Sulle scale di pietra

Page 1

Quelle racchiuse in questi racconti sono storie vere sospese in un passato recente in cui predominavano valori oggi scomparsi, regole non scritte che tenevano unite le famiglie e pregiudizi che si abbattevano come marchi indelebili. Ci sono scene di “interni” di nuclei familiari del Sud: uomini e donne da prendere come esempio per laboriosità e intraprendenza o madri e padri che, soffocati dai retaggi, tarpano le ali ai figli. In Sulle scale di pietra, Marinella Battifarano ha ricostruito con una scrittura avvolgente la quotidianità di intere generazioni della Basilicata del secolo scorso regalando al lettore ritratti indimenticabili.

ISBN

SULLE SCALE DI PIETRA

NATA A NOVA SIRI, MATERANA D’ADOZIONE. DOPO LE PRIME ESPERIENZE DI INSEGNAMENTO IN ALCUNI PAESI LUCANI, DAL 1970 HA INSEGNATO LETTERE A MATERA NELLA SCUOLA MEDIA PASCOLI E NELL’ISTITUTO INDUSTRIALE. CON ALTRIMEDIA EDIZIONI NEL 2018 HA PUBBLICATO FINUZZA E LE SUE STORIE.

MRINELLA BATTIFARANO

MARINELLA BATTIFARANO

978-88-6960-123-1

9 788869 601231

€ 16,00

MARINELLA BATTIFARANO

SULLE SCALE DI PIETRA

SULLE SCALE DI PIETRA CAMMINANDO PER LE STRADINE SOLITARIE, OSSERVANDO LE CASE E LE SCALE DI PIETRA HO LA SENSAZIONE CHE GLI SPIRITI DEL PASSATO MI VENGANO INCONTRO E MI CHIEDANO DI RIVIVERE, DI RACCONTARE STORIE INEDITE, PERCHÉ LA CORRISPONDENZA DI AMOROSI SENSI FRA PASSATO E PRESENTE NON VENGA MENO. ALLORA LE SERATE INVERNALI ERANO MOLTO LUNGHE E TRISTI NEI PAESI DI MONTAGNA DEL NOSTRO MERIDIONE, QUANDO OGNUNO SI CHIUDEVA NELLA PROPRIA CASA. L’ODORE DEI CAMINETTI ACCESI E DEL PANE ABBRUSTOLITO, IL CANTO DELLA CIVETTA E L’ULULATO DEL LUPO SI SENTIVANO DA LONTANO COME UNA MINACCIA IMMINENTE ALL’APPARENTE QUIETE. ORA UNA QUIETE ANTICA. LE LUCI SPENTE, I CAMINI SENZA FUMO, LE PIAZZE VUOTE. I BUOI SONO USCITI DALLA STALLA, LE VOLIERE SONO STATE APERTE, I FIGLI PIÙ CORAGGIOSI SONO PARTITI CON L’INTENTO DI TORNARE. (…)


MARINELLA BATTIFARANO

SULLE SCALE DI PIETRA


IL PATRIARCA Seduto sulla veranda dai tre archi in pietra, gli occhi rivolti alla campagna e al mare, il bastone fra le mani, vigilava su chi arrivava alla masseria: nonno Vincenzo, anche da anziano, voleva ancora mantenere il posto di comando. Rifletteva sul suo vissuto fatto di alacre e accanito lavoro e che tanto benessere aveva prodotto alla sua famiglia. Immaginava le generazioni che gli sarebbero succedute e la loro volontà di proseguire con altrettanta passione e senso del dovere quanto lui aveva realizzato. L’esperienza gli aveva insegnato che ogni progresso, ogni sconfitta, ogni ricerca positiva non ha occhi, non ha gambe, non ha bocca. Parla e si muove con la bocca e le gambe degli uomini. Non si vive di fantasia, le parole e le idee sono solo spinta a energia e azione. Ripensando al suo passato si sentiva sempre più consapevole di essere un tassello di un grande mosaico, di essere l’ape nello sciame. Rimaneva lì in silenzio finché non scendeva la sera. Vedeva apparire le prime stelle e le lampare lungo l’orizzonte marino. I grilli ancora cantavano e dal vecchio querceto saliva l’accorato verso del gufo, quasi rimpianto del giorno trascorso. Quando la luna piena appariva all’orizzonte, prima rossastra e poi sempre più chiara, chiamava: «Venite a godere con me lo spettacolo della luna che si specchia nel mare!» Ma noi troppo presi dai giochi non lo ascoltavamo. Intorno ai settant’anni incuteva ancora tanto timore per il suo vigore e la sua forza: alto, robusto, i capelli bianchi a spazzola, gli occhi fulminei, lo sguardo attento su tutti e tutto, come un uccello rapace che controlla il territorio. Sfrecciava con il suo cavallo da una parte all’altra della masseria per controllare il lavoro degli operai. Tuonava e inveiva quando le cose non funzionavano come avrebbe voluto. 5


