Stalker/On Capus Rom

Page 1

di vvero o o , o log ser todia luto ci fos u a i vo ad to form avremmo icinamen 008, n i e il 2 gli avv he racco omande c ocesso di a il 1999 e roprio o r b tr pr ad ta p to li lento talker/On n avvenu ttive l e Ques l e l d o iS r/O rsi ste c onto arte d di Stalke n i perco lizzati rispo te, il racc p a d i , co fat rea ras om state rso dei R crisi e la c ioni e rom zza civile a, an ive uz la ole all’un ito, dopo ia tra istit consapev averaRom gu im di agl che prose po di batt rsitaria e he e da Pr orso più ic rc one m ive ti Civ va. Un pe e formazi ienze r sul ca zione un A i rio d eati ma rca sper di for , Laborato inanza cr zioni, rice le tante e l ta e e de ui tad so AC r t n r i i L e e c g l v i a a m ’ a i l d c d r l r getto zioni, spe rianna att ialoghi de zione con o r p a d ’A un ia ale d e un filo d po. Sono pensiero/ ita n n e c c de se com te sul cam reale, un di us i t e a i Pae d s p a i l a p r i u t e u s r s l l d i t sv qua cos elle enti zioni tra gli ev racciare d abile per a l e r e et ller el e are n i indicare theid into s n e p ar od ercat ione di ap atico. c è i s az cr a situ irsi demo n u a d d tende n i e h c

Stalker/On Campus Rom

Stalker/On Campus Rom

Stalker/On Campus Rom AUTODIALOGO a cura di Francesco Careri e Lorenzo Romito a proposito dell’esperienza condivisa con alcune comunità Rom di Roma insieme a Giulia Fiocca, Aldo Innocenzi, Azzurra Muzzonigro, Camilla Sanguinetti, Ilaria Vasdeki, Giacomo Zanelli e moltissimi altri gagè attratti dal mondo dei Rom Prefazione di Leonardo Piasere Postfazione di Piero Vereni

NELLA STESSA COLLANA MAPPARE

ARTE ANTROPOLOGIA SCIENZA ISBN

ÉTUDES URBAINES

978-88-6960-033-3

APPROCHES PHOTOGRAPHIQUES

FARE A OCCHIO

ANTROPOLOGIA DELLA CUCINA IN BASILICATA

9 788869 600333

€ 24,00

QUESTO (NON) È UN PAESAGGIO

CONVERSAZIONI, IMMAGINI, LETTURE


Campo Boario. 1999-2007

1. Sui primi incontri mancati D: mi piacerebbe sapere quando avete cominciato a lavorare con i rom e quali sono state le prime esperienze di Stalker con l’universo nomade. Vi chiederei però di non parlarmi del “vostro nomadismo” inteso come categoria filosofica o come pratica estetica, ma delle popolazioni “nomadi” che oggi vivono tra noi e che riempiono le pagine della cronaca. Come vi siete avvicinati ai rom? R: il percorso è stato abbastanza lento, un avvicinamento progressivo iniziato venti anni fa. Nessuno di noi aveva mai avuto prima relazioni dirette con i rom. Siamo partiti da zero. Durante Stalker. Attraverso i Territori Attuali,2 il primo giro a piedi di Roma realizzato da Stalker attraverso gli spazi abbandonati della città nel 1995, ricordo che siamo passati di fronte all’ingresso del campo di Quintiliani e che non ci siamo entrati. Era tardo pomeriggio, eravamo stanchi e cercavamo un posto dove fare l’accampamento per la notte. Ci siamo fermati in un campetto di calcio che degli albanesi avevano allestito per i propri bambini. Mi ricordo che avevamo parlato con un uomo alto, bellissimo, con capelli lunghi, occhi azzurri profondi e un’aria da saggio, sembrava Melquiades, quello zingaro dei Cent’anni 2

Vedi Stalker, A Travers les Territoires Actuels / Attraverso i Territori Attuali, Jean Michel Place, Paris 2000.

