Ambasciata Teatrale - Ottobre 2013 - Anno V Numero 8

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circo-lo creativo d’intrattenimento culturale s.ambrogio cibrèo città aperta firenze

Ottobre 2013 ANNO V • NUMERO

Semi

Editoriale

Raccolta

Sergio Staino

Il Paradiso terrestre nei prossimi mille anni

L’arte parla

di Fabio Picchi

S

di Maria Cassi emi, ecco cosa siamo, dei semi. Musicisti, attori, pittori e tutti gli artisti. Semi che seminiamo per il mondo, badate bene, quando la nostra anima è libera e vera. Semi che trasportano umanità e cuore attraverso una sola lingua, quella dell’arte, che quasi sempre è artigianalità, e come sappiamo, fa rima con libertà. Semi che insieme ad altri semi fanno nascere piante, consolidando conoscenze che spesso diventano amicizie e talvolta vere e proprie fratellanze. Parlava quel musicista e ci diceva, mentre le note della sua musica ci facevano sentire di non vivere invano, che per lui aveva un grande valore ogni incontro con le persone di tutto il mondo, dove aveva la fortuna di girare per il suo lavoro. Ebbene sì, anche i luoghi e le città erano importanti, ma le persone lo erano di più perché è per loro che l’arte parla. Se si è avuto questo dono di poter seminare semi d’arte, non scordiamoci mai di seminare con cuore, amore, coraggio e rigore per poter sperare che qualcuno possa raccogliere dei frutti a sua volta da piantare e seminare, per la gente, dentro le mura di città conosciute e straniere. Ma soprattutto continuando a sperare che la semina dia frutti sempre più umani, fraterni. Auguriamoci che le donne e gli uomini di tutto il mondo possano confluire in un raccolto colmo di ricchezza e creatività, quella interiore, del proprio cuore e della propria anima. Raccolti che nessuno e dico nessuno ci potrà mai togliere.

C

i siamo sempre messi in movimento per cercare di dare risposta alla fame quotidiana e, se pur incontrando probabili difficoltà, abbiamo sempre risolto il problema dilagando in tutte le terre emerse, valicando impervie montagne e solcando mari sconosciuti. Ma né la grandezza dei mammut, né i più feroci insetti ci hanno mai fermato. Siamo diventati tutto sommato, misurandoci con le ere geologiche, in pochi anni la razza dominante. Raccoglievamo di tutto, cacciavamo tutto ciò che fosse sufficiente a dare risposta certa a questa fame che ancora oggi ci portiamo appresso come qualsiasi altra creatura vivente. Poi arrivò quel che poteva essere la fine delle tribolazioni del nomadismo: l’agricoltura. Ma che ci piaccia o no, da quel momento sono apparsi alcuni problemi. Furono recintati i primi campi coltivati e a qualcuno venne in mente di considerare suo ciò che nasceva dalla nuda terra. Se il perenne migrare da una parte regalava molte libertà, costringeva d’altra ad affrontare spesso e volentieri lo spaventevole ignoto. Invece in quel nuovo modello economico e sociale imparammo a coltivare e a mettere di conto esperienza dopo esperienza, insieme alla prima possibilità di conservare e mantenere per poi poter distribuire. E chi si trovò in quella posizione divenne, forse suo malgraSegue a pagina 2 do, potente e responsabile di chi a lui si affidava.

Da Alcatraz

La guerra dei semi

Occhio di bue

di Jacopo Fo

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rent’anni fa mi trovavo a contemplare un campo insieme a mio padre. Un tecnico diceva che tagliando tutti gli stucchi, gli alberi della vite, avrei raccolto più di fieno. Mio padre disse: “Non si tagliano i vecchi alberi... Per scaramanzia...”. Un’altra prova che la mia famiglia, sotto la buccia laica tramanda un misticismo animista. Forse per questo penso che una delle cose più convenienti che posso fare è comprare boschi per evitarne il taglio e piantare semi. I semi sono potenti. Soprattutto conviene piantare i semi antichi come le lenticchie che mi faceva mia nonna, farinose e piatte. Poi i buongustai aristocatici sancirono che la lenticchia legale è quella piccola e rotondeggiante. Ma non è gente contenta. Lo stesso vale per i cavalli. Oggi il reato è in prescrizione e posso ammettere di aver fatto monta clandestina con stalloni senza certificati. Cavalli da lavoro di montagna, bassi e grossi, con i quali puoi discutere di filosofia. E ovviamente ho sparso ogni sorta

di verdura bastarda. Olmi resistenti alla peste, mais con i chicchi rossi, bianchi, viola e blu, pomodori gialli, piselli castani. È una guerra che va presa con calma: cammini lungo un prato, sputi noccioli di ciliegie di contrabbando e dopo dieci anni ci sono 20 stangoni pieni di frutti rossi. Con le azioni è uguale. Ci sono certi gesti che trasmetti ai figli senza neanche accorgertene. Quei gesti contengono idee non omologate. Un dna mentale senza discorsi solo desideri. Un giorno poi la mediocrità prova a piegarti e quel gesto ti germoglia improvvisamente in testa e tu non riesci a sottometterti. E a chi ti vede, il tuo resistere, gli si pianta in testa. E poi resta lì in agguato a aspettare che piova. È un mistero come succeda. Le orde del Vuoto di Senso hanno un bel da fare a diffondere solo i semi omologati. I semi a volte sembrano estinti, ma c’è sempre un bastardo che si era nascosto nella fenditura di un sasso e che appena può vien fuori a fare l’albero.

Erba voglio

Liberi frutti di Caterina Cardia

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lcuni mesi fa un uomo che estrae filtri magici dalle piante che coltiva mi ha inviato una mail invitandomi a firmare una petizione che chiede al parlamento europeo di archiviare la Plant reproductive material law, una proposta di legge della commissione europea che renderebbe illegale riprodurre e/o commercializzare i semi di ortaggi e piante che non siano stati approvati e accettati da una nuova burocrazia europea denominata Agenzia delle varietà vegetali europee. Basta poco per capire quali interessi ci siano davvero dietro questi azioni e informandosi un poco sull’argomento non si possono che temere scenari drammatici. La petizione Diritto a coltivare il proprio cibo, si può firmare sul sito change.org. La legge deve essere ancora approvata e in rete si possono leggere entusiasmanti incitamenti alla disobbedienza rurale dal sito della A.I.A.B. fino a quello di Navdanya International dove si può sottoscrivere la dichiarazione internazionale presentata da Vandana Schiva per la libertà dei semi. Da quel giorno intanto io scambio e conservo i semi come prima ma con molte buone ragioni in più.


