Io non ho paura

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Anno XIV, n. 2 – Novembre 2014 Spedizione in A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) Art. 1 comma 2, LO/MI

AMANI

www.amaniforafrica.it

© Gian Marco Elia

Porta il tuo cuore in Africa

Io non ho paura Come combattere il virus dell’egoismo

C

di Elisa Kidané*

tale, così acuta da intasare i distretti medici per chiedere lumi sul da farsi perché “nel mio condominio vivono degli africani... ho sentito che quella malattia là è contagiosa”. Se non fosse perché trattiamo di un tema che ha accumulato migliaia di vittime, laggiù in Africa naturalmente, ci sarebbe solo da pensare che Fantozzi ha fatto scuola. È questo allora il vero virus che deve far paura perché minaccia seriamente l’Occidente, un virus che avrebbe anche l’antidoto ma generalmente chi viene contagiato non ama sottoporsi ad una cura specifica, un virus il cui sintomo iniziale è quello di congelare i sentimenti e di rendere miopi, incapaci di guardare lontano, ma interessa-

i mancava solo questa ennesima tegola sulla già scassata (s)fortuna africana per rendere il percorso di questo continente sempre più in salita.

Se prima eravamo diversamente visibili, oggi un africano è per antonomasia pericolosamente visibile. Non ha importanza l’origine locale di provenienza: il solo fatto di essere africano rimette in moto la vivace-ignoranza-collettiva-occiden-

ti solo a quello che succede attorno al proprio ombelico. Il virus in questione ha un nome, potrebbe chiamarsi Danubio, Po, Tevere. Ci pensate? Ma no, forse è meglio chiamarlo semplicemente per quello che è, scientificamente: malsano egoismo. È questo il virus che fa davvero paura, perché prima di dividere l’umanità in razze, in privilegiati e sfortunati, in ricchi e poveri, divide la collettività e rende l’individuo diffidente, aggressivo. Ognuno pensa a se stesso, cura i propri interessi e si scaglia contro chiunque tenta di tessere relazioni, sinergia. Che sono poi gli antidoti al virus. E di fronte a questa ottusità, quale via scegliere? Quale argomentazione presentare?

Dossier

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Diversamente africani Perché governi e parlamenti del continente puniscono gli omosessuali e li trattano peggio che altrove nel mondo di Raffaele Masto Iniziative

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Lusaka: Rivoluzione a piedi nudi I giovani del Teatro Testoni di Bologna incontrano i ragazzi di Mthunzi per una performance sorprendente di Bruno Cappagli

© Andrew McConnell - Panos Pictures/Luz

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Anche nel 2015 illuminiamo insieme il buio di tanti. Buon anno!


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AMANI Lo spunto

Congo, tutta un’altra storia di Pier Maria Mazzola*

A

hiahiahi, heer Van Reybrouck… manca Tintin! Da un’opera così ricca – un libro-fiume, a immagine del «possente fiume» che lo apre e che non può che evocare l’inevitabile Cuore di tenebra – ci aspettavamo almeno una menzione dell’eroe a fumetti del suo connazionale Hergé (non voglio credere che la dimenticanza sia imputabile al fatto che lui è vallone e lei fiammingo)… Tintin, si ricorderà, è tornato alla ribalta due-tre anni fa non solo per il film di Spielberg ma perché la sua avventura in Congo (1930, riproposta a colori nel 1946) è stata portata in tribunale per razzismo – vicenda conclusasi con formula assolutoria. Tintin a parte, Congo di David Van Reybrouck (Feltrinelli), divulgativo a dispetto delle sue 700 pagine, è un libro importante. Basterà evidenziare due degli elementi che lo rendono attraente e, in certa misura, originale. Anzitutto la scrittura pressoché giornalistica. Sull’ex Congo Belga, poi Zaire, si è pubblicato tanto (Italia a parte). L’autore, archeologo di formazione, ben lo sa, dedica diverse pagine a dichiarare le sue fonti libresche, ma non intende scrivere un ulteriore testo accademico. Certo i capitoli periodizzano la storia del paese in modo classico, dall’inizio della colonizzazione, precedente quella «porcheria immonda» che fu lo Stato Libero del Congo di Leopoldo II, ai giorni nostri. Cioè i giorni (anche) della Cina. Ed è qui che l’autore, che ha fatto andata e ritorno da Guangzhou in compagnia di qualche congolese (laggiù ce ne sono a mi-

alle sue materie prime, ma come su di esso il mondo abbia giocato tante partite. Dalla guerra fredda che qui «cominciò», alle elezioni del 2006, le «più complesse di cui la comunità internazionale si sia mai fatto carico». Più di ogni altra, la recensione che Van Reybrouck avrà gradito è quella di Le Potentiel, principale giornale indipendente di Kinshasa: questo libro «è un percorso senza errori nella storia del Congo. Andate in Congo? Portate voi Congo. Una cosa è certa: questo libro segna la fine di un’era, quella di Tintin in Congo (che non ha bisogno di processi) e della Filosofia bantu, quella di un Congo visto da e per il Belgio, che ora cede il posto a un Congo da vedere anche con il Belgio».

gliaia), rivendica la maggiore originalità di fonti: ciò che ha visto e udito di persona. Il libro però è originale soprattutto perché nutrito di interviste a centinaia di persone. L’impalcatura storica ufficiale è rispettata, ma ne esce una storia “dal basso”. Fra tutti gli informatori si erge Étienne Nkasi. Non a caso la copertina dell’edizione originale ne riporta la foto. Secondo i calcoli dell’archeologo, Nkasi nacque nel 1882 (non è un refuso); solo per poco non riuscì a vedere il libro, uscito in Belgio nel 2010. Un altro personaggio di particolare interesse è Jean Lema. Giovane viveur, riesce per sorte a invitare l’African Jazz di Kabasele – il Grand Kallé che darà alla musica congolese smalto internazionale – alle nozze della figlia del suo capo, un fiammingo. È il 1954 e vige un’apartheid di fatto. Jean nota una signora portoghese sulla pista e, in «un accesso di follia», la invita a fare un ballo con lui. A sorpresa, lei accetta (e il marito pure). Successo inatteso. Un tabù infranto. L’orchestra di Kabasele gli dedicherà una canzone, Jamais Kolonga. Ma la storia di “Kolonga” non finisce qua. Alla cerimonia di proclamazione dell’indipendenza lui c’era: nel frattempo era diventato giornalista. È in quell’occasione che il primo ministro Lumumba pronuncia il suo storico, “scortese” discorso davanti a re Baldovino. Sarà soppresso sei mesi dopo quel 30 giugno 1960; una barbarie, ma che non deve cancellare i suoi errori. «Persino i sostenitori più ferventi di Lumumba – annota l’autore – si interrogarono dubbiosi sulla vicenda. Mario Cardoso, che veniva da Stanleyville, e che lo aveva rappresentato personalmente durante la Conferenza della Tavola rotonda economica, mi ha raccontato: “Ero seduto nella sala ed ero stupefatto. Lumumba si comportava come un demagogo. […] Sta commettendo un suicidio politico, mi dissi”». Il libro è un mosaico di microstorie e di grande storia che si intarsiano al punto giusto. E, quasi a difendere il senso di un’opera così impegnativa, l’autore sottolinea come il Congo non sia appena «la dispensa del mondo» grazie

*Pier Maria Mazzola, direttore responsabile del bimestrale Africa (www.africarivista.it).