17


di solitudine di García Márquez che portava a Macondo le novità del mondo, e che all’inizio del libro aveva stupito il villaggio mostrando il ghiaccio. Melquiades e gli altri albanesi avevano preso un vecchio casale della campagna romana e lo avevano trasformato in una casa per più famiglie, un ambiente accogliente e ospitale. Alla nostra richiesta di dormire nel campetto dei loro figli ci avevano risposto che erano felici di avere ospiti, che potevamo montare le tende e nessuno ci avrebbe dato fastidio. Così decideste di chiedere ospitalità agli albanesi e non ai rom, anzi magari gli chiedeste di difendervi nel caso aveste avuto problemi da loro. È andata così? No, non chiedemmo protezione. Ci rivolgemmo agli albanesi, il loro casale ci dava sicurezza più di quell’ammasso di tetti di lamiera e di stradine fangose. Era la prima notte delle quattro passate fuori. Ti dico che non avevamo neanche per un momento avuto la curiosità di entrare… lo abbiamo fatto un anno dopo, mentre facevamo un simile giro a Torino, entrammo in un campo rom, e ci fermammo a parlare con i bambini... ma in quel primo giro di Roma non successe… non saprei spiegartelo… non è successo e basta. I rom d’altra parte non li avevamo neanche incontrati, mentre gli albanesi sì. E comunque l’idea di chiedere ospitalità per la notte ai rom non ci aveva sfiorato. Anche se poi è quello che faremo con Campus Rom nel 2008.

Ma oggi avreste una spiegazione? Avevate avuto paura? Ma voi non eravate lì a camminare per abitare i vuoti del territorio? Quello non era un “vuoto”? Si, capisco il tuo stupore, oggi un campo nomadi attira subito la nostra attenzione, ci avviciniamo, cerchiamo di capire chi sono, da quanto tempo sono lì, da dove vengono, abbiamo un enorme curiosità. Ma a quell’epoca, seppure eravamo intrisi di miti sul nomadismo, entrare in un campo nomadi semplicemente non era nel nostro genere di pensieri. Non so spiegartene le ragioni. Sicuramente per noi era un vuoto, nella mappa gialla e blu realizzata dopo quel primo viaggio, Planisfero Roma, quel campo era blu, parte di quel “mare” di vuoti in cui sono immerse le “isole” gialle della città costruita. Credo anche che se avessimo rappresentato in quella mappa le profondità di quei mari, il campo rom lo avremmo fatto di un blu profondo. E già, un abisso nei mari di Roma. Un’ “amnesia urbana” delle più intense e dimenticate. E voi non entrandoci stavate cancellando dai vostri territori mentali una delle zone più importanti della “città inconscia”, o dei “Territori Attuali”, come li chiamate voi. 18


STALKER ATTRAVERSO I TERRITORI ATTUALI. Mappa del percorso. Roma, 5-8 ottobre 1995.

In qualche modo si. Non so se è stato un caso o se non eravamo ancora pronti, se eravamo ancora vittime della cultura del pregiudizio. È vero, andavamo tutto il giorno scavalcando cancelli, recinzioni e proprietà private, ma lì in quel campo, dove la porta era aperta e dove non si sarebbe dovuto scavalcare, forse le nostre barriere mentali ci avevano inconsciamente interdetto l’accesso. Abbiamo evitato di disegnare con il nostro percorso a piedi una parte importante della mappa e questo fatto non fu minimamente elaborato, lo facemmo senza una riflessione, senza cercare una scusa o porci un dubbio. Mi fa pensare a chissà quante cose ancora oggi non riusciamo a vedere nei territori che attraversiamo, quanti aspetti ancora ci sfuggono, perché in fondo non li vogliamo vedere. Anche noi che di questo “andare a testimoniare i fenomeni emergenti del territorio” ne abbiamo fatto un lavoro… 2. I Calderasha del Campo Boario Apprezzo la vostra sincerità. Ma andiamo avanti, quando siete entrati in contatto veramente con i Rom? Quattro anni più tardi, nell’estate del 1999, quando abbiamo dato vita con i rifugiati curdi al progetto di Ararat nel Campo Boario, grande corte abbandonata nell’ex mattatoio di Testaccio. Fu l’inizio di una esperienza