Attivo e battagliero fino a novant’anni, quasi antagonista dei nostri genitori che faticavano tanto a trovare un loro equilibrio e a trarre dalla terra il sostentamento per vivere, pretendeva di dire la sua opinione e controllava ogni lavoro, ogni movimento di compravendita. Gestiva ogni aspetto economico della famiglia, imponendo un ferreo risparmio. Nonno Vincenzo si sentiva, e lo era davvero, un “patriarca”. Soltanto a sera, dopo aver parlato con il massaro responsabile dei lavori aziendali e aver impartito gli ordini per il giorno seguente, si concedeva attimi di riposo durante i quali si dedicava alla lettura dei grandi romanzi della letteratura italiana e straniera dopo aver letto il quotidiano e ascoltato i comunicati radio. Era il momento in cui imponeva un religioso silenzio, pretendeva che si spegnesse ogni luce per non far scaricare le batterie del mulinello a vento che fungeva da accumulatore di corrente. Noi nipoti, per timore che lanciasse anatemi in caso di rumori, ammutolivamo accanto a lui e ascoltavamo le notizie del giornale-radio. Era un momento di forzato raccoglimento, ci faceva sedere sulle sue ginocchia e pretendeva che noi bambini capissimo come andavano le cose del governo e gli avvenimenti più importanti del mondo. Quando i ricordi e le ombre del suo passato lo assalivano si lasciava andare al racconto della sua giovinezza, della guerra del ‘15-‘18, della sua vedovanza, della perdita dei figli. Bisognava allora ascoltarlo pazientemente in silenzio finché non era sopraffatto dal sonno o dal dolore che gli procurava la gotta e che lo costringeva a chiudersi nella sua camera per lamentarsi liberamente come un leone ferito. Voleva trasmetterci la storia di famiglia affinché le nuove generazioni non si lasciassero affascinare dalla modernità tanto da perdere l’essenza della vita. Aveva parole severe verso il padre don Francesco Antonio, che aveva ridotto la famiglia in ristrettezze per una incauta gestione della proprietà e per l’abitudine di recarsi a Napoli ad assaporare la bella vita cittadina. Lo considerava un pessimo esempio che non poche sofferenze aveva procurato alla famiglia. Da uomo del proprio tempo, giustificava le infedeltà purché il focolare domestico, luogo sacro per eccellenza, venisse salvaguardato. Nutriva grande considerazione e affetto per la madre Domenica, donna instancabile che si prodigava senza sosta nella cura dei figli e 6