Lasciate che i bambini I colori del futuro di Tomaso Montanari

N

el giugno del 1888 Vincent Van Gogh era ad Arles, una meravigliosa città romana mangiata dal sole della Provenza. Intorno al 18 di quel mese egli scrisse una lettera ad un amico – pittore come lui – che si chiamava Émile Bernard. Gli raccontò che, stando in mezzo alla campagna, non riusciva a non pensare ai quadri di un altro grande pittore, che si chiamava Jean-François Millet, e che aveva rappresentato come nessun altro la vita semplice e sacra di chi vive in comunione con la natura. Vincent provava a rifare a suo modo i quadri di Millet: ma i semi della sua pittura germogliavano in qualcosa di molto meno tranquillo. Così Vincent descrisse il quadro che vedete: “Ecco uno schizzo di un seminatore: vasto terreno di zolle di terra arata, in gran parte di un viola deciso. Campo di grano maturo, d’un tono ocra giallo con un po’ di carminio. Il cielo, giallo cromo chiaro quasi come il sole che è giallo cromo 1 con un po’ di bianco, mentre il resto del cielo è giallo cromo 1 e 2 mescolati. Quindi molto giallo. la blusa del seminatore è blu, i pantaloni bianchi. Nel terreno ci sono molti richiami di giallo, dei toni neutri che risultano dalla mescolanza del viola col giallo; ma mi sono infischiato un po’ della verità del colore”. Se guardate il quadro, vedrete che Vincent continuò a cambiare i colori, dopo aver scritto questa lettera: se ne infischiava della verità, ma era ossessionato dal colore. Dipingendo i suoi quadri, Van Gogh era divorato dalla stessa ansia di tutti coloro che seminano: l’ansia di un futuro, di un risultato, di un raccolto. Ma guardando i suoi quadri noi percepiamo che c’è qualcosa di più importante del seme, qualcosa di più importante del raccolto. Ed è l’amore con cui si semina: quell’amore, impastato di ansia, che rende inconfondibile ogni quadro di Van Gogh.

Editoriale Il Paradiso terrestre nei prossimi mille anni

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utto si concentrò nel sogno del facile riposo, del non dover più migrare di terra in terra, di stagione in stagione, ma tirando su stabili tende che da lì a poco si trasformarono in sicure e sempre più robuste case che costituirono le prime cellule delle future città. Lì si respirò la prima aria di sedentarietà, con le sue conseguenze. Prima fra tutte, per maggior tranquillità, l’idea di alzare il primo muro di cinta, che come sapete ha poi portato le nostre anime a sentirsi più protette, lasciando fuori pericoli sconosciuti che di giorno in giorno alimentavano la loro spaventevole ansia, facendosi mostri di una diversità contro la quale bisognava, alle volte, riprendere la vecchia abitudine della caccia. E il verbo divenne distruggere il nemico come preda di una nuova insaziabile fame per paura di perdere i propri privilegi. Siamo ancora lì. Sì, senza alcun dubbio. Siamo in quell’attimo di tempo che noi definiamo in mille, duemila e più anni, ma che in realtà sono un soffio nella lentezza antropologica di questa giovane specie a cui apparteniamo. Se poi guardiamo il soffio accettandolo come unità di misura, gli ultimi cento anni non sono nemmeno lo 0,0000001% della nostra evoluzione, dove vediamo apparire, insieme alla sua arroganza, l’agricoltura industriale che, dell’accumulo e del controllo sulla distribuzione, fa principio irrinunciabile. Chi per lei occupa anche la proprietà delle sementi, riduce i semi, attraverso multiple manipolazione genetiche, ad un unico involucro di altro, dove, ad esempio, i grani si trasformano in legumi, perdendo tutte le loro caratteristiche nutrizionali, o rende la terra, ormai inaridita, sostegno per coltivazioni nutrite totalmente dalla chimica. Nelle successive manipolazioni alimentari vediamo aggiungere zuccheri di ogni genere per renderci dipendenti senza alcun controllo e schiavi di atteggiamenti insulinici. Perché sia ben chiaro, ci si ricordi sempre che in due fette di pancarré industriale vi è una quantità pari ad una mezza tazza di zucchero, e che nella Coca-Cola e simili albergano la solita enorme quantità pari a 45 grammi. Visualizzare, alla prima occasione, questa quantità è cosa necessaria per capire che ci stanno inducendo alla malattia programmata di un diabete ormai dilagato in tutto il mondo che, se prima colpiva dai

55 anni in su, ora vede i bambini di 11 anni come le sue più appetibili vittime. Inoltre è sempre più chiaro che dietro le multinazionali dell’alimentazione vi è un progetto industriale che dal nutrire passa rapidamente ad interagire con i benefici effetti di economie spese per malattie reali, come appunto il diabete, e indotte, come le perenni diete a cui farmaci miracolosi danno improbabili risposte. Nel mentre si continua a produrre cibo che non fa mai male in un primo momento, mentre dovremo mangiare ciò che fa bene, concetto molto lontano dalla psicolabilità di cui tutti siamo vittime grazie ai martellamenti pubblicitari a cui siamo sottoposti. Non abbiamo più idea di che cosa sia nutrirsi con normale felicità. Colorate confezione e chimica assordante mascherata d’aromi naturali ci rende sordi e muti dallo scatenarsi delle buone endorfine che il nostro palato percepisce in una sua evoluzione che vanta venti milioni di anni, producendo anche semplici acquoline in bocca che altro non sono che la nostra primordiale capacità di distinguere il buono dal cattivo. Ormai nell’assenza del sapere e del sapore, ritroviamo tranquillità. E come dormivamo sereni dentro le prime mura di cinta adesso è il non sapore o viceversa il platealmente riconoscibile a darci apparente serenità . Ed ecco che le cucine dell’ultima moda, con le loro affumicature, le loro molecole, i loro idrogeni, fuggono dalle donne e dalla loro naturale responsabilità amorosa, scappano dagli ambiti di sapienze familiari e si trasformano in arroganza commerciale di una complicità maschile che crea solo conformistici atteggiamenti di presupposte conoscenze, dove l’industria alimenta false gesta artigianali per raccontare di mulini più o meno bianchi, di prati, di mari puliti, ma che in realtà ormai stanno desertificando tutto il pianeta e noi stessi.

