Lago Negro

Page 1

E SCRITTORE. DI ORIGINI LUCANE, È LAUREATO IN FILOSOFIA ALL’UNIVERSITÀ DI ROMA “LA SAPIENZA”, È STATO DOCENTE DI STORIA DELLA FILOSOFIA ARABA ED EBRAICA NELLA STESSA UNIVERSITÀ. È COORDINATORE SCIENTIFICO DELLO IASEM – ISTITUTO ALTI STUDI EURO-MEDITERRANEI. HA VINTO IL CONCORSO LETTERARIO “RACCONTI NELLA RETE” E HA PUBBLICATO IL ROMANZO “TELEGRAMMA SULL’ESSENZA” (ROMA 2011).

... nel frattempo, aveva raggiunto una delle punte del Sirino e da lì si vedeva tutto. La valle davanti, la valle dietro e una montagna cruda e viva tutt’intorno. Respirò forte, per riprendere fiato. Un odore selvaggio di natura buona lo invase. I pensieri si fermarono solo due o tre secondi, ma furono due o tre secondi bellissimi...

PIERPAOLO GREZZI LAGO NEGRO

PIERPAOLO GREZZI È FILOSOFO

ISBN 978-88-6960-080-7

9 788869 600807

€ 12,00

PIERPAOLO GREZZI

LAGO NEGRO RACCONTI

LAGO NEGRO NEL PICCOLO PAESE DELLA LUCANIA – QUASI COME NEL REALISMO MAGICO DI BORGES O GARCIA MARQUEZ – I CONFINI TRA LA REALTÀ FISICA E SPIRITUALE DIVENTANO SPESSO IMPALPABILI E LA NUDA REALTÀ PRECIPITA CONTINUAMENTE NELL’ELEMENTO IMMAGINIFICO, PRODUCENDO TRAME INATTESE. LA QUOTIDIANITÀ IMMOBILE VIENE SCOSSA DA EVENTI O PERSONAGGI SINGOLARI, CHE DISEGNANO I CONTORNI DI UN’UMANITÀ VIVIDA E PROFONDA. I TRE RACCONTI CHE COMPONGONO “LAGO NEGRO” SONO TUTTI AMBIENTATI NELLO STESSO LUOGO FISICO, CHE – SI SCOPRE PRESTO – È PRIMA DI TUTTO UN LUOGO DELLA COSCIENZA.


CONCERTO GROSSO PER LAGONEGRO


Tutto cominciò con l’arrivo della lettera, il mercoledì dopo la festa della Madonna di Sirino. L’aprì mio padre al mattino, io ero in giro per i miei sogni, che chiamavo lavoro. Rientrai per cena, alle otto in punto, e sentii un bell’odore di carciofi. «È arrivata quella lettera, vedi se è roba tua», disse mio padre. La “roba tua” erano le comunicazioni decisamente astratte rispetto al piccolo contesto del nostro piovoso paesino del sud. Da che mi ero messo in testa di creare l’agenzia letteraria “Lukania”, con relativo blog, ogni tanto arrivavano lettere di scrittori che sottoponevano i loro manoscritti, o inviti a conferenze, a fiere di libri, e cose del genere. Ogni tanto arrivava qualche comunicazione dalla Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Basilicata. E tutto ciò andava sotto la categoria di “roba tua”. La busta bianca era del tutto ordinaria, senza alcuna intestazione e con l’indirizzo scritto a mano, con una grafia regolare e contenuta, forse di una mano femminile. “In occasione dell’arrivo di Martino Sangiorgio in città, la S.V. è invitata a partecipare al seminario che si svolgerà sabato 20 settembre, alle ore 21.00, presso il Cinema Iris – via Napoli, Lagonegro (PZ)”. «E chi è?», chiesi a mio padre. «Non ne sono sicuro, ma dovrebbe essere il figlio del notaio Sangiorgio. Me lo ricordo da piccolo, poi è partito e non se n’è saputo più niente». «Ho capito, ma un seminario su cosa? Che fa questo qua?» «Non lo so». «Non faceva il medico?», si inserì mia madre, mettendo un carciofo fumante nel mio piatto. «Basta, uno solo …» «E prendine un altro!» «Sono a dieta, ma’». «Dai, te ne do uno piccolo…», e cadde nel piatto un altro carciofo bollito ripieno della pastella al formaggio, «mi sembra che ha studiato medicina», riprese mia madre, «e poi è andato a fare il dottore in Africa o non so dove». «Ma che invito è? Un seminario… ci vuoi scrivere su cos’è il seminario! Vabbè, comunque domani vado a Salerno, torno lunedì prossimo. Quindi non ci sono». 5