19


20

Campo Boario, Ex Mattatoio di Testaccio. 24 settembre 1999. Intervento pubblico “Carta di non identità”. Distribuzione della Carta tra le roulotte della comunità Rom Calderasha. Elaborazione grafica di Fortunato della Guerra, Alberto Iacovoni, Valerio Romito


che abbiamo raccolto in una pubblicazione dal titolo Otto anni nella città degli altri.3 È lì che siamo entrati in contatto per la prima volta con l’Universo Rom. Ricordo molto bene il primo incontro con i Rom Calderasha, un’occasione quasi ufficiale. Una riunione al Villaggio Globale con i capi famiglia, in cui si doveva decidere il rientro della comunità nel piazzale dell’ex mattatoio dove dal 1985 erano residenti quasi stabili. Erano andati via due mesi, trasferiti in un campeggio per far posto alla Biennale dei giovani artisti del Mediterraneo, proprio l’evento che per noi era stata l’occasione per dar vita ad Ararat, ovvero il centro di dialogo interculturale e di prima accoglienza per i rifugiati curdi che oggi è ancora lì, realtà superstite di quell’incredibile scenario interculturale che è stato il Campo Boario. Di quella sera ricordo i capifamiglia, con facce stanche, ma sicuri nei loro propositi. Era in gioco il loro abitare, il loro vivere e non avevano altre alternative, dovevano rientrare anche se l’area era stata recintata e interdetta. Ed era sorprendente vedere quanto l’assemblea del Villaggio Globale sapesse trattare con quelle persone. Chiedevano assicurazioni per la scolarizzazione dei figli, per la pulizia generale del Campo Boario, si accordavano per l’uso dell’elettricità e dell’acqua… Insomma quella sera abbiamo assistito alla stesura delle regole di buon vicinato tra una comunità rom ed un centro sociale occupato, un patto fondato sulla parola, una rinnovata alleanza. Quella notte i rom rientrarono nel loro piazzale e vi rimasero fino allo sgombero dell’aprile 2007, realizzato - che paradosso! - per far spazio alla “Città dell’Altra Economia”. Quella sera entrarono nell’area, misero in circolo i loro grandi camper superattrezzati, le loro macchine sfavillanti, le tende per le verande, quelle per la lavorazione dei metalli, quelle per gli sgabuzzini, i tavoli, le lavatrici e i fili per stendere i panni, le pompe dell’acqua che rimanevano sempre aperte. I figli tornarono alla scuola di sempre, qualche anno dopo Charlotte, una delle prime ragazze di quella comunità, ottenne la licenza media. Il campo era pulito, organizzato e le relazioni con gli altri abitanti del luogo, erano perlopiù cordiali e collaborative. E com’è stato il primo vostro ingresso nel campo dei rom? Mah, il primo ingresso non me lo ricordo. È stata una cosa avvenuta progressivamente. Sai, fino al 2004 non c’erano mai state recinzioni. Non era un campo, ma una sorta di accampamento, chi passava ci entrava pra-

3

Il libro di Stalker / Osservatorio Nomade finito nel 2009 è ancora inedito e scaricabile con il titolo Circles/Campo Boario su stalkerpedia.wordpress.com/circles/

21


ticamente dentro, c’era un confine non stabilito. Non c’era una porta in cui entrare, l’ingresso era libero e filtrato al tempo stesso. Passata una certa soglia ci si sentiva gli occhi addosso. Poi alla domanda “c’è Aldo?” e a un cenno di assenso la vita ricominciava a scorrere, le donne al lavoro, gli uomini a discutere, i bambini a giocare. Tu potevi camminare.