Tintin au Congo.

a cura di Raffaele Masto

In Breve

Matrimonio con minorenni

Algeria

La giustizia sudanese ha annullato il matrimonio di una bambina che all’età di 5 anni è stata data in sposa a un quarantenne. Lo ha reso noto un’associazione che si occupa dei diritti delle donne e dei bambini nel Sudan. La piccola ora ha otto anni. A prendere la decisione è stato il tribunale di Oumdurman, città situata sulla riva occidentale del Nilo, di fronte alla capitale Khartoum, che ha annullato l'unione affermando che «la legge vieta qualsiasi matrimonio con bambine al di sotto dei 10 anni di età», come riferito da Nahed Jabrallah, direttore dell'associazione che aveva portato il caso davanti alla giustizia. Il giorno delle nozze Ashjan Youssef -così si chiama la bambina- aveva solamente 5 anni e suo marito, di 43 anni, era già sposato e padre di 4 figli. Il Sudan viene regolarmente criticato dalle organizzazioni che lottano in difesa dei diritti umani per la legge che autorizza i matrimoni anche con minorenni.

Libia

Sahara Occ.

Capo Verde

Mauritania

Senegal Gambia Guinea Bissau Guinea Sierra Leone

Egitto

Mali Niger

Eritrea

Ciad

Sudan

Burkina Faso

Togo Costa d’Avorio Ghana Liberia

Benin

Nigeria

S.Tomé Guinea Eq. e Principe

Camerun

Rep.Centrafricana

In Namibia la Corte Suprema ha emesso un verdetto che farà giurisdizione e potrebbe aprire una sorta di class action. Secondo la sentenza, infatti, lo Stato dovrà risarcire tre donne malate di Aids e sterilizzate con la forza in un ospedale pubblico. La decisione è stata accolta con favore anche da numerose organizzazioni impegnate in difesa dei diritti umani. Secondo i giudici, che hanno confermato una sentenza del 2012, le donne sono state spinte dai medici ad autorizzare le sterilizzazioni con l’inganno o comunque dopo aver ricevuto informazioni errate o parziali. Le donne non sarebbero state informate del fatto che il rischio della trasmissione del virus dell’Hiv da madre in figlio può essere ridotto con terapie farmacologiche. Secondo le stime fornite da alcune organizzazioni locali la pratica della sterilizzazione su donne affette dal virus Aids sarebbe stata molto diffusa negli ospedali locali all'epoca dei fatti.

Sud Sudan

R.D.Congo

Licenziati per un bacio

Etiopia

Somalia

Uganda Gabon Congo

Sterilizzazioni con l’inganno

Gibuti

Kenya

Ruanda Burundi

Tanzania Seicelle Malawi

Angola

Mozambico

Zambia

Comore

Zimbabwe

Namibia

Botswana

Madagascar Swaziland

Sudafrica

Lesotho

Maurizio

Licenziati per un bacio. È andata male in Tanzania ad una coppia di poliziotti che si era scambiata l'effusione mentre era in servizio. Un gesto di tenerezza scoperto dai loro superiori dopo che i due agenti si erano fatti fotografare in atteggiamento romantico e avevano postato l'istantanea sui social network. A riportare la notizia sono stati i principali quotidiani africani. Anche la Bbc si è interessata del caso e ha pubblicato un lungo articolo online sollevando la domanda: "Quando è giusto baciare un collega?". La fotografia è stata scattata da un terzo poliziotto a Kagera, nel nord-ovest della Tanzania, e ritrae i due agenti, un uomo ed una donna, lei seduta sopra di lui, mentre si scambiano un tenero bacio. L'istantanea è stata poi pubblicata su internet e non è passata inosservata alle autorità di polizia, che hanno preso il provvedimento. A perdere il posto non sono stati solo i due innamorati, ma anche l'agente che ha scattato la foto.

© Isaac Kasamani/AFP/Getty Images

Tunisia

Marocco


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AMANI

Diritti

Dossier

S di Raffaele Masto*

Diversamente africani Leggi e sentenze omofobe sono usate per ottenere facili consensi da poteri politici dediti a conservare se stessi. Gli effetti sono disumani e le minoranze si mobilitano

© Isaac Kasamani/AFP/Getty Images

Entebbe, Uganda, 9 agosto 2014. Manifestazione a sostegno della comunità LGBTI (Lesbian Gay Bi Trans Intersex, detta “Kuchu” in Uganda) per l'abrogazione della contestatissima legge contro gli omosessuali.

ulla questione gay l'Africa si gioca la faccia. Non tanto perché gay e lesbiche sono trattati peggio che in altre parti del mondo, ma semplicemente perché leader politici e dittatori hanno saputo cogliere in questo tema un modo di ottenere consensi senza dover concedere nulla sul piano politico e sociale, cioè senza dover fare quelle riforme che consentirebbero di distribuire la ricchezza e il potere e che, alla fine, metterebbero in discussione i loro privilegi e la loro permanenza al comando. Il grande tema del diverso in ambito sessuale è l'ideale per muovere sentimenti ed emozioni del popolo e cavalcarne gli umori. Uno stratagemma, questo, che hanno utilizzato con forza e spregiudicatezza i peggiori “dinosauri” del continente, come l'ugandese Yoweri Museweni o l'inossidabile presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe. Di fatto, però, nessuno dei capi di stato e di governo africani si è tirato indietro su questo tema, tanto che la legislazione dei 54 paesi del continente ne porta i segni: in Africa gay e lesbiche sono discriminati, insultati, relegati ai margini della vita sociale, imprigionati, disprezzati, costretti a subire ogni sorta di vessazione, sopruso, violenza. Ma se chi detiene il potere può usare impunemente questo argomento, evidentemente l'omofobia e la questione del diverso dal punto di vista sessuale sono qualcosa che muove le corde profonde del popolo, che affonda le radici nella storia del continente. Certamente in quella recente determinata dallo schiavismo, dal colonialismo e poi ancora dalle indipendenze e dal post-colonialismo, ma anche in quella antica.

