Prendersi cura

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Introduzione

Lorena Preta (a cura di)

Prendersi cura

Collana Cultura Migrazione Psiche diretta da Emanuele Caroppo e Alfredo Lombardozzi

Alpes Italia srl - Via G. Romagnosi, 3 - 00196 Roma tel./fax 06-39738315 – e-mail: info@alpesitalia.it – www.alpesitalia.it

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© Copyright Alpes Italia srl - Via G. Romagnosi, 3 – 00196 Roma, tel./fax 06-39738315

I edizione, 2020 Lorena Preta, Membro Ordinario della SPI. Full Member IPA. Responsabile del Gruppo di Ricerca Internazionale Geografie della Psicoanalisi (www.ipa.world Geographies of Psychoanalysis). Direttore della rivista Psiche (Rivista di cultura della Società psicoanalitica italiana, editore Il Saggiatore) dal 2001 al 2009. Ha ideato e curato per molti anni Spoletoscienza (Incontri di scienza e cultura all’interno del Festival dei due Mondi di Spoleto). Ha ideato e curato (insieme a Pino Donghi) la collana Lezioni italiane presso la casa editrice Laterza. Ha curato sempre per i tipi Laterza molte pubblicazioni, alcune edite anche all’estero, tra le quali: La narrazione delle origini (1991); Che cos’è la conoscenza (con Mauro Ceruti, 1991); Immagini e metafore della scienza (1993); La passione del conoscere (1993); Il caso e la libertà (con M. Ceruti, P. Fabbri, G. Giorello, 1994); In principio era la cura (con Pino Donghi,1995); Nuove geometrie della mente (1999). Dirige la collana Geografie della psicoanalisi per Mimesis e Geographies of Psychoanalysis per Mimesis International. Tra le pubblicazioni più recenti: La brutalità delle cose. Trasformazioni psichiche della realtà (Mimesis 2015), Cartografie dell'inconscio. Un nuovo Atlante per la psiconalisi (2016), Dislocazioni. Nuove forme del disagio psichico e sociale (Mimesis 2019). Autrice di molti saggi pubblicati in libri e riviste.

In copertina: Banksy, 2019, Dorsoduro - Venezia, Photo Courtesy Lapo Simeoni

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Nota

Questo libro è il frutto di un ciclo di seminari organizzati tra il dicembre 2018 e il novembre 2019 dalla Società Psicoanalitica Italiana e dalla Enciclopedia Italiana presso la sede della Treccani. La Presidente della SPI Anna Maria Nicolò e Lorena Preta hanno proposto il progetto e l'hanno realizzato con la collaborazione della Responsabile della Cultura della Treccani Maria Sanguigni e il consulente della Treccani Saverio Maria Ricci. Le relazioni degli autori invitati e le discussioni sempre interessanti e accese, anche con interventi del pubblico, che hanno caratterizzato gli incontri, ci hanno portati a considerare l'opportunità di non perdere le varie suggestioni emerse dal dibattito e a raccogliere le varie relazioni in un libro. Ringraziamo pertanto tutti gli autori per aver partecipato al progetto editoriale. Un grazie particolare va al regista Bahman Kiarostami che, non solo ha proiettato per la prima volta il suo film Exodus per il seminario di Prendersi cura, ma ha anche fornito le immagini che trovate in questo volume tratte da un suo libro fotografico. Un grazie sentito anche all’editore Roberto Ciarlantini di AlpesItalia per aver accolto con entusiasmo l'iniziativa.



Indice Prefazione di Anna Maria Nicolò............................................... XI Introduzione di Lorena Preta.................................................... XVII

1 Dalla negazione alla condivisione Negazione e condivisione di Roberto Esposito......................................................................

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Oltre il negativo di Andrea Baldassarro.................................................................

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2 Un’umanità in cambiamento La cura nella contemporaneità di Alfredo Lombardozzi..............................................................

29

Prossimità, relazioni di cura e nuove tecnologie. Una metamorfosi antropologica di Fabio Dei...............................................................................

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Un’umanità in cambiamento: evoluzione della cura di Anna Ferruta.........................................................................

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3 Migrazioni tra rifiuto e accoglienza Se te ne vai di Gohar Homayounpour............................................................

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Introduzione al film Exodus di Bahman Kiarostami ..............................................................

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IdentitĂ plurali di Gerarta Zheji Ballo.................................................................

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4 La bellezza: comprensione e cura del mondo Il processo della cura psicoanalitica come percorso di ritrovamento estetico. Considerazioni sulla bellezza di Matilde Vigneri......................................................................

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Comprendere la bellezza di Benedetta Guerrini Degl’Innocenti .........................................

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La bellezza e il contagio di Ginevra Bompiani..................................................................

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Indice

5 Nuove sfide per l’etica Etica dello psicoanalista. Interconnessioni tra spazio analitico e luoghi della collettività di Ronny Jaffé.............................................................................

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Dalla “società del rischio” alla “società della cura” di Luisella Battaglia ...................................................................

