Torino 2030. A prova di futuro

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©2021 luca sossella editore/MML srl info@lucasossellaeditore.it www.lucasossellaeditore.it Art direction Alessandra Maiarelli Illustrazioni Irene Coletto

Stampato con un contributo del Politecnico di Torino e dell’Università degli Studi di Torino

Il presente volume è pubblicato in open access. È possibile leggere, scaricare, diffondere, linkare il testo completo accedendo alla piattaforma https://aperto.unito.it/. AperTo è l’archivio istituzionale Open Access destinato a raccogliere, rendere visibile e conservare la produzione scientifica dell’Università degli Studi di Torino.

ISBN 978-88-32231-92-2


Filippo Barbera, Andrea Bocco, Antonio De Rossi, Marco Guerzoni, Patrizia Lombardi, Paolo Mellano, Alessandra Quarta, Giovanni Semi

Torino 2030 A prova di futuro



Indice

9 Prefazione

di Stefano Geuna e Guido Saracco 13 1. Sguardi a prova di futuro

di Filippo Barbera 13 1.1. Wicked problems 15 1.2. Il futuro nel passato: l’evoluzione della coalizione

urbana 25 1.3. Governare l’incertezza: indicazioni per una città

eterarchica 29 2. Tendenze di impatto e fenomeni emergenti

nella Città Metropolitana di Torino di Filippo Barbera e Claudio Marciano 31 32 34 36 38 40

2.1. Dinamiche socio-demografiche 2.2. Economia 2.3. Emergenze Sociali 2.4. Istruzione e Cultura 2.5. Innovazione 2.6. Ambiente e Mobilità

43 3. Mindset e Metodo di lavoro

di Damiano Aliprandi, Alberto Robiati e Azzurra Spirito 43 3.1. Pensare il/al futuro 46 3.2. Metodologia: studi di futuro e previsione

strategica 48 3.3. Scenario Planning

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50 3.4. Nuove esigenze e ritmi di trasformazione per la

città e i loro ecosistemi 52 3.5. Futures and Foresight per le città 54 3.6. Raggiungere gli SDGs 55 3.7. Torino 2030: descrizione dell’approccio

metodologico. 59 4. Ritorno al futuro? Reindustrializzazione

manifatturiera smart e green per rilanciare lo sviluppo industriale dell’area metropolitana basato su conoscenza sostenibilità e occupazione di Marco Guerzoni e Patrizia Lombardi 60 4.1. Webinar 65 4.2. Driving forces e discontinuità 70 4.3. Narrative 77 5. Costruire una visione metromontana.

Policentrismo e interdipendenza funzionale tra territori: persone, istituzioni e servizi di Filippo Barbera e Antonio De Rossi 78 5.1. Webinar 83 5.2. Driving forces e discontinuità 90 5.3. Narrative 95 6. Luoghi e infrastrutture sociali, culturali

e tecnologiche per una città-rifugio: uscire dal paradigma dell’accoglienza per entrare in quello della cittadinanza di Andrea Bocco e Giovanni Semi 96 6.1. Webinar 106 6.2. Driving forces e discontinuità 108 6.3. Narrative 113 7. Vuoti a (p)rendere? Spazi comuni ed economia

locale di Andrea Bocco, Paolo Mellano e Alessandra Quarta

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114 7.1. Webinar 124 7.2. Driving forces e discontinuità 127 7.3. Narrative 133 8. La sfida ambientale. Consumo di suolo,

retrofitting energetico, inquinamento, ondate di calore: come preparare la città agli effetti del cambiamento climatico di Patrizia Lombardi e Paolo Mellano 134 8.1. Webinar 156 8.2. Driving forces e discontinuità 161 8.3. Narrative 167 9. Produzione culturale, performing arts &

comunità artistiche legate ai beni culturali e alle risorse dell’area metropolitana di Filippo Barbera e Patrizia Lombardi 169 9.1. Webinar 175 9.2. Driving forces e discontinuità 183 9.3. Narrative 189 10. Sei missioni a “prova di futuro”: verso

Torino 2030 di Fabrizio Barbera, Andrea Bocco, Antonio De Rossi, Marco Guerzoni, Patrizia Lombardi, Paolo Mellano, Alessandra Quarta, Giovanni Semi 192 197 203 207 209 213

10.1. Asse 1: Riconversione manifatturiera 10.2. Asse 2: Visione metromontana 10.3. Asse 3: Infrastrutture sociali abilitanti 10.4. Asse 4: Spazi (in) comune 10.5. Asse 5: Giustizia ambientale e intergenerazionale 10.6. Asse 6: Produzione culturale e comunità artistiche

219 Comitato scientifico e Gruppo di lavoro 223 Bibliografia 231 Ringraziamenti

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Prefazione Stefano Geuna e Guido Saracco*

Il progetto “Torino 2030: a prova di futuro” nasce come iniziativa di un gruppo di ricercatrici e ricercatori del mondo accademico torinese che, nella primaveraestate del 2020, hanno condiviso l’esigenza di ripensare la strategia di sviluppo dell’area metropolitana. Tale ripensamento è generato da due fattori concomitanti: da una parte, la contingenza della crisi pandemica che obbliga l’area vasta torinese a una trasformazione in chiave rigenerativa; dall’altra, la crisi strutturale dell’economia locale e della struttura sociale, da lungo tempo caratterizzate da diseguaglianze e debolezze. Il progetto che ne è nato “Torino 2030: a prova di futuro” è stato condiviso con i Rettori dei due Atenei e rappresenta un’opportunità per mettersi al servizio del territorio e della comunità al fine di contribuire, con i propri saperi e strumenti, a una visione integrata e strategica dello sviluppo e della trasformazione della metropoli postpandemia. La preparazione di questo documento si inserisce quindi nelle attività della cosiddetta “terza missione” dei nostri Atenei; attività che riveste un ruolo sempre più centrale per l’accademia, come dimostra anche l’esercizio in corso della VQR (Valutazione Qualità della Ricerca realizzata dall’ANVUR - Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca), che ha inserito anche il trasferimento tecnologico, l’impatto sociale e la condivisione della conoscenza tra gli ambiti oggetto di interesse. I saperi alla base del progetto di “Torino 2030: a prova di futuro” sono quelli specialistici e complementari delle diverse discipline SSH (Social Science & Humanities) e STEM (Science-Technology-Engineering-Mathematics) tipiche * Rispettivamente Rettore Università di Torino e Rettore Politecnico di Torino.

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delle nostre due comunità accademiche. A fianco di questi, grazie al caratteristico percorso metodologico adottato, basato sull’approccio scientifico dei future studies, sono state incorporate e ricomprese tutte quelle preziose forme di conoscenza diffusa sul territorio che appartiene agli attori e operatori dei diversi settori toccati dalla ricerca. “Torino 2030: a prova di futuro” si caratterizza quindi per essere una “ricerca-azione”, con solide basi scientifiche e una fondamentale capacità di risposta a quel bisogno di futuro messo in evidenza nella introduzione e nei capitoli successivi. L’area torinese, nel suo insieme, si è spesso caratterizzata come ambito di sperimentazione e innovazione e, anche in questi anni difficili, è in grado di progettare un futuro all’altezza delle sfide che la attendono. Da questa ricerca-azione è nato un progetto che ha individuato 6 sfide, 12 missioni e 41 azioni volte a affrontare i problemi sociali, economici, ambientali e territoriali dell’area vasta metropolitana. I temi individuati non sono certo esaustivi, né potrebbero esserlo, e riflettono le competenze specifiche del comitato scientifico. Nondimeno, il lavoro ha selezionato alcune problematiche che per il ruolo generale possono costituire dei “driver di futuro”. Lo ha fatto, per esplicita scelta del comitato scientifico, in modo “radicale”, cercando di individuare problemi e opportunità in modo originale e non scontato. Si è così messo a tema il supporto all’innovazione alla base della riconversione del sistema produttivo in chiave ecologica e digitale; la necessità di una visione metromontana, basata su policentrismo e interdipendenza funzionale tra territori; una concezione nuova dei luoghi e delle infrastrutture sociali, culturali e tecnologiche, come prerequisito di una piena cittadinanza sociale; un’economia dei beni e degli spazi comuni come contesto per l’azione collettiva; la de-carbonizzazione e il paradigma della città circolare alla luce degli effetti del cambiamento climatico e, infine, il ripensamento della produzione culturale e creativa dell’area metropolitana come settore strategico. Problematiche, queste, che richiedono una classe dirigente coesa e capace di mettere a valore la diversità organizzata che caratterizza il tessuto economico, civile e culturale del territorio. 10


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1. Sguardi a prova di futuro di Filippo Barbera

1.1. Wicked problems Torino è orfana di futuro. Dopo la stagione dei grandi piani strategici, la città si è via via ripiegata sulla gestione dell’esistente, senza riuscire a dare voce e spazio a vecchi e nuovi bisogni, alle aspettative di cambiamento e capacità progettuali diffuse nel territorio. Il futuro non è mai un pranzo di gala, tantomeno in questi tempi difficili. Il futuro è costellato da wicked problems che, per loro natura, non hanno una soluzione univoca e richiedono risposte capaci di coniugare soluzioni tecnologiche, modelli giustizia sociale e ambientale, impegno individuale, consenso politico, azione amministrativa, sostenibilità ambientale e imprenditorialità (Raab e Orlemans, 2016). Problemi che coinvolgono interessi contrastanti e scambi dove i guadagni si distribuiscono in modo asimmetrico, con attori che devono “pagare di più” e dove – almeno nel breve periodo – si danno vincenti e perdenti. Per questo, le soluzioni ai wicked problems non sono gestibili solo tramite approcci di ingegneria sociale, ma richiedono la costruzione del consenso politico e la definizione condivisa di orizzonti temporali di lungo periodo, spesso non basati sul calcolo costi/benefici immediato (Alford e Head, 2017). Per cogliere le difficoltà che un futuro costellato di wicked problems pone ai territori, è necessario chiarire che la loro complessità può derivare sia da dimensioni tecniche connesse alla lunghezza, incertezza e/o opacità delle catene mezzi-fini, sia da dimensioni riguardanti gli attori, i contesti e i processi decisionali. La complessità tecnica si snoda lungo un gradiente strutturato dalla chiarezza/trattabilità dei problemi e delle soluzioni, mentre il livello degli attori/

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contesti è definito dalla maggiore o minore rilevanza di problemi di coordinamento (conoscenza, informazione) e di cooperazione (interessi, valori, potere) tra gli attori. Questi due assi, individuano uno spazio di attributi e nove tipi di problemi pubblici, da intendersi come sovrapposti lungo un continuum analitico (tab. 1). Troviamo così problemi semplici e “addomesticabili”, problemi cognitivamente complessi e anche problemi che riguardano l’assenza di una buona comunicazione pubblica, fino a problemi “politicamente turbolenti” e a quelli propriamente wicked. Diverse combinazioni, basate su specifici mix di mercato, azione pubblica, tecnologia, azione collettiva e imprenditorialità sociale, assumono diversa rilevanza in relazione al tipo di problema pubblico con il quale intendono misurarsi. Inoltre, va detto che il medesimo problema ricade in un tipo piuttosto che in un altro se affrontato a una diversa scala. Per esempio, la transizione dalle fonti energetiche fossili a quelle rinnovabili e, in generale, i problemi ambientali sono ricchi di esempi positivi e virtuosi di soluzioni locali per un “buon antropocene”1 a livello di grandi città, Regioni o Stati, ma ancora deboli su Si veda: https://goodanthropocenes.net/ scala globale.

Non chiari né il problema né la soluzione Problema chiaro, soluzione non chiara

Complessità del problema

Chiari sia il problema che la soluzione

Relazioni cooperative o non conflittuali

Attori molteplici e frammentati

Attori molteplici e conflittuali

Problemi a elevata complessità cognitiva

Problemi conflittuali e divisivi

Problemi estremamente minacciosi [wicked]

Problemi a elevata complessità analitica

Problemi complessi

Problemi politicamente turbolenti

Problemi semplici

Problemi difficili da comunicare

Problemi politicamente complessi

Difficoltà di cooperazione tra attori Tab. 1. Problemi pubblici: semplici, divisivi, turbolenti, complessi e wicked. Fonte: Alford, Head (2017).

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1. Sguardi a prova di futuro

Quale è il futuro di Torino rispetto allo spazio analitico dei problemi pubblici? Come verrà illustrato (cfr. cap. 4), gli scenari individuati mostrano un campo di variabilità ampio, fortemente dipendente da scelte collettive riguardo le biforcazioni possibili. In altri termini, gli scenari dei futuri possibili indicano che la prossima classe dirigente avrà responsabilità oggettive cruciali: potrà essere ricordata come quella che ha salvato la città, oppure come quella che l’ha affondata. Il decennio scarso che si separa dal 2030, infatti, vedrà la combinazione di macro-trend demografici, ambientali, tecnologici e istituzionali che porranno l’area vasta di Torino di fronte a scelte drastiche, dalle conseguenze dirompenti (Hajkowics, 2015). Il futuro non sarà, in ogni caso, business as usual. La classe dirigente dovrà saper dimostrare non solo la capacità di indirizzare le azioni del presente verso futuri auspicati e scenari desiderati (la visione strategica) ma anche, e soprattutto, mostrare di avere consapevolezza delle forze trasformative in atto nel presente (segnali forti e segnali deboli), delle loro dinamiche evolutive nel futuro, dei diversi eventi a bassa probabilità ma ad alto impatto, costruendo di conseguenza strategie di adattamento e anticipazione solide e fondate. In altre parole, ci si aspetta che chi sta alla guida e detiene il potere decisionale per la collettività sappia disegnare e attuare strategie “a prova di futuro”. 1.2. Il futuro nel passato: l’evoluzione della coalizione urbana Torino ha, da questo punto di vista, alcune importanti lezioni da apprendere dal proprio passato. Durante la Torino one company town, dalla metà degli anni ’70 alla metà degli anni ’80 (Giunte Novelli), la politica economica della città non era realmente nelle mani del governo locale: contava chi era capace di attivare legami verticali con il governo centrale e i suoi apparati e dove la FIAT dialogava direttamente con il livello nazionale e le éli-

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te locali svolgevano un ruolo secondario. La marcia dei quarantamila del 1980 segna l’inizio della fine dei giochi a somma positiva tra capitale e lavoro e della crescita conflittuale della Torino operaia. La crisi degli anni ‘80 lascia più spazio alle “aristocrazie” locali, che si organizzano in gruppi politico-affaristici fino ad allora estromessi dalle decisioni strategiche. Sono gli anni delle giunte pentapartito (1985-1992), con l’esclusione dei comunisti, che vedono alternarsi in sette anni quattro Sindaci alla guida della città (Cardetti, Magnani Noya, Zanone, Cattaneo). Sono anche gli anni in cui le élite locali si aggregano in modo netto in due campi contrapposti, creando le condizioni per la formazione di due gruppi “polarizzati”, con uno nettamente “pro business” e l’altro chiaramente “pro labour”, senza “mediatori” capaci di guidare l’azione collettiva (Locke, 1995). A Torino la riforma del 1993 conclude dunque un periodo di paralisi e stallo, caratterizzato da gruppi in “competizione polarizzata”. Prima della svolta degli anni ’90, Torino può essere definita come una città politicamente bloccata, con un’industria automobilistica in crisi e alle prese con una crisi di vocazione e identità.2 Tra il 1981 e il 2001 l’industria manifatturiera torinese ha visto drasticamente ridimensionato il suo peso occupazionale e produttivo: gli addetti sono diminuiti del 41% (passando da 442.701 a 262.911); il numero delle unità produttive locali è diminuito, anche se in misura meno marcata (10%), passando da 25.057 a 22.511. Per effetto di queste dinamiche, all’interno della struttura economica provinciale si è ridotto il peso del comparto manifatturiero, che nel 1981 rappresentava il 19,9% delle unità locali e il 48,6% dell’occupazione, e che vent’anni dopo è sceso, rispettivamente, all’11,6% e al 9,9%. Parallelamente, la quota del settore manifatturiero sul valore aggiunto passa a livello regionale dal 41,5% al 27,4%. La contrazione occupazionale interessa in modo omogeneo tutto l’arco di tempo consiI dati sono tratti dai derato, con una riduzione del -24% tra il 1981 “Materiali per il secone il 1991 e del -22% nei dieci anni successivi. In do piano strategico”, a cura di B. Berta, C. termini di unità locali, invece, nei primi dieci Casalino, L. Ciravegna anni è stata rilevata una riduzione (-12%), che (2004)

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1. Sguardi a prova di futuro

è stata però invertita nel decennio successivo (+2%): la dimensione media della unità produttive si è così ridotta da 17,7 nel 1981 a 11,7 addetti per unità locale nel 2001. La riforma del 1993 per l’elezione diretta del Sindaco si presenta, quindi, in uno scenario davvero complesso, con la politica che svolge il ruolo di “collo di bottiglia” per lo sviluppo (Bagnasco, 1986; De Rossi e Durbiano, 2006.). La formazione delle coalizioni politiche coinvolge ampiamente la società civile torinese. Mentre Rifondazione e la Rete candidano l’ex sindaco Diego Novelli, PDS, Verdi e Alleanza per Torino (un movimento che riunisce diversi ambienti del riformismo laico e cattolico) propongono la candidatura del professore del Politecnico Valentino Castellani. La candidatura è “certificata” da otto intellettuali legati alla sinistra ma indipendenti dai partiti (tra i quali Arnaldo Bagnasco, Nicola Tranfaglia e Gian Giacomo Migone). Con la vittoria di Castellani si insedia al governo della città una coalizione di centro-sinistra che mette insieme ex-comunisti ed ex-democristiani, oltre che esponenti del mondo imprenditoriale e delle professioni e intellettuali. Si tratta di una ristretta cerchia intellettuale e professionale, pragmatica e aperta al confronto, in cui i partiti hanno un peso modesto. Durante il primo mandato della giunta Castellani (1993-1997) vengono messe in cantiere molte iniziative, spesso di medio-lungo periodo e poco legate a esigenze di consenso elettorale, supportate da assessori che possono vantare reti estese nella società locale e in quella internazionale. La “questione sicurezza” e il deficit di comunicazione pubblica portano Castellani alla sconfitta al primo turno delle elezioni comunali del 1997. Il sindaco vince poi al ballottaggio con soli 4.700 voti di scarto, grazie all’alleanza con Rifondazione Comunista. Come rilevato nella ricerca “Comuni nuovi” (Catanzaro et al., 2002), la seconda giunta Castellani vede un ritorno dei partiti e dei professionisti della politica. Nel periodo delle due giunte Castellani si consolida una specifica configurazione della classe dirigente locale: un “reticolo policentrico” formato da organizzazioni e attori legati da legami orizzontali, con ampia possibilità di comunicazione e di gestione del conflitto, e di ripresa del

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dialogo anche in presenza di rottura tra le parti, grazie alla presenza di mediatori che collegano i diversi campi (Granovetter, 2000). Questo modello segna una cesura rispetto al “reticolo polarizzato” prima menzionato (1985-1992), quando le élite locali erano aggregate in due campi contrapposti, ognuno dei quali caratterizzato dalla presenza di forti legami interni e poche connessioni con il campo opposto. Reticolo che aveva soppiantato quello gerarchico del decennio 1975-1985, dove i legami che contavano erano quelli verticali con i livelli sovraordinati (nazionale), all’interno di ruoli e gerarchie organizzative (Fig. 1).

Fig. 1. Tre modelli di reticolo sociale. Fonte: Locke 1995, 27.

Come si forma questa coalizione urbana? Molti e diversi rivoli – dal progetto “Tecnocity”, al ruolo della Fondazione Agnelli, ai gruppi di discussione raccolti dal progetto curato da Arnaldo Bagnasco “La città dopo Ford” sino alle discussioni che accompagnano la lavorazione del libro “Torino. Un profilo sociologico” – concorrono a consolidare una “comunità epistemica” locale. Un gruppo di attori con competenze riconosciute dai propri pari, che condivide (o arriva a condividere) priorità comuni sugli obiettivi da raggiungere e sui mezzi necessari per farlo. Attori con appartenenze anche piuttosto diverse, che si riconoscono una serie di norme e valori, mappe cognitive, convinzioni e visioni del mondo, oltre che per il tramite di criteri condivisi sulle catene causali

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1. Sguardi a prova di futuro

mezzi-fini, sulle convenzioni di qualità e sulle metriche del valore. Torino era ricca di “luoghi intermedi”, spazi fisici di confronto e discussione, dove gli attori di quella che sarà poi la classe dirigente locale si confrontavano e condividevano visioni, soluzioni e criteri reputazionali. Come ci ricorda Jurgen Habermas (2006), la sfera pubblica ha una importante dimensione fisico-spaziale, che non può essere sostituita da quella mediatica e dell’opinione pubblica. Questa “organizzazione della diversità” si nutre anche della “diversità organizzata” che – in quegli anni – caratterizzava ancora Torino: partiti, corpi intermedi, organizzazioni degli interessi. La coalizione policentrica era ben collegata alle organizzazioni intermedie – politiche e sociali – e poteva contare su meccanismi di scambio politico locale ben strutturati. Tanto che l’associazione per la pianificazione strategica “Torino Internazionale” aveva incaricato un suo importante membro di condividere obiettivi e strategie con “le sette chiese”. Le iniziative che fioriranno a Torino a partire dalla seconda metà degli anni ’90 sono emblematiche della presenza di un reticolo policentrico ben connesso a una rappresentanza politico-sociale ancora ben organizzata: cooperazione, azione collettiva, leadership consensuale, capacità di coordinamento, risorse vs. consenso. Questa nuova governance torinese si caratterizza per una notevole capacità di cooperazione tra partiti, organizzazioni di rappresentanza degli interessi, attori pubblici, attori privati e autonomie funzionali, che si coordinano spesso attraverso nuove organizzazioni dedicate a specifiche strategie di sviluppo locale della città (Scamuzzi, 2005). L’associazione per la pianificazione strategica di Torino ne è forse l’esempio più noto. È in questa fase che si mettono in cantiere iniziative di medio-lungo periodo, poco legate a esigenze di consenso elettorale immediato: la metropolitana, la candidatura ai giochi olimpici, il ridisegno urbanistico della città, il sistema turistico locale. Si tratta di vicende note e che non è necessario riassumere nei dettagli (Bagnasco, Berta e Pichierri, 2021). Basti ricordare che, da uno studio, condotto da un gruppo di ricerca italiano (Dente, Bobbio e Spada, 2005), sui policy

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networks che generano politiche metropolitane innovative, nel decennio compreso tra il 1993 e il 2002 Torino mostra una notevolissima capacità di innovazione, superiore a quella di Milano. Lo studio considera trenta casi di innovazioni metropolitane intercorse nelle due città (per esempio la linea metropolitana o le Olimpiadi invernali a Torino, l’ampliamento dell’aeroporto Malpensa o la riqualificazione della Pirelli-Bicocca a Milano), e ne ricostruisce i processi decisionali, rilevando gli attori che vi hanno preso parte e le relazioni che hanno, volta per volta, stabilito. Gli attori che sono emersi nei trenta casi in ciascuna città e le loro relazioni sono raffigurate nella fig. 2 (in ogni box è indicato il numero di casi in cui è stato coinvolto quell’attore).

Fig. 2. I networks per l’innovazione metropolitana a Torino e Milano (Fonte: Dente, Bobbio e Spada 2005, pp. 42-43)

In entrambe le città il Comune ha una posizione centrale nella rete (quello di Milano è presente in 22 casi su 30, quello di Torino in 28), ma le due reti hanno una forma diversa. Le reti dei 30 casi Milanesi sono tendenzialmente meno complesse: vi partecipano un numero minore di attori e sono soprattutto meno presenti quelli appartenenti al settore pubblico (lato sinistro del grafico). Le reti dei trenta casi milanesi sono anche meno dense: gli attori che vi partecipano hanno un minor numero di relazioni tra di loro. Gli autori della ricerca hanno concluso che la differente complessità e densità delle due

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1. Sguardi a prova di futuro

reti ha influito sulla capacità innovativa delle due città (Bobbio, Pomatto, Ravazzi, 2017). Infatti, in quel periodo la città di Torino aveva mostrato una capacità di innovazione nettamente superiore a quella di Milano, come risulta dalla tab. 2. Innovazioni di agenda Introduzione di nuovi temi, risposta a nuove sfide

Innovazioni di processo Nuovi metodi per risolvere problemi vecchi e nuovi

Innovazioni simboliche Nuove forme di comunicazione dell’azione pubblica

Innovazioni di prodotto Nuove soluzioni a problemi tradizionali

Torino

+++

+++

++

++

Milano

+

+

+++

+

Tab. 2. La capacità innovativa delle due città (1993-2002). Fonte: Dente et al. 2005, p. 40.

L’affollamento (il numero degli attori), l’eterogeneità (la provenienza da mondi diversi) dei soggetti istituzionali, pubblici e privati, e dei livelli territoriali che concorrono a formulare le politiche pubbliche, la complessità (data dalla media del prodotto tra il numero degli attori e il numero dei livelli) e la densità (data dalla compresenza degli attori nei casi analizzati e dai legami diretti tra gli attori coinvolti) del governance network testimoniano la migliore attitudine del capoluogo piemontese ad affrontare le sfide dell’innovazione urbana. Con queste caratteristiche, il reticolo favorisce l’innovazione attraverso la diversità: tra attori, scale territoriali, settori, priorità, interessi e valori. La densità favorisce l’organizzazione di questa diversità, trasformando il “caos” in frizione creativa e confronto dissonante e produttivo. Caratteristiche, queste, che permettono di immaginare e realizzare più facilmente processi decisionali aperti e “a prova di futuro”. L’azione di questa élite policentrica e innovativa, va ricordato, si sviluppa in un contesto caratterizzato da risorse e giochi a somma positiva, anche grazie alla presenza di uno o più attori che esercitano una funzione legittima e consensuale di guida della coalizione

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urbana. Guida che aiuta a riformulare gli interessi di parte in un’ottica che si stacca dalla reattività e dal breve periodo e si sposta alla progettualità e al medio-lungo periodo (Barbera, 2002). Dopo le due Giunte Castellani nel 2001, con la prima giunta Chiamparino, si assiste a un ritorno completo dei professionisti della politica: i diciassette assessori dei primi quattro anni sono tutti appartenenti a partiti. La dimensione aperta e policentrica della coalizione urbana che aveva caratterizzato i primi dieci anni (1993-2003) si indebolisce: si gettano le radici del c.d. “sistema Torino”. Dal punto di vista dell’agenda di governo, la giunta Chiamparino è comunque in totale continuità con i progetti avviati da Castellani: linea sotterranea della metropolitana, passante ferroviario, progetti edilizi, viabilità, Olimpiadi. Da questo punto di vista e al netto delle differenze appena sottolineate, con le giunte Castellani-Chiamparino Torino si avvia lungo la cosiddetta “traiettoria centrale” dell’innovazione urbana (Barbera e Parisi, 2019), fondata sugli obiettivi prioritari della qualificazione selettiva dell’industria ad alta intensità di capitale e dello sviluppo delle istituzioni della conoscenza, attraverso il sostegno agli investimenti tecnologici e alle sinergie tra mondo della ricerca, servizi e imprese leader. Troviamo qui i Parchi e Distretti Tecnologici, ma anche gli Incubatori e i “poli dell’innovazione” ispirati al modello dei cluster porteriani. Come noto, a Torino questa traiettoria centrale si è sviluppata come parte integrante dei Piani Strategici del 2000 e del 2006 e dell’investimento che la Città ha operato per il riposizionamento strategico e identitario, con la riqualificazione di aree urbane e spazi, l’investimento in nuovi settori (cultura, innovazione, turismo) e una nuova infrastrutturazione funzionale (assi di comunicazione, mobilità, servizi). Gli esiti di questa nuova agenda urbana (Belligni e Ravazzi, 2012; Semi, 2015) dipingono un quadro in chiaroscuro. Come prima sottolineato, la città usciva da un periodo di stallo decisionale, crisi produttiva e di identità: la coalizione che ha preso in mano le redini di Torino dai primi anni ’90 ai primi anni 2000 ha guidato una transizione davvero complessa. L’azione messa in campo

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1. Sguardi a prova di futuro

è stata efficace nel riconvertire l’immagine della città, nel mobilitare parte del sistema produttivo e nell’introdurre progettualità strategiche e strutturali di mediolungo periodo. In parallelo, come è stato rilevato da molte ricerche, l’agenda urbana della città politecnica, policentrica e pirotecnica – secondo la felice formulazione di Silvano Belligni e Stefania Ravazzi (2012) – non ha sedimentato consenso politico nella cittadinanza e non ha risolto le diseguaglianze territoriali e di classe/ceto che caratterizzano il territorio (Rapporti Rota, anni vari). Temi, questi, che come mostra l’esito delle elezioni amministrative del 2016, hanno premiato il Movimento Cinque Stelle e Chiara Appendino. Cosa è accaduto? Durante le giunte Chiamparino la coalizione urbana si “chiude” e si “politicizza”, perdendo l’apertura e la fluidità dei primi anni. Cambia, del resto, anche la società locale, si indebolisce la capacità di rappresentanza dei corpi intermedi e il quadro macro si complica. A livello locale, si creano percorsi di carriera pubblico-privato per pochi, oligarchie decisionali ristrette, equilibri e scelte negoziati tra un numero sempre minore di attori. Il potere si concentra nelle mani dei pochi e soliti attori. Chiamparino stesso ben rappresenta questo modello: Sindaco di Torino per due mandati, Presidente della Compagnia di San Paolo, Governatore della Regione. Gli analisti della politica locale denunciano un forte rischio di “tecnocrazia oligarchica”, basata su un sempre più labile collegamento tra l’inner circle delle élite locali e la cittadinanza nel suo insieme (Belligni e Ravazzi, 2012). Ma anche dalla scarsa capacità di cooptazione di nuovi membri e attori della coalizione urbana, gestione fortemente politicizzata dei ruoli apicali e negoziazione politica degli stessi. Queste analisi suggeriscono alcune direzioni interpretative più generali. Sulla scorta di questi lavori, possiamo sostenere che la progettualità strategica di Torino inizialmente supportata dal “reticolo policentrico” si è via via atrofizzata. Il “sistema Torino” – croce e delizia dei commentatori politici – è un Giano Bifronte: un reticolo inizialmente capace di progettualità strategica e di uno sguardo “lungo”, che toglie la città da una

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situazione di stallo, ma che poi perde in apertura e diversità. La coalizione urbana che ha governato la città dalla prima metà degli anni ’90 è invecchiata senza rinnovarsi, senza cooptazioni “dissonanti” capaci di portare semi di innovazione e consenso in un gruppo ristretto, che ha visto depotenziata la spinta propulsiva dei primi dieci anni di attività (1993-2003). La coalizione urbana torinese è così giunta a contare 121 persone, con un nocciolo duro di 54 individui definibili come i principali protagonisti della politica cittadina. Élite, come ha mostrato la storia recente, incalzata da nuovi gruppi e interessi, da un’alleanza tra il disagio delle periferie, gli homines novi dell’imprenditorialità politica del Movimento cinque stelle, le “seconde file” di una borghesia urbana ai margini o esclusa dal “Sistema Torino” e un ceto medio impaurito da prospettive di mobilità sociale discendente. Scarso ricambio delle classi dirigenti, immobilismo e presidio delle posizioni, accentramento del potere di agenda: fattori che generano desiderio di rivalsa tra gli esclusi, che si salda con il risentimento delle periferie, ai margini della “traiettoria centrale” dello sviluppo urbano e con i timori della piccola borghesia urbana. La sconfitta di Piero Fassino contro la giovane sindaca Chiara Appendino suggella così la fine di un ciclo politico iniziato nel 1993. Fassino, da questo punto di vista, è stato l’amministratore delegato di una “impresa” destinata al fallimento. Non è compito di questo lavoro valutare gli esiti della consiliatura Appendino. Limitandosi alle conclusioni cui sono pervenute le ricerche empiriche che ne hanno analizzato gli aspetti qui di interesse – cioè la struttura dei processi decisionali e il rapporto con i poteri della città – va rilevato un duplice meccanismo. Da una parte una maggiore centralizzazione interna dei processi decisionali, che ha generato tensioni interne al Movimento. Dall’altra, un adattamento ai vincoli che ha strutturato negoziazioni con il “Sistema Torino”, diventato un partner con cui allearsi, trattare, scambiare (Biancalana, 2019). Si tratta di un meccanismo noto, che caratterizza i rapporti tra gruppi orientati al cambiamento e gruppi di interesse

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1. Sguardi a prova di futuro

pregressi (Selnick, 1974; Bonazzi, 2008). Annunci di cambiamento radicale e palingenetico hanno una funzione comunicativa, non performativa: sono astrazioni indeterminate con una funzione ideologica. Il cambiamento sociale procede sempre per selezione e ricombinazione e le istituzioni pregresse sono ri-combinate in nuove forme e costellazioni (Granovetter, 2017). Poiché nella società locale vi sono interessi sociali forti e portatori di risorse e consenso, occorre scegliere con chi schierarsi: o portare avanti un programma radicale, oppure adottare un programma più cauto che non provochi l’ostilità dei maggiorenti locali. Il peso delle istituzioni e delle dinamiche di potere ha – come sempre accade – curvato l’azione politica e le intenzioni di cambiamento radicale in relazione al contesto istituzionale pregresso. 1.3. Governare l’incertezza: indicazioni per una città eterarchica La costruzione di una “città a prova di futuro” non può dunque ignorare la storia del governo urbano di Torino, con le sue luci e le sue ombre (Bagnasco, Berta e Pichierri, 2021). Parlare di “futuro” senza radicarlo nei contesti e nei processi decisionali sarebbe un mero esercizio di stile. L’evoluzione tratteggiata nelle pagine precedenti racconta di una coalizione urbana inizialmente orizzontale e policentrica, capace di mettere a valore la diversità, che si è via via trasformata in un gruppo più ristretto, con pochi ruoli apicali, meno in grado di rinnovarsi attraverso cooptazioni dissonanti, meno capace di progettualità strategiche slegate da esigenze di consenso e scambio tattico. Un gruppo troppo omogeneo, verticalizzato, intrappolato in meccanismi di “camera dell’eco” dove si sentono troppo spesso le stesse voci, si ripetono le stesse parole d’ordine e si recitano i medesimi “mantra” (Sunstein, 2011). La vittoria del Movimento cinque stelle non ha cambiato nel profondo la situazione: le vittorie elettorali possono convivere con importanti continuità nei sistemi di potere e con il peso del contesto istituzionale. Il rapporto tra la composizione/ funzionamento della coalizione urbana e la sua “capacità

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di futuro” si traduce in un maggiore o minore capacità di governo dell’incertezza. La retorica che vuole Torino una città “innovativa” non è sufficiente se chi decide non è strutturalmente incline alla “dissonanza” (Stark, 2019). La costruzione di una città a prova di futuro richiede una coalizione eterarchica, capace mettere a valore comune “la diversità organizzata” e “l’organizzazione della diversità”. Il decennio che accompagna le prime due Giunte Castellani è, da questo punto di vista, emblematico: una coalizione policentrica di attori locali con appartenenze trasversali e di riconosciuta competenza, ma ben radicata e connessa a organizzazioni politiche (partiti) e agli interessi organizzati. Elementi entrambi necessari e, purtroppo, oggi fortemente in crisi. Poca “diversità organizzata” e una scarsa “organizzazione della diversità”. Una crisi della capacità di rappresentanza che potenzia la crisi della coalizione urbana. Il concetto di eterarchia ha origine nel lavoro del neuroscienziato Warren McCulloch e identifica quei circuiti del sistema nervoso che mancano di un univoco valore dominante. Sebbene in alcuni contributi l’eterarchia venga opposta alla gerarchia, le riflessioni più mature indicano più semplicemente che i principi eterarchici facilitano la costituzione di “gerarchie temporanee”, situazionali e volontarie, basate sulla responsabilità reciproca e la legittimazione delle azioni in base a metriche del valore laterali e convenzioni di qualità dissonanti. Il sociologo americano David Stark (2019) suggerisce che l’attrito generato nei contesti e processi eterarchici possa essere “produttivo”, in quanto capace di costituire una risorsa in ambienti a elevata incertezza e complessità, consentendo nuove combinazioni, coalizioni e soluzioni che si traducono in organizzazioni capaci di promuovere il cambiamento attraverso l’attrito tra più principi, metriche del valore e convenzioni di qualità. Ciò aumenta la capacità adattiva del sistema, che lascia aperte un numero elevato di alternative per l’esplorazione della “novità” e dei “futuri”. L’applicazione del concetto di eterarchia al governo delle città e alla sfera pubblica sottolinea quindi l’importanza di processi di agenda-setting a potere distribuito, capaci

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1. Sguardi a prova di futuro

di “dare voce” all’ibridazione come principio-guida dell’innovazione. L’eterarchia riconosce l’importanza di processi decisionali aperti e dissonanti, che non si limitino a negoziare con i (pochi) poteri consolidati ma lavorino per tessere e connettere interessi, valori, priorità e bisogni diversi. Deve essere sottolineato che ciò richiede l’abilitazione di un confronto politico il più possibile privo di zone d’ombra, automatismi e derive tecniciste, capace di ricostruire lo spazio pubblico della città, i meccanismi di rappresentanza politica e sociale e la sua agenda urbana come bene comune (Semi, 2020). Una coalizione genuinamente eterarchica è più in grado di cogliere i “semi di futuri possibili” guidati dal progresso tecnologico, transizione demografica, cambiamenti climatici, nuovi equilibri geopolitici, trasformazione dell’economia. Per analizzare l’andamento di queste tendenze di trasformazione, abbiamo dedicato il secondo capitolo alla messa in forma dei principali macro-trend che impatteranno su Torino nei prossimi anni. Nel terzo capitolo, ricostruiamo in modo succinto perché e come le “competenze di futuro” sono importanti per il governo delle città, portando casi ed esempi. Nel quarto capitolo – il cuore del lavoro – abbiamo svolto un esercizio di futuro relativamente a sei problematiche importanti per la città: la nuova manifattura, la dimensione metromontana, le infrastrutture sociali, gli spazi comuni, la sfida ambientale, la produzione culturale. Infine, nel quinto capitolo, abbiamo “messo a terra” le sei problematiche attraverso lo schema concettuale missionoriented proposto da Mariana Mazzucato (2021), che ci ha permesso di individuare sei missioni per Torino 2030.

