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SUPERARE LE ISTITUZIONI TOTALI. Un approccio psicosociologico /Sociologia

SUPERARE LE ISTITUZIONI TOTALI. Un approccio psicosociologico

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di Aristide Donadio

Tante gabbie, altrettanti piccoli teatri, in cui ogni attore è solo, perfettamente individualizzato e costantemente visibile. Il dispositivo panoptico predispone unità spaziali che permettono di vedere senza interruzione e di riconoscere immediatamente. Insomma, il [vecchio] principio della segreta viene rovesciato; o piuttosto delle sue tre funzioni – rinchiudere, privare della luce, nascondere – non si mantiene che la prima e si sopprimono le altre due. La piena luce e lo sguardo di un sorvegliante captano più di quanto facesse l’ombra, che, alla fine, proteggeva. La visibilità è una trappola. (1)

Il Panopticon di Jeremy Bentham

Il Panopticon di Jeremy Bentham

Nel 1791 il filosofo Jeremy Bentham progettava il panopticon, la prigione ideale ispirata al mito greco del gigante Argo Panoptes con cento occhi, ritenuto pertanto ottimo guardiano; la struttura è radiocentrica, con una torre centrale, che alloggia un guardiano reale o ideale che può osservare senza essere osservato, e una raggiera di celle con i detenuti, ogni cella con due finestre, una esterna per ricevere la luce ed una interna per consentire il controllo. L’assunto su cui si basava Bentham era che il detenuto, sapendo di essere costantemente osservato, adatterebbe progressivamente il proprio comportamento alle regole vigenti in modo progressivo e automatico: “un nuovo modo per ottenere potere mentale sulla mente, in maniera e quantità mai vista prima”, come ebbe a dire lo stesso filosofo che elaborò tale progetto proprio negli anni della rivoluzione francese e che, pur ammirandone i principi, paradossalmente divenne a sua insaputa l’antesignano del “grande fratello”, l’espressione più inquietante e devastante d’un potere anonimo e omnipervasivo, ormai ben al di là della struttura detentiva, delle mura delle istituzioni totali: un potere biopolitico, come ebbe a dire Foucault. Il panopticon è stato preso a modello di diverse prigioni e persino fabbriche (lo stesso Bentham applicò il proprio progetto ad una sua fabbrica nella quale lavoravano detenuti). In una di tali prigioni-macchina contemporanee venne detenuto José Revueltas nel Carcere di Lecumberri, Città del Messico, penitenziario in perfetta sintonia con la concezione benthamiana, inaugurato nel 1900 dal generale Porfirio Díaz e attivo sino al 1976. Revueltas venne accusato di esser stato leader delle rivolte studentesche che nel 1968 imperversarono anche in Messico, senza che in nessun processo venisse dimostrato alcun suo reato, e durante la sua prigionia scrisse il racconto “Le scimmie” (2). Tristi esempi italiani sono le carceri borboniche di Santo Stefano (dove venne recluso anche Sandro Pertini) e il carcere di Avellino, nonché quello di Campobasso, ancora attivo.

E’ sorprendente cogliere come e quanto il modello penitenziario del panopticon contenga in nuce la struttura degli attuali modelli societari; non a caso lo stesso Foucault lo adopera ad esempio paradigmatico di ciò che lui stesso definisce il biopotere, la società della biopolitica, la capacità sempre più raffinata e pervasiva del potere politico, nelle sue varie manifestazioni, di decidere non più solo della morte o delle varie afflizioni a guisa di punizioni inflitte, ma della vita e del corpo degli individui, delle loro stesse esistenze, attraverso vari dispositivi e forme di modellamento progressivo.

Del resto il carcere, e le istituzioni totali in genere, hanno funzionato, più o meno consapevolmente, da veri e propri laboratori sociali, all’interno dei quali verificare sin dove, quanto e come controllare, plagiare, condizionare e, in ultima analisi, de-umanizzare un essere umano, per piegarlo alle logiche del potere vigente, all’idea di –civiltà– dominante.

Non solo una questione di controllo tout court, quindi, all’interno del modello del panopticon, ma anche luogo privilegiato di osservazione nel senso più temibilmente “scientifico”: un luogo, quello dell’osservatore, da cui poter osservare il processo di de-umanizzazione di cui sopra, vale a dire come sia progressivamente possibile “smontare”, decostruire progressivamente un’essenza umana (3); ancora, questa macchina-prigione anticipa quanto il controllo ossessivo, onnipervadente, ininterrotto possa entrare psichicamente nel reprobo come nel “libero” cittadino (libero come può esserlo il protagonista del “The Truman show”), indotto inesorabilmente, attraverso l’industria culturale (4) e l’ “esercito di professionisti” di cui parla lo stesso Foucault, ad assumere una ed una sola possibile identità all’interno d’una sola concepibile cittadinanza: lui stesso, alla fine, autore inconsapevole di continue autocensure, di spaventose auto-mutilazioni.

L’esercito di professionisti, costituito da sacerdoti, educatori, psicologi, medici, giornalisti ecc., stabilisce cosa sia giusto e cosa sbagliato, quale identità sessuale abitare e come, quali valori sia lecito e desiderabile perseguire, come concepire e gestire il proprio corpo e verso quale idea di salutebenessere, se quanto e come sia lecito pensare e desiderare di essere (5). Quindi il panopticon preconizza l’essenza e la struttura delle società contemporanee per almeno tre aspetti fondamentali: controllo, osservazione e condizionamento, aspetti che fanno capo, evidentemente, ad una regia centrale, ad un potere oggi non più tanto occulto, ma chiaramente riferibile a precise oligarchie politico-economiche quali la cosiddetta Troika (Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale e Commissione Europea), a loro volta espressione di precisi interessi di multinazionali e centri di potere geopolitico. Controllo, osservazione e condizionamento sono chiaramente sinergici, rafforzandosi ed alimentandosi reciprocamente e, mentre mercato, comunicazione e scienza agiscono quasi all’unisono per l’osservazione e il condizionamento, il controllo si espande a macchia d’olio, riuscendo a seguire gran parte dei nostri movimenti attraverso telecamere, carte di credito, bancomat, telepass, computer, telefonini (6).

Foucault, che aveva conosciuto la prigione, ci spiega bene il modo in cui il potere si è venuto organizzando e viene esercitato nelle società contemporanee mediante “dispositivi di controllo” sempre più pervasivi, sino a consentire al potere stesso di appropriarsi della vita delle persone (la biopolitica, appunto), attraverso strumenti e istituzioni: la vita che diventa oggetto del potere che vuole piegare ai propri interessi-bisogni ed alla propria logica non più solo le persone in quanto tali, ma la loro stessa esistenza: “un potere [perverso] che viene da ogni dove e si moltiplica in forme infinite [per cui] ogni rapporto sociale è espressione di [questo] potere” (7).