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Biografie Autori...................................................................... 165

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Collana Cultura Migrazione Psiche

In un mondo che sta vivendo grandi cambiamenti le dimensioni personali si articolano in modo diretto a complessi processi di trasformazione sia sul piano socioculturale che nella dimensione individuale. La collana raccoglie contributi che si collocano in uno spazio di riflessione interdisciplinare, in particolare intende proporre analisi approfondite che favoriscano il dialogo e il confronto, in senso più generale, tra scienze umane e scienze psicologiche e, in modo più specifico, tra la dimensione psicoanalitica e quella antropologica. La psicoanalisi, a partire dai lavori di Freud sulla società e le sue formazioni, si è sempre più aperta, nel corso dello sviluppo delle sue teorie e della sua clinica, agli aspetti antropologici e al funzionamento psichico delle dinamiche dei gruppi sociali a vari livelli di complessità. L’antropologia, a sua volta, nell’analisi delle diverse culture si è più volte cimentata con le correlazioni psichiche dei comportamenti umani. Il confronto-dialogo tra psicoanalisi e antropologia si è realizzato attraverso la condivisione di un terreno comune di analisi che andava affrontato con metodi e modelli di conoscenza specifici, a volte convergenti altre divergenti. Lo spirito della collana è quello di offrire uno spazio a quei contributi, che sollevano riflessioni e spunti critici nel campo articolato e molteplice, che attiene ai disagi della modernità e della contemporaneità, a partire dalle conflittualità legate ai processi identitari nel mondo globalizzato e dalle problematiche che questi stessi processi comportano sia negli individui, che nei gruppi sociali e nelle culture che li rappresentano. Trovano spazio nel progetto della collana i temi classici dell’etnopsichiatria, dell’etno-psicoanalisi, gli studi sulla correlazione tra aspetti socio-antropologici e dinamiche psichiche, di conseguenza gli approfondimenti, alla luce delle problematiche odierne (fenomeni migratori, conflitti interetnici e religiosi, emergenza del terrorismo, crisi identitarie connesse alla trasformazione dei modelli genitoriali e di parentela, tematiche legate all’ecologia ed i cambiamenti climatici) della relazione tra Cultura, Inconscio e componenti Bio-psicologiche della mente, considerata

nei suoi aspetti più ‘estesi’ e complessi.


Board scientifico Alfredo Ancora Roberto Beneduce Pietro Bria Domenico Chianese Michela Craveri Fabio Dei Virginia De Micco Maria Luisa Di Pietro Luigi Janiri Sudhir Kakar Giovanni Martinotti Barbara Massimilla Marie Rose Moro Giovanni Pizza Pino Schirripa



Prefazione Curare o prendersi cura? di Anna Maria Nicolò

Quando con Lorena Preta abbiamo pensato di organizzare una serie di conferenze presso l’Istituto della Enciclopedia ItalianaTreccani mi è sembrata una buona occasione perché ancora una volta la psicoanalisi potesse dialogare col mondo della cultura, con la filosofia, con la politica, con l’arte e ulteriormente crescere in rapporto con tutte queste discipline. Il tema scelto “prendersi cura” è un tema importante perché racchiude molte caratteristiche dell’identità dello psicoanalista e anche del medico. Prendersi cura ha un’accezione differente dal curare. Il curare presuppone intervenire su una malattia, mentre prendersi cura è caratteristico del rapporto che ha la madre con il bambino, presuppone la capacità di seguire l’evoluzione, la crescita di una persona, in tutte le età della vita. Mentre oggi spesso il medico che cura somministra rimedi per guarire dalla malattia, Ippocrate, il grande medico del mondo greco, pensava che strumenti terapeutici non sono solo i farmaci ma “il tocco, il rimedio e la parola”. Strumenti che oggi potremmo riferire all’analista o in genere a coloro che non si occupano solo del soma ma anche della psiche e ancor di più di un’unità psicosomatica imprescindibile. Dobbiamo perciò ridare importanza al “prendersi cura”, che introduce una visione più ampia che guarda alla singolarità e alla specificità di quella persona e alla sua storia. La stessa medicina biologica con le nuove scoperte immunologiche si sta indirizzando in questo senso. Tuttavia, penso fortemente che i due poli, prendersi cura e curare, debbano essere ambedue presenti e si debbano equilibrare tra di loro. Ognuno dei due presenta infatti dei pericoli: da una parte il curare può nell’accezione negativa guardare solo alla malattia e non alla persona, XI


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guardare all’organo e non alla globalità dell’essere, e nelle sue alterazioni può diventare il furore con cui curiamo l’altro per evitare di vedere la malattia in noi. Dall’altra parte, “prendersi cura” può diventare un espediente stilistico, un passepartout pedagogico, che copre l’ignoranza, l’incapacità di dare risposte specifiche, offrendo un contenimento fatto di buonismo, l’attesa sine die che il paziente maturi per suo conto perché l’analista è capace di stare in silenzio. Era questa una tecnica molto criticata da Zapparoli che la chiamava “la tecnica del lampiun” (la tecnica del lampione che consiste nello stare sotto al lampione ad aspettare, senza fare o dire nulla, convinti della magia dell’analisi) (Borgogno, 2020). Credo che lo psicoanalista debba articolare questi due poli e cioè non abbandonare la necessità di curare, di alleviare la sofferenza, di rimuovere i blocchi e i conflitti che impediscono la vita e lo sviluppo, ma dall’altra parte debba anche prendersi cura in modo più globale della persona. In una conferenza tenuta per medici e infermieri presso la Chiesa di S. Luca di Hatfield il 18 ottobre 1970, Winnicott tratta questo tema riaffermando alcuni dei principi che hanno orientato il suo metodo di lavoro. Il curare, che egli vede in stretto rapporto con il prendersi cura, è per lui un’estensione del concetto di “holding”. E Winnicott continua: «Tutto inizia con il bambino nel grembo, poi con il bambino nelle braccia, e l’arricchimento della persona deriva dal processo di crescita nel bambino che è reso possibile dalla madre grazie alla sua conoscenza di quel particolare bambino cui ha dato la vita. Il tema dell’ambiente favorevole alla crescita personale e al processo maturativo deve essere la descrizione delle cure prodigate dal padre e dalla madre e della funzione della famiglia; ciò conduce alla edificazione della democrazia intesa come estensione politica delle favorevoli condizioni familiari, con individui maturi che possono prendere parte, secondo la loro età e capacità politica, sia al mantenimento sia alla ricostruzione della struttura politica. Accanto a ciò vi è il senso della identità personale, che è un elemento essenziale per ogni essere umano, e che può solo realizzarsi per ciascuno in conseguenza di cure materne “sufficientemente buone” e del contributo ambientale […] In termini di malattia sociale, il curare/prendersi cura può essere ancora XII