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2. Tendenze di impatto e fenomeni emergenti nella Città Metropolitana di Torino di Filippo Barbera e Claudio Marciano

In termini statistici, eliminati da una serie cronologica i cicli di varie lunghezze resta quella che viene definita una tendenza o trend. Una volta che le serie cronologiche, relative ad esempio al volume delle importazioni di un certo bene, siano state private delle fluttuazioni pluriennali, annuali o stagionali, residua una tendenza, ad esempio all’aumento o alla diminuzione, oppure alla stabilità (Boudon, 1985). Una tendenza implica pertanto l’astrazione di una dinamica continua, empiricamente rilevabile attraverso indicatori, difficilmente reversibile rispetto al suo attuale orientamento nel medio periodo, e con una importante capacità di influenza sugli scenari futuri. Nel gergo del foresight, una tendenza diviene “Mega” (Megatrend), quando le sue caratteristiche tipiche aumentano di scala (Paura, 2020): in termini di impatto (globale), di durata della direzione (decennale se non secolare), di cogenza empirica nella sua manifestazione (indici e indicatori), di reversibilità (irreversibile se non nel lunghissimo periodo). In questo capitolo, proveremo a mettere in evidenza l’esistenza di alcune tendenze glocali e cioè generate e rilevate nello spazio sociale del Comune di Torino, ma in buona parte condivise dalla città con lo scenario metropolitano italiano e in parte europeo. I cluster tematici dove abbiamo raccolto le singole tendenze sono sei: dinamiche socio-demografiche; emergenze sociali; economia; innovazione tecnologica e sociale; cultura e istruzione; ambiente e mobilità. Accanto alle tendenze, in questo capitolo metteremo a fuoco anche alcune “emergenze” (Marciano, Cassone e Onnis, 2021): feno-

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meni presenti nel contesto metromontano torinese e capaci di inquadrare una direzione di mutamento rilevante per il futuro, ma che sono così recenti o poco osservati da non presentare significativi dati di flusso o sistemi di misurazione condivisi. È il caso, per esempio, dello smart working per come si è configurato durante la pandemia globale di Covid-19, dell’intelligenza artificiale e del suo impatto sulle strategie di sviluppo locale, dell’innovazione sociale come campo per la messa in pratica di inediti modelli di cooperazione tra attori politici ed economici. In forma sintetica gli esiti della breve rassegna proposta in queste pagine sono stati condivisi con i panelist che hanno partecipato ai workshop del progetto Torino 2030. Il senso era quella di offrire una panoramica di tendenze ed “emergenze” per ispirare il loro lavoro di supporto all’elaborazione degli scenari. Come in tutti i lavori che hanno l’obiettivo di creare un background di riferimento, la finalità di questo elaborato è pertanto la sintesi interpretativa resa possibile dalla giustapposizione tra i cluster tematici e l’adeguatezza dei riferimenti empirici utilizzati, non certo la loro completezza descrittiva. Va chiarito che la maggior parte dei dati disponibili per questa riflessione sono precedenti all’impatto del Covid-19. In alcuni casi, come sulle emergenze sociali, alcuni indicatori sono stati aggiornati, ma per il resto, le tendenze rilevate fotografano la situazione di Torino prima dell’arrivo della pandemia. Intuire le direzioni nuove che la pandemia imprimerà a traiettorie fondate nei decenni precedenti è stata una delle missioni affidate ai capitoli successivi. Le fonti che abbiamo utilizzato per ricostruire le tendenze sono molteplici. In alcuni casi, facciamo riferimento alle banche dati di Istat, Comune di Torino, Regione Piemonte. In altri, abbiamo fatto riferimento a rapporti di ricerca già svolti nel contesto torinese, in particolare al Rapporto Rota, alla Relazione Annuale di IRES sull’economia e la società in Piemonte, al monitoraggio di Intesa San Paolo sui distretti industriali, ai rapporti di Banca d’Italia sull’economia regionale, ai Piani Strategici, ai do-

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2. Tendenze di impatto e fenomeni emergenti

cumenti prodotti dall’Osservatorio Cultura Piemonte, a diversi contributi scientifici prodotti da ricercatori che studiano le trasformazioni della città metropolitana da molteplici punti di vista. Il tutto è riportato in bibliografia, mentre per ragioni espositive abbiamo deciso di non collocare ogni singolo dato rispetto alla specifica fonte di riferimento. Nel testo sono riportate percentuali e indicatori che, fotografando una tendenza, si riferiscono in modo stipulativo al periodo 2000-2019. In alcuni casi, dove i dati non erano disponibili o aggiornati, è indicato il periodo differente considerato. 2.1. Dinamiche sociodemografiche Una città sempre più anziana. Torino è una città sempre più vecchia. Negli ultimi 20 anni gli over 65 sono cresciuti del 30%, superando, nel 2019, il 25% della popolazione. A Torino l’aspettativa di vita è infatti tra le migliori delle metropoli italiane, seconda solo a Genova e a Bologna, e proiezioni demografiche fondate prevedono per il 2040 una popolazione anziana che supererà il 45% di quella totale, mentre tutte le classi di età più giovani vedranno una rilevante compressione, fatta eccezione per quella 20-35 rinvigorita dalle nascite delle seconde generazioni di migranti. Riduzione delle nascite. Torino è, di conseguenza, una città sempre meno giovane e con una quota di bambini decrescente. La fascia d’età 14-25 si è ridotta del 5%, malgrado il saldo attivo dei ragazzi nati da coppie straniere (+27%). Nel 2010-2020 le nascite sono crollate del 30% in più rispetto al decennio precedente, che vedeva già una tendenza alla riduzione rispetto al passato. Il tasso di fertilità è in contrazione, la media di età delle donne che partoriscono per la prima volta cresce sempre di più (a Torino le nuove mamme hanno in media 33 anni, ma aumenta la quota delle partorienti over 40). È importante segnalare che, negli ultimi dieci anni, si sia abbassato notevolmente anche il tasso di natalità delle donne immigrate, segno di una convergenza crescente negli stili di vita. L’età media in città è di 47,1 anni: la terza città in d’Italia che in media ha 45,2 anni.

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Flussi migratori in riduzione. Torino è una città multietnica e multiculturale. La quota di stranieri è passata dal 3% del 2000 al 14,4% del 2019 sul totale della popolazione, con una crescita in valori assoluti di circa 80.000 presenze. Tuttavia, negli ultimi anni, il fenomeno migratorio è cambiato e si notano alcune inversioni di tendenza. Il flusso in entrata è diminuito del 25% nell’ultima decade, con una minore concentrazione a Torino e una maggiore nella città metropolitana, e negli ultimi tre anni il saldo migratorio è negativo (-12.000 residenti stranieri tra il 2017 e il 2019). I flussi migratori e i progetti di vita tendono a stabilizzarsi. Dei nuovi nati nel 2017 il 30% era da genitori stranieri, mentre nel 2000 era appena il 7%, anche se questa percentuale è frutto più di una riduzione delle nascite da genitori italiani (-35% tra il 2007 e i 2017). Raddoppiano, invece, i torinesi che rispetto al decennio 2000-2010, emigrano verso l’estero o verso altre città italiane, in particolare Milano. Si tratta, in misura estremamente maggioritaria, di giovani in età lavorativa. Cresce la popolazione residente nella cintura metropolitana. Negli ultimi venti anni è aumentata notevolmente la residenzialità dei Comuni di cintura (+2%) e della Città Metropolitana (+10%). Il Comune di Torino mantiene sostanzialmente lo stesso numero di abitanti, con una tendenza al ribasso negli ultimi anni. Le famiglie costituite da un unico membro aumentano in maniera considerevole (+60%), e se prima erano concentrate esclusivamente nei quartieri del centro urbano, ora sono la maggioranza anche nelle periferie. 2.2. Economia Manifatturiero ancora rilevante. Torino è una città ancora fortemente influenzata dal settore manifatturiero. Tra il 2000 e il 2018, malgrado la pesante battuta d’arresto prodotta dalla crisi economica del 2008-2010, il valore aggiunto a prezzi correnti (d’ora in avanti VA) è cresciuto di oltre il 20%. Diminuisce, invece, la quota di VA prodotta dall’industria rispetto agli altri settori: nel 2019 ammonta al 26% del VA totale, mentre nel 2001 ammontava al 29%. Un valore, comunque, decisamente più alto

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2. Tendenze di impatto e fenomeni emergenti

rispetto alle altre città metropolitane, a eccezione di Bologna. Uno dei punti di forza del sistema economico torinese rimane quello delle esportazioni, che crescono fino al 2019 del 24,5%. L’incremento del VA e dell’export è tuttavia coinciso con la tendenza a una riduzione del numero di addetti nell’industria: nell’ultimo ventennio la riduzione è stata di circa il 30%, con una riduzione di circa 95.000 posti di lavoro. L’automotive resta la maggiore specializzazione produttiva, tuttavia diminuisce il ruolo e il peso di Fiat Chrysler Automobiles (d’ora in avanti FCA, -50% addetti, -80% veicoli prodotti). Torino città di servizi. Torino è una città con un’economia sempre più terziarizzata. Il valore aggiunto prodotto dalle attività relative ai servizi è cresciuto tra il 2000 e il 2019 del 31% e lo stesso rappresenta oggi il 74% del totale, con una crescita del 4% nel ventennio osservato. Aumentano gli occupati con una crescita importante nel settore alberghiero e ristorazione (+42%). Aumenta la capacità ricettiva alberghiera ed extra-alberghiera (+48%), l’indice di ricettività (+ 33%), sebbene la crescita si sia arrestata negli ultimi anni e sia inferiore rispetto ad altre città metropolitane con una maggiore vocazione turistica. Aumentano comunque in maniera considerevole i visitatori (+162% in totale e +75% di stranieri). Tra i settori più in crescita nell’ambito commerciale, c’è quello della grande distribuzione: la superficie complessiva di ipermercati, grandi magazzini e supermercati è più che raddoppiata tra il 2001 e il 2017 (+119%; nel capoluogo leggermente meno: +109%), con gli incrementi più consistenti nel quinquennio 2001-06: +41% nel capoluogo, +34% a livello di città metropolitana. Dinamiche demografico-economiche. Torino è una città dove l’invecchiamento è destinato a incidere sempre di più anche sulla struttura dell’economia locale. Questo perché una popolazione più anziana con meno nascite e senza interventi tesi a stimolare l’aumento del tasso di popolazione attiva, riduce necessariamente il PIL. Negli ultimi venti anni le dinamiche demografiche di Torino hanno avuto un’incidenza negativa, alla pari con altre metropoli del Nord, anche sul Pil nazionale, con un de-

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cremento dello 0.5%. Per il futuro questo impatto potrà essere crescente. L’invecchiamento della popolazione, infine, incrementa i bisogni di economia “fondamentale”, in particolare di servizi sociosanitari e di inclusione. 2.3. Emergenze Sociali Aumenta la polarizzazione sociale. Torino è una città dove crescono le diseguaglianze di reddito. Aumentano i poverissimi: rispetto al 2000, la quota di persone che non dichiara redditi è aumentata del 35%. Aumentano, in parallelo, i redditi sopra i 100mila (+7%), quelli sopra i 50mila (+10%), e quelli sopra i 30mila (+15%). Il ceto medio, più che assottigliarsi, evapora. Se un tempo la stragrande maggioranza dei redditi era concentrata tra i 20mila e i 50mila euro, oggi oltre ²/³ di quella forchetta è scesa verso il basso, mentre solo una piccola parte è approdata più in alto. L’indice di Gini torinese ha un valore superiore rispetto alla media nazionale (0.42 vs 0.33), in crescita soprattutto dopo il 2010, sebbene inferiore ad altre aree metropolitane, come Milano, Roma, Firenze, Bologna e Napoli. Le diseguaglianze non sono distribuite in maniera omogenea sul territorio (Ciaffi et al 2019): lo dimostra l’indice di deprivazione (in cui sono considerati indicatori quali il tasso di disoccupazione, livello di istruzione, densità abitativa e percentuali di abitazioni in affitto) che dal 1971 al 2011 vede una costante e persistente divaricazione tra alcune zone del centro urbano, che risultano “molto ricche”, e zone del semi-centro, soprattutto nella zona nord, che risultano invece “molto deprivate” (cfr. Gnavi et al. 2017). L’aspettativa di vita non è omogenea sul territorio metropolitano: a Barriera è 75-77 anni, mentre a Borgo Po oltre gli 81,5 Diminuisce l’occupazione equivalente. Torino è una città dove l’occupazione stagna e la disoccupazione giovanile aumenta, sebbene con livelli meno gravi di altre metropoli italiane, specie del Centro e Sud. Si registra un aumento del tasso di occupazione generale, che passa dal 60% al 65% (dopo lo shock del 2008-2010), ma vi è anche un aumento della disoccupazione che passa dal 5% al 9% (dati pre-covid). L’occupazione aumenta solo nominalmente,

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perché in termini di ore lavorate, diminuisce notevolmente. Se si guarda al dato sui posti di lavoro equivalenti a tempo pieno (FTE), si nota infatti che dal 2009 al 2019, Torino passa da 149.815 a 117.171, con un decremento di oltre 32.000 posti. Tendenza positiva è invece relativa al tasso di occupazione femminile che passa dal 51 al 59%. Aumenta la povertà assoluta. Torino vede peggiorare gli indicatori relativi alla povertà assoluta e a quella relativa, almeno fino al 2019 (prima dell’inserimento del reddito di cittadinanza), in coerenza con il panorama nazionale e regionale. In Piemonte, infatti, la povertà assoluta passa dal 2,9% al 5,6%, raddoppiando negli ultimi venti anni, soprattutto dopo la crisi del 2008-2010, dato che a seguito della pandemia è destinato ad aggravarsi. Il numero di famiglie, sempre su base regionale (ma dove l’impatto della città di Torino è superiore alla quota dei suoi abitanti data la prevalenza di polarizzazioni economiche nelle città) in povertà assoluta passa dai 57.000 del 2007 ai 112.000 circa del 2019. Gli interventi di sostegno al reddito verso minori da parte del Comune di Torino, stranieri e adulti, dal 2013 al 2019, sono aumentati in media di 20%. Aumenta il ruolo delle fondazioni di origine bancaria nel supportare le politiche sociali comunali: la Compagnia di S. Paolo dal 2008 al 2018 ha più che raddoppiato i suoi contributi, passando da un investimento di 24 milioni a 52 milioni l’anno. Partecipazione elettorale funzione dei redditi. Dal punto di vista della partecipazione elettorale, Torino si pone in linea con un trend nazionale decrescente (Cepernich et al. 2020): tra il 2008 e il 2018 l’affluenza elettorale cala di 5,2 punti percentuali, pur restando sempre sopra il 70%. È una riduzione significativa ma contenuta, rispetto al dato nazionale (-7,6 punti in dieci anni). Tuttavia, questa dinamica è in gran parte accelerata da fattori socioeconomici. Il dato di tendenza è infatti che sono sempre meno gli elettori a basso reddito che vanno a votare: tra il 2008 e il 2018 sono diminuiti di circa l’8%, con valori di adesione rispetto alla media comunale di Torino sensibilmente più bassi. Se infatti nel 2008 l’affluenza alle urne nelle aree disagiate era di 4 punti percentuali inferiore

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rispetto alle aree a basso disagio, nel 2018 questo rapporto arriva a 7,8 punti. Sistema sanitario in affanno. Torino ha un sistema sanitario regionale che, in coerenza con il livello nazionale, presenta dinamiche controverse a causa delle politiche di retranchement (Ferrera, 2006). Tra il 2000 e il 2018 nei nosocomi di pertinenza dell’area metropolitana di Torino i posti letto si sono ridotti del 30%, passando dai 47,8 ogni 10mila abitanti ai 33,5. Una dinamica simile ha seguito la disponibilità di posti letto in day hospital, passati da 11,5 a 8,7, mentre il Piemonte è risultato ultimo – almeno fino al 2019 – tra le Regioni del Nord Italia per posti letto in terapia intensiva (1,3 ogni diecimila abitanti) e per tasso di copertura dell’assistenza domiciliare integrata. Il personale medico è lievemente aumentato (da 22 ogni 10mila abitanti a 25), allo stesso modo il personale con funzioni di riabilitazione (da 3,1 a 3,8) e quello tecnico-sanitario (7,7 - 8,4). A essere invece oggetto di una riduzione è stato il personale infermieristico sceso da 50 ogni 10mila a 45. 2.4. Istruzione e Cultura Più scolarizzazione e meno Neet. Cresce l’offerta di asili nido (+126%) e migliorano gli investimenti sulle politiche locali per l’infanzia, sebbene diminuisca l’utenza di riferimento: Torino spende il 60% in più della media nazionale nei servizi socioassistenziali per l’infanzia e vanta un’offerta di asili nido del 40% superiore alle aspettative del Consiglio Europeo di Barcellona 2002. Cresce, fino a raggiungere quasi la copertura completa, il tasso di scolarizzazione primaria e secondaria (96% nel 2018); si riduce il tasso di abbandono scolastico: a Torino “solo” l’8% dei 18-24enni non arriva al diploma superiore (contro il 20% delle metropoli del Sud). Anche i NEET, i giovani che né studiano né lavorano tra i 16 e i 24 anni, si riducono (dal 17,5 al 16,1% del totale), sebbene la tendenza dal 2013 al 2016 avesse visto un picco in aumento (fino al 24%), probabilmente legato alla crisi economica 2008-2010 In rapporto alle altre grandi città metropolitane, Torino presenta dati peggiori sui NEET rispetto a Milano, Bologna e Firenze (13%), ma decisamente mi-

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nori rispetto a quelle del Sud Italia (Napoli e Palermo 38%). A livello qualitativo si osserva un declino di iscritti agli istituti professionali ( -18% ) e un aumento nei Licei scientifici (+30%). Università in crescita ma ancora pochi laureati. A differenza della media italiana, gli Atenei torinesi (Politecnico e Università) hanno visto una forte crescita dei propri iscritti, soprattutto provenienti da altre regioni e dall’estero (+ 25% di immatricolazioni tra il 2000/2001 e il 2018/2019). In particolare, gli immatricolati di Unito sono cresciuti di circa il 30% mentre quelli del Politecnico del 12%. Parallelamente sono cresciuti i laureati (+140%). Tuttavia, i laureati residenti a Torino sono ancora una quota troppo bassa della popolazione, il 12% rispetto alla popolazione con età superiore ai 6 anni, un valore inferiore a molte altre città italiane, in primis Roma e Milano, dove i laureati sono rispettivamente il 16% e il 15%. La dinamica occupazionale dei laureati negli atenei torinesi a un anno dal conseguimento del titolo di studio specialistico vede una crescita differenziata in base ai settori disciplinari: tra il 2012 e il 2018, aumentano gli occupati tra i laureati nelle Scienze Politiche e Sociali (dal 56 al 63%), in Ingegneria (dal 75 al 77%), in Economia (dal 65 al 74%), nelle Scienze dell’Educazione (dal 74 al 82%). Diminuiscono invece i laureati occupati nel settore delle discipline psicologiche (dal 52 al 42%), nel settore medico, che resta tuttavia quello più performante (dal 89 al 83%). Industria Culturale in crescita ma con minori contributi del Comune. Il settore dell’industria culturale presenta un panorama di notevole dinamismo: Torino ha nettamente arricchito e migliorato la sua offerta museale, arrivando a raggiungere oltre 5 milioni di visitatori nei suoi siti di pregio (Reggia di Venaria, Museo Egizio, Museo del Cinema). Performance in attivo si registrano anche sul fronte dello spettacolo (cinema, musica, teatro, arti visive) con un aumento del 10% sul numero di eventi e del 16% degli spettatori. La dimensione economica dei contributi pubblici e privati a sostegno della cultura in Piemonte nel 2018 è stata di poco meno di 262 milioni

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di euro, ovvero il 9,6% in più del 2017: il 37% arriva dalle Amministrazioni Comunali (-40% dal 2011), il 25% da fondazione di provenienza bancaria (stabile), il 21% dalla Regione e il 17% dallo Stato (in crescita). Migliora la partecipazione alla vita culturale. Il settore culturale è sempre più motore anche di inclusione sociale. La forte partecipazione della cittadinanza all’offerta culturale è un fenomeno avviatosi in modo strutturale nel 2006, con le Olimpiadi Invernali e, negli anni, costantemente cresciuto come dimostrano il successo dell’Abbonamento Musei (+100% in dieci anni) o i tassi di partecipazione culturale che, in particolare nel settore lettura, vedono i torinesi avere performance distintive in Italia (+ 20% media nazionale). L’attenzione del pubblico torinese trova un ulteriore punto di riferimento nei numerosi centri culturali indipendenti diffusi in città – a partire dalla rete delle Case del Quartiere che nel 2019 ha prodotto circa 1.300 iniziative culturali, in massima parte gratuiti e organizzati insieme ad altri attori del territorio 2.5. Innovazione Tecnologica e Sociale Innovazione tecnologica. L’innovazione economica torinese fa i conti con il progressivo disimpegno di FCA. Nel Regional Innovation Scoreboard, una classifica della capacità innovativa di 238 aree regionali Europee, il Piemonte ha visto negli ultimi tre anni scendere il suo potenziale, da forte a moderato, superato da quasi tutte le Regioni del Nord. L’incidenza di start up innovative torinesi è del 3,5% sul totale nazionale, Milano è sei volte avanti, Roma più di tre, Torino è lievemente sotto Napoli. Punti di forza restano la quota di R&S spesa dai privati in ricerca, la spinta all’innovazione di PMI, il numero di occupati in KIBS e High Tech. Debolezza cronica è invece la scarsa reticolarità e collaborazione tra imprese, basso livello di istruzione media soprattutto terziaria, scarsa formazione continua delle competenze. Intelligenza Artificiale. L’intelligenza artificiale pare destinata a incidere sempre di più nel futuro di Torino. Come è noto, la città da poco stata nominata Capitale dell’Intelligenza Artificiale in Italia e la sua vocazione

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tecnologica, a livello di ricerca e di struttura economica, può trovare una ibridazione di interesse con le nuove tecnologie. Il progetto prevede la fondazione di un centro di ricerca con la presenza di oltre 600 ricercatori di varie discipline che dovranno sviluppare e implementare l’Intelligenza Artificiale a livello nazionale, oltre che territoriale. Le dinamiche che si osservano sull’implementazione dell’IA, in termini di potenziale disoccupazione tecnologica, ma anche di aperture di nuove economie e lavori, impattano sull’economia torinese in maniera particolarmente forte a causa della spinta ancora rilevante del settore manifatturiero e di Industria 4.0. Incubatori e start-up. Cresce il ruolo e l’importanza degli incubatori di impresa nel sostenere la creazione di nuove imprese. A Torino operano diversi attori, tra cui l’I3P (Politecnico) che ha incubato dalla sua fondazione oltre 250 imprese, creando oltre 2000 posti di lavoro e registrando 105 brevetti. Sul piano dell’Innovazione Sociale è notevole l’esperienza di SocialFare che ha incubato, dal 2013, oltre 53 progetti di impresa sociale. Nel 2019 è partito Techstar, un acceleratore d’impresa sostenuto da Compagnia San Paolo e Fondazione CRT, presso le OGR. Techstar ha avviato un programma incentrato sul tema della mobilità smart, con un primo bando che ha attirato centinaia di domande di partecipazione da startup di 55 Paesi. A gennaio 2021 partirà il secondo dei 3 bandi previsti nel triennio. Il programma è stato finanziato dagli enti promotori torinesi con 9 milioni di euro. Innovazione sociale. Torino si pone come una delle città più dinamiche in Italia per l’innovazione sociale. Negli ultimi dieci, anche grazie alle iniziative di filantropia strategica sostenuti dalle fondazioni di origine bancaria, sul tema dell’innovazione sociale sono nettamente incrementate le iniziative, gli attori radicati sul territorio, gli spazi pubblici e privati, le offerte formative sia in ambito accademico che di terzo settore, la produzione scientifica. Ne sono esempio l’apertura, ormai datata nel 2010, di Toolbox, con servizi di co-working e fablab, l’apertura nel 2015 del centro Open Incet nel quartiere Barriera di Milano, la già citata esperienza del primo incubatore ita-

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liano sulle start up a impatto sociale Social Fare, nel 2019 l’apertura di Cottino Social Impact Campus, dedicato alla diffusione di cultura e formazione sui temi dell’innovazione sociale, la rete Torino Social Impact che raccoglie circa 100 attori (enti pubblici, imprese, terzo settore) con l’obiettivo di rafforzare la pratiche collaborative e di realizzare infrastrutture e progetti trasversali sull’impatto sociale (Barbera e Parisi 2021). Una recente conferma della centralità che Torino avrà nell’ospitare progetti di innovazione sociale è costituita dal finanziamento dell’Unione Europea nell’ambito del programma EaSI finalizzato all’apertura di un Competence Center (l’unico in Italia) specificamente dedicato alla social innovation. 2.6. Ambiente e Mobilità Rischi ambientali crescenti. Torino è la città con la qualità dell’aria peggiore d’Italia, sebbene negli anni vi sia stata una diminuzione del 22% e del 35% dei valori, rispettivamente, di Pm10 e biossido di azoto per metro cubo (inferiore alle performance di altre città italiane ed europee). I fattori che incidono maggiormente sono traffico veicolare e riscaldamento domestico. Nel 2020, malgrado il lockdown, sono state 89 le giornate in cui è avvenuto lo sforamento dei livelli massimi di particolato in atmosfera. Nel decennio in corso si registra anche un leggero peggioramento dei sistemi di depurazione e di distribuzione idrica. I dati sulla qualità delle acque fluviali sono parziali e disomogenei, tuttavia non segnano miglioramenti. La raccolta differenziata è bloccata da oltre 10 anni, ferma nella forbice 40-45% dal 2008, mentre aumenta la quota di rifiuto incenerito (+25% solo negli ultimi 5 anni), anche per la necessità di mandare a regime l’impianto alle porte di Torino. Stabile, con una lievissima diminuzione, l’indicatore sulla quota pro-capite dei rifiuti che passa dai 496 ai 484 kg/abitante/anno. Tendenze green. Se si considera il rapporto tra aree verdi e residenti, l’area comunale di Torino ha incrementato le superfici naturali nell’area urbana del 50%, grazie anche alla riqualificazione ambientale di siti industriali dismessi (es. Parco Dora, Giardino Firpo ecc). L’area

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metropolitana di Torino spicca per la produzione di energia idroelettrica, che negli ultimi anni è aumentata del 20%. Inoltre, è tra le aree metropolitane che produce più energia tramite fotovoltaico e biomasse. Il consumo di elettricità nelle abitazioni è diminuito del 6%. La rete di piste ciclabili a Torino è salita dai 175 km del 2013 agli attuali 207 km. Il biciplan prevede di raggiungere entro il 2023 il 15% di spostamenti, rispetto al 3% del 2013. L’organizzazione dei sistemi di bike sharing a «stazione» viene sostituita da quelli tramite piattaforme digitali. Aumenta nel centro urbano l’uso di nuovi dispositivi elettrici, sia in modalità sharing che proprietaria, dai monopattini agli scooter. Infine, sebbene i dati sul post covid siano ancora incompleti, è da osservare come tendenza sul futuro sostenibile della città l’estensione dello Smart Working a modello organizzativo ordinario in luogo dell’onsite based. Questo in termini di riduzione dell’uso dell’auto ma anche di riorganizzazione degli spazi pubblici e dei rapporti tra periferia e centro. Torino capitale del cibo sano. È sempre più estesa la rete di mercati contadini e di gruppi di acquisto solidale. I mercati contadini sono 42, e ospitano oltre 300 produttori locali. I GAS censiti dal Comune sono 52, ma vi sono reti non istituzionalizzate, che raccolgono ormai migliaia di cittadini (Quaglia, Toldo e Vittone 2019). Sull’ambiente la città ha lavorato molto ottenendo risultati. Questa è la percezione registrata in circa due terzi della cittadinanza intervistati sugli obiettivi di sostenibilità raggiunti dalla città di Torino negli ultimi venti anni. Sarebbero particolarmente migliorate le performance cittadine su acqua, condizioni sanitarie (ma indagine è stata svolta prima del Covid-19), sicurezza alimentare, energia pulita e sicura, lotta al cambiamento climatico. Cresce la mobilità condivisa e su ferro. Cresce l’offerta di treni ad alta velocità verso le principali città italiane (Milano, Roma). Le corse sono quadruplicate rispetto al 2000. La realizzazione del passante ferroviario e di altre infrastrutture per il Servizio Metropolitano Ferroviario ha incrementato l’uso della rotaia per gli spostamenti in-

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ter-intra urbani, con 8 linee e un aumento dei passeggeri del 48% negli ultimi 5 anni. Resta irrisolto il nodo TAV Torino-Lione. La realizzazione della Linea 1 della metropolitana ha inciso fortemente sulla mobilità urbana, con importante incremento del flusso di passeggeri: tra il 2000 e il 2019 i mezzi pubblici torinesi hanno trasportato il 60% di persone in più, mentre dinamiche contrarie si sono registrate nelle altre grandi città metropolitane (Roma, Milano, Napoli). Come variabile tesa a produrre ulteriori avanzamenti in questa direzione è da considerare il completamento della linea verso Rivoli / Cascine Vica, previsto per il 2023, la realizzazione della seconda linea metropolitana da Rebaudengo a Mirafiori, che tuttavia oggi è ancora in fase di progettazione preliminare.

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3. Mindset e Metodo di lavoro di Damiano Aliprandi, Alberto Robiati e Azzurra Spirito

3.1. Pensare il/al futuro L’epoca che viviamo è caratterizzata da un alto gradiente di complessità, con il moltiplicarsi delle variabili in gioco: cresce la popolazione mondiale; aumentano le connessioni e la mole di dati disponibili grazie al progresso tecnologico; si rileva una molteplicità di cambiamenti a livello climatico. Inoltre, più che un tempo, assistiamo a trasformazioni sociali, politiche, economiche, ambientali e tecnologiche sempre più rapide. L’aspetto temporale non riguarda solo la velocità dei processi trasformativi, ma anche l’assenza di una visione prospettica e strategica, in un momento in cui il futuro è ritenuto un tema urgente, in particolare come aiuto nell’orientarci in ambienti incerti e mutevoli. Negli ultimi decenni abbiamo assistito alla cosiddetta “defuturizzazione” (Zamengo e Valenzano, 2015): la rinuncia a progettare il futuro, la spinta autoreferenziale che ingabbia nel presente, con pensieri e sguardo posti esclusivamente sull’immediato o sul breve periodo (Pellegrino, 2020). Uno degli effetti di questo fenomeno è la tendenza diffusa alla passività, alla convinzione che non valga la pena lottare per modificare la realtà, rassegnandosi al fatto che essa è organizzata secondo norme al di fuori dal proprio potere di intervento. Tali caratteristiche del contesto motivano la scelta di concentrare questo percorso di indagine sugli orizzonti della Torino di domani. Preliminarmente occorre una predisposizione in termini di “Futures Thinking”, un’attitudine di pensiero che consente di utilizzare il futuro come lente per guardare il presente. Il pensiero deve allungarsi sulla prospettiva temporale: alcuni parlano di intelligenza strategica, altri

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di pensiero prospettico, altri ancora di strategia di anticipazione (Poli, 2019). In tutti i casi la “linea del tempo” rappresenta lo strumento alla base dell’esplorazione di possibilità alternative (i futuri possibili) e della costruzione di visioni auspicabili e strategiche (i futuri preferiti). I futures studies non hanno lo scopo di predire il futuro, ma puntano a esplorare possibilità alternative e a generare proattivamente cambiamenti auspicati. Questa lente costituisce a tutti gli effetti un nuovo modello per agire in modo costruttivo e consapevole delle eventuali “perturbazioni” del sistema (considerando per esempio gli impatti di tendenze e megatrends). Per elaborare un tale paradigma occorre preparare il terreno, attraverso l’assimilazione di alcuni fondamenti. Il primo riguarda la necessità di “abbracciare l’incertezza”. Il futuro non ha prove empiriche, dunque non può essere predetto. Però può essere immaginato. L’incertezza è una dimensione intrinseca dei sistemi sociali e umani (Luhmann, 1984). Immaginare e considerare possibili scenari è la chiave per operare in un ambiente complesso e non familiare in cui siamo costretti ad adattarci di continuo, apprendendo da quel che accade. Ciò non significa eliminare piani e programmi, ma renderli flessibili e pronti per rimodulazioni continue. Pertanto, dobbiamo disporre sia di metodi e tecniche, sia di apertura mentale ed elasticità di pensiero (resilienza e capacità di apprendimento sono tratti e abilità indispensabili per l’epoca che viviamo). Il secondo fondamento riguarda l’idea che il futuro non è uno soltanto, già scritto e deciso in modo definitivo. Il futuro è aperto a scenari alternativi. La raffigurazione migliore di questo concetto è il “cono dei futuri”, che mostra come dal punto di partenza, il presente, si aprano strade alternative il cui confine è rappresentato dai limiti dell’immaginazione. In altri termini, i futuri possibili sono tutti quei futuri pensabili attivando la nostra immaginazione (compresi quelli a oggi non realizzabili in funzione delle attuali conoscenze scientifiche e dell’evoluzione tecnologica). Rientrano in questa categoria i fu-

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turi immaginati dalla fantascienza, ma anche quei futuri dettati dalle nostre preferenze, visioni “preferite”, auspicabili, frutto dell’attivazione della capacità di aspirare. Le proiezioni nel futuro di ciò che è in atto nel presente, come i trends, che vengono osservati e misurati nel tempo (da anni oppure decenni) e il cui andamento promette di mantenersi costante, costituiscono i “futuri probabili”. Li possiamo studiare e ne possiamo analizzare le dinamiche e relativi impatti sui nostri sistemi (territori, settori, organizzazioni, persone). E questo consente di prepararsi in anticipo, elaborando opportune strategie e producendo determinate condizioni. Il terzo aspetto fondamentale è la necessità di utilizzare finestre temporali di lungo periodo. Parliamo di almeno dieci anni, meglio venti. Perché? Allungare sguardo e pensiero avanti nel tempo equivale ad allargare il proprio campo visivo dal punto di vista dello spazio: abbiamo la possibilità di intercettare più variabili, oggetti di studio, eventi. Questo comporta che possiamo considerare cambiamenti e trasformazioni che nel breve termine non si potrebbero manifestare (sia nel senso di eventi o fenomeni dell’ambiente esterno, sia pensando ad azioni trasformative che vogliamo intraprendere per generare nuove condizioni – per es. di crescita e sviluppo). Pensare a eventi, fenomeni, oggetti, situazioni, che di solito non rientrano nei nostri radar abituali, introduce il quarto e ultimo elemento fondamentale: considerare l’impensabile. Alcuni esempi: la pandemia Covid-19, la risonanza mondiale del movimento Fridays for future, il crollo del ponte Morandi, l’incidente di Fukushima, la crisi finanziaria del 2008, l’11 settembre, la diffusione di internet o del personal computer. Sono eventualità dell’ambiente esterno a noi, anche molto lontane, ma il cui impatto diretto o indiretto, nel corso del tempo, ha ripercussioni anche sul nostro sistema. Il “Futures Thinking” richiede dunque una specifica mentalità che ci aiuta sia a ragionare, partendo dal presente, con l’analisi di implicazioni e traiettorie future, sia a esplorare, partendo dal futuro, possibili scenari alternativi che possono condizionare le scelte di oggi.

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3.2. Metodologia: Studi di futuro e previsione strategica La disciplina dei Futures Studies e dello Strategic Foresight (per alcuni ricercatori, Futures and Foresight Science) è nata a metà del secolo scorso per aiutare decision-makers in ambito governativo e militare a indagare le possibili evoluzioni degli assetti geopolitici mondiali (Bell, 1997). Dal secondo Dopoguerra si diffondono alcuni metodi di indagine previsionale come il Delphi e lo Scenario Planning. Si tratta di approcci metodologici che non hanno l’obiettivo di definire certezze sul futuro, dunque predirlo, ma che servono a proporre scenari alternativi di un determinato contesto territoriale in una specifica finestra temporale. In seguito, si lavora a tradurre l’esplorazione in roadmap, decisioni da prendere e programmi delle azioni da avviare. Partire dallo studio del futuro di lungo periodo favorisce un viaggio “a ritroso” per identificare i passaggi da attuare nel prepararsi alle criticità e cogliere le opportunità. Usare il futuro come strumento strategico significa domandarsi quali potranno essere nuovi problemi e quali le nuove soluzioni. Scenari e visioni del domani consentono inoltre di sensibilizzare persone, gruppi, organizzazioni, comunità, paesi, riguardo prospettive future (di rischio o di opportunità). Il futuro in questo caso diventa anche uno strumento di costruzione del consenso e di promozione di sistemi di valori capaci di mobilitare energie nel presente. Gli individui che condividono una visione strategica attivano nel presente consapevolezza su ciò che occorre fare (o non fare) e senso etico, assumendosi la responsabilità delle conseguenze delle proprie azioni. I metodi per indagare il futuro possono essere classificati in funzione di alcuni criteri. A partire dalla tipologia, ci si riferisce a metodi quantitativi, che si basano su misurazioni ed evidenze, e a metodi qualitativi, i quali invece analizzano dimensioni non misurabili (informazioni, concetti, valori, comportamenti, linguaggi, emozioni, storie di vita ecc). Questa articolazione costituisce di per sé uno spartiacque: poiché il futuro non dispone di dati ed evidenze, è impossibile misurarlo, eccezion fatta per alcuni fenomeni e specifiche forze caratterizzate da un

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certo andamento storico, già riscontrabile – e misurabile – nel passato e nel presente, che può essere proiettato sulla linea del tempo verso orizzonti futuri attraverso estrapolazioni statistiche. In altre parole, si indagano alcune tendenze in atto oggi e se ne derivano proiezioni probabilistiche, con il limite però della validità in termini di “probabilità” che quella proiezione si verifichi. Un esempio sono le stime econometriche (es sul PIL): oltre una certa finestra temporale (uno, due anni, di solito) sono pressoché inattendibili. Al contrario gli studi di futuri e la previsione strategica si basano su processi che hanno l’obiettivo di identificare le sfide che caratterizzeranno i prossimi anni o decenni. Questo approccio mira a organizzare e strutturare in modo trasparente ed efficace la riflessione collettiva sui futuri possibili. Come detto vi sono metodi quantitativi, la cui fonte sono le prove empiriche di accadimenti e fenomeni in atto già nel passato e ancora manifesti nel presente e che promettono di mantenere forza e portata anche nel futuro; i metodi quantitativi individuano serie storiche ed estrapolano statisticamente tendenze future tracciandone l’andamento sulla scala del tempo. Un esempio di questo tipo è la Megatrends / Trends Analysis. Gli studi sui dati, quando si tratta di scenari futuri, devono tuttavia essere completati da approcci qualitativi che favoriscono l’indagine divergente su possibilità alternative. Le fonti di questi strumenti possono essere gli esperti – uno dei più noti metodi basati sul parere degli specialisti di un campo disciplinare o settore è il Delphi. Altre fonti sono rappresentate dalla creatività e dall’immaginazione umana. Non a caso gli studi di futuro attuati anche da grandi aziende multinazionali o da enti governativi ricorrono alla consulenza di autori di fantascienza per analizzare scenari ipotetici anche distanti dai propri domini e modelli d’azione. Confrontarsi con esperti aiuta ad ampliare l’estensione dei futuri da indagare, riuscendo a cogliere anche quei segnali deboli che rischiamo di non saper leggere. La forza con cui colpiscono sempre più frequentemen-

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te fenomeni rari e improbabili come i cosiddetti “cigni neri” (eventi rari ad alto impatto) o le “wild cards” (sorprese, eventi in discontinuità con gli andamenti storici di un determinato ambito) dimostrano la necessità di ricorrere a tecniche di questo tipo per allargare il campo di visione e intercettare possibili scenari su cui attivare strategie di anticipazione e preparazione. Una ulteriore tipologia di “fonte” che nutre i metodi qualitativi è l’intelligenza collettiva stimolata da tecniche partecipative. L’interazione tra i partecipanti di gruppi (sia omogenei, sia eterogenei: dipende dagli obiettivi e dal metodo utilizzato) consente di elaborare narrative di futuro e scenari differenti, tanti quanti consentono di coprire tutto il campo delle possibilità. Possiamo distinguere i metodi anche in funzione della finalità: pertanto avremo metodi di “scanning” che consentono di raccogliere documentazione e fare una fotografia analitica dei sistemi; metodi di “costruzione dei futuri” che aiutano a costruire scenari, alternativi o preferiti; infine, metodi di definizione di roadmap e strategie. 3.3. Scenario planning Gli scenari sono narrazioni ipotetiche relative all’ambiente esterno, che offrono immagini di futuri alternativi. Non intendono essere “veri” o “falsi”, “giusti” o “sbagliati”, “positivi” o “negativi”. Non sono previsioni. Sono storie di futuro coerenti che includono eventi e fenomeni significativi, gli esiti di tali eventi e fenomeni, e i principali attori che li abitano e le loro motivazioni “di vita”. Gli scenari possono supportare i processi decisionali, in particolar modo in tempi incerti, complessi e non famigliari. Sono volti a esplorare i limiti di plausibilità del futuro, a rafforzare la consapevolezza e conoscenza di possibilità, e a stimolare azioni da mettere in atto nel presente. L’importanza delle alternative contrasta la tirannia del presente e le aspettative che i modelli di crescita attuali impongono. Possono assumere o meno il punto di vista di una persona specifica. Costituiscono uno spazio in cui esplorare i diversi modi nei quali gli interessati potreb-

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bero comportarsi in determinate condizioni. Forniscono un meccanismo per contestualizzare e infine classificare varie “immagini del futuro”. Sono l’esito di un processo, che può essere articolato in accordo con uno dei diversi approcci (per es., induttivi o deduttivi) nell’ambito dello scenario planning. Il metodo dei “4 archetipi”, sviluppato da Jim Dator all’Università delle Hawaii a Mānoa (Dator, 2009)è conosciuto anche come metodo dei 4 futuri generici (Bezold, 2009) o metodo degli studi di futuri sviluppato dalla Scuola di Mānoa. Non deve essere confuso con il metodo Mānoa, più complesso, creato dall’ex allieva di Dator Wendy Schultz (Curry & Schultz, 2009). Gli step principali del metodo “4 archetipi” sono: 1. compiere una ricerca preliminare per identificare le forze di cambiamento che possono condizionare i futuri: fenomeni e tendenze che, per via della loro natura ricorsiva, possono avere un impatto significativo sul futuro, quali a esempio i cambiamenti tecnologici o sociali. 2. Valutare le diverse forze, per determinarne la direzione. Ad esempio, in che direzione sta andando lo sviluppo delle tecnologie basate sull’Intelligenza Artificiale? 3. Interpretare il comportamento delle forze di cambiamento adottando le 4 immagini di futuro archetipiche che danno nome al metodo: crescita continua, collasso, disciplina e trasformazione. Per ogni archetipo, interpretiamo il comportamento delle forze di cambiamento chiedendoci: in che modo il set di forze di cambiamento identificate si comporta nel caso in cui dovesse realizzarsi questo archetipo? 4. Come ultimo passaggio, si producono le narrative di 4 scenari basate sulle interpretazioni sviluppate. Un aspetto chiave di questo metodo è che le narrative non possono essere prodotte unicamente a partire dalla nostra immaginazione. Dobbiamo supportare ogni narrativa con riferimenti a report, riflessioni, proiezioni ed eventuali fiction, che abbiano già sviluppato visioni vicine a quelle da noi elaborate.