Augusto Boal, che aveva ideato una metodologia drammaturgica utile a sviluppare nelle persone e nelle comunità forme di consapevolezza verso i meccanismi di oppressione portati avanti dalle dittature dei paesi latino-americani, allorché fu costretto a rifugiarsi in Europa, a Parigi, dovette ben presto rendersi conto che i processi di coscientizzazione auspicati dal suo connazionale, il pedagogista Paulo Freire, e da lui espressi attraverso il Teatro dell’Oppresso non potevano facilmente trovare, in Europa come del resto in gran parte dell’Occidente, una reificazione dell’oppressore, giacché si trattava di forme di dominio e di oppressione assai più perverse e sofisticate: non esisteva in Europa la figura del dittatore; l’oppressione, quindi, non era identificabile con precise figure e ruoli di oppressione, essa si celava e si cela in forme più subdole di violenza. Galtung difatti considera l’esistenza di tre principali forme di violenza: quella diretta, che vede lo scontro concreto in tempo reale fra aggressore e vittima; quella strutturale, esito delle profonde sperequazioni nella distribuzione di ricchezze e risorse che Galtung stesso (sociologo e matematico) ha calcolato nel rapporto di uno a cento per morti provocate, aspetto di cui addebita la responsabilità alla scienza politica occidentale; e infine una violenza di tipo culturale, costituita dalle varie motivazioni intellettuali e culturali volte a giustificare il mantenimento delle prime due: nazionalismi, razzismi, sessismi e le diverse forme di meccanismi di difesa psicologici (razionalizzazioni, intellettualizzazioni) messi in atto per legittimare comportamenti direttamente o indirettamente violenti. Boal, quindi, nel suo rifugiarsi in Europa si trovò a lasciare una violenza diretta, da cui scappava, per trovarsi a fronteggiarne una di tipo strutturale e culturale. Il dramma di questa situazione sociale, politica e culturale risiede nel fatto che risulta estremamente difficile mostrare il collegamento fra talune scelte politico-economiche (e la loro evidente correlazione con aspetti socioculturali) e le conseguenze, nel medio-lungo periodo, in termini di morbilità e mortalità, oltre che di qualità della vita. Rimodulando la sua metodologia, elaborò le tecniche del “poliziotto nella testa”, ad indicare le conseguenze manipolative del “pensiero unico”, le condotte autocensorie, l’interiorizzazione d’una norma e d’una legge assai lontana dal concetto di giustizia. Derrida, del resto, ben ci mostra come l’unico momento in cui l’umanità possa davvero avvicinarsi al concetto di giustizia (8) è quello dell’epokè che avviene nel corso del processo di decostruzione delle forme attuali di legge e giustizia.

La profezia di Bentham si è dunque realizzata ben al di là degli interventi sul deviante all’interno dell’universo detentivo ma, incredibilmente e scandalosamente, sulla popolazione tout court in seno alle “avanzate democrazie occidentali”!

Un esempio paradigmatico di tale deriva viene fornito proprio dalla pre-potenza, che appunto presuppone un pre-potere, di ciò che all’uomo comune appare come più asettico e neutrale: la scienza. Può verificarsi che studiosi pagati dalle multinazionali inventino delle malattie, diffondano attraverso i media allarme per tali malattie e incoraggino l’acquisto di farmaci già pronti per la cura di tali pandemiche malattie (9); può accadere che un individuo normalissimo, sotto l’influsso di una qualsiasi persona col camice bianco, possa compiere azioni che mettono a repentaglio la stessa vita di suoi consimili, come ci mostra il famoso esperimento di Milgram sull’obbedienza all’autorità (10) e come ben descrive la Arendt nei suoi altrettanto famosi testi. Si tratta di una scienza che, contestata sulla stessa scientificità del suo metodo (11), fatica a ritrovare assetti paradigmatici che siano etici, rispettosi della dignità umana e che abbiano realmente la salute, come oggi intesa dall’OMS (12), come unica propria finalità.