Nella tradizione africana l'omosessualità è un argomento tabù. La diversità sessuale non esiste e quando si manifesta è un tema del quale non bisogna parlare. In sostanza è questo il messaggio tacito che traspare nei costumi e nei comportamenti delle persone, sia nei villaggi che nelle grandi città. Il rifiuto categorico, intransigente, quasi paranoico di una sessualità tra persone dello stesso sesso è accompagnato da un’auto-censura altrettanto ferma, integralista e diffusa. Prevale il silenzio, la volontà di ignorare la questione, l'imperativo è far finta di niente, rimuovere. Almeno a parole. Perché nei fatti in molti paesi africani gli omosessuali vengono trattati alla stregua dei criminali. E non solo per le violenze verbali e fisiche che sono costretti a subire nella vita di tutti i giorni, nelle scuole, nei posti di lavoro, nelle strade, anche in casa, anche dai propri genitori, fratelli, sorelle. C'è dell'altro. C'è di peggio. Alle lesbiche e ai gay africani la polizia e gli agenti delle forze statali riservano trattamenti disumani: abusi, torture, arresti arbitrari, detenzioni illegali. Tutto questo grazie a una ragnatela di leggi che non lasciano scampo, che condannano i diversi e lasciano impuniti gli aguzzini. Non sono rari, poi, i casi di condanne a morte eseguite senza regolari processi. Avviene in Africa Australe, nel Maghreb, in Africa Centrale. Passare in rassegna i diversi paesi africani è un buon modo per farsi un’idea di come stanno le cose: quasi ovunque gli omosessuali sono repressi da norme e pratiche sociali che negano loro diritti di uguaglianza, di libertà e salvaguardia fisica, così come altri diritti fondamentali quali la libertà di associazione, di espressione, il diritto alla privacy, al lavoro, all'educazione e alle cure mediche. È interessante

notare però come in buona parte queste norme derivino o siano reminiscenze della dominazione coloniale. La domanda che sorge spontanea di fronte a questo groviglio di leggi, di norme tacite, di comportamenti consolidati e approvati dalla gente comune è: su cosa si fonda l'accanimento contro gay e lesbiche in un continente dove la tolleranza è un comportamento spontaneo, dove il confronto con il diverso (il bianco in passato, oggi l'uomo con gli occhi a mandorla, l'handicappato, il cieco, l'anziano) diventa, meno che in altre regioni, occasione di conflitto, di diffidenza, di paura? Il tema potrebbe essere oggetto dello studio di un antropologo o di un sociologo, che quasi certamente non arriverebbero a conclusioni univoche. Quello che si può dire qui è che in Africa ha pesato, e influisce anche oggi, la posizione di alcune grandi istituzioni come la Chiesa e il modo di affrontare questi temi da parte dell'altra grande religione continentale, cioè l'Islam. Come pure, oggi, l'influenza che producono gli strali e le condanne dei leader al potere consolida un sistema che, di fatto, tiene gay e lesbiche prigionieri di organizzazioni sociali profondamente ingiuste che hanno bisogno di capri espiatori, che hanno bisogno di nemici interni ed esterni. Del resto i comportamenti di molti leader sono significativi. Oltre ai già citati Uganda e Zimbabwe ci sono paesi nei quali il dibattito su questi temi ha prodotto frasi che la dicono lunga su un accanimento che sembra voluto espressamente dal potere piuttosto che dal popolo. In Namibia un ex ministro degli esteri, Jerry Ekandjo, aveva dichiarato che «bisogna eliminare dalla faccia della terra gay e lesbiche. Gli omosessuali andrebbero classificati come sbagli della natura e andrebbero considerati come malati di fronte alla società e a Dio». In Namibia questo ministro e le sue dichiarazioni vengono spesso riprese per mantenere vivo il sentimento contro gay e lesbiche. Oppure ancora alcune frasi di Robert Mugabe che vengono riproposte in continuazione in Zimbabwe: «Sono peggio dei cani e sono ripugnanti per la mia coscienza, non meritano nessun diritto». E, ancora, sempre lo stesso Mugabe: «È estremamente oltraggioso e ripugnante che gli omosessuali possano avere difensori in questo mondo». Il Kenya, che pure è un paese con una grande presenza europea, di organizzazioni per la cooperazione e di agenzie delle Nazioni Unite, vanta dichiarazioni e comportamenti tra i più razzisti e violenti a questo proposito: «L'omosessualità è un flagello che va contro gli insegnamenti della tradizione africana» - disse il vecchio presidente Arap Moi. Recentemente questa dichiarazione è stata ripresa dall'attuale vice presidente William Ruto. Nella Repubblica democratica del Congo, il presidente Kabila è stato ancora più esplicito: «Gli omosessuali sono esseri depravati e non dovrebbero godere di nessun diritto perché si comportano alla stregua degli animali».

*Raffaele Masto, giornalista di Radio Popolare, segue da anni le vicende africane. È autore del blog Buongiorno Africa.


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AMANI

Progetti

LUSAKA RIVOLUZIO I di Bruno Cappagli*

l cielo sempre limpido, pieno di sole e i tramonti rosso amarena sono la cornice quotidiana di quella che è stata un’esperienza importante ed emozionante. Nell’agosto di quest’anno io e Alessandra, Bruno, Elia, Margherita e Simona, cinque ragazzi che frequentano da tempo i laboratori del Teatro Testoni Ragazzi di Bologna, siamo stati al Mthunzi Centre di Lusaka per realizzare un segmento del nostro progetto “Ambasciatore”, che ha lo scopo di portare gratuitamente spettacoli e laboratori teatrali nei paesi in cui i bambini vivono in situazioni di disagio sociale ed economico. A Mthunzi vivono per lo più ragazzi tra i 10 e i 17 anni, orfani o con situazioni famigliari drammatiche, che nel corso della loro infanzia hanno vissuto condizioni terribili quali nessun bambino o bambina dovrebbe vivere. Sono cresciuti con la fame, nello sporco, in ambienti fatiscenti privi di bellezza. Sono cresciuti poco: a causa della denutrizione e degli ambienti malsani sembrano tutti più piccoli di quello che sono. Ma c’è una cosa che nulla è riuscito a scalfire: la voglia di vivere, di gioire, di ridere, di essere bambini, di continuare a credere che esista l’amore e soprattutto che esista un mondo migliore che li possa accogliere e restituire loro quella dignità che ogni essere vivente dovrebbe avere garantita.

L’incontro con i bambini è stato davvero intenso. Nel presentarmi vedo nei loro occhi molta timidezza ma subito noto anche che c’è spazio per aprirsi, che c’è voglia di incontro… L’avevo già percepito a Bologna, ma essere a casa loro è molto diverso. Qui nel centro c’è già da un mese un gruppo di volontari italiani che hanno deciso di dedicare le loro vacanze ai bimbi. Noto subito la grande confidenza e l’affettività che si è creata tra loro. Questo mi permette di entrare piano, di scoprire e conoscere i ragazzi senza fretta, non voglio impormi, qui si tratta di incontro e di fiducia, e poi io non so nulla di loro, non conosco questo paese e la sua storia. Padre Kizito mi racconta della crisi del rame, della devastazione dell’Aids e di alcuni aspetti culturali, mentre Giacomo mi presenta tutte le persone che lavorano nel centro, mi parla dei loro ruoli e delle loro competenze. Poi inizio a incontrare i ragazzi. A pelle mi fanno subito allegria, sono liberi e intelligenti, curiosi e orgogliosi, sensibili e dolci, educati e rispettosi. Ma quello che più mi ha colpito è il loro bisogno di affetto, il bisogno di sentirsi amati e ascoltati. Io sorrido timidamente e faccio quello che faccio anche in Italia: ascolto, gioco, rido, e soprattutto cerco di essere vero. Non faccio l’amicone e soprattutto guardo.