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3.4. Nuove esigenze e ritmi di trasformazione per le città e i loro ecosistemi Le città sono sistemi complessi le cui componenti infrastrutturali, economiche e sociali sono fortemente interrelate (Jacobs, 1961). Ogni città è caratterizzata da elementi distintivi che vanno dalle peculiarità del territorio su cui sorge fino alla sua strutturazione e la dimensione che ha raggiunto nel tempo. Ci sono tuttavia alcune caratteristiche che le accomunano, portandole ad affrontare sfide condivise. Spesso hanno acquisito nelle rispettive regioni lo status di rifugi sicuri per coloro che sfuggono a persecuzioni e guerre, o luoghi in cui migliorare le proprie condizioni di vita tra coloro che semplicemente cercano una vita nuova e migliore. Sono strutturate nel tempo come centri dinamici del commercio, dell’eclettismo culturale e della conoscenza. Migrazioni interne ed esterne hanno favorito la crescita della maggior parte delle città, portando trasformazioni significative in ambiti che vanno dallo stile di vita delle persone all’evoluzione della dimensione abitativa. Nel 2008, per la prima volta nella storia, la popolazione urbana globale ha superato in numero la popolazione rurale. Questa pietra miliare ha segnato l’avvento di un nuovo “millennio urbano” e, entro il 2050, si prevede che due terzi della popolazione mondiale vivrà nelle aree urbane. Con più della metà dell’umanità che vive nelle città e il numero di residenti urbani che cresce di quasi 73 milioni ogni anno, si stima che le aree urbane rappresentino il 70% del prodotto interno lordo mondiale e hanno quindi generato crescita economica e prosperità per molti. Il dinamismo che ne è derivato ha portato alla creazione di sistemi capaci di generare idee trasformative, nuove tecnologie e nuovi modelli di business articolati secondo diverse specifiche da Londra a New York, da Istanbul a Hong Kong. Sono arrivati ad affermarsi così nuovi servizi e modelli che vanno dalla co-abitazione a nuove forme di gestione degli spazi pubblici, spingendosi a trasformazioni che rispondono alle innovazioni nell’ambito di settori specifici, quali ad esempio quello

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dei trasporti. L’aumento delle persone che abitano o interagiscono con le città hanno contribuito, al contempo, a una maggiore produzione e concentrazione di inquinanti. Il costante aumento della temperatura terrestre dovuto all’inquinamento ha conseguenze già visibili nei sempre più frequenti fenomeni ambientali estremi e nella preoccupazione per possibili inondazioni in numerose città costruite su rive e coste. A queste si unisce la crescente attenzione verso fenomeni che potrebbero essere connessi all’erosione degli ecosistemi naturali, come una maggiore facilità per i virus nel compiere salti di specie che possono condurli a infettare l’uomo. Tanto più preoccupante lì dove la popolazione diventa più longeva ma anche più vulnerabile. L’importanza del sistema sanitario si combina con quello della formazione e della capacità di generare nuova economia, per rispondere alla crescente polarizzazione delle ricchezze. La pianificazione urbana, i sistemi di trasporto, l’acqua, i servizi igienico-sanitari, la gestione dei rifiuti, la riduzione del rischio di catastrofi, l’accesso alle informazioni, l’istruzione e il rafforzamento delle capacità sono tutte questioni rilevanti per lo sviluppo urbano sostenibile. Nuovi attori, dalle università alle imprese fino a cittadini e cittadine considerati come singoli o in gruppi organizzati, assumono un ruolo attivo non solo nell’offerta di nuovi servizi e tecnologie ma anche nel contribuire alla dimensione finanziaria attraverso strumenti nuovi quali quelli dell’impact finance. A livello internazionale, le città assumono la funzione di presidi del cambiamento favorendo il coordinamento internazionale nel rispondere alle più urgenti sfide sociali attraverso accordi sia su scala locale, con accordi tra città, che su vasta scala quali quello di Parigi o l’Agenda 2030. In un quadro del genere diventa sempre più evidente il modo in cui il futuro sia una costruzione che inizia oggi. Spesso accade, così, che si guardi al futuro con gli occhi del presente, portando avanti un approccio “presentista” (orientato a finestre temporali di breve periodo) che ora più che in altri momenti storici mostra tutti i suoi limiti. Come maturare uno sguardo di lungo termine che ci re-

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stituisca nuove visioni capaci di illuminare in modo nuovo le possibilità di azione presenti? 3.5. Futures & Foresight per le città Non esistono due città uguali al mondo, per cui è impossibile immaginare un blueprint a livello universale, che in maniera efficace possa favorire lo sviluppo delle città. Si può, invece, supportare la diffusione di mentalità e l’acquisizione di strumenti che permettano a quanti sono coinvolti in questi processi di maturare modalità di intervento più evolute. Il Futures and foresight è stato spesso adottato da diverse nazioni per lo sviluppo delle proprie strategie. C’è chi ha fatto ricorso ad agenzie esterne e chi ha preferito creare competenze interne ai propri dipartimenti. Chi ha adottato questi strumenti per intervenire su determinati comparti o filiere (dalla difesa alla produzione alimentare) e chi li ha adottati per promuovere strategie di natura transettoriale. Sono molti i fattori sottostanti la scelta di un modo di procedere piuttosto che un altro, e toccano sfere che vanno dai modelli culturali a quelli politici. Nel tempo ha iniziato a diffondersi in alcune aree del mondo un approccio collaborativo all’uso di questi metodi. Ciò è dovuto in parte alla forte connessione dei futures studies e dello strategic foresight a una visione sistemica, che coinvolge nella sua pratica più comunità epistemiche, e in parte all’ascesa di modelli orientati a una maggiore partecipazione del privato e della comunità, secondo modalità collaborative. Inoltre, l’esito progettuale delle esplorazioni basate su questi metodi ha reso sempre più agile la connessione non facile ai processi di policy. Molte città hanno così iniziato a condurre applicazioni più o meno strutturate sull’uso di strumenti provenienti da questa area di ricerca, attraverso applicazioni a temi specifici o un loro uso più trasversale rispetto all’elaborazione di una visione di lungo termine. Il Government Office for Science di Londra, cogliendo il crescente interesse a livello globale rispetto all’applicazione del foresight in contesti urbani e cittadini, ha raccolto l’esito delle sperimentazioni nazionali per elaborare linee guida che ne favoriscano la dif-

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fusione. Il report Future of cities: foresight for cities (AA.VV., 2016) identifica le aree in cui le sperimentazioni inglesi hanno raggiunto maggiori risultati: • civic engagement: il coinvolgimento creativo nella condivisione di una visione per la città ha favorito la creazione e il riconoscimento di comunità • esplorazione delle sfide: i futuri offrono uno spazio sicuro per confrontarsi con sfide complesse e significativamente connotate sotto un profilo politico • identificazione di opportunità: un’analisi sistematica sul lungo termine delle forze di cambiamento, del modo in cui possono interagire e delle relazioni che possono generare, può rivelare inedite aree di innovazione e crescita • emersione dei punti di forza locali: l’esplorazione creativa delle aspirazioni e la costruzione di visioni condivise per una città offre nuove prospettive attraverso cui rafforzare brand e identità territoriale • rafforzamento dell’attrattività: le avvincenti narrazioni sulle prospettive a lungo termine elaborate a partire da queste esplorazioni aumentano ulteriormente l’attrattiva della città verso imprese e lavoratori qualificati • aumento della fiducia da parte degli investitori: la definizione attiva delle traiettorie future per la città rafforza la fiducia esterna nella gestione delle risorse e dei rischi • perfezionamento delle strategie: risultano più solide le roadmap costruite in funzione di una maggiore chiarezza e allineamento delle aspirazioni specifiche rispetto al territorio, alle risorse locali, alle opportunità e una maggiore consapevolezza dei rischi • rafforzamento della resilienza: l’elaborazione di una visione di lungo periodo corroborata dall’esplorazione di lungo termine rispetto a forze di cambiamento, possibili discontinuità e potenziali risposte da parte degli attori coinvolti • creazione di partnership strategiche: l’identificazione condivisa di future opportunità di business o di sviluppo in aree geografiche più ampie, crea coalizioni più solide e rende maggiormente inclini alla condivisione dei dati o all’allineamento delle politiche delle città.

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3.6. Raggiungere gli SDGs Tra i futuri desiderabili più noti c’è quello disegnato dai 17 obiettivi di sviluppo sostenibile che articolano l’agenda delle Nazioni Unite per il 2030. A sei anni dalla loro definizione, molto è stato fatto soprattutto in termini di infrastrutturazione tra i soggetti chiamati a realizzarli a livello locale e oltre. Ora manca poco meno di un decennio al termine che l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha fissato per il loro raggiungimento. Data l’importanza di questo argomento per gli sforzi di sviluppo globale, i movimenti recenti che spingono ad affrontare lo sviluppo sostenibile da una prospettiva urbana hanno avuto luogo in tutto il mondo.

I risultati di questo movimento possono essere visti nella presenza all’interno dell’Agenda 2030 di un obiettivo con un focus totalmente incentrato alla città e allo sviluppo urbano, l’“Obiettivo di sviluppo sostenibile 11”: “rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, resilienti e sostenibili”. C’è anche il riconoscimento della natura trasversale delle questioni urbane, che hanno un impatto su una serie di altri obiettivi di sviluppo sostenibile, inclusi tra gli altri gli SDG 1, 6, 7, 8, 9, 12, 15 e 17. La nuova Agenda Urbana complementare di UN-Habitat, adottata come documento finale della Conferenza Habitat III nel 2016, cerca di offrire linee guida nazionali e locali sulla crescita e lo sviluppo delle città fino al 2036. Lo sviluppo sostenibile degli insediamenti umani è stato discusso anche nella seconda e terza sessione della Commissione per lo sviluppo sostenibile. “Promuovere lo sviluppo sostenibile degli insediamenti umani” è l’argomento del Capitolo 7 dell’Agenda 21, che richiede di: • fornire un riparo adeguato a tutti • migliorare la gestione degli insediamenti umani

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• promuovere la pianificazione e la gestione sostenibile del territorio • promuovere la fornitura integrata di infrastrutture ambientali: acqua, servizi igienico-sanitari, drenaggio e gestione dei rifiuti solidi • promuovere sistemi energetici e di trasporto sostenibili negli insediamenti umani • promuovere la pianificazione e la gestione degli insediamenti umani in aree soggette a disastri • promuovere le attività del settore edile sostenibile • promuovere lo sviluppo delle risorse umane e il rafforzamento delle capacità per lo sviluppo degli insediamenti umani. Diventa evidente da dove derivi la crescente esigenza di maturare visioni non solo capaci di leggere in maniera trasversale i diversi SDG ma che siano al contempo basate sulle specificità dei territori e capaci di porre in dialogo agende politiche e aspirazioni degli ecosistemi locali. L’United Nations Development Programme (UNDP) ha riconosciuto l’urgenza di rafforzare i processi volti a questi obiettivi nei Paesi in via di sviluppo. Ha inoltre riconosciuto l’utilità di fare ricorso a foresight per supportarne la progettazione. Per questo ha avviato con questo scopo sperimentazioni che hanno coinvolto come partner enti quali l’OECD, l’UNESCO e CPSI South Africa. Il foresight non è indicato direttamente come strumento, ma alla stessa esigenza risponde lo schema elaborato da Mariana Mazzucato (Mazzuccato, 2016). Presentato la prima volta all’interno del report Mission-Oriented Research&Innovation in the European Union, è stato poi adottato anche nel documento realizzato per il governo italiano Mission Italia | Investement, Innovation and Imagination. 3.7. Torino 2030: descrizione dell’approccio metodologico La scelta dell’impostazione metodologica è stata dettata da una duplice necessità. Da una parte, produrre quadri conoscitivi del panorama attuale relativamente ai sei macro-temi di riferimento, non solo attraverso la lettura

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dell’esistente ma anche acquisendo testimonianze esterne, nuovi punti di vista e prospettive innovative che emergessero da contesti territoriali analoghi, in Italia e all’Estero. Dall’altra, stimolare tra i partecipanti un lavoro collettivo di elaborazione di scenari futuri che potesse avvantaggiarsi di tale base conoscitiva ma in modo funzionale alla individuazione di nuove traiettorie di sviluppo possibile, non alla mera “ripetizione” di pattern e situazioni attuali. La prima fase, che potremmo definire di environmental scanning, è stata realizzata attraverso l’organizzazione di sei webinar pubblici, uno per ciascun macro-tema individuato – che hanno coinvolto esperti interni ed esterni al territorio torinese, così da facilitare il confronto tra approcci, conoscenze ed esperienze differenti, condividere una pluralità di visioni e scardinare le narrative endogene, ovvero interne al “campo” locale. A ciascun webinar è seguito lo svolgimento di un workshop durante il quale, con una selezione di 10-12 tra ricercatori universitari e stakeholders dell’ecosistema, testimoni privilegiati e operatori del territorio, è stato applicato il metodo di scenario planning dei “4 archetipi”. Durante il workshop, il primo passaggio, a partire dai contributi forniti da un’analisi desk sulle tendenze trasversali in atto a livello globale e locale, è consistito nell’individuare le principali driving forces che, secondo i partecipanti, inciderebbero maggiormente nell’orientare il futuro dello specifico settore trattato (manifatturiero, città metromontana, infrastrutture sociali, spazi comuni, ambiente e produzione culturale), nei prossimi dieci anni. Per driving forces si intendono le problematiche, gli accadimenti, le dinamiche e i trend che risultano già evidenti nel presente ma che potrebbero condizionare bruscamente l’orizzonte futuro dell’oggetto di cui si sta speculando. Per facilitare la loro individuazione e mappatura si è ricorso al framework STEEP per individuare le principali forze di cambiamento all’interno di una molteplicità di macrocategorie: sociale, tecnologica, economica, ambientale e politica. Dopodiché, ciascun panel nei diversi workshop ha lavorato sul modello dei 4 Archetypes. Le driving forces pre-

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3. Mindset e Metodo di lavoro

cedentemente individuate sono state valutate dal punto di vista delle possibili “direzioni” future che potrebbero prendere: tali direzioni o comportamenti vengono poi interpretati adottando le quattro immagini di futuro archetipe che danno il nome al metodo: crescita continua (Continued Growth), collasso (Collapse), disciplina (Discipline) e trasformazione (Transformation). Più nel dettaglio: • crescita continua: scenario di continuità con una traiettoria già evidente nel presente. Questo futuro ipotizzato è piuttosto simile al nostro, ma non del tutto, perché implica una dinamica di crescita che attiva conseguenze su diversi livelli. • collasso: scenario in cui il sistema viene soverchiato dai suoi limiti e collassa su sé stesso. • disciplina: scenario futuro equilibrato, stabile, in cui lo sviluppo e la sostenibilità sono garantiti da norme e leggi. • transformazione: scenario in cui un evento o un fenomeno (tecnologico, naturale, spirituale) muta radicalmente il presente e le interazioni tra gli esseri umani. Come ultimo passaggio, i partecipanti hanno prodotto delle narrative basate sulle interpretazioni sviluppate per ciascun archetipo, non basandosi unicamente sul proprio sforzo immaginativo ma, al contrario, supportando ogni narrativa con riferimenti ai quadri conoscitivi forniti attraverso l’iniziale attività di scanning.

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4. Ritorno al futuro? Reindustrializzazione manifatturiera smart e green per rilanciare lo sviluppo industriale dell’area metropolitana basato su conoscenza, sostenibilità e occupazione di Marco Guerzoni e Patrizia Lombardi

Il declino della città di Torino e della sua area metropolitana ha origine lontane e la gravità è già evidente all’inizio degli anni ’80. La crisi affonda le sue radici nella nuova organizzazione delle catene di valore che progressivamente hanno spostato il baricentro della manifattura nell’est Europeo, nelle tigri asiatiche e infine in Cina. In questo modo la città ha visto eroso il suo grande vantaggio competitivo legato alla produzione manifatturiera. Un argine pluridecennale è stato eretto dalla qualità di primo ordine nella produzione di macchine utensili e dal risparmio privato accumulato, mentre finanziamenti pubblici e quasi pubblici come le fondazioni hanno colpevolmente, posticipato di un decennio la presa di coscienza della gravità della crisi. La crisi del 2008, che ha ridotto drasticamente gli investimenti pubblici e i rendimenti degli istituti di credito, ha reso evidente la chimera di un rilancio cittadino basato su attività finanziarie, speculazione, turismo e industrie culturali: i valori immobiliari sono crollati e con essi i redditi generati dal patrimonio immobiliare. I redditi di lavoratori dipendenti e autonomi sono calati e la popolazione è diminuita di 60000 unità in 10 anni. Nell’ultimo ventennio, sono aumentate le piccole imprese con meno di 10 addetti, ma il calo delle grandi imprese (-12%) ha nel complesso prodotto una diminuzione del numero dei lavoratori, al contrario di quanto accaduto nella maggior parte delle metropoli italiane. Il Rapporto Giorgio Rota 2019 parla di un “futuro rinviato”. Se il declino della manifattura ha decretato la crisi di Torino, il ritorno della manifattura può essere la soluzione. In particolare, la profonda riorganizzazione industriale globale che sta investendo la produzione ma59


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nifatturiera risulta essere una opportunità da cogliere per la città. Infatti, l’industria 4.0 si caratterizza per essere “smart”, cioè per un’elevata automazione, un utilizzo pervasivo della sensoristica, della raccolta e dell’elaborazione dati tramite algoritmi complessi e della gestione dei processi di archiviazione. Tali processi richiedono che alle tradizionali competenze nell’invenzione e produzione di macchine utensili, ancora presenti sul territorio, si affianchino elevate competenze di meccatronica, programmazione, informatica e statistica provenienti dagli Atenei della città. Nel territorio cittadino sono presenti realtà di ricerca di primo livello, anche se molto limitata è la capacità di trasferimento tecnologico dagli enti di ricerca al tessuto di piccole e medie imprese. È quindi possibile immaginare una riconversione delle tradizionali eccellenze meccaniche nella manifattura di nuova generazione (advanced manufacturing, industria 4.0) con probabili esternalità in altri settori come il biomedicale, qualora le imprese vengano accompagnate nella adozione delle nuove tecnologie legate alla raccolta ed elaborazione dei dati. Nonostante il ritorno alla produzione manifatturiera non possa generare i livelli occupazionali del passato, è tuttavia molto probabile che il rilancio in questo settore crei occupazione in settori di servizi complementari, sia tradizionali a basso valore aggiunto, sia anche in servizi non-tradable ad alto valore aggiunto come consulenze ingegneristiche, informatiche e di integrazione di sistemi. Rimangono aperte altre sfide da gestire riguardanti le esternalità e i rischi dell’industrializzazione su altri settori e soprattutto sull’ambiente e sulla qualità della vita. In particolare, il ritorno alla manifattura deve essere coniugato con la sostenibilità ambientale e con gli strumenti digitali di gestione della conoscenza. 4.1. Webinar La situazione e le sfide di Torino sono state discusse da Giuseppe Scellato (Politecnico di Torino), Aldo Geuna (Università di Torino), Maria Savona (Sussex Uni-

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4. Ritorno al futuro?

versity e LUISS) e Frank Neffke (Harvard University), nell’ambito di un webinar pubblico. Aldo Geuna è professore ordinario di Politica Economica presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino. Si occupa dell’analisi socioeconomica della ricerca universitaria e del suo impatto sulla innovazione e sulla crescita economica con particolare attenzione al ruolo delle politiche pubbliche. Ha pubblicato su numerose riviste internazionali e, in particolare, nel 2015 il libro “L’università e il sistema economico”. Giuseppe Scellato è professore ordinario al Politecnico di Torino, dove insegna finanza aziendale ed economia e gestione dell’innovazione. Dal 2018 è Presidente e Amministratore Delegato dell’Incubatore di Imprese Innovative (I3P) del Politecnico di Torino. Dal 2017 è membro del board del Future Urban Legacy Lab (FULL) del Politecnico di Torino. I suoi principali interessi di ricerca sono nei settori dell’economia e della gestione dell’innovazione, delle dinamiche di settore, dell’analisi economica dei diritti di proprietà intellettuale e dell’economia della scienza. Frank Neffke è il direttore della ricerca del Growth Lab presso il Center for International Development dell’Università di Harvard. La sua ricerca si concentra sulla trasformazione industriale e sulla crescita economica, sia a livello macro di cambiamento strutturale nelle economie regionali e nazionali, sia a livello micro di diversificazione aziendale e percorsi di carriera degli individui. Questa ricerca ha fatto luce su temi quali la trasformazione strutturale dell’economia, la complessità, il ruolo delle città, i mercati del lavoro locali, l’importanza della divisione del lavoro, del capitale umano e dei team nelle economie moderne e le conseguenze sul lavoro della trasformazione digitale. Maria Savona è Professore di Economia Applicata presso il Dipartimento di Economia e Finanza dell’Università

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LUISS, Roma, e Professore di Innovazione ed Economia Evolutiva presso SPRU, Science Policy Research Unit presso l’Università del Sussex, Regno Unito. La sua ricerca si concentra sull’economia dell’innovazione, gli effetti del cambiamento tecnico sull’occupazione e sulla disuguaglianza salariale, il cambiamento strutturale della composizione settoriale delle economie, in particolare l’emergere di catene di valore globali nei servizi, l’economia e politica dell’innovazione nei servizi, le barriere e i fallimenti dell’innovazione. Più recentemente, è interessata alla governance e alle politiche della gestione dei dati. I primi due relatori si sono concentrati su aspetti precisi della situazione torinese, mentre la seconda coppia di relatori ha cercato di trarre indicazioni per Torino da storie di fallimento e di successi in altre parti del mondo. In modo specifico Scellato ha sottolineato le caratteristiche del manifatturiero torinese e si è soffermato su alcuni nodi critici connessi allo sviluppo tecnologico delle imprese, in particolare le PMI che rappresentano la maggioranza del settore, indicando possibili indirizzi di policies da sviluppare nei prossimi dieci anni. Tra le principali caratteristiche del settore manifatturiero, vanno considerate la sua eterogeneità interna e la netta prevalenza di PMI. Ogni discorso su scenari futuri e su traiettorie di sviluppo deve tenerne conto. Le performance del Piemonte rispetto alla macro-area corrispondente al Nord-Italia e rispetto al resto dell’Europa rivelano un complessivo ritardo del tessuto manifatturiero in termini di sviluppo tecnologico e digitale, così come una generale resistenza a investire verso quei comparti maggiormente influenzati dall’utilizzo delle ITC. Possono essere individuati due approcci al cambiamento tecnologico da parte delle imprese nel manifatturiero. Il primo, consiste nel ricorrere alla tecnologia per migliorare in modo mirato alcuni aspetti dei processi produttivi e le capacità di promozione e vendita: è il caso del passaggio al digitale di servizi e prodotti. Il secondo approccio, molto meno frequente, interviene in modo radicale sugli assetti gestionali, organizzativi,

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4. Ritorno al futuro?

economico-finanziari dell’impresa, per accompagnare la ridefinizione del modello di business. Quest’ultimo approccio, tuttavia, richiede un’attenzione e un livello di investimento che le PMI, da sole, difficilmente possono sostenere, considerando anche la loro tradizionale ridotta apertura a innovazioni radicali e la bassa capacità di assorbimento/internalizzazione di skills e tecnologie esterne. Anche per Aldo Geuna skills e competenze sono cruciali e in particolare è centrale il ruolo chiave che il sistema universitario e della formazione professionale deve esercitare per agevolare il trasferimento tecnologico alle imprese. Il sistema universitario e della formazione professionale gioca un ruolo centrale nel costruire una nuova governance del trasferimento delle conoscenze, al fine di contrastare il crescente gap produttivo con altri territori e aiutare le imprese a conoscere e cogliere le opportunità aperte dello sviluppo tecnologico. In particolare, il loro ruolo deve essere quello di disseminare tecnologia nei settori innovativi più legati al manufacturing, che rappresenta ancora una importante vocazione del territorio (Fassio et al., 2019). Particolare attenzione potrebbe essere dedicata al comparto del “digital manufacturing” che fa riferimento tanto al livello hardware (robot, sensori) quanto a quello software (algoritmi, sistemi informative). Oggi, ad esempio, Torino risulta meno attrezzata sulla dimensione software ma già forte in quella hardware, con particolare riferimento alla meccanica e all’industria biomedicale (Colombari et al., 2020). L’idea di uno sviluppo in settori attigui a quello della tradizionale manifattura, ma innovativi viene ripresa da Maria Savona in un’ottica comparativa con altre realtà nazionali e internazionali. L’intervento si è focalizzato sulle Smart Specialisation Strategies, ovvero strategie di scelta di priorità che sono fortemente consigliate dalla Commissione Europea e in parte già introdotte nelle politiche regionali piemontesi. Inoltre, Savona sottolinea l’importanza per le Smart Specilization Strategies di inve-

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stimenti nelle specifiche aree di ricerca e innovazione in cui una regione può eccellere, la presenza di supporto agli imprenditori da parte delle politiche pubbliche, la diffusa applicazione di «General Purpose Technologies» (connettività, informazione…), la capacità di attrarre talenti e conoscenze. Altri fattori, invece, conducono il territorio in direzione opposta (dumb vs. smart): politiche imprenditoriali tradizionali top-down, i sussidi «a pioggia» per favorire l’imitazione di altre regioni specializzate, un approccio nostalgico allo sviluppo imprenditoriale (ripetere ciò che si è fatto in passato senza innovarlo). È quindi necessario comprendere come costruire un futuro sulla smartness esistente o, nel caso, come allontanarsi dall’attuale dumbness. È importante fondare una strategia su solide politiche di sviluppo che partano dai settori industriali in cui si hanno forti conoscenze e vantaggi competitivi, sviluppare legami con altre aree e conoscenze per ringiovanire il settore, costruire vantaggio regionale attraverso reti di KIBS, ovvero il comparto dei servizi ad alto contenuto di conoscenza, come la consulenza informatica e ingegneristica, ma anche favorire competenze interdisciplinari per rinforzare la tradizione locale delle STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics). Un caveat è però d’obbligo: la Smart Specialisation può lasciare indietro interi settori economici che devono essere reintrodotti nell’economia locale dalle politiche regionali. Occorre, infine, riformare il mercato del lavoro in modo che sia rispettata la «democratizzazione delle aspettative». Per questo motivo, i lavori che apparentemente non rientrano nel percorso della Smart Specialisation (anche quelli nuovi, non tradizionali) devono trovare una qualche forma di valorizzazione nel contesto economico e produttivo. Anche l’intervento di Frank Neffke si concentra su come attuare una transizione verso una specializzazione industriale manifatturiera di successo. Attraverso un confronto con le esperienze condotte in altri paesi, l’intervento ha evidenziato alcuni specifici fattori di debolezza e di minaccia che possono condizionare la costruzione e

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4. Ritorno al futuro?

il rafforzamento di ecosistemi territoriali funzionali alla crescita del settore manifatturiero. Neffke risponde indirettamente a Geuna sul ruolo della formazione spiegando che per la crescita del manifatturiero non è sufficiente la presenza nel territorio di skills e di portatori di innovazione se manca un ecosistema che consenta a imprese e persone di entrare in contatto, dialogare e creare nuovo lavoro e connessioni. Non basta, quindi, limitarsi ad attrarre talenti (lavoratori, studenti) e aziende da fuori (Neffke, 2019). Quando si insediano in un territorio, le grandi aziende portano know-how e personale qualificato ma non necessariamente creano esternalità per il contesto locale. Esse, infatti, perseguono i propri obiettivi affidandosi soprattutto alle proprie strutture e risorse mentre la crescita del territorio non rientra necessariamente tra i loro obiettivi. Al contrario, per le piccole e medie imprese la possibilità di disporre di asset locali e di radicarsi nel territorio rappresenta spesso un criterio nella scelta di localizzazione, un fattore di sostenibilità e un obiettivo coerente con la propria strategia (Crescenzi et al., 2020). Dall’analisi di quanto successo in altri contesti europei e internazionale, la sinergia tra settore pubblico e quello privato (formazione, istituti di ricerca) rappresenta un ulteriore fattore centrale per facilitare la costruzione di ecosistemi abilitanti. Si deve intervenire sul maggior numero di comparti, non focalizzarsi su pochi ed evitando di considerarli come fossero compartimenti stagni ma, al contrario, individuando e stimolando il collegamento e lo scambio secondo logiche cross-over, a partire dai settori di riconosciuta eccellenza (nel caso di Torino, per esempio, bioeconomy, automotive e digital manifacturing). 4.2. Driving Forces Si è tenuto mercoledì 28 ottobre 2020 il primo workshop che ha approfondito il tema: “Ritorno al futuro? Reindustrializzazione manifatturiera smart e green per rilanciare lo sviluppo industriale dell’area metropolitana basato su conoscenza sostenibilità e occupazione”. La di-

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scussione è stata organizzata in due parti: individuazione delle driving forces ed elaborazione delle narrative a sostegno di quattro differenti scenari. Driving force 1: Social Le driving forces che agirebbero sul piano sociale sembrano caratterizzarsi prevalentemente per la loro natura di “rischi”. Una preoccupazione forte per la città di Torino viene da dati non confortanti riguardanti il saldo demografico negativo. Le condizioni economiche sfavorevoli e altre variabili socioeconomiche riducono il numero dei componenti per famiglia (il 46% dei torinesi vive in nuclei monofamiliari) mentre politiche restrittive sui flussi migratori impediscono la possibilità di un saldo meno negativo attraverso le famiglie di stranieri. Un fenomeno strettamente legato al saldo demografico negativo è il progressivo invecchiamento della popolazione. Gli anziani sono circa il 25% della popolazione e risultano essere il doppio dei giovani. Una popolazione più anziana comporta inevitabilmente un aumento della domanda di servizi in alcuni settori come quello della salute. Interessante, anche perché ripreso sui diversi livelli della STEEP, è stato il riferimento alle eredità dinamiche e in particolare alla dialettica tra path dependence e creation. Da un lato, il glorioso passato industriale della città potrebbe rallentare scelte innovative di ricollocamento economico, generando ad esempio aspettative di “ritorno” irrealizzabili, dall’altro il passato potrebbe invece essere sede di esempi di distruzioni creatrici e ispirare una maggiore capacità di agency. Nel futuro, quindi, il sistema di valori con cui le forze produttive della città interpreteranno il passato potrà essere dirimente per orientare gli investimenti in maniera adeguata. Ulteriori elementi di rischio individuati sono stati il gender gap, la digital inequality, la scarsa attitudine del contesto istituzionale torinese alla collaborazione tra attori sociali diversi, la separatezza tra formazione (in particolare istruzione terziaria) e imprese, la terziarizzazio-

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4. Ritorno al futuro?

ne e servitizzazione delle economie urbane nei paesi a capitalismo maturo. In termini di opportunità, il tavolo ha messo a fuoco alcune caratteristiche del panorama sociale torinese che potrebbero avere un impatto positivo per un “ritorno al futuro” della manifattura, in particolare verso la sostenibilità ambientale e il sostegno alle politiche di smartness dello spazio urbano quali la presenza di un elevato capitale sociale, di esperienze innovative nel campo dell’economia della collaborazione. Driving force 2: Technological L’industria principale di Torino è legata all’automobile. La driving force tecnologica principale, che potrebbe proiettare la città nel 2030, non può che essere legata a questo settore. Eppure, non sembra che Torino sia preparata alla transizione dell’automotive verso l’elettrico, cioè il paradigma verso cui la mobilità urbana potrebbe dirigersi nei prossimi anni. Un ruolo fondamentale nel futuro manifatturiero di Torino, come di tutto il mondo, lo avrà il modo in cui sarà sviluppata e implementata l’Intelligenza Artificiale. Il rischio che venga utilizzata per incrementare l’automazione e ridurre il lavoro umano, anche in settori a media e alta qualificazione, è molto forte. Altri paradigmi tecnologici che avranno un forte impatto sul futuro di Torino saranno Industria 4.0 (IOT ad esempio) e le biotecnologie. Le driving forces tecnologiche includono, inoltre, l’integrazione delle tecnologie digitali con il tessuto industriale della città, sempre che le scelte delle imprese convergano in politiche e condotte in linea con uno sviluppo sostenibile e green, coerente con politiche affini al Green New Deal. Su questo si ravvisa il rischio che Torino non faccia abbastanza per collocarsi adeguatamente nel campo della transizione energetica verso fonti rinnovabili. Interessante è il riferimento alla valorizzazione delle competenze distintive nelle dinamiche di rottura, che riprende il riferimento al path creation sul piano delle driving forces sociali.

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Driving force 3: Economic Torino, per rimanere protagonista anche nel 2030, dovrà risolvere il suo problema di scarsa attrattività degli investimenti. L’economia dei servizi richiede forti investimenti in tecnologia, tuttavia l’imprenditoria torinese si sarebbe caratterizzata nel tempo per una scarsa propensione al rischio, mentre il settore bancario farebbe “dormire in cassaforte” le proprie capacità finanziarie, a differenza di quanto accaduto nel 900’. Preoccupa anche il potenziale “Effetto San Matteo”, in particolare per le PMI:1 pur in presenza di una nuova stagione di investimenti da parte del settore pubblico, la ripartizione di nuove risorse potrebbe aumentare ulteriormente il gap tra alcune aziende meglio posizionate sul mercato e il mondo delle imprese piccole e medie, meno in grado di beneficiare delle innovazioni e di stare al passo con i mutamenti tecnologici richiesti. Ritorna il tema dell’attrattività dei cervelli: da un lato le Università si collocano bene nel panorama della domanda nazionale di istruzione terziaria, attirando molti studenti dal Sud e da altre parti del Nord Italia, dall’altra tuttavia il progetto di vita degli studenti rimane confinato alla laurea, perché pochi decidono di restare in città e di spendere le loro competenze in loco. Questo ha dei riflessi potenzialmente impattanti sull’economia urbana, ad esempio rallentando l’insediamento e la diffusione dei Knowledge Intensive Business Service o di altre attività economiche ad alto valore aggiunto che si fondano sulla presenza di alti livelli di capitale cognitivo. Questa dinamica si associa a quella che inquadra una prevalente importazione, da parte di Torino, di low skill ed esportazione high skill: il contesto industriale e lavorativo, dominato da larga richiesta di manodopera Col termine Effetto San di basso livello e da prospettive incerte sul futuMatteo in sociologia si indica un processo per ro manifatturiero della città (ad esempio: come cui, in certe situazioni, attrarre investimenti sull’Intelligenza Artificiale le nuove risorse che si rendono disponibili a Torino?) per il momento non attrae molti lavengono ripartite fra i voratori e spinge molti giovani (specie laureapartecipanti in proporzione a quanto hanno ti) a cercare opportunità lavorative al di fuori già per cui chi ha di più di Torino. riceve ancora di più.