Una ricerca che certamente anticipò il dibattito contemporaneo sui limiti del sistema detentivo e sulle sue forti implicazioni politiche è stata senz’altro quella condotta da Philip Zimbardo, del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Stanford, nell’estate del 1971 sugli effetti psicologici e psico-sociali del contesto e dei ruoli applicato all’ambito carcerario. Zimbardo si ispirò esplicitamente agli studi di Le Bon sul fenomeno della de-individuazione, per cui individui di un gruppo coeso o d’una folla possono tendere alla perdita di identità personale, consapevolezza e senso di responsabilità sviluppando impulsi anti-sociali. L’esperimento presso la Stanford University voleva verificare se cambiamenti apprezzabili di atteggiamenti e comportamenti potessero verificarsi in soggetti sperimentali all’interno d’una riproduzione di situazione carceraria. L’ipotesi su cui si lavorava considerava determinanti, per le modifiche di atteggiamenti e comportamenti delle persone, l’ambito situazionale: il contesto, il “contenitore”; l’appartenenza ad un gruppo (il noto fenomeno psicosociale dell’ “in group/out group”); il vissuto di ruoli e status comuni a ciascun gruppo. I soggetti vennero suddivisi in maniera random in due diversi gruppi di “prigionieri” e di “carcerieri”. Nel giro di poche ore, il solo fatto di appartenere a diverse categorie fece prevalere progressivamente un’identità gruppale di tipo difensivo e antagonista col conseguente stigma verso quanti appartenessero all’altra categoria. La spoliazione identitaria e di ruoli avveniva obbligando i “detenuti” di Stanford a subire perquisizioni anche intime, una rasatura totale di capelli, la somministrazione di disinfettante per tutto il corpo, per fare indossare casacche color kaki e talvolta cartoni calati sulla testa (ma anche senza cartoni i prigionieri non potevano comunque guardare i carcerieri negli occhi) per annullare ogni possibile forma di comunicazione fra carcerieri e prigionieri nonché tra i prigionieri stessi. Anche in tale esperimento risultò determinante la possibilità di avere contatti con le “vittime” per gli effetti che essa ebbe sull’aumento di tendenze empatiche e umanizzanti: da Fromm (13) abbiamo appreso che, per poter sviluppare condotte aggressive, infatti, siano necessari due presupposti: de-umanizzare la vittima e la de-responsabilizzazione dell’aggressore. Il risultato fu una serie impressionante di abusi di ogni genere, anche sessuali, da parte delle guardie carcerarie, tale da costringere ad interrompere l’esperimento dopo soli sei giorni, pur essendo previsto per due settimane. La stessa assistente di Zimbardo richiamò con forza l’attenzione sul limite etico della stessa ricerca. L’esperimento, al di là di tali limiti, confermò tristemente l’ipotesi di partenza, trovando impreviste coincidenze fra certe forme di maltrattamento e tortura fisica e psichica adottate dai carcerieri di Stanford ed episodi reali verificatisi all’interno di vere prigioni statunitensi e di cui non si era a conoscenza nelle fasi dell’esperimento. Al di là di queste conferme va segnalata l’impressionante somiglianza fra ciò che accadde a Stanford e ciò che si verificava e purtroppo si verifica ancora in situazioni carcerarie o in situazionilimite: persino la somiglianza fra le “divise” dei “detenuti” di Zimbardo e quelle dei detenuti veri di Abu Grahib o di Guantanamo, ad opera di veri soldati occidentali. Sembra quasi che questo genere di esperimenti, discussi e discutibili sul piano etico ma tristemente efficaci e rivelatori, non servissero più solo a denunciare, come nelle intenzioni dei ricercatori, le condizioni che possono condurre a estreme violazioni di diritti umani, ma venissero poi anche adoperati da menti criminali (come la scuola per la tortura (14) di Fort Benning in Georgia, USA, un tempo “Scuola delle Americhe”, oggi “Istituto per la cooperazione sulla sicurezza dell’emisfero occidentale”) per addestrare torturatori di tutto il mondo, come i dittatori piazzati in America latina. La tortura è stata teorizzata negli Stati Uniti (sinanche nel corso delle primarie 2016 da uno dei candidati repubblicani, Trump) come strumento di difesa legittimo nel corso di un lungo dibattito ancora in corso; la stessa Italia è stata più volte denunciata dalla Corte europea e dal CPT (Comitato per la Prevenzione della Tortura) non solo per il sovraffollamento cronico, ma anche per l’uso del cosiddetto 41 bis: il carcere “speciale” per detenuti rei di associazioni terroristiche o mafiose. Del resto anche l’ergastolo si configura come strumento di tortura: la pena di morte in un carcere che diventa il paradosso evidente dell’art. 27 della Costituzione, giacché nessun recupero e nessuna rieducazione potranno mai avverarsi. Un argomento, quello dell’ergastolo, di cui si occupa un contributo specifico in questo lavoro collettaneo, ma sul quale vorrei solo riferire una frase che trovo esteticamente folgorante del mai troppo compianto Pietro Ingrao, recentemente scomparso: “Sono contrario all’ergastolo semplicemente perché non riesco a concepirlo”.

Carcere e cultura

Lo scenario carcerario s’inserisce in un contesto socio-culturale che è espressione di ciò che Galtung definisce la “reinvenzione del fascismo” (15) in un tipo di società che Marcuse definiva “ad una dimensione” (16) nella quale viene incoraggiata una sorta di anestesia affettiva e intellettiva (17), mentre contemporaneamente viene scoraggiata ogni possibile forma di scambio effettivo, di conflitto costruttivo, di scontro-incontro con l’altro da sé; la comunicazione effettiva viene sostituita da una virtuale, si diffonde ciò che Morelli definisce “terrore pacificato” (18) nell’ambito d’un narcisismo secondario e quindi patologico in cui l’altro, come orizzonte di riferimento, come fonte di legittimazione, scompare, per far posto ad un “Io lieve” e ad un consumismo caratterizzato da un avere necrofilo che mortifica l’essere. (19)

In un contesto così anomico, mentre in Italia imperversa l’ultima riforma del sistema scolastico (che vede un’accelerazione sul fronte della privatizzazione e dell’aziendalizzazione, la mortificazione degli organi collegiali per rinforzare la “cultura del capo”), può paradossalmente accadere che sia proprio il carcere, superato attraverso forme e dimensioni non alienanti, il luogo e l’osservatorio privilegiato per l’analisi critica dei paradigmi culturali dominanti. Il carcere può diventare fucina di decostruzione di identità singole e collettive alienate e luogo di riesame e sperimentazione di individualità e intersoggettività basate su un’idea alternativa di azione sociale, di comunicazione; un luogo che, proprio grazie al suo essere “diabolico” (20), può assurgere a esempio paradigmatico di un’intersoggettività alternativa, ancorché sperimentale, come laboratorio di politica germinale autentica, scevra da sovrastrutture e da schemi stratificati e alienanti, in una sorta di nemesi storica che si abbatta contro la società dei probiviri, dei “giusti”, dei normali; un luogo in cui sperimentare la possibilità di ricollocare l’alterità al centro della costruzione identitaria (21), in cui ripristinare il senso e la sacralità dell’altro-da-sè, a partire dal “prendersicura-di” dei neo-femministi. Un’ottica, quella neofemminista (22), secondo la quale la legge non può e non deve essere uguale per tutti, dovendosi considerare il singolo percorso individuale e dovendosi basare il giudizio su di una particolare capacità di ascolto e di empatia che, sola, può assicurare una giustizia utile a tutte le parti in causa.

Il carcere e il carcerato, da “pietra di scarto” possono divenire allora “testata d’angolo”, come nell’idea del barbone e del barbonismo che ha Marcel (23), quando afferma che il barbone, e la prospettiva che egli può avere della civiltà contemporanea, possa avere una funzione salvifica per il mondo perché cerca, più o meno consapevolmente, una risposta a problemi esistenziali che la società dimentica o non è in grado di affrontare, presa dal proprio vissuto pragmaticoburocratico. Il detenuto, e l’universo detentivo che lo connota, può dunque venirsi a trovare tra le pieghe d’una normalità patologica che fatica a trovare l’orizzonte della sanità, assurgendo egli stesso al ruolo di metafora vivente delle contraddizioni e aporie socioculturali. Similmente, Jaspers descrive il rapporto tra genio e follia (24): paradigmi culturali e quadri di senso dominanti mostrano tutta la loro parzialità, insufficienza e provvisorietà proprio nelle situazionilimite come la morte, la follia, la devianza. Jaspers aiuta a comprendere anche la contrapposizione fra ragione e scienza da un lato, che cercano di oggettivare l’esperienza all’interno di mappe definite-definitive, e l’esistenzialismo e l’irrazionalismo dall’altro, che, non accontentandosi dei quadri interpretativi esistenti e dei limiti imposti al sapere ed alla ricerca di senso, decostruiscono e reinterpretano sistemi di riferimenti e simbolismi, celebrando e rispettando la centralità dell’ “essere-in-relazione”, la sacralità irrinunciabile dell’Altro.

