Il bicchiere mezzo pieno. Intervista a Giuseppe Bisi, fondatore di HMC Group

Alessandro Baraldi

IL BICCHIERE MEZZO PIENO Intervista a Giuseppe Bisi, fondatore di HMC Group

Alessandro Baraldi

IL BICCHIERE MEZZO PIENO Intervista a Giuseppe Bisi, fondatore di HMC Group

CREDITS Intervista e testi: Alessandro Baraldi Grafica e impaginazione: Marco Maini Stampa: Tipolito Salvioli Stampato nel mese di Dicembre 2017

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INDICE

PREMESSA Le ragioni di questo libro. Breve intervista ad Andrea Bisi

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INTRODUZIONE Il mio incontro con Giuseppe Bisi

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CAPITOLO 1 I primi trent’anni di lavoro

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CAPITOLO 2 Nascita e sviluppo di HMC

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CAPITOLO 3 Il terremoto del 2012

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CAPITOLO 4 Indietro nel tempo

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CAPITOLO 5 Relazioni importanti

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CAPITOLO 6 Passaggio generazionale

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PREMESSA

Le ragioni di questo libro.

Breve intervista ad Andrea Bisi

Andrea: vorrei che ci raccontassi come è nata in te l’idea di questo libro su tuo padre, e forse per tuo padre.

Posso dire che l’idea di dedicare a lui un libro è nata da un profondo senso di riconoscenza. Per creare un segno indelebile, dedicato a lui. Da parte mia, personalmente. Ma anche, credo, da parte di HMC in generale, per tutto quello che mio padre ha fatto. Lui non ama particolarmente queste cose, non bada all’importanza della comunicazione, non pensa a mettersi in mostra. Mi sono detto: ha da poco festeggiato 50 anni dal primo giorno di lavoro (a giugno del 2016) e stiamo vivendo un importante passaggio generazionale. Ancora in forza ha infatti deciso di mettere me, insieme ad un gruppo di persone valide e di fiducia, in prima linea.

Quindi mi son detto che il momento è particolare, una congiuntura favorevole.

Quest’ultimo periodo è stato per HMC denso di avvenimenti, di cambiamenti.

C’è stata un’ulteriore evoluzione: non societaria, non di strutture, ma un cambiamento di prospettiva interno.

Ecco allora che ho voluto in questo modo provare a fermare in un libro un racconto che potesse rendere onore a lui e rendere comunque indelebile la sua storia e il suo pensiero. Anche come testimonianza per il Distretto medicale. Per la dinamicità che lo ha caratterizzato e per valorizzare HMC, in occasione del ventennale della nascita della società.

HMC, da quando è nata nel 1997, si è evoluta. Perché non unire emozioni, ricordi, persone, presente e proiezione verso il futuro in questo momento che io dico essere di svolta?

Oltre a tutto quello che stiamo sviluppando e ideando, proiettati verso il futuro, si tratta di un momento di svolta sicuramente anche per mio padre: un passaggio 7

del genere è veramente un segno di fiducia nei miei confronti e nei confronti di altre persone con me. Mi sembrava doveroso e importante tracciare per iscritto il suo percorso e farlo proprio ora, come un segno sul cammino, una pietra miliare che segna un momento speciale, di passaggio.

Tante cose ha fatto, mio padre. Questo è il momento in cui unire i suoi 50 anni di lavoro, i 20 anni di HMC, i suoi 65 anni di età. Insieme a questo importante passaggio di consegne interno che gli consente di cambiare ruolo e di mettersi un po’ più ad osservare senza più essere in prima linea. Cambiare non è facile per chi è come lui un grande operativo. Trovo sia giusto ripercorrere la sua storia, rivedere le cose piacevoli, i passaggi importanti della sua vita; che poi vuole anche dire rivedere insieme la nascita e la storia di HMC. Ti chiederei a questo punto, prima di metterci in ascolto di tuo padre, di darcene la descrizione. Andrea: ti va di farci un tuo identikit di Giuseppe Bisi?

Però: mica facile! Come lavoratore? Come uomo? Come padre?

Come ti viene, istintivamente e senza pensarci troppo...

Beh: sicuramente è una persona leale. Diciamo che è una persona con una grande voglia di vivere, solare. Sebbene sia tanto preso dai pensieri del lavoro per tutta la vita. Gli piace essere gentile, sorridente, aperto, disponibile. È una persona generosa, da molti punti di vista.

Come padre è sempre stato impeccabile... o quasi (ridendo ndr). Certo quando io e mio fratello eravamo piccolini non era sempre presente, per necessità ovvie legate alla sua passione e dedizione per il lavoro. Ma allo stesso tempo, non appena ne aveva la possibilità, metteva la famiglia prima di ogni piacere e di ogni svago. Il suo piacere era lavorare, e in ogni caso per lui il lavoro è stato un mix di tanti aspetti. Ma sabato, domenica, viaggi e vacanze: cercava di dedicare tutto il tempo che gli rimaneva fuori dal lavoro alla famiglia. Ed è così ancora oggi.

Quindi come padre ha dato a me, mio fratello e a mia madre tanto. È chiaro che quella che più ci ha seguiti è stata mia madre, che nel pomeriggio ci poteva seguire personalmente. Poi posso dire che è sempre stato molto rigoroso e severo per certi aspetti e molto permissivo per altri. Ci ha sempre lasciati sbagliare, è stato tollerante. Devo dire che ha usato bene il concetto di “bastone e carota”.

Come lavoratore, dire che è vulcanico è riduttivo. Naturalmente chi è vulcanico ha idee eccellenti, ma con una certa confusione. Le idee e le intuizioni vanno 8

filtrate e organizzate. E all’interno di questo discorso il supporto di altre persone - che lui ha avuto sempre al suo fianco - è stato indispensabile per perfezionare una scintilla e renderla realizzabile. A livello imprenditoriale mio padre è così: una persona che non riesce ad aspettare, che non può parlare due volte di una medesima questione. Anzi: al presentarsi dell’idea la sua natura lo porterebbe a mettersi a realizzarla prima ancora di averla detta. Questo è un aspetto sia positivo che negativo, è chiaro. È istintivo, a volte testardo, ma al contempo capace di ammettere i suoi errori, fare un passo indietro e correggersi. Ha un grande rispetto dei percorsi interni all’azienda, della struttura e delle persone che lavorano con lui. Anche perché per lui la sfida imprenditoriale non è mai stato un discorso meramente economico.

C’è sempre stato dietro un suo istinto verso la sfida, una sua voglia di provare, di muoversi, di andare verso un’evoluzione. Tutti questi elementi costituiscono la sua natura di imprenditore.

E poi trovo che sia una persona molto diretta. Non prende giri di parole, non dice cose alle spalle. Magari dice cose scomode - giuste o sbagliate che siano - ma le dice. È molto diretto e trasparente, e questa trasparenza è un valore che spero ci abbia trasmesso.

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INTRODUZIONE

Il mio incontro con Giuseppe Bisi

Incontro per la prima volta Giuseppe Bisi in una mattina di aprile. È una di quelle giornate che hanno finalmente i colori della primavera: il cielo azzurro, la luce limpida, il sole caldo che dà sollievo dopo il lungo inverno. Per quanto l’inverno non sia stato particolarmente freddo i raggi del sole sono un sollievo sempre, in questo periodo dell’anno.

Ho appuntamento con lui alle 9 di mattino, in quella che è una sede di HMC in fase di svuotamento, nello stabilimento che si trova nella zona industriale di San Giacomo Roncole. Una frazione di Mirandola, per chi non conoscesse la zona, che vede ancora operare tante aziende storiche del noto Distretto biomedicale che tanto ha caratterizzato, e ancora caratterizza, il tessuto imprenditoriale di questo territorio.

Suono il campanello e mi viene ad aprire la centralinista, che mi fa accomodare e gentilmente mi offre un caffè. Io la ringrazio, ma non bevendo il caffè declino e mi accomodo in attesa del signor Bisi, che è già in sede e che ben presto mi viene ad accogliere.

Prima ancora che io lo possa fisicamente vedere, mentre sta scendendo le scale, mi offre anche lui un caffè, con tono gentile e deciso. Tono che lo caratterizza e che accompagna un accento decisamente carpigiano, aperto e simpatico.

Apertura e simpatia che mi vengono confermate non appena lo vedo e convergiamo l’uno verso l’altro per stringerci la mano. Sorridente e genuino, semplice e diretto, ben vestito, ordinato ma con un approccio decisamente informale e cordiale.

Saliamo insieme le scale verso il suo ampio ufficio al primo piano di questa vecchia sede oramai vuota. Guardiano del faro - insieme ai suoi 2 pastori tedeschi - di un luogo che era produttivo e che ora ha il sapore di uno spazio tutto suo, dove può sicuramente dedicarsi ad HMC ancora da dentro ma al contempo con un punto di vista in qualche misura esterno, lievemente distaccato. L’idea che mi 11

trasmette da subito questa scelta logistica è di un uomo che qualche distanza l’ha presa, per distendere un poco il tempo (e i 2 bei cagnoni che reclamano le sue attenzioni lo testimoniano) e insieme per esserci sempre, osservare con costanza, far sentire la propria presenza, offrire la sua esperienza.

Giuseppe mi fa accomodare nel suo ufficio. Sediamo al tavolo riunioni. Alle sue spalle un mobile a scaffale di legno scuro. Noto subito le foto di Papa Giovanni Paolo II e di Papa Francesco. Anche queste significano qualcosa, come ogni altro particolare in questo studio in cui sento di entrare in uno spazio decisamente privato che mi invita a muovermi in punta di piedi. Del resto è ciò che sto per fare: mettermi a lato ed ascoltare il racconto di una vita. La vita di un “uomo normale” che ha trovato nel lavoro una strada stimolante e piena di sfide, da percorrere senza badare troppo alla fatica e ai rischi. Seguendo soprattutto un istinto e una passione per il fare, per il far crescere qualcosa di proprio.

Certo non dirò nulla di nuovo, ma giova qui evidenziarlo. Impresa significa proprio questo: sfida, avventura, percorso, cammino, susseguirsi di eventi, di scelte, di alleanze, di tradimenti, di attimi di paura, di momenti di coraggio e sempre, sempre di slanci in avanti.

All’idea di impresa Giuseppe ci aiuterà ad affiancare con costanza l’idea di famiglia. Famiglia cui lui si è sempre dedicato, famiglia che considera uno spazio fondamentale anche per avere la serenità e le giuste motivazioni per fare impresa.

Famiglia (allargata) che diviene vivaio di nuove leve fondamentali per la continuità e per il futuro dell’azienda. È proprio il figlio Andrea, del resto, ad avere voluto che questo libro si realizzasse. Come documento di memoria delle origini del Gruppo che lui ora dirige ma soprattutto come segno di riconoscenza grande nei confronti del padre, in un momento delicato come il passaggio di consegne che Giuseppe e Andrea stanno vivendo in questi anni.

Ascoltando la testimonianza di Giuseppe scopriremo di una serena determinazione nel guardare al domani con la volontà di costruire sempre. Perché - ci racconterà - le cose non vanno sempre come ci aspettiamo. A volte vanno peggio, a volte vanno meglio. Ma si potrà comunque crescere, andare avanti, evolvere se, come lui ci dirà ripetutamente, si avrà la capacità di vedere sempre «il bicchiere mezzo pieno». Ma basta parlare, mettiamoci all’ascolto. Accendiamo il registratore: inizia l’intervista a Giuseppe Bisi, fondatore di HMC Group.

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CAPITOLO 1

I primi trent’anni di lavoro

Signor Bisi, le chiedo di raccontarci il suo percorso lavorativo iniziato 50 anni fa da dipendente quando ancora era un ragazzo e poi sviluppatosi nel corso degli anni fino a giungere all’HMC Group di oggi.

Secondo me è bene fare un piccolo accenno al mio breve percorso scolastico.

Io ho frequentato regolarmente le scuole elementari, per poi passare alle scuole medie. Ma devo subito dirle che non ho portato a termine le medie, almeno non subito, perché della gran voglia di studiare proprio non ne avevo. Anzi era un dramma tutte le mattine che dovevo andare a scuola.

Allora a 14 anni e qualche mese (compio gli anni il 20 marzo), il giorno 16 giugno dell’anno 1966 (una data che non posso scordare), ho cominciato a lavorare alla ditta Frarica di Carpi. E per i primi 8 mesi mi hanno tenuto a lavorare in prova, come apprendista.

La mia esperienza lì durò in tutto un annetto circa. Poi cambiai azienda. E qui comincia la mia bella avventura nel mondo medicale, il 14 giugno del 1967, con il mio ingresso in Comef.

Comef cosa vuol dire? Costruzioni meccaniche Ferrari. Era un’azienda che aveva iniziato da poco più di un anno a operare all’interno del sistema medicale di Mirandola. Assieme al sig. Ferrari Ottavio e al sig. Ferrari Enzo, che erano i due cugini titolari, e che erano in stretta collaborazione con il dott. Gasparini e il dott. Mario Veronesi, fautori della nascita del mercato medicale, dialisi in special modo, nell’ambito mirandolese. È stato questo il mio primo passo. Sì: il mio primo vero passo su questa strada che proprio non avrei potuto immaginare e prevedere. È bello, a pensarci!

In Comef ho cominciato in officina meccanica, dove sono stato messo sotto il controllo di Gianni Garuti, il nostro Capo officina di allora (era quello che inse13

gnava agli apprendisti). Poi l’anno dopo ho avuto un incidente alla mano. Vede?

Mi hanno amputato il pollice della mano sinistra. Dopo oltre un anno di mia assenza per infortunio e malattia sono stato ripreso da Ferrari Ottavio per andare in ufficio. E qui comincia la mia esperienza di gestione di un’azienda; perché in Comef, dal 1968 in avanti, ho imparato la contabilità, fatto corsi di segreteria aziendale, fatto esperienza diretta di tante problematiche inerenti la contabilità e di diversi aspetti organizzativi della produzione.

Nella prima fase di quegli anni noi, come Comef, seguivamo a Carpi la lavorazione di tutto quello che era lo stampaggio: costruzione di stampi, costruzione di attrezzature, ricerca del pezzo stampato e della fattibilità di determinati prodotti erano in capo al sig. Ferrari Ottavio. E questo è stato il trampolino che ci ha portati a una importante crescita.

In quel periodo ci fu la cessione di Dasco - cliente di Comef - al Gruppo Sandoz.

E devo dire che con Comef abbiamo continuato le nostre lavorazioni per Dasco, confermando il nostro fatturato. Sempre in quegli anni il dott. Mario Veronesi insieme ai suoi soci, tra cui Ottavio Ferrari, creò la ditta Bellco (sigla che significa 14

“bella compagnia”), un’azienda che nasceva per sviluppare ricerca di innovazione (ricerca e sviluppo) di prodotti da vendere sempre al Gruppo Sandoz, che avrebbe poi messo in produzione e commercializzato.

Mirandola stava cominciando ad assumere un’identità, sviluppando una esperienza. Lo scenario di Mirandola cresceva. Si introdusse nel Distretto la fabbricazione dei dispositivi per la dialisi. Esplodeva la richiesta, grazie all’introduzione negli ospedali di questi nuovi trattamenti, con una conseguente impennata della produzione dei dispositivi plastici.

Dopodiché cosa accadde? Bellco e Sandoz decisero di separarsi; e Bellco intraprese una sua strada indipendente. Si crearono due entità distinte, due distinti marchi, per la prima volta. E noi ci trovammo a continuare a lavorare per entrambe, raddoppiando in sostanza la produzione, per servire da una parte Sandoz e dall’altra Bellco.

Questa evoluzione del mondo medicale portò insomma al raddoppio del fatturato per la Comef. E ci si presentò quindi un vantaggio evidentemente di tipo economico ma anche di esperienza, perché ci siamo trovati di fronte alla necessità di produrre stampi nuovi. E di produrre cose nuove, di portare avanti progetti nuovi.

Arriviamo così circa al 1977. E qui c’è stata una svolta fondamentale della mia vita lavorativa. Una svolta che ho vissuto con i miei compagni di allora: oltre a me, Giuseppe Luppi, Ugo Garantini e Gianni Garuti.

I signori Ferrari Ottavio e Enzo ci fecero una proposta: l’azienda stava assumendo dimensioni abbastanza importanti. Ed ecco che ci chiesero se eravamo interessati ad avere quote di partecipazione, o se preferivamo un forte incremento dello stipendio (che poteva voler dire anche 2 o 3 volte più di quello che percepivamo fino a quel momento!). Allora: la scelta di tutti è stata quella di avere lo stipendio maggiore, avendo tutti famiglia o comunque necessità o piacere di vedere aumentare il proprio introito mensile. Io ho deciso per l’acquisto delle quote. Sì, ho pensato che la cosa migliore potesse essere questa: stare dentro la società, avvicinarmi alla proprietà. Siamo partiti con una richiesta mia dell’8% delle quote, con una loro proposta del 6%, arrivando dopo qualche tempo al 10%. Fu il primo passo che mi consentì di entrare come parte attiva in una società, di muovermi dentro un’azienda. Pur con una piccola partecipazione ero socio di una realtà imprenditoriale importante. E io mi sentivo importante: avevo 24 anni e ne ero orgoglioso.

Possiamo dire che lei, da quel momento, partecipando in prima persona al “rischio d’impresa” ha iniziato a tutti gli effetti il suo percorso imprenditoriale...

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Sì. La mia esperienza è proprio questa. A 24 anni ho fatto la scelta della mia vita e ho cambiato, passando dall’essere dipendente all’essere socio.

Sono contento? Non posso dire altrimenti. Tornassi indietro cosa farei? Posso solo dire una cosa: ci avrei forse pensato 24 ore in più. Ma poi, comunque, avrei fatto la stessa scelta. Una parte consistente della mia vita l’ho dedicata al lavoro, ma ne sono contento. Perché probabilmente sarei diventato un uomo diverso.

Chissà? Forse un uomo barboso o un rompicoglioni... Invece così sono contento di quello che ho fatto. Certo è stata una scelta che ha segnato la mia vita. E tanti sabati e domeniche li ho trascorsi, da lì in avanti, a confrontarmi con Ottavio e Enzo, per capire come pensare al futuro, come sviluppare e migliorare, come aggiornare la parte tecnologica pensando al futuro dell’azienda.

E oggi, beh: posso solo essere soddisfatto di quella decisione, e di quello che mi è successo negli anni a seguire.

A pensarci ora fu proprio un momento di svolta, perché da lì in avanti non venni più considerato (e non mi considerai più nemmeno io) un dipendente, ma un socio a tutti gli effetti. Naturalmente a questo punto cambiò il mio punto di vista e cominciai ad osservare le persone, i collaboratori, in un altro modo, valutandole.

Per fare un esempio: le stesse persone che, per età, avrebbero potuto essere i miei genitori non erano più i miei datori ma persone con le quali insieme si gestiva l’operatività dell’azienda e ci si confrontava.

All’inizio degli anni ’80 ci fu un momento di crisi in Comef cui seguì un’altra svolta importante della mia vita. Fino ad allora il signor Ottavio e il signor Enzo mi sono stati sempre vicini e mi hanno sempre aiutato e insegnato tanto: come comportarmi, come affrontare le questioni strettamente di tipo meccanico, come affrontare la gestione del personale, gli acquisti e ogni altro aspetto del lavoro e della conduzione dell’azienda.

In quel momento Comef (e quindi anche io) era una società che, potremmo dire, aveva Mirandola come principale orizzonte. Il mondo del medicale era allora giocato sul territorio locale. Il nostro obiettivo in quel momento era mantenere gli impegni nei confronti di quel contesto; per il resto avevamo una scarsa consapevolezza del mercato al di fuori.

Per il bisogno di ampliare il nostro orizzonte di mercato, ma anche per esigenze di tipo finanziario, decidemmo di aprirci a un ulteriore socio finanziatore: il signor Ermanno Ranghino, di Carpi. Il quale fece un intervento di acquisto di quote ed entrò in azienda con un ruolo decisionale, in un’ottica di sviluppo commerciale della società.

Questo ingresso rappresentò per me un evento molto importante: la nascita di una grande amicizia e un ottimo partner che mi ha insegnato tanto, in termini lavorativi e imprenditoriali. Il primo episodio di conoscenza di Ranghino e della 16

sua personalità lo faccio risalire a quando io e lui andammo insieme in banca.

Dovevamo affrontare una situazione difficile, debitoria; e Ranghino venne con me in un istituto di credito. Lui si presentò chiedendo il saldo del conto di Comef poi staccò un importante assegno per saldare e chiudere definitivamente il conto con questo istituto bancario. Ero spaventato e allo stesso tempo molto soddisfatto. Vidi affrontare una situazione difficile con grande sicurezza. Una fermezza che rappresentò per me, da quel momento, un esempio da seguire.

Con l’arrivo di Ranghino, e grazie alla sua esperienza internazionale, abbiamo cominciato ad affacciarci a mercati mondiali, a guardare al mondo intero, e non più solo al territorio di Mirandola. Ecco quindi la seconda svolta di Comef, legata proprio al saper puntare su una crescita anche all’estero.

Inizialmente, con Ottavio e Enzo, eravamo degli artigiani che lavoravano per Mirandola. Ranghino ci ha fatto capire che noi avevamo di fronte il mondo e che c’erano enormi potenzialità. Sembrava dirci continuamente: «Io lavoro con il mondo: Polonia, Cecoslovacchia, Spagna, Francia. Io vedo davanti a me il mondo intero, da affrontare con le sue opportunità».

Si era venuto a creare un team efficace e completo, sia in termini tecnici che commerciali. Eravamo a questo punto davvero pronti per affrontare il mercato mondiale. E mi ricordo il suo inizio con me. Mi disse: «Adesso andiamo alla Camera di Commercio, ci facciamo dare un tabulato di quello che è il settore medicale e farmaceutico dell’Europa». Poi andammo da alcune banche a chiedere i contatti dei loro clienti del settore medicale e farmaceutico. Una volta raccolti questi dati, inviammo qualcosa come 2.500 lettere di presentazione (avevo sbancato il tabacchino!). Poi Ranghino mi disse: «Sabato prepara le valige, perché domenica sera si prende l’aereo. E dì pure a tua moglie (mi ero sposato da un annetto), che per 2 o 3 settimane non sappiamo dove andremo. Gireremo per l’Europa; andremo ad incontrare alcuni dei contatti a cui abbiamo scritto». Incredibile da raccontare adesso, nell’era della pianificazione dettagliata, delle email e così via. Ma andò proprio così!