della casa: cucinava per tutti, sistemava nelle cantine le provviste che venivano dalle campagne, curava i formaggi e vendeva i prodotti richiesti aprendo il grande portone accanto alla chiesa. Tuttavia nelle importanti decisioni di famiglia non le veniva riconosciuta nessuna autorità, ma lei sapeva bene che gli usignoli non vivono di fiabe e di filosofia, quindi non entrava mai in nessun ragionamento perseguendo solo obiettivi pratici, in contrapposizione alle sue cognate, monache intellettuali che negli anni Settanta del 1800 erano rientrate in famiglia per la chiusura del convento. Queste donne, colte, preparate, dotate di profonda formazione religiosa, seppero inserirsi con grande naturalezza nel ritmo familiare di Francesco e Domenica, prendendosi cura della formazione dei ragazzi. Godevano anche dell’appoggio dello zio prete, don Giuseppe, che in tarda età si era ritirato a vivere nella sua casetta accanto al palazzo di famiglia. Fu proprio lui che volle mandare Vincenzo e Pietro, il fratello maggiore, nel seminario di Chiaromonte, affinché frequentassero il ginnasio e il liceo. Andava in carrozza ad accompagnarli, si tratteneva qualche giorno in seminario con loro per il piacere di rivedere amici preti e qualche ex allievo. Per i due ragazzi furono anni molto proficui e interessanti. Pietro si appassionò allo studio della storia, della filosofia, della letteratura, mentre Vincenzo eccelleva negli studi scientifici e nella matematica. Abituato, poi, con lo zio prete e le monache di casa a servire la Santa Messa e a fare le pulizie della chiesa, anche in seminario continuò a collaborare. Al contrario Pietro preferiva immergersi nella lettura dei classici e sin da adolescente prese le distanze dalla cultura ecclesiastica per sposare il pensiero liberale e l’autonomia di giudizio. Aveva ereditato dal prozio Pietro Antonio la Torre Bollita con i terreni circostanti, la libreria e i suoi ricordi, che cercò di trasmettere ai posteri, offrendo all’archivio di Stato alcuni documenti. Continuò a conservare lo spirito liberale e anticlericale nonostante un contesto familiare dominato da figure religiose. Pietro nella vita di relazione sembrava alquanto stravagante. In realtà i familiari lo avrebbero voluto laborioso e pratico per accrescere il patrimonio di famiglia. Incurante di altri interessi, delegava volentieri ogni responsabilità al fratello Vincenzo, che sin da giovane accentrava l’attenzione di tutti sulla sua persona. Questa situa7


zione si acuì soprattutto quando il padre Francesco Antonio si cacciò in mille guai lasciando la famiglia in grande indigenza. Pertanto si decise di ritirare i ragazzi dagli studi. La monaca più anziana, Filomena, chiese ospitalità per qualche tempo in un convento femminile di Taranto, portando con sé Pietro per farlo studiare privatamente per conseguire il diploma magistrale. Ella aveva consigliato al nipote di fare il maestro, data la sua propensione allo studio delle Lettere. Ma Pietro non si riconosceva in questa prospettiva, preferì dedicarsi ai suoi libri, sognando in solitudine un mondo più giusto e più equo. Tuttavia le sue buone intenzioni, i suoi ideali non trovarono mai le gambe per camminare nella concretezza della storia. Vincenzo, invece, ritornò nel suo nido e dalla terra traeva quella forza che accumulano i giganti prima di ogni impresa, si buttò a capofitto per salvare le sorti economiche della famiglia, riprendendo la gestione delle masserie abbandonate dai fittavoli nella più squallida desolazione. Chiamò a raccolta la madre, le sorelle, gli zii, le monache e il personale di servizio, coordinando così un forte impegno di lavoro per la ripresa. Le donne di casa tessevano senza sosta, cucivano e ricamavano per comprare con i guadagni aratri, attrezzi vari e bestiame, aiutando a far risorgere l’azienda che, come una barca abbandonata, rischiava di andare alla deriva. Dopo alcuni anni di duro lavoro, coadiuvato dai membri della famiglia, riuscì ad accumulare la somma di denaro utile per estinguere un debito che il padre aveva contratto con un famoso usuraio del territorio. Orgoglioso di questo risultato e riconoscente ai suoi cari, portò il denaro dovuto al signore benestante, uomo grigio e squallido anche per l’aspetto fisico piuttosto trasandato. Vincenzo aveva appena 18 anni, si sentiva già un uomo ma non aveva abbastanza esperienza per salvaguardarsi da inganni. L’usuraio tornò a chiedergli nuovamente il denaro. Vincenzo si era fidato di quell’uomo e nella sua inesperienza non aveva preteso, come sarebbe stato suo diritto, nessun riscontro di risoluzione del debito. Si sentì raggirato, offeso, defraudato. Preso da furore giovanile raggiunse velocemente a cavallo Montegiordano, diretto verso la tenuta dell’usuraio. Quando questi lo vide arrivare con fare sicuro e minac8