di Tommaso Chimenti

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di Fabi Picchi

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In scena

Segue dalla prima

portare benefici infiniti se avessero il coraggio di far sparire dai suoi scaffali tutto ciò che alla lunga ci sta avvelenando. Via dunque quei fantasmi di pomodori pronti in ogni stagione, via l’amido di mais che consente un’etichettatura del senza zucchero dando certezza di picchi insulinici diabolici, via le glassature su improbabili avene apparentemente atte ad una buona nutrizione, ma in realtà cavalli di Troia per una devastante e non cosciente sovralimentazione. Dovremmo urgentemente ricominciare a mangiare semi di ogni genere, dalle noci agli anacardi, dalla Chia alla quinoa, scoprire l’amaranto, approfittare della potenza di questa alimentazione, non privandoci di nulla. Chi è carnivoro non si senta in colpa se si alimenta da allevanti eticamente corretti. Chi si sente portato ad alimentazione parzialmente vegetariana sappia approfittare degli omega 3 e 6 presenti in gran misura nella Chia, semenza riscoperta nel continente americo latino e ormai distribuita in tutto il mondo. Farsi tutti raccontatori della bellezza di essere capaci di mangiare il mirtillo rosso che qualcuno chiama l’americano. Sì, si mangi frutta di bosco, lumache di mare e di terra, si mangi tutto e di più senza alcuna preoccupazione quando la manipolazione è fatta con la sana partecipazione familiare, lontano dalle bulimiche spese rimpinzanti i nostri stracolmi frigoriferi e dove una nuova cultura della Dispensa si allei al già detto. Mettersi dunque nuovamente in viaggio, per liberare i campi dalla cupidigia industriale, per liberare le menti, per riscoprire le nostre straordinarie capacità di intelligenti mangiatori. Abbattere le mura delle nostre città per riallearsi con la campagna e con tutta la natura. Abbattere tutte le mura in un mondo che l’astrofisica ci insegna essere questa piccola casa comune a tutte le genti. Approfittare dei saperi di tutti i popoli che ti possono insegnare che la curcuma combinata al pepe nero come al cavolo diventa il più potente antitumorale che esista in natura. Essere un po’ meno dominanti e più complici di tutto questo meraviglioso creato.

Dunque si fa sempre più necessario riequilibrare il nostro primordiale essere raccoglitori- cacciatori con un’agricoltura il più possibile ridimensionata a rinnovati e ritrovati localismi, dove un’intelligente territorialità si dovrebbe alleare con una maniosiAnticipazione di Testimonanze n°490-491 tà stagionale. Una grande distribuzione consapevole potrebbe a cura di Severino Saccardi

rima dell’autunno, delle stagioni ufficiali. Gli ultimi fuochi festivalieri vicino a Firenze si chiamano Contemporanea, a Prato dal 4 al 12 ottobre (contemporaneafestival.it), e Intercity (fino al 25 ottobre al Teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino; teatrodellalimonaia.it; 055.440852; 15, 12 euro). Contemporanea, diretto da Edoardo Donatini, punta sui sempre presenti Kinkaleri, sugli affezionati ed intimisti Cuocolo Bosetti, quest’anno con la passeggiata con cuffie The walk, Roberto Latini con il terzo lavoro sul progetto Noosfera, dopo Titanic e Lucignolo, ecco il Museum. Ancora nomi amici del festival pratese: l’artista Katia Giuliani con il giro in pullman dalla durata di tre ore con il pubblico che diventa viaggiatore e scopritore, gli Zaches, i Codice Ivan o i sempre ironici e caustici Teatro Sotterraneo con la novità Be legend, incrocio ed incastro tra adulti ed il mondo dei bambini. Tra gli affermati, da non lasciarsi sfuggire, il Pinocchio di Virgilio Sieni, il nuovo di Claudio Morganti che affronta il Lenz di Buchner, prima del Woyzeck di Nadj, creazione poetica rara. Come in Giochi senza Frontiere invece al Teatro della Limonaia ecco tre nazioni dal Nord Europa. Lo sguardo del direttore artistico Dimitri Milopulos si è focalizzato su Olanda, Gran Bretagna e Norvegia. Dalla Norvegia Vilde con Silvia Guidi (4, 5 e 6) testo ambiguo e sofferto, erotico l’inglese End of desire (4, 5 e 6) incontro di sesso occasionale. Ancora Norvegia con L’eredità (11, 12 e 13) con tre figli mai realmente cresciuti che devono spartirsi i beni della madre scomparsa nel giorno del funerale, da Londra Anche la quiete respira piano (11, 12 e 13) diretto da Michele Panella, per concludere con l’Olanda A tribute to art of football (18, 19), che unisce danza e calcio, il gesto delicato e lo sport che si fa con i piedi: ossimoro.

Seeds 1

by James O’Mara


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Gesti teatrali

by James O’Mara

Il seme della mia teatralità di Alberto Severi

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Percorsi Il primo uomo di Massimo Niccolai

L’

infanzia è il periodo più bello della vita di un essere umano, si comincia a capire e soprattutto a porsi delle domande a scoprire l’ignoto, a stupirsi ed eccitarsi. Anche la mia di infanzia è stata bella, l’ho trascorsa per molto tempo dai miei nonni materni in campagna, erano dei contadini ed abitavano insieme ad altri in un castello rurale. Mio nonno era un uomo altissimo con i baffi e portava un bel cappello di paglia o di peltro a seconda della stagione, mia nonna era una persona piccola ma forte e piena di energia e la cosa che mi colpì era la sua voglia di leggere, quando aveva un po’ di tempo si sedeva vicino al camino e leggeva che cosa non ricordo. Quando, stavo da loro fin dal primo mattino, mio nonno, mi portava con lui; come prima tappa c’era la stalla lui sistemava il letto degli animali e mungeva le mucche, poi preparava il pasto per il maiale, poi a ritirare, nel pollaio, le uova fresche fresche che avevano fatto le galline. Attaccava i buoi al carroccio e insieme andavamo nei campi dove lui iniziava a lavorare per tutto il giorno, mangiavamo all’ombra degli alberi e dormivamo. Ogni cosa che mi circondava mi sembrava stupenda ed eccitante, tutti i miei sensi erano pronti a captare e catturare ogni qualcosa incontrassero, come una grande avventura. La sera tornavamo e mia nonna mi insegnava ad aiutare gli animali da cortile a rientrare nei loro luoghi per la notte. Una volta mi accadde di essere un po’ eccessivo nell’accompagnare i pulcini a dormire tanto da azzoparne ben due, la reazione di lei fu abbastanza dura, mi disse che quando ci prendiamo cura delle cose o degli animali dobbiamo farlo con tanta attenzione altrimenti succede quello che poi accadde a me ma, soprattutto, ai poveri pulcini. Insomma in tutto questo non posso fare a meno di associarmi ad una frase che compare nell’ultimo romanzo di Albert Camus Il primo uomo: “un bambino è il germoglio dell’uomo che diverrà”. Quindi l’unica speranza di una buona conseguenza sta in questi splendidi germogli ma soprattutto nei loro genitori e forse, come è capitato a me nei loro nonni, che con i loro racconti ci hanno fatto sempre sognare e sperare.