Percentualmente ottenemmo un riscontro relativamente ridotto, perché avremo ottenuto risposta forse da un centinaio di aziende, delle 2.500 circa a cui avevamo inviato il nostro materiale di presentazione. Però fu un risultato; e contemporaneamente mi consentì di affacciarmi sul mondo, di iniziare a comprendere le immense opportunità che avevamo davanti a noi. In ogni caso tutto questo ci consentì di compiere un grosso passo in avanti. Venne assunta una persona capace dedicata all’estero, le banche iniziarono a concedere condizioni migliori.

Eravamo intorno al 1982 e si compì una vera e propria evoluzione.

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La crescita all’estero, oltre il nostro territorio delle origini, ha significato organizzare l’azienda in maniera nuova. Pensarla in maniera nuova, come già ho detto: da votata a un mercato locale ad aperta a un mercato internazionale.

Parallelamente i clienti del distretto di Mirandola incominciavano a strutturarsi produttivamente portandosi internamente quelle produzioni e quelle lavorazioni che fino a quel momento erano state gestite da Comef.

A maggior ragione era necessaria questa operazione di apertura al mondo a cui si era dato inizio. Insomma: stavamo vivendo un momento di spartiacque, in cui è stato molto importante formarsi, capire, studiare, analizzare i numeri che giravano nel mondo della dialisi. Mondo che in quella fase storica vedeva di anno in anno raddoppiare la richiesta e aumentare di conseguenza il fatturato. Si stava vivendo un momento di boom economico notevole.

Nel frattempo, sempre a Mirandola, grazie al Dottor Mario Veronesi e ai suoi soci e collaboratori storici, nacquero nuove aziende: Dar per la rianimazione, Dideco per la cardiochirurgia. Realtà che segnarono il passaggio dai prodotti storici della dialisi ad altre destinazioni e applicazioni più sofisticate.

In questo momento di passaggio Comef riuscì a collaborare con Veronesi anche con nuove produzioni. Al contempo seppe proseguire la vendita dei prodotti tradizionali sul mercato mondiale. Questo fu un impegno da parte della Comef, per adeguarsi a nuovi settori ampliando il suo pacchetto di offerta e di esperienza. In questo cambiamento Veronesi ebbe l’intelligenza e la delicatezza di non staccarsi mai da Comef, anche se i suoi soci sembravano voler andare in un’altra direzione. E qui, riuscendo - come dire - a restare sotto l’ombrello del Dottor Mario, ci venne offerta la possibilità di fare un’altra importante esperienza: l’apertura, oltre ai componenti più tradizionali (deflussore, dialisi, accessori) alla cardiochirurgia.

Significò provare, studiare, sperimentare, confrontarsi. Oggi si direbbe “fare ricerca e sviluppo”. E così abbiamo proceduto per qualche anno. Le cose andavano bene, c’era molto lavoro. A questo punto avevamo bisogno di strutturarci meglio. Senza quasi accorgercene stavamo passando da una modalità artigianale (in cui si diceva in soldoni «quello che c’è da fare lo facciamo» senza guardarci troppo dentro) a una impostazione più industriale.

E qui si fece un ulteriore passo in avanti, che significò per me ancora maturazione, un nuovo scatto interiore. Intorno al 1986 Comef si rafforzò assumendo 3 collaboratori che provenivano dall’esperienza dell’azienda svedese Gambro di Felino (Parma): i signori Bruno Boschi (qualità e gestione del personale), Filippo Trascinelli (area tecnica), Alberto Garilli (organizzazione generale e produttiva).

Si trattò di nuovi ingressi che si rivelarono fondamentali per il miglioramento, l’ottimizzazione, la razionalizzazione dell’intera struttura. Da quel momento si 18

iniziò finalmente a lavorare con metodo seguendo precise modalità, schemi, procedure.

In quegli stessi momenti Comef usufruì di un’opportunità che il Governo aveva concesso. Siccome l’azienda si trovava in una “zona mista” (allora esistevano artigiani misti e industriali) ci trovammo di fronte alla possibilità di poterci spostare in una “zona industriale”. Individuata la zona, abbiamo affrontato anche questo cambiamento, questa evoluzione. Possiamo certamente affermare di essere stati tra i primi in Italia (e anche questa è stata una grossa esperienza) ad affrontare, all’interno di un discorso introdotto dall’allora Ministero della Sanità, il concetto di produzione e di stampaggio in “area bianca”. Sono certo che in tal senso, come Comef, siamo stati tra i primi ad ottenere tutte le omologazioni.

Nel frattempo avevamo fatto anche l’esperienza - con il signor Ferrari Ottavio della nascita della ditta Haemotronic, società composta da Ferrari Ottavio e dalla Famiglia Ravizza di Verona.

Abbiamo così iniziato ad affrontare anche il mercato del prodotto finito. Penso sia stata una bellissima avventura perché si è cominciato a lavorare in questo nuovo settore, scoprendo tutti i giorni qualcosa di nuovo. Lavorare e correre tutto il sabato e tutta la domenica per trovare la giusta soluzione che consentisse di partire, il lunedì mattina, con la produzione... Per me, per noi, significava cercare soluzioni, studiare, provare. In tutto ciò c’era qualcosa di vitale, di entusiasmante; c’era tanta carica. Io e Gianni Garuti (il tecnico di stampaggio di Comef ) possiamo dire che in quel periodo forse abbiamo passato più sabati e domeniche insieme a lavorare che a casa. Ma la soddisfazione che si provava era tanta. Accadeva che tante aziende chiedessero qualche soluzione, magari - per fare un esempio - il giovedì sera, e questa doveva essere risolta e pronta per l’operatività in pochi giorni; magari perché ci sarebbe stata una importante fiera, o una presentazione, o altro ancora.

In tutto questo movimento continuo il signor Ottavio Ferrari è stato per me di grande insegnamento. E queste modalità, che erano le sue, mi sono rimaste dentro. Oggi io vedo il mondo che... non è più il mio, non è più quello che io ho vissuto!

Oggi prima si deve discutere, fare la riunione. Oggi tutto è basato non sulla tempestività e sulla operatività immediata: perché prima di agire occorre discutere e definire innumerevoli aspetti e sfaccettature. Oggi possiamo dire che è tutto più meditato, tutto più lento. Prima era semplicemente una corsa: c’era un bisogno e lo si affrontava subito, senza pensarci troppo. Si prendeva in carico la richiesta, si studiava in tutta fretta la soluzione, si andava in produzione e via così con la vendita e con l’incasso.

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È stata questa la mia scuola, la mia esperienza degli inizi. Mi è sempre servito anche negli anni successivi questo modo di interpretare il lavoro, per cui occorre dedicare senza indugio il tempo al progetto, e magari rinunciare alla vacanza o al fine settimana. Affrontare immediatamente l’esigenza, per portare avanti l’azienda.

E - voglio sottolineare - anche se ci sono solo pochi dipendenti, avere consapevolezza di essere dei garanti del loro lavoro, della loro occupazione. Sapere che si deve garantire a sé stessi e ai propri collaboratori un lavoro, con continuità e con una retribuzione adeguata.

Un’esperienza lunga, quella con Comef. Come proseguì?

Diciamo che proseguì bene fino al 1986-87. Negli anni immediatamente precedenti avevamo separato lo stampaggio dall’officina, avevamo creato partnership con altre aziende del settore, definito un grosso contratto con il ministero della sanità polacco; c’era stata anche l’uscita del signor Ferrari Ottavio dall’Haemotronic. A un certo punto a noi soci venne sottoposta una importante questione: lo studio del Ragionier Vaccari (che diventò poi mio consulente) ci segnalò che la Fondazione Fornasini di Bologna (ne facevano parte il Prof. Bonomini, il Prof.

Stefoni, il sindaco Imbeni, Roversi Monaco) era interessata ad acquisire quote di Comef. La maggioranza dei soci deliberò di vendere alla Fondazione che, per farla breve, si impossessò del 100% delle quote nel 1989; in questo modo Comef passò nelle mani di un Comitato di gestione.

Con questa acquisizione le modalità fino ad allora portate avanti sono venute a mancare e a quel punto ciascun socio prese la propria strada. Grazie a questo evento in realtà alcuni ex soci o importanti interlocutori hanno contribuito alla nascita di tante altre realtà mantenendo quindi vitale il tessuto imprenditoriale del Distretto biomedicale. A me fu richiesto espressamente di continuare la collaborazione con Comef. Così stipulai un contratto di 3 anni di collaborazione, comprensivo di patto di non concorrenza. Posso dire che sono stati 3 anni tremendi, nel corso dei quali ho perso tanta di quella che era la mia conoscenza, la mia vitalità che fino a questa fase invece mi caratterizzava: si trattò di un periodo fatto di lunghe riunioni e di interminabili discussioni. Tutto per me era fuori da ogni logica, lontanissimo dal modo di ragionare e di procedere cui mi ero abituato precedentemente in Comef.

Finiti i 3 anni e terminato il patto di non concorrenza, il 5 maggio 1992 mi sono subito staccato e ho cominciato a muovermi in autonomia con una prima attività offrendo la mia consulenza in Spagna. Ma non ho certo provato grandi piaceri, in questa fase piuttosto breve, se non quello del mero guadagno. E poi c’è stato 20

un nuovo inizio, intorno alla fine del 1993, collaborando con Romano Brambilla. Il quale era titolare della ditta Modenplast (con sede a Ubersetto) azienda produttrice di granuli, tubi e tubolari che già negli anni ‘60 introdusse il PVC di grado medicale nei dispositivi medici. Romano Brambilla era amico dei soci e fornitore di Rpr, azienda della Valtellina specializzata nella produzione di sacche saldate per uso medicale.

Collaborai inizialmente con Brambilla per consulenze alla ditta Modenplast.

Poco dopo mi fu chiesto, sempre da Brambilla, di gestire Rpr entrando insieme a lui come socio di minoranza. Questa società aveva dei grossi problemi finanziari e produttivi.

Grazie alle mie conoscenze del mercato e all’impegno che ci abbiamo messo, e grazie anche alla disponibilità a crescere di alcune persone che abbiamo trovato in azienda - Maurizio Petruzzi e Christian Parravicini in particolare - ci siamo messi al lavoro, io per gli aspetti commerciali e loro per gli aspetti produttivi. È stato il mio nuovo inizio in una gestione da imprenditore, in qualità di Amministratore e con il mandato all’operatività su ogni fronte.

La mia prima grossa operazione consistette nel recuperare un mio cliente messicano per la Rpr - il Gruppo Pisa Farmaceutica - che si era a suo tempo allontanato avendo riscontrato nelle forniture grossi problemi di qualità. Ristabilii il contatto e in breve tempo Rpr ricominciò a produrre per loro. Dopo un anno e mezzo avevamo triplicato il fatturato. Parallelamente abbiamo lavorato per aumentare il pacchetto clienti, riuscendo a entrare nella ditta Dideco, che era allora il marchio di riferimento per il settore, riacquisendo così una buona qualità produttiva e commerciale. Si riuscì in questo modo a recuperare e a sanare la situazione che avevo trovato al mio ingresso in Rpr. Un’operazione, quindi, di soddisfazione ed estremamente positiva. Devo dire che quando mi allontanai dalla gestione di Rpr la situazione economica era totalmente risanata.

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CAPITOLO 2

Nascita e sviluppo di HMC

Come è nato il marchio HMC? Quali sono le sue origini?

A ottobre 1996, durante una visita di Hany - proprietario della ditta Haidylena (produttore egiziano di dispositivi) - io e Michele Brambilla (figlio di Romano), nel corso di una cena, gli sottoponemmo la possibilità di dar vita ad un’azienda di componenti. Ci trovavamo infatti nella vantaggiosa situazione di avere: con Haidylena uno dei più grossi utilizzatori di componenti per l’emodialisi; con Modenplast (Brambilla) un importante fabbricante di granuli; con la mia persona un conoscitore tecnico di esperienza nell’ambito dei componenti e dello stampaggio. Si parlò, già in quell’occasione, di una possibile intesa e conseguentemente si definirono di massima gli incarichi e le quote di partecipazione: io il 25%, i fratelli Brambilla un altro 25% e Hany il restante 50%; il tutto partendo da un capitale di 600 milioni di lire.

Nasceva da queste premesse il marchio HMC (che venne anch’esso definito in quella stessa serata), acronimo di Haidylena Modenplast Component. Io in verità dicevo “componenti”, in italiano. Avvenne così che in brevissimo tempo, all’inizio del 1997, si andò a costituire la società HMC e si diede inizio ufficialmente a questa bella avventura.

Quali furono i primi passi?

Si fecero investimenti per far realizzare stampi e componenti ad uso emodialisi, non investendo nella produzione ma nella realizzazione presso la ditta Ergotek.

In altre parole detenevamo la proprietà degli stampi, dando in gestione a una ditta lo stampaggio, e quindi la produzione. In questo modo, appaltando la realizzazione degli stampi e lo stampaggio ad altri, si potevano contenere investimenti e costi. In definitiva HMC nacque come ditta commerciale di componenti, con 23

la proprietà degli stampi e la produzione affidata a terzi.

Si cominciò ad operare in un magazzino a Concordia dove svolgevamo attività di vendita dei componenti. Si iniziò così l’attività con un impegno prudente, mettendo semplicemente il marchio sui componenti. L’investimento iniziale era concentrato sulla costruzione degli stampi.

Vorrei sottolineare due aspetti: da un lato il piacere di questa avventura che mi riportava ai tempi di Comef, quando facevamo sviluppo e produzione; dall’altro la difficile relazione con i soci. In effetti le aspettative iniziali erano quelle di ottenere vantaggi su tutta la filiera: dall’acquisto della materia prima (Modenplast), alla realizzazione dei componenti, al consumatore finale (Haidylena). Purtroppo ciò non si concretizzò mai: ora lo dico con il sorriso, ma pensi che mi sono trovato a un certo punto a pagare la materia prima più cara rispetto ai prezzi di mercato, avendo contemporaneamente un socio che comprava i componenti dalla concorrenza. E ancora oggi non so per quale motivo...

E come ha affrontato questa delicata situazione?

Cos’è successo a quel punto me lo ricorderò sempre. Il 14 agosto (era il 1998) mi trovavo in vacanza al mare con la famiglia, e in un hotel vicino a noi c’era anche il mio commercialista. Una mattina, trovandoci a prendere il caffè e ragionando di tante cose, gli confidai il mio desiderio di rimanere unico socio a guida della società. Occorreva - gli dissi - che io e lui riuscissimo a individuare una soluzione, dal momento che io non volevo più nessun socio. «Compro tutto io», gli dissi.

«Dobbiamo trovare il modo di essere indipendenti, perché io credo molto in ciò che stiamo facendo, ma dall’altra parte temo ci siano delle resistenze, dei blocchi.

Voglio trovare il modo per liquidare gli altri soci e restare solo io». Cosa posso dire: probabilmente sono una persona che non riesce ad avere altri soci...

Certo, nella situazione in cui mi trovavo, qualcosa lo dovevo fare. Avrei per esempio potuto decidere di vendere tutto e rimettermi a fare il consulente per le aziende, e così avrei una storia diversa da raccontare. Decisi invece di puntare a proseguire un mio percorso imprenditoriale. Mi sembrava la strada giusta, e così cercai di ottenere la maggioranza dell’azienda.

Il primo socio che ho affrontato è stato Haidylena, socio di maggioranza che deteneva il 50% delle quote. Ci siamo incontrati e devo dire abbiamo trovato abbastanza facilmente un punto d’incontro. Un’operazione, devo dire, che si rilevò di mia soddisfazione: senza esborsare cifre importanti e troppo impegnative, insomma senza intaccare il patrimonio, sono riuscito a guadagnarmi la maggioranza di HMC. 24

In questo periodo così articolato e delicato anche emotivamente con chi si è confrontato?

Sicuramente con Ermanno Ranghino, per me un vero confidente. Eravamo sempre in contatto e io lo aggiornavo quasi giornalmente di quello che stavo facendo.

Tra l’altro eravamo soci in una ditta del settore edile. Raccontando della mia decisione di acquistare la maggioranza e le altre quote per diventare unico proprietario di HMC, mi disse «non appena ti sarai liberato dei tuoi soci sono pronto a entrare in società con te». La sua condizione irremovibile e netta era però che fossimo solo noi due, e questo mi diede un’ulteriore carica e conferma rispetto al percorso che avevo intrapreso. Ranghino era per me una persona speciale, dotata di una grande capacità motivazionale. Mi sembrava di sentire suonare le campane! Perché Ranghino, come già ho raccontato, era stato mio socio negli anni ‘80 e in quel periodo lo avevo conosciuto bene e avevo apprezzato le sue qualità. Lo consideravo un punto di riferimento; e pensi che una volta mi ha detto: «nonostante io abbia vent’anni più di te, ho imparato tanto da te». Mi aveva fatto un piacere enorme. Sì: insieme a lui ho vissuto davvero delle belle esperienze.

E come ha portato avanti gli aspetti produttivi?

Abbiamo iniziato a strutturare sistemi di qualità con relativi ambienti idonei. In questa fase ci siamo spostati da Concordia a Mirandola, in via 2 giugno, in un fabbricato di 3.000 metri dove abbiamo diviso a metà l’uso degli spazi con la ditta Pgf, la quale stampava per noi, potrei dire quasi in esclusiva. In questo modo operavamo gli uni a fianco degli altri, chi produceva e chi commercializzava.

Posso dire con una certa soddisfazione che in quel periodo HMC venne molto corteggiata da realtà che avevano aree bianche produttive, perché interessate al discorso dello stampaggio, e che ci muovevamo già con un fatturato in crescita, intorno ai 2 miliardi di lire.

Insomma: un buon inizio...

Direi proprio di sì! L’azienda cominciava a reggersi in piedi senza grossi problemi. In questo nuovo fabbricato abbiamo fatto la nostra prima piccola area bianca con ambienti idonei per il controllo qualità e abbiamo assunto la prima persona a tempo pieno, Elena Reggiani, per seguire la qualità sia internamente che su tutti i fornitori stampatori.

Al contempo, nei primi anni 2000, finalmente ha iniziato ad affiancarmi mio nipote Massimiliano Bisi, già da tempo inserito nel settore medicale come re25

sponsabile commerciale. All’inizio di questa avventura gli promisi che sarebbe divenuto socio di HMC, e in effetti negli anni successivi lo divenne: ancor oggi Massimiliano detiene l’8% della società.

Massimiliano parlava già allora correntemente 3 lingue, conosceva molto bene il mercato e possedeva doti commerciali. Rappresentava insomma per me una figura importante per affrontare con fiducia una crescita commerciale.

In quel periodo eravamo in 7 persone, ciascuno con il proprio ruolo all’interno di una struttura snella (un paio di magazzinieri, l’amministrazione, un aiuto commerciale). HMC necessitava di un mio impegno sempre più costante, e devo segnalare che d’altra parte detenevo ancora le quote della Rpr, insieme ai fratelli Brambilla. Non potevo dedicarmi a 2 strutture contemporaneamente, e quindi gestire con la medesima energia HMC ed Rpr. L’unica soluzione che vedevo era quella di acquistare la totalità della Rpr per portarla all’interno di HMC. Feci così la mia proposta ai soci maggioritari. Dopo qualche mese di trattativa presentammo un piano completo di acquisizione totalitaria, inclusi debiti e impegni finanziari esistenti.

Tutto sembrava definito e confermato da ambo le parti. Fissammo quindi un appuntamento a Milano, presso lo studio di un commercialista. Ci presentammo convinti e determinati per l’acquisizione. Sottoponemmo il nostro piano di acquisto, di garanzie, di pagamenti. Non c’era niente da obiettare.

Ma accadde qualcosa che non avevamo previsto.

Cosa accadde?

Mezz’ora prima della firma dell’accordo arrivò una telefonata ai soci, credo fosse il signor Romano Brambilla. In seguito alla telefonata i soci dichiararono che non erano più disposti a vendere alle condizioni pattuite e avanzarono una richiesta quasi del doppio. Con tutto il mio disappunto, spiazzato dalla situazione che si era creata, mi presi qualche istante per riflettere e confrontarmi con il mio commercialista.

Le cose non stavano andando come da nostra previsione; d’altra parte intravvedevo, in questa situazione apparentemente sfavorevole, la possibilità di “fare cassa” a condizioni molto vantaggiose, dal momento che la valutazione era davvero alta.

Insomma: volevano mettermi indubbiamente in difficoltà, ma io per tutta risposta misi sul tavolo le mie quote alla loro valutazione. Entrai come compratore e uscii venditore, con una importante plusvalenza (non prevista e determinata non da me ma da loro) che avrei presto destinato ad altri investimenti. E questo è stato per me un grande colpo di fortuna!

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Quali furono gli sviluppi a seguito di questa cessione?

Devo iniziare a rispondere ricordando una parentesi molto triste della mia vita.

La vigilia dell’ultimo dell’anno (era il 2000) io ero in vacanza in Messico con la famiglia (coglievo l’occasione per andare a salutare il nostro cliente messicano, che ci offriva la casa al mare). Mi telefonarono per dirmi che il signor Ranghino, durante la caccia, era stato colpito da un violento infarto ed era morto.

Fu una notevole perdita personale, perché io Ranghino lo consideravo davvero come un secondo papà. Era la persona da cui andavo a confidarmi e confrontarmi, e che ascoltavo: i suoi giudizi, i suoi consigli avevano sempre giocato un peso importante sulle mie scelte. Con il suo metro e novanta di altezza, era un uomo che si faceva notare; dotato di un gran temperamento, sapeva portare avanti una discussione e possedeva un raro istinto commerciale. Se non fosse successa questa disgrazia, con la sua esperienza e con la sua entrata in società, chissà oggi che storia di HMC staremmo raccontando!

Comunque sia non fu un momento facile per me.

Dopo qualche tempo si presentò un’opportunità per HMC... È vero. La Premedical - azienda leader tra gli anni ‘60 e ‘80, dotata di camera bianca adibita alla produzione di dispositivi medici, con sede a Canda (Rovigo) - fu messa in vendita. Devo dire che colsi al volo l’occasione, comprandola nel 2003. L’azienda rappresentava per me una pedina strategica, dal momento che deteneva il marchio CE per molte famiglie di prodotti e visto che immaginavo già il futuro di HMC nell’ambito del dispositivo medico.

Fu questo punto che il marchio divenne HMC Premedical?

