L'Alveare

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Alessandra Paoloni

L’Alveare

© 2014 ALESSANDRA PAOLONI Progetto grafico: Elisabetta Baldan www.facebook.com/ElisabettaBaldanDigitalArt

Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non sono da considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o defunte, veri o immaginari è del tutto casuale.


L’A lveare

Picchiava la porta con i pugni così forte che questa sembrava lamentarsi come se fosse stata umana. Voleva entrare, gridava perché non lo lasciassimo lì fuori dove c'era la morte. Io fissavo ora la porta ora mio padre, completamente inerme e muta. «Che cosa facciamo?» chiese mia madre. Le tremava la voce e si era aggrappata al braccio di mio padre per non rovinare a terra. La disprezzai in quel momento, non faceva altro che svenire e gridare da quando era accaduto. «Non farlo entrare!» parlò la voce di Albert dal fondo della stanza. Mi voltai verso di lui: odiavo quell'uomo. Era un viscido codardo, e mi domandavo continuamente per quale ragione mio padre lo avesse ospitato in casa nostra per tenerlo lì al sicuro con noi. Sapevo rubasse di nascosto il cibo e l'acqua della dispensa; con quella sanguisuga accanto non saremmo sopravvissuti a lungo. Lo sconosciuto nel frattempo continuava a percuotere la porta. Noi ce ne stavamo immobili a fissare l'entrata, sigillata da più di un chiavistello, come condannati che aspettano la fine. Forse a spaventarci era il fatto che da moltissimo tempo nessuno bussava più al nostro rifugio. L'ultimo a essersi aggregato a noi era stato Henry solo sei mesi prima, l'ultimo a essersi unito al nostro piccolo


alveare come aveva iniziato a chiamarci mio padre. «Forse se ne andrà...» aggiunse Albert, squittendo come un topo in gabbia. Mio padre mi lanciò una veloce occhiata. Se stava cercando una risposta nei miei occhi, sapeva già quale essa fosse. Si staccò da mia madre che lo lasciò andare a fatica, e avanzò verso la porta che continuava a essere battuta dallo straniero. Ad attirare quella povera anima erano state forse le luci delle candele rimaste accese fino all'alba. Colpa di Jerald che si era appisolato durante il suo turno di guardia e che per tanto si era dimenticato di spegnere. Quel suo errore poteva costarci caro; per questo mio cugino se ne stava ripiegato in un angolo con l'aria mortificata e terrorizzata. «Che stai facendo, Wesley?» chiese mia zia Juliet scattando in avanti e cercando di fargli cambiare idea «E se fosse infetto?» A quelle parole tutti trattenemmo il respiro, e mio padre si arrestò. «La pietà o la vita.» proseguì mia zia. Ripeteva quelle parole almeno tre o quattro volte al giorno. Erano divenute il suo credo personale, e cercava di convincere tutti noi che quella fosse una buona scusa per giustificare l'indifferenza verso gli estranei, verso il mondo intero. «Non c'è spazio per la misericordia.» sussurrò fissando i suoi occhi spalancati e iniettati di rosso in quelli di mio padre. Lui tornò a lanciarmi una veloce occhiata. Mi sentii morire: avremmo dovuto spalancare la porta e dare asilo a quel disgraziato, avremmo dovuto aiutarlo, prestargli soccorso, era certamente affamato, forse ferito. E infine


c'era una piccola probabilità che fosse infetto. Allora per noi, per tutti noi, non ci sarebbe stato scampo. Saremmo morti tutti nell'arco di una settimana. La pietà o la vita. I colpi alla porta si affievolirono. Lo sconosciuto ora aveva smesso di gridare. Io senza accorgermene presi a singhiozzare. Mia madre tentò di rincuorarmi in un abbraccio, ma io l'allontanai. La pietà o la vita... quell'assioma era davvero assurdo. Raggiunsi mio cugino Jerald nell'angolo della stanza. Era seduto a terra, con la schiena rivolta alla parete, le gambe tenute strette dalle braccia e la testa fra le ginocchia. Gli circondai le spalle con un braccio; per lo meno provavamo ancora della pietà tra di noi. E per noi. «Mi dispiace Bess...» disse senza guardarmi. «E' tutta colpa mia...» Non gli risposi. Lo sconosciuto intanto aveva smesso di assestare colpi alla porta. Scese il silenzio, un silenzio al quale eravamo abituati; ma questa volta la tensione nell'aria era così tangibile che si poteva spezzettare con una lama. Sentii mia zia Juliet tirare un sospiro di sollievo. Si portò poi una mano sul cuore. Attendemmo dei nuovi colpi, che non arrivarono. Anche mio padre rilassò i muscoli del volto e si passò nervosamente una mano tra i capelli. «C'è mancato poco...» disse. «C'è mancato poco che non sfondasse la porta!» parlò Albert. L'uomo sorrideva. Forse quello sconosciuto non sarebbe arrivato a vedere il giorno seguente e lui sorrideva. Lo detestavo. «C'è mancato poco che non gli aprissi.» lo corresse mio