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Ritorna anche il tema dell’eccessivo “auto-centrismo” di Torino (path dependence) che rischia di condizionare negativamente le aspettative sul futuro della manifattura quando si tratta di un mercato che potrebbe declinare come successe a Blockbuster con l’arrivo di Netflix. Un’altra driving force economica è la qualità della vita offerta da Torino. Oggi il costo della vita è basso, rispetto ad altre città simili per grandezza e sviluppo del tessuto industriale ed economico, e i servizi offerti al pubblico sono di buon livello. Questo può essere un valido asset per immaginare un ruolo da protagonista per Torino anche nel 2030. Driving force 4: Environmental In questa categoria rientrano le driving forces relative all’ecosistema naturale e all’impatto che gli apparati sociotecnici hanno per la sua resilienza. Una prima driving forces individuata nel comparto ambientale è l’inquinamento. Torino è stata la “città più inquinata” d’Italia, avendo superato ben 86 volte i limiti previsti per le polveri sottili (PM10) e 61 volte quelli riguardanti l’ozono (O3). Sono numeri difficilmente sostenibili, anche nel breve periodo, e rischiano di avere un grande impatto sulla capacità di Torino di attrarre e trattenere la popolazione. Sul piano delle opportunità, si individua l’economia circolare come paradigma di una conversione sostenibile del manifatturiero e il green deal europeo come l’occasione per avere il sostegno finanziario giusto per imprimere una svolta a questo genere di politiche. Anche, ma non solo chiaramente per questo, Torino deve accogliere maggiormente modelli capaci di abbinare sviluppo territoriale e Transformation green-oriented. Driving force 5: Political Una driving force per la Torino del 2030 riguarda il cambiamento dell’orizzonte politico. Le giunte pensano sempre a obiettivi a breve termine (con lo scopo di figurare bene alle prossime elezioni), e l’impressione generale è che le forze trainanti della città non siano disposte a unirsi, a

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fare dei piccoli sacrifici per un beneficio futuro, preferendo rinunciare a una possibile crescita pur di mantenere un proprio vantaggio competitivo (nel presente). Un’altra driving force è il confronto con l’estero: Torino in relazione ad altre aree metropolitane europee e mondiali. Se è vero che le traiettorie internazionali guideranno il futuro, Torino dovrà essere in grado di “agganciarsi” al treno del mercato con la Cina (ad es. la Nuova corsa allo Spazio, la Nuova Via della Seta), oltre che stringere rapporti di collaborazione più stretti con l’Unione Europea. È sollevato anche il tema dell’expertise della classe dirigente attuale: la preoccupazione è che, in particolare rispetto al passato, non presenti le competenze giuste per poter traghettare la città verso obiettivi rilevanti, non sappia elaborare strategie adeguate, promuovere un clima di collaborazione tra imprese e lavoratori. Questo, assieme ad altri fattori di natura socioeconomica, potrebbe incrementare il disorientamento politico dei cittadini, che si manifesterebbe nella liquidità del consenso elettorale. Viene inoltre segnalato un quadro normativo obsoleto e scelte politiche casuali che non consentono al sistema produttivo di prendere fino in fondo una direzione strategica. 4.3. Narrative Dopo aver identificato le possibili driving forces per Torino 2030, il tavolo di lavoro ha utilizzato il modello Four Archetypes. a. Narrativa Growth Nel 2030, Torino si presenta come una città in cui il manifatturiero è ancora forte, ha beneficiato di una nuova stagione di investimenti e riallocazioni produttive. La pandemia globale ha accelerato la concentrazione di nuovi investimenti pubblici grazie, in particolare, alle risorse del Recovery Plan europeo. Inoltre, la città ha beneficiato anche di un maggiore coinvolgimento di partner commerciali stranieri dotati di grandi capitali finanziari, soprattutto dalla Cina. Tuttavia, i capitali che hanno determinato un rilancio della manifattura sono risultati sostanzialmente esterni alla realtà finanziaria

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torinese. Rispetto al passato, la città ha un capitale industriale con una minore responsabilità sociale verso il territorio. I settori più trainanti di questa ripresa restano quelli del manufacturing center: aerospaziale e automotive (sebbene con una maggiore spinta sull’elettrico). L’avvento delle tecnologie digitali nel settore biohealth ha offerto opportunità di lavoro e sviluppo nel distretto della “Città della Salute”. Tuttavia, la spinta a una riallocazione manifatturiera si è limitata solo a questi settori e Torino continua a essere, anche nel 2030, una città manifatturiera “follower”, dove si applicano ma non si elaborano e sperimentano innovazioni. A beneficiare della nuova stagione di investimenti sono stati, prevalentemente, i grandi gruppi industriali, già presenti nella realtà torinese da tempo. Le PMI sono riuscite a collegarsi ai principali sviluppi tecnologici, ponendosi come partner sia dei grandi marchi sia come fornitori di beni e servizi per la PA locale, ma non hanno prodotto alcun modello di sviluppo peculiare, e continuano a presentare bassi margini di reinvestimento in conoscenza e innovazione. La crescita del valore aggiunto non si è tradotta in maggiori posti di lavoro: anzi, le tecnologie di automazione, rafforzate dalle innovazioni nel campo dell’Intelligenza Artificiale, hanno creato maggiore disoccupazione tecnologica anche nei lavori middle skills. La digitalizzazione ha investito non solo il privato, ma anche la Pubblica Amministrazione, che ormai ha dematerializzato molti processi amministrativi relativi all’autorizzazione o alla facilitazione degli investimenti in ambito manifatturiero. Tuttavia, la digital inequality – soprattutto dal punto di vista delle competenze -– è ancora molto presente. Questo non ha impedito alla città di sviluppare una quota sempre maggiore di Smart Working e di didattica a distanza (DAD). Il centro si è asciugato di servizi di ristorazione e intrattenimento, i valori immobiliari hanno subito dinamiche inaspettate rispetto alle tendenze preCovid, con una nuova domanda di case fuori città e con l’affermazione del modello “città dei 15 minuti”. Dal pun-

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to di vista ambientale Torino ha fatto qualche passo in avanti sulla qualità dell’aria, che resta tuttavia inferiore a quella di altre città europee e anche italiane. La demografia ha seguito il trend attuale e ha visto progredire l’invecchiamento della popolazione e la riduzione di giovani. Nel 2030 si va in pensione più tardi rispetto a dieci anni prima, tuttavia, si sono create anche nuove possibilità per coinvolgere maggiormente gli anziani e farli vivere meglio: ad esempio vengono promosse politiche che incentivano il cohousing tra gli over-70. I giovani sono sempre di meno ma sono sempre più formati e adeguati a svolgere il tipo di lavori della nuova industria. b. Narrativa Collapse A causa di dinamiche economiche e politiche di cui in parte è responsabile la pandemia globale, l’Italia è uscita dall’Europa e si è concretizzato il sogno federale di alcuni sovranisti. In questo contesto, Torino diventa una capitale tecnologica del Mediterraneo. Tuttavia, opera in una condizione internazionale di collasso, dove le forme di governo favoriscono una tipologia di governance autocratica: lo Stato garantisce la sopravvivenza minima ai suoi cittadini, ma ha un controllo totale su qualsiasi ambito della loro vita. Viene coniata una nuova moneta e la società si riorganizza in piccoli gruppi, con frontiere chiuse. La distribuzione del reddito si appiattisce verso il basso, il mercato si contrae e per sopravvivere i cittadini sono costretti a tornare al baratto. In questo contesto di “rurali digitali” e di disordini sorgono anche delle piccole monete locali, più precisamente delle criptovalute, che vengono convertite digitalmente alle dogane. Il panorama manifatturiero è fortemente mutato (e mutilato). La filiera industriale dell’automotive è crollata, FCA ha abbandonato definitivamente la città. Le PMI vanno incontro a un lento ma costante declino. Mancano le competenze per sfruttare le opportunità fornite dalle tecnologie digitali perché la maggior parte delle high skills è attirata da altri contesti urbani più competitivi e dove la qualità della vita è migliore. Il contesto

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politico e industriale ritiene che le opportunità generate dall’implementazione su larga scala delle tecnologie digitali non valgano l’investimento. Privato di qualsiasi regolazione, intervento, pianificazione da parte delle istituzioni e delle imprese, l’avvento delle tecnologie digitali impatta su Torino come una valanga, schiacciando sotto il suo peso posti di lavoro e amplificando il digital divide tra centro e periferie. I tassi di inquinamento sono aumentati e Torino presenta indicatori simili a quelle delle peggiori città del mondo. La decrescita economica e i profondi sconvolgimenti politici hanno ritardato gli interventi, pur parziali, svolti negli ultimi anni per contenere gli effetti negativi del riscaldamento globale. La città è rimasta ferma, o in alcuni casi, ha peggiorato le sue performance nel campo della gestione dei rifiuti, nella produzione di energia rinnovabile, nella qualità delle acque. Torino 2030 è una città disabitata, con uno scenario simile a quella della Detroit di inizio millennio. L’invecchiamento progressivo della popolazione ha condotto al collasso del sistema pensionistico, che non si è potuto reggere più per mancanza di forza lavoro attiva. Molti altri servizi di economia fondamentale, pagati essenzialmente con la fiscalità generale (sanità e scuola in primis) hanno visto una forte compressione della loro efficienza e universalità. Col crollo del sostegno al welfare aumentano le disuguaglianze, permettendo l’accesso ai servizi solo a chi ha assicurazioni private. A rafforzare gli elementi di degradazione progressiva del tessuto urbano vi è una classe politica sempre più provinciale, con scarsa expertise dei principali temi che interessano la comunità, e una forte conflittualità interna. c. Narrativa Discipline Nel 2030 Torino si presenta come una città che ormai ha messo alle spalle il suo passato industriale, e ha deciso di puntare su un’idea di sviluppo sostenibile compatibile con gli immaginari dei teorici della decrescita. Il manifatturiero si è specializzato su alcune nicchie, come il digitale e l’economia circolare, con soggetti im-

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prenditoriali che operano con mercati di riferimento internazionali. La politica ha imposto di digitalizzare diverse pratiche della pubblica amministrazione; inoltre, ha offerto incentivi per la formazione professionale, in particolare per la piccola impresa, con il fine di aggiornare il management sulle possibilità offerte dalla digital transformation. La leva dell’economia urbana è il terziario: la servitizzazione dell’economia urbana punta sul turismo, sui musei, sulla bellezza del paesaggio “metromontano”, sebbene Torino non abbia avuto in passato questo appeal. C’è anche un ritorno del settore primario, dell’agricoltura urbana che si riprende anche alcuni spazi urbani un tempo occupati dagli impianti industriali. Torino nel 2030 non arriva a tutto questo attraverso un mutamento puramente endogeno: è l’Europa ad andare verso questa direzione (che nel frattempo ha completato la sua integrazione politica divenendo Stati Uniti d’Europa). Vengono impostate a livello internazionale politiche di mitigazione del riscaldamento globale, con processi di attribuzione del valore sempre più legati alle esternalità ambientali, e con un’economia sempre più pianificata. Lo Stato ritorna “forte”, come l’attore politico in generale, sebbene questo non si traduca necessariamente con una centralizzazione delle funzioni. Torino nel 2030 è diventata una città di 500.000 abitanti in cui, accettato il sacrificio di settori industriali, si vive tutto sommato bene. Il costo della vita è basso, i prezzi delle case sono molto più accessibili che nelle altre città metropolitane, la maggiore attenzione alla sostenibilità ambientale su mobilità, rifiuti, gestione delle risorse idriche, energia, assicura a chi vive in città un benessere rilevante. Nel 2030, Torino è una città dove si coltivano le competenze di rottura, capaci di anticipare i rischi, di convertire l’organizzazione e la direzione di sistemi complessi verso obiettivi collettivamente definiti: gli interessi che si oppongono al raggiungimento di tali aspettative vengono piegati, anche al costo di rinunce e di danni a brevissimo termine. Vengono introdotti nuovi sistemi di welfare e vengono potenziati quelli già presenti per migliorare il saldo de-

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4. Ritorno al futuro?

mografico negativo. Tra questi, quelli legati a questione di genere e orientati a migliorare le politiche di conciliazione. In generale, il welfare diventa oggetto di maggiori investimenti, anche se non necessariamente finanziari: si rafforzano le dinamiche di secondo welfare, di coinvolgimento di attori sociali intermedi tra Stato e mercato, in un’ottica di servizi sociali di comunità. Inoltre, il welfare è oggetto anche di dibattito e di riconcettualizzazione. Il suo scopo principale è, nel 2030, quello di superare le diseguaglianze, di ridurre le distanze tra classi sociali, di generare nuove forme di economia. Per quanto riguarda la popolazione, lo Stato incentiva – e in alcuni casi arriva a obbligare – la promozione delle nascite o a creare nuclei familiari più estesi. In queste forme di riaggregazione in “famiglia” sono compresi i nuclei “atipici” come le famiglie costituite da anziani. d. Narrativa Transformation Nella Torino 2030 c’è un modello produttivo completamente nuovo: la robotica ha fatto passi in avanti consistenti e gli sviluppi nel settore dell’Intelligenza Artificiale hanno creato un contesto che ha reso obsoleti moltissimi lavori, garantendo ugualmente elevati tassi di produttività. L’innovazione tecnologica è rivolta principalmente al raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità ambientale: Torino 2030 è diventata un riferimento per le aree metropolitane che vogliono fondare un nuovo modello di sviluppo basato su nicchie verticali, inserite in value chain internazionali. Torino 2030 è infatti anche la città della redistribuzione della ricchezza e dell’economia collaborativa: si produce in base a obiettivi di sostenibilità, il lavoro si è fortemente digitalizzato e dematerializzato, il reddito universale garantisce una integrazione sociale diffusa, una governance territoriale strategica riesce a includere in questo modello anche le PMI, soprattutto nella produzione di beni collettivi e shared values. Tutto questo è avvenuto non solo grazie a innovazioni tecnologiche, ma anche (e soprattutto) grazie a una straor-

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dinaria mobilitazione politica della società. Di fatto, è scoppiato un nuovo ’68, la generazione di Friday for Futures ha determinato un ritorno dell’azione collettiva in campo politico e culturale. La conversione ecologica dell’economia si è istituzionalizzata, anche come legacy della pandemia Covid-19 che ha mostrato i limiti di “ vecchia normalità” fortemente inadeguata a un sistema resiliente. Alcuni giornali hanno dipinto questo processo come un “Maggio torinese” e le piazze si sono riempite di ragazzi e ragazze animate dalla volontà di partecipare e decidere il proprio futuro. Questo fermento culturale ha generato l’apertura di tanti cantieri, fisici e digitali stimolando nuove forme di interazione sociale. In questo contesto, si è rinnovato l’interesse per i beni collettivi e si giunge a un uso della tecnologia che amplifica la dimensione umana e fisica delle relazioni, invece che reprimerla. Sebbene maggiormente protagonisti rispetto a ora, Torino 2030 non è un paese solo per giovani. Anche gli anziani hanno un ruolo fondamentale e rivalutato. I pensionati, che ancora conservano ottime condizioni di salute e volontà, sono impegnati in attività di welfare di comunità, o di formazione culturale e professionale dei giovani. Proprio dal punto di vista della formazione, Torino 2030 si presenta con un rilancio delle scuole tecnicheprofessionali, che hanno avuto un ruolo importante nel passato industriale della città. La filiera tra scuola e impresa si è rafforzata e questo ha attirato, da un lato, nuovi flussi migratori, soprattutto di giovani di Paesi in via di sviluppo, i quali tuttavia si trovano un sistema in grado di valorizzare le loro energie e competenze e di prepararli a un lavoro sempre più specializzato come quello manifatturiero. Politiche di incentivazione delle nascite e di sostegno ai servizi per la famiglia e per l’infanzia si affiancano a politiche di sostegno alla migrazione, con lo scopo di ringiovanire la popolazione di Torino. Torino 2030 è quindi un luogo vibrante e pieno di occasioni, ci sono tantissimi bambini per le strade, la curva demografica vede un nuovo boom che compensa l’invecchiamento degli anni precedenti.

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5. Costruire una visione metromontana. Policentrismo e interdipendenza funzionale tra territori: persone, istituzioni e servizi di Filippo Barbera e Antonio De Rossi

Torino e la sua area metropolitana fanno difficoltà a cogliere le chances offerte dalla corona di montagne e vallate circostante, e al contempo tra gli abitanti di questi territori prevale sempre più la sfiducia verso la capitale subalpina e le sue istituzioni. Le occasioni per ripensare a un nuovo patto tra spazi metropolitani non sono mancate, si pensi ai Giochi olimpici invernali del 2006 o alla nascita della nuova Città Metropolitana, ma si sono risolte essenzialmente a favore di uno dei due poli, col prevalere di logiche sempre più “urbano-centriche”. La città continua a guardare le montagne in termini di spazio turistico o di paesaggio di sfondo, mentre manca una discorsività condivisa e riconoscibile sul possibile funzionamento di questo rapporto in termini metromontani, in un’ottica di interdipendenza e mutua collaborazione. I temi potenziali sono molteplici, e riguardano la valorizzazione delle risorse eco-sistemiche e agro-alimentari che le valli offrono alla città, i cambiamenti di uso del territorio e insediativi che si imporranno col crescere del mutamento climatico, le opportunità di residenzialità e telelavoro, la creazione di vere filiere corte concernenti le produzioni locali, lo scambio di competenze, i servizi eco-sistemici e le infrastrutture materiali e immateriali. Perché tutto questo possa prendere forma è però necessario innanzitutto un lavoro culturale che fornisca riconoscibilità a questo territorio che già nei fatti è metromontano (si pensi ai filamenti urbanizzati che senza soluzione di continuità muovono dall’area metropolitana dentro le vallate e lungo i pedemonti), col riconoscimento di quello che montagna e città danno l’uno all’altro, fino a lavorare su forme di collaborazione e progettualità che sviluppino

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nei fatti il nuovo territorio metromontano, agendo progettualmente su sistemi di mobilità-accessibilità, welfare, economie locali, imprenditorialità diffusa, trasferimento tecnologico e innovazione, reti ambientali, riuso dei patrimoni sottoutilizzati, ed evitando al contempo fenomeni di ulteriore crescita edilizia e gentrificazione. 5.1. Webinar La problematica è stata affrontata da quattro relatori, Fabrizio Barca, Giuseppe Dematteis, Marco Bussone e Alberto Avetta, in occasione del secondo Webinar.1 Fabrizio Barca, Coordinatore del Forum Diseguaglianze e Diversità, già Ministro per la Coesione Territoriale e promotore della Strategia Nazionale per le Aree Interne (SNAI). Si occupa di diseguaglianze sociali, sviluppo locale, politiche pubbliche e partecipazione politico-sociale. Autore di numerosi saggi e libri sulla storia economica italiana, lo sviluppo industriale e territoriali. Giuseppe Dematteis, Presidente Associazione Dislivelli, geografo e professore emerito al Politecnico di Torino. Si occupa di sviluppo territoriale e analisi dei sistemi locali, svolge attività di ricerca, comunicazione e consulenza per territori e strategie territoriali. È autore di numerose pubblicazioni scientifiche e libri di riferimento. Marco Bussone, Presidente Uncem Nazionale. Si occupa di montagna e della sua rappresentanza politicosindacale. Ha al suo attivo numerosi scritti e interventi di advocacy per la montagna. Lavora a stretto contatto con le istituzioni regionali e nazionali.

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Alberto Avetta, Consigliere Città Metropolitana di Torino e Consigliere Regione Piemonte. Si occupa da tempo del ruolo dei territori e di quello dei piccoli Comuni. Ha una lunga e varia esperienza politico-amministrativa, sempre attenta alla valorizzazione delle w w w. f a c e b o o k . c o m / watch/live/?v=21792 aree marginali e alla loro integrazione metro5559708769&ref=wat montana. ch_permalink

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Barca ha posto il tema del potere come prerequisito per costruire relazioni a somma positiva tra città e montagna. Una visione metromontana può affermarsi solo se tra città e aree interne vi è una condizione di equilibrio di potere. L’egemonia culturale neoliberista ha affermato una visione consumistica e metrocentrica, che tuttavia oggi fa i conti con l’affermazione di nuovi valori e modelli di organizzazione del lavoro. A riguardo, le 72 aree progetto della strategia Aree Interne sono un punto di partenza per un nuovo dialogo con le città. Le città sono agglomerate dense di potere - imprenditoriale, burocratico, politico - dove sono concentrati servizi fondamentali e “a portata di mano”. La montagna è invece un luogo rugoso, segnato da forti diversità ambientali e culturali, con saperi e strutture di potere deboli rispetto a quelle urbane. Secondo Barca, la marginalizzazione delle aree interne in Italia è il prodotto di modello per cui i saperi che non “sanno stare sul mercato” non hanno valore, così come le competenze non tecnologiche. In modo paradossale, lo spopolamento delle aree interne è interpretato come un indicatore di sviluppo. Di conseguenza, la montagna è solo luogo del consumo: seconda casa, weekend, o estrazione di risorse. A fronte di questo quadro, negli ultimi anni si sono rafforzate delle controtendenze, anche se solo in forma di segnali: 1) la consapevolezza crescente che la vera Italia è costituita anche dalle aree interne e non esclusivamente dai centri metropolitani; 2) il ritorno dei giovani in montagna, con progetti di vita e lavoro a lungo termine; 3) l’aspirazione delle borghesie urbane di trasferirsi nei borghi e in montagna. Ci sono cinque acceleratori che potrebbero determinare l’affermazione di questi segnali in vere e proprie controtendenze a livello sistemico: 1) un aumento del reddito pro-capite che aumenta la capacità di autodeterminazione; 2) la presenza di vuoti lasciati dall’abbandono delle aree rurali; 3) la crisi generazionale con disoccupazione giovanile e povertà abitativa; 4) il cambiamento climatico con la crescente non sopportabilità delle temperature che caratterizzano i centri urbani; 5) la pandemia, che potrebbe costituire l’acceleratore di tutte le accelera-

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zioni precedenti. Tutte queste tendenze possibili, però, richiedono un interscambio a “poteri simili”. Come ha mostrato la strategia Aree Interne, per far sì che “metromontano” non significhi colonizzazione della città sulla montagna, i Comuni e le istituzioni intermedie di montagna devono stringere anzitutto alleanze e patti a lungo termine tra loro, per aumentare forza negoziale e potere contrattuale verso le città. Del canto suo, Beppe Dematteis ha sostenuto che il modello metromontano si deve fondare su un equilibrio nei flussi di interscambio tra città e aree montane, capace di sviluppare complementarità e interdipendenze vantaggiose per entrambe le parti. Una politica di coesione dovrebbe quindi ridurre le dipendenze dovute a situazioni di diseguaglianza e favorire l’accesso alle risorse da parte di “due centralità” interconnesse. Tra città e aree interne c’è un forte legame di dipendenza strutturale: la montagna dipende fortemente dalla città per l’offerta di beni e servizi, per la ricchezza generata da famiglie e imprese non residenti, per la pendolarità giornaliera per lavoro, per la domanda della vicina città per quanto riguarda il turismo e i prodotti agro-pastorali. In senso inverso, la città, data l’ineguale dotazione di capitale naturale, dipende dalle aree montane per alcuni servizi eco-sistemici, soprattutto quelli di approvvigionamento, di regolazione delle acque e quelli culturali (ricreativi, estetici, simbolici, educativi), in parte commercializzati attraverso le attività turistiche. Tuttavia, gli scambi e i flussi bidirezionali appaiono squilibrati a favore della città e le aree montane danno più di quanto ricevono. Porre rimedio allo squilibrio implica lo sviluppo di complementarità e interdipendenze vantaggiose per entrambe le parti. In che modo? Facilitando l’accesso da parte di ciascuna delle due parti a ciò che le manca e che l’altra ha in abbondanza. È, questo, il principio su cui può basarsi il modello metromontano. La parte montana non è solo lo spazio rurale ma è un territorio policentrico organizzato attorno a una rete di centri minori, costituiti anche da città piccole e medie. Questi centri minori per loro natura e per storia vivono in simbiosi con la montagna rurale circostante e realiz-

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zano con questa, in modo naturale, un’interdipendenza vantaggiosa. Ma c’è una differenza tra le forme di dipendenza: quella derivante da fattori naturali è inevitabile e può solo essere regolata. Mentre la dipendenza da squilibri socioeconomici si può ridurre. In questo punto, la tesi di deMatteis interseca l’argomentazione di Fabrizio Barca: la condizione necessaria per arrivare a forme di collaborazione istituzionale tra la montagna e la città è legata alla formazione di aggregati di comuni montani dotati di autonomia funzionale e progettuale. Una sorta di modello potenziato delle vecchie comunità montane, più stabile, strutturato e razionale delle attuali Unioni di Comuni. Un insieme di aggregati di area vasta che abbiano la forza e il potere di negoziare con la città e che abbia voce in capitolo, ad esempio, nella formazione di piani di sviluppo urbanistici veramente metromontani. La cifra metromontana è stata declinata poi sulla specifica realtà dell’area vasta di Torino, da Marco Bussone e da Alberto Avetta. Secondo Bussone, Enti quali Uncem o Anci svolgono un ruolo di supporto al complesso processo di costruzione della “Città Metromontana” avendo cura di sottolineare nelle sedi politiche la rilevanza di questo tema e la necessità di coinvolgere attivamente il mondo accademico, l’associazionismo e, non da ultimi, gli enti locali. Il tema dell’equilibrio dei poteri, di cui ha discusso Barca, richiede quindi un presidio politicoistituzionale preciso. Nel processo di creazione della Città Metropolitana si è sentita la mancanza di un dibattito vigoroso quale quello che si sviluppò in vista dei Giochi Olimpici, a partire dal riconoscimento di Torino come Capitale delle Alpi. Di conseguenza, si registra un diffuso ritardo culturale che impedisce di riconoscere le caratteristiche e le potenzialità di un’area metromontana. Questo gap culturale trova riscontro nell’approccio della politica rispetto alla vittoria di Milano e Cortina, tutto focalizzato sulle infrastrutture materiali, poco o nulla sul territorio. Per la costruzione istituzionale della Torino metromontana occorre partire da esperienze positive di modelli integrati di gestione delle risorse e dei servizi, basati sulla corretta definizione di Ambiti Territoriali Ot-

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timali (ATO) che prevedano forme di pagamento di servizi ecosistemici (4 euro pro capite versati dalla città alla montagna per bilanciare l’uso delle risorse e prevenire il dissesto idro-geologico). Ma anche da meccanismi di restituzione economica strutturati a partire dalla dimensione della gestione viaria, da dedicare non solo alla riforestazione ma anche alla gestione attiva di prati e boschi; una gestione differenziata rispetto al contrasto del consumo di suolo, da limitare nelle città, dove costituisce un problema, e da promuovere in montagna, dove può diventare una risposta al problema dello spopolamento. La costruzione della Torino metromontana richiede quindi il presidio di diversi livelli: 1. Istituzionale: definire gli Ambiti Territoriali Ottimali ed evitare l’effetto dell’albergo a ore, dove la permanenza dei referenti politici all’interno dell’Ente è strettamente legata a calcoli elettorali o all’attesa di “posti” migliori. La cura istituzionale della montagna non può ridursi a “premi di consolazione”, da lasciare appena possibile per posti più prestigiosi; 2. Politico: occorre strutturare una strategia che consenta investimenti opportuni e interventi utili a differenziare su alcuni aspetti significativi quali, ad esempio, la fiscalità, le agevolazioni per chi garantisce i servizi nelle aree montane ecc.; 3. Operativo: che concerne la definizione di un modello operativo chiaro e condiviso, con percorsi di futuro rafforzati ed estesi, che consentano di cogliere le opportunità emergenti (quali ad esempio quelle connesse alle comunità energetiche). Anche Alberto Avetta ha ripreso il tema istituzionale e la necessità di rafforzare le istituzioni intermedie: il vuoto lasciato dalle Province non è stato colmato in modo adeguato e la costruzione della Città Metropolitana ha seguito un processo di natura più “adempitiva” che non propositiva o volta alla costruzione di nuovi modelli di governance territoriale. Alla Città Metropolitana viene affidata per legge una funzione di coordinamento sociale ed economico e di programmazione strategica, assente

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nelle precedenti Province. Di conseguenza è “il” soggetto che è chiamato a svolgere, nei prossimi anni, un ruolo di raccordo tra città e montagna. A riguardo, però, occorre tener conto del forte sbilanciamento del potere decisionale a favore dei rappresentanti dell’area metropolitana di Torino rispetto a quelli delle aree montane. Oggi è difficile, per un Consigliere della Città Metropolitana che sostiene una certa causa, imporsi o fare da apripista. Occorre quindi individuare un meccanismo che consenta piena rappresentatività anche alle istanze provenienti dai territori di montagna. Il caso di SMAT che gestisce le risorse idriche di 250 Comuni, può essere considerato per certi versi emblematico a riguardo: qualche anno fa è stato adottato un modello decisionale per “testa”, dove il Sindaco del piccolo comune conta tanto quanto quello di Torino. Indicativo, invece, che il Sindaco della Città Metropolitana è, di default, quello di Torino. La Città Metropolitana deve costruire le condizioni abilitanti che favoriscano l’aggregazione di Comuni – di Torino e delle aree montane – in strategie e azioni trasversali che consentano non solo “scambio” tra i due territori diversi, ma anche di integrazione istituzionale in un unico territorio.

5.2. Driving Forces e Discontinuità Una prima driving force (Sociological) identificata come trainante nel rapporto tra Torino e le aree montane nel 2030 è la trasformazione culturale nell’approccio di “vivere la montagna” da parte degli abitanti della città. Si sta affermando nell’area metromontana un nuovo paradigma culturale, in cui la montagna non è più oggetto di pratiche “estrattive” a breve termine (weekend, seconde case, grandi impianti sportivi o di intrattenimento) ma luogo dove vivere stabilmente e con una qualità di vita anche più elevata che in città. A influire sul ripopolamento delle aree montane e vallive è anche un insieme

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di fattori economici (costi immobiliari e affitti più ridotti, nuove possibilità lavorative), che favoriscono un cambiamento profondo della popolazione di queste aree, orientata ai cosiddetti “amenity migrants”. Questo fenomeno può implicare l’ascesa di nuovi modelli di rapporto tra generazioni e sub-popolazioni: la città ospita un numero sempre maggiore di migranti e, in concomitanza col ripopolamento delle aree attorno a essa, diventa un hub di mobilità a breve e medio termine. Cresce dunque la popolazione temporanea di persone che a Torino giungono per motivi di lavoro, pronti però ad abitare altrove (ad esempio proprio in montagna, se questa dovesse offrire opportunità di lavoro connesso ai bisogni e alle disponibilità economiche degli “amenity migrants”. Altra driving force (Technological) identificata dai relatori è il digital divide, articolato per fasce sociali (più abbienti e meno abbienti), territoriali (abitanti della città e delle aree montane e vallive), anagrafiche (più anziani e meno anziani). In un futuro sempre più interconnesso e in cui servizi e possibilità lavorative sono strettamente dipendenti dall’accesso alla Rete, il problema legato al divario digitale e alla possibilità di accedere ai servizi dipendenti dalle tecnologie digitali diventa di primaria importanza. Infatti, una importante driving force dal punto di vista tecnologico è la crescente digitalizzazione della società. Molti servizi alle imprese e al cittadino prevedono l’uso della Rete, e l’accesso a questa sta diventando sempre più semplice e radicato anche nelle aree più remote. In questo scenario, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione connettono persone e attività molto distanti, permettendo a queste di potersi relazionare anche non condividendo lo spazio fisico. Questo fenomeno abilita nuovi processi migratori centrifughi dalle città sia di persone, che, in prospettiva, di attività produttive. Più disponibilità, accesso e strutture connesse alla Rete portano alla diffusione di supporti tecnologici creati per aumentare le possibilità della democrazia deliberativa. Lo sviluppo di nuovi paradigmi tecnologici, come l’Intelligenza Artificiale, inevitabilmente comporterà delle conseguenze sul piano dell’automazione, dell’organiz-

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zazione del lavoro e delle competenze. Le banche dati diventeranno sempre più importanti e il maggiore bisogno di connettività nelle aree interne potrebbe comportare un aumento della domanda energetica, con conseguenze negative dal punto di vista ambientale, se questa transizione non viene gestita in maniera conforme a un modello di sviluppo sostenibile. Lo scenario preso in analisi dal workshop analizza come prima driving force economica una contrazione dei posti di lavoro nella città di Torino, figlia di mutamenti demografici, economici, climatici e industriali. Il primo risultato di questo fenomeno è uno spostamento verso la cosiddetta “economia fondamentale”: in un contesto di crisi, di primaria importanza sarà garantire il funzionamento di scuole, ospedali, risorse idriche ed energetiche. Si viene a creare un contesto economico con una struttura economica e occupazionale più debole e polarizzata, che amplia la forbice tra ricchi e poveri e che potrebbe spingere molte persone a trovare come unica alternativa di sussistenza l’imprenditoria individuale. Il graduale svuotamento delle città favorisce un’altra driving force: la rigenerazione dell’economia montana e valliva. Queste aree, ripopolate di cittadini e di opportunità lavorative, potrebbero vivere dunque una fase d’espansione, con un maggior utilizzo di risorse ambientali nelle aree vallive (come, ad esempio, quelle coinvolte nella filiera boscolegno-energia) e un rafforzamento della filiera agroalimentare. Il processo appena descritto, però, potrebbe scontrarsi con una driving force di segno opposto, urbana: la spinta di lobby economiche metropolitane verso la concentrazione territoriale, un atto che ostacolerebbe un processo di dialogo e coesione tra Torino e il suo circondario metromontano. Tale spinta potrebbe coincidere con l’aggravarsi della polarizzazione tra ricchi e poveri nella redistribuzione dei redditi, particolarmente accentuata da dopo la crisi del 2008 e ulteriormente radicalizzata dalla pandemia. Ulteriore driving force analizzata riguarda lo sviluppo dello smart working, anche al di là dell’orizzonte temporale delimitato dall’emergenza Covid-19 e in procinto di

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diventare, guardando verso Torino 2030, una modalità di lavoro diffusa e “normalizzata”. Per la dimensione “environmental” una driving force cruciale, e non solo a livello locale, è il cambiamento climatico. Torino e le comunità territoriali limitrofe dovranno fronteggiare fenomeni quali l’aumento delle temperature e il verificarsi con frequenza crescente di fenomeni atmosferici estremi come le precipitazioni a carattere torrentizio, che potranno incidere su nuovi processi migratori tra città e aree interne. Queste dinamiche potrebbero comportare l’abbandono delle aree fragili e, al contempo, delle città, nonché vedere il ripopolamento delle aree rurali più “urbanizzabili”, ad esempio i fondivalle. Inoltre, potrebbero determinare profonde trasformazioni del territorio, non più adatto a determinati tipi di flora o fauna e invece pronto ad accoglierne di nuovi. Di conseguenza, nel workshop è stata inquadrata un’altra possibile driving force di carattere ambientale, che riguarda la governance delle crisi generate dal cambiamento climatico. Le amministrazioni dovranno pianificare strategie d’intervento capaci di assorbire gli shock ambientali. In agricoltura si prevede uno spostamento di colture tradizionali (quali quella della vite o delle patate) verso quote più elevate; le aree urbane, vittime di gas climalteranti e di un peggioramento sostanziale della qualità dell’aria, devono invece adattarsi, pianificando un’urbanistica e una strategia abitativa che inizi dalle necessità imposte dall’emergenza climatica. In uno scenario di polarizzazione politica sempre più accentuata viene sollevata, come principale driving force, la necessità di ridisegnare lo scenario di governance territoriale, sganciando Torino dal potere del Governo centrale e rendendola più autonoma e capace di dialogare con l’Europa. Lo scenario considerato nel workshop prevede, infatti, una situazione estremamente problematica per gli apparati politici e burocratici tradizionali centralizzati, troppo impacciati e “lenti” per poter fronteggiare i cambiamenti e le sfide dei prossimi dieci anni, che saranno affrontati sempre più da cittadini, imprese e piccoli gruppi portatori d’interesse.

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In questo schema, due attori (Europa e comunità locali) potrebbero “prendere la scena” rispetto alle istituzioni statali o anche regionali, da un lato attraverso un rafforzamento delle dinamiche di coesione e coordinamento tra aree interne e, dall’altro, attraverso il sostegno a forme di cooperazione tra metropoli e piccoli Comuni all’interno di network transnazionali. Una driving force che vede un dialogo sempre più fitto e proficuo tra Torino e le sue aree montane e vallive è il rafforzamento della progettazione e dell’attuazione di un efficiente sistema di trasporti pubblici su scala metropolitana, che possa collegare queste due realtà, in una Torino sempre meno densamente popolata e le cui aree limitrofe sembrerebbero pronte a vivere un nuovo boom demografico. Un’altra driving force di carattere politico considerata nel workshop riguarda l’emersione di nuove forme di democrazia deliberativa. La diffusione di strumenti tecnologici in misura sempre maggiore nella popolazione fornirebbe ai cittadini nuove possibilità di partecipazione alla cosa pubblica. In questa direzione tenderebbe a spingere anche la maggiore domanda di riconoscimento da parte delle comunità dei piccoli territori, sempre più orientate alla ricerca di una maggiore autonomia decisionale. Un possibile elemento di discontinuità individuato durante il workshop riguarda la vittoria delle battaglie delle “minoranze”. I comitati e i grandi gruppi associabili a lotte come quella del “MeToo”, di “Black Lives Matter” e per i diritti della comunità LGBTQ+ risultano vincitori, in questo scenario poco probabile ma dalle conseguenze rilevanti. Ciò potrebbe riguardare anche le popolazioni e i territori in deficit di riconoscimento, in un contesto complesso ma evidentemente felice per quanto concerne le battaglie sui diritti civili e l’equilibrio tra le istanze di riconoscimento dei territori. Ulteriore elemento di discontinuità riguarda le conseguenze legate a una migrazione di massa, un fenomeno in realtà complesso e che merita un approfondimento. Si assiste a una migrazione di giovani dalla metropoli verso le aree montane e vallive, attratti da affitti meno esosi e dalla possibilità di vivere in zone meno colpite dagli effetti dell’inquinamen-

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to; si assiste inoltre a un ulteriore fenomeno migratorio concomitante, quello dei “migranti climatici”, ovvero persone provenienti dal Sud del Mondo devastato dalle conseguenze del climate change e costrette a risalire verso l’Europa per sopravvivere. Quali sono le conseguenze legate a un tale sconvolgimento del panorama demografico di un’area rurale? Da un punto di vista politico, un elemento di discontinuità è riscontrabile in un mercato immobiliare in valle e montagna rinnovato, pronto a ospitare la domanda di nuovi abitanti. Altro elemento di discontinuità legato a questo tema, ma di carattere relazionale, riguarda l’inevitabile conflitto intergenerazionale che verrebbe a crearsi tra la popolazione più anziana, “autoctona”, e quella più giovane, “pioniera” di un cambiamento culturale, lavorativo, economico ed ecologico che potrebbe essere percepito come traumatico da parte di chi, in quei territori, ha sempre vissuto. Un primo elemento possibile di discontinuità tecnologica concerne una vera e propria rivoluzione del rapporto tra digitalizzazione e città. In questo scenario si prevede un libero e gratuito accesso a Internet come bene pubblico, facilitato da infrastrutture tecnologiche diffuse in egual modo sul territorio per diminuire il digital divide tra centro e periferia. La Rete, diffusa capillarmente, permette di aumentare le possibilità di partecipazione democratica alla vita politica, rivoluziona il sistema dei trasporti (grazie all’implementazione di sistemi di guida autonoma) e offre un ventaglio ampio di nuovi ed efficienti servizi per imprese e cittadini. Nel contempo, i relatori hanno messo in luce un elemento di discontinuità di segno opposto. Uno scenario in cui le nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione, diffuse anche in questo caso capillarmente, isolano gli individui, esasperando i conflitti sociali o rendendoli più visibili, contribuendo a creare un clima d’ostilità che facilita la polarizzazione. Infine, uno sviluppo tecnologico così accentuato potrebbe condurre a un ulteriore fattore di discontinuità, ovvero alla formazione di nuove forme ibride tra uomo e macchina. Primo elemento di discontinuità economica individuato riguarda il collasso del sistema capitalistico e di

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finanza globale. Chiudono molte imprese italiane e diversi cittadini trovano sempre più difficile assicurarsi i beni essenziali. Colpita da questa crisi, da mutamenti culturali legati all’uso dell’automobile nel mondo e a un’incapacità di rinnovamento dell’intero settore, si assiste al crollo dell’industria del motore torinese, cuore pulsante della città. I capitali, sempre più ridotti, si concentrano in aree densamente abitate, lasciando a loro stesse le comunità montane e vallive, che fanno più fatica a tradurre saperi e competenze in “prodotti” spendibili a breve termine sul mercato. Questo elemento conduce conseguentemente a un altro possibile elemento di discontinuità, ovvero: come risponde la comunità a una crisi di questo genere? Sono state individuate due possibilità. La prima, di carattere endogeno, riguarda un adattamento al cambiamento climatico, che nel frattempo ha trasformato profondamente il tessuto agricolo: a Torino e dintorni sarà possibile la produzione di frutti tropicali e di prodotti vegetali “anomali”, che mai avremmo pensato di poter associare, per clima e territorio, al Piemonte. La seconda risposta, di carattere esogeno, riguarda la ricerca di capitali per rilanciare l’economia. In uno scenario in cui il tessuto produttivo e finanziario è logoro, la politica e le imprese cercano risorse dalla Cina, arrivando a dipendere economicamente da essa. Il cambiamento climatico è l’elemento di discontinuità principale preso in considerazione dai relatori. Lo scenario qui previsto, essendo di discontinuità, prevede un cambiamento climatico improvviso e irreversibile, portatore di conseguenze più profonde sul territorio. Le temperature si alzano di diversi gradi centigradi, le pianure diventano invivibili, la crisi idrica non è di carattere locale ma globale, la qualità della vita delle città più inquinate (come Torino) peggiora sensibilmente. Questo può condurre a ulteriori fenomeni di discontinuità: alcuni cittadini potrebbero migrare verso la montagna, per sfuggire all’inquinamento, per cercare nuove possibilità lavorative e un costo della vita più basso; altri potrebbero modificare in maniera adattativa i propri comportamenti, come ad esempio tor-

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nare a muoversi a cavallo; altri ancora, invece, potrebbero agire sul fronte del mutuo aiuto, adottando nuove forme di convivenza basate sulla condivisione dell’energia. Un esempio, in tal senso, sono le comunità energetiche, che in un contesto come quello appena descritto potrebbero fiorire come un’alternativa. Un elemento di forte discontinuità è stato individuato, in un contesto di crescenti crisi economiche e climatiche, nell’emersione di totalitarismi in Europa. I cittadini del Vecchio Continente, impauriti e bisognosi di risposte nette, rapide e rassicuranti, si gettano tra le braccia dell’“uomo forte” (di nuovo). Questo mutamento del panorama politico conduce, naturalmente, a una diminuzione delle libertà (tra le altre) democratiche e delle possibilità di autorganizzazione dei cittadini. Uno scenario di discontinuità alternativo prevede invece un’Europa delle Regioni, che ha superato l’era delle “nazioni” e ha prodotto un puzzle di piccole realtà territoriali, ognuna con la possibilità di potersi relazionare col resto del Continente senza dover più rendere conto alle entità centralizzate di carattere nazionale. Questo disegno prevede la riduzione drastica degli Enti Comunali e il loro accorpamento in aree più grandi: è il caso di Torino, che annettendo il suo territorio periurbano diventerebbe “Grande Torino”. Infine, i relatori hanno identificato un ulteriore elemento di discontinuità nella possibile “presa di coscienza” e conflittualità tra autoctoni e comunità immigrate. Questi “nuovi italiani”, arrivati da ogni parte del Mondo, privi di riconoscimento politico (essendo loro impedito l’accesso al voto e a servizi di welfare quali il Reddito di Cittadinanza), con l’aumentare del loro numero e del loro peso sulla società potrebbero domandare diritti sia in maniera pacifica, ma anche attraverso forme di conflitto sociale. 5.3. Narrative Dopo aver identificato le possibili driving forces per Torino 2030, il tavolo di lavoro ha utilizzato il modello Four Archetypes declinandolo sul tema della “visione metromontana”. I partecipanti si sono divisi in gruppi e han-

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5. Costruire una visione metromontana

no elaborato delle narrative a partire da come le driving forces e le discontinuità avrebbero potuto svilupparsi nei quattro scenari del modello. a. Narrativa Growth Le conseguenze del cambiamento climatico si abbattono sull’area metromontana di Torino 2030 sotto forma di dissesti idrogeologici e calamità naturali che colpiscono le montagne e le valli: alluvioni, incendi, fenomeni sismici alterano le condizioni di vivibilità del territorio e la sua geografia. In città, invece, l’innalzamento delle temperature e l’aggravarsi dell’inquinamento peggiorano la qualità di vita dei cittadini. Una situazione di crisi che conduce alla crescita della domanda di sistemi di regolazione che riguardano l’aria, l’acqua, il paesaggio. Quello ambientale non è l’unico fattore di criticità che i torinesi di città e dintorni devono affrontare: a mutare è anche il panorama produttivo, col crollo di quel vivace tessuto di imprese medio-piccole che per molto tempo aveva garantito sostenibilità e un buon livello di qualità della vita alla popolazione. La città accoglie i grandi capitali e concentra le imprese mediograndi, mentre in montagna e a valle fioriscono iniziative di piccola imprenditoria e di lavoro autonomo individuale. Aumenta il numero di chi lavora per le piattaforme a distanza, tramite smart working, vivendo però nell’area periurbana della città. Lo smart working, nel 2030, è stato normalizzato ed è una modalità di lavoro diffusa. Le popolazioni di città e dintorni si contaminano, creando nuove tensioni e conflitti (legati ai pericoli della gentrification, ai contrasti tra ricchi e poveri, tra chi ha visioni della società diverse), ma anche possibilità di trasformazione dei contesti sociali. In particolare, nelle aree di montagna e di valle si assiste a una crescita della domanda di “domesticità”. Proprio per questo, cresce la richiesta di terreni attualmente “silenti”, oggi poco valorizzati o di difficile accesso. Con una rinnovata gestione del patrimonio demaniale, i nuovi cittadini della montagna e della valle avviano un nuovo boom edilizio (conforme ai criteri di sostenibilità ambientale) che muta il paesaggio urbano e antropologico di queste aree.