Ho conosciuto Amani nel novembre 2013 in occasione dello spettacolo Tiyende Pamodzi, quando ho condotto un la-

Il lavoro è stato intenso e complesso, ma questa storia ha qualcosa di magico.

da pag 1

Io non ho paura

Questo virus è moralmente letale quando intacca gli organismi nazionali capaci di investire un capitale per un singolo cittadino, e fregarsene altamente quando una pandemia colpisce migliaia di persone, soprattutto se si trovano anni luce lontani dai propri interessi. Una pandemia chiamata Ebola, pensate. Le hanno affibbiato il nome di un fiume della Repubblica democratica del Congo, il fiume Ebola. Potevano chiamarlo, come si fa generalmente, con un nome scientifico oppure con il nome di chi l’aveva individuato. Invece in questo modo si è circoscritto il fenomeno, identificandolo con uno stato, in un continente avvezzo a morire. Ma questa volta l’Ebola ha rotto le linee di demarcazione africane, e il timore ora è palpabile. Ed è questa la gran paura dell’Occidente, che sembra più spaventato per il fatto di venirne contagiato (pur sapendo che avrebbe mezzi a sufficienza per arginare il male), che non per le migliaia di vittime già fatte in alcuni paesi africani. È questo che deve far paura. Deve farci paura la fredda logica che reputa che questi sono fatti loro, perché l’importante è che qui si prendano misure drastiche per lasciare fuori le miserie endemiche dell’Africa. Se non fosse perché la situazione è davvero tragica, verrebbe da sorridere nel guardare le mastodontiche misure di sicurezza prese in America e in Europa per i pazienti zero, che hanno contratto il virus Ebola. Ma c’è poco da sorridere se si pensa invece che quelle precauzioni sono chimera per quei paesi che hanno pazienti con troppi zeri. Non dobbiamo avere paura dell’Ebola, ma dobbiamo aver paura del fatto che non sono state prese precauzioni importanti per impedire che 5.000 persone in Liberia, Sierra Leone e Guinea morissero. Dobbiamo avere paura del fatto che l’Oms, un organismo mondiale che dovrebbe salvaguardare la salute di tutta l’umanità, ha sfacciatamente ammesso che si sono fatti degli errori nella gestione dell’emergenza e – non soddisfatta – ha pure sottolineato che si è data una risposta inadeguata per fermare il virus letale in Africa. Tanto si sa, errore più errore meno, tutto dipende a quale latitudine ci si trova. Una dichiarazione simile, nei riguardi di un paese dell’Occidente, sarebbe costata come minimo il posto agli (ir)responsabili di cotanta avventata leggerezza. Ma i morti, le vittime, hanno un peso specifico se si trovano a sud o a nord del mondo. È di questo che dobbiamo avere paura. Non facciamo finta di non sapere che dietro i morti per un virus ci sono degli interessi commerciali altissimi. È questo che ci deve far paura. Sapere che si specula sulla pelle e sulla vita della gente. E allora più che l’Ebola, alla quale non serve il panico, ma misure adeguate di sicurezza, progetti di salute dignitosa, a noi devono fare paura coloro che cavalcano il panico e l’ignoranza collettiva, pur di umiliare la dignità del singolo, di chi è percepito come un diversamente altro e quindi una potenziale minaccia; devono farci paura coloro che usando ogni mezzo trasmettono falsi e ambigui messaggi, senza nessuna base scientifica, mettendo a repentaglio il lungo percorso intrapreso per una convivialità plurale e diversa. È di questi che dobbiamo avere paura, dei sabotatori di utopie, non dell’Ebola, che come qualsiasi virus, per quanto letale possa essere, se preso con le dovute precauzioni può venire circoscritto e debellato. Altrimenti, mi chiedo, se non siamo capaci di debellare il virus dell’egoismo, se qui su questa Terra non siamo in grado di proteggere ogni singolo individuo, che ci andiamo a fare sulla Luna? * Elisa Kidané, missionaria comboniana, direttrice editoriale di Combonifem.

© Archivio Amani

boratorio con i ragazzi zambiani in viaggio in Italia. L’incontro è stato magico e divertente. C’era con noi anche padre Kizito, che quel giorno mi ha detto: «Sai Bruno, anche se non parli bene l’inglese dovresti venire in Zambia per lavorare un po’ con loro!». Detto-fatto, ad agosto siamo partiti.

Bruno Cappagli durante un laboratorio a Lusaka.

Durante la nostra permanenza a Lusaka è iniziato un festival internazionale di arti performative chiamato Barefeet, a cui siamo stati invitati a partecipare. Il tema di quest’anno era “Revolution”, in onore del 50° anniversario dell’indipendenza dello Zambia. I ragazzi del centro sono dei musicisti e danzatori davvero straordinari, ma ciò che gli manca è la capacità di elaborare uno spettacolo completo, riempirlo di contenuti, trovare una storia. Questo è quello che abbiamo provato a trasmettere. E così nel giro di due giorni siamo riusciti a creare una performance chiamata “Marziani vs Venusiani”, una piccola azione di 10 minuti nata in modo sorprenden-

Un trattore a Mthunzi dalla mail di Giacomo D’Amelio, responsabile dei progetti in Zambia Lusaka, 18 settembre 2014 Carissimi, con grande piacere vi informo che ieri alle 11:30 è arrivato a Lusaka il container con il trattore nuovo donato ad Amani dalla New Holland di Modena e gli attrezzi da lavoro e le macchine agricole offerte gratuitamente dal Sermig e dalla Cooperativa Agripò di Torino. Abbiamo lavorato tutto il giorno in squadra per riuscire a scaricare; alle 17:00, arrivati a Mthunzi, abbiamo messo in sicurezza tutti i materiali che sono in ottimo stato. In serata abbiamo fatto un primo festeggiamento con tutti i bimbi: una bella cena a base di polenta, cavolo e salsiccia per poi chiudere a grande richiesta con l'ennesima proiezione del video su Tiyende Pamodzi. C'erano circa 80 persone non solo di Mthunzi ma di tutta la zona. Sono tutti emozionati e felici, e soprattutto sinceramente grati per questo investimento di cui beneficerà l’intera collettività. Non so davvero come descrivervi l'emozione della comunità e la soddisfazione per l'esito positivo di questa spedizione che ci ha visti impegnati a testa bassa per due mesi. Senza il serio impegno degli amici che ci hanno supportato in Italia, tra cui soprattutto il Sermig e la Cooperativa Agripò, sarebbe stato tutto ancora più complesso. Adesso manca soltanto un agronomo professionista che abbia tempo e voglia di passare qualche mese a Mthunzi per sfruttare al meglio i 40 ettari di terra che abbiamo a disposizione. Aspettiamo, chissà che non arrivi presto anche lui… Un caro saluto, Giacomo D’Amelio