Recuperando categorie interpretative gramsciane è facile cogliere la forte crisi attuale della democrazia come “entropia del politico”, contraddistinta dallo scollamento progressivo fra rappresentanti e rappresentati; donde un vulnus politico e socioculturale che apre lo spazio all’intrusione di poteri fuori dal controllo dell’opinione pubblica e degli ambiti istituzionali tradizionali, con la possibilità di “colpi di Stato” reinventati in un processo di giustapposizione e progressiva sostituzione d’uno Stato-burocrazia ad uno Stato-sistema politico: “[...] La governance è il politico senza stato che, non creando nuove istituzioni, ma avvalendosi di “tecnologie” e “dispositivi” di potere, aggira gli stati nazionali e li sottomette, trasformandoli, con la sussidiarietà, in strumenti esecutivi dei propri indirizzi. Politica dell’austerità e crisi della democrazia avanzano mano nella mano, non solo per i contenuti sociali ma anche per la introduzione di nuove procedure di potere, che aggirano il politico e che sembrano voler prefigurare una legalità sempre sganciata e autonoma da ogni forma di legittimità” (25), con la piena sottomissione ai poteri forti di oligarchie quali la cosiddetta Troika.

Pasolini affermava, profeticamente: “Prevedo la spoliticizzazione completa dell’Italia: diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi. Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso... Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in definitiva non politiche. La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà, e come.” (26)

Dall’ –umano, troppo umano– si è passati, quasi impercettibilmente, al –non umano– e le sperimentazioni, che fossero consapevoli o meno, delle condizioni e dei vissuti de-umanizzanti nelle istituzioni totali, grazie alle torsioni ed alle possibili manipolazioni che esse consentivano, hanno reso palese non solo l’assenza di limiti alle possibili manipolazioni, ma anche l’estensibilità di tale processo dalla realtà intra-muraria a quella della cosiddetta normalità. La natura umana, già fragile e plastica di per sé, diventando oggetto di violenze e manipolazioni sistemiche e –scientifiche– per renderla funzionale a logiche tutt’altro che umane, progressivamente perde, per la prima volta nella sua storia, non solo la sua unitarietà, ma la sua stessa essenza. Come per una formidabile e irreversibile scissione dell’atomo, la natura umana perde le sue qualità intrinseche, abdica da se stessa e implode.

Nel 1939 Horkheimer affermava che “il fascismo è la verità della società moderna” e che “chi non vuole parlare del capitalismo deve tacere anche sul fascismo” essendo il fascismo stesso intrinseco alle leggi del capitalismo: nella “pura legge economica”, la legge del mercato e del profitto, sussiste la “pura legge del potere” (27); il progresso tecnologico, che potrebbe essere al servizio dell’uomo, si traduce in un processo di disumanizzazione che finisce con l’annientare proprio ciò che dovrebbe aiutare a realizzare: il progetto umano, con la sua capacità critica ed il suo potere creativo. Per Horkheimer lo sviluppo del sistema capitalistico ha sostituito i fini con i mezzi, trasformando in modo perverso la ragione in un semplice strumento per raggiungere fini ormai fuori dal suo controllo. Se la Arendt aveva messo in guardia da una normalità che ha in sé in germi del –mostro– per gli effetti della progressiva deresponsabilizzazione (28), per cui il male può essere commesso da un essere privo di pensiero, un “buffone” privo di spontaneità (29), Recalcati arriva a individuare il concretizzarsi progressivo di un “uomo senza inconscio”, privato, da un sistema che incoraggia narcisismo ed edonismo in un’ottica di mercificazione consumistica, della possibilità di desiderare, spinto verso un godimento mortifero fine a se stesso che prescinda dalla mediazione simbolica con l’altro, che da fine diventa strumento, verso il “declino della problematica soggettiva del desiderio e del discorso amoroso” (30): “La precarietà non è solo un effetto economico della globalizzazione che investe la dimensione del lavoro e del mercato, ma è anche ciò che nell’epoca ipermoderna mostra il generale decadimento della dimensione dell’ordine del simbolico [...] il discorso del capitalista [...] si manifesta come il discorso della distruzione di ogni legame, come il discorso asservito al potere nichilistico della pulsione di morte.” (31). Il crollo progressivo dell’Ideale che aggrega i legami sociali, garantito dalla funzione paterna (che induce a sostituire progressivamente il principio di piacere con quello di realtà, provocando sublimazione e desiderio), viene incoraggiato dal discorso capitalista attraverso ciò che Marcuse chiamava la “desublimazione repressiva”: il soggetto, anziché desiderare e sublimare mediante la costruzione di legami sociali e il perseguimento dell’Ideale, viene indotto a ricercare un “godimento che spenga ogni suo possibile desiderio” (32). Viene confermata, dunque, la tendenza in corso a disarticolare l’essenza umana, a partire dalle cesure tipiche della cultura occidentale (io-gruppo, psiche-soma, maschio-femmina...) e dall’–uomo a una dimensione– (33) con lo scopo evidente di frammentare lo status di persona, la sua unitarietà di senso, delocalizzandone funzioni e attributi, come in computer sempre più performanti e reti, da un lato, e “social” virtuali dall’altro, sino a snaturare la struttura stessa di ciò che Fromm chiama “il fattore umano”. Benasayag (34) mostra come l”uomo nuovo” voluto dal neo-liberismo sia un essere estremamente fragile e sofferente, non in grado di reggere l’urto con la realtà, “questo proprio mentre una nutrita schiera di neuropsichiatri, biologi, fisici dichiaravano ai quattro venti che i computer erano riusciti a potenziare le facoltà cognitive degli umani e a riuscire nel realizzare il sogno, o l’incubo, di un cervello senza organi o corpo di intralcio. [...] le macchine digitali sono considerate come modello e riflesso di una concezione modulare delle soggettività [...] l’animale umano viene smontato e rappresentato come un assemblaggio di organi che possono essere rimossi e sostituiti. L’unico organo esente da questa opera di assemblaggio è il cervello: le macchine, tuttavia, possono funzionare come dispositivi che potenziano le facoltà intellettuali [...] l’uomo post-moderno [...] certifica così la ‘verità’ del dualismo tra mente e corpo [...] l’uomo è così un organismo diminuito [...] non solo perché il cervello, e la sua appendice tecnologica artificiale, hanno il sopravvento, ma anche perché la soggettività, il suo stare al mondo sono ridotti a un insieme di dati che compongono un profilo, cioè una enumerazione di caratteristiche che possono essere modificate a piacimento” (35).

E’ possibile un’inversione di tendenza? E’ possibile restituire persone e comunità alla propria dignità umana?