Per entrare in un insediamento rom dunque è bene avere un nome da cercare. In fondo è come quando si entra nel cortile di un condominio, l’unico lasciapassare è dichiarare da chi vai. Ma voi che ci andavate a fare da Aldo? La prima volta ci andai di sera, alcuni Rom erano già venuti da noi ad Ararat, chiedendoci un attacco della luce, i Curdi non li trattavano bene, scoprii che avevano radicati pregiudizi, parlando con i Rom capii che anche i Rom erano preoccupati della presenza dei Curdi, che per quello che avevano capito potevano essere terroristi. Aldo era una sorta di portavoce della comunità, entrai nel campo per parlargli, era quasi ora di cena. Mi accolse e mi invitò a mangiare, fu un momento importante, mi sentii fiero di quell’invito che accettai volentieri. Parlammo dei pregiudizi reciproci, mi iniziò a raccontare del loro arrivo in Italia dalla Dalmazia nel ‘39 quando questa era territorio italiano, di quanto si sentissero italiani e allo stesso tempo Rom, e mi spiegò cosa stavamo mangiando, involtini di indivia con carne. Tutto era molto buono, simile ma diverso. Tornai il giorno dopo per organizzare il Pranzo Boario, il primo pranzo curdo rom - giapponese della storia dell’umanità, pensato grazie alla presenza di una amica artista giapponese, Asako Iwama, con l’intento di promuovere l’avvicinamento delle due comunità. Gli comunicai l’idea, gli piacque e passammo il giorno in giro per il campo per organizzare l’evento. I Rom, nella persona di sua moglie, avrebbero portato il Gulasch. Nonostante la prevista organizzazione non trovavamo tavoli e sedie sufficienti per realizzare una tavola rotonda grande come tutto il piazzale, servivano tavoli e sedie e pensare che i Rom si sarebbero messi a disposizione fu un errore di valutazione. Ci rivolgemmo allora ai loro bambini, erano loro i più incuriositi dalla nostra presenza, i più contenti di partecipare, presero tavoli e sedie dalle roulotte e dal Villaggio Globale, e in fila indiana con le sedie in testa ci aiutarono ad allestire la tavola. Alla fine Curdi, Rom e Romani pranzarono insieme per la prima volta, così inaugurammo il playground del Campo Boario, dove in seguito attivammo diversi “dispositivi relazionali” per favorire il dialogo e la convivenza, promuovere l’autorganizzazione e far conoscere alla città quella incredibile realtà. Che intendi per “dispositivi relazionali”?


Pranzo Boario 14 novembre 1999. Ex Mattatoio, Roma, trittico dell’azione conviviale nel piazzale prospiciente ad Ararat. Foto di Romolo Ottaviani.

23


In genere istigavamo la relazione tra le diverse realtà chiedendo a tutti di mettersi in gioco a partire da proposte strampalate e surreali. Un gioco, di cui non davamo le regole, ma solo il calcio di inizio, lanciando in aria una improbabile proposta a noi stessi, alle diverse comunità presenti nell’area e alla cittadinanza più curiosa e disponibile. Dopo il Pranzo Boario ci fu il Globall Game, iniziato lanciando centinaia di palloni da calcio nel piazzale. Vennero tutti, Rom, Curdi, Senegalesi e molti curiosi da fuori. Tutti ci mettemmo a calciare i palloni in aria, da una parte all’altra, un gioco inarrestabile e irresistibile. Vennero prima i bambini, poi i ragazzi più grandi, poi le mamme, infine i capifamiglia. Poi portammo a tutti dei pennarelli e li invitammo a scrivere sui palloni le loro storie, i loro desideri, perché avremmo portato tutte quelle palle alla Biennale di Venezia. Così un po’ alla volta si è stabilita una inedita relazione tra tutte quelle strane comunità, estranee tra loro e alla società. Dopo alcuni mesi le donne hanno smesso di volerci leggere la mano e hanno cominciato a offrirci il caffè o a volte un pranzo, i ragazzi hanno smesso di fare la parte dei bulli e dirci di stare attenti al portafogli, gli uomini hanno smesso di osservarci in modo sospettoso. Alla fine tutti si sono stufati di portare la maschera da zingari e si sono rivelati per quelli che sono. Credo il nostro essere diversi ed estranei a quei comportamenti, che loro vedevano come tipici dei “Gadjè”, come loro chiamano i non Rom, ci ha permesso di stabilire una relazione al di là degli schemi, di inventare una maniera per attraversare le barriere culturali, per giocare insieme a inventare i riti di una comunità tra diversi, non fondata sulle proprie radici ma proprio sulla disponibilità a mettersi in gioco. Poi abbiamo organizzato insieme un workshop, il titolo era Rom(a),4 un primo tentativo di individuare modalità e luoghi per l’abitare della comunità Calderasha, abbiamo girato per Roma in cerca di una possibile area sosta. È stato molto interessante comprendere le caratteristiche che la comunità riteneva necessarie per realizzare un insedia4

Si tratta del workshop: Rom/a 01 La città dei nomadi: quale convivenza?, Campo Boario, 9-12 dicembre 1999, all’interno del progetto “Xenobia, la città, gli stranieri e il divenire dello spazio pub- blico” realizzato in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti e l’Accademia di Francia. Workshop sulla convivenza tra zingari e romani a cura di Stalker, Villaggio Globale, ORMA e Creo-la in collaborazione con Arci solidarietà, Casa dei diritti sociali, Comunità di Capodarco e Unirsi. Presentazione del libro Fuori luogo di Marco Revelli. Inaugurazione dell'esposizione I Camminanti, zingari siciliani a cura dell'associazione Creola. Progettazione dell’area di sosta e dell’Accademia d’arte, mestieri e cultura zingara al Campo Boario. Stage di danza zigana, concerti di musica tzigana e degustazioni di cibi tipici. Incontro con Leonardo Piasere e Rita Mirabella.