Una stella a Firenze Il caso dimenticato del Marchese Carlo Torrigiani di Stella Rudolph

L’

atto di impiantare semi implica la speranza di una nascita, crescita e maturazione, onde poterne mietere i risultati sia nel campo dell’agricoltura che in quello delle idee: insomma la fecondazione, sorretta da un grado di ottimismo ed impegno che sottende pure l’impulso filantropico. Il centro storico di Firenze pullula di lapidi a ricordo di esimi cittadini che, dall’epoca risorgimentale, promossero iniziative civiche di beneficenza ormai laica con largo anticipo su quelle espletate a cavallo del ‘900 (ma già adombrate dall’illuminato governo del granduca Pietro Leopoldo a fine ‘700). Fra questa moltitudine spicca il marchese Carlo Torrigiani, commemorato in una lapide posta nel 1871 sulla facciata del suo palazzetto in piazza de’ Mozzi, ove “visse con civile modestia […] parco con se generoso ai poveri/di ogni utile istituto sollecito promotore/che alla istruzione popolare giovò cogli scritti e coll’opere/e le scuole di San Niccolò e del Comune ordinò e diresse con diligenza assidua e fruttuosa”. Sebbene codesta lapide sia sotto i miei occhi ogni giorno che esco da casa, un paio d’anni fa ho avuto la fortuna di trovare aperto il portone dell’antico palazzo da Cintoia all’angolo di via isola delle stinche prospicente la chiesa dei santissimi Simone e Giuda: entrandovi e salendo le scale ho incontrato sul pianerottolo il busto del suddetto marchese Carlo, collocato ivi dal nipote Pietro (allora senatore del regno e sindaco di Firenze) nel 1899 in occasione del cinquantesimo anniversario della fondazione della società anonima edificatrice. Così ho scoperto che egli fu pure il fondatore di questa “animosa iniziativa per la quale le classi meno agiate ebbero abitazioni salubri a modico pigione”. Ad illustrazione dell’encomiabile impresa il suo ritratto in marmo è fiancheggiato da affreschi coevi raffiguranti una madre che accudisce il suo bimbo e le case in via di costruzione, eccellente testimonianza visiva del senso di un progetto assai innovativo che si stava davvero realizzando secondo quanto escogitato dal marchese Carlo.

l di là della valenza alimentare, di solito la prima augurabile conseguenza di un seme, è che fruttifichi. Regola valida nel mondo vegetale, non sempre in quello animale. Dalla notte dei tempi, ad esempio, nel genere umano, accanto all’augurio dei figli maschi (di recente soppiantato dal monicelliano speriamo che sia femmina, cui le trepide future mamme, in apprensiva fase pre-amniocentesi, replicano a mezza voce con l’esorcistico basta che sia sano...), accanto insomma all’augurabile gravidanza, e ad onta delle prescrizioni religiose o perfino politiche al riguardo, è sempre convissuto l’augurio che la gravidanza, insomma la fruttificazione del seme (sparso nel solco a mero scopo ricreativo) non avvenisse. Tanto che si sono moltiplicati, nei secoli, con fantasiosa ingegnosità, i metodi per scongiurarne la - in tal caso - malaugurata conseguenza. Del resto, chi può dire che siano state cosa buona e giusta le gravidanze della signora Attila o della signora Hitler? Vabbe’, vogliamo sempre distinguerci. Ma stiamo a quella che, piaccia o non piaccia, e al netto di valutazioni ideologiche e morali, resta la regola naturale, insomma alla augurabilità del frutto dell’inseminazione. A tal punto augurabile da venire, in casi problematici, assistita. Si sa che, quando ciò avviene, la donna diventa incinta, come dicevano i latini: cioè non cinta nel suo peplo da cintura, perché il pancione lo impediva. È un aggettivo. Ma sono tanti in Toscana, patria della lingua italiana con più di una distrazione (quartiere per appartamento, nettezza per immondizia, ecc.), a ritenere invece, equivocando, che si tratti di locuzione avverbiale di stato in luogo (lo stato interessante?). Cosicché lo lasciano indeclinato al plurale: donne in cinta, non incinte. Chissà poi se a Siena ci sono le donne in cinta senese, e se non trovano disdiscevole l’essere associate a cotanta suinità. Vabbe’. Sta di fatto che, da bambino, ancora fisiologicamente incapace di seminare, mi capitava, tuttavia, di desiderare d’imbattermi in donne che altri, più o meno beneaguratamente, aveva messo in cinta. E ne spiego subito il perché. Abitavo all’epoca, con la mia famiglia, al capolinea dell’autobus numero 6, e quando salivo sul bus, davanti al bar Giglio Rosso, i posti a sedere, a inizio corsa, erano ancora quasi tutti liberi. Badavo di non sedermi su quelli che una targhetta riservava ai mutilati e invalidi di guerra e del lavoro (erano gli anni ’60, e c’erano ancora a giro mutilati di guerra, di provenienza indigena, e non balcanica), mi accomodavo su uno degli altri sedili, e aspettavo. Aspettavo che, ad una delle fermate successive, salisse sull’autobus una persona anziana, o, meglio ancora, appunto, una donna gravida. Dopo di che, possibilmente davanti a un folto pubblico di passeggeri, mi esibivo nel beau geste teatrale, oggi direi decisamente in disuso, di alzarmi, e cedere il posto. Meglio la donna incinta, dicevo: perché con lei il gesto era di più sicuro apprezzamento, ed effetto. Talvolta infatti la persona anziana poteva indispettirsi, e rifiutare l’offerta irritata, come a dire: “Anziana io? Nini ma che mi hai visto bene? se ti dò un sommommolo ti rivolto come un calzino!” E tuttavia, anche con certe pance non si poteva mai sapere, alcune eran conseguenza malaugurata più che di semi maschili, di pantagrueliche pastasciutte o di stipsi ostinata. Allora non sapevo distinguere bene, e la gaffe era in agguato. Ma nonostante i rischi calcolati, il gesto quasi mai me lo risparmiavo. Perché sì: era bello, e beneagurale, e teatrale. Il seme, posso ben dire, della mia successiva vocazione alla teatralità. Tanto che secondo me ci sarebbe stato bene pure l’applauso, e subito dopo, si capisce, il SIPARIO.

Di line e di lane Ricominciare a seminare di Pietro Jozzelli

L’

idea che dai semi nasca un frutto è un’idea dell’illuminismo, ha a che fare con una visione deterministica e iperazionale della realtà: andava bene fino a qualche decennio fa, quando si continuava a pensare che la storia rivelasse un disegno intelligente e progressivo della vita degli uomini, ma oggi non ha più corso. Se escludiamo l’ovvia operazione di piantare un po’ di insalata e di raccogliere, dopo poche settimane, cesti di lattuga o di scarola, parlare della metafora dei semi è un fastidioso ritorno al passato. C’è qualcuno che semina qualcosa oggi? Più che seminare, la pratica corrente è tagliare, ridurre, contrarre, separare, fottersene più o meno velatamente di quel che sarà, visto che l’unica cosa che conta è ciò che possiamo ottenere oggi, qui e subito. Tant’è che se un papa parla di umiltà e solidarietà ci sembra una rivoluzione (si sa che fine fanno le rivoluzioni), se un politico semina qualcosa quasi sempre è l’idea che tutti gli altri abbiano torto e lui ragione a fare quello che ha fatto, anche se sono azioni criminali sanzionate dalla giustizia. Viviamo in un’epoca senza sogni, dunque senza semi da gettare. Avete notato come nei cinema non vendano più semi da sgranocchiare ma chicchi di mais gonfiati all’americana?