Prefazione

più importante della cura come farmaco e di tutte le diagnosi e prevenzioni che fan parte di ciò che viene chiamato approccio scientifico…Con un comportamento professionale adeguato il paziente può trovare una soluzione personale a problemi complessi della propria vita emozionale e dei propri rapporti interpersonali, e quello che abbiamo fatto si configura come una facilitazione della crescita, non come l’applicazione di un rimedio. È troppo chiedere al clinico di curare/prendersi cura?» (Winnicott, 1970, pp. 121-122). Buona domanda questa, che io riproporrei a molti e non solo ai professionisti del mio campo, convinta che viviamo in un mondo che sarà presto distrutto dall’indifferenza di chi non si fa carico del “prendersi cura”: del bambino, dell’adulto, dell’anziano fino a farlo con l’ambiente, con la terra, con lo stato, edificando la democrazia, come governo politico e governo della mente. Si discute sempre di più ultimamente se lo psicoanalista ha un dovere verso il sociale, se il sociale eccede le sue possibilità non solo di intervento, ma perfino di comprensione. Essendo le nostre teorie e la nostra stessa formazione basata su capisaldi che sostengono la forza dell’identità, la definizione del Sé e la definizione della natura del conflitto, ci riesce molto difficile collocarci e agire in un mondo che ci suscita perplessità, confusione, incertezza. Più facile affermare che i nostri confini sono la stanza di analisi e l’incontro con l’altro, come se vivessimo in un eremo e l’altro con cui siamo in rapporto non ci presentificasse la complessità del mondo che ci circonda con la sua incertezza, accelerazione, moltiplicazione e fluidità delle identità. In realtà fin dalle origini della nostra storia, si era posto il problema del rapporto della psicoanalisi con il sociale e molti psicoanalisti si prendevano cura di molteplici bisogni sociali, come ad esempio Anna Freud con i bambini orfani di guerra o Winnicott con la produzione di una legge denominata “Children Act”. Il lavoro con certi pazienti sfida il nostro bisogno di sicurezza, i canoni su cui abbiamo costruito il nostro sapere, uno di essi è il dubbio come metodo per processare la realtà. Recentemente Janine Puget in un bellissimo articolo “Come pensare la soggettività sociale oggi?” (2015) XIII


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affermava la necessità di includere nella comprensione della realtà, “nella metapsicologia dei legami il principio di incertezza che contiene l’idea che la vita nei legami ha come condizione necessaria l’imprevedibilità”. Ad esempio, la valutazione del paziente può evolversi in un modo imprevedibile, non solo può diventare più chiara con il procedere del tempo e dell’aiuto che gli forniamo, ma si può anche modificare. Possiamo a volte assistere a situazioni sorprendenti, soprattutto in età evolutiva, quando vediamo l’emergere di un sintomo in particolari fasi del ciclo di vita, come l’enuresi in un bambino o la difficoltà nell’addormentamento o momentanee fobie che sono l’alternativa alle parole con cui si esprime il disagio di quella persona nell’affrontare un evento del ciclo di vita, come un lutto o la nascita di un fratellino. Per citare sempre Winnicott, “può essere più normale per un bambino ammalarsi piuttosto che rimanere in buona salute”. In età evolutiva possiamo osservare l’emergenza di tanti sintomi che possono essere uno stimolo per riprendere il cammino verso la crescita, grazie al fatto ad esempio che un sintomo può stimolare una crisi e/o modificare il contesto ambientale dove il bambino vive. Prendersi cura può cioè significare guardare una persona nel corso del tempo, mettere in relazione il suo comportamento in rapporto con l’ambiente e con lo sviluppo della sua persona. E per fare un passo in più su questo tema, voglio ricordare che fu sempre Winnicott ad introdurre il concetto di malattia normale. “Malattia normale” è un paradosso, un ossimoro, ma in realtà questa espressione ci restituisce il diritto e l’utilità di una sofferenza e spinge colui che fa una diagnosi a valutare la labilità di essa se presa come espressione nosografica di un disagio. Restituisce anche alla malattia la sua natura evolutiva, il suo significato relazionale, perché è relativo a un tempo, a una fase della vita. E perciò, per ritornare al binomio “curare/prendersi cura”, per navigare abbiamo bisogno di una bussola che è la nostra sapienza per diagnosticare e curare ma dobbiamo anche dimenticare la bussola, perché per prendersi cura abbiamo bisogno di guardare al paziente come persona e all’incontro tra le nostre soggettività. XIV


Prefazione

Bibliografia Borgogno F. (2020), Una vita cura una vita. Inizi, maturità, esiti di una vocazione. Bollati Boringhieri, Torino. Puget J. (2015), “Come pensare la soggettività sociale oggi?”, Interazioni, 2-2015/42, pp. 59-71. Winnicott D.W. (1970), La cura, in: Dal luogo delle origini. Raffaello Cortina, Milano, 1990.

