Io Non Sono Come Voi ( estratto )

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“Ascolta ora, questa è un'altra storia raccolta nel tamburo metallico della notte attraverso lo scintillio del suono magico dell’altoparlante universale. È notte nella metropoli totale e non si può evadere dalla notte. Neurox dietro la corazza lo sa, ma esce una voce vietata, proibita, rifiuta l’ideologia della miseria, progetta piani di trasformazione, apparentemente assurdi. Questa la storia come l’ho sentita, davvero, neanche per caso, una delle ultime sere di Carnevale” (Alberto Camerini – “Neurox”) (uno) Fuori piove a dirotto. E io sono sempre qua, in questo schifo di monolocale a piano terra, con la televisione accesa a volume zero e una bottiglia di vino scadente comperata da chissà quanto. Non so nemmeno che ore sono. Forse le due, o forse le quattro, non che alla fine mi interessi più di tanto. Il fatto è che non riesco più a dormire. E quando non riesci più a dormire, il tempo smette anche di essere un problema. Guardo l’ora. Le undici. Cristo, ancora otto ore di pioggia, di libri, di vino, e, soprattutto, di inutili pensieri. Mi alzo. Cammino, faccio quattro passi, e dopo tre metri e ventisette centimetri raggiungo la parete est. Mi giro. Altri sette passi. Più brevi di quelli di prima, per un totale di quattro metri e settantaquattro. La parete nord. Tre metri e ventisette per quattro metri e settantaquattro. Fanno giusti giusti quindici metri e mezzo. Lo spazio dentro il quale, notte dopo notte, si muove, noiosa e prevedibile, la mia stupida esistenza. Alle due e venti mi addormento. Piombo subito in un sonno pesante, pieno di sogni assurdi e di gente che non conosco. Poi improvvisamente mi sveglio, e per un attimo mi illudo che sia già mattina. Le tre e trentaquattro. Nella migliore delle ipotesi avrò dormito si e no un’ora e mezzo. Alle cinque e sedici smette di piovere. Apro le finestre, giusto cosi’, per dare un’occhiata a quel che resta della notte. Mi piace fumare una sigaretta a quest’ora del mattino. Prima del caffè, prima della brioche, prima che tutte le altre cose prendano il sopravvento. Solo io, il silenzio, il buio, e il fumo che lentamente si disperde nell’aria umida di una calda mattina di fine giugno. Alle sei e diciannove so già che il peggio è passato. Il libro, il vino, la televisione accesa a volume zero, tutto dimenticato. Non sembra nemmeno che abbia piovuto. Tempo venti minuti, mezz’ora al massimo, e la mia vita tornerà ad essere uguale a quella di chiunque altro.


(due) Faccio il portiere nel palazzo dei ricchi. Solo quattro appartamenti, a dire il vero, ma non crediate per questo che si tratti di un lavoro di poco conto. Sono persone esigenti, da queste parti, gente abituata ad avere un servizio di tutto punto. Uomini di successo, donne di buona famiglia. Al primo piano abitano i Boldrini. Trecentonove metri quadrati più quarantotto di balcone, e tutti per il vecchio notaio e la sua giovane moglie Rachele. Lui settant’anni, lei trentacinque. Un bello schifo, non trovate anche voi? “Buongiorno signora Rachele” “Buongiorno Paolo, mi ha cercato qualcuno?” No, signora, mi dispiace, ma stamattina non l’ha cercata nessuno. Ho anche un gran brutto mal di testa, peraltro, e quindi la prego, non se ne stia qui a fare conversazione. Ma si guardi, adesso. Come controlla la sua posta, annuendo a nemmeno si sa chi, e dicendo cose prive di significato, robe del tipo “Lo sapevo che sarebbe andata a finire così”, oppure “Certo, come se fossimo tutti a sua disposizione”, quasi che io fossi a conoscenza di ogni dettaglio della sua corrispondenza. E’ bella Rachele. E’ una di quelle con un disegno preciso nella testa, una di quelle che non ammettono errori. La guardo. Lei sa che lo sto facendo, ma si comporta come se non se ne accorgesse, fa finta di niente. Fa parte del suo piano non concedersi distrazioni. Rimanere fedele alla mummia ancora per un po’, o perlomeno fino a quando un bel giorno non arriveranno gli imbalsamatori e se lo porteranno via, lui e il suo dannato sarcofago. “Allora a più tardi Paolo” Certo signora. A più tardi. E mi saluti suo marito, che Dio l’abbia in gloria. (tre) Bevo troppo. Per essere lucido sono lucido, ma l’alito è quello del vino da poco prezzo, e non vorrei mai che per questo qualcuno si mettesse in testa di farmi perdere il posto. A dire il vero non so nemmeno quand’è che è cominciata. In effetti ho sempre bevuto, ma si trattava perlopiù di un bicchiere o due, o di una birra con gli amici al bar. E’ che a un certo punto i bicchieri devono essere diventati tre. E poi quattro. E il giorno che qualcuno mi ha chiesto: “Scusa Paolo, ma quanto bevi?” mi sono accorto che non sapevo davvero che accidenti rispondergli.