Proprio così. La Premedical l’abbiamo lasciata dov’era, nel suo territorio, a Canda, nell’Oltrepò. La vecchia proprietà intendeva disfarsene per realizzare altri interessi e io ho fatto davvero un bel colpo: il primo passo verso la produzione in HMC. Per portare avanti il progetto ho coinvolto Luca Casolari, persona che conoscevo da molti anni e con una esperienza sia sul prodotto finito che nella gestione degli appalti ospedalieri. Infatti Luca si inserì subito seguendo la produzione e curando direttamente i rapporti con ospedali e clienti del prodotto finito. Fu un momento di apertura a nuove opportunità proprio perché, con il prodotto sterile venduto senza intermediazioni, inserimmo in HMC il rapporto diretto con il mercato ospedaliero. In questa fase il Ministero della Sanità ci diede una mano, 27

attraverso il fondamentale supporto della Dottoressa Gramicioni: dovrei farle un monumento. Devo dire che ci ha sempre supportati e incoraggiati anche per il fatto che il nostro era un prodotto totalmente made in Italy, in un momento storico particolare in cui, per così dire “tiravano i primi venti” dalla Cina.

Diciamo che la nostra attività è iniziata proprio in questo contesto favorevole, con un’ulteriore grosso vantaggio: allora la Confindustria del territorio veneto prevedeva un incentivo da destinare alle aziende che avessero assunto laureati. Questa congiuntura consentiva di investire notevolmente nella forza lavoro mantenendo l’azienda sul territorio. Così, nell’arco di un paio d’anni, ci siamo trovati a incrementare notevolmente il fatturato, partendo da 100.000 euro e arrivando a sorpassare i 500.000. Alla luce di questo abbiamo iniziato a sentire la necessità di una camera bianca più ampia di quella originariamente presente in quella sede.

In quel periodo mio figlio Andrea iniziava a lavorare nel periodo estivo con noi.

Si recava, insieme ad Elena Reggiani, proprio alla Premedical, e qui dava una mano in magazzino e in generale aveva la possibilità di conoscere la realtà aziendale vivendola direttamente. Niente di straordinario: le prime piccole esperienze estive, per non stare in strada e per iniziare contemporaneamente a capire cosa faceva suo papà.

Nel 2004 si presentò un’altra opportunità che ci portò a fare riflessioni e a compiere un ulteriore passo in avanti e di maturazione in conoscenza, esperienza, capacità di affrontare le sfide. A Mirandola, in via Morandi, c’era la ditta Baxter, che operava in un fabbricato di circa 3000 metri, di cui 600 di area bianca.

Baxter aveva deciso da qualche tempo di trasferire la produzione da Mirandola all’estero, e aveva per questo motivo messo in vendita il fabbricato, compreso di area bianca e tutto quello che c’era dentro (macchinari, attrezzature e tutto il resto). Manifestarono il proprio interesse alcune realtà, e tra queste anche noi che in breve tempo, vista l’interessante opportunità, tramite le conoscenze del mio commercialista, riuscimmo ad acquistare il fabbricato. Fu in seguito a questa scelta che i soci Michele e Alessandra Brambilla, non volendo sottoscrivere il debito, chiesero di uscire dalla società.

Come avete fatto ad affrontare questa situazione?

Io colsi la palla al balzo per liquidare, con una modalità che ritenni corretta e vantaggiosa per tutti. I Brambilla chiesero una cifra che io non avrei potuto affrontare nell’immediato ma, avendo concordato lunghi tempi di pagamento, definii che la cosa era possibile. Diciamo che l’acquisto delle loro quote mi sarebbe costato troppo se avessi dovuto pagare in pochi mesi. Ma potendo distribuire la 28

cifra nel corso degli anni sono riuscito a non fare grossi investimenti, autofinanziandomi tramite HMC. Con un grande vantaggio: che da quel momento posso dire di essermi trovato del tutto libero, con il 100% della società in mano mia.

L’intera proprietà era Bisi. Una società in crescita, propositiva; una reale azienda produttiva, capace di affrontare le richieste delle multinazionali.

E con Premedical che evoluzioni ci furono?

Con il passare del tempo era maturata la volontà di trasferire la sede di Canda a Mirandola, anche perché la distanza con Rovigo cominciava a farsi sentire. Mi recai quindi a Canda per incontrare il personale e per spiegare che avremmo dovuto definire come organizzare i trasferimenti a Mirandola e capire se c’era la necessità di un trasporto comune. Tutti diedero l’ok per collaborare con questo trasferimento di sede e mi dissero che si sarebbero spostati in autonomia. Questo accadde il 22 di dicembre. Nel frattempo avevamo provveduto ad assumere alcune persone a Mirandola e predisposto il tutto in maniera tale da partire con l’attività subito dopo le festività natalizie: il 2 gennaio avremmo iniziato a produrre non più a Canda ma a Mirandola. Trasferimmo a questo scopo una parte del lavoro nei giorni tra il 27 e il 31 dicembre. Il 31 dicembre mi arrivò una comunicazione da parte dei dipendenti di Canda: nessuno si sarebbe trasferito, si sarebbero dimessi tutti! In realtà si spostarono a Mirandola solo i dipendenti dell’ufficio gare e la persona addetta all’amministrazione. Resta il fatto che il 2 gennaio ci trovammo ad iniziare le attività con pochissime persone. Contemporaneamente, però, si verificò una condizione favorevole che fu fondamentale per proseguire l’attività: la disponibilità immediata di una decina di persone in mobilità da Baxter, pronte per partire con il lavoro. Nel fabbricato appena acquistato decidemmo di convogliare - oltre al trasferimento della sede di Canda - la sede già esistente a Mirandola, in via 2 giugno, e di investire ulteriormente acquistando presse ad iniezione e realizzando un reparto di stampaggio in camera bianca. In altre parole decidemmo di portare internamente ad HMC parte della produzione che fino a quel momento era in outsorcing.

Una parentesi: non ho detto che nel 2003, in Premedical, avevo investito in attrezzature per la produzione di sacche, mettendomi in concorrenza a Rpr e ristabilendo i contatti con alcuni importanti clienti del passato, dando così inizio, in HMC, al business nell’ambito delle sacche. Nel nuovo stabilimento acquisito da Baxter ci trovammo pertanto a gestire diverse produzioni: stampaggio, assemblaggio e saldatura sacche. Un bel passo in avanti!

In quel momento HMC realizzava oltre 4 milioni di euro di fatturato e contava circa 40 lavoratori.

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Suo figlio Andrea aveva iniziato le prime esperienze di lavoro estivo, ci stava raccontando. Come avvenne il suo ingresso definitivo in azienda? E cosa accadde in quel periodo?

Mio figlio entrò definitivamente in HMC nel 2005. Fu allora infatti che, terminati gli studi, Andrea espresse la sua decisione di venire a lavorare con me.

Cercherò ora di essere chiaro, dato che in quel periodo si avvicendarono diversi episodi, collegati l’uno all’altro, nell’arco di poco tempo.

In quegli anni HMC aveva stretto una collaborazione con il signor Glauco Saltini, proprietario di Bartek e Dinamica, per la realizzazione di assemblatrici automatiche di componenti che fino ad allora facevamo assemblare esternamente.

Nel frattempo, guardando al contesto del biomedicale, la ditta Dinamica stava attraversando un momento di difficoltà. Nel 2006 decidemmo quindi di acquisirla così da poter introdurre in HMC la produzione di tubi medicali. Fummo invogliati anche dalla possibilità di assumere 2 persone con esperienza che provenivano da Plastec (azienda appena ceduta alla Bioservice): Enzo Cestari - per la sua grande esperienza nell’estrusione - e Milena Paolucci, per organizzare l’amministrazione e la contabilità della nostra azienda che stava crescendo e aveva necessità di strutturarsi in questo ambito.

Abbiamo iniziato nella sede di Dinamica le prime produzioni di tubi, per la realizzazione dei nostri prodotti finiti. E qui Andrea ha fatto un’esperienza di un paio d’anni, insieme a Enzo, che gli è servita molto per formarsi, conoscere il lavoro, confrontarsi con le problematiche e capire in prima persona cosa significava la gestione di una società, iniziando ad osservare tutto in un’ottica di una futura gestione dell’impresa.

Facciamo, a questo punto, una descrizione della situazione di HMC nel 2006...

Avevamo fatto importanti investimenti. Eravamo oltre 40 persone con un fatturato di circa 6 milioni di Euro. Internamente tutti i processi produttivi erano avviati, sebbene su una scala ancora ridotta; e, a tale proposito, si cominciava ad avvertire la necessità di potenziare la nostra capacità produttiva, passando da una tiratura artigianale ad una industriale.

Da lì iniziai un percorso di acquisizione di aziende del Distretto con specifiche competenze e già inserite nel settore da lungo tempo. Proprio muovendoci in questa direzione, a fine 2008 abbiamo deciso, d’accordo con Massimiliano e Andrea, di acquisire Meditea e il relativo immobile.

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Perchè Meditea?

Ci siamo trovati davanti ad un’azienda dimensionalmente molto simile ad HMC, sia come fatturato che come organico. Meditea era un’azienda storica del settore, sana, fortemente specializzata nell’estrusione di tubi e con un ampio catalogo di prodotti finiti complementari a quelli di HMC. Aveva inoltre un vantaggio: collaborava da tempo con le multinazionali e avrebbe quindi consentito ad HMC di inserirsi in questo ambito.

Abbiamo concluso la trattativa alle 14 della vigilia di Natale!

La somma delle due realtà (HMC e Meditea) ci consentì sostanzialmente di raddoppiare la struttura e il fatturato aziendale, soprattutto nel settore ospedaliero. Attivammo perciò una struttura commerciale robusta, dato l’aumento della gamma che era a quel punto triplicata.

Tutti i problemi che si riscontravano venivano affrontati e risolti grazie alla importante collaborazione del signor Valerio Gelatti (uno degli ex titolari) il quale, dopo la cessione, proseguì come consulente per supportarci nell’integrazione delle due società. È stata una collaborazione che è durata diversi anni. L’altro socio rimase invece per pochi mesi, poi se ne andò in pensione, cedendo tutta la sua parte. In generale posso dire che l’acquisizione fu di reciproca soddisfazione, sotto tutti i punti di vista.

In effetti una delle cose delicate, quando siamo entrati in Meditea, fu la gestione del personale che, dal nostro punto di vista, si muoveva con molta, forse troppa, autonomia rispetto alla mia impronta e al mio approccio chiaramente padronale.

Devo dire che anche in questa fase Andrea si è fatto un’importante esperienza, affiancando Nadia Sala, che ha rappresentato peraltro il nostro “asso di briscola” per le gare. Comunque, più in generale, Andrea ha potuto maturare un’importante esperienza nella gestione commerciale del prodotto finito.

Siamo riusciti a sfruttare al meglio l’ampio reparto di estrusione di Meditea, ed Enzo Cestari è stato il principale artefice di questa integrazione: certamente a livello produttivo, ma anche di gestione delle differenti mentalità delle due aziende, non senza incontrare difficoltà. Basti pensare, per fare un semplice esempio, che HMC aveva 2 linee di estrusione mentre Meditea ne aveva 7.

La Meditea aveva anche un reparto di stampaggio fermo. In quel momento (era il 2009) abbiamo iniziato a confrontarci con Enzo Cestari per capire come avremmo potuto potenziare ulteriormente lo stampaggio, così da produrre internamente tutti i nostri componenti.

Nel 2009 si cominciò a pensare alla costruzione della camera bianca per lo stampaggio e al trasferimento di tutte le macchine da stampare che c’erano a San Gia31

como. A dar forza al lavoro di Enzo Cestari si inserì la figura di Giorgio Gilioli, persona che sapevamo essere molto capace nell’ambito dello stampaggio, uno dei migliori sulla piazza di Mirandola.

Devo fare a questo punto un piccolo passo indietro. Nel 2006-2007, nella sede di San Giacomo (ex Baxter), ho vissuto un’esperienza molto negativa. Ho fatto circa 300 metri di area bianca e ho cominciato ad acquistare le prime macchine da stampare, facendo un accordo con un’azienda (la Sage di Cavezzo, del sig. Bergamini), investendo parecchio denaro sulle macchine e portando dentro il suo lavoro ma soprattutto le persone che mi avrebbero potuto offrire un grosso aiuto.

Ci siamo trovati a organizzare molto bene il lavoro degli stampi e a portarci così lo stampaggio in casa. Devo però dire che ben presto potei comprendere che il titolare, su cui avevo contato a suo tempo, non era la persona che poteva andare d’accordo con me. In effetti il nostro rapporto finì, dopo un anno, in tribunale.

Il lavoro è stato così portato avanti con dei gestori nostri, del reparto, fino al momento in cui abbiamo riaperto a Medolla, alla Meditea, e abbiamo trasferito tutto là. Abbiamo iniziato il nostro lavoro di stampaggio e di estrusione, avvicinando le attività che erano: assemblaggio per le multinazionali, assemblaggio per gli ospedali, stampaggio ed estrusione. Avevamo creato 3 unità e raggiunto gli 8.000 metri di capannoni. Stavamo crescendo e strutturandoci per arrivare ad un’offerta completa. A tutti gli effetti cominciavamo ad avere una produzione interna. Devo ammettere, a una decina di anni dalla sua nascita, HMC si era già notevolmente sviluppata!

E con suo figlio Andrea, dopo il suo ingresso definitivo del 2005, quali sono stati gli sviluppi?

Ci sono state a questo punto le prime assunzioni di responsabilità piuttosto importanti in azienda sia da parte di Andrea che di Massimiliano, mio nipote. In parallelo a ciò, da parte mia ho sperimentato una crescita mentale: il mio ruolo non era più legato al seguire il costante pensiero - «devo fare questo, devo fare quello» - che fino a quel momento mi aveva sempre accompagnato. Ora il mio era un ruolo, come dire, di osservazione, di analisi, di valutazione. In un certo senso di regia.

Il Gruppo stava crescendo, specialmente all’estero, e al contempo cominciava ad essere un riferimento strategico per le multinazionali. Oramai HMC era diventata una realtà che potremmo dire alternativa a Mirandola ma di servizio a Mirandola. Alternativa perché a Mirandola era praticamente tutto nelle mani delle multinazionali: noi invece eravamo un Gruppo importante ma fuori dalle multinazionali. Di servizio, perché servivamo anche le multinazionali, le quali 32

ci coinvolgevano per una serie di produzioni in contract manufacturing che noi eravamo in grado di affrontare. In altre parole: eravamo da un lato in contrapposizione al modello tipico delle multinazionali, che contemporaneamente rappresentavano un nostro cliente. Qualora, per esempio, un’azienda avesse avuto bisogno del nostro supporto in momenti di punta, noi saremmo stati lì, pronti per intervenire con la nostra esperienza, le nostre attrezzature, i nostri stabilimenti.

HMC in quella fase storica è divenuta per l’intero Distretto di Mirandola un riferimento di rilievo. Non c’era multinazionale che, direttamente o indirettamente, non si servisse di noi. Eravamo, come dicevo prima, concorrenti e fornitori e questo non creava a mio parere alcun tipo di problema. Perché siamo a mio parere riusciti ad usare un certo “saperci fare”, una certa classe: quando sorgeva il rischio di rompere equilibri noi non ci muovevamo, stavamo da parte. Andavamo al contrario ad inserirci in spazi che non infastidivano o che non interessavano.

Per esempio la dialisi.

Si è insomma creata una visione attenta - alla crescita ma anche alla valutazione delle situazioni - che è stata a mio avviso unica; e questo sicuramente grazie alla mia esperienza e alle mie relazioni con il mondo medicale dagli anni ’60 in avanti. Potrei citarle decine di nomi... Persone con cui ho fatto esperienze belle, di un lavoro senza sosta. Persone che ho conosciuto in questo modo, con le quali ho costruito rapporti. Si era cresciuti insieme lavorando, sperimentando. All’inizio della mia esperienza, come ho già detto, si stava vivendo insieme una nascita: era un piacere per tutti noi che c’eravamo dentro, vedere tutto questo “nuovo mondo” che cresceva con noi. Ci sentivamo dei pionieri, ed io, beh: posso dire con soddisfazione di esserne stato parte. Non certo tra gli ideatori, i creatori del prodotto; ma in quell’ambiente ho mosso i miei primi passi, e penso di avere fatto la mia parte anche io.

Poi, devo dire che oltre al mondo del Distretto di Mirandola, ho avuto la fortuna di conoscere tante persone nel mio percorso. Una in particolar modo la vorrei qui ricordare: si tratta dell’amico Juan Carlos Alvarez.

Il suo importante cliente messicano di cui ci ha accennato in precedenza, giusto?

Esattamente: proprio lui. Con Juan Carlos si è costruito nel tempo un rapporto di vera amicizia che va ben oltre il mero rapporto cliente-fornitore.

Ci siamo conosciuti nel 1994. Allora lui era un ragazzo di 20 anni, molto più giovane di me. Viveva in Italia perché i suoi genitori lo avevano mandato in Europa a fare le sue prime esperienze. Dopo esserci conosciuti abbiamo iniziato subito a collaborare e a valutare eventuali esigenze della sua azienda che, all’interno del Gruppo farmaceutico Pisa, seguiva l’area dei dispositivi plastici. Ci incontra33

vamo spesso, o in Italia o in Messico; portavamo avanti progetti e contemporaneamente coltivavamo, insieme agli aspetti lavorativi, un’amicizia familiare. Un bel rapporto davvero, il nostro, cresciuto e alimentato nel tempo, sempre giocato all’insegna della trasparenza e della sincerità. La fase più delicata, lavorativamente parlando, penso sia stata quando lui decise di muoversi nel mondo dell’emodialisi in Messico. Il nostro apporto fu allora essenziale per mettere a punto la configurazione della produzione.

Un ringraziamento particolare mi piace farlo qui, a lui e alla sua famiglia, per avere ospitato a suo tempo per alcuni mesi mio figlio Andrea nella sua casa, e per avergli consentito di fare una bella esperienza in una realtà multinazionale messicana. Anche questo, non c’è alcun dubbio, ha rappresentato un importante tassello nel percorso di esperienza di vita e di formazione manageriale di Andrea.

Lo ripeto: davvero grazie a Juan Carlos per questa bella amicizia!

Mi stava parlando degli ulteriori passi in avanti di HMC: l’acquisizione di Meditea, la capacità di essere presenti nel mercato del Distretto di Mirandola. Come proseguì il percorso di crescita?

Con l’acquisizione della ditta Macosta, nel 2011. La società era di proprietà della sorella di Valerio Gelatti (uno dei soci di Meditea), la signora Franca. Si trattava di un’azienda specializzata nella progettazione e realizzazione di stampi, dotata di un reparto di stampaggio altamente strutturato e di una elevata capacità produttiva. Macosta fatturava attorno ai 7-8 milioni; produceva per le multinazionali locali ma aveva ottime collaborazioni anche all’estero: con Germania, Gran Bretagna, Stati Uniti. Una rete molto ampia e interessante. Per farla breve: nel 2011 Valerio mi accennò che la sorella avrebbe avuto piacere di parlarmi, per valutare insieme a me una eventuale cessione.

Oltre a quanto ho già accennato, cosa aveva più di noi la Macosta? L’officina meccanica in cui poter fare gli stampi: ciò che a noi mancava in quel momento.

Non sarebbe stato impossibile, intendiamoci, da parte nostra costruire questa struttura, ma avremmo impiegato del tempo. In Macosta abbiamo trovato una realtà bellissima che, sebbene gestita in maniera fortemente centralizzata dalla signora Franca, era dotata di alcune persone di grande capacità ed esperienza. Ne cito in particolare due: Andrea Dal Medico, dell’Ufficio tecnico (oggi Responsabile Area tecnica del Gruppo HMC) e Danilo Bosetti, Responsabile qualità (oggi Responsabile qualità del Gruppo HMC). Ma in realtà erano tanti i collaboratori estremamente preparati.

Abbiamo iniziato l’acquisizione, abbiamo firmato i documenti e l’operazione l’abbiamo portata a termine verso ottobre 2011. Anche in questo caso all’interno 34

dell’operazione era compresa l’acquisizione del fabbricato, in questo caso di circa 6.000 metri.

Qui mio figlio Andrea è stato messo in prima linea, potremmo dire con il ruolo di “traghettatore” dal “sistema Macosta” indipendente al “sistema HMC”. Devo ammettere che si è trattato di un percorso ancor più delicato del solito perché, oltre al fatto che le dimensioni del Gruppo stavano crescendo (e con esse la complessità gestionale), la signora Franca aveva le sue idee e le sue posizioni e non ha recepito nell’immediato il fatto che anche lei faceva parte di questo Gruppo, e che quindi occorreva relazionarsi con questa realtà d’insieme e con queste persone. Fu delicato, ma anche in questo caso si fece insieme una bella esperienza di crescita. Non è stato semplice integrare diverse realtà artigianali, differenti mentalità, molteplici approcci al lavoro. Devo ammettere che anche ora, ripensandoci mentre lo sto raccontando, provo una certa soddisfazione.

Davvero una crescita notevole in pochi anni, quella di HMC È proprio così. Nel giro di pochi anni, diciamo dal 2008 al 2011, avevamo triplicato la struttura: in termini di fatturato, di produzione, di forza lavoro. Creando in pochi anni una realtà produttiva di tutto rilievo: oltre 120 persone, un fatturato che superava i 20 milioni di euro, 3 stabilimenti produttivi per un totale di oltre 16.000 metri!

Direi che il problema più complesso che abbiamo dovuto affrontare in quel periodo è stato il rapporto con le banche. Unicredit il giorno prima di ferragosto ci comunicò che non era disposta a seguirci nell’operazione con Macosta. Nello stesso giorno abbiamo contattato la Banca Popolare dell’Emilia, che aveva già dimostrato interesse per l’operazione, e che dopo poche settimane chiuse l’operazione consentendoci di procedere con l’acquisizione. Anche quella è stata un’esperienza che mi ha fatto maturare nei rapporti con le banche. Oggi posso discutere, mi sento contemporaneamente più preparato e più forte. Ho capito sulla mia pelle che dire sempre di sì alle banche è un atteggiamento sbagliato. A volte puntare i piedi è importante, perché in questo modo capiscono le tue motivazioni, la tua determinazione a portare avanti un progetto; comprendono che tu stai analizzando la situazione, dialogando anche con altre banche.

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Intermezzo.

Parlando con Massimiliano Bisi - 1 Come descriveresti dal tuo punto di vista Giuseppe Bisi?

Tantissime idee, un vulcano. Sempre. Non smetterà mai di avere idee e di proporle, perché è nel suo DNA. Il suo ragionamento da vulcanico è: «butto sul tavolo quello che ho in testa, e poi vediamo come arrivarci». Impostazione potremmo dire da pioniere quale è, e meno manageriale rispetto a quella che deve invece avere una seconda generazione, come nel caso di Andrea.

Questo significa che con lui si fanno incontri molto forti con le parti tecnica e organizzativa; con la sua aspettativa di rendere operative le idee in un lasso di tempo molto breve. È la sua formazione. Sicuramente all’inizio del suo percorso lavorativo poteva funzionare perfettamente, questo approccio. Con l’evoluzione e con le necessità, anche da un punto di vista normativo, che sono insorte non è possibile utilizzare la stessa unità di misura del tempo...