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ottobre 2013


SPARGIAMORE


Seeds 3

Palazzo Strozzi

by James O'Mara

Non siamo macchine ma piante di James Bradburne

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n 1980s the Harvard B (business) school persuaded politicians and policy makers that what the world needed now was management, sweet management, just as they later managed to convince governments that that just adding more economists to the markets would make them run better. Two market collapses in a single decade make one pause to reconsider. Most B-school management was based on the machine metaphor – people were all just parts in a larger machine, and when a part failed, it could be replaced with a new one. The problem is, people are not machine parts, and rarely wear out. A better metaphor, perhaps, is the garden, with people seen as plants with specific needs and characteristics. The measure of successful management is then not imposing change, but nurturing ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

and sustaining growth. The metaphor of institution as machine – in which worn out and inefficient parts are exchanged for new and better ones – has been replaced, at least in my thinking, by the metaphor of the institution as garden. In a garden, it isn’t that the rose is inefficient, lazy or unproductive as such – it may just have been planted in the wrong place. Rather than pulling it out by the roots and replacing it with a more efficient cactus, a simple move to the shade allows the rose – and the garden to flourish. But this metaphor is a challenge to the world of professional managers such as McKinsey and Boston Consulting Group. How can one apply the balanced scorecard to a garden, and determine its CSFs (Critical Success Factors) and KPIs (Key Performance Indicators)? Of course a vegetable garden could be

measured according to the standard metrics – overall output, quality, return on investment – but what about a flower garden? What percentage of roses has to bloom at what time for the garden to meet its objectives? What number of red roses makes a good garden? What percentage of tulips? Who are the stakeholders in a garden and what are their expectations? In a word – what is a successful garden? Perhaps the only measure of a garden’s success is its very survival, not the garden, but a garden, and its true measure of success the pleasure it gives to a wide variety of audiences. Thus with our gardening we recover some of the qualities that best inform human culture – diversity, civility, generosity and as a consequence, sustainability.

Sintesi esaustiva Ciclo vitale di Milly Mostardini

Dall’Armenia L’albero della verità di Sonya Orfalian

■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

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u dici un seme, e pensi, subito, alla vita. Alla vita tutta intera, dal quasi nulla al suo arco completo. E anche a tutta la terra. Cosa è un seme? Un niente, una minuscola scaglietta di materia, meno di una goccia d’acqua o di sperma, di un chicco, un acino. Ma al suo interno c’è disegnato un futuro, un mondo già specificato, quello tra milioni di altri possibili: il suo odore, colore, forma, peso, sia frutto, fiore, fili d’erba o persona, o albero centenario. Con una sua potenziale aspettativa di durata, di vita. Ti dicono che dentro i sarcofagi si trovano ancora i semi dei legumi, di cui il faraone usava nutrirsi. E che in un Paese scandinavo si sta allestendo un museo dei semi, noti o da scoprire ancora, di cui l’umanità si è alimentata nella sua lunga o breve storia. Il seme muore dando vita a una creatura diversa: non

esageriamo con le metafore, non carichiamoci con significati abusivi o sproporzionati. C’è un ciclo che ha un inizio e una fine. Un potenziale ciclo, con sviluppo positivo o negativo. Punto. Quel seme potrà essere geneticamente modificato (ma come siamo bravi ): tanti più soldi, tanta meno fatica. Il nostro progenitore ha sviluppi in gran parte noti, ma sembra anche enigmatico. Il contesto, perché si sviluppi in vita, è alla base di quasi tutto. Il ventre o il terreno dove cade, le stagioni, il clima, le cure giuste o sbagliate, diciamo pure la fortuna. Nel nostro tempo, buona parte del processo è superbamente meccanizzato, controllato, chimicizzato. Eppure il gesto del seminatore rimane un lampo vivido nella memoria umana. La famiglia dei semi è costituita dalle

radici: l’embrione è scomparso ma le sue conseguenze sono già lì. Forza, diamoci da fare, tocca a noi ora. Anche le radici possono apparirti enigmatiche. Se ti è capitato di veder rinascere all’imprevisto una pianta data per morta, anzi sbarbata, e la vedi fiorire ancora per anni, o se ti trovi nella furia di agosto una gardenia, spuntata in cima all’unico rametto secco di un cespuglio sfinito, lei bianca e profumata, puoi capire che si appartiene ostinatamente alla terra - e chi l’ha mai lasciata? - anche coltivando una piantina, con il conforto di Carlo Petrini (vedi L’Ambasciata dello scorso aprile). Che dirti, allora? Che al seme, alle radici, alla terra convien dare sempre fiducia: per me, gliela debbo quasi come ai miei figli di un altro regno, come la debbo anche a tutti quelli che seminano e alla loro fatica.

Perle del Sale

☞ OTTOBRE 2013 Testi e produzioni originali, etichette indipendenti, sperimentazione. Anche il mese di ottobre al Teatro del Sale è all’insegna della ricerca di uno sguardo sulla scena artistica reale. Ed è un virtuoso dell’organo Hammond ad aprire il mese. Stiamo parlando di Matteo Abbado e del suo Organ Trio, con Andrea Mucciarelli alla chitarra elettrica e Andrea Beninati alla batteria. Tra funky e swing, il repertorio spazia da Stevie Wonder a Ray Charles, passando da B.B. King. Mercoledì 2 ottobre è la volta del gruppo Secondo appartamento. Guido Legnaioli e Luisa Cei alla voce e alle chitarre, Riccardo Nuonno al basso, Giuliana Ancillotti alla tastiera, Patrizio Castiglia al violino. Vincitori di numerosi premi, semifinalisti al Rockcontest di Controradio, Secondo appartamento appartengono al pop folk cantautorale, i testi si ispirano alla tradizione cantautorale italiana, “pur rimanendo alla ricerca di nuove vie di comunicazione del pensiero”. Pubblicano con la nuova etichetta indipen-