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Introduzione di Lorena Preta

La mia ferita esisteva prima di me. Io sono nato per incarnarla Joë Bousquet1

La ferita originaria Quando si sono svolti i seminari che sono raccolti in questo libro (dicembre 2018-novembre 2019) non era ancora scoppiata l’epidemia di Covid-19 che ci ha travolti, eppure trattando i vari argomenti, la psicologia individuale e collettiva, l’ambiente, la cultura, la questione etica, si percepiva chiaramente che ci si trovava di fronte per ciascuno di questi ambiti, a un danneggiamento, una ferita da sanare prima che fosse troppo tardi. Un allarme quindi, qualcosa di molto grave che poteva succedere e che andava evitato facendosene carico, prendendosene cura. Più che mai c’è da chiedersi cosa significhi prendersi cura di qualcosa o qualcuno ora che da mesi siamo afflitti da un’epidemia planetaria, in una situazione che ha assunto aspetti inediti finora e che possono avere come conseguenza addirittura un cambiamento profondo della condizione umana. Ci siamo trovati a veder confliggere la cura dei corpi con quella della mente, ma anche abbiamo allargato la percezione del nostro corpo-mente come qualcosa che non ci riguarda più solo individualmente ma va estesa al gruppo sociale. Di qui anche l’apparente conflitto tra libertà individuali ed esigenze collettive. È come se questa situazione pur nei sui aspetti “fantascientifici” avesse portato alla luce problemi che riguardano, non solo il presente e sempre 1 Joë Bousquet, Lenimento dell’anima.

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di più il futuro, ma anche una tematica originaria che affonda le radici in una realtà umana pregressa e fondativa che emerge ora in maniera dolorosa. Nel racconto complesso e per certi versi difficilmente comprensibile Un medico di campagna (1916-17) di Franz Kafka, è narrata la storia di un medico chiamato al capezzale di un giovane malato. Arrivato a destinazione dopo varie peripezie dai sorprendenti risvolti magici, il medico si trova nella penosa situazione in cui i famigliari del malato fanno pressione su di lui in maniere inusuali che sembrano mettere in forse la sua stessa missione terapeutica. A un certo punto sembra si arrivi ad un momento di significazione degli eventi quando il medico si accorge che il ragazzo che per il resto sembra essere in salute, presenta nel suo fianco destro all’altezza dell’anca una ferita purulenta grande come il palmo di una mano. «Mi salverai?» sussurra il giovane in un singhiozzo, abbagliato dalla vita che palpita nella sua piaga. Così è la gente dalle mie parti: sempre chiedono al medico l’impossibile. [...] Sono svestito, e tranquillo, le dita immerse nella barba, li osservo col capo reclino. Mi sento perfettamente a mio agio e superiore a tutti, e tale rimango anche se non mi giova a nulla, perché ora mi pigliano per la testa e per i piedi e mi portano sul letto. Mi mettono contro il muro, dalla parte della ferita, poi tutti escono [...] «Sai» mi sento bisbigliare all’orecchio, «ho ben poca fiducia in te. Ti hanno buttato qui chissà da dove, non sei venuto di tua libera scelta. Invece di soccorrermi, mi togli spazio nel mio letto di morte. Avrei voglia di cavarti gli occhi». «Hai ragione» dico, «è una vergogna. Ma io sono un medico: che altro potrei fare? Credimi, anche per me la vita non è facile». «E pensi che queste scuse mi bastino? Eppure devo per forza accontentarmene. Sempre devo accontentarmi. Sono venuto al mondo con una bella ferita, e questo era tutto il mio corredo». «Mio giovane amico» gli rispondo, «il tuo sbaglio è di non guardare alle cose nel loro insieme. Io, che di camere di malati ne ho vedute a bizzeffe, posso assicurarti che la tua ferita non è tanto brutta. Due colpi di accetta ad angolo acuto. Molti sono

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Introduzione quelli che offrono il fianco e non fanno caso al rumore dell’accetta nel bosco; tanto meno poi s’accorgono che si sta avvicinando». «È proprio così, o vuoi darmela a intendere perché ho la febbre?» «È proprio così, e portati pure lassù la parola d’onore di un medico condotto». Ed egli la accolse e non parlò più.

Veniamo al mondo con un corredo difficile da sopportare, la ferita della separazione dal protettivo grembo materno, la ferita della percezione della nostra fragilità psichica e fisica, la ferita della coscienza della morte. Non sempre questi segni della nostra vulnerabilità sono organizzabili mentalmente, non sempre cioè possono essere inseriti in una costellazione di significati che ne assicuri la pensabilità. Nei diversi momenti storici e culturali sono stati affrontati con differenti strumenti conoscitivi e varie pratiche individuali e sociali. Sono state individuate figure specifiche e branche del sapere idonee per poter “curare” le fragilità del corpo, della mente e del tessuto sociale. Anche se nel tempo la richiesta di cura è cambiata e gli strumenti hanno subìto evoluzioni imprevedibili, pure nel fondo l’esigenza che la caratterizza rimane segnata, in un modo o nell’altro, dallo stesso desiderio di sanare quella ferita originaria che è costitutiva della nostra stessa caratteristica di “esseri umani”. Caratteristica che accomuna sia chi ha bisogno di cura sia chi la fornisce tanto che Hans Georg Gadamer auspicava una cura che invece che essere devoluta solo alla tecnica potesse contemplare una figura di terapeuta rispettoso della soggettività umana e partecipe della sofferenza del paziente, un guaritore ferito2, unica garanzia di una comprensione profonda ed empatica. Nel suo recente libro Diagnosi e destino3, Vittorio Lingiardi ci ricorda il mito di origine di questa figura. Una chimera, il centauro Chirone, insegna ad Asclepio la medicina ma viene ferito per sbaglio e la ferita procuratagli resterebbe inguaribile per sempre se, affranto dalla sofferenza 2 Hans G. Gadamer, Dove si nasconde la salute, Raffaello Cortina, Milano, 1994. 3 Vittorio Lingiardi, Diagnosi e destino, Giulio Einaudi, Torino, 2018, pagg. 32-35.

