liberi una volta in carcere, liberi da un contesto in cui se non sei fuori dalla legge non sei uomo, in cui devi dimostrare anche ciò che non sei, in cui c’è sempre qualcuno più forte a cui devi conformarti. La mia domanda è se, aldilà di chi ha scritto le parole citate, avete avuto modo di percepire che questa sorta di “liberazione interiore”, pur nella prigionia, sia una realtà riscontrabile e percepibile?

R. Viene in effetti da chiedersi: «chi è veramente libero? Chi può dire cosa sia la libertà?». Nel buio estremo della carcerazione, molto spesso affiora una luce, che è quella della rivisitazione interiore, tornare al proprio vissuto, ritrovare il senso perduto, capire che, molto spesso, non si è stati liberi interiormente. Un ergastolano ostativo più avanti nel libro scrive: «Anche l’idea di libertà è in continuo divenire, in quanto muta a seconda dell’esperienza che la persona acquisisce, cioè a seconda della conoscenza …». Oggi per lui «Libertà è: amore, verità, bellezza, bontà». Credo che noi tutti e soprattutto le istituzioni competenti abbiano il dovere di prendere atto di questi cambiamenti interiori della persona detenuta, troppo spesso cristallizzata dentro l’immagine del reato commesso. (A.S.)

D. Chi è incappato nei rigori della giustizia, quando si trova a parlare della sua storia può riconoscere i propri errori, o può, anche quando non si proclama innocente, assumere il ruolo della vittima della società, convincendo anche sé stesso che è stata la realtà che lo circondava a portarlo alle azioni delittuose commesse. Poiché questi diversi atteggiamenti, riconoscere gli errori, sentirsi vittima, o proclamarsi innocente, possono influire, in senso positivo o negativo, sulla possibilità che la persona riesca a percorrere per intero la strada della riabilitazione, cosa potete riferire su quali di questi atteggiamenti avete più frequentemente riscontrato nella vostra esperienza?

R. Nessuna delle persone con le quali ho interloquito nel corso della mia esperienza ha mai avuto atteggiamenti di vittimismo, ma, al contrario, una presa di coscienza di ciò che stava pagando, forse in modo assurdo, perché, appunto, il carcere con le sue vessazioni inutili è assurdo, non ha nulla a che vedere con la pena in sé per sé secondo il nostro sistema di giustizia retributiva. In carcere ho conosciuto parecchi innocenti, che con molta dignità attraversavano la loro stagione all’inferno con una forza d’animo incredibile. Credo che dobbiamo molto a queste persone, dovremmo riflettere su questo, in fondo gli abbiamo rovinato l’esistenza. I colpevoli scontano gli anni con responsabilità. Ma l’ho già detto, il carcere non riabilita, in carcere si paga, e basta. (A.S.)

D. Si sente spesso dire che il carcere può essere la migliore scuola di criminalità. Secondo voi questo è un luogo comune privo di fondamento, è una esagerazione o è una triste realtà ? Qualora voi siate per la terza ipotesi, ritenete che ciò sia ineluttabile o vedreste delle modalità diverse per applicare la giustizia nel rispetto dei principi enunciati dalla Costituzione Italiana?

R. È la triste realtà. Ecco perché vogliamo aprire questo dibattito con la società, vogliamo che di carcere se ne parli il più possibile, che le persone capiscano che anche dal punto di vista della pubblica sicurezza la prigione non serve a nulla (si pensi alla percentuale di recidiva, quasi il 70% per chi sconta la pena in carcere): una volta uscite dal carcere, le persone tornano a delinquere, non sanno fare altro, e portano addosso uno stigma sociale che pesa moltissimo. Ecco perché, se utilizzassimo i fondi per costruire strutture alternative, terapeutico – riabilitative, non solo restituiremmo la persona migliore a se stessa, ma anche alla società, che verrebbe veramente tutelata, oltre a creare posti di lavoro per figure professionali oggi a spasso. (A.S.)

D. Conosciamo tutti la grave problematica dell’affollamento delle carceri italiane, diventata perfino oggetto di giudizio, e di condanna, da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Cosa potete riferirci, al riguardo, della vostra esperienza?

R. Il sovraffollamento c’è, esiste, soprattutto in media sicurezza, e tra l’altro è dovuto anche al fatto che molte persone sono in carcerazione preventiva, in attesa di giudizio, o non hanno i soldi per pagarsi un buon avvocato, o non ci sono strutture dove poter scontare i domiciliari non avendo loro dimora usufruibile. Anche qui, bisognerebbe pensare a cambiare molte cose. (A.S.)

D. Nel libro viene fatto rilevare che in Italia soltanto il 25% dei detenuti lavora, contro percentuali molto più alte in altri paesi. Poiché il lavorare in carcere appare un passo importante nella strada della riabilitazione e quindi della non recidiva, anche e soprattutto consentendo una continuità di lavoro a fine pena, sembra importante comprendere le ragioni di ciò. In base alla vostra esperienza cosa, in atto, mantiene bassa questa percentuale e, conseguentemente, cosa si potrebbe fare per portare l’Italia, anche in questo caso, a livelli europei?