«Domani?», ripeté preoccupata mia madre. Il Tg1 stava dando un’intervista a Umberto Eco, “roba mia”… Presi il telecomando e alzai il volume. La TV stroncò il nostro discorso. Continuai a mangiare masticando pensieri tra me e me. Appena finito, mi ritirai in camera a lavorare, come facevo sempre ultimamente. Mi stavo chiudendo sempre più nel mio mondo appesantito e, a volte, vano. Avevo molte cose da fare, molte cose sospese: il progetto del concorso letterario a Matera, la revisione dell’articolo su Pasolini, che stavo scrivendo e riscrivendo da non so quanti mesi, le correzioni dell’antologia di poesie che doveva andare in stampa ed era già in ritardo, e molte altre cose. Tutto si accumulava e si mischiava: i pensieri, goccia a goccia, stavano riempiendo il vaso, che rischiava di strabordare. Tirai fino a mezzanotte, poi gli occhi non ce la fecero più. Spensi il computer e riordinai le carte che dovevo portarmi a Salerno. Feci velocemente la valigia, per fortuna mia madre mi aveva già stirato e piegato le camicie, come sempre. Mi guardai un po’ intorno per ricordare tutto quello che c’era da prendere, sapendo che avrei comunque dimenticato qualcosa. Betty mi aspettava, era felice che andassi da lei, ma sapevo che avrebbe ricominciato con le domande. Si sarebbe laureata in economia tra pochi mesi e, dopo tutto quel tempo, non potevamo certo continuare a rimanere nella clandestinità. Una clandestinità che lei proprio non capiva. E anch’io iniziavo a non capire più. M’avrebbe fatto delle domande, legittimamente. E io non avrei dato alcuna risposta, ostinatamente. Tra questi pensieri m’addormentai. Un suono lunare mi trascinò fuori dal sonno. L’indefinito segnale del BlackBerry mi ronzò accanto per avvertirmi che era arrivato un messaggio. Decisi di leggerlo la mattina dopo. Era meglio così. Che poteva essere di tanto importante? Che poteva esser mai successo a quell’ora della notte? No, non poteva essere nulla di che. Mi girai dall’altra parte per continuare a dormire. Ma il pensiero di quel messaggio cominciò a rimbombare. E mi costrinse a sollevarmi dal letto e prendere in mano il telefono. “Non credo che nella tua vita ci sia spazio per me. O forse non c’è mai stato. Non venire domani, preferisco così. Prendi il tuo tempo e dammi una risposta definitiva. Betty.” 6


Sapevo che prima o poi un messaggio del genere sarebbe arrivato. Provai a dormire, ma non ci fu nulla da fare. Mi alzai, andai in cucina, aprii una birra e guardai fuori dalla finestra, da cui si vedeva una strada vuota. Il vuoto di sempre. Pensai ai miei 34 anni e all’infinità di errori che avevo fatto. E forse ne stavo per fare un altro. Quando il chiarore dell’alba trasformò il giallo freddo dei lampioni nel ghiaccio luna spento del mattino, tornai a letto, per dormire almeno un paio d’ore. Quel giovedì mattina non riuscii a far nulla. Mi chiusi in camera, con i Pink Floyd a tutto volume. Trascorsi un paio di giorni immobili. Mi ricordai del seminario di sabato. In fondo, ci sarei potuto anche andare, almeno m’avrebbe distratto da quel baratro. Mangiammo alle 20.00 in punto, come sempre, e, dopo il Tg1, mi cambiai, presi l’ombrello nero di mio padre e uscii. Piuttosto insolitamente per un’attività culturale, c’era il pienone. Anzi, ebbi difficoltà a trovare un posto a sedere. Alcuni ragazzi addirittura s’erano messi a terra, molti rimasero in piedi. Pensai che forse loro s’erano informati meglio e sapevano di che si parlava. Non sapevo dire se tutta quella gente fosse garanzia della bontà dell’evento o meno. Forse quel Sangiorgio era famoso e solo io non lo conoscevo. Magari era un personaggio della TV. Ma no, nemmeno Carmine lo conosceva… Attesi senza chiedere nulla, visto che c’ero, avrei giudicato da solo. Mi guardai intorno e vidi alcuni volti noti, di quelli che avevano segnato la mia infanzia. Franco il tabaccaio, Peppe il postino, il prof. Alberti. C’era mezzo paese. Verso le 21.15 si spensero le luci. Il sipario era ancora chiuso e s’udì il suono di uno strano flauto, che suonava note lunghe e leggere, intervallate da prolungati silenzi. Un flauto orientale, avrei detto. La musica sembrava provenire da nessuna parte, eppure c’era. Si aprì lentamente la grossa tenda di velluto rosso e, al centro del palco, illuminata da una luce intensa, c’era una sedia vuota. Nella penombra si cominciarono a vedere dei corpi muoversi al ritmo del flauto. Facevano una danza appena per7


