La scoperta del volto

Page 1

Luigi Berzano

La religione dei volti


La religione dei Volti

La scoperta del volto

L’accumularsi di molteplici apparizioni dell’io di fronte agli altri non è che l’esperienza della divisione dell’io in se stesso. L’io vede il proprio volto popolarsi di segni inattesi e diversi. L’io scopre di avere più volti...


Luigi Berzano La scoperta del volto Collana La religione dei volti Introduzione

ŠLuigi Berzano/2012 - Tutti i diritti riservati. Questa pubblicazione è scaricabile gratuitamente dal sito www.pluralismoreligioso.it

ii


La scoperta del volto Il volto e i volti dell’uomo occupano ormai un posto rilevante nell’opera di artisti, di scrittori e, di recente, anche di pensatori. Sia che lo strumento usato per descrivere i volti sia il pennello, la fotografia o la scrittura, l’impresa è ugualmente avvincente, quasi che il trattamento del volto sia il più nobile impiego dei doni che sono concessi all’artista o al filosofo. Attingendo nelle innumerevoli disposizioni di volti che si offrono al suo sguardo, l’artista e lo scrittore sono certi di avere infiniti motivi di ispirazione. E anche nel caso in cui, riferendosi solo a volti reali, gli capitasse di non trovarne alcuno di suo gradimento, gli resterebbe sempre, grazie anche alle risorse del loro talento, la possibilità di inventarne altri ricorrendo alle preziose risorse di una memoria arricchita dal sapere. Il volto esprime l’altro, il tu, il prossimo. E anche la forma che Dio ha voluto scegliere per farsi riconoscere dagli uomini è stato un volto umano in Gesù. Se la qualità della convivenza collettiva, come scrive il filosofo Lévinas, «ricomincia dal tu», cioè ricomincia dal dare valore all’altro e al rapporto di prossimità, anche il cristianesimo si rivela come la religione dei volti, cioè della prossimità. Il tu e il prossimo, infatti, si presentano a noi con il loro volto. Il volto delle creature di tutte le razze e culture: da rispettare in sede morale, da accarezzare in sede affettiva, da definire nel nostro pensiero. Nel volto possiamo cogliere l’intensità della presenza di chi guarda verso di noi e ci viene incontro. In Africa alcune formule di saluto significano Ti vedo; e per esprimere la popolarità e l’ammirazione per una persona si dice: Il volto della gente è rivolto verso di te. Il volto è la parte più delicata dell’uomo; arrossisce facilmente; su di esso si scorgono tutti i sentimenti e le emozioni. Anche in passato non si sparava a un condannato guardandolo in volto, ma lo si bendava, non per la paura del condannato, ma per il terrore che esso incuteva sullo sparatore.

iii


Questa centralità del volto nella nostra epoca è anche dovuta al fatto che, mai prima d’ora, si è così tanto parlato dell’altro e degli altri. Un evento del nostro tempo, soprattutto, ci obbliga a ripensare il nostro rapporto con l’altro; è la mescolanza delle razze e delle tante tradizioni che fanno ormai parte del nostro vivere quotidiano. Entriamo in un’epoca in cui alcune consuetudini mentali e comunitarie rischiano di rivelarsi incapaci di risolvere armoniosamente i problemi delle diversità. Si tratta soprattutto di quelle consuetudini mentali e comunitarie che sono fondate sull’identico a sé, su ciò che gli è simile e uguale. Un grande maestro che ha introdotto e approfondito questi temi è il filosofo Emmanuel Lévinas, soprattutto nella sua opera Totalité et Infini con sottotitolo Essai sur l’extériorité (1961). Per Lévinas l’Infinito non è il generico tutto, ma è la presenza che viene a noi come Altro, come prossimo, come volto. Da questo nasce la relazione fondamentale, che è quella della responsabilità di fronte a tutti gli altri. Porre l’Infinito non più come il tutto, ma come l’Altro significa mettere da parte la logica dell’intero e assumere la logica della differenza. Il volto dell’Infinito è il volto del radicalmente altro. Per questo, continua Lévinas, anche la filosofia non può più continuare a perdersi nelle voragini dell’io scavate dai filosofi idealisti e a battere sul chiodo della interiorità. Deve affrontare la questione “esteriore” del vivere con gli altri. Su questa base Lévinas formula i suoi tanti j’accuse in più direzioni. Una di queste direzioni è quella della impossibile pretesa dell’io di essere Tutto. È la pretesa di fare a meno degli altri. Anzi, noi troviamo dell’altro non solo ogni volta che posiamo lo sguardo sugli altri, ma anche quando posiamo lo sguardo su di noi, troviamo sempre dell’altro, oltre che trovare quel qualcuno che già conosciamo. «Guardare sé è sempre un colpo di scena», scrive Giuliano Zanchi in un bel saggio sulla pittura di Van Gogh. L’io non è mai uno; è almeno sempre due: questo è il colpo di scena che aveva già colpito sant’Agostino, quando cercava di spiegare le diverse presenze che abitano insieme nel mistero trinitario di Dio. Con una analogia un po’ ardita, Agostino paragonava le tre persone del mistero trinitario alle diverse alterità che coabitano nella coscienza dell’uomo. Anche l’uomo parla sempre con un altro, come se di fronte a un io attuale, ce ne fosse sempre uno in divenire. «Mi colpisce molto l’idea

iv


che la soggettività, già in se stessa, prima ancora che un altro soggetto si faccia vivo, abbia forma di parola rivolta ad un altro; lo stesso pensiero del resto non sorge se non in forma di parola», scrive ancora Zanchi. Il «colpo di scena» avviene ancora ogni qual volta l’io sperimenta l’insostenibile vertigine della frammentazione dentro di sé: quello che è e quello che vorrebbe essere, quello che era e quello che non è più, quello che è e quello che non vorrebbe essere, quello che è e quello che gli altri credono che sia, quello che non era e quello che ora è diventato. L’accumularsi di queste molteplici apparizioni dell’io di fronte agli altri non è che l’esperienza della divisione dell’io in se stesso. L’io vede il proprio volto popolarsi di segni inattesi e diversi. L’io scopre di avere più volti.