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Zambia

© Archivio Amani

te grazie a una serie di buonissime sinergie, ma soprattutto grazie a una grande fiducia fin da subito concessa. Ci siamo esibiti al Barefeet Festival insieme a tantissimi ragazzi di altre realtà della città e dello Stato intero. Poi gli organizzatori del festival mi hanno chiesto se potevamo essere presenti in una performance collettiva all’interno del museo nazionale. Una vera follia, si trattava di preparare una scena in 2 giorni con il tema di un matrimonio ostacolato da un terzo incomodo. Ed è qui che avviene la meraviglia: riesco a scrivere un testo, ai ragazzi piace, dicono che si può fare, che vogliono mettersi al lavoro. C’era da imparare un testo, cosa assolutamente nuova per loro, c’era da fare un’azione corale, con grande controllo del corpo e dello sguardo, c’era da imparare la chiave poetica e tragica, che nel loro modo di fare teatro non esiste affatto. Questa novità però li intrigava ed è in quel momento che è nata una grande intesa: nell’affrontare qualcosa di nuovo e difficile, nel tentativo di andare oltre, nel capire, poi, di poter fare grandi cose in futuro. Infine il colpo a sorpresa: l’ultimo giorno di festival il centro Mthunzi riceve due premi per la performance “Marziani vs Venusiani”. Si tratta del premio per le migliori maschere e soprattutto per il gruppo più creativo ed ispirato! Per tutti noi è stata una grande emozione e soddisfazione. Ma la cosa più bella è stata l’esperienza di incontro e confronto quotidiano con questi ragazzi così ricchi di poesia e di vita. Sapere che la bellezza può vincere il male è pura gioia. Grazie a tutti i ragazzi di Mthunzi e a tutti quelli che lavorano per portare la bellezza nelle nostre vite. *Bruno Cappagli, autore, attore, regista e conduttore di laboratori, è direttore artistico de La Baracca-Testoni Ragazzi di Bologna.

Guy Scott: il primo leader democratico bianco in Africa di Pietro Veronese*

C’

è una foto dello scorso agosto che ritrae il vicepresidente dello Zambia e signora ricevuti alla Casa Bianca dal presidente degli Stati Uniti e signora. Tutti e quattro sorridono per la circostanza. La coppia zambiana è bianca, Guy Scott e Charlotte Harland-Scott. La coppia americana che li inquadra, lui a sinistra, lei a destra, è nera: Barack e Michelle Obama. Qualcuno ci potrebbe vedere il mondo alla rovescia: due bianchi a rappresentare un Paese africano e due afroamericani ad accoglierli in quella che fino a pochi anni or sono era una Casa molto Bianca. Ma tutti appaiono contenti e nessuno sembra farci caso, come è giusto che sia. All'epoca i media non hanno considerato l'avvenimento una notizia degna di nota. Adesso che il presidente dello Zambia è morto (si chiamava Michael Sata ed era una persona interessantissima, di umili origini, eletto a furor di popolo), Guy Scott lo ha sostituito, sia pure per un periodo di soli 90 giorni al termine del quale ci saranno nuove elezioni. Al momento il capo dello Stato zambiano è dunque lui. E all'improvviso il colore della sua pelle è diventato una notizia. A dir la verità non tanto in Zambia, dove è una personalità no-

ta e popolare da tempo, quanto sui media anglosassoni, in particolare quelli britannici, e di riflesso da noi. «Il primo bianco a guidare uno Stato africano dalla fine dell'apartheid in Sudafrica vent'anni fa» (The Economist). Tutti hanno seguito più o meno su questo tono, chi meno, chi peggio come il londinese Telegraph che ha fatto un titolo (poi cancellato) sul «ritorno alla white rule», cioè all'epoca in cui i bianchi dominavano e governavano la Rhodesia, di cui l'odierna Zambia faceva parte. La cosa imbarazzante è che questa attenzione al colore della pelle è tutta nostra, tutta europea. Il settantenne Scott è nato in Zambia, è uno zambiano a tutti gli effetti e tale lo considerano i suoi concittadini, anche se suo padre era uno scozzese di Glasgow. Si è laureato a Cambridge, ma parla perfettamente i due idiomi maggiormente diffusi nel suo Paese, il Nyanja e il Bemba. È in po-litica da tempo e chi ha ascoltato i suoi comizi dice che è un tribuno anche più brillante di quanto non sapesse esserlo Michael Sata. Con il defunto presidente Scott era in piena sintonia, con-dividendone il nazionalismo economico che ha per principale bersa-glio la penetrazione dei capitali e delle imprese cinesi in Zambia, specie nel settore minerario. Adesso nel partito al potere è in corso una lotta per la successione e non è chiaro se Scott abbia intenzione di presentarsi. Ma questa è un'altra storia, che con il colore della pelle non c'entra nulla.

5 agosto 2014, Guy Scott e Charlotte Harland-Scott ricevuti alla Casa Bianca.

© Amanda Lucidon

© Archivio Amani

ONE A PIEDI NUDI

*Pietro Veronese, giornalista, segue da trent’anni le vicende africane.


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AMANI

Progetti

La Casa di Anita compie 15 anni di Anna Ghezzi*

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ove anni dopo. Tornare ad Anita dopo così tanto tempo permette di vedere i piccoli o grandi passi fatti. Percepire che molto è cambiato, in meglio, e che nove anni sono serviti al progetto per crescere e camminare con più sicurezza. I fili con il bucato steso ad asciugare sono sempre lì, così come il grande lavatoio, i fiori. Il parco giochi no, quello è finito dal lato opposto, rispetto al 2005: la giostrina su cui Ugo faceva volare le bimbe ora è appena dietro il “gazebo”, il grande cerchio dove si balla, si lavora, si sta insieme. I giochi hanno lasciato spazio all’orto, sempre più grande. E sullo sfondo restano le stalle. Nosotua ha più o meno l’età di Anita’s Home, fondata 15 anni fa. Nosotua era piccina piccina nel 2005, non parlava, si aggrappava, cercava abbracci. Ora è un’adolescente sveglia, diffidente come è giusto che sia. Ma l’intelligenza si vede dallo sguardo, dal modo in cui scherza, anche con le più piccole. I capelli ordinati, i vestiti impeccabili. Ecco, i vestiti. Nove anni dopo ho visto bimbi e ragazzi ben vestiti, armadi in ordine, letti di casa, stanze vissute. Aria di casa.

Salire lungo la strada che porta ad Anita è un po’ come percorrere 15 anni di progetto. Di fronte al cancello dietro il quale le bambine trovano rifugio c’è un altro grande cortile, edifici che prima non esistevano. Il terreno l’avevamo comprato allora, ora si è trasformato in spazi, progettualità. Lì ci sono i laboratori in cui le GtoG con l’aiuto di Grace si inventano un futuro fatto di vestiti, moda, design, stoffe e professionalità. Un lavoro. Con lo stipendio c’è chi è riuscita a prendere una casetta, uscire dallo slum. Comprare una tv. Le ragazze di allora sono donne, con figli, combinare tutto non è semplice. Ma se si entra nel regno di Monica, fatto di cartamodelli appesi e vestiti da terminare, di ritagli di stoffa tenuti «perché magari riusciamo a farci qualcosa», si intravedono i colori di un futuro possibile per tante ragazze che ad Anita hanno trovato una speranza ma, alla fine, restano sole ad affrontare il mondo. E tutto questo scalda il cuore.