cettibile. Sembravano le danze sacre di Gurdjeff. Piuttosto inusuale, pensai. Mi cominciò a piacere. Nel silenzio più assoluto degli astanti, la musica, con una vibrazione delicata, cessò; e cessò pure la danza. I corpi, sempre in penombra, scomparvero e rimase solo la sedia vuota. Si sentirono le tavole di legno del palco scricchiolare e apparve la figura di un uomo anziano ma virulento, avvolto in una specie di grosso mantello nero e con un singolare bastone, che attraversò la scena, per sedersi lentamente sulla sedia. Qualche momento di silenzio. Gli occhi pungenti dell’uomo passarono sulla platea e sembrarono luccicare. «È meraviglioso essere di nuovo qui. È meraviglioso rivedervi. Vi ho pensato così tanto in tutti questi anni. Vi ho pensato davvero molto spesso. Ho proprio pensato a ciascuno di voi, sapevo che vi avrei rivisti. Ed eccoci finalmente qui». La sua voce era potente ma calma. Scandiva ogni suono con gusto. Aveva un modo di parlare rotondo e sereno. Si carezzò la lunga barba bianca e riprese: «Sembra che tutto sia uguale a prima. L’odore della terra è lo stesso. La pioggia, i colori, certi volti. Sono passati molti anni da che sono partito, ma riesco ancora a sentirmi perfettamente a casa. E voi… vi sentite a casa qui?» Non sembrò una domanda retorica. Ma nessuno rispose. A me pareva una domanda assolutamente pertinente, non so agli altri. «Tutti ci siamo nati» continuò il personaggio «e tutti abbiamo qui la nostra casa. Ma dimorare in un luogo è molto di più. È una cosa che non riguarda il mondo fisico, ma riguarda il cuore». Si guardò intorno divertito. «Vi sembrerà un’assurdità, ma credo che sia proprio così. A me, con tutto il rispetto, sembrate un po’ smarriti… Siete sicuri di voler stare qui? Siete sicuri che questo sia il vostro paese?» Si alzò qualche brusio. «No, non vi adirate!» disse ironicamente «io sono fatto così, mi piace sempre provocare un po’! Eppure, al di là delle provocazioni, non sembra che ve la passiate molto bene… Questo non potete negarlo: mi hanno detto che non c’è molto lavoro e non girano soldi… o mi hanno detto male?» Ancora del brusio, questa volta di assenso. 8


«Ho sentito di una certa insofferenza… I giovani vanno via, non c’è un granché da fare. Non mi sembra che si siano aperte nuove scuole, nuove occasioni di lavoro, non sono nate cose nuove, e le idee … circolano nuove idee? Non c’è una galleria d’arte, e nemmeno una nuova compagnia teatrale…» Il brusio aumentava. La gente non capiva chi fosse esattamente quel vecchio; neanche io capivo che volesse dire, sebbene stesse dicendo esattamente quel che pensavo. «Mi chiedo perché. Perché in tutti questi anni non avete costruito qualcosa di veramente nuovo? Che ne so, una statua, nuovi giardini, una ferrovia, un’accademia… nulla. Ma che è successo nel frattempo? Sono preoccupato per voi… state male?» Il brusio si trasformò in un vocio sempre più forte. Mario Scaldaferri diceva qualcosa. «Silenzio, fatelo parlare!», si sentiva tra la folla. Tutti si azzittirono: «Ve lo dico io che cosa è successo! Stiamo peggio di prima perché siamo stati abbandonati! Lo Stato non fa niente per noi!» Il vecchio lo guardò con sguardo sereno. «Ma non è vero!» gridò dalla galleria Tonino il macellaio. «È la Regione che si mangia tutto e non fa niente per la gente!». «C’è chi lavora e chi non fa niente!» «È colpa dei politici!» «È colpa dell’ignoranza!» «Non cambierà mai niente, ci vorrebbe il fascismo!» «Ma che dici? Qua non c’è democrazia! Ci vorrebbe più democrazia!» «Mangi solo se sei amico della persona giusta!» «Ognuno si fa i fatti suoi e non gliene frega niente degli altri!» «Si sono persi i valori di una volta!» «È tutta colpa della televisione!» Il dibattito si fece confusionario e feroce. Io mi guardavo intorno ed ero d’accordo un po’ con tutti. Avrei voluto dire la mia, ma poi subito un altro s’accavallava. Guardavo gli oratori, cercando di capire chi fossero. Mentre giravo all’impazzata, osservai il volto del vecchio placidamente seduto sulla seggiola di legno; aveva socchiuso gli occhi e il volto era segnato da un leggero sorriso. 9