Fortunatamente, sempre secondo Benasayag, il discorso neo-liberista, e l’egemonia riduzionista delle neuroscienze, che vorrebbero un siffatto “uomo modulare” come monade governabile algoritimicamente mentre entra in relazione (una relazione autistica) con altre monadi, non riescono tuttavia, sostiene Benasayag, ad evitare l’”irruzione dell’aleatorio”: quella fitta rete di relazioni sociali che costituiscono il senso e il campo semantico dell’agire umano, per cui la via d’uscita dal non-umano esito della “governabilità algoritmica” del discorso neoliberista consiste da un lato nell’individuare nel sistema dominante la fonte delle sofferenze create da conflitti e sociali, aspetto non risolvibile solo all’interno della pratica psicologica, e dall’altro nel tessere e mantenere pratiche di resistenza e relazioni sociali che consentano di fuoriuscire dall’”epoca delle passioni tristi” e “avventurarsi in un mondo dove si può agire il conflitto affinché i ‘possibili’ non siano preclusi. E così dare nuove forme al Politico” (36).

Forse una risposta in tal senso è possibile proprio a partire dal ripensamento e dal superamento delle stesse istituzioni totali. Come dal carcere è partito lo snaturamento delle finalità sociali che deve avere qualsiasi relazione, lo svuotamento di senso dovuto all’idea stessa di punizione e di controllo basata su deterrenza (paura) e afflizione (dolore), così bisogna tornare ad un’erotica del reinserimento: se il carcere è stato il luogo da cui è partita l’aberrazione della sperimentazione dei limiti della de-umanizzazione, allora il suo stesso superamento deve poter diventare la sperimentazione d’una nuova umanizzazione, basata sull’Eros e non più sul Thanatos. Parafrasando Lacan e lo stesso Recalcati (37), al complesso di Edipo ed alla conseguente morte del padre e al relativo nichilistico trionfo di Narciso (38), va sostituito il “complesso di Telemaco”, che vuole si accolga il padre, dialogando con lui per superarlo senza volerlo tuttavia distruggere.

Viene in mente l’idea di carcere che Gandhi aveva e che, con un candore tutto suo, espone nei suoi scritti.

La grandezza di Gandhi sta proprio, a ben vedere, nella capacità di rendere plausibile un’utopia, conferendole dignità e valore, ergendola a parametro etico dell’agire: utopia come legittimità e senso dell’agire e del pensare, come qualcosa che necessariamente deve essere e un giorno certamente sarà, il dover’essere che va trasformato in potere e in sapere. Utopia, quindi, non come sinonimo di assurdo o di infantili fantasticherie, ma come gioco formidabilmente serio cui uniformare progressivamente il nostro e l’altrui quotidiano.

Ed ecco qui il potere del candore di Gandhi, il sistema carcerario da lui sognato:

“Crimini e punizioni nell’India indipendente di tipo non-violento. Ci saranno crimini ma non criminali. Questi ultimi non saranno puniti. Il crimine è una malattia come un’altra, un prodotto del sistema sociale dominante. Per cui tutti i crimini, compreso l’assassinio, saranno trattati come frutto di malattie. Che un’India del genere possa mai vedere la luce, è un’altra questione (39). Come saranno le galere nell’India libera? Tutti i criminali dovranno essere trattati come pazienti e le prigioni diventare degli ospedali riservati al trattamento e alla cura di questo particolare tipo di ammalati. Nessuno commette crimini per divertimento. E’ un segno di disturbo mentale. Le cause di una particolare malattia vanno indagate e rimosse. Non vi sarà bisogno di edifici lussuosi, quando le carceri diventeranno degli ospedali. Nessun Paese può permetterselo, tantomeno un Paese povero come l’India. Ma l’aspetto del personale carcerario dovrà ricordare quello dei medici e degli infermieri di un ospedale. I prigionieri dovranno sentire che il personale è loro amico. Che è là per aiutarli a recuperare la loro salute mentale e non per tormentarli in alcun modo. I governi popolari dovranno emanare le necessarie disposizioni, ma nel frattempo il personale carcerario potrà fare non poco per rendere più umano il suo settore. Qual è il dovere dei prigionieri? … Essi dovranno comportarsi come prigionieri ideali. Dovranno impegnarsi cuore e anima in qualunque lavoro verrà loro affidato. Per esempio, dovranno cucinarsi da soli il cibo. Dovranno pulire il riso, il dal, o qualunque cereale verrà usato, in modo che non vi siano sassolini o tritume o parassiti in essi. Per qualunque reclamo, i prigionieri dovranno rivolgersi alle autorità secondo opportune prassi. Dovranno comportarsi nella loro piccola comunità in modo tale da uscirne migliori di quanto non fossero al momento dell’entrata” (40).

Si tratta di pensieri espressi nel momento in cui l’India, dopo decenni di lotta non violenta, si accingeva ad ottenere l’agognata indipendenza, pensieri illuminanti e profetici. Gandhi ci parla chiaramente del crimine come frutto d’un disturbo (la “malattia”) esito delle disfunzioni del sistema sociale dominante e si riferisce alla necessità di una struttura detentiva a carattere eminentemente rieducativo. E’ evidente anche il carattere psicosociologico dell’analisi gandhiana, che dal “macro” (la società, il sistema culturale dominante) fa derivare direttamente il “micro” (le sofferenze, i disagi e le devianze individuali), testimonianza della grande influenza che su Gandhi ebbero prima Tolstoj e poi Freud.

Una visione, quella di Gandhi, probabilmente ingenua e poco professionale, che presenta comunque il vantaggio di mostrare un altro sguardo possibile, di indicare prospettive altre dalle quali riconsiderare il fenomeno detentivo.

Uscire dal carcere si può, coniugando sicurezza sociale e individuale, aprendo la via alla sperimentazione e all’inclusione, a partire dalla de-penalizzazione dei tanti reati sorti da leggi inventate da uno Stato che delega all’ambito penale/detentivo questioni e fenomeni che non è in grado di affrontare, come per l’immigrazione e la tossicodipendenza, aspetti che da soli forniscono i 2/3 della popolazione detentiva italiana.