v


Dal primato dell’io al primato del tu Nel 1800 il primato, anche in sede teorica, è stato quello dell’essere e poi quello dell’io, che veniva detto per questo «assoluto» e «trascendentale», proteso a farsi in qualche modo «il tutto». È necessario ricordare quel periodo per capire la novità di questi nuovi pensieri, quale del primato del tu. Quella dell’Ottocento è stata la filosofia idealistica dell’Io: la grande corrente della filosofia romantica sviluppatasi in Germania nel periodo dopo Kant. Dai suoi fondatori, Fichte e Schelling, l’idealismo fu chiamato «trascendentale» perché, seguendo Kant, essi intendevano fare dell’io penso, il principio fondamentale della conoscenza. «Soggettivo» perché essi ponevano il soggetto nella sua assolutezza, un Io reale, il vero principio, l’assoluto prius di tutto. Per Fichte l’Io non è, come per Cartesio, un Io ammesso solo allo scopo di poter ragionare, ma è il principio unico e fuori di esso c’è il nulla. Schelling, delineando la nascita storica dell’idealismo romantico, scriveva: «Fichte liberò l’Io dai rivestimenti che ancora in parte lo oscuravano in Kant, e lo pose senz’altro come unico principio a capo della filosofia; l’Io divenne così il creatore dell’idealismo trascendentale». L’idealista Fichte, un pensatore inquieto e irrequieto, nella sua opera principale Dottrina della scienza concludeva scrivendo che ciò che unisce il mondo della conoscenza sensibile e di quella intelligibile era «l’Io puro», il Soggetto come aspirazione all’infinito, come anelito alla libertà. Per Fichte l’Io non presuppone nulla e non dipende da nulla; l’Io penso di Kant diventa vera e propria fonte di ogni realtà. Al fondo di tutto, sta non una realtà, ma l’Io come coscienza assoluta o pensiero assoluto. Ogni processo-attività è sempre dall’Io all’Io. Ma che fare, se questo nostro tempo è ormai post-idealistico? Che fare per vivere altrimenti dalla supremazia assoluta dell’essere-io? Quali le condizioni per vivere in una società che ha scoperto l’altro, il tu? A inizio di questo millennio, dopo la caduta delle tradizionali ideologie e dei pensieri forti, quale è l’etica e la religione possibile e all’al-

vi


tezza di questo tempo? Come ricostruire un’etica dei volti e una religione dei volti condivise da tutti? Qui interessa soprattutto indicare i quattro punti che compongono questa suggestiva teoria dei volti che ha preso avvio da Lévinas sul finire del secolo scorso. Se così posso dire, sono punti che, rileggendo ora le lettere agli amici della Valle Andona dal 1976 ad oggi, paiono costituire un’unica trama: etica dei volti, convergenze etiche e pratica della compagnia, responsabilità e pratica della presenza, riconciliazione. 2.1. Etica dei volti. L’etica dei volti è quella basata sul riconoscimento dell’Altro. Ma il volto non in astratto; perché l’altro viene a me, se non con il suo volto. Il volto indifeso dell’altro, ma anche la parte più testimoniale della presenza dell’altro e del suo essere davanti a me. E anche il volto come il diverso da noi. Così inteso, l’incontro con ogni altro volto sconosciuto potrebbe suscitare lo stesso stato fisico e spirituale che suscita ogni volta lo spettacolo della primavera, di certi paesaggi o fenomeni cosmici. Luce Irigaray ha osservato che la conoscenza, la frequentazione e la ripetizione, così come impoveriscono persino la primavera, così privano anche il volto dell’altro del suo mistero. Quando l’altro lo abbiamo fatto simile a noi o l’abbiamo fatto nostro, perde della sua attrazione e non ci risveglia più. L’attrazione del volto dell’altro è quando resta fuori di noi. È proprio quando non lo conosciamo, o quando accettiamo che resti per noi come non conoscibile, che l’altro ci illumina in qualche modo. Accettare perfino di diventare un po’ negro o un po’ donna o un po’ schiavo: è l’aspirazione che indicava san Paolo scrivendo che non esisteva più né uomo né donna, né schiavo né libero, né ebreo né romano. L’aspirazione a non fare del volto dell’altro un volto uguale a sé; non fare del negro l’uguale del bianco; non fare della donna l’uguale dell’uomo; non fare dell’uomo occidentale l’uguale dell’uomo globale. L’etica dei volti – scrive spesso Italo Mancini – si basa quindi sulla deposizione dell’io e sul dis-inter-essere. Deposizione proprio nel senso in cui si dice che un despota o

vii


un tiranno va deposto e viene deposto. Deporre l’io dalla sua sovranità, far posto all’altro e al suo indistruttibile volto, instaurare relazioni di parola, di comunicazione, di insegnamento. È tutto ciò che nel linguaggio dei mistici si indicava con le parole abbandono, svuotamento. Prima che come fatto politico, la deposizione è un atto di giustizia e di moralità. Tale superamento di un’etica di soli principi astratti è la traduzione del concetto evangelico di agape, cioè dell’amore di gratuità quale quello di Dio del dono puro e disinteressato. L’altro elemento dell’etica dei volti è il dis-inter-essere, scritto di proposito in tre pezzi per indicare che nel movimento di fondo del faccia a faccia quello che debbo fare io è di depotenziare la pretesa del mio essere a porsi come sovrano. Ma fino a che punto far scomparire il mio essere dalla logica del dominio e del possesso, tanto dal pensare l’altro come nemico? 2.2. Convergenze etiche e pratica della compagnia. Ci si chiede ancora: che fare nel nostro tempo in cui è venuta meno l’accettazione di principi universali comuni? In cui il dissenso sulla verità e sull’essere è incolmabile ed è definitivamente tramontato? In cui, con il crollo della dialettica nelle sue diverse forme, è venuto meno l’ideale di un unico sistema onnicomprensivo? Che fare nel tempo del frammento e dell’uomo adulto che non può né vuole più essere ricacciato nella minorità? Arrovellandosi su questi problemi, Italo Mancini rileva come si possa riconoscere già ora, in molti ambiti della vita pubblica e privata, un insperabile spazio di consenso su verità pratiche. Lo rilevava fin dagli anni 1950 Jacques Maritain quando scriveva: «In seguito allo sviluppo storico dell’umanità, alle crisi sempre più ampie del mondo moderno, e al progresso, per quanto precario, della coscienza e della riflessione morale, gli uomini oggi si sono resi conto, molto più compiutamente di prima, per quanto ancora imperfettamente, di un certo numero di verità pratiche che riguardano la loro vita in comune, su cui possono essere d’accordo, ma che derivano nel pensiero di ciascuno di loro (...) da concezioni teoretiche completamente differenti e perfino opposte fondamentalmente».