mento, quali fossero le loro necessità ma anche quanta consapevolezza avessero delle distanze necessarie da mantenere con il vicinato e di quali fossero le “esigenze” delle istituzioni nell’accordare un permesso per realizzare un’area di transito. In quell’occasione abbiamo iniziato a conoscerci e a comprendere come loro vedevano noi e il nostro mondo. Con Aldo siamo ormai amici e continuiamo a lavorare insieme, è stato molto importante anche nei progetti realizzati in seguito.

E poi c’è stato l’arrivo di Matteo Fraterno con Serenate. Relazionare il sonoro. Com’è andata? Erano ancora i primi tempi del nostro lavoro, a maggio del 2000, e Matteo Fraterno, che da quel momento in poi condividerà con noi l’avventura di Osservatorio Nomade, ha portato una banda di musicisti e artisti vesuviani, amici suoi, un sacco di gente tra i camper per dar vita a un finto matrimonio zingaro. Una vera e propria “ammuìna napoletana”. Un’idea sensazionale, politicamente molto poco corretta, che scatenò curiosità e confusione. In effetti è stata la prima volta che abbiamo invaso in tanti il loro accampamento, compiendo un’azione in casa loro. Un vero matrimonio con addobbi, vestiti, sposa e genitori della sposa rom e un finto sposo che istruito dagli stessi rom si presentò così: “abbiamo consumato un sacco di scarpe per venire fino a qui!” Un rituale compiuto nei minimi particolari, con belato di pecora da parte dello sposo e belato della sposa in risposta. Così Matteo è diventato un personaggio per tutti gli zingari. 3. l’Osservatorio Nomade e Samudaripen Dall’esperienza del Campo Boario, come e perché nasce l’Osservatorio Nomade? Tra il 2001 e il 2002, dopo tre anni di intensa attività di Stalker al Campo Boario, decidiamo di fondare Osservatorio Nomade, ovvero una rete di soggetti che, con e attorno a Stalker, ne articolassero e traducessero la pratica nei contesti istituzionali dell’accademia e della politica. In realtà già l’attività svolta al Campo Boario dal 1999 era accompagnata da una specie di cornice istituzionale, a partire dal workshop realizzato con l’Inarch all’interno della Biennale dei Giovani artisti del Mediterraneo con cui avevamo dato vita ad Ararat, e poi con il sostegno della Fondazione Adriano Olivetti e della Accademia di Francia dove sono stato borsista tra il 1999 e il 2000, a tutte le attività svolte al Campo Boario in quegli anni con il progetto Xenobia: la città gli stranieri e il divenire del25