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b. Narrativa Collapse Il collasso è prima di tutto ambientale, con l’aggravarsi di eventi climatici già presenti nel 2020: si alza il livello del mare e delle temperature, peggiora la qualità dell’aria a Torino, montagne e valli vengono colpite da alluvioni, incendi, smottamenti e da quello che si presenta come un vero e proprio shock idrogeologico. In tutta l’area metromontana i cittadini devono fare i conti con la crisi idrica e con un peggioramento delle loro condizioni di vita. E non sono gli unici che devono fronteggiare le crisi generate dal cambiamento climatico. La zona della città metropolitana di Torino viene infatti “invasa” da migranti, in fuga da territori in cui è resa ormai impraticabile la vita umana, divenuti unicamente teatri di conflitto o di guerra. Questi flussi migratori, mal regolati o addirittura non regolati, contribuiscono a peggiorare una situazione di convivenza civile già compromessa, inasprendo i conflitti presenti e generandone di nuovi. Il sistema produttivo è in crisi. L’estremo impiego del terziario degli anni precedenti ha inaridito la produzione di beni, generando un crollo di posti di lavoro quando anche il terziario ha subito una severa contrazione della propria capacità di generare ricchezza e occupazione. In questa prospettiva, i sistemi del turismo tradizionale (ad esempio gli impianti a fune) e della filiera agro-alimentare perdono di qualità e sono costretti a ridimensionarsi. Torino diventa una città “monca”, priva di vere e proprie peculiarità industriali, specializzazioni economiche, oltre che di competitività e capacità produttiva in generale. Incapace di rispondere alla domanda di lavoro dei suoi abitanti, alla necessità di offrire soluzioni alle crisi generate dal cambiamento climatico e al progressivo (e inevitabile) invecchiamento della popolazione, Torino e la sua area periurbana perdono buona parte della loro capacità di amministrare il Sistema Sanitario Regionale. Le zone di montagna restano sprovviste di ospedali, mentre le RSA non riescono in alcun modo a trovare una via per essere economicamente sostenibili, rendendo impossibile ospitare un numero sempre maggiore di anziani.

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5. Costruire una visione metromontana

c. Narrativa Discipline Vengono prese delle misure per contrastare le crisi attuate dal cambiamento climatico. Nuove e severe norme vengono messe in atto per garantire una migliore cura del territorio delle aree montane, riducendo al contempo l’estensione delle coltivazioni in pianura e convertendo molte di queste in aree che producono servizi eco-sistemici. Si assiste, in sostanza, all’affermarsi di un nuovo modello di agricoltura, che garantisce di evitare un dissesto idrogeologico altrimenti inevitabile. L’inquinamento a Torino si acuisce, la situazione lavorativa muta con la chiusura di intere filiere industriali, la qualità della vita peggiora (affitti sempre più alti, deterioramento dell’aria) e sempre più persone, soprattutto di giovane età, decidono di trasferirsi al di fuori del perimetro urbano. Le valli e le montagne rifioriscono, letteralmente “invase” da una nuova popolazione che richiede innanzitutto l’accesso alle terre e ai servizi essenziali. Si diffonde un nuovo modo di pensare la “seconda casa”, non più luogo di villeggiatura ma posto in cui trascorrere crescenti porzioni della propria vita, alternando la residenzialità con una casa di città. Nascono forme di gestione condivisa del territorio: le associazioni fondiarie concedono l’accesso alle terre; i consorzi forestali amministrano una risorsa, quella boschiva, precedentemente sottovalutata; diversi servizi vengono gestiti da cooperative di comunità; si affermano nuovi modi ecosostenibili di generare energia, quali le comunità energetiche, in accordo a un paradigma internazionale favorevole e pronto a finanziare (con politiche afferenti al Green Deal europeo) politiche di questo genere. Inoltre, grazie allo sviluppo tecnologico, i cittadini si trovano ad avere più strumenti decisionali per partecipare alla vita politica democratica. Il rimescolamento della popolazione, diffusa tra città e dintorni in maniera più eterogenea, conduce a una redistribuzione territoriale dei servizi sanitari e di cura. Ospedali e strutture sanitarie non sono più concentrati in città, ma vengono delocalizzati nell’hinterland.

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d. Narrativa Transformation Dato il maggior equilibrio demografico tra città e aree esterne, Torino 2030 è un luogo in cui i rapporti di forza tra area urbana e aree pedemontane e vallive sono più equilibrati. Le zone più esterne acquisiscono una maggiore indipendenza, grazie all’affermarsi delle comunità energetiche e di una migliore gestione del proprio patrimonio idrico, e di questa indipendenza energetica può godere anche la città di Torino, che garantisce invece all’hinterland un maggiore accesso a servizi e welfare, delocalizzati e riorganizzati, ora più vicini geograficamente e psicologicamente agli abitanti di questi territori. Per permettere un cambiamento così drastico del rapporto tra città e aree montane e vallive, Torino muta la propria dimensione politico-istituzionale. All’interno dello scenario di un’“Europa delle Regioni”, in cui queste ultime hanno maggiore autonomia e potere d’azione (come la possibilità di poter relazionarsi con partner di area francese senza dover usare come “relè” lo Stato italiano), Torino ridisegna il proprio territorio: le aree vallive vengono riorganizzate e maggior potere viene conferito a “masse critiche” come i Gruppi di Azione Locale. Il dialogo tra città e aree montane e vallive è proficuo anche dal punto di vista produttivo, grazie all’affermazione di esempi virtuosi che le connettono e garantiscono processi di economia circolare, quali ad esempio quello legato alla filiera agro-alimentare (sostenuto da programmi quali il Green Deal europeo e il programma “Farm to Fork”). Città e hinterland sono maggiormente interconnessi anche grazie a un cambio paradigmatico del sistema di trasporto locale, fortemente indirizzato verso una dimensione pubblica ed ecologista (più treni, più mobilità elettrica, più mobilità trasversale intravalliva). La trasformazione è radicale: le reti logistiche, infrastrutturali, di trasporti risultano efficaci e capillari per connettere la città e le zone circostanti.

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6. Luoghi e infrastrutture sociali, culturali e tecnologiche per una città-rifugio: uscire dal paradigma dell’accoglienza per entrare in quello della cittadinanza di Andrea Bocco e Giovanni Semi

Perché una città aperta possa svilupparsi, essa deve poter contare su una molteplicità di infrastrutture, fisiche e immateriali, formali e informali, alcune delle quali devono essere sviluppate, mentre altre devono solamente essere riconosciute. La lunga stagione di deindustrializzazione, che ha colpito Torino come diverse città analoghe, ha allargato il solco tra le élite locali e il resto della società, con partiti e corpi intermedi ormai incapaci(tati) nel loro ruolo di mediazione. Il capoluogo piemontese rimane la “terza città meridionale più grande d’Italia”, a diversi decenni di distanza dalla grande migrazione interna, e le fratture tra corpi sociali differenti si sono sovrapposte creando frontiere, in alcuni casi persino territoriali (Vallette, Falchera, Barriera di Milano, Mirafiori, più di altre). La storia delle migrazioni interne, unita a quella delle migrazioni internazionali, rimescolata dai mutamenti dei tessuti produttivi e sociali ci consegna una città divisa e separata, con ampie zone isolate. Le infrastrutture possono giocare un ruolo cruciale nel rimescolare le carte del gioco: che siano di mobilità, digitali o sociali, esse consentono l’accesso ai servizi, offrono opportunità di integrazione, connettono pezzi prima separati. Dal sistema dei trasporti pubblici e della mobilità, all’equo accesso alle infrastrutture e ai servizi digitali, le infrastrutture più innovative devono collaborare con quelle tradizionali, ugualmente centrali, siano esse reti di biblioteche civiche, community hub e case del quartiere, aree verdi, centri sportivi o spazi associativi. Torino trabocca di competenze già presenti sul territorio, alcune certificate dai due atenei, altre più infor-

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mali e frutto di pratiche sociali e urbane che si sono riprodotte nel tempo: occorre interrompere la spirale di stigmatizzazione territoriale, cessare di ragionare e produrre politiche nei termini di decoro/degrado, e spingere per l’emersione di una città aperta e multiculturale. Nella maggior parte dei casi non occorre creare, bensí riconoscere pienamente quanto già esiste, e consentirgli di realizzare le potenzialità che esprime. 6.1. Webinar Questo insieme di problemi è stato affrontato da quattro esperti, Antonella Agnoli, Elena Ostanel, Luca Staricco e Alberto Vanolo, in occasione del terzo Webinar1 di Torino 2030. Antonella Agnoli, bibliotecaria e progettista di biblioteche. Collabora con amministrazioni pubbliche e studi di architettura per la rigenerazione urbana, il ripensamento di luoghi culturali e la realizzazione di nuove biblioteche. Ha pubblicato La biblioteca per ragazzi (1999), Le piazze del sapere (2009), Caro Sindaco, parliamo di biblioteche (2011), La biblioteca che vorrei (2013), Un viaggio fra le biblioteche italiane (2016), oltre a vari saggi in riviste e in volumi collettivi. Attualmente è presidente dell’Associazione Famiglie accoglienti di Bologna e consulente dei Comuni di Predazzo, Savona, Fano, Medicina, San Giovanni Valdarno, e della Fondazione innovazione urbana di Bologna per progetti legati alle biblioteche delle rispettive città.

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Elena Ostanel, dottore di ricerca in Pianificazione Territoriale e Politiche Pubbliche del Territorio, ha appena concluso una borsa di ricerca Marie SkłodowskaCurie per il progetto Neighbourchange tra Canada, Spagna e Italia. Oggi insegna Urbanistica presso l’Università IUAV di Venezia ed è docente del Master URise-Rigenerazione Urbana e Innovazione sociale. Tra le recenti pubblicazioni (2020), Communityw w w. f a c e b o o k . c o m / based responses to unjust processes of neighbourhood watch/live/?v=147164 0529711934&ref=wat change in Parkdale, Toronto, in Critical Dialogues of ch_permalink

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6. Luoghi e infrastrutture sociali, culturali e tecnologiche

Urban Governance, Development and Activism: London and Toronto, UCL Press. Luca Staricco, professore associato in Tecnica e pianificazione urbanistica presso il Dipartimento interateneo di scienze, progetto e politiche del territorio del Politecnico e dell’Università di Torino, dove insegna nei corsi di Mobilità/sistemi insediativi e di Pianificazione di area vasta. Si occupa di temi quali il rapporto tra usi del suolo e mobilità, l’integrazione della pianificazione dei trasporti e del territorio, la struttura dei sistemi insediativi, la vivibilità a scala di quartiere. Alberto Vanolo, dottore di ricerca in pianificazione territoriale e sviluppo locale, è professore associato di geografia politica ed economica presso il Dipartimento Culture, Politica e Società dell’Università di Torino. I suoi principali temi di ricerca si collocano negli studi urbani, con particolare riferimento alla produzione circolazione di immagini e immaginari della città, alle prospettive della geografia sociale e alle politiche di sviluppo urbano. La prima riflessione è stata offerta da Elena Ostanel, che ha ricordato che da sempre la città è stato un luogo di innovazione e scambio, ma non solo: “sempre più diventa evidente come il tessuto urbano stia spazializzando le diseguaglianze nei quartieri, divenendo una macchina di separazione”. Crescono i quartieri dove la popolazione ha un reddito medio elevato e quelli marginali dove i redditi risultano molto bassi, mentre tendono a ridursi quelli caratterizzati da una popolazione con reddito medio. Si creano così nuovi vuoti urbani, aree che non resistono alla crisi in atto o che sono chiamate a rivedere radicalmente il modo in cui gestiscono i propri spazi. Tuttavia, questa crisi apre anche a nuove possibilità: come, ad esempio, l’affermazione di nuove infrastrutture sociali di prossimità. Progetti quali Mappa Roma, realizzato dall’Università La Sapienza, hanno mostrato come la diffusione del Covid-19 sia tanto più intensa in aree marginali e complesse

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connotate da una popolazione residente prevalentemente a basso reddito. Al contempo, proprio la spinta dovuta alla necessità di gestire la crisi sanitaria ed economica prodotta dalla pandemia ha portato spazi, spesso nati in funzione di una vocazione culturale e riconvertiti in questi mesi per rispondere alle urgenze sociali, a un’attivazione che ha modalità inedite. Nascono così nuove attività di welfare di prossimità e si rafforza la collaborazione tra associazioni e istituzioni. La rigenerazione urbana prende così la configurazione di un processo sociale e politico, che non può accadere se non grazie a una dimensione materiale e sociale di attivazione che riguarda da una parte i meccanismi delle organizzazioni civiche e dall’altra l’apertura alla cogovernance e all’apprendimento da parte delle istituzioni. Il fulcro diventa, allora, la capacità di creare infrastrutture che permettano alle persone di essere degli enzimi. Non basta lavorare sulla città fisica, bisogna mettere al centro generazione di valore e interrelazione. Bologna rappresenta un esempio virtuoso che lavora da tempo in questa direzione. Il processo, con cui si è arrivati a strutturare l’ultimo Piano Urbanistico Generale che la città di Bologna sta approvando, lo dimostra: progettato da più di 24 aree di prossimità, che attraverso i laboratori di quartiere hanno raccolto le informazioni necessarie alimentando una strategia generale. Il piano è l’esito di un lavoro durato oltre dieci anni. Questo è fondamentale perché le infrastrutture sociali hanno bisogno di essere durature nel tempo, e possono farlo solo se vengono supportate dalle amministrazioni. Al contempo devono però lasciare spazio di auto-organizzazione, arrivando fino alla dimensione conflittuale che se ben gestita è generativa di risposte ai bisogni della città e utili alle politiche pubbliche (come visto a Toronto). Tutto ciò diventa possibile “solo se guardiamo alla pubblica amministrazione non come a un apparato tecnico da organizzare solo in base a metriche tecniche, ma come a un corpo umano costituito di persone e sorretto da cultura istituzionale”. Perché delle persone, spesso non giovani, possano svolgere il ruolo fin qui descritto è

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6. Luoghi e infrastrutture sociali, culturali e tecnologiche

fondamentale che acquisiscano nuove competenze attraverso la sperimentazione: escano dagli uffici e si mettano in gioco in nuovi spazi di azione. Palestre eccellenti si sono rivelati i patti di collaborazione. Magari in futuro si potranno strutturare “Erasmus” per amministratori che possano sperimentare contesti diversi. Questa riflessione, sulle istituzioni pubbliche e il loro ruolo nella generazione e rigenerazione di infrastrutture, ha portato la riflessione su una delle più antiche delle prime, cioè le biblioteche. Antonella Agnoli, una delle principali esperte europee nella progettazione e gestione delle ‘piazze del sapere’ che sono le biblioteche, ha ricordato che esse hanno “potenzialità importanti come infrastruttura sociale ma non sono in grado di farlo da sole”. Occorrono competenze, risorse, apertura mentale e, prima di tutto, la chiara consapevolezza da parte dei policy maker sul ruolo che una biblioteca può svolgere come punto di aggregazione e attivatore di reti sociali. Come infrastrutture sociali, le biblioteche attraversano una fase piuttosto difficile in quanto scontano una serie di debolezze “storiche”. Quando si parla di biblioteche “sociali”, si fa riferimento a una concezione di spazio aperto e inclusivo non solo dal punto di vista dell’accessibilità fisica, ma anche capace di stimolare e attivare relazioni positive, gestire la conflittualità, “entrare” nelle dinamiche del territorio. Per quanto riguarda l’Italia, tuttavia, non possiamo dire che questo approccio sia diffuso: le eccezioni ci sono, e Torino è una di queste, ma soprattutto al sud la situazione è molto critica. La pandemia con le sue regole e le sue restrizioni alla fruizione pubblica “ha fatto tornare indietro di almeno vent’anni l’atteggiamento delle pubbliche amministrazioni verso le biblioteche: stanze con tavoli dove la gente si siede a leggere, niente che valga la pena di essere tenuto aperto o di investirci, soprattutto in questa fase di emergenza”. Se una biblioteca non è riuscita a costruirsi prima una reputazione forte, difficile che ora possa imporsi e far intendere la sua utilità sociale, prima ancora che culturale.

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L’approccio strettamente “normativo” e avverso a ogni novità (quando viene vissuta come un problema da cancellare all’origine) è molto diffuso tra i funzionari pubblici ed è la principale causa di rallentamento o di fallimento di molte iniziative di posizionamento delle biblioteche come infrastruttura sociale permanente. Ci sono molte esperienze internazionali (Parigi, Oslo, Toronto) da prendere a riferimento, in cui la stessa progettazione della biblioteca è stata realizzata a partire da tavoli di confronto con le comunità locali, e il sistema di offerta è stato allargato a servizi non strettamente bibliotecari (es. lo sportello per consulenza fiscale o per ottenere documenti), ma funzionali a costruire engagement con il territorio. Esiste un problema di competenze anche nelle biblioteche: per svolgere un ruolo più ampio in campo sociale, e con la necessaria autorevolezza ed efficacia, la figura del bibliotecario non è sufficiente ma occorre che sia accompagnata da figure professionali come mediatori, psicologi, esperti di sviluppo locale ecc. Si tratta dunque di cogliere una sfida che è al contempo culturale e organizzativa e che implica prendersi cura delle infrastrutture, con uno sguardo rivolto al futuro e ai problemi che sono già visibili ora ma anche a quelli che non riusciamo a immaginare ancora. Questo lavoro di riflessione e prefigurazione non può essere slegato da una fotografia dell’esistente, portata in questo webinar dal contributo di Luca Staricco. Staricco ha ricordato come l’analisi delle condizioni di equità legate alle dotazioni infrastrutturali nel contesto torinese evidenzi un significativo disequilibrio, in cui la periferia nord della città emerge come area particolarmente problematica. Il modello dell’unità di quartiere e di vicinato e un nuovo ruolo per le scuole pubbliche potrebbero essere fattori importanti per migliorare il benessere sociale nella Torino del 2030. L’elaborazione spaziale dei dati è uno strumento importante per riconoscere le condizioni di equità e le dotazioni infrastrutturali nel contesto torinese. Alcuni strumenti – come Torino Atlas. Mappe del territorio metropolitano o la piattaforma Geografie Metropolitane – evidenziano con-

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dizioni di iniquità sul territorio e possibili sfide per la Torino del 2030. Negli ultimi cinque o sei anni a Torino si è parlato molto delle “due città”, ovvero del divario tra la Torino del centro e quella della periferia. Gli indicatori sociali evidenziano però differenze significative tra periferia e periferia. In particolare, la periferia nord, tra i fiumi Dora e Stura, è caratterizzata dalle condizioni di minor benessere sociale. E questa è una condizione strutturale, che persiste dagli anni Settanta. Qui la dotazione infrastrutturale nel dominio culturale (presenza di musei, cinema, teatri, librerie) è particolarmente rarefatta, così come servizi per le famiglie, aree giochi e piste ciclabili. La linea 2 della metro potrebbe avere un ruolo fondamentale per la rigenerazione della zona, ma se la linea 1 era stata concepita in connessione con importanti interventi pubblici di riqualificazione urbana, la linea 2 appare come un progetto unicamente trasportistico. La sfida per il 2030 appare quella “di riequilibrare centro e periferia, con particolare attenzione a quella settentrionale”. Alcune possibili prospettive di sviluppo possono fondarsi su due riflessioni. La prima riguarda l’accessibilità dei servizi di prossimità. Oggi si parla di “città dei 15 minuti”, richiamando un modello che nel Dopoguerra è stato applicato in molti quartieri di nuova costruzione. L’idea si fonda sulla presenza, in ogni quartiere, dei servizi di base e di percorsi pedonali per l’accesso a tali servizi. Oggi città come Parigi, Grenoble, Madrid, Copenaghen cercano di applicare questo modello a tutti i quartieri, con l’obiettivo di ridurre il traffico di attraversamento e di ripensare l’uso dello spazio pubblico. La seconda riguarda il ruolo delle scuole. A Torino, negli ultimi cinque anni le scuole dell’infanzia hanno perso circa mille utenti all’anno per il calo demografico. Questo vuol dire che nei prossimi anni gli spazi scolastici saranno sovradimensionati rispetto agli studenti e potranno essere in parte utilizzati per scopi legati alle attività sociali del quartiere. Le scuole potrebbero dunque diventare una risorsa per la periferia nord della città,

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proprio nell’ottica di potenziare lo spazio e le infrastrutture per i servizi culturali. Ancora una volta, si tratta di sfide rilevanti per la città e per le quali potrebbe risultare utile, ma forse semplicistico, individuare ‘soluzioni’ tecniche. Questa è la base della riflessione portata da Alberto Vanolo. Il soluzionismo, infatti, è una visione che assegna alle tecnologie un ruolo salvifico e, in generale, che approccia ai problemi complessi cercando una risposta “infrastrutturale”. Tuttavia, spesso il divario sociale è creato proprio dal design e dall’uso sociale dell’infrastruttura stessa. Il discorso, che affronta il tema dell’equità nella città, affronta anche quello dell’equità nella società: città e società sono due dimensioni inscindibili nelle utopie. La pandemia ha rinforzato le aspettative e le retoriche sul cambiamento. Al termine del primo lockdown si poteva ancora udire (sui giornali, ma anche nei discorsi tra persone) l’idea che non si poteva tornare indietro, che sarebbe cambiato tutto. In realtà “è successo l’esatto contrario: c’è stata una straordinaria rimozione di quanto accaduto, e quel sentimento di voler trasformare le cose si è perso”. Del resto, è questa la legacy dei nuovi media, che verticalizzano l’attenzione su un tema e poi cambiano focus dopo poche ore, rendendo difficile concretizzare un’alternativa. Centrali in queste narrazioni di cambiamento restano gli strumenti informatici. Mai come oggi, risulta evidente un approccio che si definisce appunto “soluzionista” a proposito dei problemi della città: “la soluzione è sempre il digitale, è sempre una App”. C’è una costruzione emotiva legata a questo tipo di strumenti, che durante la pandemia si è rafforzata anche attraverso la ricollocazione etica di alcune piattaforme (Netflix, Amazon, perfino Porn Hub) che si sono proposte come “solidali” con servizi gratuiti e altre facility per i “rinchiusi”. Tuttavia, i limiti di questo approccio sono evidenti a tutti. Immuni è stato un fallimento, così come diverse altre applicazioni digitali lanciate e poi ritirate rapidamente nel corso del 2020. Torino non è esente da questo rischio. Il soluzionismo è già insito nella storia di città one company, abbandonata dalla Fiat, in perenne ricerca di una nuova “tecnologia

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madre”. Questo immaginario è pericoloso, “perché tende a promuovere uno sguardo semplicistico, incapace di analizzare sistemi complessi come quelli urbani”. Anche il tema dello spazio pubblico va indagato con uno sguardo tutt’altro che deterministico sulla tecnica. Lo spazio pubblico è un campo delicatissimo dove si posizionano le relazioni tra le diverse componenti della società: non conta quanto si guadagna, lo spazio pubblico è abitato da tutti. Eppure, oggi viviamo in uno spazio pubblico sempre più privatizzato. Non è privatizzato solo perché è sempre più estesa la presenza di privati nel suo uso. La pandemia ci fa stare sempre di più sul PC e sempre meno per strada. Ma le piattaforme che usiamo per discutere sono pubbliche o private? Non è solo un tema di proprietà dei dati o di profitti, ma anche di modalità di accesso, che rischiano di essere sempre più selettive e di ampliare il divario sociale. 6.2. Driving Forces e Discontinuità Il terzo workshop si è tenuto il 18 dicembre 2020. Tra le domande poste ai partecipanti: Come sono cambiati gli spazi della Città Metropolitana di Torino e il modo di abitarli negli ultimi decenni? E come cambieranno nei prossimi? Quale ruolo avranno le tecnologie nel definire le relazioni tra gli spazi e chi li abita? Sociological Una prima driving force riguarda il mutamento demografico di Torino: sempre più giovani lasciano la città, alla ricerca di lavoro o di una formazione specialistica. Questo tende ad accelerare l’invecchiamento della popolazione residente. Inoltre, la scarsa capacità occupazionale scoraggia l’arrivo di nuovi abitanti. Un’altra tendenza ad alto impatto sociale che Torino condivide con le altre città metropolitane italiane è la spazializzazione delle diseguaglianze economiche e sociali. La ricchezza è polarizzata sulle fasce di reddito più alte, mentre aumenta la quota di nullatenenti e si assottiglia fortemente il ceto medio. Questa dinamica si riverbera sulla densità abitativa dei quartieri e sul merca-

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to immobiliare: il valore degli immobili sale o regge nelle aree di pregio mentre diminuisce in molte di quelle periferiche, si innestano dinamiche selettive e gentrificatorie nelle aree in prossimità del centro urbano, aumenta la zonizzazione di “classe” con alcuni quartieri sempre più esclusivi e altri più marginalizzati. Un ulteriore fattore di potenziale impatto sociale per il futuro di Torino è la trasformazione nella composizione delle generazioni più giovani. La fascia dei giovanissimi e dei giovani adulti è abitata già oggi, e lo sarà sempre più in futuro, da molti immigrati di terza generazione, nella maggior parte dei casi nati in Italia o cresciuti fin dai primi anni dell’infanzia. Da osservare con attenzione è anche l’influenza crescente del movimento che si riconosce nelle pari opportunità di genere sempre più organizzato e numeroso, che preme per appianare le differenze salariali e per rivendicare una maggiore presenza delle donne nei ruoli dirigenziali delle imprese e dell’amministrazione. Tra gli elementi di discontinuità, i partecipanti segnalano il possibile aggravarsi del crollo demografico a causa della pandemia: la popolazione diventa più anziana, il tasso di natalità si abbassa e, data l’influenza sempre più pesante del virus sulla vita di tutti i giorni, si abbassa anche il numero di immigrati. Torino diventa una città con meno abitanti rispetto al 2020. Altre discontinuità con la Torino di oggi, per il 2030, sono: sempre meno necessità di lavoro manuale, orari più flessibili, l’introduzione di un mercato dei dati personali maggiormente regolamentato e un cambiamento dei costumi figlio delle lotte di collettivi e associazioni LGBTQ+. Technological Si afferma il modello della smart city: Torino è una città in cui la vita dei cittadini è strettamente condizionata dalla presenza sempre più radicata delle tecnologie, e in particolare di quelle digitali. L’uso dei big data, l’affermazione del modello di “tecnologie verdi” e dell’Intelligenza Artificiale, l’aumento del trasporto pubblico elettrico (e di automobili elettriche), il sempre più diffuso utilizzo di

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app per la mobilità condivisa, cambiano in modo significativo il modo in cui i cittadini accedono e usano i servizi, come ad esempio quelli di prossimità. Si assiste dunque a una digitalizzazione dei servizi legati alle infrastrutture sociali, nel tentativo di connettere i vuoti che si sono creati e sempre più si creeranno negli e tra gli spazi “fisici”. Tuttavia, l’urbanizzazione cibernetica non ha una direzione completamente inclusiva. Una driving force speculare a quella dell’innovazione tecnologica disruptive è il digital divide, articolato per fasce sociali (più abbienti e meno abbienti), territoriali (abitanti del centro e della periferia), anagrafiche (più anziani e meno anziani), educative (chi ha competenza e chi no). In un futuro sempre più interconnesso e in cui servizi e possibilità lavorative sono strettamente dipendenti dall’accesso alla rete, il divario digitale e la possibilità di accedere ai servizi dipendenti dalle tecnologie digitali diventano di primaria importanza. Tra le discontinuità, è segnalata la possibilità che la nuova domanda di servizi generata dalla pandemia possa accelerare nella Torino del 2030 l’adozione su larga scala di applicazioni dell’Intelligenza Artificiale ben oltre i confini del settore manifatturiero, con sperimentazioni nell’ambito del green computing e del quantum computing. A livello europeo, un elemento di discontinuità in vista di Torino 2030 è la risposta dell’Unione Europea ai GAFA (ovvero Google, Amazon, Facebook, Apple): vengono prese misure fiscali e di regolazione di acquisizione e vendita di dati sensibili. Inoltre, la stessa UE stringe rapporti sempre più stretti con la Cina per garantire una relazione tra piattaforme tecnologiche europee e cinesi. Economical Sul piano delle driving forces di carattere economico i partecipanti hanno messo in evidenza il mutamento delle condizioni di lavoro a Torino nel 2030: si assiste a una crescita delle aziende che promuovono lo smart working, a delocalizzazioni sempre più marcate per i lavori del settore secondario e all’esplosione della gig economy. Condizioni di lavoro sempre più precarie procurano incertezze e sofferenze per giovani e immigrati, sempre più

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isolati e vittime di diseguaglianze sociali che, come già detto sopra, si ripercuotono anche sugli spazi da abitare e vivere, nonché sulla disponibilità e ricettività delle infrastrutture sociali stesse. Per il 2030 sembra prospettarsi una crisi del mercato del lavoro, con un ruolo maggiore svolto da reti costituite da diversi tipi di attori sociali (imprese, cooperative, associazioni), da modelli organizzativi snelli come le start up, da una maggiore offerta di servizi nei settori dell’economia della conoscenza, della cultura e della sostenibilità ambientale. In una Torino in cui il divario tra popolazione attiva nel terziario avanzato (liberi professionisti, dipendenti altamente specializzati ecc.) e neo-proletariato (se non addirittura sottoproletariato) è sempre più accentuato, con l’aumentare soprattutto di “nuovi poveri”, si assiste, come ulteriore driving force economica, a un inevitabile abbassamento dei prezzi del mercato immobiliare. Tra le discontinuità, un primo elemento individuato riguarda un prolungamento dello stato di emergenza che potrebbe logorare sia le economie sia l’unità politica dell’Unione Europea, e per Torino, potrebbe comportare un maggiore isolamento rispetto agli attuali intensi legami con le altre metropoli italiane ed europee. Environmental Una prima driving force di carattere ambientale riguarda le conseguenze dirette della pandemia Covid-19. I cittadini mantengono fino al 2030 più o meno intatto il desiderio di distanza sociale: questo determina conseguenze profonde sulla maniera in cui gli abitanti dei quartieri si frequentano, si relazionano, abitano e vivono nei loro luoghi, essi siano domestici, di lavoro, o “terzi luoghi”. Il cambiamento climatico è un megatrend di grande impatto per Torino: le temperature si alzano, l’inquinamento atmosferico peggiora i suoi effetti sulla salute dei cittadini e sulla città stessa. A un peggioramento delle condizioni ambientali della città, i partecipanti al workshop ritengono possa seguire la crescita di una consapevolezza ambientale maggiore che potrebbe incorporarsi in azioni collettive o in una maggiore permeabilità delle politiche pubbliche

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6. Luoghi e infrastrutture sociali, culturali e tecnologiche

e delle strategie imprenditoriali rispetto all’esigenza di ridurre le emissioni e i valori d’inquinamento dell’aria, diminuire l’uso delle plastiche, ridurre e mutare lo stile di vita in una maniera più sostenibile, per diminuire gli effetti più devastanti del cambiamento climatico. Tra le discontinuità più rilevanti, torna a essere citato il peggioramento delle condizioni climatiche di Torino, l’arrivo di nuove pandemie virali, un incremento dell’insicurezza – non solo percepita – e della microcriminalità. Tra le discontinuità meno disforiche un incremento delle pratiche di autorganizzazione e di collaborazione, ad esempio attraverso un ruolo sempre più importante delle comunità energetiche. Political Le driving forces già rilevate sugli altri livelli, quali aumento della povertà e delle disuguaglianze, clima di incertezza lavorativa e sociale, crescita dell’immigrazione, sono elementi che conducono all’affermazione di politiche sovraniste, che tuttavia potrebbero avere il fiato corto per l’incapacità di governare scenari futuri in modo sostenibile e non polarizzante. Tale carenza potrebbe condurre a una stagnazione economica e al crollo del modello politico legato ai partiti e alla democrazia parlamentare rappresentativa per come la conosciamo. In questo senso, cresce il ruolo che i grandi player legati al mondo delle ICT hanno nel dibattito politico e nella pianificazione dell’agenda politica stessa. Sebbene il modello partitico e la centralità dell’istituzione parlamentare siano in declino, i cittadini e le istituzioni non perdono la capacità di organizzarsi. Due sono le driving forces evidenziate dai partecipanti, entrambe legate al rinnovamento della partecipazione alla vita pubblica: una di carattere micro, che riguarda il nuovo attivismo urbano. I cittadini ridanno vita ai comitati di quartiere, come enti capaci di fare pressione politica e ottenere dei risultati tangibili sulla vita delle persone. Più in generale, si riabbraccia il concetto di comunità. L’altra driving force di rinnovamento politico, di carattere macro, riguarda una diversa configurazione istituzionale dell’Europa. In questo disegno

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Torino, inserita nella regione transalpina EUSALP, punta a promuovere crescita sostenibile, occupazione, cooperazione interna (tra aree montane e aree urbane) ed esterna (con altre città alpine italiane ed europee). Tra le discontinuità più rilevanti, l’acuirsi dello scontro tra Stato centrale e Regioni (alimentato dal ruolo fondamentale svolto da queste ultime nella gestione della pandemia), con un esito tuttavia favorevole agli enti locali e il collasso politico dell’Unione Europea e dell’euro. Un’altra discontinuità significativa è la regolazione maggiore del mercato immobiliare da parte dei governi pubblici con nuove policy sull’abitare orientate a rendere più sostenibile il mercato degli affitti. 6.3. Narrative Dopo aver identificato le possibili driving forces per Torino 2030, il tavolo di lavoro ha utilizzato il modello Four Archetypes declinandolo sul tema delle Infrastrutture Sociali. I partecipanti si sono divisi in gruppi e hanno elaborato delle narrative a partire da come le driving forces e le discontinuità avrebbero potuto svilupparsi nei quattro scenari del modello. a. Narrativa Growth Non è una crescita felice per Torino 2030. Crescono le diseguaglianze economiche, crescono le differenze anagrafiche e cresce il numero di immigrati. Sono per lo più loro a bilanciare demograficamente una città che, altrimenti, avrebbe un’età media per abitante decisamente più elevata. La polarizzazione socioeconomica conduce a uno sgretolamento della classe media. Ciò è evidente nella gentrificazione dei centri cittadini e delle aree a ridosso degli stessi, con affitti e prezzi di compravendita elevati, e nel contemporaneo aumento di abitanti nelle zone periferiche. Quelle che povere già lo erano vedono venire ad abitare nuove schiere di poveri. Per lo più si tratta di giovani e di neo-disoccupati, lavoratori esclusi da un mercato del lavoro rinnovato e in cui sempre meno è richiesta la manodopera: Torino nel 2030 ha aumentato il proprio trasporto elettrico ed è una città in cui è stata

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6. Luoghi e infrastrutture sociali, culturali e tecnologiche

avviata la presenza di auto prive di conducente. Ma non solo: diversi servizi, intere filiere del lavoro, si sono in gran parte affrancate dal ricorso alla forza lavoro umana. La polarizzazione sociale non è solo economica e abitativa, ma anche digitale. A crescere è anche il digital divide: un problema gigantesco per una città in cui l’accesso ai servizi, compresi quelli di prossimità, è mediato in gran parte dalla rete. Andare a scuola o in ospedale, risolvere un problema burocratico, vedrà profonde differenze tra chi è ricco e chi non lo è, tra chi abita in centro e chi in periferia. Crescono anche i problemi ambientali. Le sfide del cambiamento climatico vengono ignorate dagli amministratori. Problemi legati all’approvvigionamento idrico diventano la norma, e l’innalzamento del livello del mare e delle temperature genera un mutamento ecosistemico tale da provocare ondate di crisi del settore agroalimentare. Cresce anche l’inquinamento e la qualità dell’aria peggiora ulteriormente. Il sistema politico crolla. I partiti, diventati sacche di potere prive di qualsiasi rappresentatività delle istanze dei cittadini, divengono ancora più autoreferenziali e screditati. In un contesto dominato dall’ingerenza delle ICT nella vita quotidiana delle persone e delle istituzioni, fioriscono “sacche di resistenza” costituite da associazioni di liberi cittadini, comitati di quartiere, piccole comunità, accomunate da una visione molto “local”. b. Narrativa Collapse Torino 2030 è un paese per vecchi. I giovani sono sempre più marginalizzati, distanti non solo dai luoghi di comando, ma anche da molte opportunità lavorative. In numero minore e impoveriti, abitano nelle periferie, con poche possibilità di interagire e di accedere ai servizi. Quelli iper-istruiti sono frustrati dalla mancanza di opportunità e da una situazione economica precaria (o che non corrisponde alla loro formazione e alle loro competenze), mentre i giovani meno istruiti finiscono sempre più tra le fila dei NEET, vedendo attorno a loro una desolazione lavorativa ed esistenziale.