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fisica, Chirone che è figlio di dei e quindi immortale, non rinunciasse al privilegio della sua immortalità donando la sua vita per salvare Prometeo “[...] Il mito ci insegna che ogni medico, ogni terapeuta, è un guaritore ferito [...] La medicina è intrinsecamente ambivalente. Salva la vita, procura la morte, come il farmaco (φάρμακον), il cui effetto terapeutico è inseparabile da quello tossico. Analogamente, quando una persona si ammala, è importante che venga alla luce il paziente-medico, cioè il suo fattore di guarigione, la cura di sé [...] Per poter curare, un medico non deve separarsi troppo dal suo aspetto di paziente. Per curarsi e farsi curare, un paziente non deve separarsi troppo dal suo aspetto di medico”.

Una funzione trasformativa Tutte le attività che si svolgono intorno alla cura favoriscono il processo di ‘costruzione’ dell’identità umana che non è data per scontata ma si costituisce fin dalla nascita in un rapporto reciproco di scambio con l’esterno. Un soggetto in co-evoluzione con l’ambiente naturale e sociale cui appartiene. È la cura a rappresentare il principio che sottende ogni rapporto di scambio tra queste realtà, si cresce nella cura e tramite la cura, fin dall’inizio. Per ogni principio c’è un mito di fondazione, diceva Paolo Fabbri4, e illustrava il concetto con un testo latino citato tra gli altri da Goethe e da Heidegger5: “La cura stava attraversando un fiume quando scorse del fango cretoso. Pensierosa, ne raccolse un pò e cominciò a dargli forma. Mentre stava riflettendo su cosa avesse fatto, interviene Giove. A questo punto, la cura prega Giove di infondere lo spirito a ciò che essa ha fatto senza 4 P. Fabbri, “Abbozzi per una finzione della cura”, in In principio era la cura, a cura di P. Donghi e L. Preta, Laterza, Bari, 1995, p. 27. 5 Cfr. M. Heidegger, Essere e tempo (1927), Longanesi, Milano, 1976, p. 247. Traduzione rielaborata dal latino da P. Fabbri.

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Introduzione però sapere che cosa sia. Giove acconsente volentieri, però poi la cura pretende di imporre il nome a ciò che ha fatto e Giove non è d’accordo. Mentre Giove e la cura litigano, interviene la Terra che reclama il battesimo di ciò che è stato fatto in quanto parte del suo corpo, il corpo della Terra. I disputanti eleggono Saturno, il Tempo, come giudice. La decisione di Saturno, incontestabile, è la seguente: “Tu, Giove hai dato lo spirito, e al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, hai dato il corpo e riceverai il corpo; ma poiché per prima fu la cura che diede forma a quest’essere, finché esso vive, lo possieda la cura. Per tutta la vita, l’uomo è l’essere della cura e, visto che proviene dalla Terra, dall’humus, il suo nome è homo”.

Possiamo assumere la cura come consustanziale al nostro costituirci come esseri umani. Esseri che si declinano nel tempo e che nello svolgimento della loro vita, da esseri quadrupedi a bipedi a tripedi come illustra l’Enigma della Sfinge, attraversano tutte le tappe della loro fragilità ma anche della loro pienezza. Dopo l’inadeguatezza infantile che li vede camminare a quattro zampe, possono reggersi finalmente sulle proprie gambe prima che di nuovo la vecchiaia li costringa ad affidarsi ad un terzo piede, bastone reale o metaforico di un aiuto necessario. Possiamo pensare che la cura in tutte le fasi della vita “possieda” l’uomo, come indica il mito, in un modo che ne determina il percorso e che dà forma a tutte le sue relazioni in senso “riparativo” ma sicuramente non si esaurisce nella funzione terapeutica destinata a risolverne la debolezza e la vulnerabilità. Appare in questo senso più chiaro che il concetto di cura non presuppone per forza quello di malattia. Infatti, la cura ha allo stesso tempo una funzione trasformativa atta ad incanalare le spinte creative che rendono l’uomo capace di costruire il proprio mondo, le sue architetture culturali e sociali. Per questo sarebbe opportuno parlare più che della cura in sé di quel prendersi cura che descrive l’attività che la sorregge, una tensione verso un oggetto bisognoso di un nostro aiuto ma anche verso qualcosa che necessita di un impulso creativo per essere sviluppato. XXI


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Eppure, questo processo che siamo abituati a pensare come naturale, necessita per potersi svolgere di tante componenti che lo sostengano. Sembra scontato ma è necessario per prima cosa individuare i soggetti che vanno curati, i modi in cui farlo, la direzione verso cui la cura si deve muovere. Parliamo di cure fisiche, psicologiche, ambientali. Parliamo di soggetti deboli che vanno aiutati ma anche di situazioni che vanno conservate, e parliamo anche di situazioni germinali che vanno favorite, incrementate. Possiamo pure non essere in grado di accorgerci di chi o che cosa richieda una cura. Possiamo manipolare la realtà per negare di trovarci di fronte a un bisogno, minimizzandolo o distorcendolo, o arrivando a non percepirlo affatto. Possiamo non avere gli strumenti adatti per fornire la cura. È fondamentale inoltre la capacità-possibilità dell’oggetto della cura, nel caso sia una persona, di affidarsi all’azione curativa che gli viene proposta. Si vede chiaramente nel trattamento psicoanalitico come sia all’opera una co-costruzione dell’assetto terapeutico che non può mai prescindere dalla collaborazione seppure spesso ostacolata o negata, anche se questo può far parte del processo, tra chi è portatore di una sofferenza e chi è chiamato a curarla. Non si tratta quindi solo di farsi carico responsabilmente di eventi di crisi all’interno di un individuo o di un gruppo sociale o di un ambiente naturale, avendo come obiettivo il risultato, ma anche di favorire l’evoluzione della situazione e delle trasformazioni che genera, della “crescita” che può contenere senza mai prescindere dalla plurivocità del contesto. In un’epoca di grandi cambiamenti culturali e sociali come quella attuale, ci sono almeno due rischi incombenti: da una parte il pericolo di patologizzare qualsiasi forma di mutamento non sia conforme al già conosciuto e di stigmatizzarla come deviante, dall’altra la richiesta di accettare aprioristicamente dei comportamenti inusuali che, assumendo un valore unificante e identitario per alcuni gruppi, diventano prematuramente condivisi senza una sufficiente elaborazione comune. Forme nuove di considerazione del corpo, della relazione e delle strutture basiche della collettività, che in realtà contengono una granXXII