lo spazio pubblico. Ma il disinteresse, se non il rifiuto, da parte del Comune di Roma verso le azioni svolte al Campo Boario ci tennero ai margini di un reale confronto con le istituzioni cittadine. Ritenevamo che la pratica informale di Stalker necessitasse di un anello di protezione che la salvaguardasse da un riconoscimento istituzionale e mediatico che la potesse ingessare, ma anche di un sistema di relazioni con cui disegnare un campo di sperimentazione tra diverse discipline e con le istituzioni, garantito da una rete di ricercatori e progettisti consapevoli dell’efficacia operativa nei processi di trasformazione sociale e urbana che l’esperienze di Stalker andava maturando. Inoltre la nostra “irremovibile indecisione” tra l’essere ricercatori, artisti o architetti e le sempre maggiori opportunità di “lavoro” che per noi andavano creandosi, dalla Biennale di Venezia al progetto dell’Islam in Sicilia con la Fondazione Orestiadi e il Ministero degli Esteri ci ponevano davanti alla contraddizione di voler salvaguardare trasversalità, informalità e inclusività e nel contempo di aver bisogno di una struttura organizzativa e di uno spazio di lavoro, che nel 2002 diventerà l’open space di via Libetta 15. Insomma, Osservatorio Nomade nasce come una sorta di osservatorio su noi stessi che traducesse e rendesse comprensibili, per quanto possibile, esigenze, pratiche e risultati ottenuti informalmente da Stalker alle istituzione dell’arte, dell’architettura e della politica, affinché si aprissero a nuove forme di relazione non già codificate. Una pratica inclusiva che coinvolge realtà territoriali e sociali di margine, ma tende anche a dirottare le pratiche di molti altri ricercatori, artisti e architetti in un processo di coinvolgimento destabilizzante rispetto alle discipline di provenienza. Il tutto alla ricerca di una efficacia trasformativa dello spazio e delle relazioni che vi avevano luogo, obiettivo che ha posto l’esigenza di una dialettica con l’amministrazione pubblica. Nel 2004 come Osservatorio Nomade avete organizzato Samudaripen, che in lingua romanes vuol dire Olocausto, una prima esplorazione dei campi romani, mi dici brevemente cos’è stato e perché volevate chiedere scusa al popolo zingaro? Era anche un ritorno al Campo Boario dopo un lungo periodo... Si, dopo il 2002 e la nascita di On la nostra presenza al Campo Boario si era molto ridotta, avevamo aperto uno spazio a via Libetta, all’Ostiense, un laboratorio conviviale, con una bella cucina e tante feste, un porto di mare dove passavano tante persone interessanti, ma anche stanze chiuse per disegnare e realizzare progetti; oggi si chiamerebbe un co-working. Samudaripen, insieme a Immaginare Corviale e On Egnatia, è uno di questi progetti. Con Samudaripen insieme alla compagnia di teatro Shi-

26


shiri ci siamo posti l’obiettivo di organizzare per il giorno della memoria, il 27 gennaio, una grande festa rom. Chiedemmo e ottenemmo l’Acquario Romano, da poco ristrutturato e appena divenuto Casa dell’Architettura. Su questo innestammo la prima relazione ufficiale con il Comune di Roma, in particolare con le “Biblioteche di Roma” ottenendo un “bibliobus” ovvero un camper multimediale con cui esplorare il mondo rom alla ricerca di memorie dell’Olocausto, ma allo stesso tempo mappare il processo che si stava avviando di concentrazione e allontanamento dei Rom da Roma in campi recintati di container. Coinvolgemmo Il “Chiosco per la conoscenza utile”, un chiosco realizzato da Tulip house per la fondazione tedesca Kulturstiftung des Bundes, portato a Roma grazie alla Fondazione Olivetti e al Goethe Institut. Era un chiosco per giornali utilizzato per rappresentare verità scomode e grazie a un felice incontro alle Ferrovie dello Stato, ottenemmo di collocare il chiosco nell’androne della stazione Termini. Ci fu pure il patrocinio del Comune di Roma, dell’European Roma Right Centre e del Centro Studi Zingari di don Bruno Nicolini. Con il Bibliobus andammo a raccogliere le testimonianze prima al Campo Boario, dove intervistammo Milka e Tomo, reduci dal campo di concentramento di Agnone, e poi in altri tre campi: Gordiani, vicolo Savini e Salone. In realtà solo Gordiani era un campo di container di nuova generazione appena realizzato, vicolo Savini era un insediamento che nel 2007 verrà sgomberato per dar vita al primo “Villaggio della Solidarietà”, il megacampo di Castel Romano fuori dal Raccordo Anulare. Salone invece era un posto incredibile, in piena trasformazione. Un insediamento di interessantissime case a palafitta in legno che venivano demolite per costruire un campo container. In quell’inverno del 2004, in attesa dei container, gli abitanti erano stati spostati in roulotte in pessimo stato, probabilmente recuperate da altri campi sgomberati, ognuna con un orribile numero cerchiato scritto a vernice vicino alla porta. Faceva freddo, tra demolizioni e cantieri l’area era tutta ricoperta di fango e ghiaccio e piena di topi. Tra le poche case rimaste in piedi quella della famiglia di una “fidanzata” di un capo cantiere. Unica realizzazione compiuta all’epoca era un muro: dentro i “legali” fuori gli altri. Questo primo viaggio attraverso i campi ci permise di prendere coscienza della stupidità, dell’iniquità e della violenza con cui l’Amministrazione cittadina aveva deciso di intervenire nei campi rom. Così decidemmo, non senza polemiche, che dentro al chiosco alla stazione Termini, insieme ai video delle testimonianze raccolte si raccogliessero anche le firme per chiedere scusa al popolo zingaro. Furono migliaia le persone indignate dalla nostra proposta, ma non poche quelle che firmarono. All’Ac-