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Torino 2030

La popolazione invecchia, la bilancia tra nascite e morti pende decisamente verso queste ultime e il numero di abitanti cala. La gerontocrazia occupa i vertici delle aziende, decide il destino della città e si interessa unicamente ai problemi più prossimi alla fascia d’età di appartenenza. Crescono la domanda di servizi di assistenza e ospedalieri, l’attenzione per le pensioni, il welfare per anziani, mentre i giovani sono, oltre che esclusi politicamente, assenti dall’agenda dei policy-maker. Le aziende sono stagnanti, legate a un vecchio modo d’intendere l’imprenditoria, e ciò si ripercuote sull’economia della città, anch’essa piuttosto depressa e incapace di offrire risposte alle esigenze dei giovani ma anche degli stessi anziani. Torino avrebbe bisogno di nuovi sguardi, di modalità di gestione al passo con i tempi, capaci ad esempio di connettere in maniera più funzionale e innovativa la città e le aree limitrofe nonché di trovare nuovo capitale umano ed economico. Questo scenario di profondo antagonismo innesca un conflitto generazionale che nella Torino del 2030 è in procinto di esplodere. Il conflitto riguarda i luoghi, abitati nel centro e nelle periferie da strati di popolazione estremamente diversificati per ceto, reddito, classe di età, e serviti in maniera diseguale, ma il conflitto riguarda anche la cittadinanza (le richieste di maggiore inclusività da parte dei migranti vengono represse), il genere (non si assiste ad alcuna diminuzione del salary cap e a nessun avanzamento, anche culturale, sulle tematiche gender) e addirittura la modalità stessa di pensare Torino, troppo conservatrice, legata a una visione che distingue in maniera binaria e riduttiva interno ed esterno, centro e periferia, Torino e il Piemonte. c. Narrativa Discipline Nello scenario “Discipline” gli amministratori di Torino hanno usato tutti gli strumenti in loro possesso per fronteggiare le numerose sfide emerse nel decennio precedente sui fronti economico, sociale e ambientale. Torino, nel 2030, è una città in cui il sistema amministrativo stesso è stato riorganizzato: senza una burocrazia più snella, svelta e rinnovata, non sarebbe stato possibile attuare in

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6. Luoghi e infrastrutture sociali, culturali e tecnologiche

maniera rapida la quantità di politiche necessarie a cambiare Torino. Torino è cambiata soprattutto grazie all’adozione di nuove tecnologie. La città, divenuta un’avanguardia, un modello di smart city piuttosto avanzata, è dotata di una piattaforma integrata aggregante per la gestione della mobilità (capace di integrare in maniera efficace le richieste del pubblico e del privato e di connettere periferia e centro, venendo incontro alle esigenze di ogni categoria di utenti), ma non solo: le riforme attuate hanno messo a disposizione dei cittadini nuovi modi per muoversi, come lo sharing di automezzi elettrici e le automobili prive di conducente. Per fare ciò, Torino ha rinnovato il proprio Piano Regolatore tenendo conto delle esigenze e delle proposte di cittadini di ogni area della città. Ciò è stato possibile grazie a una raccolta dati minuziosa, attuata tramite sistemi di raccolta moderni, rapidi ed efficienti. A Torino lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale e dei sistemi di rete diffusa hanno però dato vita anche a un sistema di tracciamento piuttosto capillare. Un controllo che da un lato offre ai cittadini una possibilità d’accesso ai servizi senza precedenti, dall’altro crea un clima di sorveglianza piuttosto percepibile e malvisto dai cittadini. La regolamentazione e l’innovazione non hanno però riguardato solo il settore tecnologico e le sue implicazioni sulla vita dei cittadini, ma anche altri issue, già presenti nella Torino del 2020 e diventati più pressanti negli anni successivi. Tra questi il diritto alla cittadinanza, che nel 2030 è meno rigido e più inclusivo verso i migranti nonché per i figli di immigrati nati in Italia. A essere regolato è anche il rapporto tra economia tradizionale (legata all’agricoltura e all’industria) e terziario avanzato. Si consolidano e promuovono modelli di economia circolare. Sono anche stimolati circuiti che si trasformano in economie sociali e solidali. La politica, per garantire questo equilibrio tra nuovi e tradizionali modelli di economia e tra modelli più grandi e più piccoli, ha trovato un equilibrio fiscale tra incentivi e disincentivi. Gli incentivi hanno riguardato anche le aziende più virtuose sulle questioni ambientali. Torino 2030 è una città in cui lo smaltimento dei rifiuti è gestito in maniera razionale e

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in cui sulle emissioni sono state adottate misure più rigide, facendo piovere soldi sulle industrie e sulle imprese che sono riuscite a trovare soluzioni capaci di integrare successo economico e basso impatto ambientale. d. Narrativa Transformation In questo scenario Torino 2030 è travolta da un nuovo protagonismo. I discorsi sulla diversità, sull’inclusività culturale e di genere hanno condotto a una visione diversa della società. Migranti, donne, giovani (in parte consistente figli di immigrati) donano nuova linfa alle imprese e alla pubblica amministrazione. Il loro sguardo, in particolar modo, è volto verso l’innovazione tecnologica. Ma non solo. Giovani, migranti, donne offrono nuovi punti di vista, una prospettiva più internazionale o semplicemente inedita, e nuove competenze, utilissime in una Torino sempre più anziana, specie nei posti di comando. In una Torino più “europea” e permeata da queste forze innovatrici, le condizioni economiche più favorevoli conducono a un aumento della natalità e a un bilanciamento del rapporto tra nascite e decessi. Questa “nouvelle vague” conduce a nuove modalità d’intendere e abitare gli spazi: le periferie si animano di scuole, teatri, e grazie all’innesto delle tecnologie i servizi diventano più accessibili. Torino, ora demograficamente disposta in maniera più omogenea tra centro, periferie e interne, si avvicina al modello della “Città dei Quindici Minuti”. Il rinnovamento riguarda anche la stessa visione urbana, non più antropocentrica e legata allo sviluppo economico, ma maggiormente connessa a una dimensione ecosistemica. In questo disegno non è possibile, nel 2030, pensare alla città e alle sue infrastrutture senza considerare chi, la città, la abita e la vive. Il mutamento è profondo, esistenziale: la dimensione conflittuale e competitiva, si attenua, ed emerge la domanda per una nuova spiritualità. Questa domanda si svilupperebbe più lentamente in condizioni normali, ma che si è fatta più insistente negli anni precedenti, per via del Covid e dell’emersione di nuovi minacciosi virus.

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7. Vuoti a (p)rendere? Spazi comuni ed economia locale Andrea Bocco, Paolo Mellano e Alessandra Quarta

Torino è ricca di spazi, aperti e chiusi, vuoti e costruiti, sottoutilizzati o persino abbandonati e che nel tempo hanno perso la propria identità, essendo decaduta la funzione per la quale erano stati realizzati. A seguito di un censimento di questi spazi, si potrebbe ridisegnare la mappa della città, così come G.B. Nolli rappresentò il centro di Roma nel 1748:1 un esercizio solo all’apparenza retorico e accademico, che potrebbe invece costituire un espediente per comprendere quali e quanti spazi, oggi di proprietà pubblica o aperti al pubblico, e non più fruiti dalla città e dai suoi abitanti, potrebbero rientrare in gioco e diventare una rete di luoghi e percorsi per ospitare nuove attività, funzioni, rappresentazioni, eventi, da destinare preferibilmente non a mono-funzioni. Sarebbe, infatti, auspicabile renderli spazi ibridi, aperti a usi plurimi, da cedere ad associazioni e gruppi di interesse per trovare possibili nuove identità oppure da mantenere “in attesa” destinandoli a usi temporanei. Sarebbe come se la città, di colpo, riacquistasse alcuni suoi volumi e superfici per ampliare le occasioni di uso del suolo e dello spazio, pianificando un nuovo assetto della mobilità, dei percorsi, del verde, del commercio, delle funzioni quotidiane, dei presìdi di quartiere, dei beni comuni. Un rinascimento urbano a partire da quanto già esiste e che, con poche risorse, potrebbe 1. www.info.roma.it/pianritornare a essere utile, in una qualche forma ta_di_roma_1748_giovan_ battista_nolli.asp. e nel tempo. Altro esempio interessante Questa ricognizione potrà identificare spazi è il manifesto dei “territori attuali” di Roma realizzada recuperare all’uso tanto istituzionale quanto ta nel 1995 dal collettivo autogestito, in termini di sussidiarietà; con par- Stalker: www.osservatorionomade.net/tarkowsky/ ticolare attenzione per quegli spazi di carattere manifesto/manifest.htm.

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“intermedio” tra pubblico e domestico, in un’ottica di rilancio di beni comuni urbani e con l’obiettivo, tra l’altro, di un migliore e piú diversificato uso dello spazio pubblico e della strada. Negli ultimi anni, in Italia e all’estero sono state sperimentate soluzioni diverse per il riutilizzo di questi spazi che si presentano come una risorsa essenziale per costruire presidi di socialità, per fornire servizi di welfare e per ospitare nuovi modelli di sviluppo locale. Anche la Città di Torino, attraverso l’adozione del Regolamento per il governo dei beni comuni urbani, ha intrapreso questo percorso, dotandosi di alcuni strumenti giuridici che possono essere utili ad affrontare le sfide della gestione collaborativa e dell’autonomia civica. Occorre immaginare come queste pratiche, adeguatamente sostenute da politiche locali anche attraverso l’introduzione di nuovi dispositivi giuridici, siano capaci di trasformare la città, non soltanto migliorando la qualità della vita nei quartieri, ma anche creando comunità attive nei processi di cura e di rigenerazione. La partita dei beni comuni, dunque, non si gioca soltanto nel campo della riqualificazione o della migliore regolazione, ma nell’attivazione di processi politici che rendano i cittadini e le cittadine i protagonisti di questi processi. Il sistema beni comuni, inoltre, necessita di strumenti di valutazione qualitativa invece che quantitativa, con lo scopo non soltanto di riconoscere l’impatto sociale dei processi di gestione, ma anche di facilitare le scelte delle amministrazioni locali. 7.1. Webinar La problematica è stata affrontata in occasione del quarto webinar2 da Ezio Manzini, Daniela Patti, Daniela Ciaffi e Davide Bazzini.

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Daniela Patti è un’architetta e urbanista italo-britannico che ha studiato a Roma, Londra, Porto e ha conseguito il dottorato di ricerca in urbanistica presso l’Uw w w. f a c e b o o k . c o m / niversità Tecnica di Vienna. Specializzata in watch/live/?v=22813 rigenerazione urbana e pianificazione ambien5162247428&ref=wat ch_permalink. tale con particolare attenzione alla governance

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metropolitana e alla pianificazione collaborativa, la sua recente ricerca si è focalizzata sulla governance di paesaggi peri-urbani, sulla rivitalizzazione dei mercati alimentari locali e sui nuovi modelli economici per lo sviluppo urbano basato sulla comunità. Ezio Manzini è un accademico italiano di design, noto per il suo lavoro in particolare sul design per l’innovazione sociale e la sostenibilità. Per decenni ha lavorato nel campo della progettazione per la sostenibilità, e poi i suoi interessi si sono focalizzati sull’innovazione sociale, considerata come uno dei maggiori fattori per il cambiamento sostenibile. Attualmente è Distinguished Professor of Design for Social Innovation alla Elisava-Design and Engineering School, Barcelona, Professore onorario al Politecnico di Milano e Guest Professor alle Università di Tongji (Shanghai) e di Jiangnan (Wuxi). Daniela Ciaffi insegna Sociologia urbana al Politecnico di Torino. Svolge attività di ricerca sul tema della partecipazione degli abitanti alle trasformazioni della città e del territorio: è autrice di Urbanistica partecipata insieme ad Alfredo Mela (Carocci, 2011) e curatrice di Community action and planning insieme a Nick Gallent (Policy Press, 2014). È vicepresidente di Labsus, il laboratorio per la Sussidiarietà che promuove in tutta Italia l’amministrazione condivisa dei beni comuni. Davide Bazzini, laureato in Sociologia, ha conseguito il Dottorato di ricerca in Sociologia dell’Ambiente e del Territorio a Torino. Ha da sempre affiancato all’attività di progettazione, ricerca e formazione sui temi socioambientali molteplici esperienze in ambito direzionale, tanto come Project Manager che come Direttore e/o Amministratore di enti e aziende sia nel settore pubblico che in quello privato. In particolare, in oltre vent’anni di attività professionale, ha maturato esperienze nella direzione e coordinamento di enti e aziende pubbliche e private, nella progettazione e la gestione di attività di educazione e formazione ambientale.

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Ezio Manzini sostiene che, analizzando i progetti di innovazione sociale che si sono sviluppati negli ultimi quindici o venti anni, emerge una crescita significativa, in termini quantitativi e qualitativi, delle pratiche di partecipazione dei cittadini alla creazione e gestione di esperienze orientate allo sviluppo economico e sociale delle comunità locali. Un incremento positivo, ma che, tuttavia, fa riflettere su quanto si possa ancora fare, in particolare affinché gli esperimenti di successo non si limitino a rincorrere le sfide, nuove e crescenti, poste dalle città e dagli spazi urbani, ma che possano costituire l’avanguardia di nuove realtà possibili. Uno scenario progettuale è la combinazione di una visione con strumenti che ne consentano la messa in opera. È importante, dunque, che gli scenari che si elaborano in contesti accademici, professionali, politici e sociali abbiano l’obiettivo di trasformare questi casi di successo da piccole isole a città, a nuovi modelli di società. Tuttavia, l’elaborazione di scenari sul tema dell’innovazione sociale si deve basare anche sulle lezioni apprese dal passato, e dai limiti evidenziati in molti processi finora attivati che – pur raggiungendo risultati incoraggianti – non sono stati capaci di invertire una tendenza regressiva nella qualità sociale delle città. Una parola chiave, a questo proposito, è “prossimità”: il neoliberismo ha generato solitudini connesse. Stiamo vivendo in una società della distanza e dei flussi, perché le prossimità sono diventate funzionali: il posto in cui dormi, lavori, studi, trascorri il tuo tempo libero (l’espressione zoning evidenzia questo approccio alla suddivisione funzionale, per aree omogenee, del territorio). Questa continua mobilità delle persone e delle merci sul territorio ha costi ambientali enormi. Ma ci sono anche significativi costi sociali, legati alla disgregazione delle comunità locali. Oggi è sempre più difficile sentirsi parte di una comunità di luogo, perché la città della distanza ha portato a forme di disgregazione sociale. Molte esperienze di innovazione sociale stanno tentando di ricomporre le comunità locali, riavvicinare le persone, riportare le funzioni una vicina all’altra, ricostituendo una città delle prossimità.

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Proprio nel momento in cui siamo obbligati al distanziamento sociale, ai lockdown imposti dalla pandemia, scopriamo l’importanza dei servizi territorializzati e la necessità di creare relazioni inclusive con le persone attorno a noi. Nel dibattito pubblico tornano centrali alcuni temi che riguardano i rapporti tra persone, spazi fisici e comunità territoriali. La pandemia ci ha reso più coscienti del fatto che il nostro corpo è situato in un luogo fisico, e che questo spazio è condiviso con altri. Il concetto di prossimità include sia la dimensione funzionale che quella relazionale e questi due aspetti devono essere affrontati insieme. Non c’è prossimità funzionale che non sia anche relazionale e viceversa. La prossimità funzionale è quel concetto che ha portato all’esplosione mediatica, negli ultimi anni, del concetto di “città degli x minuti”, ad esempio la città dei 7 minuti a Barcellona, o dei 20 in Nuova Zelanda. Si tratta di concetti sintetici, comunicativamente efficaci per rappresentare in modo chiaro scenari in cui i cittadini possono trovare tutto quello che a loro serve, muovendosi a piedi o in bicicletta attorno al luogo in cui abitano. A volte però, queste formule vengono sovrainterpretate o interpretate in modo non corretto. Realizzare la “città dei 15 minuti” non vuol dire creare borghi o villaggi chiusi che in un qualche senso eliminano quelle reti lunghe necessarie a garantire la dimensione cosmopolita della città. Nella città della prossimità reti brevi e reti lunghe coesistono. Un tema fondamentale è quello dell’articolazione del diritto alla città: il concetto della città dei 15 minuti deve essere applicato a tutte le aree urbane e non deve essere solo prerogativa dei quartieri centrali o residenziali. La prossimità funzionale deve, inoltre, accompagnarsi a una prossimità relazionale, favorendo il recupero della dimensione della cura e della relazione tra i componenti delle comunità locali. La pandemia ci ha fatto comprendere il valore della socialità nella dimensione locale. È importante ricostituire comunità di luogo, nuove rispetto a quelle del passato, perché connesse, aperte, dinamiche e coese attorno ai valori della socialità e a pratiche condivise, radicate nel luogo che abitano.

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L’elaborazione di scenari progettuali capaci di produrre innovazione sociale dovrebbe, dunque, tenere insieme prossimità spaziale e relazionale. E questi aspetti devono essere contemplati e gestiti in modo integrato nella dimensione temporale: non è possibile scindere interventi infrastrutturali da interventi sociali, perché le comunità nascono attorno a obiettivi, a progetti ma anche a luoghi e spazi che possono abilitare le relazioni e le diverse forme di partecipazione e collaborazione tra i cittadini. Perché ciò accada servono amministrazioni coraggiose, come quelle di Parigi e di Barcellona, capaci di assumere visioni ambiziose, come la società dei quindici minuti o l’idea dei superblocchi,3 con tutti i rischi che ne derivano. Per perseguire questi obiettivi non bastano i buoni metodi; è necessario sviluppare una chiara visione di dove andare, ed elaborare modelli e strumenti efficaci per tradurre gli scenari in realtà.

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Daniela Patti afferma che Torino ha fatto molto nel campo della rigenerazione di spazi urbani, ma ora occorre uno sforzo di sistematizzazione delle esperienze e di integrazione delle tante iniziative compiute: è una condizione imprescindibile per dare continuità nel tempo alle policy territoriali ed estendere i loro effetti. La sfida, per i prossimi anni, consisterà nel “mettere a sistema” le tante esperienze e iniziative che interessano i territori, per rilanciarle all’interno di un quadro di riferimento e una strategia unitaria, come è accaduto, per esempio, a Lisbona: a partire da iniziative autopromosse dalla società civile, che l’AmminiOgni superblocco di strazione cittadina (e i suoi vari Dipartimenti) Barcellona comprende ha in qualche modo “veicolato” e strutturato nove isolati (3x3) di strade a traffico limitato: attraverso un’azione di ascolto, di mappatura, uno schema che libera di sostegno economico e progettuale, e poi oltre il 70% della superficie precedentemente “forzato” a dialogare e a confrontarsi vicendeoccupata dalle auto, volmente, anziché svilupparsi in forma autoriducendo il rumore, migliorando la qualità referenziale ed esclusiva. Si tratta di un buon dell’aria e fornendo lo spazio pubblico necesesempio di dialogo tra la dimensione dirigistisario per installare tavoca top-down e quella spontanea bottom-up espresli da pic-nic, aree giochi e alberi”. sa dai cittadini.

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In questa prospettiva, Torino può essere considerata un’eccellenza a livello nazionale e internazionale; forse, però, manca di questa visione di insieme e di una strategia che tenga unite le diverse progettualità (nel rispetto delle singole specificità, quindi evitando la loro omologazione a modelli standardizzati). Nel passaggio dalla dimensione teorica a quella pratica è molto importante il “metodo”: in questa tipologia di interventi, in particolare, esso non ha una funzione meramente strumentale in quanto condiziona l’esito dei processi e la loro stessa natura. Il modo di interagire con il territorio, gli attori che vengono coinvolti, la qualità delle loro interazioni ecc. sono solo alcuni degli aspetti di metodo che condizionano strutturalmente l’intervento di riqualificazione e di rigenerazione. Nel caso specifico, una delle caratteristiche fondamentali del “metodo” dovrebbe essere la sua “lungimiranza”: il tendere non a domani o dopodomani, ma a 4-5, o addirittura 10 anni; dovrebbe inoltre basarsi necessariamente sulla collaborazione delle quattro anime di ogni territorio (Pubblico, Imprese, Ricerca/Università e Società Civile) lungo traiettorie di lavoro pluriennali e permanenti, non estemporanee. Perché la questione centrale non sta nell’attivare nuove policy, ma nell’imprimere un cambiamento negli approcci culturali: per questo occorrono tempi lunghi e un’azione costante. Daniela Ciaffi incentra la sua riflessione sulla valorizzazione degli spazi urbani come beni comuni, e sul contributo che le iniziative spontanee di cittadini (da soli o in forme aggregate) possono offrire, così come sul ruolo dei decisori politici. Sherry Phyllis Arnstein alla fine degli anni Sessanta elaborò una scala della partecipazione urbana che identifica le possibili forme di coinvolgimento dei cittadini nelle decisioni inerenti al loro territorio. La scala procede dalle forme di assenza di coinvolgimento, come la “manipolazione”, fino ai livelli più alti, come il “controllo da parte dei cittadini”. Uno dei casi più emblematici di quel periodo fu la decisione del sindaco di New York che nel 1968

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concesse alla comunità nera del Bronx un portafoglio da utilizzare per riqualificare gli spazi pubblici del quartiere. Questo modello risuona ancora in molte politiche urbane contemporanee, tanto che ci potremmo chiedere se sia questo l’approccio migliore per coinvolgere i cittadini nella gestione della città. Oltretutto è anche opportuno interrogarsi sul livello di radicamento e consolidamento delle pratiche partecipative. Giovanni Allegretti durante il Festival della partecipazione di Bologna (2020) ha evidenziato come il periodo della pandemia abbia rappresentato una drammatica battuta di arresto per le esperienze di bilancio partecipativo. Dobbiamo dunque chiederci quale modello di democrazia abbiamo in mente per il nostro futuro. Spesso viene messa da parte l’autonoma iniziativa dei cittadini, anche riuniti in gruppi informali, che hanno voglia di contribuire a ridefinire spazi e servizi. Sarebbe auspicabile, invece, che le forme di democrazia partecipativa, contributiva e sussidiaria, abilitassero davvero esperienze in cui cittadini e istituzioni possano progettare alla pari servizi, infrastrutture, spazi urbani. Fino a oggi, Torino ha svolto un ruolo importante di laboratorio (si pensi alla recente esperienza del bando Co-City), ma necessariamente, nei prossimi anni, la città dovrà operare un “cambio di passo” per rafforzare i processi in atto non solo nelle zone centrali, ma anche nelle periferie e nei territori circostanti. Negli ultimi trent’anni sono stati compiuti passi da gigante sul tema della partecipazione e dei beni comuni anche se, per forza di cose, il 2020 è stato un anno di stand-by, in quanto molti patti di collaborazione che la Città di Torino aveva sottoscritto con comunità formali o informali di cittadini non sono stati implementati, a causa della pandemia che ha impedito di organizzare attività di animazione sociale e iniziative culturali. Questo periodo, quindi, è diventato utile per riflettere su quanto fatto ed elaborare nuovi pensieri sul tema. Un primo nodo riguarda l’equilibrio tra la dimensione dirigistica e quella partecipativa: senza dubbio devono funzionare entrambe, ma occorre evitare la tendenza – molto presente agli inizi di un percorso in cui si

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co-progettano i beni comuni urbani – a sottostimare la prima a favore della seconda; la buona volontà e lo spirito di iniziativa dei cittadini, infatti, non sono sufficienti a innescare i processi: occorrono policy che orientino e rendano sostenibili nel tempo tali azioni. Questa visione può avere un potenziale importante, soprattutto alla luce della recente decisione della Corte Costituzionale n. 131/2020 che impegna le Pubbliche Amministrazioni e il Terzo settore ad attuare l’art. 55 del Codice del terzo settore, privilegiando negli interventi di interesse generale la sinergia tra attori e la messa in comune di mezzi, piuttosto che la competizione per l’individuazione del miglior offerente. Pone, dunque, un dovere in capo ai soggetti pubblici che sono chiamati ad assicurare il coinvolgimento attivo degli Enti del Terzo Settore nella programmazione e nell’organizzazione degli interventi e dei servizi di interesse generale. Negli approcci appartenenti al passato (che molto spesso, però, si presentano ancora oggi) l’assunto di base degli interventi di rigenerazione urbana riguardava un’idea di sviluppo che gli “esperti” individuavano a priori e che il territorio (inteso come suoi abitanti) era invitato ad ascoltare e seguire. Veniva, in questo modo, estromessa ogni espressione e proposta derivante dall’iniziativa dei cittadini. Oggi, invece, è sorprendente osservare come in ogni città si riscontrino tantissimi interventi e progetti promossi dai singoli abitanti, operatori economici, gruppi informali, o associazioni locali, fuori da schemi o programmi “ufficiali”. Patti di collaborazione, bilanci partecipativi, esperienze di co-progettazione e co-gestione. L’Italia offre un modello internazionale e un laboratorio per la gestione partecipata dei beni comuni e da questo deriva anche un patrimonio di esperienze di inclusione sociale, in cui persone con profili socioculturali ed economici molto diversi tra loro collaborano alla definizione di policy per la loro comunità. Nel caso di Torino, occorre ricordare che i beni comuni (o potenzialmente tali) non fanno riferimento al solo ambito urbano comunale. Torino è un sistema strettamente interrelato – per certi versi attraversato – dal

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territorio circostante. Si pensi, ad esempio, al fiume Po. Non sono molte le città che possono beneficiare della presenza di un fiume come il Po che attraversa il centro storico, con zone verdi, parchi fruibili ecc. Un bene comune che non ha ancora trovato una convincente modalità di fruizione e utilizzo da parte dei torinesi (e non solo), una “non risorsa” con enormi potenzialità. Davide Bazzini, infine, ritiene che la condizione imprescindibile per il buon esito degli interventi di rigenerazione e riappropriazione degli spazi urbani sia la presenza di un’infrastruttura sociale permanente e diffusa che l’ente pubblico deve contribuire a costruire e sostenere, senza necessariamente crearla e farsene carico: emerge qui l’importanza del Terzo Settore e di alcuni attori for profit che stanno sperimentando modelli di business attenti alla sostenibilità sociale e ambientale. Analizzando i processi di rigenerazione urbana che hanno interessato Torino negli ultimi trent’anni, è possibile constatare come l’evoluzione delle politiche di utilizzo e gestione collaborativi degli spazi pubblici abbia seguito un percorso che evolve da una logica riparatoria e di accompagnamento sociale a una logica proattiva e co-gestionale, in base alla quale la partecipazione dei cittadini non si limita a individuare i problemi presenti e a contribuire ai processi di comunicazione del progetto, ma interviene direttamente nella gestione del bene comune. In questo contesto è diventata importante e determinante l’identificazione degli attori sociali coinvolti nei processi di co-gestione. La modalità più fertile è stata quella dell’“ibridazione”. Il coinvolgimento delle imprese profit nella co-gestione dei beni comuni si è sempre scontrato con un certo pregiudizio. Nella visione storica c’era una spaccatura: da una parte i cittadini che, in forma associata, si facevano carico della gestione del bene comune, dall’altra i soggetti che utilizzavano il territorio per fornire servizi. Nel tempo è però emersa una definizione più ibrida e fertile, legata all’idea di impresa sociale: ci sono sempre più soggetti profit che si accorgono che molta della loro

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attività ha un forte impatto sociale, ma d’altro canto i cittadini si rendono conto che senza capacità economiche, imprenditoriali e gestionali è molto difficile rendere sostenibili le loro idee. Una prospettiva interessante, ad esempio, è quella che si sta sperimentando a Milano con la Scuola dei Quartieri, che si basa sull’idea che i cittadini portatori di un progetto, sebbene a un livello molto embrionale, vadano sostenuti non solo mettendo a disposizione spazi ma identificando (ruolo, questo, fondamentale per l’ente pubblico) percorsi per l’acquisizione di competenze di design e di gestione, evidenziando come la gestione condivisa dei beni comuni urbani richieda competenze specifiche. L’innovazione amministrativa, però, a questo proposito è fondamentale in quanto c’è bisogno di un’infrastruttura sociale autonoma, capace di trasferire competenze e capacità di gestione, composta da luoghi aperti e permeabili, in cui i cittadini siano protagonisti. Questa infrastruttura può diventare il moltiplicatore della capacità di co-gestione dei cittadini. L’esperienza della Scuola dei Quartieri si inserisce nel solco delle scuole civiche milanesi. Si rivolge a fasce di cittadini solitamente meno coinvolte nella gestione dei beni comuni per ridare loro capacità di progettazione e autoorganizzazione e metterli nelle condizioni di realizzare idee a impatto sociale anche nei quartieri periferici della città. È un progetto recente che ha avuto una risposta sorprendente (sono stati 187 progetti presentati, i primi 10 sono in fase di sperimentazione attiva, altri in fase di incubazione e formazione). Un successo che evidenzia la necessità di intercettare quel territorio ibrido composto da cittadini che imparano a gestire progetti a forte impatto sociale nei loro quartieri, anche in collaborazione con il tessuto locale di piccola imprenditoria. I progetti sono condannati all’irrilevanza se non hanno una logica inclusiva. Per essere inclusivi devono sviluppare nuove comunità ma devono anche generare nuove letture dei territori e nuove forme di assegnazione di valore agli spazi urbani. Ad esempio, prima a Milano, ma poi in diverse altre città, durante la pandemia

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l’amministrazione pubblica ha concesso ai commercianti di usare in modo inedito lo spazio pubblico, generando comunità di luogo e trasformazioni temporanee tattiche di spazi degradati. È stata un’esperienza di innovazione forte, che è diventata la base per nuove proposte orientate all’inclusività e alla trasformazione sociale. Nell’esperienza torinese, le Case del Quartiere e il bando Co-City hanno l’obiettivo di favorire e potenziare la capacità di progettazione e auto-organizzazione dei cittadini. Questo può essere l’orizzonte di sfida per la Torino 2030. 7.2. Driving Forces e Discontinuità Il 28 gennaio 2021, a seguito del webinar, si è tenuto il workshop sul tema “Vuoti a (p)rendere e spazi comuni”. Le domande poste ai partecipanti erano: Quali prospettive si possono immaginare per il riutilizzo di quegli spazi, oggi sottoutilizzati, che nel tempo hanno perso la propria identità, essendo decaduta la funzione per la quale erano stati realizzati? Quali opportunità potrebbero determinare un maggior coinvolgimento dei cittadini nei processi di riqualificazione e rigenerazione urbana? Sul piano delle dinamiche a impatto sociale, i partecipanti hanno rilevato l’incidenza dell’invecchiamento della popolazione, che va inteso come un fenomeno dai caratteri non unicamente disforici (diminuzione della popolazione attiva, aumento dei bisogni di cura), ma anche progressivi, come la crescita del numero dei pensionati attivi in grado di svolgere attività utili alla comunità. Un altro fattore rilevante è individuato nella polarizzazione delle diseguaglianze, non solo di reddito, ma anche di istruzione e di accesso alle risorse educative. Sebbene la pandemia abbia divaricato ulteriormente queste fratture, facendo crescere le povertà assolute e ampliando la fascia di quelle relative, la maggiore condizione di bisogno potrebbe rafforzare la domanda di pratiche mutualistiche e di solidarietà. Un’altra dinamica a impatto sociale in crescita è quella delle migrazioni economiche, dove Torino è sia meta

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(sempre di meno) sia punto di partenza (sempre di più), a cui corrisponde il ritorno di una tensione centrifuga dai centri urbani, una nuova “fuga dalla città”, rafforzata anche dall’accelerazione a causa della pandemia dello smart/south/near working rispetto a modelli di organizzazione del lavoro on-site. Tra i fenomeni latenti, ma ad alto potenziale di impatto, vi è la possibile radicalizzazione della crisi del ruolo pubblico del sapere scientifico. A livello micro, la digitalizzazione delle vite personali e lavorative è una variabile messa in evidenza anche sul piano delle driving force tecnologiche. Le attività produttive si affidano in misura sempre maggiore allo smart working, con un conseguente impatto sui luoghi fisici della produzione: in prospettiva, i grandi spazi di lavoro potrebbero non essere più necessari e in parte potrebbero essere dismessi, con conseguenze potenziali sulla rendita degli immobili destinati a uffici e commercio, sugli spostamenti intra-urbani, sulla distribuzione delle attività commerciali e ricettive nei vari quartieri. Legata alla digitalizzazione è anche la crescita progressiva (con potenziali accelerazioni dovute alla pandemia) dell’automazione e dell’uso dell’intelligenza artificiale per la produzione di beni e servizi: aumentano pertanto gli strumenti on-life, che ibridano on-line e off-line le attività quotidiane, con conseguenze anche sul piano della salute (ad es. dipendenze tecnologiche). Tra le discontinuità più interessanti e, per certi versi visionarie, vi è quella delle conseguenze dell’innovazione tecnologica sul corpo, dell’abbandono della manualità, dell’impatto crescente del cyber-terrorismo per la sicurezza e del ruolo politico svolto dalle Big Tech, già oggi responsabili della diffusione di forme di keynesismo privatizzato attraverso l’erogazione di lavoro, di beni e servizi di scarsa qualità in città sempre più economicamente polarizzate (Patel e Moore 2018). In ambito economico i partecipanti evidenziano alcune driving force legate al mutamento del mercato del lavoro e alla geografia del tessuto imprenditoriale. L’innovazione tecnologica non governata produce disoccupazione tecnologica, precarizzazione del lavoro (e della

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vita), incremento delle diseguaglianze: la radicalizzazione di queste tendenze potrebbe accelerare, tuttavia, non solo l’elaborazione ma la legittimità politica e sociale di nuovi modelli di distribuzione della ricchezza e di politiche del lavoro. Sul piano delle imprese, i mutamenti economici più rilevanti si osservano nella tendenza a potenziare reti e network di soggetti produttivi e fornitori di servizi, nella ancora più marcata globalizzazione del mercato del lavoro per alcuni profili professionali e specifiche catene del valore e sull’incremento dei processi di esternalizzazione per processi produttivi fortemente digitalizzati. Tra le discontinuità, si segnalano temi come la redistribuzione degli utili derivanti dall’automazione (ad esempio la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario o una maggiore tassazione delle Big Tech), la crescente presenza di mezzi di pagamento paralleli, di politiche trans-nazionali per il salario minimo e per i diritti del lavoro. Dal punto di vista ambientale, il megatrend del cambiamento climatico è menzionato in riferimento allo sviluppo della mobilità come servizio collettivo, alternativo a quella privata su gomma, alla riduzione degli spostamenti di lungo raggio, alla diffusione di pratiche di cogestione di risorse rinnovabili (ad esempio, le comunità energetiche o il compostaggio di comunità). Parallelamente, il tavolo ha riconosciuto che tali processi di conversione ecologica ed economica fanno i conti con limiti e resistenze importanti e che l’impatto della variabile ambientale potrebbe invece declinarsi nella sussunzione a forme di green washing. Tra le discontinuità con alto potenziale di impatto nel futuro c’è la maggiore presenza di materie prime critiche (ad esempio il cobalto o il litio) nella produzione manifatturiera del futuro, con nuove vulnerabilità geopolitiche dei paesi europei e dell’Italia, il diffondersi con ritmi sempre più rapidi di nuove pandemie globali, l’incremento dei flussi migratori legati ai cambiamenti climatici. Il tema ecologico impatta anche sulle variabili politiche nella misura in cui si rileva una tendenza alla crescita elettorale dei partiti verdi e alla presenza dei

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temi ambientali nelle agende politiche di tutti i partiti. A livello di relazioni internazionali, le driving force più rilevanti sono la crescita economica (e di soft power) dei Paesi “emergenti” e la possibile accelerazione dell’unione politica in Europa. Sul piano locale, si registra un incremento della scala globale nelle strategie di sviluppo dei territori, che tuttavia, piuttosto che declinarsi in modo meccanico in una forma di globalizzazione omologante, si accompagna a una riscoperta delle prossimità, e quindi della variabilità locale (o ultra-locale). Aree come quella torinese potrebbero, da questo punto di vista, trovare un vantaggio prezioso nella diversità che caratterizza l’area metromontana. Tra le discontinuità, a livello globale viene menzionata la crisi di legittimità della democrazia che potrebbe rafforzare l’affermazione di modelli autoritari (come in parte già testimoniano i successi elettorali di leader populisti in molti paesi europei), mentre a livello locale viene richiamata la crescita dell’insicurezza e della criminalità a causa dei “vuoti urbani” prodotti dai cambiamenti nell’organizzazione del lavoro, che potrebbero creare un “effetto Detroit” in tante realtà urbane, compresa Torino. 7.3. Narrative Dopo aver identificato le possibili driving force e discontinuità per Torino 2030, il tavolo di lavoro ha utilizzato il modello Four Archetypes declinandolo sul tema “spazi comuni ed economie locali”. I partecipanti si sono divisi in gruppi e hanno elaborato delle narrative a partire da come le driving force e le discontinuità avrebbero potuto svilupparsi nei quattro scenari del modello. a. Narrativa Growth Torino nel 2030 ha acquisito prestigio e autorevolezza internazionale sul tema dell’Intelligenza Artificiale. Il tessuto manifatturiero metropolitano, dopo il lungo periodo di de-industrializzazione, si è rinvigorito ed è divenuto più competitivo rispetto al recente passato. L’automazione ha tuttavia determinato anche un

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aumento della disoccupazione, divaricando le diseguaglianze e l’esclusione sociale. Queste dinamiche si sono spazializzate attraverso la rimozione e lo spostamento ai margini dell’area metropolitana di tutti quegli elementi (persone, cose, funzioni) che non rispondono al suo identikit di città smart, ecologica e tecnologica. L’invecchiamento della popolazione è proseguito, come da previsione dei demografi: ormai oltre il 30% della popolazione ha oltre 65 anni. La condizione anziana è tuttavia mutata rispetto al passato. Sono sempre di più gli anziani “in buona salute”, che non costituiscono tanto vettori di incremento della domanda di servizi sociosanitari, quanto una risorsa per progetti di innovazione civica e sociale. Nel 2030, Torino è una città più diseguale, con più poveri e più ricchissimi; tuttavia, è anche una città dove si sono radicate nuove pratiche di mutualismo e di solidarietà, praticate in nuovi spazi comuni e capaci di generare significati e pratiche di cittadinanza. I meccanismi di co-gestione e autogoverno, sperimentati nel passato come “prototipi radicali”, sono diventati sistemici e funzionano da “cuscinetto”. La consulta per i beni comuni4 è una realtà consolidata e vengono affrontate nuove sfide di inclusione all’interno di percorsi di democrazia partecipativa che innervano le decisioni pubbliche e le strategie di uso degli spazi. A Torino, come in altre città, si è affermata la modalità dello smart working in luogo dell’on-site. Nel Il Comune di Torino ha 2030, sono quasi ovunque scomparsi i grandi istituito una Consulta permanente per i beni uffici. La maggior parte della forza lavoro che comuni urbani. Tra le opera nel campo dei servizi si reca sul luogo di funzioni principali che svolge vi è quella di lavoro per pochi giorni a settimana, o svolge la ospitare un confronto propria attività completamente in remoto. Quepermanente sulla governance dei beni comuni sto ha rafforzato le dinamiche centrifughe dalla torinesi, nonché di facittà, svuotando il Comune di abitanti, e creancilitare la generazione di visioni condivise su do la disponibilità di volumi immobiliari ampi metodologie e pratiche e a prezzi inferiori rispetto al passato, anche di riattivazione della cittadinanza in senso in luoghi di pregio. Molte attività economiche democratico e orizzontale. cfr.: www.comune. legate al lavoro in presenza sono fallite, ma ne torino.it/benicomuni/ sono nate altre a servizio dei nuovi bisogni degli cosa_sono/consulta_garanti/index.shtml. smart worker.