viii


È sulla base di questa consapevolezza e sul riconoscimento ormai diffuso che oggi nessuno ce la fa più da solo, che si deve cercare la strada per una realistica cultura della mediazione e collaborazione. Tale cultura può attuarsi appunto, proprio dentro la società del frammento, nell’umile cammino delle convergenze su alcuni valori e impegni comuni; e non nell’orgogliosa pretesa del sistema esaustivo, totalizzante e neppure nel segno dell’imperialismo ideologico che si risolve in puro strumento di potere. Questo convergere nella prassi al di là degli steccati ideologici è dunque riconosciuta come la strada possibile per «organizzare il futuro». Si tratta allora di camminare insieme umilmente dentro una cultura delle tracce; di raccogliere qualcuno dei frammenti di senso che ancora rimangono. Scrive Lévinas: «Basterà allora fare attenzione alle “tracce” di verità che non scompaiono mai, sentieri giusti e grumi di luce, su cui ci si può trovare d’accordo e consentire in movimenti sempre più ampi e liberanti». Basta guardarsi attorno per trovare queste convergenze etiche. Il cuore degli uomini non si è ancora impietrito. Alcuni di questi sentieri privilegiati si possono cogliere nei temi della tolleranza, della non violenza, della pace, dei diritti umani. La prospettiva delle convergenze etiche si pone anche come alternativa alla tentazione dell’integrismo religioso, che, ritenendosi depositario di una verità definitiva in tutti i campi, brandisce il messaggio come una clava contro i nemici. L’integrismo religioso è uno dei temi su cui più passionalmente si è impegnata la critica di Italo Mancini, da sempre alla ricerca di un cristianesimo aperto e attento alle sfide culturali, all’altezza dei segni dei tempi. Per giustificare tuttavia la prospettiva delle convergenze come ricerca di un consenso a livello della prassi anche senza quello a livello teoretico, si possono evidenziare due ragioni. La prima è il riconoscimento della presenza di una sorta di patrimonio di valori comuni che giace nel più profondo della coscienza dell’umanità e che condiziona, almeno come richiamo ideale, i comportamenti. Si tratta, in definitiva, di riconoscere un sostrato etico che soggiace al fondo della coscienza dell’umanità e che emerge progressivamente nel corso della storia. Di questa consapevolezza, già suggerita da Maritain, si trova traccia in molti studiosi recenti dove si condivide una eredità di valori ix


che hanno la loro sorgente in Gesù Cristo e che sono ormai diventati, senza più aver consapevolezza della loro origine, patrimonio comune dell’umanità. La seconda ragione per giustificare la prospettiva delle convergenze come ricerca di un consenso è il riconoscimento che l’agire quotidiano precede di fatto, nella formazione delle convinzioni etiche, la riflessione filosofica, la quale porta certamente a piena coscienza e lucidità l’agire quotidiano, ma costituisce comunque un momento successivo, appunto riflesso, dell’esperienza morale. È legittimo dunque rivendicare una certa originalità alla prassi. La convergenza su valori comuni può dunque diventare proposta feconda per l’elaborazione di una etica del terzo millennio, se inserita dentro un nuovo paradigma, quale quello di Lévinas e del suo tema del volto come primato concreto dell’altro. Si tratta di operare, nella riflessione filosofica e nella prassi etica, una sorta di rivoluzione copernicana che metta al centro l’altro, nella sua irripetibile unicità rappresentata dal volto. L’altro con cui convivere in «compagnia», ricordandone il senso latino di cum-pane cioè di condivisione del pane. 2.3. Responsabilità e pratica della presenza. Il termine che ritorna alla ribalta del nostro interesse, non è il conoscere, e neppure il puro fare, ma è responsabilità. Il metro di misura del futuro non potrà essere solo più il volume della conoscenza ma quello dell’eticità, cioè della responsabilità. Responsabilità vuol dire rispondere all’altro. Chi è guidato dalla tensione della risposta è guidato dal volto stesso dell’altro. Se all’origine sta la responsabilità, nella pratica sta la risposta. Se all’origine sta la risposta vuol dire che prima della risposta c’è un altro che mi interpella. L’altro è la vera formula del futuro: l’essere interpellato da un altro. L’altro che io debbo custodire e al quale debbo rispondere, l’altro da conoscere, da rispettare. «Siamo tutti responsabili di tutto e di tutti davanti a tutti, e io più di tutti gli altri». Commentando questa affermazione iperbolica di Dostoevskij, Lévinas scrive: «La responsabilità è ciò che incombe su di me in modo esclusivo e che umanamente io non posso rifiutare. Questo carico è una suprema dignità dell’unico. Io non-intercambiabile, io