27


quario Romano, lo spettacolo di Shishiri fu un successo, vennero centinaia e centinaia di rom vestiti a festa, una notte incredibile, anche se un vetro rotto nel bagno scatenò una reazione indignata dei nostri ospiti. 4. La storia di Milka e Tomo Con Samudaripen esce fuori la storia di Milka. Raccontatemi di come siete riusciti a convincerla a ritornare nel campo di concentramento di Agnone? Al Campo Boario, insieme a Matteo Fraterno riusciamo a conquistare la fiducia di Tomo e Milka, due anziani Calderasha che ci hanno raccontato del loro internamento nel campo di concentramento di Agnone nel ’41. Ne è nato un grande lavoro relazionale. Matteo, che in un primo momento non credeva a quanto gli avevano raccontato, ha cominciato le sue ricerche ed ha trovato ad Agnone il Prof. Tanzj che da anni cercava di ricostruire la storia del campo di internamento e aveva l’elenco degli internati. C’erano i nomi di Milka e di Tomo e di molti loro familiari che lì avevano trovato la morte. Quindi abbiamo affittato un pulmino e siamo andati con Milka al Convento di S. Bernardino ad Agnone, dove era il campo di concentramento. Fu un momento molto emozionante, il convento era ormai solo un deposito abbandonato, e man mano che giravamo i locali, Milka ci raccontava cosa vi successe, come avevano vissuto, chi morì e la paradossale liberazione avvenuta da parte di truppe tedesche nel 1943 per requisire il convento. Il prof. Tanzj trovò la sua prima testimone e Milka fu accolta da centinaia di studenti emozionati che battevano le mani. Poi il sindaco l’ha ricevuta in consiglio comunale per consegnarle la cittadinanza onoraria, fu anche fatta partire una colletta per comprarle una roulotte nuova, ma soprattutto l’intera città di Agnone ebbe l’occasione di confrontarsi con l’antiziganismo, acclamando come una eroina una ottantenne signora rom. Tutto questo è raccontato in un bellissimo video e anche nel libro che abbiamo fatto sul Campo Boario. Conosco la storia di Milka e non vedo l’ora di vedere il film e il libro. Ma torniamo ai Rom, da come parlate sembra quasi che per voi l’accampamento di Testaccio fosse un habitat ideale? Perché tanto interesse per questo mondo? Voi vorreste vivere così? Ma intanto ti dico che il caso di Testaccio era sicuramente un caso estremo di benessere economico e sociale e che quell’accampamento di roulotte non aveva nulla del degrado in cui versano altri campi della capitale. Era sempre pulito, c’erano anche sette laboratori per i metalli e il lavoro

28


non mancava. Tra le persone sedute in veranda sembrava quasi di stare in un campeggio estivo. Oggi dopo aver fatto visita a tanti altri campi, quello di Testaccio mi sembra veramente una grande eccezione. Come habitat quello è l’unico esempio positivo che mi sento di fare, anche e soprattutto perché non sarà stato legale ma era liberamente organizzato dai Rom, il che lo rendeva vivo, civile. Per il resto qui a Roma la maggior parte dei campi è un inferno, luoghi di costrizione e rifiuto, luoghi indegni di una società che si definisce democratica. In merito a cosa ci attirasse, oltre al desiderio di conoscenza, ti risponderei in una sola battuta: lo stile di vita. È proprio un altro modo di stare al mondo, per certi tratti veramente invidiabile, anche se non credo potrà mai essere esattamente il mio. E comunque non è che accettassi tutto della loro cultura, siamo molto diversi e non riuscirei a vivere con le loro regole comunitarie. Ma quel mondo non è poi così lontano, è qualcosa che in qualche modo ci appartiene, che abbiamo dentro e che dovremmo frequentare per ritrovarlo in noi da qualche parte. Per conoscerlo dobbiamo riconoscerlo. È per questo che ci sembrava importante invitare i cittadini a conoscerlo. Ma comunque ora tutto questo non c’è più, entri al Campo Boario e c’è il mercato dell’economia equa e solidale… assurdo ma è così. Si lo so, sono stati sgomberati il 4 aprile 2007 per fare posto alla Città dell’Arte e dell’Altra Economia. Sono stati ricacciati via un’altra volta dall’Arte, come quando vi fu la Biennale del Mediterraneo, ma questa volta definitivamente. Eppure i Rom Calderasha di Testaccio erano noti per la loro grande integrazione con il quartiere, mi sembra assurdo che sia finita così. Ma una soluzione non si sarebbe potuta trovare? Loro cosa avrebbero voluto, come vorrebbero abitare? Sembra quasi un paradosso, il Comune ha pulito tutto come se l’Arte non dovesse occuparsi della realtà e come se i Rom non fossero esattamente un perfetto esempio di altra economia. La cosa più inaccettabile è che tutto il lavoro fatto in quegli anni per favorire il dialogo tra e con le diversità, la sperimentazione di microeconomie alternative, l’azione di promozione dell’autorganizzazione di queste realtà marginali, ha informato il progetto di trasformazione dell’area, ma non si è saputo o non si è voluto farne occasione per accogliere ed emancipare quella realtà. È stata una ennesima occasione di sfruttamento dell’immagine e dei valori che quella realtà rappresentava per riproporli sterilizzati in contenitori vuoti, e per realizzare i quali si è cancellato tutto quel mondo. Noi eravamo riusciti con il nostro lavoro ad avere il sostegno della Fondazione Olivetti e dell’Accademia di Francia. Sul “Laboratorioboa-