Quindi Giuseppe per me è: vulcanico, generoso, con un bisogno atavico di non addormentarsi, di continuare a pensare a nuove idee da realizzare.

Un carattere forte. Le scene più belle sono di questo tipo: magari fino alle 6 di pomeriggio hai discusso animatamente con lui; poi alle 8 magari si va a tavola al ristorante insieme (ora capita una volta ogni tanto, qualche anno fa molto più spesso), e quando ci si mette insieme a tavola è esattamente come se non si fosse discusso di nulla. Tutto un altro atteggiamento. Ha una capacità notevole di resettare, e magari nel frattempo è riuscito a fare riflessioni ulteriori in merito alla discussione, per cui un po’ ha ceduto e un po’ si è convinto... E l’indomani mattina ti presenta un quadro evoluto, migliorato. Un passo avanti nei ragionamenti. È una sua peculiarità che proprio gli invidio.

Ai miei colleghi cerco di trasmettere l’idea di non guardare alla forma ma alla sostanza, di puntare a cogliere i suoi ragionamenti. Dico anche che se non si è capaci di questo approccio, allora non si è capaci di lavorare veramente con lui.

Giuseppe ha vissuto in questo settore 50 anni, e ne conosce un po’ tutti gli aspetti avendoli toccati tutti con mano. Per questo ai miei colleghi che si trovano in situazioni difficili che non sanno come gestire dico: «Vai da Giuseppe con i tuoi dati, le tue problematiche, le tue considerazioni. Non dico che per forza lui possa offrirti la soluzione, ma tu osserva come ragiona, i passaggi che fa nell’affrontare il problema».

Spesso accade che ascoltandolo, dialogando con lui, emerga quella sua considerazione personale - che comunque ci mette sempre - e che magari questa ti 36

consenta di ampliare il tuo orizzonte. In questo modo un problema affrontato confrontandosi con lui diventa un’opportunità di miglioramento per l’azienda, o perlomeno per l’attività che gestisci in azienda. Il suo vissuto, la sua esperienza dalla materia prima al prodotto finito, il suo carattere, il suo intuito: nessuno di noi ha visto, fatto esperienza di così tanto.

In definitiva devo dire che Giuseppe ha quel “qualcosa in più” che non puoi comprare, e nemmeno imparare a scuola. Un insieme di carattere ed esperienza.

Parlando di Giuseppe, poi, mi voglio allargare al contesto del Distretto. Alcuni nomi storici che rappresentano l’origine e la storia di questa che viene definita la “Medical valley” - diventata nel tempo così attraente anche per i Gruppi internazionali - sono persone con cui Giuseppe ha lavorato e dialogato. È fondamentale che ci ricordiamo che in questo territorio c’è ancora il nucleo della “ricerca e sviluppo”, nonché tutto l’indotto specializzato. Nella nostra zona ci sono tante importanti specializzazioni ed è importante per Mirandola mantenere vivo questo know-how e questo legame con il suo percorso, con la sua storia.

Rispetto al Distretto biomedicale lei oggi ha qualche riflessione da offrire?

Posso dire che non sono mai stato partecipe, e ho pagato tanto le conseguenze del mio atteggiamento. Perché sono autonomo: rispetto alla politica, ai sindacati, a Confindustria, allo stesso Distretto biomedicale.

Per quanto riguarda la politica voglio fare un’eccezione per Palma Costi, che per me non è una donna che fa politica come si intende oggi ma semplicemente una persona attenta, capace di vedere il territorio e quindi sempre tesa a intervenire in maniera propositiva.

Se penso, invece, ai sindacati... A tal proposito faccio sempre questo ragionamento, che purtroppo rischia di non essere compreso: «A casa mia ci guardo io, le cose le faccio come dico io, come credo che sia bene per me, per i miei interessi di imprenditore, e quindi per l›azienda. E quindi per i lavoratori, che fanno parte sempre, sempre del mio ragionamento di imprenditore!».

Mi chiedeva una riflessione sul medicale oggi a Mirandola. Io ho sempre visto nella mia attività il bicchiere mezzo pieno e mai, per principio, mezzo vuoto. Anche nei momenti difficili ho sempre detto «il medicale a Mirandola non morirà mai». Certo credo dovrà subire parecchie evoluzioni, come per esempio uscite di aziende molto importanti che si trasferiranno in altri territori. Dal mio punto di vista, oggi Mirandola deve puntare ad avere una buona ricerca e sviluppo, una 37

buona preparazione sugli aspetti dell’elettronica, della plastica (vista come studio e progetto del prodotto).

Ben vengano quindi le idee di Andrea, che pensa che il suo mondo non sia semplicemente Mirandola, che vede l’Italia come opportunità per il mercato del prodotto finito per le aziende ospedaliere. Ma che, per esempio, non vede il servizio alle multinazionali come elemento predominante (cosa su cui io, invece, avevo puntato molto). Si tratta di un’evoluzione che, piaccia o non piaccia, è aderente alla realtà. Giustamente un ragazzo di 30 anni come Andrea vede più lontano; e questo - lo dico con soddisfazione - significa che in questi anni si è formato, si è preparato, è cresciuto, ha osservato, ha saputo vedere e immaginare oltre... E forse in questo modo si potrà creare continuità e futuro.

In fondo, forse, una volta era più facile: c’è stata una fase in cui tutto era in espansione. Sembrava esserci un mercato più aperto e disponibile, ora all’inizio di un anno lavoriamo per il biennio successivo. Io, invece, ho sempre guardato al giorno dopo, alla settimana dopo, e non ho mai pianificato nulla. Oggi Andrea e i ragazzi non seguono, per così dire, l’istinto come facevo io, ma pianificano continuamente. Ed è giusto così! Io ho creato la mia azienda, il mio percorso, sulla base di intuizioni. Le cose nascevano non come frutto di analisi, strategie, pianificazioni. Posso dire francamente che navigavo sempre a vista nel corso dell’anno.

Oggi tutto l’anno è perfettamente pianificato. Ed è molto meglio così, secondo me: deve essere così. Che a me piaccia no, deve essere così.

A me piaceva fare il solista avventuriero. Scoprire di giorno in giorno: qualsiasi cosa si facesse e si introducesse in azienda la mattina era per me innovazione aziendale. Ma far diventare queste idee un processo, una procedura non era immediato. La cosa si basava molto sulla fiducia tra le persone. Ho sempre avuto alcuni collaboratori di fiducia intorno a me, che erano fondamentali, mentre con tanti altri non avevo un rapporto stretto e di affidamento. Andrea è più severo: assegna l’incarico a una persona, e se quella non lo porta avanti diventa molto duro. Questa è una modalità nuova, sua personale, decisamente da manager.

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CAPITOLO 3

Il terremoto del 2012

È necessario a questo punto affrontare un momento delicato, drammatico e temporalmente ancora molto vicino ad HMC come a tutto il territorio del Distretto biomedicale...

Proprio così. Un vero dramma di fronte al quale ci siamo trovati tutti almeno per qualche momento impotenti. Il 20 maggio del 2012 arriva, senza alcun preavviso, il terremoto. Il 20, alla mattina, eravamo già in fabbrica e lì abbiamo trovato soffitti rotti, presse di stampaggio rovesciate a terra. Ci siamo subito messi all’opera per pulire, riordinare, sistemare, controllare ovunque, e ci siamo fermati soltanto quando era già sera, verso le 9, dopo una giornata infinita, con la terra che continuava a tremare, naturalmente. E con un unico obiettivo: provare l’indomani a riattivare la produzione.

In quel momento si sarebbe potuto decidere di chiudere tutto e andarsene via, prendendosi i soldi dell’assicurazione. Invece, dopo avere pianto tanto, senza mai dare a vedere agli altri la propria fatica, si è mossa dentro una determinazione forte di continuare, di crescere, di ricominciare. Due giorni dopo siamo ripartiti con la volontà di andare (mio figlio da una parte, io dall’altra) dentro l’area bianca per dimostrare ai dipendenti che c’eravamo anche noi, lì, con tutti, come tutti. Devo dire che anche i collaboratori più stretti erano presenti. Siamo andati con i Vigili del fuoco nei fabbricati per prendere fuori la merce da spedire ai clienti. Tutta la famiglia Bisi credo abbia dimostrato al mondo dei dipendenti HMC, che la volontà di andare avanti era univoca e senza riserve, e che noi Bisi eravamo lì, in prima linea. I tecnici videro la possibilità di fare determinati interventi. Si partì.

Purtroppo, però, non era finita lì: il 29 arrivò la seconda grande scossa. Un colpo impossibile da descrivere nella sua pesantezza, e per ciò che ha significato per tutto il territorio. Anche qui non ci sono stati dubbi. Un momento di riflessione e poi la decisione di andare avanti. Penso che il capolavoro di HMC in questo caso 39

sia consistito nella scelta di spostarci, lontani dall’epicentro ma comunque il più possibile vicini alla nostra vita di tutti i giorni. Abbiamo infatti individuato senza indugiare troppo un fabbricato a Rubiera (a circa 50 km da Mirandola). Fabbricato che aveva una caratteristica fondamentale: era perfetto per realizzare in tempi brevi una camera bianca. Non ho guardato il prezzo, devo essere sincero; piuttosto, che si potesse procedere con tempi rapidi. Infatti il 14 giugno si fece il contratto e si prese in affitto il fabbricato. Abbiamo organizzato tutto insieme alle persone storiche di HMC e penso proprio che siamo stati bravi, se pensiamo che all’inizio di agosto avevamo la camera bianca pronta: 1.500 metri per ricominciare con estrusione, stampaggio eassemblaggio. Sono convinto che sia stata una bella prova della nostra determinazione; e quando dico nostra intendo della famiglia Bisi e di tutti i dipendenti che ci hanno seguiti.

Il 7 di giugno abbiamo convocato un’assemblea con i dipendenti dicendo più o meno così: «La famiglia Bisi ha deciso di andare avanti. Oggi siamo davanti a un bivio. Noi ci mettiamo tutto: l’impegno mentale, l’impegno economico, la voglia di fare. Da parte di ciascun lavoratore chiediamo di metterci tutta la professionalità e la disponibilità a spostarsi, perché andremo per un periodo a lavorare a Rubiera. Questo significa un ulteriore impegno per tutti, perché per essere là alle 6 di mattina occorre partire da Mirandola alle 5, insieme, con un pulmino. Inoltre vi dico che dovremo lavorare anche sabato e domenica, assumendo le persone che mancano per i turni». Un messaggio impegnativo, visto peraltro che ciascuno qui stava vivendo un suo dramma personale.

Pensi che, per fare un esempio, il 15 di agosto si lavorò. Io ero lì a portare i pasticcini a tutti, sui 3 turni della mattina, del pomeriggio e della notte, per festeggiare che avevamo ricominciato finalmente l’attività produttiva e che c’eravamo tutti, a offrire ciascuno il proprio contributo. A Cavezzo intanto avevamo trovato uno stabile in cui organizzare la logistica di consegna e di spedizione. Insomma: diciamo che in quel mese e mezzo abbiamo sofferto tanto, dato tanto nelle scelte e nell’operatività di tutti, ma in realtà pensato davvero poco a quello che ci era accaduto, dal momento che dovevamo affrontare la situazione e pensare ad una strategia che ci consentisse di gettare le basi per un buon futuro.

Quando siete tornati a Mirandola? E in base a quali criteri avete scelto la nuova collocazione? Inoltre: come sono andate le cose nell’immediato, in un momento che comunque continuava ad essere impegnativo per l’intero tessuto economico e quindi anche per il Distretto del biomedicale?

Abbiamo lasciato la situazione provvisoria di Rubiera a fine 2013, trasferendoci finalmente nei fabbricati appena ricostruiti di via Volta a Mirandola. Si trattava 40

dell’ex stabilimento dell’acquisita Macosta. Nel febbraio 2013 avevamo nel frattempo acquistato gli stabili adiacenti. Questo per due motivi: i proprietari non avevano intenzione di ricostruire e noi con questa ulteriore porzione di stabile e di terreno potevamo sfruttare appieno l’intera area della ricostruzione. A luglio 2013 abbiamo abbattuto tutti i fabbricati. In seguito abbiamo ricostruito 7.500 metri di azienda nuova in prefabbricato, con un magazzino materie prime, una struttura per gli impianti tecnologici, 2.500 metri di area bianca, 600 metri di officina meccanica e circa 1.000 metri di uffici.

La scelta della nuova collocazione, di quella che possiamo chiamare la “nuova HMC” del dopo terremoto, è legata all’operazione di acquisizione di Macosta.

Quando l’abbiamo acquistata, infatti, l’azienda era collocata in un fabbricato in parte in affitto e in parte di proprietà. A sua volta a fianco di altri fabbricati di proprietà di altri. Possiamo dire che, su 7.000 metri di azienda, Macosta era proprietaria della maggior parte, circa 5.000 metri. Noi abbiamo acquistato anche gli altri fabbricati, a luglio 2013, per poi cominciare il cantiere ad agosto e lanciare i lavori di quello che sarebbe diventato il nuovo stabilimento. Grandi investimenti per i quali ci ha affiancati in primis la Banca Popolare dell’Emilia. Ma devo dire che anche le altre banche ci hanno seguito molto bene. E sicuramente sono state tutte meglio dello Stato italiano, o della Regione!

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Da parte nostra grande determinazione, come sempre. In agosto 2013 posso dire che il cantiere era agli inizi e alla fine dell’anno eravamo pronti a mettere le macchine dentro. Non c’è stato un momento di sosta, per rifare tutto lo stabile, come anche per rifare l’altro magazzino. Io dico che c’è stato un notevole impegno e una serietà notevole da parte di chi ha lavorato per noi, delle aziende esterne, che ci hanno dato un grande aiuto. Il loro apporto è stato veramente importante.

Purtroppo alcune aziende legate ai prodotti di Macosta se ne erano andate a causa del terremoto. Si trattava quindi di clienti perduti: un duro colpo anche questo, quantificabile in circa 3 milioni di fatturato in meno per una non conferma degli ordini.

Il mio impegno è stato grande nel tentare di non creare situazioni difficili o drammi nella vita dei dipendenti. Ho cercato di tenerli tutti qui, visto peraltro il grande impegno che ciascuno aveva messo nel lungo periodo in cui ci eravamo spostati lontano da casa. Penso di avere guardato ad un aspetto umano per me molto importante. Poi abbiamo chiesto sempre impegno, naturalmente. Ma il dramma sarebbe stato quello di dover lasciare a casa delle persone, e son ben contento di poter dire che siamo riusciti a evitarlo. Abbiamo studiato il modo di ridurre le spese, riducendoci noi stessi gli stipendi (mio figlio Andrea e mio nipote Massimiliano per primi). Ognuno, per circa un anno, ha fatto la sua parte di sacrifici per ridurre i costi dal momento che la mancanza di fatturato significava problemi evidenti. D’altra parte se fossi andato dalle banche - con tutto quello che avevo già chiesto per la ricostruzione - a dire che non stavo guadagnando non l’avrebbero di certo presa bene!

Abbiamo perciò messo in condizione l’azienda di alleggerirsi, in qualche misura.

Il bilancio 2014, dopo aver guadagnato oltre 1,5 milioni nel 2013, chiuse quasi in pareggio con un meno 100.000 euro. Però avendo mantenuto fede ai rimborsi di 1 milione all’anno per il leasing, gli ammortamenti, i finanziamenti. Abbiamo mantenuto una politica molto rigorosa e premiante, e oggi so che se ce ne dovesse essere bisogno si potrebbe, per così dire, “tirare la cinghia” contando su una risposta interna positiva e collaborativa. È stata anche questa una bella evoluzione nel modo di interpretare l’HMC. Se potesse tornare indietro rifarebbe le stesse scelte fatte nell’immediato post-terremoto?

Si poteva fare meglio? Sicuramente si poteva fare meglio.

Si poteva spendere meno? È possibile.

Si poteva fare peggio? Certo!

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Ogni tanto sento voci che dicono: «Se avessimo a suo tempo fatto questo, se non avessimo scelto quello...».

In realtà quando si affrontano situazioni come quella del dopo terremoto del 2012 accade che “un uomo solo al comando” debba decidere, e lo debba fare in fretta. Io, insieme ai miei, ho scelto di andare avanti in questo modo. Non sarebbe stato sbagliato aspettare un anno in più. Però in quel momento sentivo forte la volontà di dimostrare ai dipendenti che i sacrifici che stavano facendo sarebbero stati limitati nel tempo. E, francamente, lo considero un punto di orgoglio.

Forse, stando a Rubiera un anno in più, avremmo potuto fare ancora meglio, ma chiedere un anno in più di sacrifici a tutti mi sembrava troppo.

Se ci si pensa: magari ci sono le strade gelate o la nebbia, e alla mattina alle 4 c’è da alzarsi per andare lontano a lavorare. Poi, quando sei alle 2 del pomeriggio, finisce il tuo turno. Parti per tornare a casa, arrivi alle 3 e mezzo e magari alle 4 inizia a far buio, e hai la famiglia da gestire, le cose di casa da seguire; e poi devi andare a letto presto perché l’indomani ti dovrai alzare molto prima dell’alba...

Io queste cose le pensavo, pensieri di questo tipo sono entrati nelle mie valutazioni. Devo del resto dire che, in questo momento, so che almeno l’80% dei lavoratori di HMC sono riconoscenti per ciò che abbiamo fatto. Ne sono convinto.

Quando convocai la riunione con i dipendenti, all’indomani della seconda scossa di terremoto, alcune persone hanno pianto; qualcuno mi ha detto cose del tipo «Speriamo che nostro Signore ci lasci la salute». Non si sono però tirati indietro: hanno dato tutto quello che potevano dare. Chi aveva un lutto in casa, chi aveva problemi con la famiglia, chi viveva fuori casa, chi aveva la famiglia lontana, per questioni di traumi o di paure. Beh: la cosa importante che penso anche adesso, a distanza di qualche anno, e che ho sempre pensato, è che in quel contesto difficile e precario anche psicologicamente, nessuno ha mai perso lo stipendio.

Mai. Anche con l’aiuto delle banche i dipendenti non hanno mai perso un euro.

Il “magone” c’era ma il sacrificio è stato mediamente inteso come il minore dei mali. Poi, come dicevo, il 20% dei dipendenti forse ha pensato che sarebbe stato meglio andare in cassa integrazione per poi mettersi a vedere cosa sarebbe accaduto. Ma questo fa parte del gioco: non si può pensarla tutti allo stesso modo e nemmeno pretendere di essere compresi da tutti.

Ora mi piace sottolineare che l’esperienza degli ultimi anni è stata di una gestione differente e volta al rinnovamento, rispetto a quella che è la mia formazione mentale. Devo del resto dire che sono cambiati certamente i tempi, ma anche il contesto. Mi sono trovato a un certo punto a parlare di centinaia di migliaia di euro 43

con la disinvoltura con cui all’inizio avrei parlato di qualche centinaio di euro. In effetti c’è stato un momento, tra il 2014 e il 2015 che, valutati gli impegni - che erano dell’ordine dei 700 mila euro al mese tra mutui, leasing, ammortamenti - ogni tanto mi mettevo in ufficio e mi prendeva un certo nodo alla gola. Vede?

Il dubbio nella scelta delle acquisizioni non l’ho mai avuto. Confesso però che nell’impegno finanziario messo in campo per la nuova struttura ogni tanto mi ha tormentato la domanda «che cosa stai facendo?». Credo sia, del resto, una cosa normale, un fatto del tutto umano.

Intermezzo.

Parlando con Andrea Bisi - 1 Come hai vissuto l’evento del terremoto e tutto ciò che ne è seguito?

Il terremoto del 2012 sicuramente è l’evento che ha unito tutti e che ci ha atterriti tutti. Vissuto tra l’altro come se non fosse così drammatico, perché fin da subito ci siamo proiettati in avanti, pensando a come fare per ricominciare a produrre. Quindi con quell’obiettivo in testa direi quasi che l’emotività è passata in secondo piano.

Tutti pesantemente scossi, certamente. Sebbene la seconda scossa sia stato un colpo terribile ho percepito in noi la forza, la grande voglia di andare avanti. E questo per gran parte grazie a mio padre e alla sua voglia di fare, sempre e in ogni situazione. Alla sua determinazione nel voler sempre vedere il famoso «bicchiere mezzo pieno». Il 99% lo ha dato lui, in termini di supporto e di chiarezza di obiettivi.

Soprattutto dopo la seconda, terribile scossa del 29 maggio ci siamo guardati in faccia con un notevole smarrimento. Sia per come si era ridotta l’azienda, sia perché non sapevamo, non potevamo ovviamente sapere, se poi ci sarebbe stata una terza e poi una quarta scossa... Lui ha immediatamente reagito. Il giorno dopo ci ha coinvolti nella sua decisione: «ci dobbiamo spostare subito da qua e andare a vedere dove continuare a lavorare. Vediamo dove e come». E questo ci ha consentito da subito di riuscire a trasmettere agli altri la serenità, potendo comunque contare sul fatto che nulla si sarebbe fermato, che saremmo andati avanti.

Come farlo, come realizzare questa sua idea? Il “come” mio padre lo considerava un dettaglio. La cosa importante era la decisione presa. Lui è fatto così: in ter-

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mini di piano d’azione poco pratico, ma riesce a dire subito che una certa via è quella da percorrere. E la sua convinzione è tale che riesce a trasmetterla a tutti.

Devo infatti dire che anche in questo caso siamo stati da subito tutti partecipi.

Mio padre ha saputo con prontezza convincere sé stesso e gli altri che avremmo potuto spostare tutto temporaneamente altrove. Ma se adesso ci si pensa bene, è facile capire che spostare una produzione, lavoratori compresi, non è cosa semplice.

Credo si tratti di carisma, o se si preferisce di capacità di leadership.

Per questo dicevo che il merito della decisione è stato suo. Poi ciascuno ha fatto la sua parte, chiaramente. Il merito finale direi che è stato proprio di tutti, perché ciascuno di noi ha fatto sacrifici difficili da descrivere. Ma la spinta è venuta da lui.

E se siamo qua oggi, sicuramente lo dobbiamo al fatto che lui ha fatto passare tutto in secondo piano, rispetto all’obiettivo prioritario di spostarsi subito. Con il senno di poi avremmo potuto attendere, o percorrere mille vie differenti. Ma abbiamo fatto così, seguendo il suo modo e la sua istintività, che ha dato spinta e motivazione a tutti noi.