x


sono io soltanto nella misura in cui sono responsabile. Posso sostituirmi a tutti, ma nessuno può sostituirsi a me. Questa è la mia inalienabile identità di soggetto». Questa è la complessità della nostra società. Uso la parola complessità nel senso originario dal latino complexum, cioè ciò che è tessuto insieme. I fatti non sono mai isolati: tutti sono in un contesto; e questo contesto, a sua volta, è in un più vasto supercontesto. C’è sempre un tessuto comune che unisce tutto, come già osservava Pascal nel 1600 in una visione perspicace: «Essendo tutte le cose causate e causanti, aiutate e aiutanti, mediate e immediate, e tutte essendo intrecciate in un legame naturale e comune che lega le più lontane e le più diverse, ritengo impossibile sia di poter conoscere le parti senza conoscere il tutto sia, ancor più, di poter conoscere il tutto senza conoscere le parti». Questo pensiero pascaliano è ciò che oggi si chiama «principio ologrammatico»: il tutto è nella parte, la quale è dentro il tutto. L’oggetto della responsabilità è l’altro; ma l’altro con il nome proprio individuale, concreto; come usa fare la Bibbia che è fatta tutta di nomi propri. L’altro è soprattutto il volto, perché solo nel volto è la specificità dell’altro. È molto bella questa insistenza sul volto. Perché, lo sappiamo in particolare dalle riflessioni del filosofo Lévinas, il volto è un grande tema etico del nostro tempo. È un modo di portare l’etica al di fuori dell’astrattismo e degli imperativi, facendo sprigionare tutte quelle forze di amore, di riconciliazione, di compassione che derivano dalla contemplazione del volto. Il volto sovrasta ormai dall’alto e sostiene dal basso l’inizio di questo nuovo millennio. Lévinas scrive: «La nudità del volto è appunto ciò per cui originariamente si produce l’evento eccezionale dell’essere in-faccia; evento che la facciata dell’edificio e delle cose non fa che imitare. Ma questa relazione del coram (essere davanti a, di fronte a) è anche la nudità più nuda, il senza difesa e senza risorse, la nudità e la povertà dell’assenza che costituisce la prossimità di Dio, la traccia». Il volto che si rivolge a noi non è quindi solo quello esigente e radicale, ma anche quello indigente e nudo. Anzi, la nudità è la condizione del volto. Il volto dell’altro, scrive Lévinas, non viene a me «perché io lo sveli, lo sottoponga ai miei poteri, ai miei occhi (…) La relazione con il volto non è la conoscenza di un oggetto. La trascendenza del

xi


volto è, nello stesso tempo, la sua assenza da questo mondo in cui entra, lo spaesamento di un essere, la sua condizione di estraneo, di spogliato o di proletario. L’estraneità che è libertà è anche l’estraneità-miseria. (…) La nudità del suo volto si prolunga nella nudità del corpo che ha freddo e che ha vergogna della sua nudità». Per usare il linguaggio biblico, il volto è quindi anche quello dello sradicato, dell’indigente, dell’orfano, della vedova. 2.4. Riconciliazione. Le convergenze etiche di cui si è detto, hanno come loro gesto più necessario la riconciliazione. Riconciliazione dell’uomo con gli altri e con se stesso, riconciliazione dell’uomo con la natura, riconciliazione con Dio. Se la riconciliazione (come dominio, nella comunità, dello stare insieme senza paura) è un bene, e se il nostro pensiero e la nostra vita sono invece dominati dalla disgregazione, cosa fare per rimettere in sesto questa linea profonda dell’Occidente e del Cristianesimo? La prima cosa è darsi da fare per costruire una cultura della riconciliazione. Saranno magari delle tracce, piccoli segni, piccoli gesti, come «sentieri di bosco», ma avranno una grande importanza. Raccogliersi intorno alle parole pace, lavoro, bene, disciplina, dialogo, comunione: camminare eretti dopo i mille servaggi che hanno incurvato l’uomo nel corso della storia: ecco alcune tracce per la riconciliazione. Non disprezzare la cultura dei sentimenti, come la fedeltà, la lealtà, la cura delle persone anziane, il rispetto dei bimbi, le forze e le bellezze della natura; contrastare con contro-movimenti pacifici tutte le spinte alla guerra, all’equilibrio del terrore, alle follie stesse per gli armamenti, all’imperialismo della verità, che non vale per sé, ma per quello che ci fa conquistare. «Cercare insieme la verità»; la verità ci libererà; e poiché la verità è una, ci renderà uniti. Anche qui il cammino è lungo e difficile, ma è la via della salvezza. Una vera cultura della riconciliazione ha il grande compito di riunire insieme, attorno a dei valori sostanziali che interessano tutti. È attorno a questi valori che si possono attuare convergenze e impegni, lavorando insieme, mano nella mano, oltre e al riparo delle divisioni ideologiche perché nessun “sabato” vale più dell’uomo.

xii


Superare la società per frammenti, la frantumazione di molti legami. È rimasta una nostalgia e un presentimento degli orizzonti interi che coprono il senso della nostra vita. La diversità, l’opposizione, la frammentazione sono venute in onore al posto degli antichi segni della nostra civiltà occidentale raccolti attorno all’unità. L’emozione e il sentimento, sempre individuali e ribelli a ogni legge, hanno preso il posto della consapevolezza basata sul pensiero che raccoglie e domina il diverso. Si direbbe che il carattere babelico della incomunicabilità ha preso il posto dei pensieri dominanti e delle certezze comuni, in cui tutti si ritrovavano. Io con il mio nome e cognome, con il mio posto nel mondo, cosa posso fare per aiutare il mondo e la mia stessa fede a realizzare l’unità, la fraternità, la riconciliazione? Lo direi con una sola espressione: «avere progetti comuni». Nessuno, singolo o gruppo, ce la fa oggi da solo, nella grande complessità del mondo. Dovunque albeggia una luce, dovunque un uomo agisce lealmente, dovunque c’è qualcuno che ripete il motto (fatto scrivere anche da Don Milani nell’aula di Barbiana) «I Care»: mi preme, mi preoccupo, sono sensibile a te, lì si intravede questo cammino. Basta guardarsi intorno per trovare questi progetti, per riconoscere qualcuno con cui fare un fronte di lotta comune. I significati più importanti della nostra vita pubblica e privata non basta conoscerli, non basta dirli, vanno conquistati: sono allora necessari fronti di lotta, dove c’è posto per tutti. L’uomo ha un carattere più radicale dell’essere nero o bianco, verde o rosso. È vero però che gli ideali della riconciliazione sembrano a volte infrangersi nella constatazione quotidiana della contrapposizione amico-nemico. Ogni progetto, movimento, partito ne ha un altro contrapposto. È quanto descriveva già, dal punto di vista teologico, Agostino, vescovo di Ippona, tra il IV e V secolo nella Città di Dio. «Due amori hanno costruito due città: l’amore di sé fino al disprezzo di Dio ha costruito la città terrena (ingiusta); l’amore di sé spinto fino al disprezzo di sé ha costruito la città celeste (giusta)». L’ideale rimane sempre una città di Dio, dominata dalla fraternità, come descrive anche il salmo 133 nel bel dialetto di Canaan.