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de problematicità. Spesso si dimentica lo stato di sofferenza più o meno consapevole da cui provengono, che rimane incistato in qualche formula culturale e sociale che lo esalta facendone dimenticare la complessità. Prendersi cura significa quindi cogliere gli aspetti di novità che la realtà offre trattandola non come un’ovvietà evolutiva ma come una problematica da disarticolare e sviluppare.

Interconnessioni Affrontando le problematiche che il tema del prendersi cura solleva, si viene a creare una rete di argomenti che si collegano l’uno all’altro in un’intima e spesso inesplorata connessione. In che senso il prendersi cura può riguardare il legame speculare tra affermazione e negazione e farlo assurgere addirittura alla condizione stessa della cura secondo Roberto Esposito? “Il negativo è sì la ferita ma anche l’anima del reale” in quanto è l’impasto tra il positivo e il negativo che pur conservando l’irriducibiltà dell’uno all’altro, “potenzia e feconda” la vita. Una categoria in particolare supera questa dicotomia, la differenza che consente di uscire dall’indistinto e quindi di operare nel reale arricchendolo. In questo senso si può stabilire una relazione tra negazione e prassi politica. Un’identità statica che non sopporta il confronto con l’alterità che avrebbe invece la funzione di “interromperla” e metterla in movimento, provoca una distruzione non solo dell’altro ma anche dell’ordine simbolico, mentre lasciare operare il negativo senza compiere delle immobilizzanti e anestetizzanti operazioni immunitarie, può dare luogo alla sua ricostituzione e a quella di una communitas basata sulla condivisione. Questione cruciale quella della negazione che attraversa non solo la filosofia ma anche la psicoanalisi ricorda Andrea Baldassarro, dall’idea stessa dell’inconscio alla pulsione di morte. D’altronde il discorso psicoanalitico mette in primo piano proprio il modo in cui il soggetto deve fronteggiare gli effetti della perdita, dell’assenza come anche il problema

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dell’alterità e della realtà stessa che viene a volte negata o denegata o allucinata negativamente. Fino ad arrivare alla constatazione che recentemente dopo una serie di eventi, come la caduta del Muro di Berlino, che avevano dato l’idea che si fosse “cancellato il negativo” dobbiamo invece notare che esso torna sotto varie forme, come se si fosse “disseminato”, dai fenomeni del terrorismo a quelli della pandemia stessa. Forse una possibilità per riuscire a prendersi cura di tutte le istanze sia individuali che sociali, sarebbe data dal rimettere in moto l’Eros che come controparte del negativo ha la funzione di legare là dove la distruttività slega e disperde. È anche in questo senso che appare necessario che la psicoanalisi prenda in considerazione la dimensione antropologica che secondo la proposta di Alfredo Lombardozzi potrebbe favorire la considerazione del “contesto” della cura che appare essenziale per ricostruire l’intreccio individuogruppo e le sue vicissitudini. Il prendersi cura “riguarda non tanto un desiderio ‘coatto e anticipatorio’ di guarire o far guarire, quanto la responsabilità del benessere di una persona” proprio nella sua messa in relazione con le componenti culturali, muovendosi sia sul piano della sofferenza soggettiva che delle organizzazioni simboliche e delle pratiche terapeutiche della collettività cui appartiene. Questa espansione dal piano individuale a quello gruppale rende necessaria una continua “ridefinizione del campo psicoanalitico” e del suo oggetto soprattutto alla luce delle nuove forme di comunicazione sociale che richiedono una diversa responsabilità ma anche una inedita “creatività” nell’affrontarle. L’antropologo culturale Fabio Dei rinforza questa esigenza di considerare i cambiamenti culturali e sociali del tempo presente senza indulgere a interpretazioni “apocalittiche della modernità”. Non occorre un approccio né speculativo né moralistico quanto piuttosto un’indagine empirica che descriva le pratiche della vita e i significati a loro attribuite dai soggetti che le compiono, rivendicandone l’aspetto “attivo” e la spinta di solidarietà che le caratterizza. XXIV