Tengo a sottolineare che quanto sto dicendo è secondo me importante che resti scritto, che resti nella memoria, perché si tratta di una pagina fondamentale della nostra storia. In un evento così terribile lui ha saputo usare la sua filosofia di vita, la sua capacità di vedere sempre la parte mezza piena del bicchiere. E, vedendo lui, soprattutto in quei durissimi momenti, credo proprio di avere imparato a dire «si può fare»!

Poi, devo dire, da lui ho appreso il rispetto. Rispettare i principi fondamentali, come quello della lealtà. La sua etica del «vai avanti con le tue idee e non badare troppo a quello che dicono gli altri. Porta avanti i tuoi valori e non farti condizionare». Insomma: non essere solo apparenza, coltivare una personalità che ti consenta di andare avanti per la tua strada, nei momenti facili come in quelli di grande difficoltà.

Parliamo un momento della Serbia, e di quanto la scelta di questa collocazione abbia significato, per esempio, nella fase post-sisma?

Una cosa che ci tengo in effetti a spiegare. Nel 2010 avevamo iniziato in Serbia una piccola attività di assemblaggio di semilavorati. Avevamo poi creato una piccola realtà che, appunto, si è rivelata particolarmente utile nella fase del post-terremoto 2012, grazie anche al fatto che alcuni nostri dipendenti si sono spostati là 45

per parecchie settimane consentendoci di trasferire diverse lavorazioni.

In quel frangente si prese la palla al balzo per affittare un fabbricato, smontare una camera bianca che avevamo a Mirandola e che era stata lesionata, e spostare una parte dello stampaggio in Serbia. In un mese e mezzo l’abbiamo montata; e pensi che a fine 2013, in Serbia, stavamo già stampando con 7 presse e c’erano già 2 estrusori. In Italia ci siamo concentrati sugli stampi delle multinazionali che non potevano andare in Serbia. Mentre la nostra produzione, quella che vendevamo noi direttamente, potevamo spostarla. Avere questo appoggio ha significato per noi una grande risorsa, un aiuto, un vantaggio. Nel frattempo 2 nostri dipendenti si sono trasferiti là e hanno deciso di vivere stabilmente da quelle parti.

L’insediamento in Serbia è qualcosa che indubbiamente ci è costato tanto, nel corso degli anni. Ma oggi è una struttura interessante, che lavora bene. La situazione va indubbiamente analizzata con grande attenzione, dal momento che si tratta di una realtà extracomunitaria, che presenta costi interessanti e competitivi.

Poco fa mi parlava del grande calo di fatturato legato alla dipartita di alcune aziende, sempre a causa del terremoto?

La parte più triste e negativa si è verificata nel 2014: non è stato così nemmeno il terremoto, per certi versi. Nel caso del terremoto, una volta preso atto di quanto era accaduto, la voglia di andare avanti, di continuare il percorso, di crescere ci è bastata per compiere i primi passi e ripartire. Ma questa brutta novità dei clienti che se ne erano andati non l’avevamo proprio prevista, e non è stato facile fronteggiarla. La volontà e il carattere sono ancora una volta venuti fuori, nel cercare di trovare mercati, fatturati, prodotti alternativi. Anche questa credo sia stata una bella dimostrazione del carattere della famiglia Bisi nel suo insieme!

Questa impasse aveva allarmato anche le banche, e io ho lavorato molto nel dialogo, cercando di dire sempre - e ripeto sempre - la verità. Dimostrare certo che il bicchiere è mezzo pieno, ma sempre riportando la verità. Devo dire che ho cominciato in quell’occasione ad avere un controllo e un rapporto degli aspetti di finanza così diretto. Il che ha significato, anche in questo caso, un ulteriore scatto di crescita.

Nel frattempo in HMC si stava lavorando assiduamente per recuperare il fatturato perduto e così si è cominciato a vedere nel 2015 il ritorno di multinazionali e grosse aziende, e abbiamo valutato alternative, cercando anche di andare a pescare non solo nel medicale ma anche nel farmaceutico.

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Abbiamo lavorato bene, trovando dei progetti che abbiamo cominciato a studiare. Questo ci ha permesso di ottenere un po’ di fiducia e al contempo un po’ di crescita, ma soprattutto si è dimostrato che il nostro investimento era apprezzato.

Il lavoro che abbiamo fatto, l’azienda HMC di oggi, è all’avanguardia ed è un piccolo-grande gioiello che stupisce sempre i nostri ospiti e visitatori per la sua modernità. Del resto occorre ammettere che la fortuna serve sempre: nel 201516 l’intervento di Mario Draghi ci ha consentito un abbassamento importante dei tassi che ci ha portati ad un ritorno economico elevato, intorno al 30-40%! E questo ci ha fatto proprio comodo...

Intermezzo.

Parlando con Massimiliano Bisi - 2 Alle origini di HMC, nel periodo di Pasqua del 2001, Giuseppe ed io andammo a Ryiad, la capitale dell’Arabia saudita, con un caldo incredibile, per incontrare un signore che avevo conosciuto l’anno precedente. Avevo detto a Giuseppe: «Mi pare di intravvedere delle opportunità. Che ne dici se andiamo a incontrarlo?».

Mi ricordo molto bene la scena di quell’incontro. Eravamo in una stanza, c’era ancora il fax con la carta chimica, allora. Dopo che ci siamo presentati e che abbiamo parlato un po’, il nostro interlocutore prende il foglio di un ordine dal fax, corregge a penna sostituendo “HMC” al nome della ditta che c’era stampato, e invia il fax davanti ai nostri occhi. Fu un ordine importante, all’estero, che ricordiamo bene!

Ora ti spiego perché ho raccontato questo episodio. Il 30 maggio del 2012 - il giorno dopo la seconda pesante scossa di terremoto - Giuseppe, Andrea ed io eravamo in via Morandi (a San Giacomo Roncole) davanti al capannone. Giuseppe, nel fuggi-fuggi del giorno prima, aveva preso una grossa botta al ginocchio, che era gonfio, e per questo motivo zoppicava. È innegabile: c’era un certo smarrimento nell’aria. E io, dentro di me, pensavo: «non dobbiamo mollare; vediamo cosa succede nei prossimi giorni».

Entriamo in azienda per prenderci un caffè, visto che quella parte della palazzina era stata dichiarata agibile. Per necessità pratiche dovute alla situazione d’emergenza avevamo in quei giorni ricollegato alla linea e rimesso in funzione il vecchio fax con la sua carta chimica.

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Ci beviamo insieme un caffè, e mentre stiamo per uscire, passando davanti al bancone vuoto della reception, vediamo che ci è da poco arrivato un fax. E chi ne era il mittente? Il nostro vecchio cliente saudita che ci mandava un ordine da 130.000 euro circa. Io sinceramente l’ho visto come un segnale positivo e un invito ad andare avanti: eravamo partiti da lì nel 2001 con quel cliente, Giuseppe ed io. Ora, nella situazione disperata in cui ci trovavamo, eravamo di nuovo lì, e a noi si era aggiunto Andrea.

Presi il foglio del fax e dissi con convinzione: «È un segno!».

Lo pensavo e tutt’ora lo penso sul serio...

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CAPITOLO 4

Indietro nel tempo

Le chiedo un piccolo sforzo. Andiamo indietro nel tempo. Il suo primo ricordo, da bambino...

Sono nato in via Ugo Sbrilanci, in centro a Carpi. Il mio primo ricordo è questo: mia mamma che lavorava con la macchina per cucire e io che ero lì con lei. Poi si mescolano tanti ricordi all’interno di quella situazione. Io, piccolino, che metto il dito del piede sotto all’ago della macchina per cucire e poi mi portano al pronto soccorso per farmelo sfilare.

Ma soprattutto ricordo che vivevamo in uno spazio piccolo, con questi lettoni alti, come si faceva una volta. Io ero appoggiato sul letto e mia mamma veniva ogni tanto a guardarmi, a controllare che tutto andasse bene, mentre lei lavorava. Faceva la sarta in casa, la camiciaia. Sì: il primo ricordo che mi viene in mente è quello di mia mamma che lavora alla macchina per cucire, con questi letti alti.

L’altro ricordo importante che mi viene alla mente - ma avevo già 4 o 5 anni - è legato al fatto che, essendo i miei genitori separati, io passavo qualche periodo con mio padre.

Devo dire che in quella situazione c’era per me il grande piacere di stare, di parlare con un uomo, con mio padre. Non con la mamma (niente da dire: come dice l’adagio “la mamma è sempre la mamma”, non c’è dubbio) ma con un uomo. Questi sono i miei primi ricordi...

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Andando poi avanti con i ricordi mi viene in mente la vita di mia mamma. La vita di tutti i giorni, non le occasioni speciali ma la casa, il cucire, il prendersi cura dei suoi figli, ovvero di me e dei miei due fratelli. Quando io ero piccolo lei aveva già mio fratello più vecchio da crescere. Son questi i ricordi che mi vengono alla mente, così, senza pensarci troppo.

Io poi devo dire che ho passato gran parte della mia infanzia in campagna dai nonni e dagli zii, dove sono stato ospitato e accudito a lungo perché mia mamma aveva a un certo punto trovato un posto di lavoro e andava a Lesignano in tintoria.

C’era allora la figura del “nonno padrone”, che comandava per davvero su tutta la numerosa “famiglia patriarcale”. Allora si decideva che il primo pezzo di carne (o il prosciutto magro) andava al nonno. A quel punto sa mio nonno cosa diceva?

Diceva così: «No. Prima cal ragazol chè, che chi lò al g’ha ad bisogn ad cresàr. Pò a me. E quel c’avansa a ‘uèter». È una frase storica, che mi piace proprio ricordare!

Io ero il ragazzo di mezzo, ma l’altro mio fratello più vecchio era stato messo in collegio molto presto, al San Filippo Neri a Modena. Mio zio faceva il mediatore

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poi si era messo a vendere forni e a un certo punto ha avuto grossi problemi economici. In generale ho visto certe situazioni difficili, nella mia famiglia, sapesse...

La miseria, le difficoltà, la fatica di guadagnarsi da vivere credo che siano stati insegnamenti importanti.

Adesso punto sempre al fatto che né i miei figli, né le persone che lavorano con me abbiano mai a vivere situazioni del genere. Però devo dire che son state importanti prove di vita: mia mamma partiva al mattino alle 4 e rientrava a casa alle 8 di sera, perché faceva 10 o 12 ore in tintoria, e alla sera doveva fare l’autostop per tornare a casa, perché le facevano fare gli straordinari, e le corriere non c’erano più. A volte arrivava a casa che si era presa di quelle paure, perché non sempre trovava passaggi in auto da parte di persone oneste e corrette. Poi, una volta arrivata a casa dopo una giornata del genere, doveva preparare la cena, lavarci, e in generale fare tutto quello che una mamma ha da fare per i figli e per la casa.

Una situazione davvero impegnativa. Se penso ai sacrifici che mia madre ha fatto per me e per noi fratelli. Se penso poi ai dispiaceri che le ho dato con la scuola: purtroppo le toccava spesso di dover leggere lunghi messaggi a lei indirizzati dal mio maestro. Ora me ne ricordo uno breve che le scrisse una volta: «Mi sono permesso di dare a suo figlio 4 scapaccioni». Lei rispose senza pensarci troppo: «Ha fatto proprio bene!».

Ma cosa faceva di così terribile a scuola?

Che so: mi alzavo dalla sedia, in classe, senza aver chiesto il permesso, mi prendevo su e andavo a parlare con un mio amico, e magari gli dicevo: «Ma te hai capito cos’ha detto il maestro?».

Aggiungo che per me i compiti e lo studio non esistevano. Per me i compiti al pomeriggio erano questi: bel tempo, essere alla Lama (il canale di Carpi) e farmi un bel bagno di nascosto.

Avendo previdentemente rubato in un banco del mercato un paio di mutande grigie che tenevo ben nascoste sotto terra, così da poter fare il bagno con quelle, e da non dover bagnare le mutande che avevo indosso. Se ci penso: 51

ho tenuto nascoste delle mutande per un paio d’anni per poter fare il bagno senza mai essere scoperto: nessuno lo ha mai saputo! E mia madre, poveretta, alla sera mi chiedeva se avevo studiato; e io naturalmente dicevo di sì. Mentre in realtà mi inventavo ogni giorno qualcosa proprio per non studiare.

Insomma: se devo essere sincero, non mi piaceva stare in classe, non mi piaceva la scuola, non mi piaceva nemmeno lo studio; e non riuscivo a stare fermo. Me lo ricordo bene il mio percorso scolastico, la fatica che facevo. Poi, certo, mi sono pentito e ancora oggi mi dispiace che sia andata così. Pochi anni dopo ho recuperato, prendendomi la licenza di terza media, con le scuole serali. Ma è stato un sacrificio grande.

Posso dire che oggi sicuramente andrei a scuola. Mi piacerebbe apprendere ciò che non ho appreso, ma la mia vita si sta accorciando e ho tante cose belle da vedere. La vita ora la vorrei dedicare a gustare con gli occhi, più che all’uso della parola, del pensiero, dei progetti. Visitare l’Italia con un po’ di calma.

Leggo libri, leggeri intendiamoci. I gialli soprattutto: ne avrò, che so, una ventina nel cassetto e, quando vado in vacanza, un paio d’ore al giorno le dedico alla lettura. Anche a casa leggo un’oretta quando vado a casa a fine pomeriggio.

Ogni tanto decido di leggere qualche libro più impegnativo... ma poi mi metto a discutere con l’autore, e succede che poi non vado avanti. I gialli, invece, quelli sì li leggo sempre volentieri. I gialli italiani come i classici stranieri.

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Da bambino cosa sognava di fare?

Il rappresentante. Giocavo a fare il rappresentante, in casa. Mettevo in fila due sedie per terra, che per me rappresentavano la mia auto. Nella parte posteriore della mia macchina immaginaria mettevo i bagagli e davanti mi mettevo io, alla guida. Poi scendevo dall’auto, andavo dal compratore immaginario, e gli dicevo: «Firma che ti ho consegnato». Era un gioco che facevo spesso, ispirato a quello che vedevo, e mi piaceva passare il tempo così.

Facciamo un salto in avanti. Quando era un ragazzo maturo, iniziato a lavorare, cosa faceva con gli amici? Come passavate il vostro tempo, oltre al lavoro?

Devo essere sincero: io sono sempre stato un grande amante delle trattorie. E sottolineo trattorie, ancor più che ristoranti. Il sabato sera ci piaceva prenotare nelle trattorie sul parmense, nel mantovano, in Veneto. E passavamo in questo modo piacevoli serate in compagnia, tranquilli. Si andava a mangiare insieme, si beveva un po’ e si faceva una camminata prima di mettersi in macchina. Poi, naturalmente, ci scappava di tanto in tanto di andare a far qualche piccolo “danno”, qualche scherzo o qualche bravata qua e là. Magari con la Bianchina del nostro amico Fabrizio, o con la Vespa!

Come quella volta che - alla terza volta a distanza di poco tempo andiamo nei campi vicino a Fossoli a rubare un po’ di cocomeri per farci una risata e mangiarceli di nascosto insieme da qualche parte - mentre siamo nel bel mezzo del campo, con in mano ciascuno di noi un bel cocomero, si sente la voce del contadino che ci chiede “Ini madùri?”. “Sono mature?”, ci chiedeva... Che ridere.

Lì per lì non mi andò di mollare la “refurtiva”, e allora io mi misi a correre mentre lui partiva in auto, con lo sportello aperto, per inseguirmi. L’altro amico che era in vespina andava avanti, io gli correvo dietro, e il contadino dietro ancora in macchina, ad inseguirci per prenderci. “Fermati! Aspettami!”, gridavo al mio amico, mentre correvo veloce. Alla fine, per fortuna, il contadino si fermò, si arrese e ci lasciò andare. «Ini madùri?». Che risate! Quelle cose che si fanno da ragazzi, tra ragazzi; e che forse, in fondo, è importante aver fatto almeno una volta, per stare tra amici...

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Intermezzo.

Parlando con Andrea Bisi - 2 Il tuo primo ricordo di papà Giuseppe?

Lui amava cambiare spesso l’auto, e a questa domanda il primo ricordo che mi viene in mente è di quando scendevamo a vedere l’auto nuova di papà, entravamo e sentivamo il profumo dell’auto nuova. Non mi interessava, forse, la marca o le caratteristiche tecniche, ma questo profumo di nuovo che mi piaceva tanto.

Un altro ricordo indelebile è di quando mio padre veniva a prendere me, mia mamma e mio fratello in Sardegna. Ci portava a inizio luglio, poi noi restavamo lì, lui rientrava a casa per lavorare e poi ci veniva a riprendere a fine luglio; e a quel punto si faceva qualche giorno di vacanza tutti insieme. Una volta, nel 1994, mio padre doveva arrivare ma - è un fatto indimenticabile - gli rubarono l’auto proprio mentre era in partenza, carica di tutto (vestiti, soldi, documenti, compreso il sugo che mi faceva mia nonna perché sapeva che mi piaceva). Questo perché era passato in azienda e aveva lasciato l’auto con il motore acceso mentre era salito in ufficio per qualche minuto a fare non so cosa. Gli rubarono l’auto carica per le vacanze, davanti all’ufficio... E noi eravamo lì in Sardegna che lo aspettavamo!

Poi ricordo che mi portava sempre a casa le carte telefoniche, che io collezionavo.

Mi piaceva molto, questa cosa. Ricordo anche quando mi portava a scuola la mattina. Io andavo a scuola dalle suore e lui mi accompagnava.

Forse un primo ricordo, soltanto uno, non lo riesco a dire. Sono tanti che si mescolano.

Invece: il primo ricordo di Giuseppe Bisi imprenditore?

Ho visto mio padre imprenditore, per come lo intendo io, sicuramente nel 2008, quando ho vissuto in un qualche modo più da vicino la prima acquisizione, quella di Meditea. Lì ho potuto vedere e capire abbastanza cosa stava accadendo. Per l’acquisizione precedente - quella di Premedical del 2004 - ero ancora giovane, lavoravo solo d’estate. Certo lo vedevo muoversi con i suoi modi, percepivo, ma non capivo veramente. La prima vera comprensione è avvenuta per me con Meditea perché ci iniziavamo a rapportare a livello lavorativo e avevo compreso l’importanza, la grandezza di ciò che stava facendo.

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Ho sentito la sfida, la sua volontà di guardare avanti, al futuro; ed è riuscito a trasmettermi questa energia. Penso anche che poter a un certo punto condividere con me quello che stava facendo sia stato per lui importante. Perché un conto è fare da soli, un conto è poter condividere un successo, una gioia, un problema, un risultato, negativo o positivo che sia.

Poi ho un ricordo di Rpr, in Valtellina. Ero un ragazzo sui 10 anni. Mi ricordo di me che giocavo con una macchina da scrivere, per passarmi il tempo mentre aspettavo mio padre che era lì ovviamente per lavoro, in una saletta riunioni, che si fumava un sigaro. Era il suo modo per sfogarsi quando era arrabbiato con i suoi collaboratori: li convocava in riunione, chiudeva la porta e cominciava a fumare il sigaro. Ricordo bene la nuvola di fumo. I suoi collaboratori, anche a distanza di anni, mi hanno raccontato spesso questo aneddoto.

A casa, ben più rilassato, fumava qualche volta la pipa mentre si gustava uno dei suoi amati film western.

Mi ha raccontato suo figlio Andrea che lei è stato fumatore, ma che ora ha smesso.

Ho smesso e ricominciato a fumare sigarette, sigari e pipa per vent’anni! Succedeva che magari per un periodo di vita fumavo 40 sigarette al giorno. Poi, per il fatto che mi sentivo caricato per il lavoro, smettevo dall’oggi al domani per riuscire a sentirmi maggiormente concentrato. Le ripeto: ho fatto così per vent’anni.

Per sei o sette mesi, quando fumavo, lo facevo sul serio e ci davo dentro. Poi, magari, accadeva qualcosa di particolare, bella o brutta notizia che fosse, e allora sentivo l’esigenza di smettere per concentrarmi al meglio sul mio obiettivo. Così accadeva che riuscivo a stare anche 4 o 5 mesi senza fumare una sola sigaretta. Il sabato e la domenica, in genere, non fumavo mai: mi dedicavo alla famiglia e per me era un obbligo non fumare. Oppure fumavo la pipa o il sigaro. Le sigarette non le ho mai toccate in casa.

Poi, nel 1993, mi è venuto un attacco di labirintite e a quel punto ho deciso di smettere per sempre. Ho buttato via il pacchetto di sigarette e da allora non ho mai più fumato. Adesso, in effetti, ho i polmoni praticamente puliti. Praticamente, ho detto; non del tutto. Per questo motivo a tutti, ma in particolare ai ragazzi che leggono questo libro, raccomando una cosa: ricordatevi bene che il fumo resta nei polmoni oltre vent’anni.

Quello che ho fumato vent’anni fa ancora, almeno in parte, me lo porto nei polmoni. Fate attenzione e non prendetevi questo vizio!

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Le dico di più: quando lavoravo in Valtellina, in Rpr, mi chiamavano che io ero qui a Carpi. Ci voleva, allora, più tempo di quanto ce ne vuole oggi, per raggiungerli. A volte parecchie ore, vuoi per qualche frana, vuoi per maltempo. La strada non era così comoda com’è oggi. Quando andavo su per un’urgenza, e quindi in sostanza perché c’era qualcosa che non andava per il verso giusto, come penitenza chiamavo i 4 che per me erano i responsabili, e che mi pareva non volessero prendersi in quei casi delle responsabilità, non volessero prendere una decisione.

Li chiamavo in riunione, ci chiudevamo in un ufficio e poi facevamo una bella riunione a finestre e porte chiuse mentre io mi fumavo un paio di sigari toscani.

Era una specie di punizione. Mi serviva per aiutarli a maturare le idee. Pensavo che con quel metodo almeno un poco gli sarebbe passata la voglia di chiamarmi!

Intermezzo.

Parlando con Massimiliano Bisi - 3 Quando ho iniziato a lavorare con mio zio Giuseppe in maniera continuativa, organizziamo di andare in Sud America. C’è il fratello di mia nonna a Buenos Aires (lo zio di mio padre, e quindi anche di Giuseppe), una di quelle coraggiose persone che, a suo tempo, aveva preso la sua valigia di cartone e se ne era andato a tentare la fortuna nel settore tessile, intorno al ‘55. Andiamo là perché abbiamo un interlocutore, con cui tutt’ora lavoriamo. Io ero andato in un momento e Giuseppe in un altro, insieme a mia zia un paio di giorni a lavorare e un paio di giorni a visitare la città. Io un giorno lo chiamo e gli dico: «allora, Don Jorge, come va?”. Lui mi risponde: “Eh: io mi aspettavo un Giuseppe. Qui ne sono arrivati due!”.