Un esempio virtuoso è certamente rappresentato dagli ICATT, Istituti a Custodia Attenuata per il Trattamento della Tossicodipendenza. Sorti quasi a titolo sperimentale, non solo vedono aumentare la loro presenza sul territorio nazionale, ma diventano progressivamente esempio di un altro modello carcerario nel quale sia possibile ridurre il livello repressivo per aumentare sensibilmente quello cosiddetto “trattamentale”, vale a dire l’aspetto rieducativo, con celle aperte durante la notte e per alcuni periodi anche nelle ore diurne, con l’autogestione della cucina e dei pasti, con l’accesso facilitato a progetti ed attività lavorative esterne, con lo sviluppo di attività laboratoriali e formative interne. In questi ambiti, dove opera un’équipe composta da medici, educatori e psicologi e in cui il ruolo dei poliziotti penitenziari è fortemente cooperativo con l’equipe stessa, sussiste anche un’intensa attività di “follow up” che assicura il reinserimento nel tessuto sociale attraverso l’implementazione d’una rete protettiva di relazioni e rapporti sociali ivi compreso l’ambito socio-economico e lavorativo, al di fuori dell’istituzione penitenziaria e al termine del periodo di reclusione, allorché sarà possibile contattare l’équipe per visite e assistenza psicologica ad intervalli regolari e su richiesta del reinserito. In Paesi scandinavi è in atto l’istituzionalizzazione di zone del’istituzione in cui il detenuto possa ospitare parenti dove possa avere intimità anche di tipo sessuale. La stessa sperimentazione di formazione nonviolenta portata avanti da Amnesty International (41) anche nell’ambito della formazione nazionale biennale per poliziotti penitenziari, ha avuto lo scopo di minare dall’interno l’impianto repressivo tout court per indurre forme di dissonanza rispetto ad esso ed aperture progressive verso atteggiamenti e mentalità contrarie alla nemicizzazione del detenuto ed alla contrapposizione di ruoli, per entrare nel campo semantico della “comunità educante” e nell’ottica della Ricerca-Azione, nella quale tutto e tutti possono esser messi in discussione, a partire dall’educatore-ricercatore, nel solco del perseguimento della qualità dell’azione comunicativa e delle finalità della comunità stessa: cooperative, bi-direzionali, nel solco dell’educazione non-direttiva e possibilmente freiriana.

Interventi in singole realtà carcerarie sono stati portati avanti presso l’ICATT di Lauro (AV) e presso il carcere femminile di Pozzuoli (NA), nonché all’interno della formazione nazionale all’interno della Scuola nazionale di Aversa (CE). Oltre alla cornice teorico-metodologica sopra citata, sono state scelte ed utilizzate due metodologie che si sono rivelate particolarmente sinergiche e complementari fra loro, vale a dire l’Analisi Transazionale e il Teatro dell’Oppresso di Boal, appunto ispirato alla teoria di Paulo Freire.La sinergia risulta dalla reciproca spendibilità in ambito politicorelazionale, sull’intersoggettività della comunicazione e sulla problematizzazione di essa che entrambe le metodologie consentono; sulla possibilità che entrambe offrono di visualizzare la rappresentabilità della comunicazione, sia sul piano intrapersonale che su quello interpersonale, ognuna accentuando l’ambito di propria competenza, ma anche sulla evidente convergenza fra ciò che Boal definisce “il poliziotto nella testa” (vale a dire i condizionamenti culturali che inducono all’autocensura e all’atrofia di componenti fondamentali della personalità e della socialità) e il genitore “normativo negativo” o quello “affettivo negativo” dell’analisi transazionale di Berne, castranti o manipolativi.

L’idea di partenza di tale intervento formativo è stata quella di considerare la realtà penitenziaria alla stregua d’una comunità dove possono verificarsi situazioni di difficile gestione, sia a livello intra-ruolo che inter-ruolo relativamente alle diverse categorie operanti nella struttura residenziale, che possono, almeno in parte, inficiare il percorso riabilitativo previsto. Considerando le strutture penitenziarie come comunità, riflesso d’un contesto politico-culturale più ampio, prefiguriamo l’intervento secondo un approccio ad ampio spettro che, pur non volendosi caricare di eccessive valenze e responsabilità, ha il pregio di trovare una propria cornice di riferimento, una forma di legittimazione culturale e istituzionale, che non può che dare più forza e motivazione all’intervento stesso ed agli operatori che lo porteranno avanti.

Un intervento educativo riferito alla singola comunità penitenziaria deve sì mantenere questo quadro di riferimento, ma anche rivolgere le proprie energie alla specifica realtà in cui si trova ad operare, calandosi nel contesto e nei ruoli concretamente svolti, entrando nello specifico “clima culturale” ed individuando i campi semantici, i codici espliciti ed impliciti, le eventuali contraddizioni fra ruoli e status, ma anche intra-ruolo e intra-status.

Scopo dell’intervento è stato quello di coinvolgere i membri della comunità nel tentativo di rendere i destinatari più efficaci e consapevoli (il cosiddetto “empowerment”), aumentando il loro sentimento di efficacia personale ma anche promuovendo maggiore consapevolezza dei sistemi sociali e comunicativi e della loro intrinseca utilità e potere di condizionamento reciproco, proponendo quindi forme di controllo nonviolento nel segno del rispetto reciproco, evitando lo sviluppo di forme di “devianza secondaria”, attraverso l’etichettamento, o quello di stereotipi e pregiudizi negativi, sempre reciproci. Si è rivelato utile e necessario illustrare, individuare ed evidenziare forme di “burn-out” in atto all’interno delle stesse istituzioni totali.

Le varie fasi dell’intervento sono state volte ad aumentare il senso di responsabilità personale, con l’obiettivo di “convertire il potenziale aggressivo in risorsa di trasformazione”. La responsabilizzazione del ruolo (nella fattispecie quello degli agenti) dovrebbe cioè passare attraverso la “risignificazione delle componenti emotivo-relazionali interne”. Se infatti è vero che è la comunità (nel senso più lato) a determinare lo stile di vita complessivo dei suoi membri, sono poi spesso di fatto gli agenti di custodia a “mediarne i contenuti, incluse le modalità relazionali e interattive”.

Obiettivi

Cognitivi:

a) modifica delle rappresentazioni mentali esistenti al fine di ridurre la devianza secondaria e non minare il processo riabilitativo;

b) acquisizione della consapevolezza del ruolo della “devianza secondaria”;

c) ruolo del “burn-out” nello sviluppo delle mansioni lavorative;

d) acquisizione ruolo delle tecniche di controllo non violente e della comunicazione efficace;

e) acquisizione/sviluppo della corrispondenza diritti umani/bisogni fondamentali;

Affettivi:

a) sviluppo di capacità introspettive e di capacità espressive;

b) sviluppo di capacità comunicative e di confronto;

c) sviluppo di capacità empatiche, di ascolto attivo e d’identificazione.