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I mutamenti nell’organizzazione del lavoro hanno avuto impatto anche sulla mobilità. Si è sviluppata la rete ciclabile in città e sono aumentati i collegamenti con la prima cintura e l’area metromontana. Sono state adottate politiche che incentivano la mobilità leggera, fenomeno che è divenuto dirompente, interessando fasce di cittadinanza sempre più ampie e di età diversa. Nel 2025, nonostante il grande dibattito politico e le opposizioni, il road pricing è diventato un elemento rilevante dell’organizzazione del territorio cittadino torinese, che (sul modello di Milano) ha iniziato a produrre gli effetti sperati, ovvero il decongestionamento del centro dal flusso veicolare e maggiori investimenti, grazie ai fondi raccolti, nel Trasporto Pubblico Locale. Con il passare degli anni si è osservato un aumento delle reti di partenariato tra i soggetti che operano nell’ambito dell’istruzione (scuole e centri educativi, centri di formazione) che ha permesso la costituzione di reti e comunità educative più ampie, le quali continuano a espandersi attraverso network regionali e nazionali. b. Narrativa Collapse Torino si inserisce in uno scenario globale molto conflittuale e in cui si è infranto il sogno di un’Europa unita: non c’è più una moneta unica, gli Stati sono divisi e in conflitto tra loro e la Repubblica Italiana è andata in default economico. A Torino si sono acuiti i conflitti sociali, c’è un divario sempre maggiore tra ricchi e poveri, che si manifesta anche attraverso una progressiva ghettizzazione di alcune aree urbane, fisicamente separate dalle altre attraverso barriere a protezione delle aree più ricche, non lontane da quelle diffuse in molte città sudamericane. Tutte le sperimentazioni di co-gestione messe in atto nel passato non hanno generato alcun cambiamento sistemico. L’aumento di eventi climatici ad alto impatto ha causato l’abbandono dei bacini fluviali urbani, la città è sempre meno popolata e si assiste a una fuga degli abitanti verso le aree extraurbane. I cittadini sono sempre meno coinvolti e interessati alla partecipazione politico-sociale. Torino si svuota prima di

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funzioni e di spazi pubblici e poi di popolazione. Resta solo chi, a causa della propria fragilità, non è in grado di competere nello scenario globale. Nel 2030 Torino è prevalentemente abitata da persone anziane e fragili, con importanti bisogni di cura e assistenza. Lo scenario estremizza i trend dell’invecchiamento della popolazione e della contrazione demografica attivi dagli anni Ottanta. I processi di gentrification hanno perso di sostanza: la città è diventata sovradimensionata rispetto alle persone che la vivono. Si assiste non solo all’abbandono di edifici ma anche di intere aree urbane, le sezioni stradali diventano eccessive, gli spazi collettivi sono vuoti, gli esercizi commerciali scompaiono. Scompare del tutto l’industria automobilistica. c. Narrativa Discipline Torino diventa e viene riconosciuta come capitale italiana dell’AI e come smart city. Gli accordi e i piani di sperimentazione del 2020 producono, negli anni, il raggiungimento di tutti gli obiettivi prefissati. Il metabolismo urbano raggiunge un equilibrio energetico e ambientale. La mobilità è gestita da sistemi che determinano la regolazione automatica e il blocco del trasporto pubblico e privato in caso di raggiungimento delle soglie di attenzione. Vengono alimentate e incentivate politiche di inclusione che evitano situazioni di ghettizzazione e favoriscono l’omogeneizzazione sociospaziale. La regolamentazione permette un uso intelligente degli spazi urbani, dando vita alla città metromontana “dei 15 minuti” dove la prossimità quotidiana si coniuga alla valorizzazione di interdipendenze di lungo raggio. La crescente tensione sociale causata dalle diseguaglianze ha portato al finanziamento, anche attraverso imposte patrimoniali, di un basic income universale a livello locale. La produzione di generi alimentari di base copre una quota crescente dei bisogni locali, grazie alla valorizzazione della produzione nel territorio metromontano (filiere corte) e al cambiamento della dieta alimentare.

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d. Narrativa Transformation La mobilità a guida autonoma, introdotta nel 2025, genera forti controversie e l’etica delle tecniche digitali assume nel dibattito pubblico un ruolo cruciale. In termini politici si avvia, su scala cittadina, la costituzione di organi garanti e di ricerca sul tema dell’etica tecnologica, in stretta relazione con istituti di ricerca, università, reti nazionali e internazionali. Torino diventa la capitale di una “scienza nuova”, capace di coniugare tecnologia, etica e dimensione politico-sociali. La pandemia ha reso lo smart working un elemento strutturale nell’organizzazione del lavoro. Questo scenario determina una rinnovata voglia di socialità: la settimana lavorativa passa da quaranta a venti ore per tutti; si assiste a una redistribuzione del lavoro e a una gestione degli spazi radicalmente diversa dal passato. I livelli di inquinamento in città crescono molto rapidamente e nel 2025 toccano il loro picco, generando una reazione che coinvolge cittadini ed enti pubblici e privati in una transizione verso l’auto-produzione diffusa di energia. La coscienza ambientale è infatti più marcata che in passato e la politica non può ignorare la pressione sociale. Nel 2030 nasce la prima rete di comunità energetiche italiane, guidata da Torino, che trova così una leadership nazionale in questo campo. La città si contrae demograficamente e questo permette di ripensare i suoi spazi “vuoti” nell’ottica di una maggiore vivibilità; gli isolati si svuotano e diventano spazi di produzione per comunità creative; si creano anche nuovi spazi di socializzazione urbana e condivisione; si potenziano processi di riforestazione della città e di agricoltura urbana. La pandemia ha evidenziato l’importanza delle politiche abitative e la necessità di garantire qualità, sostenibilità e inclusione rappresenta il faro per un significativo cambio di direzione. Interi edifici abbandonati sono destinati ad housing sociale. Nel 2030 il disagio abitativo è fortemente ridimensionato. Nel 2025 Torino ha la prima sindaca di origini straniere: grazie a lei vengono costituite consulte che consentono a tutti i cittadini (anche a quelli che ancora non hanno il diritto di votare) di partecipare ai processi

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decisionali che riguardano il futuro della città. Queste pratiche conducono a nuove opportunità, idee e prospettive, che modificano processi in corso, come la privatizzazione e la “targetizzazione” dello spazio pubblico e la ridefinizione delle regole comuni, che diventano più permeabili ai processi di innovazione radicale e attente ai bisogni dei gruppi marginali.

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8. La sfida ambientale. Consumo di suolo, retrofitting energetico, inquinamento, ondate di calore: come preparare la città agli effetti del cambiamento climatico Patrizia Lombardi e Paolo Mellano

Le città ricoprono appena il 3% della superficie terrestre ma sono responsabili di circa il 70% delle emissioni di biossido di carbonio; infatti, la concentrazione di massa delle persone e la continua domanda di risorse fanno delle città le prime fonti di inquinamento. Nel 2000 il vincitore del Premio Nobel per la chimica Paul Crutzen ha coniato il termine “Antropocene” per definire la prima era geologica nella quale le attività umane sono state in grado di influenzare l’atmosfera e alterarne l’equilibrio. Dopo decenni di crescita ininterrotta, i limiti dell’ecosistema globale sono stati superati in modo significativo: stiamo utilizzando un pianeta e mezzo, esaurendo rapidamente le risorse naturali, riducendo drasticamente la biodiversità e causando il surriscaldamento del pianeta. L’impermeabilizzazione dei suoli ha già provocato cambiamenti legati all’effetto isola di calore e al deflusso delle acque e il cambiamento climatico si sta manifestando sempre più quotidianamente nel brusco aumento di eventi atmosferici estremi, quali uragani, alluvioni, lunghi periodi di siccità. Le aree urbane, nelle quali la maggior parte del patrimonio edilizio denuncia molteplici degradi e non è a norma con le leggi per il contenimento dei consumi, rappresentano anche la parte del Pianeta dove si potrebbero pagare i maggiori costi sociali del riscaldamento globale. L’impatto sulla salute dell’Antropocene è già sotto gli occhi di tutti. Dunque, quali strategie si possono e si devono mettere in campo per limitare gli impatti negativi di questo nuovo scenario a livello urbano? Sono molti gli studi che negli ultimi anni si sono occupati del mutamento degli stili di vita e dei modelli di consumo in relazione alla necessità di progettare un ambien-

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te sociale e urbano compatibile con le esigenze legate alla crisi ecologica. Recentemente, è stata anche coniata l’espressione “post-carbon city” per indicare la direzione di una transizione da avviare, un radicale cambio di paradigma per rispondere non solo alla sfida delle emissioni, ma anche al degrado degli ecosistemi e alle pressioni sociali ed economiche. In molte città europee, sono stati definiti nuovi strumenti di pianificazione e intervento che hanno al centro il tema della “resilienza trasformativa” e la lotta al cambiamento climatico. Il confronto tra queste città è interessante per capire quali misure siano state individuate per conseguire obiettivi strategici legati ai principi di giustizia ambientale, giustizia sociale e giustizia intergenerazionale. Altrettanto rilevante risulta capire se le strategie urbane messe in atto siano replicabili ed efficaci nel lungo periodo. 8.1. Webinar A presentare il V ciclo di incontri1 sono stati Maurizio Carta, Stefano Capolongo, Silvana Dalmazzone, Carlo Deregibus e Sara Torabi Moghadam. Maurizio Carta, Professore ordinario di urbanistica presso il Dipartimento di Architettura e Presidente della Scuola Politecnica dell’Università di Palermo. Esperto di pianificazione urbana e territoriale, pianificazione strategica e rigenerazione urbana, ha svolto consulenza scientifica per piani urbanistici, paesaggistici e strategici. Per le sue ricerche è invitato a tenere lezioni e conferenze in numerose università e istituzioni italiane ed estere. Dirige lo Smart Planning Lab dell’Università di Palermo, un laboratorio di ricerca applicata all’urbanistica avanzata per la realizzazione di città intelligenti e creative e per la promozione dell’innovazione sociale.

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Stefano Capolongo, Architetto, Dottore di Ricerca in Sanità Pubblica e Professore Associato (MED Il video del webinar è disponibile su: www.fa42) presso il Politecnico di Milano. È titolare cebook.com/watch/live dei corsi di Igiene ambientale, Tecnologie per /?v=1352621231756407 &ref=watch_permalink. l’igiene edilizia e ambientale e Architettura

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8. La sfida ambientale

sociale per la Scuola di Architettura e Società del Politecnico di Milano. È direttore del Master congiunto in Pianificazione, Programmazione e Progettazione dei sistemi ospedalieri e sociosanitari, Politecnico di Milano, Università degli Studi di Milano e Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Sara Torabi Moghadam, Ph.D. in “Sviluppo Urbano e Regionale” nel 2018 e Laurea Magistrale in Architettura Sostenibile nel 2014, presso il Politecnico di Torino. È ricercatrice post-dottorato presso l’“Urban Sustainability & Security Laboratory for Social Challenges-S3 + Lab” del Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio-DIST, Politecnico di Torino con un’esperienza di ricerca di oltre sei anni nel campo dello sviluppo urbano sostenibile. Ha inoltre svolto un periodo di ricerca presso LESO-PB Laboratory, École Polytechnique Fédérale de Lausanne-EPFL. Silvana Dalmazzone è docente di Economia dell’Ambiente e delle Risorse naturali presso l’Università di Torino, dove è vicedirettore del Dipartimento di Economia e Statistica e presidente del Corso di Laurea Magistrale in Economia dell’Ambiente, della Cultura e del Territorio. La sua ricerca verte su temi quali economia della biodiversità, cambiamento climatico, green economy reforms, valutazione di servizi ecosistemici, gestione delle risorse idriche, contabilità ambientale, resilienza, energie rinnovabili. È vicepresidente dell’Italian Association of Environmental and Resource Economists. Carlo Deregibus è nato a Torino e consegue la laurea specialistica in Architettura/Costruzione al Politecnico di Torino nel 2007 col massimo dei voti, lode e menzione. Nel 2011 consegue il dottorato di ricerca in Architettura e progettazione edilizia. Dal 2015 è professore a contratto presso il Politecnico di Torino, dove dal 2019 coordina il lavoro del Masterplan Team, il gruppo permanente di progettazione strategica dell’Ateneo. Oltre a sviluppare progetti di architettura e design in Italia e

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all’estero, collabora come project manager con studi italiani e stranieri. Ha vinto il 6° Hangai Prize, premio internazionale per giovani architetti. Dal 2021 intensifica il suo impegno nel Politecnico e nella costruzione del Masterplan, assumendo un ruolo di envisioner dello studio. Maurizio Carta spiega che per discutere del futuro di una città complessa come Torino, all’interno della quale coesistono realtà eterogenee, è necessario far chiarezza sul nuovo termine di “città aumentata”; concetto inserito all’interno del processo di pianificazione strategica metropolitana ora in atto. Al fine di costruire una base comune per poter discutere di questo concetto, bisogna comprendere e interfacciarsi con il fenomeno della complessità, ovvero considerare l’insieme riconoscendo le singole componenti che concorrono a definire l’intero sistema – il nostro universo, come ci ricorda la fisica quantistica, è composto da un complesso sistema di relazioni. Tali relazioni possono essere lette mediante la metafora dell’abete (vedi fig. 1),

Figura 1 - La metafora della foglia d’abete. “Il tutto è più della somma delle singole parti”.

vale a dire la capacità del riconoscere la differenza tra “una foglia di abete nel suo complesso” e “una foglia di abete i cui aghi che lo compongono sono stati scomposti”. Si potrebbe pensare che entrambe queste rappresentazioni siano frutto di un risultato comune che porta a una lettura univoca della rappresentazione; diversamente si potrebbe dire che la foglia di abete, i cui aghi sono stati scomposti, permetta una sua lettura dettagliata, talvolta anche più esemplificativa in quanto la gerarchizza,

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le assegna delle precise funzioni (ad esempio quella del ramo principale e dei sotto-rami) e la conteggia. Non ci si rende conto però che questo tipo di analisi, frequentemente condotta in urbanistica, non permette di scomporre la complessità di una città in parti singole e più semplici, o meglio lo si potrebbe fare ma si perderebbe la ricchezza del sistema letto nel suo insieme. Non basta solo stabilire e affermare le profonde differenze tra le due immagini proposte dalla metafora, ma bisogna ricordarsi come la suddetta foglia acquisisce senso solo se la si guarda all’interno della sua generale complessità, all’interno del sistema entro cui è inserita. Per guardare al futuro della città di Torino attualmente ci si deve porre nell’ottica di ragionare in termini di futuredesign, dove progetto e futuro fanno parte di un dittongo: entrambi i termini non possono esistere se non insieme. Non c’è progetto senza futuro e non c’è un futuro senza un buon progetto. L’era odierna viene definita Antropocene, ma più che Antropocene essa somiglia a un Antropocalisse. L’essere umano ha superato tutte le sue evoluzioni precedenti e

Figura 2 - Come i parametri dell’impronta ecologica che produciamo e della perdita di identità culturale modificano la forma del nostro pianeta. Fonte: https://worldmapper.org/maps/.

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Figura 3 - Il nostro pianeta disegnato sulla base del parametro dell’ingiustizia sociale. Fonte: https://worldmapper.org/maps/.

si è definito ora come il più capace e intelligente, in realtà si è dimostrato l’artefice di una pericolosa apocalisse dell’Antropocene innescata dagli effetti collaterali della sua presenza sulla terra. Alcune conseguenze sono indubbiamente visibili, si pensi alla biomassa antropocenica che per la prima volta quest’anno ha superato l’intera biomassa totale del pianeta. L’Antropocene modifica e altera la forma del nostro pianeta qualora utilizzassimo due parametri per disegnarne la forma (vedi fig. 2): l’impronta ecologica che produciamo e la perdita di identità culturale. Se si utilizzassero questi due parametri per ridisegnare la forma planetaria si otterrebbe una forma completamente storpiata. Cina, Stati Uniti e Giappone crescerebbero a dismisura deformandosi pericolosamente e dimostrando in che modo l’Antropocene possa produrre effetti deformanti sulla stessa esistenza dell’uomo. Se si ripercorresse la linea rossa di questi paesi in figura si potrebbe osservare che la traiettoria di diffusione dell’attuale Coronavirus ha sfruttato, appunto, l’iperconnessione fisica tra essi, trovando terreno fertile per la sua diffusione.

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8. La sfida ambientale

L’Antropocene, pertanto, si dimostra il vero diffusore del virus e indubbiamente un fattore accelerativo del suo sviluppo. Letto in tal senso, l’Antropocene non è solo una deformazione a livello di “impronta ecologica”, ma è soprattutto una deformazione a livello di ingiustizia sociale (vedi fig. 3). La combinazione derivante dall’impronta ecologica e dalla perdita di identità culturale, sommata alla negazione di diritti, dimostra che gli effetti prodotti conducono a ragionare nella direzione di un’eventuale e necessaria uscita dall’era Antropocenica. Le opzioni per uscirne possono essere due: non fare nulla lasciando che altre specie che compongono il pianeta terra prendano il sopravvento (come nel caso dell’attuale evoluzione pandemica, permettere che il virus Covid19 diventi la causa della sesta estinzione di massa), oppure recuperare quella dimensione della città che persegue la sua sana evoluzione sulla base di ciò che affermava Platone: “le città sono pascolo e nutrice della società”. La terra è un complesso pianeta multi-specie, ma bisogna ricordare che l’uomo non è la specie presente in maggior numero: i virus attualmente conosciuti sono quasi il triplo dell’umanità. Le città rappresentano oggi i luoghi dove Antropocene e Capitalocene producono i loro maggiori effetti e vi è l’estrema necessità del rendersi conto di come lo stile di vita pre-pandemico debba essere radicalmente cambiato per potersi adattare alle esigenze e ai limiti del pianeta Terra. Bisogna dirigersi verso ciò che viene definito “Neoantropocene”, una nuova epoca in cui le città sono un elemento prevalente, caratterizzata da un’umanità che ha compiuto un salto di specie per permettere di continuare a produrre arte, intelletto, cultura, lavoro, senza essere soggetto predatorio delle risorse del pianeta. Su tal fronte, il Neoantropocene individua i nuovi paradigmi del cambiamento del modello di sviluppo, riconosciuti nelle quattro rivoluzioni che stiamo vivendo e attraversando: 1. Accelerare la trasformazione digitale; 2. Ripensare alla società delle reti. Il villaggio globale deve essere una rete estremamente iperconnessa, non

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bisogna creare nuovi confini o barriere; è necessario un nuovo pensiero pneumatico che guardi alla società delle reti in maniera più consapevole e duratura; 3. Combattere il cambiamento climatico mitigandone gli effetti nel breve medio termine e modificandone le cause che l’hanno generato. 4. Riattivare la società circolare, costruendo un sistema che sia in grado di ridurre la produzione scarti e rifiuti e talvolta rimpiegarli nel ciclo produttivo. Arrivare a ottenere un sistema in equilibrio tra le parti, in cui ogni parte del sistema viene messa a riciclo dalle altre e dove ogni parte è indispensabile al sistema stesso. La risposta dell’urbanistica convenzionale davanti a queste quattro rivoluzioni non è adeguata, risulta vecchia e obsoleta, non adatta alla complessità dello stato attuale. L’urbanistica tradizionale scompone le singole parti, proprio come nel caso della foglia di abete, non arrivando a leggere la complessità della città, talvolta categorizzandole troppo senza poi riuscire a leggerle unitamente. La metafora organica, sia quella che equipara la città a un organismo umano, sia quella che la paragona a un ecosistema molto più complesso, ci ricorda che mentre si lavora sulle singole parti non bisogna disperdere la ricchezza delle relazioni; dunque, è necessario ripartire dall’utopia collaborativa degli anni ’60. Se è vero che l’urbanistica convenzionale non ha risposta alle quattro rivoluzioni in atto, l’unica prospettiva da perseguire fa riferimento a un vero e proprio salto di paradigma che coincide con la creazione della città della prossimità aumentata. La città della prossimità aumentata è composta dall’interazione e dalla collaborazione di dieci componenti, le quali sono perfettamente in grado di intercettare le quattro rivoluzioni sopracitate: 1. 2. 3. 4.

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Una città senziente e reattiva; Una città open source e collaborativa; Una città intelligente e digitale; Una città produttiva e intraprendente;


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Figura 4 - La città aumentata. Figura 5 - La città dei 15 minuti domestica e urbana allo stesso tempo.

Una città creativa e culturale; Una città circolare e riciclica; Una città resiliente e a prova di clima; Una città fluida e aperta; Una città reticolare e policentrica; Una città strategica, incrementale e adattiva. La città aumentata (vedi fig. 4) è una risposta che coglie le trasformazioni in atto provando a tradurle in risposte conformative e performative per un’evoluzione sana della città, il cui manifesto è costituito dalle 10 componenti sopra elencate. Se precedentemente per descrivere il fenomeno della complessità è stata utilizzata la metafora delle foglie di abete, il caso della città aumentata è ben rappresentata dalle mangrovie. Le città aumentate sono come le mangrovie, le quali vivono di ibridazione. Sono piante che vivono in un’aria di interfaccia tra acqua dolce e acqua salata. Le mangrovie sono contemporaneamente piante aeree e sotterranee, insomma piante che non possono essere descritte con i parametri classici delle scienze naturali, così come la città della prossimità aumentata non può essere letta con i parametri classici, ormai obsoleti, dell’urbanistica tradizionale. La città aumentata, pertanto vista come un sistema di città mangrovia, dimostra 5. 6. 7. 8. 9. 10.

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come gli spazi sono capaci di attraversare scale e funzioni estremamente eterogenee, andando necessariamente a cambiare la modalità dell’abitare alla scala di quartiere. Quando durante la prima fase di lockdown generale si prescriveva di restare “nei pressi della propria abitazione”, proprio in quel momento ci si è resi conto che nei pressi della propria abitazione non era rimasto quasi più nulla. Le città sono diventate degli spazi iper-domestici, di cui molti non sempre adeguati, e la loro vitalità stava sempre altrove. La città della prossimità aumentata deve allora diventare una città contemporaneamente domestica e urbana (vedi fig. 5). Un modello urbano che dà forma reale alla “città dei 15 minuti”, legandosi contemporaneamente alla città dei 100 dove il tutto non si ferma alla dimensione domestica, ma continua a intrattenere quella rete di relazioni esterne che la caratterizzava precedentemente. Una città pneumatica che si allarga e si restringe a seconda delle necessità, una città che si allea anche alla città dei 1.000 minuti, a carattere ancora più esteso, raggiungendo i confini metropolitani. I sistemi urbani che stanno sperimentando il modello della “città della prossimità aumentata” sono città che sfruttano i dati, riciclano, città che trasformano lo spazio pubblico in un’estensione dello spazio domestico, città che usano i sensori per leggere e comprendere il consumo energetico e le sue potenzialità, città che tornano ad aver cura della dimensione manifatturiera. Tuttavia, bisogna dimostrare che la città aumentata sia una realtà producibile, sperimentando la sua progettazione sul campo. Per far ciò è necessario discostarsi dall’urbanistica regolativa degli ultimi anni racchiusa all’interno di masterplan e di un duro disegno di progettazione della città. L’obiettivo è quello di avvicinarsi a un “cityforming protocol”. Il tipico approccio del masterplan è quello dell’insediare persone, dell’avere la presunzione di stabilire un numero di persone insediabili all’interno di esso; il cityforming, invece, genera comunità, conformando e progettando luoghi in grado di generare loro stessi la comunità. Quest’ultime devono far diventare le città di nuovo “pascolo e nutrice della società”.

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Stefano Capolongo evidenzia che in quest’ultimo anno il diritto alla salute è entrato in estrema competizione con il diritto economico; lo spazio fisico ha ricoperto nel corso della pandemia un ruolo chiave, più specificamente un ruolo preventivo in termini di prevenzione della salute. In riferimento all’attuale pandemia da Covid-19, il tema dello spazio pubblico diventa fondamentale nel campo della salute ancora più della prevenzione medica, in quanto di fatto le azioni prescritte per limitare la diffusione del virus sono fondate sul distanziamento: ci siamo basati sul confinamento nelle case e sulle definizioni dei percorsi all’interno della città. Le sfide che sono state lanciate per il futuro portano a produrre delle riflessioni sulla città non solo in relazione alla pandemia da Covid-19. La storia insegna che tutte le popolazioni da sempre sono state coinvolte da grandi epidemie che hanno messo in discussione i modelli evolutivi e la strutturazione delle città; si pensi ai casi di Parigi, Barcellona, Londra, Napoli, Firenze. In questi casi la struttura urbana non è stata in grado di rispondere in maniera resiliente, banalmente attraverso una pianificazione della città capace di accogliere le situazioni emergenziali. Su tal fronte, l’Urban health è la capacità delle città di saper produrre salute. Questa è una grande sfida rispetto alla quale oggi bisogna sapersi interfacciare, una sfida che porta anche il progettista a delle importanti considerazioni. Si è sempre pensato a un parco urbano o a una rete infrastrutturale come azioni di riqualificazione e rigenerazione, ma in realtà esse sono intrinsecamente azioni di promozione della salute (physique activity). Le città da un lato nascondono forti rischi per la salute (malattie urbane, maggiori diffusioni virali, incidenti stradali), ma sono anche il cuore di grandi opportunità poiché nelle aree urbane la speranza di vita è molto più alta (maggiore capacità di generare economia, istruzione, servizi sociosanitari). Il rapporto tra pianificazione dell’ambiente costruito e salubrità è un rapporto storico. A partire dal contesto Parigino della seconda metà dell’800, in cui Haussmann

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in 16 anni ridisegnò completamente la capitale sulla base di problematiche igienico-sanitarie. Allo stesso modo Cerdà progettò ex novo una Barcellona completamente a maglia ortogonale, inserendo due grandi assi perpendicolari che garantivano il massimo del soleggiamento nella stagione invernale e una riduzione del soleggiamento nel periodo estivo. Un rapporto storico solido tanto che, ancora oggi, per descrivere la città si utilizzano dei termini medici. Sovente, infatti, per intendere “parco urbano” si dice “polmone verde”, o per dire centro della città si usa “cuore della città”, o al posto di collegamento stradale “arterie di scorrimento”. Dalla letteratura scientifica emerge che esistono dei determinanti della salute, ossia dei fattori la cui presenza o assenza cambia positivamente o negativamente lo stato di salute della popolazione. L’OMS ha definito lo stato di salute della popolazione come il completo benessere fisico, mentale e sociale e non soltanto la sola assenza di malattie. Questo è molto importante poiché negli ultimi anni l’attenzione si è gradualmente spostata da un punto di vista esclusivamente medico a uno di maggiore carattere sociale. Sappiamo che esistono 4 macrocategorie di differente influenza che vanno a pesare sul benessere della popolazione: 50% fattori socio-economici e comportamentali, 20% condizioni ambientali, 20% fattori genetici, motivo per cui la sfida della medicina oggi è legata alle biotecnologie, e 10% accessibilità del servizio socio-assistenziale. L’attuale pandemia ha mostrato la fragilità del nostro sistema attraverso le numerosissime persone che sono state colpite da tale infezione. Tuttavia, bisogna ricordare che la principale causa di morte nel nostro paese è rappresentata dalle malattie cronico-degenerative quali: diabete, malattie respiratorie, inattività fisica, malattie cardiache, tutte riconducibili anche in parte alla globalizzazione e al processo di urbanizzazione sempre più consistente. Il progetto per l’ambiente costruito costituisce oggi un tema strategico di estrema importanza nella prevenzione e nella generazione di salute da parte della città stessa.

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L’approccio dell’Urban health promuove l’applicazione di strumenti di valutazione quali-quantitativi e incoraggia la transizione da un approccio prescrittivo a uno prestazionale, valutando la propensione e la capacità dell’ambiente costruito nel proteggere e promuovere Health and WellBeing, ovvero l’adozione di stili di vita corretti. La diffusione del virus ha permesso la sperimentazione della “città dei 15 minuti” e la riscoperta di servizi di prossimità. Le persone durante il lock-down generale del 2020 potevano accedere solo ai servizi attorno alla propria abitazione, riscoprendo l’esistenza dei servizi di quartiere. Se si analizza la città dei 15 minuti non è un caso che i 15 minuti della città sommati ai 15 minuti da percorrere per tornare all’abitazione compongano quei 30 minuti di attività fisica che l’OMS raccomanda di praticare 5 giorni a settimana per prevenire malattie e patologie cardio-circolatorie. In questa visione la città diventa generatore di salute e porta a elaborare delle strategie e delle azioni di Urban health. Bisogna ripensare le città integrando stili di vita che siano maggiormente responsabili. A fronte di una revisione sistematica della letteratura scientifica nasce un decalogo che mette in luce e definisce le azioni di breve, medio e lungo periodo capaci di migliorare la resilienza delle città e affrontare eventi pandemici attraverso strategie definite di salute pubblica. Azioni nel breve periodo: Programmare la flessibilità degli orari della città Pianificare la rete di mobilità sostenibile d’emergenza Definire il piano regolatore del piano terra Promuovere la digitalizzazione nei contesti urbani e le smart community 5. Ripensare all’accessibilità nei posti che producono cultura e turismo 1. 2. 3. 4.

Azioni nel medio-lungo periodo:

1. Ridisegnare una maggiore vivibilità negli spazi indoor 2. Ripensare alle tipologie costruttive, mixando spazi

semi-privati e collettivi

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3. Ripensare la rete dei servizi socioassistenziali di base 4. Integrare i piani di emergenza con i piani sanitari 5. Migliorare la consapevolezza degli stakeholders.

L’attuale situazione richiede un cambiamento nel modo attraverso il quale si osserva, si analizza e si rappresenta un territorio. Per poter elaborare e implementare strategie di successo stanno acquisendo sempre maggiore importanza strumenti di analisi multi-criteriali che, attraverso indicatori quali-quantitativi, risultano in grado di misurare l’efficacia delle azioni dal punto di vista della progettazione che vede la città come generatore di salute. Le città europee, dice Sara Torabi Moghadam, si configurano tra i principali contribuenti a livello mondiale di emissioni in atmosfera di gas serra. Tuttavia, sono anche quelle che oggi stanno sperimentando, più di altri, soluzioni per far fronte alle problematiche legate al cambiamento climatico attraverso una pianificazione pragmatica adattiva, indirizzata alla resilienza territoriale e allo sviluppo sostenibile, slegandole dalle retoriche da cui sono state caratterizzate per anni. Tra le iniziative intraprese dalla Comunità Europea figurano i programmi Interreg. Essi rientrano nel Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FERS) che, a partire dalla programmazione 2000-2006, hanno dato inizio a cicli progettuali sessennali ancora oggi in atto. Il progetto MOLOC (Low Carbon Urban Morphologies), co-finanziato dal Programma Interreg Europe nel ciclo 2014-2020, si inserisce chiaramente all’interno di questo contesto a partire dal settore della Low Carbon Economy. Fa riferimento a un periodo di circa 5 anni (gennaio 2017 dicembre 2021) entro i quali ogni città coinvolta deve portare a termine gli obiettivi prestabiliti. MOLOC mira a sviluppare un nuovo approccio alla costruzione e trasformazione delle città, associando la qualità della vita e l’efficienza energetica a partire dall’esplorazione degli elementi che frenano l’impatto delle politiche e delle azioni locali. Rafforzando una nuova attitudine alla gestione dello spazio urbano, si punta ad avere

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risultati più efficaci di lungo termine relativamente a una città a basse emissioni di carbonio come modello urbano, in cui strumenti e soluzioni rispondano alle sfide energetiche in maniera adattiva. Inoltre, tale progetto intende promuovere nelle città coinvolte strategie integrate e azioni spazializzabili, nonché incrementare la consapevolezza dei cittadini sul tema della transizione energetica e delle aree urbane multimodali e sostenibili. Nel progetto sono state coinvolte 6 città partner: Lille (Francia) come Lead Partner, a cui sono state associate la città di Amburgo, Suceava, Il centro di Ricerca mineraria di Katowice, le Energy Cities, ovvero l’associazione europea delle città in transizione energetica, e la città di Torino. Nel contesto di quest’ultimo caso studio, l’attività svolta si è posta nell’ottica di esplorare, elaborare e applicare su scala urbana una nuova metodologia di avvio, gestione e valutazione dei processi di pianificazione, in funzione di territori e sistemi urbani sostenibili e resilienti. Questo perché si sta progressivamente irrobustendo la consapevolezza che un buon strumento urbanistico fonda la propria efficacia non tanto sull’estrosità dello stesso, quanto sull’efficienza del processo di pianificazione; quindi, nella fase iniziale di preparazione e successivamente nella fase di attuazione, ovvero di monitoraggio (Brunetta, 2006; Gambino, 2005). Risulta a oggi fondamentale produrre analisi e valutazioni territoriali della sostenibilità guidate da solide basi scientifiche condivise, ma allo stesso tempo declinate e modulate opportunamente sul territorio di riferimento. La conoscenza del territorio, il più possibile olistica o integrata (Gambino, 2005), permette di ridurre le incertezze sulle trasformazioni urbane future e di reindirizzarle attraverso la cogenza dello strumento urbanistico. La metodologia proposta per Torino ha ottimizzato metodologie tout court di valutazione e analisi territoriale e ne ha sperimentate altre, a scala comunale, già consolidate a scala di edificio o di quartiere; tendenzialmente queste ultime sono afferenti a iniziative europee come il Progetto CESBA MED (www.cesba-med.interreg-med. eu). La sfida ottempera alla volontà di presentare un me-

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todo il più possibile integrato, partecipato e performante a favore di nuovi processi di pianificazione innovativi. La metodologia di lavoro è stata derivata a partire da un metodo comune, prestabilito a tutte le città partner del progetto MOLOC. Un metodo sintetico articolato in tre fasi il quale, a sua volta, è stato declinato, in riferimento al contesto territoriale del caso studio torinese, dal gruppo di ricerca del Politecnico di Torino, in 6 grandi programmi di lavoro, sulla base delle esigenze e obiettivi dettati dalla revisione del PRG (Piano Regolatore Generale). La complessità metodologica è dovuta anche a una struttura multi-obiettivo del progetto: la costruzione di un modello decisionale in grado di valutare su scala urbana il livello di sostenibilità attraverso Key Performance Indicators (KPI) e, a partire da esso, definire delle proposte di trasformazione urbana alternative, indirizzando gli strumenti di pianificazione e le normative. Ciò ha portato i metodi e gli strumenti utilizzati a moltiplicarsi e a influenzare a vicenda gli sviluppi successivi. Le fasi di lavoro individuate sono:

1. Selezione degli indicatori: importante poiché con-

diziona tutto il lavoro successivo; inoltre, essi esercitano un’influenza sul processo di pianificazione futuro (o ex-post), in quanto si prevede che vengano utilizzati per monitorare lo sviluppo e la trasformazione urbana guidata dall’attuazione del nuovo strumento urbanistico. L’obiettivo è ottenere un set di indicatori chiave sintetici ed esaustivi in grado di valutare e comunicare il profilo territoriale di scala urbana/ comunale in modo corretto e integrato, offrendo una visione multidisciplinare del territorio, non settoriale. 2. Fase di Valutazione: attraverso un’analisi spaziale si valuta l’impatto spaziale di ognuno degli indicatori selezionati e lo si quantifica attraverso l’implementazione di un modello decisionale multicriteriale. Una sintesi interpretativa del territorio permette di integrare in un univoco quadro conoscitivo le analisi prodotte a partire dai risultati degli indicatori. Successivamente, si valuta la performance di sostenibilità

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dello stato di fatto: essa pone le basi del modello decisionale, definendo la struttura dello scenario futuro. 3. Fase Operativa: Definizione di uno scenario futuro utile per identificare possibili modelli di sviluppo urbano e a stimolare la riflessione sulle condizioni e le azioni desiderabili per realizzarli. Inoltre, è ormai noto che gli scenari siano una componente essenziale degli approcci integrati alla transizione verso lo sviluppo sostenibile. 4. Discussione e Confronto: confutazione e integrazione dello scenario futuro attraverso la condivisione dei materiali analitici e conoscitivi utilizzati per la sua costruzione; coinvolgere dei punti di vista esterni al lavoro di ricerca e far emergere letture del territorio alternative, permette di confermare o mettere in discussione le scelte compiute in merito alle strategie. I risultati che si ottengono, in via finale, vanno a costituire una parte del sistema di supporto alle decisioni di pianificazione comunale. Viene fatta emergere l’importanza e il ruolo prioritario degli indicatori, in quanto elementi caratterizzanti e condizionanti la ricerca nella sua interezza. Non a caso si sottolinea più volte la necessità di mettere in atto una procedura di selezione ampiamente accurata per far sì che gli indicatori appartenenti al set finale possano rappresentare appieno le caratteristiche e le esigenze del caso studio. Conseguito un numero ristretto, ma significativo di indicatori, essi modulano le fasi successive: la loro mappatura e la loro quantificazione numerica rappresentano i fenomeni ritenuti costituenti la sostenibilità urbana a Torino nel corrente momento storico. Sono approfondite nello specifico l’analisi spaziale e la valutazione d’impatto attraverso l’uso di strumenti GIS (Geographic Information Systems), per via del loro impatto nella definizione di strategie possibili da orientare all’interno del nuovo Piano Regolatore Generale di Torino. Per la valutazione sono stati considerati cinque ambiti generali: il sistema urbano e infrastrutturale, quello energetico, ambientale, sociale e quello che interessa in

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modo particolare le emissioni atmosferiche. La varietà degli ambiti tematici presenti è indice del fatto che gli indicatori selezionati sono alquanto esaustivi per rendere una visione complessiva e completa dello stato del sistema urbano in analisi. Il calcolo e la valutazione degli indicatori selezionati ha richiesto una particolare attenzione durante lo svolgimento delle operazioni di stima, per permettere di raggiungere un risultato il più possibile rispecchiante la realtà del contesto che rappresenta. 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Qualità del suolo Intermodalità del sistema di trasporto urbano Consumo di energia termica per gli edifici residenziali Consumo di energia elettrica per gli edifici residenziali Emissioni di gas serra dall’energia utilizzata dagli edifici residenziali Qualità dell’aria (PM10 in atmosfera) Albedo Disponibilità e prossimità dei principali servizi umani di base agli edifici residenziali

Per ogni indicatore è stata redatta una scheda in cui sono state riportate le informazioni essenziali: la contestualizzazione, il tipo di dato che si esprime, come lo si esprime, come può essere letto; inoltre, è stata descritta passo per passo la metodologia e il procedimento di calcolo, nonché il risultato finale. Per completezza è stata composta un’analisi estensiva che combina i dati geografici restituiti tramite rappresentazione grafiche e tabelle di dati quantitativi alfanumerici. La composizione di una tipologia comune di schede è stata possibile stabilendo sin dall’impostazione del calcolo alcune invarianti da mantenersi costanti per ogni indicatore: la presenza di soli indicatori quantitativi, valutabili attraverso dati alfanumerici; il reperimento di dati georeferenziati rielaborati e rappresentabili con tecnologie GIS. Questo è stato un aspetto fondamentale caratterizzante la ricerca; ogni indicatore, avendo una radicata impronta territoriale, è

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stato vincolato a una lettura attraverso la variabile spaziale, per questo l’introduzione di strumenti GIS ha permesso di rendere approfondita l’analisi. La necessità di innovare i processi di pianificazione, a oggi, risulta essere una prerogativa del governo del territorio. Rendere tangibile il progresso verso la sostenibilità urbana è diventato il paradigma della pianificazione urbanistica a fronte dell’avanzamento del cambiamento climatico. Questo progetto ha posto l’attenzione sull’importanza della fase preparatoria (ex ante), in cui la costruzione di un quadro conoscitivo approfondito del territorio guida coerentemente anche la definizione di una visione strategica della città verso un sistema urbano realmente sostenibile, resiliente e a basse emissioni di carbonio. In tal modo, il lavoro svolto ha traguardato anche gli obiettivi stabiliti dalla Città di Torino e adempiuto alle richieste avanzate dal progetto Interreg Europe MOLOC. Particolare attenzione è stata rivolta alla valutazione della sostenibilità urbana, in funzione della quale è stata strutturata la metodologia proposta. Dato che la valutazione della sostenibilità urbana è ancora oggetto di discussione e di ricerca, lo studio presentato costituisce una buona pratica e una potenziale risposta alla necessità di stabilire un metodo condiviso e un modello decisionale il più possibile integrato, partecipato e performante da affiancare a processi di pianificazione innovativi. Silvana Dalmazzone evidenzia che dall’inizio della rivoluzione industriale gli esseri umani hanno rilasciato in atmosfera una quantità immensa di sostanze inquinanti. Ci troviamo oggi ad aver superato il livello massimo di concentrazioni (415 ppm) degli ultimi 23 milioni di anni, raggiungendo quello che può essere definito come un punto di non ritorno. Un tema fondamentale è quello dell’emissione di C02 la quale permane in atmosfera per un lunghissimo periodo: una parte viene assorbita dagli oceani in circa 20 anni, la parte restante viene investita da processi molto più lenti di scala secolare. Le emissioni sul clima hanno dunque effetti permanenti.