Era in effetti il periodo in cui (siamo intorno agli anni 2000) gli avevano detto: «Bisi: lei deve cambiare regime alimentare». Fino a quel momento c’era stata una relazione, una proporzione diretta tra prestazioni lavorative e contatto con il cibo. Perché? Perché il momento migliore in cui potevi esprimerti a livello organizzativo, in cui venivano a galla le idee più importanti, anche di vita, era comunque a tavola. È accaduto non poche volte che si sia partiti per mangiare un panino al volo e poi si sia rimasti 3 ore a tavola, a mangiare, certamente, ma ancor più a confrontarsi, a parlare. Anche con Andrea, all’inizio, facevamo così: trovavamo una qualche trattoria fuori mano, poi magari il venerdì a pranzo

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smettevamo di lavorare, ci mettevamo a tavola a mangiare bene, tranquilli, e così accadeva che venissero fuori tanti spunti per la nostra attività.

Lo spaccato di Giuseppe è questo: fino a una certa età non dico sia stato un eterno ragazzo, perché è sempre stato una persona molto responsabile, consapevole di avere tanti dipendenti e sempre di riferimento per tutti. Però una sorta di Peter Pan, comunque: vado a letto alla sera, so quello che ho fatto bene, so quello che ho fatto male. Mi alzo l’indomani mattina e mi do da fare per correggere al meglio ciò che ho sbagliato. Perché per lui è sempre stata valida la regola del «bicchiere mezzo pieno».

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CAPITOLO 5

Relazioni importanti

Mi raccontava che lei va in chiesa, se ce la fa, tutti i giorni. Ho notato qui in ufficio le immagini di Papa Francesco, di Papa Giovanni XXIII...

Sono credente. Ho sempre avuto un rapporto positivo con la fede e con la Chiesa, che ho sempre frequentato. Poco, perché gli impegni di lavoro magari non mi consentivano di più. Ma diciamo che da una decina d’anni sono molto più presente in Chiesa. Quando posso ci vado a fare un salto; e poi vado in Chiesa la domenica con mia moglie. Se visitiamo una città non ce ne andiamo senza aver visto la cattedrale, le chiese, i vicini santuari. Mia moglie ancor più di me. Ha un gruppo di preghiera in cui pregano per chi ha bisogno. Ho assunto persone su parere di mia moglie anche in base a questi aspetti.

Credo c’entri, a proposito di fede, raccontare che durante il terremoto, quando alcuni lavoratori avevano perso la casa, ho preso dei mini appartamenti per loro.

E in generale posso dire che ho sempre cercato di dare una mano a chi aveva bisogno, magari prendendo a lavorare persone che non avevano esperienza ma necessità di lavorare. Sempre tenendo conto che la mia attività non è un’opera pia, intendiamoci. Perché se domani le cose non vanno bene ci rimettono, oltre a me, tutti i lavoratori. Però - siccome è un piacere e nella Chiesa vedo degli insegnamenti positivi e trovo qualcosa di buono, qualcosa di importante - provo a portare avanti queste semplici e importanti idee.

Intendiamoci: non è che sia preoccupato se la domenica salto la messa, però se posso vado, a volte anche durante la settimana. Poi, visto che oggi ho un po’ di tempo in più, un momento della giornata lo dedico a questo aspetto. Non è che lo faccia perché sono un bigotto che si sente in dovere. Semplicemente ci trovo qualcosa di positivo, e penso che si tratti di una sana abitudine.

Del resto, guardando anche solo al lato pratico, io, donando 2 euro tutte le 59

mattine per accendere le candele, lascio qualcosa. Penso che le sane, le buone abitudini siano importanti e vadano mantenute e coltivate. Qualche anno fa, alla sera, mentre rientravo a casa a fine giornata, mi fermavo al bar per prendermi l’aperitivo. Non è che facessi niente di male. Mi rilassavo. Però mi bevevo un bicchiere di vino tutte le sere. Non so, sinceramente, quanto fosse una sana abitudine. Invece una breve visita in chiesa e questa piccola offerta tutti i giorni, sono certo siano sane abitudini!

Ecco: io sono credente soprattutto perché credo nella volontà della gente di fare del bene. E non lo faccio, mi creda, per mettermi in mostra o per dimostrare qualcosa. Lo faccio perché per me è bello farlo. Entro, passo un po’ di tempo lì, e mi accorgo che mi fa bene. Tutto qua.

Io faccio così, più o meno tutti i giorni: vado al bar a prendermi il mio cappuccino d’orzo (perché poi il caffè lo prendo qui in azienda), poi vado a prendere il giornale, poi vado in chiesa un momento, e faccio la mia offerta. Poi, ogni tanto regalo una somma un po’ consistente - dal momento che mi sono affezionato alle Clarisse in centro a Carpi. Perché mi sembra giusto e bello così, perché trovo giusto e bello che ci siano. Adesso, per esempio, stanno sistemando in seguito al terremoto; e io dò loro una mano in questo senso. Alla Madre dico: «Penso proprio che voi sappiate spenderli meglio di me». Non dico per dire, sa? Lo penso davvero. Le suore di Carpi mi hanno anche scritto delle belle lettere di ringraziamento. Del resto, sinceramente e senza arroganza, penso di potermi permettere di dare qualcosa di più di altri. Tutto qui. E allora perché non farlo?

Intermezzo.

Parlando con Marinella Gavioli Come ha conosciuto il signor Giuseppe?

Tramite amici, poi con naturalezza abbiamo iniziato a frequentarci. Era una persona che mi trasmetteva sicurezza, e io avevo tanto bisogno di sicurezza, allora.

Non ero ancora arrivata alla fede, che sicuramente è un grande dono ed è frutto di un mio percorso di ricerca. Avevo bisogno di sicurezza anche perché provenivo da una famiglia in cui, devo essere sincera, si avvertiva molta insicurezza. E lui invece mi faceva stare bene.

Abbiamo iniziato a incontrarci, a frequentarci. Poi piano piano ci siamo conosciuti meglio... E poi ci siamo sposati.

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Ci può descrivere, dal suo punto di vista, la vita di suo marito imprenditore, lavoratore?

Io faccio di tutto per non mettermi in mostra, per non dimostrare che mio marito è un imprenditore. Mi piace stare in disparte.

Io e mio marito abbiamo fatto 2 vite molto indipendenti. Lui faceva tutte le sue attività e io le mie; tra queste organizzare la casa e crescere i figli. Io sono una grande organizzatrice: mi alzavo presto la mattina, andavo a scuola a fare il mio lavoro di maestra, venivo a casa e seguivo i compiti con i miei figli, tenevo in ordine la casa, andavo a fare la spesa. Mentre mio marito era sempre in giro.

Intendiamoci: io non gli ho mai rimproverato che ci fosse poco. Forse questo, per certi versi, ci ha anche aiutati a non vivere sempre e continuamente insieme.

Perché abbiamo due caratteri opposti, io e mio marito: io sono paziente, mentre lui si arrabbia subito; io sono ordinata e lui è disordinato; lui vorrebbe sempre fare, comprare, mentre io invece dico «no, stiamo tranquilli al nostro posto, non facciamo debiti». Poi, certamente, io mi sono adattata alle sue scelte. Ho uno spirito d’adattamento notevole.

Perché, vede? Abbiamo sempre rischiato, con la sua attività. Io, per farle capire come la vedo, le posso assicurare che avrei potuto andare in pensione con 20 anni di lavoro, negli anni ‘90. Lo sa perché ho deciso di non approfittare di questa opportunità? Perché mio marito tutti i giorni rimetteva tutto in discussione: cambiava attività, vendeva la ditta, iniziava di nuovo per conto suo. Da parte mia ho pensato: «Se i suoi affari non dovessero andare bene?». E allora mi sono detta: «Beh, con il mio lavoro da maestra io uno stipendio fisso ce l’ho. Se anche ci dovessero essere dei problemi con l’attività di mio marito almeno potrò permettermi di far studiare i miei figli». Vede? Sono molto prudente, forse troppo; molto diversa da mio marito nel modo di ragionare.

A questo punto le chiedo: le va di darmi un suo profilo di Giuseppe Bisi?

Mio marito è una persona che a un certo punto della vita - forse perché da bambino in famiglia non avevano niente, perché sua mamma è rimasta vedova presto con tre figli da crescere - ha voluto far qualcosa di importante, credo io...

Ma poi sa che in fondo non lo so perché ha fatto tutto questo? Forse è capitato e basta. Forse è semplicemente entrato, senza nemmeno volerlo, in un ingranaggio. E poi è riuscito ad emergere anche grazie al suo carattere. Mio marito è tenace, ha una volontà di ferro, non lo spaventa niente, è rassicurante in tutto.

Quindi credo che avesse le caratteristiche giuste per fare quello che ha fatto.

Poi le cose si sono susseguite una dopo l’altra. Io dico che è stata anche una be61

nedizione del Signore. Mi ricordo che voleva comprare una ditta in Valtellina.

E io ho anche pregato - sono cose che faccio - che il Signore lo aiutasse. Ma poi questo non è avvenuto. E ho pensato che il Signore forse pensava altre cose per lui. Poi, dopo molti anni, è riuscito ad avere un’azienda con pochi soldi. Io credo sia stato sempre protetto e benedetto, sa? Tra l’altro anche mio marito è credente, ed è molto generoso con la Chiesa. Io molto meno.

E nella Bibbia si legge che a chi è generoso il Signore apre «le cateratte del Cielo». È generoso, mio marito, ed è riconoscente al Signore.

Comunque, di certo avrà incontrato le persone giuste. Poi il suo carattere e la sua determinazione lo hanno aiutato a fare il resto. Forse anche la mia presenza, il fatto che non l’ho mai ostacolato nonostante non fossi d’accordo, lo ha aiutato.

Io non l’ostacolavo mai. Non gli ho mai detto di non fare qualcosa. Dentro di me magari avevo paura però non l’ho mai fermato in niente. Stavo in disparte, quasi nessuno mi conosceva, potrei dire, nelle varie ditte.

Il signor Giuseppe sostiene che, siccome per lui la famiglia è fondamentale, è riuscito a giocarsi in questo percorso imprenditoriale di tutto rilievo proprio grazie alla presenza di sua moglie che seguiva al meglio la famiglia. È così. Seguivo i nostri figli a scuola, parlavo con gli insegnanti, li gestivo a casa tutti i giorni. Poi, però, mio marito quando era a casa stava volentieri con i figli, faceva i compiti con loro, giocava con loro. Certo: ha passato dei lunghi periodi in cui era spesso via. Ma devo dire che per la famiglia ha sempre fatto tanto, è sempre stato molto disponibile.

Poi ribadisco che io e lui ci siamo sempre lasciati la massima libertà. Io andavo in vacanza con solo i miei figli, e anche adesso vado via anche per molti giorni da sola, senza di lui. Ci sono coppie di mie amiche che vanno sempre via con i mariti. Tra noi c’è sempre stata grande libertà e fiducia reciproca. Credo che questo concorra a un buon mantenimento del matrimonio. Io sono uno spirito libero, ho bisogno del mio spazio; il che, per me, significa anche rispetto.

Questo passaggio generazionale tra suo marito Giuseppe e suo figlio Andrea come lo vede?

In certi momenti mi mette un po’ di ansia. C’è un modo di pensare molto diverso tra mio marito e mio figlio. A volte penso che sono tempi molto diversi, anche la gente è molto diversa nel modo di lavorare: è stressata, non parla, non comunica.

Mio figlio delega, ma se le persone tra loro non parlano? Mio marito faceva 62

diversamente, si rapportava a voce, di persona, direttamente. Seguiva tutto di persona. E secondo me questo oggi manca. Non solo a mio figlio, intendiamoci, ma in generale.

Però mi sembra che Andrea ci stia mettendo tutta la sua buona volontà. Spero proprio che continui ad andare tutto bene. E non lo dico tanto per noi, che in fondo non abbiamo mai usufruito di questa situazione, e abbiamo sempre lavorato come fanno tutti. Ma per tutta la gente che ci lavora. Credo proprio che la cosa più importante sia questa: l’azienda deve andare bene per continuare a garantire il lavoro a tante persone.

Lei sa spiegare per quale motivo i vostri due figli, Andrea e Luca, abbiano optato per due scelte così differenti? Ha riflessioni al riguardo?

Luca e Andrea hanno caratteri completamente differenti. Luca ha il carattere giusto per fare il medico e il dipendente. Forse come me: io non avrei mai potuto non essere una dipendente. Sì: forse Luca assomiglia a me, e Andrea assomiglia a mio marito. Devo anche dire che Andrea, con i 5 anni e mezzo di differenza che ha con suo fratello, si è trovato ad avere l’età giusta per entrare in azienda in un momento diverso, di maggiore sviluppo. Poi i miei figli hanno fatto due percorsi 63

di studio differenti: Luca il liceo e Andrea un istituto tecnico. Non creda: Andrea era bravissimo a scuola, ma non gli piaceva studiare. Per lui era sufficiente ascoltare in classe. A me è dispiaciuto che Luca abbia scelto un’altra strada. Avrebbero magari potuto lavorare insieme, frequentarsi di più. Ma sono cose che non si possono cambiare. Non puoi cambiare il senso della vita degli altri.

Signor Giuseppe, le chiedo di parlarci del suo rapporto con sua moglie, con la sua famiglia.

Il lasciarmi fare in tutta libertà da parte di mia moglie Marinella in tutto questo percorso è stato fondamentale. È stata sicuramente la persona che più di tutte mi è stata vicina. Mi ha sempre dato estrema fiducia in tutto quello che decidevo di fare: potevo stare via anche 2 o 3 settimane, con la serenità che a casa c’era lei che pensava ai figli e alla famiglia senza farmi pesare nulla. Secondo me vuol dire tanto, perché aiuta ad affrontare tutto con la serenità necessaria.

Devo dire che nella vita ho fatto tanti, tanti sacrifici, e credo di avere sacrificato tanto la famiglia. Oggi me ne rendo conto ancor di più. Al mio fianco ho avuto sempre mia moglie, una grande donna. Che faceva la maestra e che al pomeriggio riusciva a seguire bene i figli. Senza di lei non avrei i figli che oggi ho. Li ha seguiti sempre al meglio, mettendoci tutte le sue energie. Poi, quando potevo, passavo tutto il mio tempo libero dal lavoro con la famiglia, questo è certo. Perché la famiglia è importante.

Mi viene in mente un episodio. Un anno - non mi scorderò mai - ero in Polonia, a Varsavia, nel giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre. Ero in hotel. Si stava in albergo perché nevicava pesantemente. Io ero seduto in un salotto, al caldo.

C’erano già gli addobbi di Natale, e luci e aria di festa, soprattutto in hotel. Si è presentata davanti al mio sguardo, al di là della vetrata, in strada, una mamma con due bambini imbacuccati. Da fuori guardavano l’interno dell’hotel, con uno sguardo che a me sembrava dire «guarda come stanno bene, lì dentro, mentre noi siamo qui al freddo». A me proprio sembrava di leggerglielo negli occhi.

Non ce l’ho fatta: sono uscito subito. Avevo una cifra come 50 dollari o giù di lì nel portafogli. Ho detto alla mamma, abbozzando qualcosa in inglese. «non parlo polacco. Ma in Italia è Santa Lucia». Lei ha capito. Le ho dato la banconota e le ho specificato che non era per lei ma per i suoi due figlioli, indicandoli con evidenza. Lei subito mi ha abbracciato felice. Sono tornato dentro, poi sono andato al bar a prendermi una vodka per mandare giù il magone che mi era venuto.

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Vedendo la situazione, certo, ma ancor di più pensando che a casa c’erano mia moglie e i miei due bambini che festeggiavano Santa Lucia senza di me.

Le ripeto ancora: la famiglia per me è stata molto importante. Mi ha dato supporto e motivazione. Io ho girato il mondo, per portare avanti il lavoro e per dare serenità alla famiglia. Ma a casa sapevo che c’erano mia moglie e mia madre.

I miei ragazzi son stati sempre curati e accuditi, sono stati bene. E questo era un vantaggio: la famiglia è molto importante. Ho visto tanti imprenditori che hanno sacrificato troppo la famiglia, forse anche perché non c’era quell’alleanza interna alla famiglia che è determinante. Perché ciascuno deve tenere ben presente che occorre dedicarle tempo ed energie. Io andavo in giro per il mondo ma poi, quando ero a casa, il sabato e la domenica li dedicavo tutti ai figli. E lo continuo a fare, quando me lo chiedono. Questo secondo me è fondamentale per un imprenditore.

Tornando a mia moglie. Non l’ho mai coinvolta nei problemi aziendali perché lei rispetto a certe tematiche si preoccupa molto: se le dico che domani vado da un cliente con 50.000 euro, lei si spaventa moltissimo perché si ferma alla cifra.

Quindi in questi aspetti io non l’ho mai coinvolta. Ma nel resto sì. Le devo tanto, e oso dire che i nostri figli le devono ancora di più. La più bella dimostrazione penso che sia vedere come sono cresciuti, con un enorme rispetto e un’alta considerazione della loro mamma.

Io tante volte mi sono trovato non in perfetto accordo con mia moglie, ma è una cosa naturale. Per esempio ci sono stati degli screzi perché lei aveva sempre paura di fronte alle tante scelte lavorative che facevo. Però sono convinto che mai mi sarei potuto permettere tutto questo senza mia moglie. Le ripeto: la sua presenza è stata sempre fondamentale.

Poi, a proposito di famiglia, è bene che dica a questo punto che il sacrificio che sto facendo in questa fase di passaggio ad Andrea e per Andrea è per dare una continuità. A lui ma anche a tutti quelli che qui lavorano. Mentre glielo dico io vedo le 140 famiglie che, possiamo dire, mangiano anche grazie ad HMC. A queste famiglie io faccio sempre riferimento, le tengo sempre presenti. Che proprio tutti si meritino questo impegno e questa dedizione al 100% forse no, ma è ovvio che questo non deve rappresentare un problema. Però ho chiaro nella mente il fatto che io a queste famiglie devo dare garanzie. Poi certamente a quelli che non si comportano correttamente sarebbe anche giusto poter dare un bel calcio nel sedere. Ma la cosa non è possibile, e va bene così.

Vede: i miei ragionamenti tornano comunque e sempre alla famiglia, la mia e quella degli altri. Io sono nato in una famiglia in cui mamma e papà si sono 65

separati. E ho visto il dispiacere, la fatica di tutta la famiglia. Ho vissuto il dispiacere che mi dava mio padre quando tornava a casa ubriaco. Allo stesso tempo ho provato il piacere di quando stavo a dormire con lui, e ho apprezzato le attenzioni che comunque mi dedicava. La famiglia è fondamentale.

Come ha conosciuto sua moglie?

L’ho conosciuta al “Picchio verde”, la discoteca di Carpi che frequentavo con gli amici. Mia moglie viene da Vallalta. In quel periodo veniva a Carpi ed era la “morosa” di un mio amico. Poi si sono lasciati ma lei continuava a venire a Carpi, al Picchio, la domenica sera; e siccome io la conoscevo già abbiamo iniziato a parlare e ci siamo così iniziati a raccontare di noi, delle nostre cose personali, e abbiamo cominciato a frequentarci.

Io in quel periodo lavoravo in officina in Comef. Lavoravo il sabato e la domenica, e spesso mi trovavo ad avere quasi il doppio dello stipendio con le ore di straordinario che facevo. Così io e il mio amico avevamo messo da parte qualche bel risparmio: 1 milione di lire io e quasi 2 milioni lui. Con 3 milioni e un prestito in banca abbiamo comprato un Montreal dell’Alfa Romeo usato, dai Signorino di Carpi. Il primo 8 cilindri dell’Alfa Romeo! L’unico difetto che aveva quell’auto era che per andare a Mantova e tornare indietro dovevi fare il pieno 2 volte. Però era proprio una bella macchina.

Una volta, mentre son lì che parlo con Marinella, le propongo di venire a fare un giro con me in macchina. Lei mi dice di sì, e allora usciamo dal locale per salire in macchina e farci un giro. Arrivati davanti all’auto, mentre faccio per salire, lei mi dice: «Non pensavo proprio che tu fossi un cafone del genere». Perché per lei questo gesto di invitarla non su una macchina qualsiasi ma su una bella macchina era uno sfoggio esagerato, il gesto di un gradasso. Io le spiegai che per me era un orgoglio permettermela, essermela guadagnata. Poi è chiaro che quando sei un ragazzo neopatentato, di diciannove anni, con una bella macchina così, il “bel pipetto” un po’ lo fai...

Comunque, tornando a Marinella, quello è stato un primo approccio con quella ragazza che poi, più avanti, sarebbe diventata mia moglie. Da quel momento non riesco a dire esattamente cosa sia successo piano piano. Comunque le ho chiesto scusa per quello che era successo, e continuavo ad andare da lei a parlare un po’.

Una volta l’ho invitata ad uscire, io e lei soli, e da lì abbiamo continuato a uscire insieme. Con delle discussioni! Perché lei voleva la sua libertà e io volevo la mia.

Poi, devo essere sincero, sono molto contento di quello che è successo. A un 66

certo punto, infatti, è arrivato un figlio e noi ci siamo sposati. Lei aveva un carattere forte e una certa dipendenza dalla sua mamma. La sua era una famiglia di campagna con caratteristiche particolari. Sposarsi, per esempio, non è stato facile, anche a livello materiale. Il vestito, la macchina, la cucina, i mobili: tutti gli acquisti li abbiamo fatti io e lei, con i soldi miei ma soprattutto con i soldi del mio titolare. Che un bel giorno mi ha detto così: «Fino a 10 o 15 milioni, se ne hai bisogno, io te li dò volentieri e ci puoi contare. Che prima o poi, se mi prendi delle altre azioni, ci mettiamo a posto». Davvero mi voleva bene come a un figlio.

Mi ha sempre dato la sua disponibilità anche su questi aspetti.

Quindi anche queste sfaccettature di tipo economico non erano facili da affrontare, per mia moglie. Poi, col passare del tempo, quando ci siamo sposati e siamo partiti, ecco: lì è proprio nata la nostra famiglia. Quando ci penso sono proprio soddisfatto.

Vede? All’improvviso tutti quei discorsi che facevamo prima e in cui credevamo e per i quali discutevamo tanto, dell’indipendenza, della libertà... Tutti quei discorsi sono stati messi da parte e secondo me da quel momento siamo stati bene.

E stiamo, e staremo ancora bene, spero!