Ed è allora che cominci ad andare nell’immondizia, a contare le bottiglie e a confrontarle con gli scontrini del supermercato. E in quel momento capisci che il vino è come le sigarette, o come le donne. Devi sempre sapere quante sigarette ti sei fumato, o quante donne ti sei fatto, e se non te lo ricordi mi dispiace, vuol dire che qualcosa non sta andando per il verso giusto. Per questo adesso conto tutto. Conto i passi, le sigarette, le cose che mangio e le cose che bevo. Le persone che entrano, e quelle che escono. Quelle con cui parlo e quelle con cui non parlo. Gli uomini. Le donne. I cani e i bambini. I giorni di sole e i giorni di pioggia. La gente mi dice un sacco di cose, ma io mica sempre le sto ad ascoltare. Sono troppo impegnato a contare. Prendiamo oggi ad esempio. Sono le diciannove e venticinque. Ho fumato trentadue sigarette e bevuto due litri e mezzo di vino. Mangiato pasta (centoventi grammi), pane (sessanta), carne (centoquindici), pomodori (tre etti scarsi, ma la metà li ho buttati via), una mela e due banane. E ancora. Quattro caffè. Un paio di amari. Un succo di frutta. Ai quattro martini bevuti stamattina non mi devo dimenticare di aggiungere una specie di drink che mi sono preparato shakerando due o tre fondi di bottiglie trovate in giro per la casa. E comunque non è finita. Ho visto undici persone, di cui quattro erano donne. Nove le conoscevo, due non le avevo mai viste prima. Con sei ci ho parlato, con quattro no, l’ultima era un barbone che ho dovuto buttare fuori a pedate. “Fottiti, bastardo!”, mi ha urlato dietro mentre se ne andava. Ed è stato a quel punto che non ci ho più visto e ho cominciato a inseguirlo, e quando l’ho raggiunto gliene ho anche date di santa ragione. “Basta, basta” , continuava a piagnucolare, ma alla fine sono stato io a decidere quand’è che sarebbe stata ora di smetterla. Cercava qualcuno che gli desse una lezione, quello schifoso miserabile, e lo sa Dio se non l’ha trovato quel qualcuno, puttana di una miseria. (quattro) Non piaccio ai cani, e i cani non piacciono a me. Sarà che li ritengo animali ottusi, schiavi della loro fedeltà, incapaci di sviluppare sentimenti complessi che vadano al di là dell’obbedienza ad ogni costo. E’ che la gente confonde l’intelligenza con la capacità di eseguire un comando, come se un servo ottuso che mai si pone domande sul perché gli viene richiesto di compiere una determinata cosa fosse poi tutto questo grande genio. I cani sono così. Bravi a capire quello che stai chiedendo loro, certo.


Il problema è che quelle stupide bestie eseguono e basta, manco si chiedono se c’è una ragione, o se ne hanno voglia. Oggi, per esempio. Ero al parco, e a un certo punto mi vedo arrivare questa specie di cane da caccia, non chiedetemi la razza, ve ne prego, non ne ho davvero la più pallida idea. Gli avrò tirato il bastone duecento volte e questo per duecento volte è corso a riprenderselo, così, giusto per il gusto di portarmelo indietro. Ed era contento. Mi guardava ed era contento. Io lo umiliavo e lui se ne stava lì a scodinzolare, si aspettava il premio, quello stupido. E invece no. Ho finito di mangiare quello che mi era rimasto nel sacchetto del McDonald’s , e gli ho dato ogni volta l’illusione che alla fine ci sarebbe stato un qualcosa anche per lui. Beh, volete sapere una com’è finita? E’ finita che anche dopo che mi sono ingoiato l’ultimo pezzo di cheeseburger quello stupido era ancora contento. E ha continuato a scodinzolare.