R. Distinguiamo tra il lavoro ‘intra murario’, ossia quello possibile dentro le carceri, e il lavoro fuori dal carcere, dopo che si è scontata la pena.

Nel primo caso, la cosiddetta ‘legge Smuraglia’ contempla sgravi, benefici e agevolazioni che possono essere ottenuti da cooperative e aziende pubbliche e private che instaurino rapporti di lavoro subordinato con i detenuti. A nostro avviso, tale legge risulta sottoutilizzata e non si comprende, ancora, il suo reale valore da parte del sistema aziendale italiano: le aziende italiane, con l’attività svolta in carcere, potrebbero valorizzarsi e spendersi dal punto di vista dell’immagine e del posizionamento commerciale (marketing sociale e responsabilità sociale). Nel secondo caso, registriamo l’assenza di una rete strutturata, nella società, in grado di funzionare da deterrente rispetto all’azione deviante. Abbiamo enormi difficoltà, quindi, di reinserimento. Insomma, non esistono servizi sociali adeguati. Lo Stato deve spendere di più, portandosi ai livelli europei (nel libro citiamo l’esempio dell’Austria).

Infine, per entrambe le considerazioni (il lavoro dentro e fuori il carcere), strategica diventa l’attività dei direttori, che dovrebbero utilizzare di più e meglio la normativa esistente ed assumere, quindi, un ruolo di maggior protagonismo nei contesti territoriali in cui operano per garantire, anche, quella necessaria continuità lavorativa a fine pena. (E.V.)

D. Va detto che, come avviene per tutti gli uomini in generale, anche i detenuti, pur se tutti uguali nei diritti, come ovvio, non sono tutti uguali nei comportamenti. È probabile, o almeno così si può sperare, che vi sia una maggioranza di sfortunati nati e cresciuti in realtà familiari e/o sociali difficili che li hanno portati a commettere reati anche gravi. Sono quelli che un sistema sanzionatorio ben concepito e ben realizzato può recuperare. Tuttavia è pur vero che esiste anche l’altra realtà dei più difficili, pur volendo riconoscere che una possibilità di riabilitazione esiste in ogni uomo. Ovviamente non va mai dimenticato, come asserisce la nostra Costituzione, sia pure con altre parole, che ad ogni essere umano va sempre pienamente riconosciuta e rispettata la sua dignità di essere umano. Come ritenete voi che vadano gestiti questi casi particolarmente difficili, tenendo conto, da una parte, della loro dignità, e dall’altra parte della necessità di difendere l’intera società, e quindi singoli individui, da persone che hanno dimostrato particolare pertinacia e particolare abilità nel delinquere, anche e soprattutto in maniera organizzata, a dispetto di ogni legge e di ogni controllo?

R. La mia esperienza si snoda soprattutto in Alta Sicurezza, in quel circuito, cioè, dove sono detenute le persone imputate e condannate per reati di stampo mafioso. Sono arrivata ad incontrare gli ergastolani ostativi, i cosiddetti “fine pena mai”, coloro i quali non usciranno mai più dal carcere, né potranno usufruire dei normali benefici penitenziari di cui gli altri ergastolani (anche pluriomicidi) usufruiscono. Questo è contrario all’art. 27 della Costituzione, è praticamente una pena di morte goccia a goccia, e nessuno sembra interessarsene, nonostante abbiamo oggi circa 1200 ergastolani ostativi, molti dei quali hanno compiuto un percorso di rivisitazione interiore che merita di essere preso in considerazione dalle autorità competenti per valutare il loro futuro come cittadini, ad oggi inesistente. Sono persone provenienti o tutt’ora stanziate nel regime del 41 bis, ritenuto dalla Corte Europea “stato di tortura”. In Alta Sicurezza, nulla ha a che fare con la sicurezza, è solamente un regime più inflittivo, più vendicativo (perché vedere meno ore i familiari, avere meno ore di attività o non averne per niente?). Se qualcuno ha oltraggiato lo Stato, come pensano di farglielo rispettare infliggendo loro i peggiori maltrattamenti? Nessuno capirà cosa è uno Stato, e perché rispettarlo. È una ricerca ai capri espiatori da punire in un puzzle molto più complesso della storia del nostro Paese. (A.S.)

«Capisco che ci vuole coraggio ad incontrarsi e confrontarsi, e a rispettare l’articolo 27, è vero: eppure solo il reinserimento elimina la possibilità di recidiva […] La condanna, stabilita dai Tribunali, non deve essere “tempo vuoto”, poiché un individuo va restituito alla società migliore di prima (art. 27 della Costituzione)» (da Il futuro sarà di tutta l’umanità – Voci dal carcere, Dissensi edizioni).

(1) - Il libro è stato presentato con Amnesty Sicilia in marzo a Catania e sarà presentato, sempre con Amnesty Sicilia, in maggio a Palermo.