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dente Asino Dischi. Il 3 arriva Profumo di Napoli ovvero la grande canzone partenopea, con la voce di Luisa Noli, Manuela Iori al piano e Gianfranco Narracci che canta, suona la chitarra e il tamburo a cornice. A seguire, il giorno dopo, arriva al Teatro del Sale la carovana de Le Canzoni da marciapiede. Una cantattrice tutta pizzi e piume, un pianista in canottiera e cilindro e dei personaggi strampalati che si prendono la scena, tra una canzone e l’altra, con le loro vicende in bilico tra il poetico, l’ironico e il grottesco. Cronache di provincia, storie d’amore, corna e altri fatti, sulle note della canzone realista italiana, francese, tedesca con elementi di cabaret, per uno spettacolo dall’atmosfera retrò ma dai contenuti quanto mai attuali. Sabato 5, prosegue la grande musica, con Tandem, ovvero il duo Poggiolesi – Romano. Da Gino Paoli a Tenco, da Il cielo in una stanza a Mi sono innamorato di te, passando dai loro incredibili brani originali, ancora una performance live, in attesa dell’uscita del nuovo lavoro

discografico A ruota Libera pubblicato da Dodici Lune. Venerdì 11 e sabato 12 ottobre torna Titino Carrara e il suo Manuale d’attore, spettacolo che attraverso la risata e la poesia del mondo degli attori, parla in realtà al profondo del cuore di ognuno di noi. Venerdì 18 è la volta dei Monologhi pop del giovane cantautore milanese Martino Corti e del suo nuovo album Le cose non contano nulla edito dalla neonata etichetta indipendente Cimice di Camilla Salerno. Alla sua seconda produzione discografica dopo Stare Qui, l’album d’esordio nato dalla collaborazione con Sandro Mussida e Non ho l’età, e dopo aver accompagnato in tour per tutto il 2010 i Nomadi, Martino Corti propone al pubblico uno spettacolo che si ispira alla tradizione del Teatro Canzone, di cui il più grande interprete è stato Giorgio Gaber. Monologhi Pop è il termine coniato dal cantautore e da Camilla Salerno per indicare il suo mondo artistico: le sue canzoni, legate tra loro attraverso monologhi ironici, divertenti e allo

stesso tempo profondi e commoventi, raccontano aspetti della vita di tutti i giorni. Sabato 19 ottobre va poi in scena Artemente con Destinazione Abbey Road, un viaggio musicale nel fantastico mondo dei mitici Beatles. Dal 22 ottobre al 2 novembre torna in scena Maria Cassi con il suo ultimo spettacolo già diventato un cult Attente al Lupo da Adamo ed Eva a Maria Cassi, con Marco Poggiolesi alle musiche in scena. Ed è proprio la direttrice artistica del Teatro del Sale Maria Cassi che racconta della grande quantità di richieste che stanno arrivando da parte di attori e musicisti, non essendo numerosi i luoghi disposti ad ospitare “musiche originali, etichette indipendenti, sperimentazione, giovani, cose non sicure. Riappaiono cose delicate che non hanno bisogno di aggressività, ragazzi normali che non hanno bisogno di stupire con effetti speciali, ma che si presentano con materiali nuovi e molto interessanti e che colgono la loro presenza al Teatro del Sale come una opportunità di crescita”.


Il popolo del blues

Seeds 4

by James O'Mara

Blues incorporated di Giulia Nuti

C’

era una volta un ragazzo nato a Parigi da genitori austriaci, che a dodici anni, nel 1940, per sfuggire alla guerra si trasferì a Londra. Si chiamava Alexis Korner. A Londra imparò a suonare chitarra e pianoforte, suonando nei club e ascoltando i dischi americani, fino a quando, a metà degli anni cinquanta, cominciò a suonare in duo con l’amico Cyril Davies. I due aprirono un club, il Blues and Barrelhouse Club. Poi, nel 1961, assieme a Davis, Korner fondò una band di blues. Si chiamava Blues Incorporated e fu la prima formazione a traghettare in Inghilterra il blues americano, suonato in versione elettrica e da musicisti bianchi. Prima si assicurarono una residenza al Marquee Club e poi, nel 1962, inaugurarono un appuntamento fisso con la Rhythm and Blues Night all’Ealing Jazz Club. La Blues Incorporated, formazione modulare fin dagli esordi, fece da palestra ad una schiera di giovani musicisti inglesi appassionati di blues: Jack Bruce, Dick Heckstall-Smith, Charlie Watts, Ginger Baker, Graham Bond, Danny Thompson. Attorno alle serate del vivo, tra ospitate e collaborazioni, ne gravitarono ben di più: Mick Jagger, Keith Richards, Brian Jones, Rod Stewart, John Mayall, Jimmy Page, Robert Plant. Erano i semi di una nuova e ricchissima scena: la scena del blues inglese, vera e propria esplosione di amore ed interesse per il genere in territorio europeo. Tra i suoi frutti, basta pensare ad alcuni dei nomi delle band che in seguito resero celebri quei giovani amanti delle 12 battute: Watts, Jagger, Richard e Jones nei Rolling Stones, Page e Plant nei Led Zeppelin, Baker e Bruce nei Cream. E citare questi è appena sfiorare la punta dell’iceberg.

Classika Il seme della speranza

Biodinamica

di Gregorio Moppi

C

he un concerto di musica classica possa favorire la pacificazione di un popolo è forse utopia senza fondamento. Ma Zubin Mehta lo crede possibile. E una volta che un seme buono è stato gettato, quello prima o poi deve dare i suoi frutti, pensa il direttore d’orchestra indiano. Perciò si è lasciato coinvolgere dall’ambasciatore tedesco in India Michael Steiner in un progetto poi rivelatosi divisivo più che riconciliante: un concerto per la concordia da tenersi a Srinagar, la capitale estiva del Kashmir, stato appartenente alla repubblica indiana ma conteso dal Pakistan e per questo, da più di un ventennio, ribollente di tensioni politiche e insurrezioni armate contro il governo di Nuova Delhi. Il concerto, avvenuto il 7 settembre in un parco pubblico blindatissimo, davanti alle telecamere di dodici emittenti tv che l’hanno diffuso nel mondo, si è tramutato in un caso diplomatico internazionale e ha causato le proteste dei separatisti che l’hanno inteso come un modo ipocrita per legittimare l’occupazione indiana della regione. Interpretazione contraddetta da Steiner, secondo cui il solo fine del concerto era toccare il cuore del Kashmir con un messaggio di speranza. Mehta ha guidato l’orchestra dell’Opera di stato bavarese in Haydn, Mozart, Beethoven e nel pezzo di un compositore locale eseguito anche con l’apporto di strumenti tradizionali. Tuttavia si è trattato di un evento elitario: 2700 invitati, compresi parecchi rappresentanti dell’establishment istituzionale, imprenditoriale e finanziario indiano. Il che ha spiazzato i dirigenti dell’orchestra che avevano accolto l’invito dell’ambasciata sapendo di dover suonare per la popolazione, non in una serata privata. Ragioni di sicurezza hanno fatto optare per un accesso limitato, la replica di Steiner. “Noi musicisti non possiamo cambiare i confini ma facilitare l’inizio di un processo di guarigione, sì”, ha invece dichiarato Mehta, mettendo a tacere ogni polemica. “Proprio ciò che abbiamo ottenuto con il nostro concerto, durante il quale indù e musulmani sono stati seduti gli uni accanto agli altri in completa armonia”. E per la sua prossima volta nel Kashmir promette di dirigere in uno stadio, aperto davvero a tutti.