Dorkas io me la ricordo con una cuffia di lana, infradito, felpona e pantaloni larghi, qualche parola di italiano masticata bene e spirito critico. La rivedo in abitino e ballerine, capelli raccolti e borsetta mignon. Una signorina. Da due anni lavora come commessa in un negozio nello slum in cui vive ancora con la mamma malata. È lei che pensa alla famiglia, ha 23 anni ed è stata una delle prime ragazze di Anita. Aveva sette anni, nel 1999, ha vissuto in strada e poi attraverso il Rescue Dada, il centro di prima accoglienza, è arrivata nella casa rifugio sulle colline Ngong. Susan, la sorella, compirà 19 anni il 31 dicembre: vuole diventare chirurgo, senologa: ha dovuto lottare con tutte le sue forze, ma il 22 settembre si è seduta tra i banchi di quell’aula. «Quando mia mamma si è ammalata ho deciso che sarei diventata un dottore», racconta. Per farlo ha dovuto confrontarsi anche con un sistema scolastico in cui le ragazze valgono meno, figuriamoci se vengono da una comunità. Ad Anita lei è arrivata nel 1999, a tre anni, con le prime otto. Era già stata in strada, prima dei due anni. «Le mie cose le portavo nelle borse di plastica –racconta- eravamo io, Dorkas, Monica, Mary, Mwendo, Salome, Nzambu ed Ester». Ha lottato per avere un buon voto agli esami e potersi iscrivere a medicina. Poi ha chiesto ad Amani di aiutarla con una borsa di studio. Per l’università le servivano due uniformi, vestiti, scarpe e zoccoli da medico. I libri. Una spesa ragionevole per noi, enorme laggiù. Ce l’ha fatta. Anche se casa sua, nonostante la corrente sia finalmente arrivata nel quartiere, la sera si accendono ancora le candele. *Anna Ghezzi, giornalista de La Provincia Pavese e volontaria di Amani, vive e lavora a Pavia

© Illustrazioni di Francesca Dimanuele

Anche Cynthia allora era una bimba. L’ho ritrovata giovane donna. In attesa di potersi iscrivere a un corso universitario fa la volontaria ad Anita da qualche mese. Dà una mano alle due mamme e intanto impara. Sempre con quel sorriso dol-

ce, quello sguardo sognante che non l’ha abbandonata, nonostante gli anni e il ritorno certo non facile allo slum dopo le scuole superiori. «Anita per me è casa, è stata la possibilità di crescere, di studiare. Torno volentieri, qui sto bene. E posso dare una mano, come altri hanno fatto con me». Ride, Cinthya, gioca. Accompagna le altre più piccole, insegna a fare chapati perfettamente tondi, perfettamente lisci, ha occhi e mani per stare dietro a tutto, per non lasciare che le ospiti si sentano sole, aiuta le ragazze ai bracieri appoggiati a terra per verificare che la cottura dei chapati sia fatta come si deve, senza mai smettere di cantare, di chiacchierare. E trovando un minuto per dare una mescolata al pentolone di fagioli che borbotta sul fuoco, nella cucina comune dove tutti insieme, quando ci sono ospiti, preparano i pasti comunitari.

Progetti KENYA Kivuli Centre: progetto educativo che accoglie in forma residenziale 60 ex bambini di strada, copre le spese scolastiche di altri 70 bambini ed è aperto a tutti, proponendo diverse attività. Kivuli è diventato un punto di riferimento per i giovani del quartiere circostante, con laboratori artigianali di avviamento professionale, una biblioteca, un dispensario medico, un progetto sportivo, un laboratorio teatrale, una sartoria, un pozzo che vende acqua a prezzi calmierati, una scuola di lingue, una scuola di computer e uno spazio sede di varie associazioni, per momenti di dibattito e confronto. Casa di Anita: casa di accoglienza a Ngong (20 km da Nairobi) curata da due famiglie keniane. La Casa di Anita accoglie 20 ex bambine e ragazze di strada vittime di violenze di ogni genere, inserendole in una struttura familiare e protetta, permettendo una crescita affettivamente tranquilla e sicura, e continua a seguire le ragazze più grandi che sono rientrate in famiglia. Ndugu Mdogo (Piccolo Fratello): progetto socio-educativo, è un punto di riferimento per i 200 ragazzi che, con le loro famiglie, sono stati accolti nel programma di assistenza e riabilitazione dal 2006 ad oggi. Kivuli Ndogo e Ndugu Mdogo Rescue Centers: sono centri di prima accoglienza e soccorso per i bambini e i ragazzi che negli immensi quartieri di Kibera e Kawangware sono ancora costretti a sopravvivere per strada senza la cura e l'affetto di un adulto. Questi centri sono il primo passo di un percorso di recupero che potrà portarli poi a Kivuli, Ndugu Mdogo o alla Casa di Anita. Borse di Studio don Giorgio Basadonna: permettono a studenti meritevoli privi di possibilità economiche di proseguire nel percorso di studi superiore e acquisire una preparazione qualificata per il loro futuro: un modo concreto per ricordare l’impegno di tutta una vita spesa da don Giorgio per la crescita dei giovani.

Riruta Health Project (RHP): programma di prevenzione e cura dell'Aids, nato in collaborazione con Caritas Italiana, offre assistenza a domicilio a malati terminali e a pazienti sieropositivi nelle periferie di Nairobi. Families to Families (FtoF): programma di sviluppo comunitario nato da un gruppo di famiglie italiane per sostenere gli ex ospiti dei centri nel percorso di reinserimento familiare e nella comunità locale. Geremia School: una scuola di informatica che fornisce una formazione professionale di alta qualità, per contribuire a colmare il digital divide Nord-Sud. Diakonia Institute: offre corsi universitari in Scienze Sociali e Sviluppo Comunitario (microcredito, impresa sociale) per formare a livello accademico figure in grado di lavorare nelle baraccopoli con professionalità.

ZAMBIA Mthunzi Centre: progetto educativo realizzato dalle famiglie della comunità di Koinonia di Lusaka. Oltre ad accogliere in forma residenziale 60 ex bambini di strada curandone la crescita e l’educazione, è un punto di riferimento per gli altri abitanti dei centri rurali circostanti, con il suo dispensario medico e con i suoi laboratori di falegnameria e di sartoria per l’avviamento professionale.

SUDAN Centro Educativo Koinonia: due scuole sui Monti Nuba che garantiscono l’educazione primaria a circa 1200 ragazzi ed una scuola magistrale per selezionare e formare giovani insegnanti Nuba per riattivare la rete scolastica gestita dalle popolazioni della zona.