Lo fissai e mi chiesi chi fosse davvero quel tizio sbucato dal nulla, che aveva chiamato a raccolta tutti, senza sapere neanche perché e, in pochi minuti, aveva creato un dibattito infuocato. Biagino s’era alzato in piedi e s’era messo a urlare, finché non riuscì a ottenere la parola: «Scusate! Ma perché non sentiamo cosa ha da dire lui… visto che siamo qui!» Il vecchio riaprì gli occhi, lo guardò e sorrise, come per ringraziarlo. Si ristabilì pian piano il silenzio. «Sì. Avete ragione, non tutto è perfetto» disse il vecchio e prese un lunghissimo respiro. «E bisogna capire di chi è la colpa. Ma, prima di tutto, sarebbe bello capire che cosa volete davvero voi». «Ci vuole più lavoro!», gridò qualcuno. «Mio figlio è dovuto andarsene perché la banca non gli ha dato il prestito per aprire il negozio!» «Noi abbiamo tre bambini e non ce la facciamo neanche a comprare i libri!» «Sì, però ci sono certe persone che, lo so io come, si sono arricchite alle nostre spalle!» «Qua non c’è nulla, neanche un locale decente per fare un po’ di musica!» «Noi ragazzi non sappiamo che fare!» «Ci vorrebbe un po’ di turismo, è tutto fermo!» «Mancano le infrastrutture!» Il vecchio alzò una mano. E tutti si fermarono. Era incredibile come fosse riuscito a stabilire una forma di rispetto reverenziale in tutti, senza che neanche lo conoscessimo. Respirò di nuovo e sorrise tra sé: «Vi capisco. Capisco cosa dite. Ma cosa vuole il vostro cuore? Siete sicuri che un locale, un mutuo o un lavoro placherebbero le vostre ansie?» Nessuno disse nulla. «Non ne dubito» continuò «non ho dubbi che abbiate bisogno di più benessere e più sicurezza. So che questa situazione non permette di realizzarvi. E realizzarsi è molto importante, posso assicurarvelo». Fece una lunghissima pausa, come per assicurarsi che quelle parole fossero arrivate a tutti. «Sento che molti di voi non sono realizzati. E per questo soffrono…» 10


Si fermò e guardò la platea. Poi scoppiò in una grande risata, nel silenzio generale. «Lo so, vi state chiedendo chi sia io e cosa sono venuto a fare… Lo capirete, spero». Si sistemò il mantello, posò entrambe le mani sul pomello bianco lucente del bastone e respirò: «Diciamo che sono venuto a portarvi la ricchezza». Si alzò un vociare intenso. «Ma sono venuto a portarvi anche qualcos’altro», disse nel rumore. «Ma che vuol dire?», si sentì dalla platea. «Esattamente quello che ha sentito, caro signore. Ho della ricchezza e voglio darvela. Si rende conto però che, prima, voglio capire cosa serve davvero». «Ma di che ricchezza sta parlando?» «Ricchezza. Semplice ricchezza. Quello che lei ritiene essere la ricchezza». «Soldi? Lei vuole investire qui a Lagonegro?» «Esattamente. Proprio quello!», di nuovo il brusio si alzò forte. «E su cosa vuole investire?» «Non lo so, questo vorrei capirlo da voi. Da che avevo 19 anni sono andato via e ormai non conosco più questo spicchio di mondo. Per questo voglio sapere da voi…» «E quanti soldi ha da investire?» «Abbastanza. Ma di questo non preoccupatevi, pensate a come usare le risorse che vi darò». Ascoltai con grande attenzione. Quell’uomo aveva qualcosa di magnetico, una qualità intrinseca nella sua forma fisica, che riusciva ad attrarre completamente la mia attenzione, e pure quella degli altri, penso. E poi, quel modo di fare calmo. Era di fronte a una schiera di centocinquanta o duecento paesani inferociti e non si smuoveva di un millimetro dalla sua pace. Respirava, rifletteva e dava le sue risposte. L’incontro durò un’altra mezz’ora ancora, in cui vi fu un dibattito serrato tra il pubblico e il vecchio. Alla fine, lui salutò tutti e chiese il silenzio. Si sentì suonare di nuovo quel flauto sognante e riapparvero in penombra i danzatori di prima. Si alzò lentamente e scomparve. Le pesanti tende rosse si richiusero. 11