xiii


Ecco quanto è bello e quanto soave che i fratelli vivano insieme! È come olio profumato sul capo, che scende sulla barba, sulla barba di Aronne, che scende sull’orlo della sua veste. È come la rugiada del monte Ermon, che scende sui monti di Sion. Là il Signore dona la benedizione e la vita per sempre.

È un sogno, si dirà. Ma è il sogno lucido del giorno, non quello che ci assale nella notte. E poi, il sogno di uno rimane un sogno; il sogno di tutti diventa realtà: questo si leggeva sugli striscioni degli studenti, quando ci fu la fiammata studentesca per la pace. Riconciliazione, coesistenza dei volti, fraternità senza terrore, primato dell’Altro dopo il primato dell’io-assoluto e dell’Essere: tutto questo rappresenta la sfida del terzo millennio che potrà permettere un’era più fraterna senza confini.

xiv


Le vie della ricerca

Dove ricercare oggi il volto di Dio tra di noi? Le lettere agli amici della Valle Andona hanno sempre indicato quattro vie di questa ricerca: Dio nel volto di Gesù, nella storia, nella Bibbia, nella natura.

3.1. Dio nel volto di Gesù. Il Dio del Cristianesimo è un Dio dal volto umano. L’idea del volto di Dio in Gesù, nell’uomo e, possiamo dire, in tutte le creature non è un’idea lontana dalle vicende della nostra vita quotidiana. Tutto nel Vangelo ci indica che il mistero più grande e consolante è quello di un Dio fattosi uomo. Gesù è il volto di Dio. Questa è la fede fin dai primi tempi delle comunità cristiane. L’evangelista Giovanni che inizia il suo Vangelo scrivendo «Nessuno ha mai visto Dio», scrive poco dopo: «Dio ha preso un volto in Gesù». «Nessuno ha mai visto Dio»: questa frase poteva essere messa come epigrafe su tutta la storia umana. Tutto ciò che si è detto di Dio, anche nelle espressioni più alte del misticismo naturale, non è che analogia, immaginazione, o addirittura esaltazione della fantasia impotente. L’idea di Dio, non è l’esperienza di Dio. Anche un ateo può avere un’idea di Dio; ma averne un’idea umanamente creata, è sempre un’idea umanamente ritrovata. Soltanto Dio può farsi conoscere. Il completamento della ricerca di Dio da parte dell’uomo, con l’iniziativa di Dio di farsi conoscere è proprio della rivelazione cristiana. L’ultima parola della filosofia greca fu quella scolpita sul tempio di Atene: «Al Dio ignoto». Nel pensiero d’Oriente il riconoscimento che nessuno ha visto Dio si risolve infine in una identificazione di Dio con il «nulla». L’uomo quando è veramente puro ed elevato, ha sempre dichiarato la sua impotenza a vedere Dio. Al limite l’uomo può preparare la via perché Dio possa venire all’uomo. Lao-Tse, fondatore e maestro del

xv


taoismo, scriveva in Tao Te Ching. Il libro della Via e della Vita, «Le vie che si possono percorrere non sono le vere vie; e la via che si può nominare non è la vera via». L’antico saggio cinese pre-cristiano scriveva una parola profondamente cristiana. Le nostre vie non sono le vere vie. La vera via è quella che da Dio scende all’uomo. L’uomo deve solo prepararla perché Dio vi passi. L’opera morale di giustizia interiore è l’unica collaborazione che l’uomo può prestare a Dio, l’unico modo con cui l’uomo può collaborare per la conoscenza di Dio. Ma fino a che punto il Dio-uomo in Gesù ha «preso sul serio» la vita dell’uomo? Quando si dice che Dio ha assunto la natura umana siamo sempre un po’ nell’astrazione. La natura umana è una cosa e l’esistenza umana è un’altra cosa, anche se è certo che l’esistenza non esiste senza natura. Ma la natura è l’aspetto universale dell’essere umano, il fatto comune a tutti. L’esistenza, invece, è l’aspetto singolare e individuale. Noi abbiamo tutti una natura umana identica: ma come diversamente essa si concretizza in ognuno di noi! Ognuno di noi rappresenta una edizione irripetibile della stessa natura umana. Ora Dio si è inserito nella nostra storia non solo assumendo la natura umana, ma abbracciando anche in tutta la sua ampiezza la forma dell’esistenza. Dio ha assunto l’esistenza umana nella sua molteplicità indefinita. Accettare la nostra esistenza, oltre che la nostra natura, significa che Dio ha accettato, il nostro pane, il nostro vino, il nostro olio, i nostri frutti, e le mille cose umili che le esistenze degli uomini hanno creato nella storia. Se l’incarnazione non fosse avvenuta, il dovere dell’uomo religioso sarebbe quello di ridurre l’esistenza il più possibile, di sottrarsi il più possibile a quella misura dell’esistenza che è il tempo. Se Dio non si fosse manifestato nel volto di Gesù e negli infiniti volti delle creature, la ricerca religiosa dell’uomo consisterebbe nell’allontanarsi dal mondo e dalle creature il più possibile. Il vero atteggiamento religioso sarebbe quello della rinuncia, dell’isolamento, dell’allontanamento dalla vita. L’eremita «esiste» il meno possibile, perché è fuori dal tempo scandito dall’orologio; le sue giornate sono misurate secondo una eguaglianza geometrica, senza contenuti