Dylan Bob Chi ha scoperto il Jazz? di Marco Poggiolesi

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riginal dixieland jazz band, è questo il nome di quella che viene considerata la prima orchestra di jazz; l’ensemble che dal 1916 ha ufficialmente aperto la strada al genere musicale che più di tutti ha caratterizzato il ‘900, il seme di un albero gigantesco che continua a crescere ed a fiorire incessantemente. Ma chi era, come lui stesso amava definirsi, il Cristoforo Colombo che teneva il timone di questa nave? Da dove veniva colui che per primo si è avventurato sulle sponde di questo nuovo continente? Soprattutto in questo periodo storico attuale che stiamo vivendo dove l’arte e chi la esprime viene offuscato e affondato dal roboante e inutile brusio televisivo e dei rotocalchi, voglio gridare a tutti un nome anzi, un cognome: La Rocca! Dominic James detto Nick La Rocca. Il seme del jazz aveva le sue radici proprio qui. Già, proprio in Italia, ed anche in questo caso dovremmo ricordarci chi siamo e soprattutto di cosa siamo capaci. Oh Yeah!

Ri-cercata

Auspicabili frutti

Raccolti per il futuro

di Cristian Giorni

di Clara Ballerini

N

N

on credo che esista in natura niente di più potente di un seme. Minuscolo o voluminoso che sia, é di fatto, un condensato di informazioni e forze generatrici di forma in stretto legame con i ritmi cosmici e la madre Terra. Il seme è l’anello di congiunzione tra la vita e la morte, il sunto dello sforzo vitale della pianta e l’origine di una nuova. Il seme che appartiene ad un frutto generato dal fiore, espresso dalla pianta con la volontà di espandersi in una forma estrema, capace di accogliere la genesi del suo patrimonio genetico. Un prodigioso chicco che abbandonata la sua appartenenza al frutto, cade nella nuda terra o nello stomaco di qualche altro essere vivente e solo dopo aver perso la memoria della sua origine si trasforma in seme fecondo, pronto ad essere guidato dalle forze portatrici di forma del sole e dalle forze d’espressione della terra a dar vita ad una nuova pianta. Un equilibrio antico come il mondo, che l’uomo per secoli ha osservato e studiato, fino a penetrarlo in un ottica meccanicistica privandolo del suo legame eterico animico, generando in laboratorio sementi sempre meno in grado di collocarsi spontaneamente in un contesto naturale. Sono nati i semi di generazione F1, capaci di donare frutti turgidi e rigogliosi ma incapaci di riprodurli nelle generazioni future, fino alla deriva genetica. Semi validi solo per il primo raccolto, semi che dovranno essere riacquistati dai produttori agricoli per mano di multinazionali che detengono il monopolio delle sementi, instaurando una dipendenza economica con gli acquirenti agricoltori e disseminando il mondo di frutti sempre meno legati al contesto d’origine. “Ogni frutto è figlio della sua annata”, dicevano i vecchi del secolo scorso, abituati a seguire i naturali ritmi delle stagioni, dove la fragranza e la qualità gustativo nutrizionale dei raccolti, veniva caratterizzata dagli agenti atmosferici, dalla latitudine e dalle accortezze dei contadini. Quali auspicabili frutti ci possiamo attendere da semi Ogm o F1, se non qualcosa di fisicamente bello e rigoglioso con un’apparente aspetto salubre e commercialmente convincente, dal sapore standardizzato e lontano, molto lontano dalle fragranze originali? Un frutto che ha perso la sua stagionalità, che non regola più il diverso fabbisogno nutrizionale dell’uomo durante il corso delle stagioni. Oggi tutti i frutti della natura, sono disponibile in ogni momento dell’anno, ma per ogni frutto c’è il giusto momento. Il messaggio che porta in se una verdura, un cereale, un legume una frutta è un messaggio strettamente legato ai fattori della natura che hanno contribuito alla sua formazione, alla sua capacità di imprigionare, in determinati momenti dell’anno, tra le sue strutture molecolari elementi unici, ricchi di vita, di luce. L’uomo non si alimenta per accrescere la sua massa muscolare o introdurre in se determinate quantità di elementi, ma per produrre pensieri costruttivi e vitali. I frutti moderni, grazie alle manipolazioni dell’uomo industrializzato, sono invece sempre più in grado di generare intolleranze e problemi digestivi se non in alcuni casi vere e proprie malattie. Ma di sicuro saranno in grado di soddisfare le nostre voglie ed appagare i desideri effimeri e ludici di un tempo sempre meno legato ai ritmi della natura e sempre più dipendente dalle regole economico industriali. Mens sana in corpore sano?

el mondo scientifico i semi, seeds, non sempre portano a un buon raccolto, come nel caso della proteina prionica che costituisce, di fatto, il seme di una malattia neurodegenerativa. È possibile anche che si semini in un modo e si raccolga in un altro: cioè semi che durante la loro lunga storia per germogliare e crescere hanno avuto bisogno di modificarsi, di cambiare lasciando dietro di sé, appunto, qualcosa che resterà perduto per sempre. Eppure, nel mondo della ricerca esiste anche chi semina per garantirci un raccolto sempre più ricco: Romain Murenzi, giovane laureato in matematica all’Università del Burundi, professore di fisica negli Stati Uniti e due volte ministro nel suo paese sarà per tre anni direttore esecutivo della TWAS, accademia delle scienze nei paesi in via di sviluppo. Ha promesso che seminerà con energia per promuovere l’eccellenza scientifica in quei paesi dove questo è difficile, paesi che sono in via di sviluppo, per promuovere il lavoro di giovani scienziati per esempio africani, perché ci sia cooperazione nel mondo fra sud-sud e sud-nord, incoraggiando ricerche mirate alla soluzione di problemi locali. È con certezza un seminare metaforico, cui seguirà un raccolto assolutamente concreto.