(cinque) Al secondo piano ci sono due appartamenti. Il primo è quello del dottor Mignani, commercialista, sposato in seconde nozze con Anna Giovannetti Gherardi , quella del caffè, tanto per intenderci. Due figli, entrambi poco simpatici. Quella ninfetta anoressica di Denise, e quell’antipatico di Roberto Maria Edoardo, promettente erede dello studio paterno. Di solito se ti cercano è perché c’è qualche grana, e per grana intendo di quelle grosse. Un tubo che perde, uno scarafaggio, potete star certi che se vi chiamano dall’appartamento numero due non è di certo per farsi andare a prendere il giornale. In quello di fronte, duecento metri quadri affrescati da uno sconosciuto allievo di Guido Reni , abita l’architetto Eleonora Bellentani, una di cui, ad essere onesti, non è che sia ancora riuscito a capire tutto questo granchè. Gentile, riservata, con una vita privata di cui nessuno sa niente, alla fine è quella che qua dentro mi dà meno problemi di tutti. “Una busta per lei, architetto” Mi ringrazia, ma lo fa come se non gliene fregasse niente, né di me né della busta. Quattro passi, quelli necessari per arrivare dalla guardiola alla porta d’ingresso (tre metri e sedici). “Questa sera non rientro, Paolo” Non capisco il motivo dell’informazione, ma apprezzo il fatto che abbia voluto dirmelo. Chissà. Avrà pensato che potessi preoccuparmi. (sei) Non sono mai stato molto bravo con le donne.


Perdo troppo tempo a parlare, a cercare di capire, così che quando alla fine provo a portarmele a letto, è quasi sempre troppo tardi. Ho paura di espormi, è questo il punto. Paura di dichiararmi, o di lasciar trapelare le cose, quasi fosse meglio non rischiare, tenendomi ben stretto quel poco che c’è, rinunciando tanto ai successi quanto alle sconfitte. Così che alla fine hai solo domande. Interrogativi su quello che sarebbe potuto essere stata la mia vita con un po’ più di coraggio, o con un briciolo in più di determinazione. Disillusioni. Rimpianti. In fondo non è poi che mi resti molto più di tutto questo. Giulia ad esempio. Conosciuta casualmente, nell’estate del duemilatre. Era sola, Giulia, con uno di quegli orrendi cocktail pieni di menta e di ghiaccio tritato, roba da donne, se mi passate il maschilismo. “Come fai a bere quella roba?” Lei mi ha sorriso, nemmeno troppo infastidita dall’approccio, a dire il vero. Si è accesa una sigaretta e ha alzato le spalle, come a dire: “Mi piace. Perché?” Ed è così che è iniziata tra di noi, con quel senso di consolazione reciproca che sempre hanno le persone un po’ alla deriva quando, nel bel mezzo del naufragio delle loro esistenze, hanno la fortuna (o la sfortuna) di incontrarsi. Ricordi. Li odio quando arrivano così, senza nemmeno che nessuno li abbia invitati. E poi stamattina non sto neppure tanto bene. Sarà che piove (e quando piove sono sempre di pessimo umore), o sarà per via di quell’idiota di Altieri, il nostro insopportabile amministratore condominiale, fatto sta che l’idea di starmene tutto il giorno a guardare le scale in attesa che succeda qualcosa mi sembra davvero una prospettiva insopportabile. Alle dieci e ventidue sono arrivati quelli delle pulizie. Non so neanche come si chiamino, ad essere sinceri. Buongiorno e arrivederci, non credo davvero che le nostre conversazioni si siano mai spinte di molto oltre a un paio di saluti. “Qualcuno si lamenta che quando venite lasciate sempre

le ragnatele”

Odio fare il rompiscatole, ma d’altronde mi pagano anche per questo. Lui, che dei due dev’essere il capo, ha fatto si con la testa, come a dire “Certo, non si preoccupi”, o anche “Ma vai a quel paese, te e le tue ragnatele”. In effetti non sono un granchè a interpretare i pensieri della gente. “Scusi sa, ma la gente qui è fatta così” “Certo, certo” Ad ogni modo, chissenefrega di quello che pensano. L’importante è che facciano il loro lavoro. E che si ricordino, alla fine, di levarle, quelle maledettissime ragnatele. (sette) Non amo viaggiare. Starmene lontano dalle mie cose, dormire in posti che non


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