Raggruppando le problematiche in tre grandi settori: Burn-out, Rappresentazione dell’Altro, Gestione dei conflitti (come capacità di adoperare tecniche di controllo nonviolento e comunicazione efficace, problem solving e capacità di leadership e di coping) è possibile proporre il seguente schema dell’intervento educativo messo in atto: [Grafico]

Conclusioni

Il carcere, come il giudice, non può farsi carico dei desideri di vendetta da parte delle vittime dei reati o dei loro parenti, né dei desideri regressivi e primitivi di settori della società che chiedono “sicurezza”: lo Stato dovrebbe educare piuttosto che inseguire gli umori viscerali dell’elettorato, e certi aspetti della vita sociale dovrebbero essere tolti alla discrezionalità del partito maggioritario che intenda avvalersene cinicamente per conquistare voti e seggi in Parlamento; aspetti strategici essenziali della vita sociale, della democrazia d’un popolo, come la scuola e la sanità pubblica, andrebbero tutelati come “organi costituzionali”, per dirla alla Calamandrei, e sottratti ai capricci e agli interessi del principe di turno.

Una politica scarnificata, regredita sino alle moderne “reinvenzioni del fascismo” (42) che vedono replicare in forme sempre più sofisticate la triplice alleanza già individuata da Stuart Mill fra potere politico, militare ed economico, sull’onda di “stati d’emergenza” e di strategie dell’emozione, non può che basarsi sul culto del conflitto distruttivo nelle sue diverse declinazioni: la guerra con i suoi “interventi umanitari” e le sue “missioni di pace”, il carcere, i Centri di Identificazione ed Espulsione per migranti, gli abusi di Trattamenti Sanitari Obbligatori.

Motivi ideologici, politici o economici adoperati per legittimare le istituzioni totali risultano essere razionalizzazioni, alibi volti a giustificare l’annullamento dell’ “Altro da Sé”, del diverso che incarna e rappresenta parti di se stessi rimosse e proiettate. Più si è lontani dall’incontro con se stessi, dal dialogo intrapersonale, maggiore risulta l’alienazione provocata dalla cultura dominante che Fromm definisce necrofila, e più temiamo il diverso; lo temiamo, ma paradossalmente ne abbiamo bisogno come “contenitore negativo”, parafulmini dei nostri vissuti negativi e non elaborati. Il diverso, che diviene così nemicizzato, ci spaventa per il solo fatto di rappresentare mondi e modi alternativi di essere, perché ci costringe a indagarci, a metterci in discussione. Erich Fromm dimostrava come la normalità del mondo occidentale sia sempre più lontana dalla sanità: l“Homo Oeconomicus” è sempre più lontano da un inconscio che rinnega perché teme, è individuo sempre più marcatamente schizofrenico, scisso in senso manicheo: l’inconscio rinnegato diventa realtà ribollente di contraddizioni irrisolte, di negazioni, di fantasmi mai affrontati: un vaso di Pandora che deve necessariamente essere attribuito ad altri, al “nemico” senza negoziazioni, senza attributi umani, senza speranza.

Ecco l’aspetto cruciale: il carcere è distruzione della speranza. A ben vedere il carcere, come la guerra, parte dall’esigenza imprescindibile della distruzione di ponti, l’interruzione di ogni forma di comunicazione con l’altro, sia in termini interindividuali che intercomunitari. La guerra, come ogni forma di distruttività tout court, non è altro che la distruzione della parola, come osserva Ottavio Di Grazia (43) una cesura drammatica, che ad ogni guerra, così come ad ogni carcerazione, aggiunge nuovi salti logici, sempre più difficili da recuperare, da guarire.

Queste considerazioni sono particolarmente utili perché ci portano a due conclusioni, solo apparentemente ovvie.

La prima è che il “conflitto costruttivo” come evento sociale, come dinamica sociale costruttiva, non va scoraggiato, ma anzi valorizzato. In realtà, però, ci troviamo di fronte ad una realtà socio-politica che sempre più marginalizza, censura, oscura tutte le possibili situazioni di conflittualità positiva, di confronto ed espressione autentici, nel tentativo sempre più marcato ed evidente di anestetizzare soggetti e categorie sociali che possono sperimentarlo, potenziali forme di dissenso, espressioni di pensiero critico.

La seconda conclusione è l’evidente paradosso che automaticamente dobbiamo riconoscere: da un lato si nega il conflitto “buono”, utile, che porterebbe al progresso sociale e individuale, dall’altro si è giunti a teorizzare la necessità d’un conflitto (quello distruttivo) permanente, con l’alibi della lotta al terrorismo, ad esempio, ma con l’interesse reale di egemonizzare il pianeta da parte di un’élite e di interessi ben definiti.

Afferma Vallauri (44): “il solo vero successo etico è il cambiamento della mente del criminale e se mai, la rimozione degli eventuali fattori criminogeni”.

Il carcere va abolito

Al suo posto una comunità che possa liberamente sperimentare il progressivo affrancarsi da condizionamenti e meccanismi di oppressione, una comunità riservata solo ai casi indispensabili; per il resto, depenalizzazione e misure alternative. Esperienze affini a questo tipo di comunità vanno affermandosi progressivamente con la tipologia degli Istituti a Custodia Attenuata, dove l’intento afflittivo del carcere viene decostruito a vantaggio di effettivi interventi di recupero, o con esempi stranieri, come gli efficaci e coraggiosi cambiamenti attuati in Norvegia, dove spesso i detenuti si trovano paradossalmente a respirare per la prima volta rispetto e fiducia proprio in queste ex-carceri, dove è possibile vivere in case autonome, con giardini e libertà di movimento all’interno di grandi comunità, con una recidiva del 16% a fronte di quella italiana, che si aggira intorno al 70%.

Già grandi pedagogisti del passato hanno sperimentato simili condizioni, come per il “Little Commonwealth” di Omero Lane e “Summerhill” di Alexander Neill, dove si sperimentava la Pedagogia della libertà. Occorre ridare dignità e senso a tutte le forme dell’agire umano; è urgente e necessario ripartire da ciò che Fromm chiamava “fattore umano”.

(1) - Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di Michel Foucault e Michelle Pierrot, Venezia, Marsilio, 1983, p. 218.

(2) - Josè Revueltas, Le scimmie (trad. it. di Alessandra Riccio), Roma, Sur, 2015.

(3) - Decisamente sintomatiche e rivelatrici sono, in tal senso, le testimonianze di poliziotti addetti alla sorveglianza e videoregistrazione dei detenuti durante i colloqui, circa le progressive modificazioni psico-fisiche che subiscono gli stessi detenuti.

(4) - L’oggetto di studi della Scuola di Francoforte.

(5) - Le istituzioni, ivi comprese quelle scolastiche, scoraggiano sempre di più il pensiero divergente e la creatività stessa per obbligare verso il pensiero convergente, che prevede una ed una sola possibile soluzione a qualsiasi problema: cfr. su youtube Ken Robinson, Cambiare i paradigmi dell’educazione; cfr. anche AA.VV., I test Invalsi, Bologna, 2013, CESP (Centro Studi per la Scuola Pubblica) sulle incongruenze e i gravi limiti del processo di invalsizzazione in corso nella scuola pubblica italiana.