29


rio”, così avevamo chiamato il progetto di collaborazione tra tutte le realtà del Campo Boario, era uscito anche un lungo articolo sull’Economist. Avevamo portato artisti da mezzo mondo e cittadini da tutta Roma a incontrarsi, dialogare e lavorare insieme a rifugiati, immigrati più o meno clandestini e Rom. Serviva la collaborazione dell’amministrazione pubblica per trovare insieme un punto di incontro tra formale e informale, tra quella realtà e la città, ma non ci siamo riusciti. Certo il Sindaco avrebbe potuto sostenere e fregiarsi di questo laboratorio unico al mondo, ma non è andata così. Sarebbe stato un esempio per chi chiede più sicurezza, ma anche un modello, un traguardo da raggiungere per le altre comunità Rom che vivono nel degrado ambientale e sociale. In fondo i Rom chiedevano solo un terreno dove sostare i mesi invernali, un piazzale dotato di luce acqua per cui avrebbero pagato regolarmente le bollette, poteva esser quello, ma anche un altro. Erano anche disposti a comprare un qualsiasi terreno agricolo. Quando fu deciso lo sgombero, su richiesta dell’assessorato all’urbanistica, abbiamo anche fatto dei giri insieme ai Rom per cercare dei terreni possibili, ma poi non se ne è fatto più niente. Il tutto è passato dall’assessorato all’urbanistica a quello degli affari sociali, al gabinetto del sindaco e poi direttamente alla questura. Nessuna soluzione alternativa fu trovata e i Rom vennero semplicemente cacciati, dopo aver peregrinato per la città sono tornati lì, fuori dal Campo Boario, sul greto del fiume.

È incredibile che l’abitare di queste persone non sia di competenza dell’urbanistica, ma sia solo un problema di pubblica sicurezza. A Roma si stima che ci siano circa 15.000 Rom e diverse migliaia di baraccati, perlopiù Rumeni ma anche Italiani e di tanti altri paesi, senza contare l’emergenza abitativa e l’espulsione dalla città dei ceti più deboli incapaci di sostenere i costi del vivere a Roma. Com’è possibile che urbanisti e architetti non se ne occupano? Ma guarda, in realtà, a parte le associazioni riconosciute e finanziate dallo Stato per la scolarizzazione dei Rom, e poche associazioni cattoliche che offrono assistenza, a volte volontaria altre lucrativa, di tutto questo non se ne occupa nessuno. E in molti campi non entra veramente mai nessuno, solo la polizia, che spesso entra nelle case senza permesso di perquisizione, magari alle 5 di mattina. Anche i giornalisti hanno paura di entrare in un campo, ci vanno quando succede qualcosa di grave, magari scortati. È per questo che mi sembra importante portare gli studenti universitari nei campi, fargli conoscere queste realtà serve a scalfire le mura del disprezzo e dell’indifferenza che come le reti, circondano i campi. Serve ad assottigliare i pregiudizi reciprocamente, sia per gli studenti che per i Rom.

30


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.