Cinema Le vigne dell’avvenire di Juan Pittaluga

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he Grapes of Wrath (de John Ford, basé sur le roman de John Steinbeck) est une œuvre qui a fait pousser des générations de films, en touchant le cœur de nos contradictions où se fracassent le progrès et l’injustice, saveur d’un même fruit aigre-doux. Les temps nouveaux aiment écraser les géniteurs qui ne produisent plus, comme les doyens de la famille Joade qui, obliger de quitter leur terres par la crise du 1929, seront tués dans déracinement. Nous sommes sédentaires depuis 10 mil ans, mais nous portions auparavant deux millions d’années sauvage et nomades en notre instinct de homo habiles. La conquête de l’ailleurs est dans notre sang. Mais une chose reste égale d’un coté ou de l’autre du goût. Les raisins californiens de la famille Joade de Steinbeck et Ford, sont partout aujourd’hui et la globalisation va achever sa tâche dans la deterritorialization du monde -selon Deleuze. Et ce n’est pas l’indignation qui va l’arrêter, ce ne fut jamais le cas. Il faut faire le voyage du progrès et Il faut le faire ensemble. D’une certaine façon nous sommes tous dans le camion avariés et joyeux des Joades, mais une chose nous est impardonnable si elle nous arrive, celle de ne pas avoir la dignité de la mère Joades qui voyant mourir ses parents, et voyant partir son fils (Henry Fonda) se lève pour bâtir au matin un nouveau monde. C’est ce que l’Amérique de la Californie hollywoodienne a semer de mieux, ce film. Les raisins sont dans l’avenir. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

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Pieni d’Islam

Un verre de vin rouge

Gatti

L’uomo, la palma e il sesamo

Il “vero” seme

A fragile life

di Giovanni Curatola

di Ugo Federico

by Kate McBride

E

I

ra la metà del diciannovesimo secolo quando la fillossera distrusse gran parte delle vigneti europei con una delle epidemie più disastrose per l’agricoltura. Vennero risparmiate pochissime viti, per lo più piantate su terreni sabbiosi, vulcanici oppure in altitudine a circa mille metri. L’Etna, fu una di esse, dove ancora oggi troviamo vini prodotti da vigne centenarie di seme originale. Ancor di più ha fatto la famiglia Calabretta, già storica produttrice sul gran vulcano dove nel 2004 decide di impiantare un nuovo vigneto a piede franco (vite europea da seme originale e non vite americana come ormai quasi tutti hanno). Il Nerello Mascalese, uva rara ed espressiva di un terroir unico, il Piede Franco 2007 vino di grande eleganza con profumi di fiori secchi, ginepro e prugna. In bocca fine, con tannini vellutati di gran carattere, sapido e persistente. Vino straordinariamente complesso, pur se le vigne sono ancora veramente giovani. Un plauso a questa famiglia di contadini che da sempre producono vino nel rispetto del territorio e della loro splendida terra. Bevuto ad Anacapri appena qualche giorno fa.

ntense humanity stacks itself willingly on shore. At sea, solitary ships infrequently cross paths. A slow ferry escorts passengers to the Island of Ischia - a place of steam, mud, radioactive waters and a poet’s house. A naked woman on a bow passes by. Everyone stares. Three thousand years of mythology surround the scene where writers, artists and scholars all return to find the muse. Alone in an ocean of shouting voices, fumes soften a glaring sun. Glistening sweat sparkles on pavement. A rap, disco beat moves between Pozzuoli streets. Ripped layers of advertising on ancient cracked walls inspires. Not long ago, the earth shook. From the inferno rose ancient columns amidst burning Pirelli tires. Wounds heal. The stench disappears. New stucco on old hides the sore secrets of war. The dead decay. A sliver of daylight on a small hole grows a seed contained in pigeon shit. Rain falls, runs slowly down, caressing the fragile life suspended, surveying the sea, above the Bay of Napoli. ■ Traduzione su ambasciatateatrale.com

Da Tel Aviv Semi e lacrime di Sefy Hendler

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appi che, quando Dio ebbe creato Adamo che fu il primo organismo umano ad essere costituito, e quando l’ebbe instaurato come origine e archetipo di tutti i corpi umani, restò un sovrappiù del lievito della sua argilla. Da questo sovrappiù Dio creò la palma, così che questa pianta è la sorella di Adamo; essa è dunque per noi come una zia dal lato paterno. La teologia la definisce così e l’assimila al fedele credente. Essa cela dei segreti straordinari come non ne cela nessuna altra pianta. Ora, dopo la creazione della palma, rimase nascosto un sovrappiù dell’argilla di cui la pianta era stata costituita; questo sovrappiù rappresentava l’equivalente di un seme di sesamo. Ed è in tale sovrappiù che Dio distese una terra immensa”. Mohyddin ibn Arabi (1165-1240), nato a Murcia e morto a Damasco. Uno dei maggiori teologi sufi (mistici) di tutta la storia islamica, la cui descrizione del mi‘raj (viaggio, ascensione al cielo del profeta Muhammad) ha probabilmente influenzato la Commedia dantesca.

Lucio Diana

L’orto

■ Traduzione su ambasciatateatrale.com l’AMBASCIATA teatrale - Direttore responsabile: Raffaele Palumbo. Segreteria: Giuditta Picchi, Francesco Cury. Illustrazione pagine centrali di Giulio Picchi. Anno V Numero 8 del 1/10/2013. Autorizzazione n°5720 del 28 Aprile 2009. Sede legale e redazione Via dei Macci, 111/R - 50122, Firenze. Ed. Teatro del Sale info@ambasciatateatrale.com. Stampa Nuova Grafica Fiorentina, via Traversari 76 - Firenze. Progetto grafico: Enrico Agostini, Fabio Picchi. Cura editoriale: Tabloidcoop.it

SI RINGRAZIA

CONTI CAPPONI [conticapponi.it] MARCHESI MAZZEI [mazzei.it] MUKKI [mukki.it] CONSORZIO PER LA TUTELA DELL’OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA TOSCANO IGP [oliotoscanoigp.it]

Feconda fusione di Stefano Pissi

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n seme, un progetto, un’idea, sono, per il mio vedere, stati di essere, racchiusi dentro, come protetti. Stati di essere dormienti, quindi in attesa di aria, di acqua o di un treno da prendere al volo. Stati di essere statici, potenziali, ma non ancora dinamici, palesati. Il seme, quello fecondo s’intende, si forma sempre ad un incrocio – mai su di uno sterile rettilineo – proprio dove due viaggianti prudenti s’incontrano e decidono di non cambiare direzione autonomamente ma di sceglierne una terza insieme. Il seme quindi come una fusione, un concentrato. Della natura del seme mi piace la sua formazione, che si realizza grazie ad una fecondazione doppia: una nella cellula uovo formerà l’embrione e l’altra nell’endosperma secondario darà forma e sostanza al nutrimento per il neonato. A questo punto il seme c’è, e si sa che, se rimane tale, inesploso, non è un auspicabile destino. Siamo semi veri se disposti in ogni modo a viaggiare, a lasciarsi trasportare a compromettersi, mutando così noi stessi e le nostre sembianze e quindi le nostre origini ma pur sempre dimostrandole comunque. Semi germinanti capaci di generare altri semi. Semi che nella nuova vita determinano un necessario cambiamento. Semi, talvota sbriciolati e ricomposti a generare pane. Tre nobili e aspicabili conseguenze.


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