L’annuncio dell’investimento aveva naturalmente elettrizzato tutti. Tutti ne erano rimasti impressionati e lo fui anch’io, devo confessarlo. Anche se mi colpì molto di più la figura stessa di quel Martino Sangiorgio. Quel sabato sera, tornato a casa, decisi di lasciar perdere tutte le mie carte e i miei mezzi progetti. Non riuscivo a togliermi dalla testa quel personaggio incredibile e quell’assurdo dibattito: non avevo mai assistito a nulla del genere. Quel miscuglio di economia e saggezza, di mistica e politica mi sembrava surreale. Andai su internet a cercare qualche informazione su quel Sangiorgio, ma non trovai nulla. Rimasi a rimuginare fino a tardi, poi crollai. Per quella notte decisi di spegnere il cellulare, non so perché. Il giorno dopo, naturalmente, non si parlava d’altro che di Martino Sangiorgio. Andai a fare colazione in piazza, avevo voglia di sentire cosa pensassero gli altri. Incontrai Gino De Angelis e il gruppetto degli imprenditori edili. Avevano fatto capannello davanti al bar vicino la chiesa. «Bisogna capire di quanti soldi si tratta, innanzitutto. Se è uno o due milioni è un conto, se sono dieci o venti è un altro, se sono cento è tutta un’altra storia!», diceva Massimo Falabella, proprietario di una delle cave della zona. «Beh, questo è chiaro… Io dico che il miglior investimento è sempre nell’edilizia!», affermò in modo perentorio Nicola Pagano, il titolare della Pagano & Fratelli Srl, storica azienda di costruzioni. «Nicò, qua si tratta di generare ricchezza… Se costruisci case e nessuno le compra non serve a niente! Secondo me ci dobbiamo buttare in qualcosa di nuovo… I centri commerciali sono il futuro!», affermava Emilio Tortorella, piccolo imprenditore che si occupava di pavimentazioni e pitturazioni. «È la stessa cosa Emì, se non crei lavoro chi viene a comprare al supermercato?» «Sentite a me, ama fa’ nu consorzio per produrre vino!», disse il giovanissimo Enzo Mango. «Meglio di no Enzù, sennò te lo bevi tutto tu!», tutti scoppiarono a ridere. Il discorso andò avanti finché non prese la parola De Angelis: «So’ tutte chiacchiere inutili. Ma chi lo conosce ‘sto Sangiorgio? Ce l’ha veramente ‘sti soldi? E poi ci avete parlato? Che tipo è? Forse è il 12