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AMANI Iniziative

Adozioni a distanza

Perché tutti insieme

IL CALENDARIO AMANI 2015 accompagna alla scoperta di un futuro che è già qui, di storie capaci di stupire, sensibilizzare, insegnare e contribuire a diffondere una visione fiduciosa sul futuro del continente africano.

L’Africa risorge ogni giorno Introduzione al calendario Amani 2015 di Pietro Veronese Ci sono i camerieri che arrivano a piedi al primo turno di mattina, sonnolenti, intirizziti dal freddo, sorridenti non ho mai capito se per natura o per contratto, nel lussuoso albergo di Sandton, Johannesburg. Sandton è chiamata "il miglio quadrato più ricco dell'Africa" e loro arrivano in giacchetta, in un'alba di ghiaccio. C'è il canto del gallo che fa alzare centinaia di milioni di persone nelle loro capanne, dalle stuoie distese su pavimenti di terra battuta. Risvegli senza acqua, senza elettricità, senza un fornello da accendere con la leggera pressione di un bottone. Donne che stancamente attizzano il fuoco, bambini che indossano l'uniforme scolastica. C'è una luce di speranza, un sole che si leva sul continente più povero e più ottimista del mondo, dal presente più incerto e più di ogni altro sicuro che il futuro sarà migliore. Un mondo che non ha niente in tasca e molto da insegnare, che manda i suoi figli a cercare fortuna sui nostri marciapiedi, ad additarci un avvenire comune che noi non riusciamo a vedere. Noi siamo piccoli, rispetto all'Africa: cento volte più grande dell'Italia, e appena sedici volte più popolata. Pur eliminando dal conto il grande deserto che ne occupa tutto il nord – nove milioni di chilometri quadrati – resta pur sempre il continente degli spazi infiniti. Degli slums dove si affolla la povertà, delle colline coltivate passo a passo come nell'abitatissimo Ruanda; ma anche degli orizzonti apparentemente disabitati, delle savane dove la figura lontana di un cacciatore solitario appare come l'unica forma di vita. L'Africa mille volte violentata, l'Africa del perdurante boom demografico, è pur sempre, rispetto al nostro mondo esausto, un continente vergine. Il continente delle possibilità. Che lo rimanga ancora, dopo secoli di saccheggi e di violenze, testimonia la sua grandezza, la sua forza. Questa grandezza ha ispirato nel tempo, invece che ammirazione e rispetto, ingordigia e volontà di rapina. Dapprima fu la semplice legge del più forte. I re del Congo che cinquecento anni fa si convertirono ammirati alla fede cristiana, scoprirono ben presto che gli uomini bianchi venuti alle coste dell'Africa sospinti dal vento, su meravigliosi velieri, volevano schiavi ed avorio, e non fratellanza. (Riassume con sintesi geniale il vescovo sudafricano Desmond Tutu, sovversivo premio Nobel per la Pace: «Loro avevano la Bibbia, e noi la terra; adesso noi abbiamo la Bibbia e loro la terra»). Seguì l'ipocrisia della missione civilizzatrice, il "fardello dell'uomo bianco", lo sfruttamento giustificato con la paradossale motivazione di rendere migliore la sorte degli oppressi. Infine, dopo un secolo di colonialismo, il mercato, le "ragioni di scambio" delle merci. Anche qui, direbbe Tutu, gli africani avevano le merci, gli occidentali il mercato. La "ragione" era tutta da una parte. Le foreste, le miniere, i giacimenti, le acque pescose hanno continuato a riversare le loro ricchezze lontano dall'Africa. E tuttavia il continente, che nel XXI secolo lentamente si va riappropriando di se stesso, rimane immensamente ricco, di risorse e di segreti. «Soltanto di diritti di sorvolo, questo Paese vale un'immensa fortuna», mi disse un diplomatico a Kinshasa, capitale dell'allora Zaire, oggi Repubblica democratica del

Congo. Il Paese era in guerra, Kinshasa era una metropoli allo stremo, gli ambasciatori giravano sotto scorta, non c'era un bianco che vi si avventurasse a piedi, negli uffici pubblici erano stati rubati perfino gli interruttori della luce (che del resto non c'era quasi mai). Eppure, seduto al bordo di una piscina al lume di una lampada a petrolio, protetto da guardie armate, quell'uomo mi fece quasi sottovoce un lungo elenco di ricchezze che il mio taccuino – era il 2001 – ancora conserva: «Uno spazio sconfinato, un crocevia obbligato; risorse minerarie immense» – lo definì «uno scandalo geologico»; «una quantità d'acqua smisurata: il serbatoio del mondo, e un potenziale idroelettrico che potrebbe bastare all'intero continente; terre che si estendono a un incrocio ideale di latitudini e longitudini e opportunamente coltivate potrebbe sfamare tutta l'Asia». Una volta liberata, l'Africa è rimasta in larga parte oppressa dai suoi tiranni e dai suoi errori. Piano piano, dove ha potuto, si è sbarazzata degli uni e degli altri e ha provato a cambiare il nostro sguardo accondiscendente. Ha vinto nelle più proibitive discipline dello sport. Ha studiato, lavorato, faticato. È rinata dalle proprie ceneri, a Kigali, a Mogadiscio, a Bamako. Ha promosso qui e là le sue donne ai vertici del potere politico e economico. Si è conquistata un posto nel mondo della creatività, della moda, dell'arte. Ha attirato turisti, sedotto donatori, conquistato cuori. Ha fatto timidamente notare che era da tempo maestra in ciò che noi stiamo soltanto adesso goffamente imparando: economizzare risorse, limitare consumi, riciclare sprechi, convivere con il proprio ambiente e con il proprio passato. Alla fine, ha ancora una volta piegato parzialmente la testa alla mentalità dominante e si è attirata consensi renitenti nel modo più vieto: con le performance dei suoi Pil, l'esibizione di una ricchezza questa volta domestica e non d'esportazione, il crescente appetito di nazioni che hanno qualche soldo da spendere e voglia di consumare. Oggi l'Africa convince investitori e accumula diseguaglianza. Sopravviverà anche a questo. Nella sua infinità varietà, nei suoi opposti eccessi e nelle differenze estreme, nelle sue grandezze e nei suoi orrori, con i suoi picchi e i suoi abissi, l'Africa troverà una sintesi, equilibrio. Siamone certi, come lo sono gli africani. Perché questo è, secondo me, il segreto che tutti gli altri racchiude: l'Africa è un continente di credenti. Dove la fede – nella vita, nel domani, negli spiriti degli antenati e nella volontà di Dio – è più forte, più accettata, più condivisa che ovunque altrove. Altrimenti non ce l'avrebbe fatta. Solo così l’Africa risorge, ogni giorno. E noi con lei.