xvi


diversi. La perfezione dell’eremita consiste nel ridurre il più possibile ciò che è particolare, eventuale, possibile. Gli eremiti, chiusi nella loro solitudine, si rassomigliano l’uno all’altro, la loro vita è verticale, hanno ridotto la loro espansione nel tempo ad un punto, quello della contemplazione. L’incarnazione, invece, introducendo Dio nella nostra dimensione temporale fa sì che la nostra santificazione non presupponga nessuna evasione dal tempo, ma piuttosto l’accettazione della vita in tutte le sue manifestazioni. Il fatto che nel Vangelo ritroviamo Gesù presente e partecipe in tutte le situazioni tipiche dell’esistenza degli uomini è significativo di tutto ciò. La presenza di Dio abbraccia veramente tutto. Nel Vangelo si racconta che Gesù, ancor prima di iniziare la sua predicazione, prese parte ad un banchetto di nozze a Cana: un banchetto non certamente permeato di rigido ascetismo, ma, come tutti i banchetti, pervaso da esuberanza e da allegria. Quando parliamo dell’amore di Dio per noi, alludiamo soprattutto alla sua misericordia che ci perdona, che ci consola nel pianto, ma non riusciamo sempre a capire che la sua bontà è anche consenso alla nostra gioia e ai nostri piaceri. Così come, spesso, anche la nostra bontà ha bisogno del pianto e della povertà altrui per manifestarsi. Noi corriamo là dove c’è il bisogno, la miseria morale e materiale dove possiamo alleviare il pianto di qualcuno; corriamo meno dove c’è chi è nella gioia, e per manifestargli la nostra contentezza. Scriveva Schopenhauer, che nella compassione c’è spesso una specie di egoismo riflesso: nella sofferenza degli altri leggiamo la nostra, o già sperimentata o possibile. Ma quando un altro è nella gioia, riusciamo meno a capire del dovere della partecipazione. Già san Paolo diceva: gaudere cum gaudentibus, godere con chi gode. Ci sono tanti modi di partecipare alla gioia degli altri. La gioia è di natura sua diffusiva, ha bisogno di consensi. Anche chi è nella gioia ha bisogno degli altri, è un mendicante. La bontà di Dio che Gesù ha manifestato nella sua esistenza è anche capace di godere con chi gode. Il Dio dei Vangeli non sfrutta le occasioni della sofferenza per avanzare, ma offre la sua benedizione e il suo consenso anche ai momenti della nostra gioia. Per questo ha dato inizio alla sua presenza di maestro visibile con un miracolo, in oc-

xvii


casione di una festa di nozze a Cana: un miracolo non per guarire da una malattia, ma perché la festa di due sposi non fosse rovinata dalla mancanza di vino. 3.2. Dio nella storia. Il tempo è diventato storia con il cristianesimo, così come la vita di un uomo diventa biografia quando chi la vive le dà un senso. La Bibbia non ha esitazioni: il luogo in cui incontrare Dio è la storia, è la biografia di ogni uomo. Basta aprire la Bibbia per accorgersi che all’interno di essa non ci si trova nell’aria rarefatta di un monastero dalla contemplazione trasognata, bensì nel groviglio della vita. Vi sono guerre, intrighi politici, ingiustizie sociali e prevaricazioni del potere contro cui il profeta deve puntare l’indice, oppure ci troviamo calati come nella piazza di un paese, immersi nella realtà quotidiana, con tutte le sue miserie e con tutti i suoi splendori, col riso e con le lacrime, con le professioni e le arti, con la famiglia e l’individuo. Questo è il luogo privilegiato in cui incontrare Dio. Lo possiamo verificare in qualsiasi pagina dell’Antico e del Nuovo Testamento. Nel libro dell’Esodo il luogo in cui Dio si manifesta sono le grandi azioni, gli eventi storici, la liberazione dalla schiavitù egizia Il cristiano deve essere attento a tutto ciò che avviene nella storia. Non deve essere un uomo che chiude la porta all’ascolto degli eventi del mondo, quasi essi sporcassero la sua spiritualità. Karl Barth diceva che la Bibbia deve essere letta ogni mattina con il giornale accanto. Essa ci aiuta a capire i segni che si trovano anche all’interno della storia scandalosa dell’uomo. Per questo la Chiesa deve continuamente pronunciarsi sui grandi eventi della storia, sui grandi scandali dei nostri giorni come su quelli del passato, eventi che spesso grondano sangue. Ad esempio, il primo grande canto che troviamo nella Bibbia è quello di Mosé e di Maria, sua sorella, un uomo e una donna che celebrano una liberazione che è innanzitutto nazionale e politica. Il ritornello che Maria intona, danzando in onore del Signore, dice: «Cantate al Signore, perché mirabilmente ha trionfato; cavallo e cavaliere ha gettato in mare» (Esodo 15, 21). Dunque, il canto che si fa al Signore ha praticamente questo contenuto: noi ti abbiamo riconosciuto quando ci hai liberato, quando hai vinto la potenza dell’oppressione, la potenza del Faraone.