cioso reagì in qualche modo ma, essendo da soli, Vincenzo lo costrinse con la forza a firmare la ricevuta. Il Patriarca raccontava sempre con orgoglio questo episodio per insegnare ai nipoti le difficoltà della vita e come la forza e l’astuzia possono aiutare nei momenti difficili. Raccomandava di non fidarsi di nessuno ma di cercare in sé stessi la forza e il coraggio, non cullandosi sugli agi e le comodità che infiacchiscono muscoli e volontà. Aveva appena sistemato le sue vicende aziendali e familiari, quando dovette partire per il servizio militare che, invece, avrebbe dovuto sostenere Pietro, che era il primogenito ma fu esonerato per motivi di salute. In Veneto, a Bassano del Grappa, Vincenzo conobbe un altro mondo: sentì una lingua diversa, vide per la prima volta la banconota da mille lire, visitò le città di Verona e Rovigo e molte aziende agricole dei suoi compagni. Apprezzò le nuove tecniche colturali, la sistemazione dei canali per irrigare i campi, l’amore che i veneti mettevano per fare il vino e la grappa. Assorbì tutto come una spugna per poter realizzare anche a Nova Siri quello che di innovativo aveva conosciuto. Tornato a casa, cercò con nuovo vigore di trasformare la sua azienda rendendola produttiva al massimo. Impiantò la vigna, innestò i perastri con nuove varietà di pere, su pezzi di radici di ulivo innestò varietà più produttive, in modo da far funzionare a pieno ritmo il suo frantoio con le macine in pietra. Al tempo opportuno seminava il grano, i ceci, le cicerchie, i piselli e il granturco. I commercianti napoletani facevano a gara per avere le sue pere e i suoi legumi che trovavano particolarmente gustosi. L’olio e il grano erano accumulati nei magazzini e venduti per lo più ai pugliesi che avevano una consolidata esperienza commerciale. Viveva in campagna, lavorava dall’alba al tramonto, condivideva il pranzo serale con i collaboratori per i quali aveva fatto costruire singole abitazioni. Soprattutto nelle serate invernali amava ascoltare da loro suggerimenti ed esperienze, raccontava fatti della sua giovinezza e della vita militare nell’intento di costruire una comunità rurale coesa e solidale. Ritornava col calesse in paese sul far della sera, ripensava alla sua giornata, ammirava il tramonto e dall’alto guardava estasiato la marina soprattutto quando la luna sorgeva dal mare. Raro momento di pausa. 9