(6) - La legge che passa sotto il nome di “Jobs Act” prevede la possibilità del controllo a distanza dei propri dipendenti da parte del datore di lavoro attraverso pc, tablet e telefonini messi a disposizione dall’azienda.

(7) - Stefano Rodotà, “Foucault e le nuove forme del potere”, in “La filosofia raccontata dai filosofi”, Gruppo editoriale L’Espresso, 2009.

(8) - cfr. Derrida, Forza di legge, Torino, Boringhieri, 2003.

(9) - cfr. A. Ehrenberg, “La fatica di essere se stessi”, Torino, Einaudi, 1999.

(10) - Il famoso esperimento di Stanley Milgram “sull’obbedienza all’autorità” del 1963, con l’obiettivo dichiarato di verificare sino a che punto una persona normale possa causare danno o morte ad un’altra solo per obbedire ad un “ordine”: più della metà dei soggetti sperimentali si resero disponibili a correre il rischio di uccidere una persona.

(11) - Fu lo stesso Popper a dichiarare che “il metodo scientifico non esiste”, aggiungendosi a studiosi quali Kuhn e Feyerabend nella critica al metodo scientifico: cfr. A. Bianchi e P. Di Giovanni “La ricerca sociopsicopedagogica”, Paravia, Trento, 2007, pp. 181-191.

(12) - La salute intesa non più al negativo, come assenza di malattie, ma al positivo, come benessere dal punto di vista non più solo fisico, ma anche psichico e sociale: il concetto di sicurezza oggi dominante, purtroppo, fa riferimento evidentemente solo all’aspetto fisico, trascurando le altre due componenti, in quanto, se esse venissero davvero prese in considerazione, ciò porterebbe inevitabilmente a porre in discussione l’ordine sociale costituito, da cui discende quest’idea monca e primitiva di sicurezza in uso presso diverse istituzioni, come scuole e ospedali.

(13) - Cfr. E. Fromm, “Anatomia della distruttività umana”, Milano, Mondadori, 1975.

(14) - Cfr. Fort Benning, scuola di tortura, Sessant’anni di crimini impuniti, Il Manifesto, 19.08.’06 - Geraldina Colotti; Cfr. anche i rapporti di Amnesty International sull’argomento.

(15) - Da “Il Manifesto”, quotidiano, 4 luglio 2013.

(16) - Cfr. H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1999.

(17) - Cfr. A. Ehrenberg, La fatica di essere se stessi Einaudi, Torino, 1999.

(18) - Cfr. U. Morelli, Conflitto identità interessi culture, Roma, Meltemi, 2006.

(19) - Cfr. E. Fromm, Avere o Essere?, Milano, Mondadori, 2001.

(20) - Nel senso etimologico di “diabolus”: diviso, scisso, separato da una normalità eretta illusoriamente a paradigma della sanità.

(21) - Levinas afferma che la costruzione della propria soggettività non ha luogo se non si comincia e “temere per l’altro”: cfr. S. Malka, Leggere Levinas, Brescia, Queriniana, 1986.

(22) - Si consultino le produzioni e si considerino le attività del Centro culturale “Virginia Woolf”.

(23) - G. Marcel, L’uomo problematico, Roma, Borla, 1964.

(24) - K. Jaspers, Genio e follia, Milano, Rusconi, 1990.

(25) - L. Paggi, “Il Manifesto”, 23 ottobre 2015; “[...] La governance è il politico senza stato che, non creando nuove istituzioni, ma avvalendosi di “tecnologie” e “dispositivi” di potere, aggira gli stati nazionali e li sottomette, trasformandoli, con la sussidiarietà, in strumenti esecutivi dei propri indirizzi. Politica dell’austerità e crisi della democrazia avanzano mano nella mano, non solo per i contenuti sociali ma anche per la introduzione di nuove procedure di potere, che aggirano il politico e che sembrano voler prefigurare una legalità sempre sganciata e autonoma da ogni forma di legittimità.”

(26) - L. Re, Pasolini: Il nudo e la rabbia, Stampa sera, 9 gennaio 1975.

(27) - Cfr. M. Horkheimer, Eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale, Torino, Einaudi, 2000.

(28) - Cfr. H. Arendt, La banalità del male”, Milano, Feltrinelli, 2001.

(29) - Cfr. j. Kohn, in Introduzione a: H. Arendt, Responsabilità e giudizio, Torino, Einaudi, 2004, pp.XIII-XIV.

(30) - M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, Milano, Raffaello Cortina, 2010, p.XV.

(31) - M. Recalcati, op. cit., p. 27.

(32) - M. Recalcati, op. cit., p. 29; L’autore continua: “Pier Paolo Pasolini aveva sintetizzato così questa trasformazione epocale del potere: -il potere ipermoderno non ha bisogno di sudditi, ma di liberi consumatori!-”.

(33) - H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Torino, Einaudi, 1999.

(34) - Cfr. M. Benasayag, Il cervello aumentato, l’uomo diminuito, Trento, Erikson, 2015; ma anche, dello stesso autore, Oltre le passioni tristi, Milano, Feltrinelli, 2015.

(35) - B. Vecchi, Le dolenti miserie dell’uomo modulare, ne Il Manifesto del 5 febbraio 2016, pp. 10-11.

(36) - B. Vecchi, op. cit., p. 11.

(37) - crf. Quel che resta del padre, M. Recalcati, Milano, R. Cortina, 2011.

(38) - cfr. .F. Dogana, L’Io lieve, in Psicologia contemporanea, n.173/2002; Firenze, Giunti: “l’edonismo narcisistico e disimpegnato che si accompagna al nichilismo, tanto congeniale al consumismo fine a se stesso”.

(39) - “Harijan” (periodico indiano) 5 maggio 1946, pag. 124.

(40) - “Harijan” 2 novembre 1947; cfr. anche “Il mio credo, il mio pensiero”, pp.165-167, Gandhi, Newton Compton, 1992.

(41) - Ad opera del settore EDU della Circoscrizione Campania-Basilicata, primi anni 2000, e poi delle prime due Commissioni EDU della Sezione italiana.

(42) - Cfr. J. Galtung, La reinvenzione del fascismo, Il Manifesto, 4 luglio 2013.

(43) - “Le dieci parole”, Marc-Alain Ouaknin, trad. e intr. O.Di Grazia, Milano, Ed.Paoline, 2001.

(44) - Da: “Il Manifesto” del 17 ottobre 2000, L. Lombardi Vallauri.