xviii


Il Signore abita all’interno delle nostre città, delle nostre periferie, nell’interno stesso degli scandali, dove sarà presenza di giudizio come il profeta Amos. Egli è presente all’interno dell’amore e dei tradimenti degli uomini ed è per questo che Paolo giungerà al punto di dire che il corpo dell’uomo è tempio dello Spirito e di Dio (I Corinzi 6,19). Anche la nostra piccola storia è il luogo nel quale Dio si manifesta. Dunque bisogna aprire il giornale e cercare i segni di Dio che si rivela anche nelle miserie e nelle grandezze dell’uomo, capace di azioni straordinarie e delle infamie più vergognose. È accanto come sostegno, come presenza d’amore e come presenza di giudizio. Possiamo quindi trarre la conclusione: dobbiamo essere religiosi non per essere fuori dal mondo. Ricordiamo le parole di Gesù: «Voi non siete del mondo, ma siete nel mondo». Ciò può avvenire nelle forme più diverse: anche il religioso o la religiosa contemplativa sono nel mondo, come presenza di seme, di fermento. Non entrano in convento per isolarsi, dimenticare il mondo e non volerne sentire più nulla, quasi entrassero in un’oasi protetta: ogni credente è nel mondo, come luce, lievito, fermento, sale, secondo l’immagine di Gesù. Il poeta indiano Tagore esprime molto bene la vocazione religiosa genuina. Si tratta di una poesia in cui riprende un antico testo mistico indù. È la storia di un uomo che vuole diventare un asceta, ma è sposato. Ecco cosa decide di fare. «A mezzanotte l’aspirante asceta annunciò: questo è il tempo di lasciare la mia casa e la mia famiglia e di andare alla ricerca di Dio. Ah, chi mi trattenne tanto a lungo in questa illusione! Dio sussurrò: Io! Ma l’uomo aveva le orecchie turate. Sua moglie dormiva placidamente su un lato del letto, con un bambino addormentato sul seno. L’uomo disse guardandoli: Chi siete voi che mi avete ingannato per tanto tempo? Ancora la voce sussurrò: essi sono Dio. Ma egli non intese. Il bimbo pianse nel sonno e si strinse accanto alla madre. Dio comandò: fermati, sciocco, non abbandonare la tua casa! Ma egli ancora non udì. Dio allora, tristemente sospirando, disse: perché il mio servo mi abbandona, per andare in cerca di me?».

xix


3.3. Dio nella Bibbia. Le epifanie di Dio, cioè le sue manifestazioni, avvengono anche nella Bibbia: la Parola di Dio. La fiducia nella Parola di Dio sta in questo che essa ha una forza quasi sacramentale. «Sacramentale» indica infatti qualcosa che è operativo, che agisce, che dà efficacia al segno stesso compiuto. La Parola di Dio è il senso, la potenza della storia umana. Questa Parola risuona sempre nel cuore del credente. Prendiamo, ad esempio, il Salmo più lungo, il 119, e leggiamolo. La Liturgia Ambrosiana pre-conciliare ne prescriveva la lettura giornaliera. Pascal lo leggeva quale preghiera mattutina. Si tratta di più di 1.000 parole ebraiche che possiedono la caratteristica della musica orientale che sembra ripetizione monotona dello stesso nucleo, ma che in realtà è piuttosto come una spirale sonora che sale verso l’altro e, pur avendo sempre lo stesso spazio orizzontale, sale verticalmente verso l’infinito. In questo modo coinvolge l’ascoltatore, lo trascina, lo obnubila mettendolo in uno stato di adesione remota. È il principio su cui si basa la ripetizione, la quale, pur non costituendo l’elemento normale della nostra esperienza spirituale, ne è tuttavia un elemento importante. È il principio su cui si basa anche il rosario: non si riesce, certo, a mantenere l’attenzione ad ogni parola, ma si è comunque catturati spiritualmente da quei suoni, che hanno echi eterni, infiniti. Perciò, leggendo il Salmo 119, capiremo cosa significa l’esortazione a far diventare la parola di Dio «carne della nostra carne», «osso delle nostre ossa», «nostro sangue», «nostro alimento», «nostro pensiero». Questo Salmo in ebraico è costruito su 22 ottonari, tanti quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico. In ogni versetto degli ottonari deve comparire almeno una volta una delle otto definizioni della Legge: legge, parola, comandamenti, precetti, ecc. È dunque un rosario cantato alla Parola di Dio. Capiremo così – come afferma il versetto 105 dello stesso Salmo – che la Parola è veramente una lampada ai nostri passi nell’oscurità della vita, nel deserto, in mezzo all’assalto delle tentazioni e delle persecuzioni. L’altro luogo della manifestazione di Dio nella Bibbia è il tempio. Ricordiamo le pagine che la Bibbia dedica al tempio di Gerusalemme, il cuore dell’ebraismo. Tutto lo spazio

xx


ha un significato; ma c’è uno spazio che è più sacro degli altri, il tempio, ove si incontra Dio. Nel libro dell’Esodo c’è una definizione della tenda dell’Alleanza che è forse il riassunto migliore del significato di tutti i templi che incontreremo nella storia: dal grande duomo di una città alle piccole capanne adibite a Chiesa nelle missioni. Tale definizione è «tenda del convegno». Il tempio è, dunque, il luogo in cui ci si incontra con Dio, ove si consuma un appuntamento. Questo tema è ben espresso da Salomone nella sua preghiera per la dedicazione del tempio di Gerusalemme. Egli vuole risolvere un enigma che affiora dentro di noi: come può Dio essere «imprigionato» all’interno dello spazio sacro? Egli è infinito! Il tempio può nascondere in sé un grosso pericolo. Può essere, infatti, considerato come un luogo magico, dove noi incontriamo Dio semplicemente perché Lui è là, «catturato» in quell’area sacra. Quanti vivono l’ingresso in Chiesa come un atto magico! Dio gradirà anche questo gesto, ma non è un atto religioso autentico né profondo. Infatti esso vuole condizionare Dio, affinché risponda. Geremia dirà che, se non c’è giustizia e verità, il tempio può diventare una «splelonca di ladri». Gesù, citando Geremia, dirà la stessa frase. Non basta recarsi in un santuario per compiere gesti sacri, come un mago, o uno sciamano, oppure per cercare un amuleto, un idolo. Il tempio è luogo dell’incontro autentico, personale e libero. Dio è là presente, in quanto entra in dialogo con l’uomo. Stabilisce una combinazione reciproca e interpersonale. Si tratta dell’incontro di due libertà: la libertà di Dio, che decide di scendere e di adattarsi allo spazio umano, e la libertà dell’uomo, che va incontro a Dio con tutto se stesso, con tutti i suoi bisogni, le sue speranze, le sue tragedie. Il tempio è il luogo in cui Dio si adatta all’uomo per incontrarlo e nel quale quasi «comprime» se stesso per poter venire vicino all’uomo e piegarsi verso di lui. Egli rimane, però, l’Altro per eccellenza, il Trascendente, colui che neppure «i cieli e i cieli dei cieli non possono contenere». La liturgia altro non è se non la celebrazione dell’incontro. È la celebrazione di un dialogo: il dialogo che si sviluppa fra Dio e l’uomo all’interno dello spazio sacro del tempio. Il tempio diventa allora, come canta il profeta Sofonia (3,14-15), una specie di