Quando Vincenzo lo ritenne opportuno si arrogò il diritto e il dovere di provvedere, forse con fare eccessivamente pratico, al matrimonio di cinque sorelle, mentre le prime due e il fratello Pietro rimasero in casa, a custodia degli affetti, della tradizione e anche soggetti in tutto alla sua volontà: di fatto era lui il Patriarca. Ma per quanto riguardava la sua sfera affettiva compreso un eventuale progetto matrimoniale, guai a intromettersi. Il nonno Vincenzo non prendeva i sentimenti in prestito dai romanzi, non si lasciava andare a fantasie e passioni, misurava ogni cosa col contagocce della praticità per sostenere le persone a lui affidate. Il primo decennio del ‘900 fu un momento storico positivo, l’economia tirava e ognuno ristrutturava la propria casa o la villa, corredandola anche di opere di buon artigianato. Anche Vincenzo volle rinnovare il palazzo secondo lo stile Liberty: rifece i balconi e le finestre, andò a Napoli e lungo la famosa via Costantinopoli scelse lampadari e mobili d’epoca. Portò l’acqua corrente dopo aver scavato nel giardino un pozzo e una fogna; dotava così la casa di comfort e servizi essenziali. Gli mancava soltanto la moglie! Non trovava il tempo per intraprendere una relazione. Nell’occasione del matrimonio di un suo caro amico di Senise, Enrico, ebbe l’opportunità di conoscere la famiglia Anzilotta con le sue numerose ragazze da sposare. Fra tutte Vincenzo fu colpito da Rosina per gli occhi chiari, per il colore roseo della pelle, per l’eleganza con cui si muoveva e per la premura che dimostrava a ogni membro del clan familiare. Rosina, modesta e silenziosa, trovava il suo svago con i nipoti, li intratteneva con piccoli giochi, permettendo agli adulti di parlare con gli ospiti in salotto. Lo sguardo curioso, quasi indagatore del forestiero la mise in imbarazzo. Quando i bambini le chiesero di suonare al pianoforte le loro canzoni preferite si schernì, arrossì, cercò di distrarli. Non sfuggì il suo disagio agli ospiti che subito la incoraggiarono a esibirsi. Gilda, la fresca sposa di Enrico trovò l’occasione per far ascoltare la sua voce incantevole. La formale visita di salotto si trasformò in un bel concerto: bambini, adulti e anziani cantavano e si muovevano con una disinvoltura piacevole e comunicativa. Vincenzo, strano a dirsi, si trovò a suo agio e si fece coinvolgere a tal punto nell’atmosfera da lasciarsi andare e intonare i 10


canti alpini che aveva imparato durante il servizio militare. Rimandò la partenza, attratto dal clima rilassante e affettuoso e, soprattutto, da Rosina. Parlarono della situazione politica, della vita dei nostri paesi e delle proprie famiglie e Vincenzo intuì che soltanto Rosina, docile e affabile, poteva essere introdotta in una casa come la sua. Anche Rosina fu affascinata dallo sguardo vivace del giovane ospite e incominciò a guardarlo con simpatia. Il loro rapporto si fece più concreto ogni volta che Vincenzo arrivava a Senise come un cavaliere d’altri tempi: indossava gli stivali, l’abito di velluto e un cappello di panno chiuso in gola da un bottone, ideato per lui dalla sorella Olga. Alto, robusto, biondo dagli occhi celesti, incurante di ogni ostacolo, sembrava un normanno. Con il cavallo bianco percorreva di corsa il letto del fiume Sinni e, passando sotto Tursi, attraverso un antico percorso saliva a Senise. Nella piazzetta degli Anzilotta il nitrito del cavallo lo annunziava. Era festa per Rosina che, superando la naturale riservatezza, gli correva incontro. Dopo qualche tempo Vincenzo le portò una parure di filigrana creata per lei da un orafo di piazza San Domenico a Napoli. Era la proposta di matrimonio ufficiale. Iniziarono i preparativi delle nozze. La cognata Isabella cucì il corredo, fece anche il disegno dell’abito nuziale. Impiegò alcuni mesi per realizzarlo: seta operata color giallo paglierino, corpetto e colletto ricamati con perline bianche e filo di seta che riportavano in rilievo lo stesso motivo della stoffa. Le nozze furono celebrate nel salotto grande della famiglia della sposa, come la consuetudine del tempo presso le buone famiglie borghesi. Fu una cerimonia sobria, seguita da un pranzo cui parteciparono pochi parenti e amici. Gli sposi furono, poi, accompagnati nella loro casa di Nova Siri dal fratello medico di Rosina, Giovanni, che aveva da poco comprato una delle prime automobili, mentre l’amico Enrico portò tutti gli effetti personali della sposa. Rosina, natura fragile, delicata e raffinata, non trovò in casa B. l’atmosfera che probabilmente aveva immaginato e sperato. La presenza costante delle cognate, della suocera, del numeroso personale di servizio non le lasciavano spazio per creare e imporre un proprio ruolo mentre Vincenzo trascorreva giornate intere in campagna. 11


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.