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Lei sembrerebbe piuttosto restìo a parlare dei suoi figli ma al contempo appare molto soddisfatto di loro... È così. Come posso dire: sono 2 caratteri molto diversi. Luca ha 36 anni e Andrea oramai 30. Luca, come le dicevo, è medico infettivologo. Lavora a Monza e ora vuol comprare casa per stabilirsi là. Penso sia nato per fare il medico e per fare del bene agli altri. Nel corso dell’università e della specializzazione è andato in Kenya due volte a fare il volontario. La sua professione la vive come una vocazione. Vuole fare quello e deve fare quello. Nel periodo in cui era in attesa, perché non era ancora stato assunto ma solo in prova a Monza, ha avuto la possibilità, come è successo per Andrea, di venire in azienda. Ma è stato irremovibile: la sua volontà non era questa. Ha un carattere molto determinato. È di tendenza chiuso, non espansivo. E ha tanti pregi.

Andrea ha scelto di entrare in azienda, e ci sta entrando bene, a mio parere. È sempre stato un ragazzo molto dinamico. Vive per gli amici, deve essere sempre contornato da amici. Adesso meno, perché ha la compagna e la grande responsabilità dell’azienda. Ma è sempre stato così. Ha la moto e va via con gli amici. È sempre in movimento, organizza cene. È molto espansivo. A lui in breve tempo vorrei cedere la maggioranza dell’azienda, d’accordo anche con suo fratello che mi ha lasciato libero.

Adesso, naturalmente, io e mia moglie sentiamo un po’ la mancanza della presenza e dell’affetto dei figli. Luca lontano, Andrea con la compagna. Ma è normale che sia così. Del resto essere padre è delicato. Ma sono contento di come stanno andando le cose.

Intermezzo.

Parlando con Luca Bisi Ho 36 anni e dal 2012 lavoro come medico infettivologo presso l’Ospedale “San Gerardo” di Monza. Ho vissuto con i miei genitori per tutta la durata degli studi, compresa la specialità, e ho lasciato casa nel 2012, anche se rientro a Carpi non appena mi è possibile.

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I ricordi di mio padre non possono che essere positivi. Nonostante lui abbia dedicato tanto tempo al lavoro e sia sempre rientrato a casa tardi - nei pomeriggi ero a casa con la nonna o con la mamma - quando lui arrivava cercava di passare con noi più tempo possibile. Non soltanto alla sera ma anche nei weekend è sempre stato un papà presente. Diciamo che nella parte pomeridiana di tutti i giorni lavorativi, più legata alla scuola e allo studio, il riferimento costante era la mamma; ma papà ci dava sempre il suo supporto. Anzi: se c’erano dei problemi spesso si cercava di chiedere un aiuto a papà perché lui era quello che sapeva venirci più incontro e che ci sapeva proporre soluzioni per affrontare meglio anche la mamma, che era un po’ più severa soprattutto in ambito scolastico.

Di me con il papà ho dei ricordi bellissimi di quando ero piccolo: ci portava in giro, giocava con noi. Mi ricordo molto bene quando giocavamo insieme con i trenini elettrici. Quando riusciva, naturalmente, con i tempi che il suo lavoro gli concedeva. Ma era assolutamente una figura presente.

E di Giuseppe Bisi imprenditore cosa mi puoi dire?

Da questo punto di vista faccio più fatica, nel senso che, a parte durante le scuole superiori in cui andavo a dare una mano in magazzino, diciamo che le notizie che mi arrivavano e che riuscivo a percepire rispetto all’ambito lavorativo erano sempre un po’ frammentarie. Non avevo una visione generale perché quando lui rientrava a casa cercava sempre di non parlare di lavoro. Per questo motivo ho un un quadro frammentato, anche perché non ero coinvolto e venivo a conoscenza dei passaggi importanti senza capire bene il filo logico dell’insieme. Invece mio fratello, terminate le scuole superiori, è entrato subito a lavorare con papà.

Che valori ti ha trasmesso tuo padre?

Prima di tutto l’onestà. Poi la sincerità. Poi anche il rispetto per il lavoro degli altri e per il rapporto con gli altri. Anche nel suo ruolo di imprenditore ha sempre ragionato come una persona che non si sente mai al di sopra degli altri. Cosa che anche io come medico devo mettere in pratica, naturalmente, e devo dire che mio padre me l’ha proprio trasmessa.

In generale è una persona estremamente semplice, che si dedica volentieri agli altri con tutto quello che può e che riesce. Di carattere è a volte un po’ chiuso e condivide poco con gli altri le sue scelte. È molto determinato, convinto delle proprie idee e delle proprie posizioni. Per questo è difficile a volte farlo spostare 69

dalle sue posizioni. Ma è generoso, disponibile. Se può aiutare la sua famiglia e gli altri lo fa senza alcuna riserva.

Vorresti lasciargli un messaggio?

Certo. Un messaggio semplice e importante. Un grazie, per tutto quello che mi ha dato materialmente e per gli insegnamenti che mi ha trasmesso. Senza di lui probabilmente non sarei nemmeno qui a fare il medico, per cui mi sembra giusto dire un grazie per tutto.

A questo punto mi piacerebbe chiederle di parlarci un po’ di sua madre.

Ah: mia mamma ha rappresentato tanto. Davvero tanto, per me. Per fare un esempio pratico, quando è stato il momento di comprare il primo appartamento ha dato le sue garanzie con la sua casa. Quando concordai con Ferrari Ottavio per l’acquisto delle quote fu mia mamma a prestarmi il denaro necessario. Insomma: 70

mia madre mi ha sempre aiutato con tutto quello che poteva. Gli altri due miei fratelli, Corrado e Giorgio, si erano sposati e io ero rimasto in casa da solo con lei: ero il cocco di casa.

Ogni tanto, nel passato più recente, è venuta con noi alle cene aziendali; e lei, osservando quante persone partecipavano, mi diceva: «Ma ‘i péghet tutt te?”. “Ma li paghi tutti tu?”.

Adesso sta poco bene, ha ormai 90 anni e praticamente non cammina più. Si sta spegnendo pian pianino, anche perché ha avuto 2 ictus tra i 50 a i 60 anni che l’hanno condizionata, naturalmente. Ma è sempre stata molto energica; pensi che fino a 5 anni fa andava ancora in bicicletta! Poi glielo abbiamo proibito, a un certo punto. Lei comunque è sempre stata una compagna di vita. Del resto io fino al 1980, quando mi sono sposato, ho vissuto in casa con lei. Fino ai miei 29 anni, quindi, ho sempre avuto la possibilità di stare al lavoro, in azienda, senza mai essere richiamato, con la massima libertà.

Vuole raccontare a questo punto di altre persone che sono state importanti per lei, oltre alla famiglia in senso stretto?

Sicuramente le due persone che sono state fondamentali nel mio percorso lavorativo e imprenditoriale, e quindi di maturazione personale, sono Ottavio e Enzo Ferrari. Mi hanno accolto nell’officina. Enzo nella prima fase in officina mi ha dato l’opportunità di crescere nelle competenze dal punto di vista meccanico; Ottavio mi ha preso sotto braccio e mi ha accompagnato in un percorso. Oltre all’aspetto dell’incidente che ho subito, e in seguito al quale mi sono sentito davvero supportato, mi ha affiancato come fossi in qualche misura una sua creatura, vedendo in me quella persona che avrebbe potuto seguire le sue orme.

Certo, come è normale che sia, ci sono stati anche momenti non semplici, con il signor Ottavio. Uno fu in quella fase, a metà degli anni ‘80, in cui erano entrati 71

nuovi soci. C’era una visione su alcuni aspetti differente e lui ha avuto degli atteggiamenti non del tutto corretti nei confronti della nuova gestione, come fosse ancora tutto soltanto nelle sue mani. Poi devo ammettere che in qualche modo è un atteggiamento che a suo tempo ho avuto anche io. Credo sia un fatto naturale, perché quello che fai e porti avanti lo senti come qualcosa di tuo.

Un altro momento molto delicato fu, sempre in quegli anni, quando si mise a studiare uno stampo per un suo cliente senza che nessuno dei soci fosse a conoscenza dell’operazione. Un socio che finanzia un progetto e non mette al corrente gli altri soci diventa una cosa difficile da gestire. In quel momento ho dovuto condurre una mediazione tra i soci. E non è stato facile! A un certo punto (mi ricordo che ho tanto pianto, ci son stato male) mi sono imposto di fronte ad Ottavio, per dirgli che così non si andava da nessuna parte, ma soprattutto che questo atteggiamento arrogante lo squalificava, che rischiava di portare a conflitti tra i soci. Parlandogli, gli dissi testualmente che gli stavo parlando «non come il ragazzino che lei ha visto crescere ma come il socio che non può accettare questi atteggiamenti». Avevo il magone e mi tremava la voce. Feci un grosso sforzo, ma sentivo di doverglielo dire. A quel punto lui si alzò e se ne andò senza salutarmi.

Fu una reazione per me difficile da accettare, ma a ben pensarci normale.

Poi, dopo una quindicina di giorni, mi chiamò e mi disse: «D’accordo. Io spenderò direttamente i miei soldi, ma il progetto lo voglio portare avanti». E io gli risposi: «Ottavio: lei sa che facendo così si può creare una spaccatura?». In quel momento credo che abbia molto apprezzato ciò che gli stavo dicendo, e la mia onestà. Poi, come è normale che sia, con l’orgoglio di una persona sicura che non aveva certo problemi di denaro, decise comunque di seguire il proprio istinto e di portare avanti il progetto. In quel periodo devo ammettere che mi sono sentito un po’ un traditore, perché di fatto mi ero prestato a fare una mediazione tra gli altri soci e lui. Però penso ancora sia stato corretto fare a quel modo, dato che lo stavo facevo per il bene dell’azienda. Da quel momento si sono chiarite meglio le posizioni, si è aperto un tavolo di confronto nel Consiglio di Amministrazione, si sono avviati canali, dialoghi che fino a quel momento erano bloccati. Si fece quello scatto in avanti che servì certamente a Comef per migliorare e crescere.

Dopo quel periodo difficile devo dire che io e Ottavio siamo diventati più amici di prima. Quell’episodio non è mai più stato citato e non se n’è più riparlato. A un certo punto, poi, fu lui a farmi condurre una mediazione. Era passato qualche anno. Lui aveva 86 anni o giù di lì (ne ha 30 più di me) e mi aveva espresso la sua volontà di cedere tutte le sue quote. Mi chiamò e mi chiese di parlare con 72

Ranghino, di intercedere con lui per provare a vendergli le quote, che poi in parte ho comprato anche io.

Quando Ottavio Ferrari entrava in Hospal Dasco o in Bellco gli aprivano tutte le porte. Lui andava a parlare direttamente con il dott. Mario Veronesi; e del resto capitava che il dott. Veronesi venisse a Carpi. Si mettevano in ufficio e si confrontavano apertamente. C’era grande stima. Da parte di Ottavio Ferrari c’erano un’intelligenza e una capacità di saper stare al proprio posto che considero rari.

Ottavio mi ha insegnato tanto con i suoi modi: comportamenti di vita, atteggiamenti, visione organizzativa e produttiva. Enzo Ferrari invece mi ha insegnato la parte di meccanica, di officina. Entrambi sono stati per me importantissimi.

Altra persona che non posso non citare è Gianni Garuti. Che mi ha seguito molto all’inizio di tutto, quando avevo 14-15 anni. Gianni in officina era una persona di gran valore. Tecnicamente ha fatto partire Dasco stampaggio, Bellco stampaggio, Comef. In officina abbiamo passato insieme tanti sabati e tante domeniche. A fare prototipi e stampi, a controllare pezzi. Poi lui si spostò da Carpi a Mirandola. Direi che le personalità storiche delle origini del Distretto siano state Mario Veronesi, Ottavio Ferrari e Romano Brambilla. Quelli sono stati i personaggi principali; ma subito dopo penso venga proprio Gianni Garuti, che ha saputo essere operativo e costribuire a realizzare quello che il mondo medicale chiedeva. Fuori del lavoro era un personaggio molto originale, direi proprio che era “matto come un cavallo”! Ma al lavoro, nel Distretto tutto, era riconosciuto come un tecnico veramente valido e affidabile. Ancora oggi, dall’alto dei suoi oltre 70 anni, potrebbe dare del filo da torcere a tanti, se ne avesse voglia. Ma da 7-8 anni è in pensione.

Facendo un salto temporale, un’altra persona molto importante nel mio percorso è stato sicuramente Massimiliano Bisi, mio nipote, che mi ha sempre seguito. È nato nel 1974 e d’estate, da ragazzo, veniva a lavorare da me in Comef. Finita ragioneria andò in uno studio di commercialisti di Modena. Da lì ha cominciato a seguirmi la contabilità, nei fine settimana. Erano i tempi in cui avevo la Biosystem, e lui mi assisteva e mi dava una mano con le fatture e le offerte. Poi venne chiamato da Giorgio Calanca, che aveva fatto un’azienda - la Plastech cui avrei anch’io dovuto partecipare. L’azienda era nata dopo la mia vendita di Comef. Io avrei potuto inserirmi soltanto allo scadere dei tre anni del patto di non concorrenza. Eravamo in parola ma, trascorso il tempo necessario, quando è stato il momento, beh: non la pensava più così... Io a suo tempo avevo candidamente detto a Massimiliano: «quando finisco questo periodo ci rivediamo».

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Quando poi ho deciso, nel ‘96-‘97, di creare HMC, una delle prime persone che ho contattato è stato proprio Massimiliano. A quel punto lui, come è naturale che sia, ha avuto un momento di indecisione perché la Plastech stava vivendo uno sviluppo importante. Poi sono riuscito a convincerlo: per me era importante avere una persona come lui, capace e di fiducia.

Da quel momento ho avuto una crescita continua e costante. Massimiliano ha un carattere molto particolare, è un solitario. Parlava e parla perfettamente l’inglese, che io capisco un po’ quando si parla d’affari ma che non posso certo affermare di conoscere. Lo considero un mio difetto perché se avessi dedicato un po’ di tempo a imparare l’inglese forse avrei potuto anche fare qualcosa di più all’estero.

D’altra parte mi sono sempre detto: «Massimiliano parla l’inglese, i miei clienti tedeschi, francesi, e messicani impareranno l’italiano». Perciò diciamo che non c’è mai stato alcun problema. Certo oggi sarebbe impossibile fare quello che ho fatto senza conoscere bene l’inglese. Massimiliano è stato importante anche per questo, ma non solo per questo, intendiamoci. Del resto ribadisco che detiene l’8% della società, non avendo versato nulla ma essendogli stata riconosciuta in questo modo l’attività che a suo tempo aveva svolto per me.

Intermezzo.

Parlando con Massimiliano Bisi - 4 Cerchiamo tutti di portare avanti l’intero “pacchetto HMC” in maniera organica, suddividendoci bene i compiti. Ciascuno di noi ha un suo ruolo specifico legato alle caratteristiche personali e al momento storico in cui si è trovato ad entrare, e a come ha potuto (e saputo) offrire il proprio contributo. Abbiamo visto e vediamo il nostro ambiente mutare, in base al mutare del mercato che stimola a migliorare e a mettersi in gioco, a fare meglio ogni giorno. Ecco: questo è lo spirito di HMC, che forse è la cosa più importante e che ci è stato trasmesso da Giuseppe: in questo si vede rappresentata la famiglia Bisi.

Non dimentichiamo che nel 2001 HMC era composta da una decina di unità, mentre oggi parliamo di 140 unità dirette, più una company friend in Valtellina di 50 unità, più una succursale in Serbia di 70 unità. Questo per dire che la cre74

scita e il relativo indotto diretto offrono dati notevoli. È una crescita complessa, generale, che ha coinvolto e coinvolge tante persone e tante realtà. La cosa bella è che comunque i partner sono i medesimi di 20 anni fa. Per dire che la crescita ha coinvolto tutti gli interlocutori.

Penso che Giuseppe abbia raccontato la sua storia. Io da ragazzino ho conosciuto i suoi primi due titolari, i fratelli Ferrari; e ora il nipote sta portando avanti l’azienda Comef, con cui collaboriamo. Molti tecnici e fornitori di servizi sono i medesimi di un tempo (compresi l’imbianchino e l’elettricista) e li abbiamo visti crescere, evolvere. Esempi per dire che c’è un percorso coerente, una storia nella quale i legami rappresentano qualcosa di molto importante per noi.

Poi è chiaro che è cambiato il modo di approcciarsi, come sono mutate le strategie. Ora non c’è solo il prodotto ma tutto quello che ruota intorno ad esso, dalla prevendita al postvendita; e questo è legato ai tempi che viviamo, che sono “liquidi”. Ma l’atteggiamento “all’americana” di stare in un territorio 5 anni e poi andarsene non caratterizza di certo il nostro approccio. La nostra storia - e quindi il percorso di Giuseppe e di tutti noi che lo abbiamo seguito - la consideriamo importante; e con la storia le persone che ne hanno fatto parte. Credo che anche questo libro sia importante soprattutto per questo motivo.

La nostra storia è un valore.

Poi ho 2 fratelli, Corrado e Giorgio, sui quali non mi sono ancora soffermato.

Giorgio (papà di Giorgia ed Eleonora) ha iniziato a lavorare con me già alla fine degli anni ’70, aprendo un’area bianca di assemblaggio e lavorando per Comef.

Nel ’92 ha creato, insieme a Luca Ferrari, la Lucomed e ci siamo lavorativamente persi di vista per alcuni anni. Poi Lucomed è stata venduta e Giorgio è tornato a collaborare con me. Devo ringraziarlo, perché è stato lui ad impostare il lavoro in Serbia. Poi è tornato da noi in via Morandi per seguire l’aspetto produttivo. A un certo punto ha deciso che era il momento di chiudere con il medicale e dedicarsi completamente alla pensione.

L’altro fratello, Corrado (papà di Marco e di Massimiliano), a 18 anni ha avuto la prima esperienza lavorativa in Argentina presso la fabbrica di mio zio Giorgio.

Poi è ritornato dopo qualche anno costruendo la propria carriera in aziende per la costruzione di macchine automatiche del Gruppo Fiat Skf. Diciamo che il mio rapporto lavorativo con lui è cominciato nel 2004, nello stabile di via Morandi.

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Era andato in pensione e mi ha aveva offerto la disponibilità, su mia richiesta, a seguirmi nella fase di trasferimento da Canda, e in generale per tutta la parte tecnica. Anche lui è stato molto importante, come Giorgio: sapevo che c’erano loro a seguire le cose ed ero estremamente tranquillo. Penso che non ci sia niente di meglio che collaborare tra fratelli. A mio fratello Corrado ritengo vada riconosciuto l’importante contributo in Serbia: se tante cose là sono partite lo si deve in buona parte alla sua presenza prolungata e continua.

Abbiamo sempre avuto (e continuiamo) ad avere un bellissimo rapporto da fratelli e amiamo trascorrere qualche ora piacevole insieme. Tutti noi non manchiamo mai per nessuna ragione al tradizionale pranzo di Natale. Il giorno di Natale si riunisce tutta la famiglia e insieme ai fratelli ci sono le famiglie al completo, con figli e nipoti. Una bellissima tradizione.

Potrei citare anche altre persone, e ad essere del tutto sincero ho paura di dimenticare qualcuno. Posso citare Glauco Saltini e Cristiano Martini. A un certo momento, era il ‘97-‘98, abbiamo fatto insieme con Glauco un percorso di fabbricazione di macchine automatiche per l’assemblaggio. Glauco, insieme a Cristiano 76

mi hanno dato una grossa mano. Cristiano ha sempre risposto alle mie richieste con grande impegno e appena è stato possibile me lo sono preso con me. è stato lui a gestire tutta l’evoluzione dell’automatismo. Oggi è all’Ufficio tecnico ed è uno dei punti di riferimento per lo studio e la messa a punto dei progetti futuri.

Un’altra persona a cui io sono molto legato è il Ragionier Vaccari Sienes, il mio commercialista. Mi ha seguito molto bene per quanto riguarda le acquisizioni e mi ha dedicato tanto del suo tempo per parlare e confrontarci, sia prima che dopo il terremoto. Non dimentichiamo che è stato il commercialista di tanti nomi importanti del settore, compreso Mario Veronesi. Devo dire che si è dimostrato sempre molto disponibile ad offrirmi il suo supporto. Per me è un riferimento importante, al quale ricorro per chiedere pareri quando è il momento di prendere decisioni e fare scelte.

Poi vorrei dire qualcosa sulle mie amicizie che, nel corso di questi anni, ho purtroppo curato poco. Se la domenica mattina avevo tempo magari andavo a Messa con la famiglia, e poi fuori a mangiare tutti insieme. Al pomeriggio non andavo alla partita con gli amici ma stavo con i miei figli, e d’estate il sabato partivamo con la famiglia per andare al mare. Così gli amici non li ho tanto frequentati, e in questo modo le amicizie, purtroppo un po’ si perdono.

Dei suoi collaboratori di fiducia ce ne sono ancora di operativi in HMC? E lo sono anche per Andrea?

Certamente: ci sono e sono stati molto valorizzati da parte di Andrea, in un modo diverso rispetto a come ho fatto io. Perché, per fare un esempio, io volevo vedere tutti i giorni quali erano gli acquisti, se c’erano variazioni, e così via. Andrea invece valuta a fine mese il previsionale e come sono andate nella realtà del mese le cose. Dopo di che chiede a ciascun collaboratore le spiegazioni del caso.

Errori grandi non se ne fanno mai, ma le piccole limature sono sempre opportune e utili per un futuro migliore. Tutto questo responsabilizza le singole persone; e oggi essere responsabili significa, per esempio, che il lavoratore si mette in dialogo con il collega per richiamarlo, per aiutarlo a migliorare. Questa parte io l’ho sempre fatta di persona, non l’ho mai demandata. Oggi invece le persone sono più preparate e in certa misura più presenti. Ad esempio alcune signore sono diventate mamme e sono maturate, naturalmente.

C’è una persona di mia conoscenza che mi ha sempre detto una frase forse non proprio bella, ma che credo renda l’idea: «Io quando posso assumo persone 77

separate, che hanno la casa in affitto e con 2 figli. Perché quelle sicuramente hanno voglia e motivazione». Ma in questa frase c’è una verità: un buon lavoratore, una buona lavoratrice deve avere una buona motivazione. Deve avere bisogno di lavorare. È un fatto naturale, perché comunque il lavoro richiede sempre tanto impegno e sacrificio.

Tornando alle persone di fiducia. Oltre ad Andrea e a mio nipote Massimiliano Bisi, c’è Enzo Cestari. Enzo ha iniziato con noi come responsabile di estrusione e oggi gestisce tutta la produzione in HMC.

Intermezzo.

Parlando con Nicola (Enzo) Cestari Ho conosciuto Giuseppe nel 2005, in un colloquio di lavoro, e devo dire che fin da subito ne ho avuto un’ottima impressione, perché ho riconosciuto in lui un grande carisma e una elevata carica. Una persona esplosiva, io lo definisco così.