caso di parlare prima con lui, io lo voglio guardare negli occhi questo qua!» Nessuno disse nulla. Si girò verso di me: «Necci, tu lo conosci?» «Buongiorno, signor Gino», abbassai il capo in segno di saluto. Tutti gli sguardi su di me mi intimidirono, e risposi con un filo di voce: «No, non lo conosco». Dimenticandosi di me, De Angelis continuò a parlare con i suoi e io ne approfittai per allontanarmi. Passai in edicola a comprare il giornale e pure Erminio con un paio di signore stava parlando di Sangiorgio e di quei soldi. Lo stesso ovunque, alle poste, in tutti i negozi e al Comune. Venni a sapere che Sangiorgio aveva preso in affitto due grossi appartamenti nella parte nuova del paese, uno per sé e uno per il suo seguito. Questo testimoniava che una certa disponibilità economica c’era. Viaggiava su una grossa Mercedes nera, con un autista, e il suo seguito su un van, sempre Mercedes e sempre nero. Ma, a parte questo, nessuno sapeva nulla di preciso su di lui. La cosa cominciò a incuriosirmi sempre di più, devo essere onesto, non tanto per i soldi, ma perché iniziavo a vederci una storia e, per me, i soldi stavano nelle storie, o almeno di questo mi ero convinto. E questa sì che era una storia! In uno dei paesini più sperduti d’Italia, in Basilicata, una delle regioni più dimenticate d’Europa, un giorno arriva una specie di stregone-sciamano miliardario e dice: “ecco i soldi, fatene che volete!”. Era più di quello che la mia immaginazione avesse mai potuto concepire. Non resistevo dal voler sapere tutto di lui, soprattutto dopo aver assistito a quell’assurdo rito del “seminario”. Ma poi perché aveva chiamato seminario quell’incontro? Perché quel flauto? Che musica era? Sì, sembrava orientale, ma non avrei saputo dire… E perché le danze e quella specie di ritualità? Trascrissi queste domande sul mio quadernetto nero. Mi sembrava di capire che ci fosse qualcosa che andava molto oltre la semplice idea di investire dei soldi nel proprio luogo d’origine. Tramite mio padre, riuscii a ficcarmi nell’archivio comunale e poi in quello parrocchiale per scovare qualche notizia. Non ne venne fuori nulla di interessante. Martino Sangiorgio era figlio di Pasquale Sangiorgio, notaio, e di Carmela De Cecchi, a sua volta terza 13


figlia del marchese De Cecchi di Battipaglia, che Pasquale aveva conosciuto a Napoli, nel periodo universitario. Pasquale e Carmela avevano avuto un solo figlio, Martino, nato il 17 luglio 1947, che, dopo aver ottenuto la licenza scientifica a Lagonegro, era partito per Pisa, per frequentare la facoltà di medicina. Di Pisa era un ramo della famiglia De Cecchi, che aveva notevoli possedimenti in Pontedera. Si trattava di una famiglia benestante, ma senza particolari eventi da segnalare. Tutti ricordavano don Pasquale, il notaio, come un uomo austero e integerrimo. Sua moglie, casalinga, organizzava ogni Natale una colletta per i poveri. Tutto qua, non riuscii a sapere più nulla. Lunedì sera telefonò a casa nostra Gino De Angelis. «Pronto Necci!» «Chi è?» «Gino De Angelis». «Oh, signor Gino… ditemi…» «Sono qui con Felice, so che stai facendo delle ricerche su Sangiorgio. Hai saputo qualcosa?» Felice era Felice Ferrara, il sindaco, grande amico di De Angelis. «Nulla di che, signor De Angelis. Non risulta niente di particolare». «Continua a cercare, è impossibile che non si sappia nulla di questo qua. Facci sapere appena hai novità», e riattaccò. Il solito arrogante. Come sempre in questo paese, appena muovi un dito, tutti lo sanno. Avevano saputo delle mie ricerche, ma non sapevano nulla su Sangiorgio. Il vecchio aveva scelto di non lasciare nessuna traccia di sé. Naturalmente anch’io, come tutti, mi costruii la mia immagine di quel personaggio, quella che più mi faceva comodo. “Non ti farà sapere mai nulla di sé, caro signor De Angelis, se non quello che vuole…”, dissi soddisfatto tra me e me, chiudendo il telefono. Nella voce prepotente di De Angelis sentii la solita, odiosa inedia vorace delle nostre terre. Non tanto l’ingordigia del denaro e dei possedimenti materiali, ma soprattutto il bisogno di tenere in mano gli esseri umani e le loro menti, con un’atavica paura di perdere la loro insignificante fetta di potere. “Hai paura, signor De Angelis? Hai paura che questo Sangiorgio si possa prendere un po’ del tuo? E se fosse davvero più ricco di te? E più intelligente? E certamente più saggio…” 14