Introduzione

Attraverso lo studio delle culture del “dono”, si può vedere come questa “forma di scambio personalizzata che alimenta i legami sociali” piuttosto che soccombere ai meccanismi del mercato e del controllo statale, compare sotto varie forme che ne solidificano il significato di “prossimità” e di condivisione. Ne è un esempio l’esperienza della pandemia e del lockdown che avrebbe potuto, come in parte ha fatto, rinforzare i tratti autistici di molti nostri comportamenti ma sicuramente ha anche dimostrato che la socialità è essenziale per la nostra sopravvivenza psichica e culturale. D’altronde la vita fin dall’inizio è segnata dalla sua radice relazionale e anche per questo il prendersi cura può essere visto come una dimensione antropologica della comunità umana, sostiene Anna Ferruta. Siamo immersi in un “vorticoso flusso di cambiamento” ma è essenziale per la comprensione della realtà descriverne tutti gli aspetti contraddittori senza cercare di razionalizzarne e attutirne la portata dirompente. E compito precipuo della psicoanalisi è proprio quello di offrire un ambiente di cura “rigoroso ma trasformativo”. In questo la psicoanalisi non si discosta dalle formulazioni dei paradigmi scientifici odierni che, occupandosi di “esseri viventi in continuo scambio metabolico con l’ambiente in cui sono immersi”, mettono in primo piano l’indagine sul cambiamento e sulla processualità degli eventi. Stessa cosa si può dire dell’esperienza artistica che vede l’interazione necessaria tra produttore e fruitore e la loro tensione creativa con i materiali dell’opera. Una “visione dinamica del funzionamento psiche-soma” e un accento chiaro e deciso sugli aspetti di interdipendenza tra il medico, o chi si prende cura, e il paziente o l’oggetto della cura, come paradigma della “relazione di base che tiene in vita la comunità umana”. Sarebbe infatti impossibile prescindere da queste dimensioni culturali e sociali quando il mondo più che mai ci si presenta attraversato letteralmente da flussi migratori che spostano intere popolazioni e drammaticamente ripropongono le difficoltà di contatto tra modalità di comportamento e visioni del mondo sentite spesso come pericolosamente e irriducibilmente estranee. XXV


Prendersi cura

Non solo il fenomeno ha raggiunto come sappiamo proporzioni difficili da gestire a livello planetario, ma ci capita di assistere anche ad un paradosso descritto dalla psicoanalista iraniana Gohar Homayounpour, la “migrazione umana inversa”. Negli ultimi anni la situazione economica dell’Iran, a causa delle sanzioni internazionali contro il regime politico del paese, ha prodotto un rovesciamento della migrazione della comunità afgana che per anni è stata la più grande in Iran. Ora gli immigrati afgani vogliono tornare nel loro paese anche se povero e rurale perchè persino per loro la vita in Iran è diventata insostenibile. Cosa succede “se te ne vai”? L’angoscia che si scatena evidenziata da Homayounpour è ancora più profonda perché mette in evidenza drammaticamente la debolezza e la crisi dell’ospite che, non solo non è più in grado di offrire opportunità all’immigrato, anche se segnate dallo sfruttamento, ma addirittura ha come prospettiva la povertà al limite della sopravvivenza anche per se stesso. Il discorso prende spunto dal documentario di Bahman Kiarostami Exodus che percorre attraverso una serie di bellissime immagini il travaglio della comunità afgana che, chiedendo di poter tornare indietro, è costretta a confrontarsi con la burocrazia iraniana ma anche con i vissuti di abbandono che gli iraniani stessi percepiscono più o meno consapevolmente. Il termine biblico “esodo” descrive anche la vicenda di altre popolazioni, spostatesi in massa come quella albanese venuta a più riprese in Italia, ci ricorda Gerarta Zheji Ballo che analizza il fenomeno delle cosiddette seconde generazioni, figli di immigrati nati in Italia o all’estero ma poi cresciuti nel nostro Paese. Specchio della nostra difficoltà di organizzare ma prima ancora di concepire la loro appartenenza all’Italia o ai vari paesi ospitanti, sono invece portatori di una definizione identitaria “plurale” che riguarda la visione stessa della cittadinanza e dell’inclusione e che potrebbe essere usata come apertura verso le differenze culturali legate ai vari paesi. Se alla luce di queste dinamiche spesso conflittuali la possibilità di “ritrovarsi” appare difficile e più che mai segnata dal bisogno di cura, XXVI


Introduzione

è possibile introdurre un’esperienza apparentemente distante ma invece fondamentale per il recupero di sé e dell’altro, quella della Bellezza. Matilde Vigneri ne fa un’esperienza fondamentale per il percorso psicoanalitico che assume in tutto e per tutto il carattere di un “ritrovamento estetico”. Si tratta di una capacità umana di base che non a caso spesso viene perduta in alcune patologie mentali in cui è preclusa la via al pensiero e alla vitalità stessa. Per questo motivo possiamo iscrivere la bellezza o il senso della bellezza “nell’ordine della pulsione”, ponte specifico tra i sensi e la mente. Spinta a conoscere, a sentire, a procreare, legata alla sessualità e quindi anche destinata a seguire le vicissitudini della sublimazione. Come pure le vicissitudini dei disagi della modernità che vede difficilmente integrabili aspetti di sé non pensabili e che forse solo con un lavoro analitico possono accedere a quel rinvenimento estetico che ci dia infine “la possibilità di tollerare il dolore e di riconciliarci con i nostri desideri e la nostra vita”. Ma come si impara a comprendere la bellezza? Un concetto “elusivo ed enigmatico”, ricorda Benedetta Guerrini Degl’Innocenti esplorando il quale si passa da concezioni che riguardano la sua “inevitabilità”, a quelle dell’armonia e dell’ordine insito nel bello, a quella della “caducità” che riporta al sentimento della perdita e della morte. Come avvengono i primi contatti con la bellezza? La prima esperienza di rapporto con gli oggetti del mondo è un impatto difficile da sopportare, genera piacere ma anche terrore se non viene mediato dallo “sguardo” della madre e dal suo riconoscimento. È solo attraverso questa esperienza primaria che si struttura quell’esperienza di contenimento e di trasformazione anzi di costruzione stessa della soggettività che in psicoanalisi può essere definita anche come “organizzatore inconscio della funzione di pensabilità” in quanto le forme simboliche in cui si declina la bellezza possono fare da argine alla “turbolenza delle angosce” provocate dalla impossibilità di mentalizzarle. La bellezza quindi appare un elemento fondativo della vita, che mette in moto la dinamica psichica a più livelli, ma rimane pur sempre difficile da comprendere e ancor più da comunicare. Secondo la scrittrice Ginevra XXVII