xxi


grembo: «Il Signore è in mezzo a te, Sion». È per questo che nel Salterio abbiamo salmi pieni di gioia come quando si arriva a Gerusalemme. Oppure salmi pieni della nostalgia del pellegrino che se ne deve andare e confessa: «Come sono fortunate le rondini che fanno il nido sotto i tetti del tempio! Come sono fortunati i sacerdoti che possono restare lì, perché sono sempre in compagnia di te, o Signore, in comunione con te. Io conserverò sempre la nostalgia e il desiderio del ritorno» (Salmo 84).

3.4. Dio nella natura. Dio si manifesta anche nella natura, nelle cose. Anticamente si parlava della natura come del Secondo Libro, che si aggiunge al Primo che è la Bibbia. Nella tradizione cristiana, il Primo Libro, cioè la Bibbia, aveva la funzione di essere letto, udito ed interpretato da chi sapeva leggere. Mentre il Secondo, il Libro dell’Universo e della perfezione di tutte le cose, era aperto anche a chi non sapeva leggere. La natura che ci circonda è anch’essa il volto del progetto divino della creazione. È un volto che è esistito centinaia di milioni di anni prima che comparissero gli animali e gli uomini. La natura e il paesaggio esistevano, ma per diventare un volto ebbero bisogno della presenza umana che li riconoscesse. Potremmo immaginare che gli oceani si facessero silenziosi e i venti si placassero la prima volta che un volto umano, l’elemento più stupefacente della creazione, apparisse sulla terra. Nel volto l’anonimità dell’universo si fa persona; il sogno dei venti e dei mari, il silenzio degli astri e delle montagne hanno raggiunto nel volto una presenza materna. Nel volto giunge a espressione il nascosto e il segreto calore della creazione. In tempi passati c’è stata, talora, la tentazione dell’ascetismo radicale che ha portato molti non già al distacco dalle cose, ma alla rinuncia ossessiva della natura e al fanatismo. Ma la Bibbia è profondamente innamorata delle cose e della natura. Se Dio non vuol essere presente in uno spazio sacro come primo luogo è però presente nella natura come creatore. Nella Bibbia ci sono pagine molto belle al riguardo. Ricordiamo la frase di san Paolo ad Atene in cui, citando un poeta greco, dice: «In lui noi ci muoviamo ed esistiamo». Noi ci muoviamo in Dio, proprio perché ci muoviamo in questo

xxii


grande palcoscenico che è l’universo, sua creatura. Possiamo ben stupirci davanti alla natura ed essere capaci di sostare davanti alle cose. Lo scrittore inglese Chesterton, l’autore dei Racconti di Padre Brown, afferma che: «Il mondo potrebbe perire non per mancanza di meraviglie, ma per mancanza di meraviglia». Le meraviglie si rinnovano a ogni alba e a ogni tramonto. Ma l’uomo della modernità avanzata non sempre è capace di stupirsi, di vedere le stagioni, il fluire continuo della natura e in esse l’azione del Creatore come linfa stessa della natura. Il Salmo 19 è detto il «Salmo dei due soli», il sole della natura, che si accende nel cielo, e il sole della Torah, cioè della Parola di Dio, che si accende nell’uomo. Entrambi sono rivelazioni di Dio. L’inizio stupendo del Salmo inneggia a quella musica che c’è nell’universo, a quella rivelazione muta che dobbiamo cogliere nella natura: I cieli narrano la gloria di Dio e l’opera delle sue mani 
 annunzia il firmamento. I l g i o r n o a l g i o r n o n e a f fi d a i l m e s s a g g i o , 
 la notte alla notte ne dà notizia. Non è un linguaggio intessuto di parole, eppure per tutta la terra, sino ai confini del mondo, si diffonde la parola divina che gli elementi cosmici rivelano. È quella che il cardinale Daniélou chiamava la «Rivelazione cosmica»: tutti gli uomini possono incontrare Dio, conoscerlo, vederlo, sentirlo, passeggiando fra le strade del mondo. Nella Bibbia spesso si invita anche la natura a lodare Dio. Nel Libro di Daniele, il Cantico dei tre fanciulli nella fornace ardente è un lungo invito a tutte le creature possibili perché lodino il Signore: le acque e i cieli, gli animali dell’aria e della terra, il giorno e la notte, la luce e le tenebre, il gelo e il fuoco, potenze dell’alto e potenze del profondo della terra e ogni altra cosa. Nel Salmo 148 vi sono 22 creature, tante quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico, a significare che tutta la natura è come un alfabeto colorato che può celebrare il Creatore. L’uomo convoca le creature, le mette nell’abside cosmica, e fa intonare loro un canto. Il Salmo 150, l’ultimo della collezione dei salmi, presenta otto strumenti, cioè

xxiii


l’orchestra del Tempio, e in finale si dice che «ogni spirito lodi il Signore». In realtà potremmo meglio tradurre: «Tutto ciò che respira lodi il Signore». È un respiro cosmico di lode, che coinvolge tutta la creazione vivente.

xxiv


Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.