“Il potere dei saggi si poggia sulla responsabilità, il potere degli inetti si fonda sulla paura”, appuntai sul mio quadernetto nero. L’arrivo di Sangiorgio fu spunto di riflessioni, che mi tennero impegnato quasi tutta la notte tra lunedì e martedì. La mattina di martedì 23 settembre, come ogni volta che avevo quel senso di stordimento interiore, mi misi in macchina per andare verso il Lago Laudemio. Non pioveva, ma c’era un sole umido. La passeggiata intorno al laghetto di montagna era una delle poche cose che sapeva arginare il moto ondoso, incessante, oscuro di certi pensieri. Percorrendo una delle ultime curve prima di arrivare al Laudemio, vidi parcheggiate la Mercedes nera di Sangiorgio e il van del suo seguito. Rallentai, per vedere meglio. Non poteva che esser lui. Avevano parcheggiato in un piccolo slargo, dove inizia il sentiero verso Zapano, il sentiero portava a una radura con delle piccole pozze d’acqua naturali. Continuai per la mia strada. Feci un paio di curve, ma la curiosità era troppa. Non seppi resistere e tornai indietro. Parcheggiai anch’io nel piccolo slargo, dietro il van, e decisi che avrei cambiato la destinazione della mia passeggiata e sarei andato proprio in quella direzione. Una forza morbosa mi attirava. Mi dissi che forse non era il caso, che avrei disturbato il picnic di quella gente, che dovevo farmi i fatti miei e tornare indietro, che non c’era nulla da sbirciare… Ma nel frattempo ero a pochi metri dalla radura e non si vedeva e non si sentiva nulla. Forse non erano lì. Mi avvicinai ancora e vidi tra gli alberi una splendida tenda di tessuto azzurro, enorme, dalla forma strana, sembrava una specie di cupola orientale. Si sentiva un odore intenso di fiori, di fiori diversi da quelli che crescono sul Sirino. Mi tenni un po’ distante a guardare. Non c’era nessuno. All’improvviso udii lo stesso flauto che aveva suonato sabato sera. Note lunghissime e pesanti, con delle deviazioni armoniche appena percettibili, di tanto in tanto. Un flauto che sembrava intonato con l’aria intorno, con il rumore leggero del vento tra le foglie, con tutta la montagna. Non capivo da dove venisse esattamente. Feci un piccolissimo passo in avanti per vedere meglio. Sul lato sinistro della tenda c’erano dei grandi tappeti rossi poggiati a terra con dei cuscini, e sui cuscini, a formare un cerchio per15


fetto, c’erano sette persone sedute all’indiana, con le gambe incrociate. Il busto perfettamente eretto, le mani poggiate sulle ginocchia. In completo silenzio. Di spalle riconobbi Sangiorgio dalla folta chioma di capelli bianchi, lui stava su uno strato di cuscini più alto, il bastone poggiato affianco e aveva in mano qualcosa, una specie di rosario o non so cosa. Gli altri erano tutti giovani, quattro ragazzi e due ragazze, evidentemente di nazionalità diverse: uno dei ragazzi era di colore, altri due erano biondissimi e uno sembrava un indio sud americano. Le ragazze invece mi sembrarono entrambe orientali, cinesi o giapponesi. Tutti in un silenzio assorto. Lentissimamente Sangiorgio sollevò un braccio e mosse la mano alzandola e abbassandola. Non capivo che stesse facendo, poi si voltò piano, proprio verso di me. «Vieni!» disse rompendo il silenzio con la sua voce grave. Io rimasi impietrito. Come aveva fatto a vedermi? «Vieni», ripeté. M’avvicinai piano, come se stessi entrando in un mondo di vetro fragile. Tutti aprirono gli occhi e mi sorrisero. «Scusate, forse ho interrotto… Ma stavo camminando da qui… E non volevo…», dissi. Sangiorgio sorrise e mi fece segno di sedermi sul tappeto, accanto a lui. Disse una parola che non compresi e gli altri la ripeterono, come a concludere quella specie di rito o pratica o non saprei dire cosa… Ci fu un silenzio calmo. Una delle ragazze si alzò, andò nella tenda e tornò con un vassoio con dei bicchierini decorati e una caraffa con del liquido giallo. Lo versò negli otto bicchieri e lo offrì a me per primo. «Prendi pure, lo fa Xiao, è molto buono», disse Sangiorgio. Ne presi e tutti gli altri bevvero. Era davvero buono, una specie di limonata colma di spezie. «Sono felice che sei venuto. So che stavi cercando informazioni su di me», disse lui senza smettere di guardare il suo bicchiere. «Beh, no. Non… Sì, solo per sapere… Ma non volevo…». Ero un po’ smarrito. Lui sorrise di nuovo con dolcezza. «Sei il benvenuto, davvero», e bevve un sorso. «Ora hai l’informazione principale». 16


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.