In grado di tirar fuori il meglio dalle persone, di farti sentire parte integrante del suo progetto e della sua famiglia. La sua famiglia HMC...

Nutro una grandissima stima nei suoi confronti, lavorativa e umana. Ogni tanto “prendiamo sotto”, come si dice, come è giusto che sia. Ma è una persona molto alla mano ed estremamente disponibile per qualsiasi cosa.

Ricordo la prima esperienza lavorativa fatta insieme a lui. Eravamo andati in visita a un cliente nel comprensorio di Mirandola e mi diede l’opportunità di potermi confrontare con altre persone. Cosa che nel mio vecchio lavoro non era mai stata possibile. Giuseppe mi ha dato fiducia, e con essa la possibilità di potermi confrontare. Devo dire che questo approccio mi ha fatto crescere lavorativamente tantissimo. Quindi un ricordo è sicuramente la sua apertura e fiducia, insieme alla sua voglia di farti crescere, che è molto legata alla sua voglia di fare, di non fermarsi mai. Tutto questo responsabilizzando le persone intorno a lui.

Ce ne sarebbero tante di cose da dire, da ricordare: momenti belli e momenti brutti. I momenti brutti sono quelli del terremoto. E in quel caso l’ho visto piangere, perché è stata dura digerire il duro colpo. Però ha dato poi la forza a 78

tutti, ha dato lo slancio per ripartire, per non mollare, per non piangersi addosso e ricominciare a lavorare.

Ho di lui una stima immensa, ammiro la sua forza interiore, la sua capacità di trascinare le persone in maniera esemplare. Infatti lo definisco il nostro “direttore d’orchestra”: possono esserci tanti bravi musicisti ma bisogna essere bravi in coro, e per fare questo occorre un buon direttore d’orchestra, appunto. Credo che questo concetto rappresenti e sintetizzi bene come io vedo Giuseppe. Non ho altro che parole di elogio nei suoi confronti.

Non è facile per me parlare di lui, anche se lo conosco da 10 anni. È come un papà, a livello lavorativo: mi sono confidato con lui per alcuni miei problemi, mi ha dato sempre una mano e una pacca sulle spalle. Insomma: è una persona a cui devo tanto, a livello lavorativo e a livello personale.

Devo ammettere che sono anche in difficoltà a parlarne... Mi commuovo, proprio perché gli voglio davvero bene. È un carattere rude, sicuramente, ma è una persona speciale che stimo tantissimo. Tutto qua. Sono poche cose, semplici ma per me rare, preziose, di grande valore.

Poi Sara Ferrari e Catia Strollo, due ragazze che hanno iniziato quando HMC era agli albori, Andrea Dal Medico, che ho incontrato tramite l’acquisizione di Macosta e che ho riconosciuto subito tecnicamente molto competente. Giorgio Gilioli per lo stampaggio; la Domy che in magazzino, ha sempre saputo gestirsi molto bene e infine Milena Paolucci: grazie alla sua presenza non mi sono mai curato dell’amministrazione, della parte contabile, perché con lei ho sempre avuto un ottimo rapporto e c’è stata a un certo punto una bella presa in carico da parte sua.

Per finire, e per riunire in un pensiero tutti quelli che non ho citato individualmente, vorrei dire che - avendo ciascuno di loro partecipato attivamente ad arrivare dove siamo ora - sono per me davvero importanti.

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Intermezzo.

Parlando con Milena Paolucci Dal punto di vista lavorativo Giuseppe è una persona molto dinamica ed estremamente aperta mentalmente; e questo significa, per chi gli sta intorno e collabora continuamente con lui, una costante crescita professionale.

Con lui non esiste una “tranquillità lavorativa”, dal momento che si vive una continua evoluzione. Per questo dico che HMC o la ami o la odi: o ti appassioni al tuo lavoro o non riesci a restare qui. L’amore per il proprio lavoro è un concetto che Giuseppe ci ha decisamente trasmesso. Ci ha sempre coinvolti molto, ci ha sempre trasferito molte informazioni e conoscenze.

Credo che non mi abbia mai nascosto nulla, anche quando sono state fatte operazioni delicate come le acquisizioni, per fare un esempio. Un livello di trasparenza che sicuramente ha contribuito molto nel farci sentire sempre protagonisti e parte attiva dell’organizzazione, coinvolti direttamente. Bisogna dirlo: non tutti i datori di lavoro sono così.

Dal punto di vista personale sicuramente si tratta di una persona dotata di una umanità notevole. Ho lavorato in HMC anche nella gestione del personale, inizialmente. E ho visto bene quanto Giuseppe abbia sempre cercato di andare incontro (economicamente ma non solo; anche psicologicamente) alle esigenze che gli venivano portate dai lavoratori. Non solo nel momento del terremoto, intendiamoci, ma davvero sempre. Anche con me, del resto, è stato così: estremamente disponibile e flessibile per questi aspetti. Diciamo che non è cosa da poco, dal momento che in tante realtà ti assegnano un orario di lavoro e finisce lì, senza guardare agli aspetti personali e familiari, alle difficoltà del momento. Dal punto di vista umano, lo ripeto, Giuseppe è una persona che stimo veramente molto.

Diciamo che quando parli di Giuseppe parli anche di HMC. Si tratta di una persona molto devota al lavoro. È sempre stato in azienda. Giusto ultimamente ha allentato un po’ i ritmi, ed è giusto così. Però continua ad essere molto presente.

Per me e per le altre figure di riferimento Giuseppe rappresenta un punto fermo.

Il passaggio generazionale tra Giuseppe e Andrea sta avvenendo in maniera molto graduale, con la presenza comunque di Giuseppe che ha un impatto positivo. È una situazione anomala per HMC: tutti i passaggi, le evoluzioni, le acquisizioni sono sempre state molto repentine, veloci. È sempre stata la nostra sfida, quella di seguire la dinamicità di Bisi, e quindi una certa velocità.

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Questo passaggio che potrei definire “soft”, con la compresenza dei 2 interlocutori (Giuseppe e Andrea) è in questo senso atipico ed estremamente positivo, dal momento che si tratta di una fase estremamente delicata.

Quando Giuseppe non c’è chiediamo sempre informazioni sul suo conto. Lui è sempre stato legato alla parte amministrativa, anche perché storicamente come ufficio era vicino a noi. E quando non c’è devo ammettere che a me manca, magari anche solo per un consiglio o un confronto al volo. Se devo prendere una decisione, è chiaro, la prendo in autonomia e la condivido con Andrea. Ma un confronto con Giuseppe è sempre molto importante. Abbiamo trascorso molto tempo insieme, nel quotidiano; quindi non averlo più presente in maniera stabile è un passaggio per me difficile da metabolizzare. Anche se passa tutti i giorni e nell’arco della giornata lo abbiamo disponibile per diverse ore, senza nemmeno dover fissare appuntamenti. Per questioni di lavoro, naturalmente, ma anche per questioni personali. Quando si accorge che non sei in forma ti chiede subito, vuol sapere cosa c’è che non va. È un rapporto molto forte, quello che si è costruito con lui.

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CAPITOLO 6

Passaggio generazionale

Poco fa parlava del carattere della famiglia Bisi. Le chiedo di approfondire questo concetto.

Diciamolo: HMC è a tutti gli effetti un’azienda familiare. I primi 2 soci siamo stati io e mio nipote Massimiliano. Poi è entrato mio figlio Andrea, mia nipote Eleonora, mio fratello Giorgio, mio fratello Corrado. Poi l’altro mio nipote, Marco Bisi e Milena, che è sua moglie. Anche mia moglie da qualche anno è dipendente part time ed è una bravissima operaia! Diciamo che abbiamo una decina di figure che internamente ad HMC rappresentano la famiglia Bisi. Io ho sempre cercato di puntare al fatto che HMC venga portata avanti dalla famiglia Bisi.

A questo punto arriviamo all’oggi, e poi al futuro. Al passaggio generazionale tra lei e suo figlio che almeno in parte è anche all’origine di questo libro.

Direi proprio di sì. E non è semplice parlarne. Intanto perché si fa meglio a guardarsi alle spalle e a descrivere il passato. E poi perché tutto questo discorso riguarda me direttamente, il mio avere deciso di far spazio ad altri, a partire da mio figlio Andrea.

Prima di tutto direi che siamo stati contattati in un paio di occasioni da una ditta inglese che era seriamente interessata all’acquisizione di HMC. Ho valutato la cosa: ho 65 anni, l’azienda in pieno rilancio, avrei potuto vendere e tenermi un po’ di quote. Sarebbe stato interessante. Ma ho rimesso tutto ad Andrea, il quale già aveva a suo tempo espresso il desiderio di entrare più da protagonista nell’attività e che me lo ha confermato, ricevendo tutto il mio apporto.

Quest’azienda è stata sempre legata ad una sola testa pensante, decisionale e operativa: la mia. Se c’era da andare a parlare con un dipendente andavo io; se c’era 83

da andare in banca andavo io; se c’era da andare a modificare un aspetto produttivo andavo io; se c’era da organizzare nuovi turni andavo io. E questi naturalmente sono solo alcuni esempi, perché curavo direttamente ogni aspetto e ogni relazione.

Devo dire che questa modalità di procedere era diventata insostenibile, per una realtà come la nostra. A un certo punto ho preso coraggio e ho iniziato a chiudere alcune porte, aprendole per gli altri. È un passo difficile ma va fatto! Qui lo abbiamo fatto con il supporto di un consulente esterno - il dott. Gianluca Masia - che si è messo al fianco di Andrea per offrire tutto il supporto che io non sarei in grado di dare, con l’obiettivo di compiere un passaggio generazionale ottimale. Si tratta di una persona molto capace e devo ammettere che il passaggio sta andando nel migliore dei modi. La crescita del fatturato c’è, l’azienda sta crescendo e dovrà ancora vedere qualche acquisizione. HMC può crescere ancora acquisendo strutture rivolte agli aspetti commerciali. E se vedrò affrontato bene questo aspetto, credo proprio che vedrò la chiusura del cerchio.

Io, da un certo momento in avanti, ho continuato ad avere il mio ufficio, per così dire, decentrato, nella sede di San Giacomo Roncole, e ho cominciato contemporaneamente a demandare a mio figlio Andrea. Con lui ci confrontiamo rego84

larmente. Da parte mia chiedo sempre informazioni alle persone che sono state sempre a me vicine e ad altre persone più vicine a me e alla famiglia. Ho deciso di demandare, di fare in modo che siano loro a organizzarsi senza la mia presenza.

Pur garantendo il mio supporto in ogni momento, muovendomi costantemente in azienda, puntando ad un confronto e ad un dialogo continui.

La parte della filiera di HMC che riguarda gli aspetti di meccanica (la produzione degli stampi in particolare) è una sua passione legata alle origini e la considera un fiore all’occhiello di recente introduzione. Che scelte avete fatto, in questo senso?

Nel 2016 penso che sia stata fatta una piccola opera d’arte. Come dicevo all’inizio il mio percorso inizia in un’officina meccanica; e, come ho già detto precedentemente, la ditta Macosta che abbiamo a suo tempo acquisito era dotata di un’officina, anche se si trattava di un’officina oramai datata. Il terremoto e i conseguenti lavori di ricostruzione hanno fatto sì che gli investimenti che noi abbiamo messo in campo siano stati dedicati ad altri aspetti. D’altra parte avevamo in officina dei tecnici davvero in gamba che avevamo portato ad essere, come posso dire, meccanici che puliscono gli stampi. Non che sia declassante, perché ogni attività è fondamentale e ha la sua dignità. Ma con una formazione e un’esperienza come la loro (persone in grado di affrontare questioni di precisione, fattibilità e quant’altro) era sicuramente una potenzialità non ben espressa.

Nel 2016 ho assunto un progettista per gli stampi e ho portato avanti il progetto di ricostruzione e ammodernamento del reparto per cominciare finalmente a produrre gli stampi. Questo è un discorso che abbiamo concluso a giugno del 2016. Ai primi di agosto abbiamo prodotto il primo stampo fatto da noi: una grande soddisfazione! È stata, come posso dire, la realizzazione del mio primo amore lavorativo: la meccanica, l’officina.

E questo ritengo sia stato, per HMC sicuramente ma anche per me, un passo importante, qualcosa che in qualche modo racconta anche il mio percorso dalle origini. Mi è costato tanto, posso dire che dentro ad HMC è stato apprezzato da pochi. Ma credo che l’investimento di un’officina lo si veda nel lungo termine, dopo una decina d’anni. Uno stampo infatti ha una sua vita e se tu inizi a progettare e produrre il nuovo stampo in casa, per tempo, significa che ammoderni, risparmi tempi, investi nel futuro di quello che stai facendo.

Lo sviluppo del mondo medicale è legato all’intuizione del Dott. Mario Veronesi, naturalmente. Ma è stato frutto di tanti contributi (la componentistica, il granulo di Romano Brambilla e altro ancora). Ma se ci pensiamo bene tutto è 85

sempre legato in qualche misura alla meccanica: l’origine è per forza lì. L’officina meccanica è un completamento della filiera della produzione, con essa si va proprio alle origini. E questo è stato per me un bel coronamento.

Nel frattempo sono emersi prodotti nuovi. Abbiamo investito tanto su produzioni che possono dirsi probabilmente non innovative ma certamente all’avanguardia. Certi prodotti, portati da Andrea e Massimiliano, alle spalle hanno la progettazione e la produzione degli stampi, l’automatizzazione molto ben studiata e progettata. Tutto questo rende la nostra una bella realtà, all’avanguardia. E io intendo tutto questo come il mio contributo alla continuità.

Tornando al passaggio generazionale. Mi pare di leggere tra le righe la sua volontà determinata di continuare su questa strada, la sua soddisfazione rispetto a come stanno andando le cose. Ma anche la sua fatica a lasciar fare.

Le posso dire con franchezza che mi dà tremendamente fastidio! Mi dà male allo stomaco, e mi tiene in uno stato di continua preoccupazione, perché ho sempre la paura che gli altri (compreso mio figlio) possano sbagliare più facilmente di me.

Faccio fatica, certo, ma lascio fare a mio figlio Andrea e ai suoi collaboratori.

Diciamo che io dico sempre come la penso, però non mi sono mai permesso di dire ad Andrea «O fai come ho detto io o niente». No. Gli parlo, gli presento il mio punto di vista, forse sono pesante, magari ci litighiamo pure. Però alle 7 di sera facciamo la telefonata di chiusura della giornata, mi racconta cosa ha fatto, com’è andata, gli aspetti positivi e quelli negativi. E io cerco sempre, sempre di offrirgli il mio parere.

Oggi non potrei fare diversamente da quello che sto facendo, anche perché sono consapevole di essere una persona ingombrante. A me capita che la gente magari mi fermi e mi dica: «Bisi: ho visto - che ne so - questa macchina sempre ferma.

Cosa ne pensa?”. E io cerco di rispondere che il mondo va avanti, che non è che con la mia presenza fosse tutto perfetto. Contemporaneamente dico sempre ad Andrea di farsi trovare padrone delle sue idee in ogni occasione: «Se devi prendere una decisione, nel bene e nel male, prendila subito. Non farti trovare debole, magari rimandando. Raccogli le informazioni per tempo, parla liberamente alla gente; e poi fai le tue scelte».

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Intermezzo.

Parlando con Andrea Bisi - 3 Com’è avvenuto il passaggio tra te e tuo padre nel corso degli anni? Come tuo padre ti ha trasmesso l’idea del lavoro, dell’impresa e dell’imprenditorialità. Per cui poi mi pare tu sia arrivato in maniera naturale alla tua scelta?

In effetti non è stata per niente una scelta forzata ma condivisa e ragionata assieme. Del resto per intraprendere un percorso di questo tipo bisogna esserne assolutamente convinti altrimenti il peso della responsabilità ti soffoca. Diciamo che ho accettato e sposato la causa non tanto perché fossi pronto a livello imprenditoriale (sono ancora molto giovane di esperienza) ma perché ho creduto fortemente nella fiducia che ha riposto in me mio padre. In parallelo sentivo il bisogno (credo più l’azienda ne sentisse il bisogno) di organizzarci diversamente: la struttura era cresciuta notevolmente e necessitava di un passaggio, da un modello padronale ad uno più manageriale. Ed eccomi qua.

Non so dire di preciso come e quando mio padre sia riuscito a trasmettere a me e mio fratello questo approccio e rispetto per il lavoro, ma ci è riuscito. è arrivato semplicemente, con naturalezza, non in maniera diretta o imposta.

Un mix di fattori trasmessi fin da quando eravamo bambini prima che iniziassi a lavorare con lui; l’altra è tutt’ora in process, mi spiego meglio: prima di iniziare a lavorare con lui, e quindi di capire bene il suo lavoro, credo che abbiano influito fortemente i suoi comportamenti a casa, i suoi costanti impegni, la sua dinamicità, le lunghe trasferte e anche quel pizzico di curiosità e mistero che si nascondeva dietro al suo lavoro. Io e mio fratello (quando eravamo piccoli) non sapevamo di preciso che mestiere facesse nostro padre: non ne parlava mai in casa e quando ce lo spiegava non capivamo. Tant’è che mi ricordo ancora bene che alle elementari, quando le maestre ci domandavano che lavoro facessero i genitori, io non sapevo mai cosa dire di preciso di mio padre. Lo scoprii bene negli anni a seguire...

L’altra importante influenza è arrivata dopo che ho iniziato a lavorare a stretto contatto con lui, vedendolo tutti i giorni a lavoro, nella sua “arena”. Percepirne gli stati d’animo, capire problemi e soddisfazioni, sentire le sue discussioni, chiacchierate, confronti, sfuriate, risate con i dipendenti. E sicuramente come è riuscito a responsabilizzarmi e coinvolgermi sempre di più nella vita aziendale.

La fiducia: forse questo è stato il fattore predominante.

Quando, verso la fine delle scuole superiori, mio padre mi ha chiesto se volevo 87

andare a fare l’università io ho scelto il lavoro. Avevo già fatto qualche piccola esperienza in azienda con lui durante l’estate, e avevo ben presente anche la soddisfazione che avevo provato guadagnandomi qualche soldo con cui poter pagare le mie spese e avere una certa autonomia (a cui ho sempre tenuto molto). Quindi ho sempre visto nel lavoro un dovere e un piacere, sacrifici ma anche la possibilità di potermi togliere qualche soddisfazione.

Da parte sua mio padre non ha mai insistito. Semplicemente il vederlo da sempre così dedito al lavoro e alla famiglia credo abbia rappresentato per me una spinta in più, una motivazione per mettermi a lavorare in azienda, in prima persona e in prima linea.

Contemporaneamente il mio orgoglio nel non voler essere etichettato come “il figlio di papà” credo mi sia sempre servito come spinta nel voler dimostrare il mio valore, puntando a dare il meglio di me e cercando di essere ascoltato non tanto perché “il figlio di Bisi” quanto per quello che personalmente potevo valere. In queste motivazioni c’è per me una spinta grande. Poi mio padre mi ha sempre trasmesso entusiasmo, dinamismo, coraggio. Non con le parole, lo ripeto, ma con il suo modo di fare, con il suo costante atteggiamento, in maniera direi naturale e senza forzature.

Ci avviamo alle conclusioni. Fin qui abbiamo parlato della sua intera vita, nonché dei primi 20 anni di HMC. Mi piacerebbe concludere accennando al fatto che oggi, a conferma del percorso ventennale, ancora una volta HMC non si è fermata davanti alla possibilità di inserire nel Gruppo una nuova realtà situata all’estero. Abbiamo recentemente acquisto la maggioranza di Medicina, un’azienda inglese specializzata nel settore della nutrizione enterale. Penso che cominci da qui la nuova sfida che coinvolge in prima persona Andrea. E direi che qui siamo già oltre il passaggio generazionale, trovandoci nella HMC di oggi proiettata verso il futuro.

Ad oggi posso essere molto soddisfatto del mio percorso di imprenditore. A distanza di 20 anni HMC è composta da oltre 250 persone, abbiamo raggiunto un fatturato di oltre 30 milioni di euro. Sedi all’estero. Credibilità e sostegno da parte delle banche, grazie ad un costante lavoro condotto sempre con determinazione. Tutto ciò mi fa ben pensare per il futuro di HMC. Sinceramente mi piacerebbe tanto, fra 20 anni, poter raccontare, magari in un nuovo libro, tutto quello che è accaduto e che si è riusciti a fare, sperando che sia sempre meglio di quanto si è fatto fino ad ora!

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Per concludere le chiedo: ai giovani imprenditori cosa direbbe? Che elementi di base trasmettere?

Ai giovani io dico: oggi ci sono ancora tante possibilità. Dovete tutti quanti essere presenti a voi stessi, lucidi, metterci tutta la vostra volontà. Il mondo deve cambiare, migliorare, non può andare semplicemente così come sta andando. Il mondo si deve cambiare insieme. Perciò occorre essere tutti quanti convinti, non solo nel mio settore. Crederci.

Quindi il mio messaggio è questo: credete nella possibilità che avete di fare bene, di sviluppare le vostre idee. Credete nel lavoro, credete nell’impresa, credete nelle vostre idee. Non fatevi spaventare, non arrendetevi, cercate di fare sempre meglio. E guardate quello che c’è - poco o tanto che sia - con spirito positivo. Fatelo fruttare e crescere. Lavorate guardando il positivo, le possibilità, le potenzialità.

Pensando sempre, sempre al «bicchiere mezzo pieno».

A mio figlio dico che la prima cosa che deve fare sempre è credere in sé stesso e in quello che fa. Questo è fondamentale, come è essenziale avere sempre un rispetto autentico degli altri: di chi lavora, dei clienti, dei fornitori. Queste sono le basi, i fondamentali per andare avanti.

Poi dico che occorre trasmettere a tutti sicurezza. Comunicare tranquillità a chi sta al tuo fianco o a chi lavora per te. Essere autorevole. Ma attenzione, perché, per trasmettere sicurezza, occorre averla dentro: non si può fingere e non la si può creare dal nulla.

Quindi: credere in sé stessi, credere in ciò che si fa, avere rispetto degli altri, trasmettere la sicurezza che abbiamo dentro. Mi accorgo che forse certe caratteristiche, che lo si ammetta o no, sono innate, parte del nostro carattere. Ma sono fondamentali e vanno continuamente tenute vive e coltivate, se si sceglie di fare nella vita il mio appassionante lavoro: il mestiere di imprenditore.

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“Credere in sé stessi, credere in ciò che si fa, avere rispetto degli altri, trasmettere la sicurezza che abbiamo dentro”

IL BICCHIERE MEZZO PIENO Intervista a Giuseppe Bisi, fondatore di HMC Group