Prendersi cura

Bompiani non è possibile farne un oggetto di trasmissione ma può passare da un individuo ad un altro solo per “contagio”. Tramite la descrizione della sua esperienza di affidamento di una ragazza minore somala, è possibile ricostruire il tentativo di creare un rapporto di fiducia e di amore attraverso “l’esposizione alla bellezza” che non potrà forse mai essere un trasferimento di conoscenza da una cultura ad un’altra ma probabilmente di condivisione di quello stupore e di quella illusione, di quel “miraggio” che permette, superando le barriere dovute alle differenze culturali, di trovarsi magari momentaneamente per il tempo dell’esperienza di bellezza, nella stessa “patria”. Se la nostra mente è capace di queste connessioni che riguardano il pensiero e l’emozione, la soggettualità e la vita collettiva, sarebbe opportuno trovare un principio unificatore che senza comprimerle dentro schemi predefiniti funga da propulsore dinamico atto a mettere in evidenza tutte queste istanze e a favorirne lo sviluppo. Possiamo supporre che l’Etica sia questa funzione fondamentale della mente e, di conseguenza, un organizzatore a livello psichico e sociale. È necessaria una manutenzione di questa funzione che Ronny Jaffé relativamente alla psicoanalisi, identifica con alcune tecniche di base come quella dell’autoanalisi e del rapporto stretto e sempre da vivificare tra teoria e metodo in una costante riflessione con il lavoro di gruppo dei colleghi. Un’indicazione che cerca di ancorare la prassi psicoanalitica al pensiero, e in particolare alla riflessione su quelle tematiche dell’attualità che risultano cariche di distruttività. L’analista non deve avere paura di “esporsi alla contaminazione del male” né con il paziente né con la realtà esterna, senza però contagiarsi o farsene giudice quanto invece per fornire una “testimonianza attiva”. La realtà attuale ci si presenta invasa da paure diverse e non sempre collegate ma che tali appaiono, dando luogo ad “un’unica paura globale” sottolinea Luisella Battaglia. Paure dovute a minacce e rischi anche derivati dalle tecnologie in continua espansione, che la nostra società produce paradossalmente insieme ai sistemi stessi atti a controllarli. XXVIII


Introduzione

Ma se il problema non fosse quello di assumersi i rischi cercando di rispondere razionalmente, ma bisognasse invece farsene carico riformulando una serie di valori tradizionali come quelli femminili per esempio, che comprendono principalmente la cura? Una politica che si ispirasse al principio della cura metterebbe in campo un “cittadino non come astrattamente indipendente ma come persona concretamente interdipendente”. Bisogna sempre più rendersi conto della reciproca interdipendenza tra le persone, gli animali e l’ambiente e “decisivo appare il riconoscimento della comune vulnerabilità”6 [...] Il problema oggi è quello di proteggere non tanto l’umano quanto l’umanità e la sua futura sopravvivenza sul pianeta”. Nel libro punti di vista diversi partono dalla stessa sensibilità rispetto all’argomento. Prendersi cura risulta come un’attività necessaria, terapeutica e creativa, legata al pensiero e all’emozione, alla relazione con l’altro, alla struttura basica umana e alle sue realizzazioni culturali e sociali, da attuare con urgenza qui e adesso. Cambiando vertice del discorso c’è da notare che in quasi tutti i libri e i film di fantascienza degli ultimi anni che sono uno specchio sensibile e preveggente della situazione in cui viviamo, il tema si sta spostando dall’angoscia di un’eventuale invasione di esseri alieni pericolosissimi che possono disintegrarci o mutare le nostre caratteristiche umane svuotandole dal di dentro e impadronendosene, alla ricerca di un mondo nuovo in un’altra galassia, una ‘nuova casa’ come è definita nella letteratura e nella narrativa filmica, in cui creare un habitat alternativo dove l’umanità possa sopravvivere e continuare a generare. È un immaginario complesso che parla della fine del nostro mondo aggredito su tutti i fronti e ci proietta in un altrove che forse è necessario cominciare a prevedere ma che ci disloca irrimediabilmente. Eppure siamo abituati a questi salti spazio-temporali. Li sperimentiamo nei passaggi 6 È appena uscito un numero di Psiche, Rivista di Psicoanalisi e Cultura della Società Psicoanalitica Italiana, interamente dedicato a questo tema. N.1 Psiche, Vulnerabilità, Il Mulino, Bologna, 2020.

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Prendersi cura

della nostra dinamica psichica, conosciamo il tempo a spirale che intreccia il passato della nostra infanzia alla proiezione attuale del desiderio, che ci fa vivere come presenti eventi passati che si riattualizzano nelle figure del transfert, che ci fa sperimentare le incongruenze del sogno riportandole nella veglia come se non ci fosse distinzione. Per non parlare delle moderne forme di comunicazione che uniscono vorticosamente tempi e luoghi diversi e distanti, inventando sé alternativi che si muovono in spazi e tempi non conosciuti. Ciò nonostante questi mutamenti non ci hanno fatto ancora perdere la coscienza di abitare questo pianeta. Andare via tra migliaia di anni probabilmente sarà l’unica possibilità per l’umanità, l’unica salvezza, ma intanto la nostra vita è qui e adesso e non possiamo che prendercene cura.

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