padre, guardandolo truce. Seguì un nuovo silenzio a quelle parole. Poi Duncan entrò nella stanza stiracchiandosi le braccia. Aveva coperto ben due turni di guardia le notti precedenti, e il suo doveva essere stato un riposo così profondo da somigliare quasi a un sonno mortale. Ma non appena notò le nostre espressioni preoccupate, si mise subito in posizione d'allerta. La sua mano corse alla tasca destra dei pantaloni, dove sapevo tenesse un piccolo coltello a serramanico. Cercò con gli occhi qualcuno, e quando mi trovò chiese che cosa fosse successo. «Un estraneo ha bussato alla nostra porta.» gli spiegò mia zia. Il suo tono di assoluta indifferenza mi ferì. A quelle parole Duncan guardò mio padre. Lui era entrato a far parte dell'alveare poco prima di Henry. Mio padre, durante una rischiosa uscita diurna alla ricerca di medicinali (zia Juliet si era ammalata di una grave forma di virus intestinale), lo aveva incontrato per caso mentre vagava per le strade della città da solo ma con una ricca scorta di cibo e bevande a seguito. Fu la salvezza per la nostra dispensa e per noi. Ma divenne una dannazione per me, che me ne innamorai perdutamente da quando oltrepassò la soglia del nostro rifugio. Aveva quarantacinque anni. Io ventidue compiuti da poco. Ma se ogni legge umana era crollata a seguito della diffusione del virus mortale allora potevo amarlo, ricambiata, senza troppi scrupoli. Era quello che mi ripetevo ogni giorno. Era ciò che mi faceva considerare quell'esistenza ancora una vita. «E' andato via.» parlò mio padre distogliendomi da quei pensieri.


Duncan annuì e abbassò la mano già pronta a cacciare fuori dalla tasca il coltello. Quel gesto era divenuto un riflesso involontario per lui. Ma non sapevamo ancora che eravamo in errore. Quella notte l'estraneo tornò. Prese a picchiare i vetri della finestra della stanza che faceva da dormitorio. Di guardia c'era Henry, che diede subito l'allarme urlando a squarciagola come un forsennato. Io, che dormivo nella brandina assieme a mia madre, per lo spavento caddi distesa sul pavimento battendo il fianco sinistro. Mi rimisero in piedi le braccia di Duncan, che estrasse questa volta il suo coltello dalla tasca. Avevamo sbarrato i vetri con assi di legno; sarebbe stato impossibile per lo sconosciuto entrare da lì. Nonostante questo ci mettemmo subito in posizione d'allerta. Mio padre si armò di un bastone, e invitò tutti a fare lo stesso. Mia madre ricominciò a piagnucolare, mentre Albert il codardo se ne scappò nell'altra stanza. Io afferrai una delle assi e mi piazzai tra mio padre e Duncan, chiedendomi che cosa stessi facendo. Contro cosa avremmo lottato? Contro un miserabile essere umano disperato che cercava solo del cibo e un riparo? Contro un virus che nessuno scienziato al mondo era riuscito a debellare, e che aveva sterminato la vita come l'avevamo sempre conosciuta? Se l'estraneo fosse riuscito a entrare, avremmo avuto davvero il coraggio di ucciderlo? La pietà o la vita... mi ritrovai di nuovo a riflettere su quelle parole. Abbassai lentamente la mia arma. «Non possiamo farlo.» dissi «Lasciarlo morire lì fuori.»


«Bessie...» mi riprese mio padre «non stai tenendo conto di un piccolo particolare.» Io lo guardai senza capire. «Non parla. Lancia delle grida, percuote le assi, ma non parla.» Sciocca, sciocca Bessie. Come non notare una cosa simile? La prima cosa che il virus mortale toglieva a un uomo era proprio la parola. Attaccava il cervello e distruggeva per prima la parte adibita al linguaggio. Era per questo motivo che trasformava gli esseri umani in esseri immondi. Senza parola, senza raziocinio, cosa eravamo? «Non può entrare nell'alveare, o ci ucciderà tutti!» urlò con voce isterica mia zia Juliet. E aveva ancora una volta maledettamente ragione; quella megera l'aveva sempre avuta. La pietà o la vita. Da quel momento in poi scelsi la seconda. Lo sconosciuto riuscì a frantumare il vetro della finestra e a infilare una mano attraverso le assi. Io, mia madre e zia Juliet gridammo in coro. Ma prima che potessi scappare nell'altra stanza, vidi Duncan lanciare il suo coltellino a serramanico e centrare la mano dello sconosciuto. L'uomo lasciò andare un lamento feroce, ritirò di scatto la mano trapassata dalla lama e lo sentimmo scappare via. Le sue grida si dispersero lontano. «Adesso non ci darà più fastidio.» sentenziò mio padre. Ma notai la sua espressione angosciata. «Mi spiace per il tuo coltello.» disse zia Juliet portandosi la mano sul cuore. Albert rientrò battendo le mani e congratulandosi con Duncan. Viscido codardo. Duncan restò immobile a fissare i vetri della finestra


frantumati, caduti sul pavimento. «Non troverò mai più una lama come quella.» disse. Mio padre gli batté una mano sulla spalla e invitò tutti a tornare a dormire; avrebbe continuato lui il turno di guardia. Duncan poi fissò gli occhi su di me. Io conoscevo il significato delle sue parole; non gliene importava nulla di quello stupido coltello. Quel gesto avrebbe cambiato ogni cosa, perché d'ora in avanti non solo avremmo lottato per non morire di stenti, ma come tante piccole api avremmo lottato anche contro chi avesse minato il nostro alveare. Ci saremmo lanciati contro gli estranei come uno sciame impazzito. Dovevamo sopravvivere a ogni costo. La pietà o la vita.


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