Il calendario è disponibile in formato da parete (42 x 29,7 cm) al costo di € 10 e in formato da scrivania al costo di € 5 (spese di spedizione escluse) I presso la sede di Amani: Via Tortona, 86 - 20144 Milano I telefonando al numero 02.48951149 I scrivendo a segreteria@amaniforafrica.it

L'adozione proposta da Amani non è individuale, cioè di un solo bambino, ma è rivolta all'intero progetto di Kivuli, della Casa di Anita, di Ndugu Mdogo, di Mthunzi o delle Scuole Nuba. In questo modo nessuno di loro correrà il rischio di rimanere escluso. Insomma "adottare" il progetto di Amani vuol dire adottare un gruppo di bambini, garantendo loro la possibilità di mangiare, studiare e fare scelte costruttive per il futuro, sperimentando la sicurezza e l'affetto di un adulto. E soprattutto adottare un intero progetto vuol dire consentirci di non limitare l’aiuto ai bambini che vivono nel centro di Kivuli, della Casa di Anita, di Ndugu Mdogo, del Mthunzi o che frequentano le scuole di Kerker e Kujur Shabia, ma di estenderlo anche ad altri piccoli che chiedono aiuto, o a famiglie in difficoltà, e di spezzare così il percorso che porta i bambini a diventare bambini di strada o, nel caso dei bambini Nuba, di garantire loro il fondamentale diritto all’educazione. Anche un piccolo sostegno economico permette ai genitori di continuare a far crescere i piccoli nell’ambiente più adatto, e cioè la famiglia di origine. In questo modo, inoltre, rispettiamo la privacy dei bambini evitando di diffondere informazioni troppo personali sulla storia, a volte terribile, dei nostri piccoli ospiti. Pertanto, all'atto dell'adozione, non inviamo al sostenitore informazioni relative ad un solo bambino, ma materiale stampato o video concernente tutti i bambini del progetto che si è scelto di sostenere. Una caratteristica di Amani è quella di affidare ogni progetto ed ogni iniziativa sul territorio africano solo ed esclusivamente a persone del luogo. Per questo i responsabili dei progetti di Amani in favore dei bambini di strada sono keniani, zambiani e sudanesi. Con l'aiuto di chi sostiene il progetto delle Adozioni a distanza, annualmente riusciamo a coprire le spese di gestione, pagando la scuola, i vestiti, gli alimenti e le cure mediche a tutti i bambini. Info: segreteria@amaniforafrica.it

Come aiutarci Puoi "adottare" i progetti realizzati da Amani con una somma di 30 euro al mese (360 euro all'anno): contribuirai al mantenimento e alla cura di tutti i ragazzi accolti da Kivuli, dalla Casa di Anita, da Ndugu Mdogo, dal Mthunzi o dalle Scuole Nuba. Per effettuare un'adozione a distanza basta versare una somma sul c/c postale n. 37799202 intestato ad Amani Ong - Onlus via Tortona 86 – 20144 Milano o sul c/c bancario presso Banca Popolare Etica IBAN IT91 F050 1801 6000 0000 0503 010 BIC/SWIFT: CCRTIT2T84A Ti ricordiamo di indicare, oltre al tuo nome e indirizzo, la causale del versamento: "adozione a distanza". Ci consentirai così di inviarti il materiale informativo.


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AMANI

© Claudia Manzoni

RIAPRE LA BOTTEGA DI AMANI Chi siamo Amani è un’associazione non profit che si impegna per affermare il diritto dei bambini e dei giovani ad avere un’identità, una casa protetta, cibo, istruzione, salute e l’affetto di un adulto. Dal 1995 abbiamo istituito e sosteniamo case di accoglienza, centri educativi, scolastici e professionali in Kenya, Zambia e Sudan. Da allora offriamo ogni giorno opportunità e alternative concrete a migliaia di bambini e bambine costretti a vivere sulla strada nelle grandi metropoli, nelle zone rurali e di guerra. Amani ha carattere laico, apolitico e indipendente. Organizzazione non Governativa riconosciuta dal Ministero degli Affari Esteri, ha sede legale a Milano e gruppi locali attivi in diverse città italiane. Collaboriamo con scuole, associazioni, enti pubblici e privati, parrocchie, amministrazioni locali, fondazioni e imprese.

Venite a visitare gli spazi rinnovati di Via Tortona 86 a Milano

© Massimo Meloni

Troverete gli articoli di artigianato e arte africana, il calendario 2015 “Ogni giorno in Africa” e i prodotti per confezionare cesti natalizi. Siete i benvenuti, vi aspettiamo! Quando: dal lunedì al venerdì dalle 9:30 alle 17:30 e a dicembre anche nei fine settimana dalle 10 alle 18

In Italia Amani organizza iniziative e incontri culturali, di informazione e approfondimento. Ogni anno offriamo la possibilità di partecipare a campi di incontro in Kenya e in Zambia a gruppi organizzati, giovani volontari e famiglie che desiderano conoscere in prima persona la realtà africana e vivere un periodo di condivisione con la comunità locale.

Come contattarci Amani Ong - Onlus Organizzazione non governativa e Organizzazione non lucrativa di utilità sociale Via Tortona, 86 - 20144 Milano - Italia Tel. +39 02 48951149 - Fax +39 02 42296995 segreteria@amaniforafrica.it - www.amaniforafrica.it

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Come aiutarci Basta versare una somma sul c/c postale n. 37799202 intestato ad Amani Ong - Onlus - Via Tortona 86 - 20144 Milano, o sul c/c bancario presso Banca Popolare Etica IBAN IT91 F050 1801 6000 0000 0503 010 BIC/SWIFT: CCRTIT2T84A Nel caso dell'adozione a distanza è previsto un versamento di 30 euro al mese per almeno un anno. Ricordiamo inoltre di scrivere sempre la causale del versamento e il vostro indirizzo completo.

Dona il 5x1000 ad Amani, basta la tua firma e il nostro codice fiscale: 97179120155

Le offerte ad Amani sono deducibili I benefici fiscali per erogazioni a favore di Amani possono essere conseguiti con le seguenti possibilità:

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1. Deducibilità ai sensi della legge 80/2005 dell’importo delle donazioni (solo per quelle effettuate successivamente al 16.03.2005) con un massimo di 70.000 euro oppure del 10% del reddito imponibile fino ad un massimo di 70.000 euro sia per le imprese che per le persone fisiche. in alternativa: 2. Deducibilità ai sensi del DPR 917/86 a favore di ONG per donazioni destinate a Paesi in via di Sviluppo. Deduzione nella misura massima del 2% del reddito imponibile sia per le imprese che per le persone fisiche. 3. Detraibilità ai sensi del D.Lgs. 460/97 per erogazioni liberali a favore di ONLUS, nella misura del 24% per un importo non superiore a euro 2.065,83 per le persone fisiche; per le imprese per un importo massimo di euro 2.065,83 o del 2% del reddito di impresa dichiarato. Ai fini della dichiarazione fiscale è necessario scrivere sempre ONG - ONLUS dopo AMANI nell'intestazione e conservare: - per i versamenti con bollettino postale: ricevuta di versamento; - per i bonifici o assegni bancari: estratto conto della banca ed eventuali note contabili.

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