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Entro il 2050, se non si adotteranno misure restrittive e non si cambieranno le modalità di abitazione del pianeta, la temperatura planetaria potrebbe aumentare di 2,5 gradi centigradi, conducendo a uno scenario potenzialmente catastrofico. È già presente una chiara sintomatologia rappresentata dall’aumento di eventi catastrofici e calamitosi; le aree subalpine stanno registrando effetti davvero drastici rispetto alla media globale. Il 2019 si è concluso con una temperatura di 1,1 gradi superiore rispetto all’epoca preindustriale, mentre il 2020 con un incremento di 1,2 gradi. Arpa Piemonte e Regione Piemonte hanno valutato i cambiamenti su un asse temporale di 60 anni, mostrando come nel tempo si sono modificati e si stanno ancora modificando gli scenari. Sono aumentati i giorni in cui la temperatura massima supera i 30 gradi, ma di conseguenza sono aumentate anche le notti in cui la temperatura minima supera i 20 gradi, avvicinandoci a un clima quasi di tipo tropicale. Anche in montagna sono diminuiti i giorni di gelo, dove la temperatura scende sottozero. I cambiamenti sul territorio torinese si stanno vedendo in particolar modo sulle Alpi, le quali tra 10 anni potrebbero perdere gran parte della loro copertura nevosa: il 70% se il cambiamento climatico continua sulla traiettoria odierna. Per quanto riguarda la strategia per l’adattamento al cambiamento climatico sviluppata per Torino dal Ministero dell’Ambiente, lo scenario migliore possibile mostra che con interventi di mitigazione al cambiamento climatico, in accordo con i target della Convenzione di Parigi, ci sarebbe un aumento della temperatura media di 3 gradi entro il 2100 con un tasso di incremento di 0.3 ogni 10 anni. Nello scenario peggiore invece, dove il trend resterebbe invariato rispetto all’attuale e non si apportassero modifiche al modello di sviluppo né si mettessero in atto misure restrittive, si arriverebbe a un aumento di quasi 6.5 gradi entro il 2100 con un tasso di incremento di 0.68 gradi ogni 10 anni. Studi scientifici sostengono che i maggiori impatti sulla salute umana si concentreranno in particolar modo

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all’interno delle città. Dal 2008 il Patto dei Sindaci ha coinvolto su base volontaria numerose città; allo stesso modo il Covenant of Mayors ha facilitato le stesse città nella promozione di strategie locali di adattamento al cambiamento climatico in atto. Torino nel 2009 ha aderito al Patto dei Sindaci e nel 2010 ha realizzato il progetto TAPE con la previsione di ridurre le emissioni atmosferiche, raggiungendo nel 2020 una diminuzione del 35% in particolar modo nel settore residenziale e dei trasporti. Recentemente Torino ha aderito nuovamente al patto dei sindaci (2019) con la volontà di ridurre le emissioni del 40% entro il 2030, adottando politiche di mitigazione e adattamento. Per il caso di Torino i rischi legati al cambiamento climatico in atto riguardano ondate di calore, alluvioni (Torino ha una superficie di 35 kmq interessata a rischio esondazione) e frane collinari. Eventi considerati catastrofici si sono verificati in tempi ravvicinati nel 1994, 2000 e 2016. L’Italia è il primo paese in Europa per morti da biossido di azoto (Torino, Londra e Parigi sono le città più inquinate) e il secondo paese dopo la Germania per inquinamento da polveri sottili. Sono le morti silenziose dovute al cambiamento climatico su cui bisogna indirizzare l’attenzione pubblica e renderle tangibili. Nel 2020 Torino ha sforato i limiti massimi di concentrazione di PM10 in atmosfera di 35 giorni rispetto ai limiti consentiti dalla legge. Siamo preparati a fronteggiare il rischio climatico? In Italia il Ministero dell’Ambiente ha varato una strategia comune di adattamento al cambiamento climatico, la Regione Piemonte nel 2017 l’ha fatta propria e il Comune di Torino nel luglio 2020 ha adottato un piano di resilienza climatica. Cosa occorre fare in concreto? Strategie di adattamento per le città proposte: • Quadro dei rischi e delle vulnerabilità attese • Individuare luoghi maggiormente esposti • Investire in formazione in materia di cambiamento climatico e di capacity building

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Potenziare i sistemi di monitoraggio meteoclimatici Piani di gestione delle risorse idriche Strumenti finanziari Riqualificazione edilizia Assetto urbano: aree verdi, soluzioni nature based, sistemi di drenaggio urbano sostenibile, ribilanciamento fra spazi e trasporto automobilistico rispetto a quelli dedicati alla mobilità attiva • Consumo di suolo netto inferiore o uguale a zero • Decommissioning delle aree industriali dismesse, deimpermeabilizzazione e restituzione di capitale naturale. • • • • •

Per Carlo Deregibus il punto di partenza per arrivare a trattare e capire il grande problema ecologico e ambientale che oggi affligge le nostre città è arrivare a comprendere prima di tutto che viviamo all’interno di un sistema complesso e, su tal fronte, gli indicatori sono un perfetto strumento per la comprensione e trattazione dei dati. Come progetto del Politecnico di Torino la creazione del Masterplan di Ateneo ha avuto come obiettivo il voler superare la progettazione tradizionale, ovvero la realizzazione di un disegno come oggetto progettuale creato dall’alto e imposto poi sulla città. Si è voluto creare un processo di generazioni continue che spazializzano le istanze e le strategie sul territorio. Tutte le istanze, le normative e le volontà di tutti gli attori si traducono in spazi che li costruiscono, li caratterizzano e li modificano. Lo spazio come luogo finale dell’incontro e il Masterplan come processo di progettazione continua mira a questo obiettivo finale. Entrando nel merito della sede del Politecnico di Torino, costruita negli anni ’60 e raddoppiata poi negli anni 2000, ha sempre visto gli spazi aperti come spazi di risulta. Nel momento della progettazione, la volontà è stata proprio quella del prendere gli spazi di risulta e trasformarli in luoghi/ spazi verdi (vedi fig. 6) al fine di migliorare la qualità ambientale dell’area e renderla un luogo maggiormente vivibile.

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Figura 6 - Il Masterplan del Politecnico di Torino 2016-2020. Fonte: https://www.masterplan.polito.it

Nella trasformazione della corte dell’aula magna è stata compiuta un’azione che a prima vista potrebbe essere in contrasto con il disegno progettuale del verde che il Masterplan per questa sede voleva restituire. All’inizio, al centro della corte era prevista una grande aiuola verde che si ergeva come dominatrice dello spazio; dopo una attenta analisi si è giunti alla conclusione che l’unica funzione di questa aiuola fosse estetica, per questo venne sostituita con una pavimentazione che potesse rendere più fruibile l’area e ne aumentasse la vivibilità in termini sociali (vedi fig. 7). In questo caso la qualità ambientale è in accordo a “come si vivono gli spazi”: non è abbellitore, ma funzionale allo spazio urbano entro il quale si colloca. Altro tema fondamentale con il quale il Masterplan ha dovuto interfacciarsi è quello dell’inquinamento dei terreni e della loro tombatura. Quando si parla di recupero degli spazi bisogna sapere che non si ritorna mai alla terra vergine. Il suolo è un bene prezioso, scarso e costoso, e an-

Figura 7 - Lo spazio centrale dell’Aula Magna del Politecnico. Fonte: https://www.masterplan.polito.it

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che se si effettuano delle operazioni di bonifica non si arriverà mai alla situazione iniziale. La dimensione ambientale è una dimensione molto difficile da affrontare a scala urbana: sulla scala edilizia si hanno più informazioni a riguardo e l’attenzione verso una progettazione più green a 360° è già stata ampiamente condivisa negli anni precedenti. Il Politecnico sta sviluppando delle piattaforme che mirano a recuperare e riqualificare delle aree urbane abbandonate, mettendo in evidenza come molte volte ci si scontra con attenzioni e interessi differenti. Le azioni sono urgenti, ma molto difficili da portare avanti alcune volte. Il tema di Torino Esposizioni per il Politecnico è da sempre un tema strategico, nel 2013 iniziarono gli studi preliminari. Inizialmente nel 2015 venne redatto il Masterplan ICIS/Moneo e Isolarchitetti, ma nel 2018 cambiò la normativa e le norme tecniche di costruzione vennero modificate. Questo fece sì che tutte le strutture del Dopoguerra diventarono utilizzabili soltanto a costi duplicati e il Politecnico in questo venne coinvolto in alcune sue parti. Tutte le normative di settore seguono una ratio ben precisa, ma se si vuole ragionare sulla complessità del sistema, a partire da quello che si può fare all’interno della città, bisogna pensare più in termini di progetto che in termini di soluzioni. Questa è la prospettiva che il Masterplan ha cercato di seguire e verso la quale gli studi di ricerca si vogliono basare. 8.2. Driving Forces e Discontinuità Il 25 febbraio 2021 si è tenuto il quinto workshop nell’ambito di “Torino 2030”, che ha avuto come tema “la sfida ambientale”. I temi raccolti negli interventi del webinar sono stati affrontati dal panel attraverso una metodologia di scenario planning che ha consentito di esplorare possibili scenari relativi alla sfida ambientale nella Torino del 2030. Alla pari degli altri workshop, Il primo passaggio ha visto l’individuazione di driving forces e discontinuità.

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a. Driving Forces Sociological Una prima driving force in ambito sociologico è legata alla virtualizzazione delle interazioni e dei processi e all’incremento del sentimento diffuso di alienazione. Continueranno a crescere i fenomeni di diseguaglianza, frammentazione e segregazione socio-spaziale. La mobilità attiva è una forza che produrrà effetti positivi sulla salute. Crescerà l’esigenza di una maggiore giustizia ambientale. La driving force legata alla contrazione demografica porterà da una parte all’inasprirsi del conflitto generazionale (boomers sempre più arroccati in difesa delle proprie posizioni e dei propri privilegi) ma anche a forme nuove di partecipazione politica (anche di protesta) da parte di giovani e giovanissimi. Technological Una driving force significativa, in ambito tecnologico, ha a che fare con l’espansione dello smart working. Nonostante l’estensione dei processi di digitalizzazione, permangono ritardi e disallineamenti su base geografica e sociale. Crescerà l’accesso ai dati (siano essi big data e/o open data) e l’uso di app utili alla condivisione di beni e servizi e al potenziamento dell’efficienza energetica. In tal senso, un’altra driving force è legata alla diffusione di nuove soluzioni nature based e al passaggio consistente alle energie rinnovabili, inteso non solo come un processo di integrazione ma come una vera e propria sostituzione (shift) dell’attuale sistema energetico basato su energie fossili. Economical In ambito economico i partecipanti evidenziano come principali driving forces il potenziamento della filiera del cibo a chilometro zero, così come l’accelerazione della transizione ecologica, favorita dagli incentivi alla ristrutturazione e alla riqualificazione energetica garantita dagli interventi pubblici. La ristrutturazione del mercato del lavoro è una driving force che favorirà la crescita delle

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professioni nel settore del green e molte professionalità vedranno una conversione in chiave ecologica. Tuttavia, permarrà la tendenza a far pagare i costi del cambiamento ambientale alle fasce sociali più deboli. Environmental Per quanto riguarda l’ambiente, si segnala un peggioramento della qualità dell’aria. Una seconda tendenza che secondo i partecipanti proseguirà in continuità con le tendenze attuali è legata alla carenza dell’acqua in città e all’approvvigionamento delle risorse idriche, ma anche alla qualità di tali risorse, in costante peggioramento. Il cambiamento climatico renderà le estati urbane estremamente faticose, con l’incremento degli eventi intensi ed estremi, legati alle ondate di calore. In parallelo si segnalano le driving forces legate all’incremento della progettazione resiliente, del recupero delle aree dismesse e al potenziamento del verde urbano. Political In ambito politico una driving force emersa riguarda la preparazione della classe dirigente, che sarà insufficiente rispetto alle sfide sociali che si presenteranno. Aumenterà la partecipazione diretta ai processi democratici, mentre si ridurranno i meccanismi di intermediazione legati ai corpi intermedi. Saranno sempre più centrali le politiche legate alla sostenibilità ambientale, che favoriranno la redazione e l’approvazione di piani dedicati al green. b. Discontinuità Sociological Tra le discontinuità sociali evidenziate emerge quella legata alla riduzione consistente della popolazione e, in particolare, allo spopolamento delle aree urbane. L’inquinamento potrebbe continuare a crescere, provocando un aumento consistente delle malattie respiratorie (ma anche psicosomatiche). Si potrebbe arrivare a un blocco totale della mobilità privata e all’aumento della mobilità attiva. Si potrà misurare in modo efficiente

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l’impatto ambientale individuale e elaborare strategie puntuali e coordinate da una regia centrale. Potrebbe aumentare il numero dei migranti climatici con impatti negativi sulla disuguaglianza sociale e sulla coesione delle comunità (con un incremento anche dei fenomeni violenti di reazione alla disgregazione sociale). Il welfare potrebbe diventare economicamente insostenibile, con un conseguente collasso dei servizi alla persona. Technological Nell’area tecnologica un forte elemento di discontinuità potrebbe essere rappresentato dallo sviluppo e dalla diffusione capillare di soluzioni per la mobilità sostenibile, con veicoli a guida autonoma per il trasporto di merci e persone. Tuttavia, uno sfasamento dello sviluppo tecnologico tra la fase della ricerca e la successiva immissione sul mercato potrebbe rallentare il processo di creazione di una cultura delle nuove tecnologie per la sostenibilità. Una discontinuità potrebbe essere rappresentata dall’affermarsi di nuovi processi produttivi circolari, in particolare per quanto riguarda la filiera del cibo. Alcune discontinuità potrebbero essere legate allo sviluppo tecnologico: ad esempio l’incremento del riscaldamento della città a causa del numero maggiore di ore che i cittadini passano davanti allo schermo del personal computer (con conseguente aumento della spesa pubblica per la gestione delle emergenze). Oppure il crollo nella disponibilità di materiali usati per la produzione delle batterie dei cellulari e dei dispositivi mobili. In parte questo potrebbe essere compensato da una discontinuità come quella della transizione a modelli di produzione senza perdite e di generazione delle materie non recuperabili. Economical Possibili discontinuità divergenti caratterizzano anche lo scenario economico. Torino nel 2030 potrebbe dover affrontare una forte perdita di competitività e un crollo del sistema economico cittadino, con conseguente riduzione dei servizi essenziali. Le generazioni più giova-

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ni non possono più contare sul supporto economico di genitori e nonni. Il costo della progettazione resiliente potrebbe non essere ripartito in modo equo tra le diverse fasce sociali, sebbene la misurazione degli impatti ambientali individuali potrebbe garantire una gestione energetica più efficiente. Potrebbero innescarsi nuove guerre economiche attorno all’approvvigionamento dei materiali rari e delle materie prime. Environmental Le principali discontinuità individuate nel settore dell’ambiente hanno a che fare con il cambiamento climatico che potrebbe generare migrazioni interne dovute principalmente all’innalzamento del livello del mare. Tale discontinuità potrebbe portare siccità durevole e carenza di acqua in città, alterando la fauna e la flora urbana. L’impermeabilizzazione del suolo potrebbe provocare un maggiore rischio di alluvioni e inondazioni. Un’ulteriore discontinuità riguarda la radicale azione di conversione del tessuto urbano, che potrebbe portare a un’urbanizzazione incontrollata che oltrepasserebbe le soglie di sostenibilità. In alternativa le città potrebbero svuotarsi. Magari anche a causa di minacce provenienti da virus e specie ancora sconosciute, invasive e forse aliene… Political I partecipanti hanno identificato una serie di discontinuità in ambito politico. Ad esempio, l’emergere di una classe politica sempre meno permeabile rispetto alle esigenze dei cittadini. Questo potrebbe provocare il superamento del partitismo, ma anche fenomeni estremi di radicalizzazione politica, alimentati da populismi dilaganti e dalla diffusione sempre più incontrollata e capillare di notizie false. Come conseguenza ci potrebbe essere un allontanamento del cittadino dalla politica. Oppure lo sviluppo di modelli avanzati di partecipazione pubblica alle decisioni (non orientati alla consultazione ma alla deliberazione) e di collaborazione tra i cittadini.

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8.3. Narrative Dopo aver identificato le possibili driving forces per Torino 2030, il tavolo di lavoro ha utilizzato il modello Four Archetypes declinandolo sul tema delle sfide ambientali. I partecipanti si sono divisi in gruppi e hanno elaborato delle narrative a partire da come le driving forces e le discontinuità avrebbero potuto svilupparsi nei quattro scenari del modello. Ciascuno dei due gruppi di lavoro ha definito uno scenario per ciascuna delle quattro narrative, dando vita in totale agli otto scenari di seguito riportati. Narrativa Growth Scenario A La popolazione della Torino del 2030 è diminuita e invecchiata. La città è ancora alla ricerca di una sua identità produttiva che le consenta di rinnovare la sua tradizione industriale. L’orientamento al turismo e ai servizi non ha dato i risultati sperati. Una buona direzione potrebbe essere quella dello sviluppo della Città Universitaria ma si tratta di una vocazione ancora da consolidare. Una carenza di strategia ha determinato una crisi di allocazione delle risorse umane con conseguente diminuzione della ricchezza complessiva della città. C’è una maggiore attenzione al tema del verde, con aumento di spazi pubblici e un generale miglioramento della qualità della vita e della salute della popolazione. La mobilità è caratterizzata da un uso sempre più consistente del trasporto pubblico e delle forme di mobilità sostenibile. Le azioni orientate al miglioramento energetico degli edifici hanno contribuito a migliorare il bilancio della città ma c’è ancora molta strada da fare. Scenario B Nella Torino del 2030 i mezzi privati sono ancora utilizzati ma con moderazione e maggiore attenzione. Si sviluppa il car sharing e la mobilità dolce. Aumenta il lavoro nel settore agricolo e viene potenziata la tutela

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del territorio e dell’ambiente. C’è maggiore attenzione al tema della stagionalità in relazione ai consumi alimentari. L’attenzione alle questioni green è ancora concepita come mitigazione e compensazione ambientale, con un approccio ancora cauto e non strutturale. Per quanto riguarda la società c’è ancora un significativo disequilibrio non solo economico ma anche spaziale tra i cittadini che abitano nell’area metro-montana. I cittadini si spostano verso aree extraurbane con un impatto non sempre sostenibile sulle aree più fragili. Narrativa Collapse Scenario A Nella Torino del 2030 l’energia non è sufficiente per tutti e il passaggio alle rinnovabili non è bastato a evitare continui blackout che mettono in crisi il sistema produttivo e dei servizi. Il calo demografico ha raggiunto livelli tali che non è più possibile garantire i servizi di base e la città ha perso attrattività in relazione agli investimenti. Le inefficaci politiche messe in atto negli anni precedenti hanno lasciato un ambiente fortemente compromesso dal punto di vista dell’inquinamento. La salute dei cittadini e la vivibilità della città ne hanno pesantemente risentito. La popolazione però inizia a creare nuovi modelli di cooperazione per affrontare il post-crisi. Scenario B La mobilità basata sul trasporto pubblico e la mobilità dolce non riescono a diventare un’alternativa alla mobilità privata. L’acqua, sempre più scarsa a causa della riduzione delle piogge e dei lunghi periodi di siccità, diventa una risorsa preziosa. La scarsità dell’acqua crea gravi problemi all’agricoltura e genera veri e propri conflitti per il suo approvvigionamento. Si moltiplicano i disservizi della Società Metropolitana Acque Torino S.p.A. e l’acqua pubblica è sempre più inquinata. Il costo del cibo, legato alla sua produzione (nelle serre) e al suo trasporto (non si sviluppano filiere corte), è sempre più elevato. Si generano rivolte locali per cibo.

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La gestione del verde resta legata alla visione dell’adempimento normativo nella logica dello standard urbanistico e non genera trasformazioni significative. La disuguaglianza sociale aumenta, la società si frammenta (disuguaglianza economica e spaziale) e crescono i migranti climatici (sia per quanto riguarda la migrazione interna che quella esterna). Cresce il fenomeno dello spopolamento urbano della decrescita, anche a causa della situazione climatica, caratterizzata da estate invivibili e lunghi periodi di siccità. Narrativa Discipline Scenario A La città, a seguito di un calo demografico continuo, ha messo in atto politiche di accoglienza utili a favorire la residenza stanziale (ad esempio proponendo sgravi fiscali per i primi anni di residenza). La città ha varato un piano di edilizia e ristrutturazione urbana che prevede un nuovo piano casa tale da risolvere il problema abitativo anche per i cittadini economicamente svantaggiati. La città diventa autosufficiente dal punto di vista energetico e alimentare, grazie alla regolamentazione dell’equilibrio tra autoproduzione e collaborazione con altre realtà territoriali. Scenario B Nel 2030 Torino attua una trasformazione radicale della mobilità urbana, favorendo il car sharing e il trasporto pubblico. La mobilità privata si sposta progressivamente dall’elettrico all’idrogeno. L’Unione Europea vara tasse ambientali e limitazioni al trasporto di cibo, nella logica della valorizzazione delle produzioni locali. L’attenzione a tematiche ambientaliste diventa requisito imprescindibile all’interno dei protocolli strutturali, così come l’orientamento all’innovazione tecnologica. Scuola e formazione sono al centro di processi e azioni di integrazione sociale guidate dal valore dell’universalità e della condivisione della conoscenza.

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Narrativa Transformation Scenario A Nella Torino del 2030 la densità della popolazione è inferiore a quella attuale e ha determinato un miglioramento nell’uso dello spazio collettivo, garantendo equità nella fruizione e nella qualità degli spazi cittadini. Non c’è più distinzione, in termini di qualità della vita, tra periferie e centro). La guida autonoma ha avuto uno sviluppo enorme grazie alle nuove tecnologie e alle politiche produttive e commerciali. La macchina privata non è più utilizzata. Questo ha effettivamente trasformato il tessuto urbano, migliorando la qualità della vita. La produzione di cibo diventa quasi totalmente locale, poggiando su nuove ed efficaci tecnologie di coltivazione. La città è diventata quasi completamente autosufficiente dal punto di vista energetico e della produzione di cibo. Scenario B Nella Torino del 2030 la mobilità si sviluppa grazie al concetto di propulsione muscolare: il mezzo tecnologico diventa complementare all’apparato motorio umano, con notevoli ricadute positive sulla salute dei cittadini e sulla qualità dell’aria. Si sviluppano nuove e efficienti forme di gestione dell’acqua: dalla raccolta di acqua piovana per usi secondari, allo stoccaggio, al divieto per alcuni usi (ad esempio la produzione di neve artificiale, oppure l’uso a scopi di intrattenimento), allo sviluppo di irrigazione a goccia. Vengono rivalutate la stagionalità e le coltivazioni locali. Vengono istituzionalizzate pratiche come i Gruppi di Acquisto Solidale, i Gruppi di Acquisto Collettivo, gli orti urbani e l’acquisto diretto dai piccoli coltivatori con filiera super-corta (con la conseguente riduzione di imballaggi e stoccaggi). Il verde viene valorizzato come elemento di biodiversità, passando da spazio sottratto a spazio protagonista delle città. L’attenzione alla dimensione ecologista si sposa con un’innovazione tecnologica forte, applicata a temi trasformativi, come quello del depaving e del retrofitting.

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La visione di Torino 2030 è in piena sintonia con l’Agenda 2030 dell’ONU e i 17 obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs), proiettata verso uno scenario di compressione della povertà, tutela ambientale e benessere e prosperità per la società. Costruire oggi per Torino un futuro sostenibile e resiliente significa porre attenzione all’ambiente urbano, alle infrastrutture verdi e blu della città, ai luoghi di aggregazione, al commercio di prossimità, ai luoghi culturali, all’accessibilità e alle connessioni materiali e immateriali tra i quartieri; ridurre le disuguaglianze sociali, fare emergere e valorizzare le nuove identità territoriali e le vocazioni sulla base delle quali rigenerare l’apparato economico. Significa promuovere nuove attività produttive a basso impatto ambientale, affini ai paradigmi dell’economia circolare, anche attraverso gli incubatori di imprese, i centri di ricerca, nonché i nuovi poli di innovazione tecnologica. Una città che cura e promuove in equilibrio queste dimensioni è una città lungimirante, capace di pianificare e costruire il proprio futuro adattandosi alle sfide emergenti imprevedibili, perché in grado di sostenerle, rigenerarsi e ristabilire sempre un nuovo equilibrio. Il ciclo di incontri proposto “Torino 2030. A prova di futuro” ha fatto emergere le principali sfide a cui le città contemporanee sono sottoposte, mettendo in relazione i problemi, le opportunità e le potenziali soluzioni che possono essere adottate. La pandemia da Covid-19 ha svelato la reale fragilità del nostro sistema e oggi diventa occasione per riflettere sui modelli urbani da costruire in futuro per generare territori e società consapevolmente sostenibili e resilienti.

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9. Produzione culturale, performing arts & comunità artistiche legate ai beni culturali e alle risorse dell’area metropolitana Filippo Barbera e Patrizia Lombardi

L’industria culturale presenta un mercato del lavoro caratterizzato da forti elementi di precarietà e fragilità che la pandemia di Covid-19 ha ulteriormente aggravato. Questa condizione attiene sia i lavoratori dipendenti sia indipendenti, tanto che i governi europei hanno introdotto fondi di protezione ad hoc per sostenere attori, musicisti e altri lavoratori delle industrie culturali (“The Guardian”, 18/06/2020). Come noto, l’incertezza della condizione lavorativa (ri)produce e amplifica le disuguaglianze sociali pregresse: infatti, se l’incertezza colpisce oggi tutte le categorie sociali, si deve tenere presente che le risorse familiari e legate alla classe sociale si rivelano fondamentali per la costruzione di percorsi di carriera, in particolare in ambienti altamente competitivi e governati da logiche dove un gran numero di lavoratori/prodotti competono per un numero limitato di posizioni di alto livello. Nella sfera culturale, la “svalutazione del lavoro” assume conseguenze paradossali alla luce della loro centralità nella costruzione del “Progetto europeo”. Dal punto di vista dell’azione collettiva, gli operatori culturali hanno recentemente sperimentato varie forme di auto-organizzazione per far fronte all’erosione dei livelli di reddito e dei diritti. Le esperienze più strutturate hanno portato alla costituzione di società cooperative configurate come “Intermediari” (LMI - Labour Market Intermediaires) e a modelli organizzativi basati su una governance cooperativa delle piattaforme digitali (“cooperativismo su piattaforme”). Con l’obiettivo di: (a) dare sostenibilità economica ai progetti culturali (crowdfunding); (b) organizzare catene di approvvigionamento peer-to-peer; c) promuovere forme di protezione reciproca.

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Uno dei temi chiave è che, al fine di incoraggiare a somma positiva per i lavoratori delle industrie culturali, è necessario affrontare la questione di come viene prodotto e distribuito il valore, identificando spazi per l’azione trasformativa all’interno delle catene del valore e dei modelli di business prevalenti (come emerge dalla relazione della Commissione europea del 2017 “Mappatura delle catene del valore creative”). L’idea chiave è che le città, in quanto attori importanti dell’economia politica (Le Galès-Bagnasco, 2009), possano essere attori chiave nella regolamentazione della catena del valore delle industrie culturali. In particolare, le città possono: 1. supportare i processi di disintermediazione domanda-offerta attraverso varie leve: ad es. la gestione della “rendita urbana” (a questo proposito i casi di Berlino e Lipsia sono un esempio); 2. supportare una domanda di lavoro “qualificata” attraverso la scelta di settori strategici e modelli di sviluppo industriale: ad es. un orientamento delle industrie culturali verso un’economia della cultura basata su “grandi eventi” ha effetti diversi sul mercato del lavoro, rispetto alla scelta di favorire “ecosistemi” stabili e comunità professionali ben integrate con le catene di produzione di beni e servizi; 3. facilitare la realizzazione di un accordo formale tra i vari attori del sistema culturale cittadino (imprese, fondazioni, associazioni, sindacati, collettivi, comunità artistiche) teso a circoscrivere condizioni occupazionali ispirate a equità e sostenibilità, quando non sono presenti o sono migliorabili strumenti normativi più ordinari come la contrattazione collettiva nazionale o di secondo livello; 4. innescare processi di strutturazione e crescita delle esperienze di “disintermediazione cooperativa”, fisica e digitale, che si sono sviluppate principalmente nelle aree urbane. 5. Valorizzare la multifunzionalità dell’arte, la sua capacità di creare valore pubblico, rigenerazione urbana e integrazione sociale;

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6. Creare una città accogliente per le comunità artistiche e creative; garantire il “diritto alla città” dei lavoratori dei settori artistico-culturali. In questo contesto, le scelte strategiche nell’ambito della cosiddetta “agenda urbana” – intesa come percorso di sviluppo strategico della città – hanno effetti chiave sul mercato del lavoro, come suggeriscono recenti studi comparativi sul “nuovo municipalismo”. Questo è il momento giusto per sperimentare nuovi modelli di dialogo sociale a livello di città, in grado di includere nell’azione gli innovatori radicali e le nuove associazioni di advocacy. La pandemia ha attivato indirettamente una maggiore coesione tra gli operatori culturali. La drammatica crisi del settore ha mutato le forme dell’azione collettiva dei lavoratori culturali allentando i legami intra-categoriali, storicamente forti, e favorendo una rappresentazione unitaria e maggiormente efficace dei loro interessi. 9.1. Webinar Il primo passaggio che il progetto Torino 2030 ha attuato per la definizione di una visione sui temi della produzione culturale e delle comunità artistico è stata l’organizzazione di un webinar pubblico con esperti di cui si riportano gli esiti principali. Pierluigi Sacco - IULM Milano. Professore ordinario di Economia della Cultura presso lo IULM di Milano, si occupa di regimi di produzione culturale, partecipazione culturale, modelli organizzativi e di business per i settori culturali core e per le industrie culturali e creative, nuove forme di produzione e partecipazione digitale, politiche culturali, cultura e processi di sviluppo economico locale. Esperto di cultura e inclusione sociale, nei contesti urbani e rurali, con particolare attenzione ai temi dell’inclusione e al ruolo delle pratiche artistiche nello spazio pubblico. Collabora con istituzioni, amministrazioni e comunità locali italiane e internazionali sullo sviluppo locale basato sulla valorizzazione della cultura e l’industria creativa. È autore di numerose e influenti pubblicazioni.

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Paola Dubini - Università Bocconi di Milano. Professore Associato di Economia Aziendale. Si occupa di Modelli di business nelle filiere dell’informazione e della comunicazione. Economia delle imprese che operano nei settori artistici, culturali e del turismo. Attrattività e competitività dei territori. Imprenditorialità. Economia aziendale e Strategia di impresa. Direttrice del corso di laurea in Economia per le Arti, la Cultura e la Comunicazione, visiting professor in Models of organization of cultural institutions presso IMT Institute for Advanced Studies Lucca. Dal 2009 al 2013 Direttore di ASK (Art, Science e Knowledge), centro di ricerca su temi legati alla cultura e all’economia visiting scholar numerose istituzioni e Università estere. Michele Bonino - Politecnico di Torino. Docente di Composizione Architettonica e Urbana e Delegato del Rettore per le Relazioni con la Cina al Politecnico di Torino. È stato Visiting Professor alla Tsinghua University di Pechino e Visiting Scholar al Massachusetts Institute of Technology di Boston. È Curatore accademico della Bi-City Shenzhen Biennale of Urbanism/Architecture 2019. Per il Politecnico sta coordinando il progetto di ricerca “Transition towards Urban Sustainability through Socially Integrative Cities, in the EU and in China” (finanziamento Horizon 2020) e il progetto architettonico per il Visitor Center dei XXIV Giochi Invernali Olimpici di Pechino 2022, sito di Shougang. Alessandro Pontremoli - Università di Torino. Professore ordinario di Discipline dello spettacolo presso l’Università di Torino. Le sue ricerche in ambito storico e teorico vertono soprattutto sulle forme e le estetiche coreiche, in particolare dei secoli dal XV al XVIII e della contemporaneità, e sul teatro sociale e di comunità. Svolge un’intensa e continuativa attività di consulenza per istituzioni pubbliche e organizzazioni private ed è autore di numerose pubblicazioni di riferimento nel settore.

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Enrico Bertacchini - Università di Torino. Professore associato presso il Dipartimento di Scienze Economiche e Statistiche dell’Università di Torino. I suoi interessi di ricerca sono principalmente nell’economia culturale, con un’attenzione particolare alle questioni economiche pubbliche e politiche legate al settore culturale. Negli ultimi anni il suo lavoro ha affrontato le determinanti della fornitura e dell’organizzazione dei servizi culturali pubblici, il processo decisionale riguardante la selezione del patrimonio mondiale dell’UNESCO e il ruolo economico e la concentrazione geografica delle industrie culturali e creative. Pierluigi Sacco - IULM Milano La manutenzione ordinaria è poco funzionale, anzi dannosa, quando si parla di sviluppo e di politiche culturali. L’errore fondamentale da parte di molte istituzioni torinesi è stato quello di pensare, poco dopo il 2006, di aver ormai raggiunto l’obiettivo e di potersi limitare a difendere i risultati acquisiti – indubbiamente importanti – non considerando più una priorità il sostegno all’innovazione nella cultura. In realtà Torino è un laboratorio complesso che ha continuato a sperimentare e tracciare nuove strade, in parte grazie al sostegno delle fondazioni, in parte grazie a un tessuto di imprese e organizzazioni che è riuscito, pur tra mille difficoltà, a mantenersi vivace e innovativo: esempi evidenti sono le case del quartiere, progetti di rigenerazione urbana attraverso l’arte e la creatività (è il caso degli interventi promossi dall’associazione a.titolo) festival ed eventi che trasformano gli spazi urbani come ClubtoClub o Paratissima, teatri di comunità etc. Gli indirizzi politici assunti dall’Unione Europea per i prossimi anni sono molto promettenti perché sottolineano, per la prima volta in modo così perentorio, l’importanza della cultura non come «settore», ma come piattaforma trasversale capace di rispondere a bisogni sociali e ambientali diversi. Emerge dai documenti europei, come la nuova Agenda Europea, e il progetto «Bauhaus Europea» per sup-

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portare la transizione green, il pieno riconoscimento della capacità della cultura nel modificare i comportamenti delle persone, il loro stili di vita, i loro consumi. Rispetto a questi orientamenti di polices, Torino si trova in una posizione favorevole in quanto, negli ultimi anni, ha investito molto e diffusamente su alcuni ambiti che, l’Europa oggi riconosce strategici e meritevoli di sostegno economico. In primis il rapporto tra cultura e welfare, tematica in forte ascesa rispetto la quale Torino è oggi un punto di riferimento a livello internazionale. Per cogliere queste opportunità, tuttavia, non bastano interventi di aggiustamento e di manutenzione ordinaria, occorre spingere ancora di più la sperimentazione, investire nelle zone di frontiera, fare scelte coraggiose. Paola Dubini - Università Bocconi di Milano Torino merita una riflessione importante, non tanto per la sua indubbia rilevanza all’interno delle geografie culturali del paese, ma anche per la sua storia recente e per il modo in cui – all’interno delle geografie culturali nazionale – ma per la sua storia recente, per il modo con cui è riuscita a cambiare, a ripensarsi, a trasformarsi nel primo decennio di questo secolo. Questa è la percezione forte che si ha di Torino dall’esterno: una città che non è mai ferma, ambiente ideale per far crescere nuove idee e dare le gambe a intuizioni e visioni. Certo, il processo ora registra un generale rallentamento, ma il periodo non è certamente favorevole per nessuno, non solo a Torino. La crisi ha colpito duramente soprattutto quelle organizzazioni culturali che avevano basato la propria sostenibilità su approcci di natura imprenditoriale, quindi puntando sul mercato e sempre meno sul sostegno istituzionale. La pandemia ha fatto emergere con maggiore evidenza di prima alcuni nodi strutturali mai risolti come la fragilità economica e organizzativa delle organizzazioni culturali, la loro bassa patrimonializzazione, la mancanza di adeguati strumenti di rappresentanza politica ecc. Sostenere tale categoria di operatori, aiutarli a traghettarli oltre la crisi, riconoscendo la loro importanza

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per l’ecosistema urbano e per il ruolo multifunzionale dell’arte, non è però sufficiente. Occorre aiutare la loro transizione verso modelli e settori che potrebbero, nei prossimi anni, rivelarsi interessanti nicchie di mercato. Questo riguarda certamente l’ambito sanitario e del wellness culturale ma senza dimenticare la transizione digitale, oggetto di consistenti sostegni all’interno del prossimo Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza (PNRR). Non c’è, però, molto tempo: le risorse del PNRR dovranno essere impegnate nell’arco di due-tre anni, un periodo ridottissimo rispetto alle normali tempistiche di attuazione di policies su scala nazionale. Inoltre, molte risorse passeranno per le amministrazioni comunali che, quindi, devono assumersi un ruolo di indirizzo fondamentale, rappresentare la cinghia di trasmissione tra le istituzioni centrali dello Stato e il territorio metropolitano, non limitarsi a visioni di corto raggio. Michele Bonino - Politecnico di Torino Gli eventi culturali, in particolare le Biennali, stanno cambiando il loro ruolo rispetto alle città ospitanti. Da rassegne che presentano le innovazioni in un ambito creativo (ruolo oramai demandato ad altri media, come ambienti online e piattaforme digitali), diventano sempre più occasioni e strumenti di sperimentazione e di trasformazione delle città ospitanti. Strumenti estremamente più rapidi, snelli e sperimentali rispetto a quelli che tradizionalmente erano alla base delle azioni di trasformazione urbana, come i piani regolatori. Gli eventi culturali stanno incidendo non solo sugli aspetti inerenti alla trasformazione fisica della città ma anche su quelli che riguardano, ad esempio, il finanziamento degli interventi o i soggetti coinvolti. Esempi in tal senso sono la passerella permanente “Luchtsingel” (2012-2015) creata da ZUS in occasione della Biennale di Architettura di Rotterdam; l’opera “I Love Street” di MVRDV realizzata per la Biennale di Design di Gwanju (Corea del Sud) del 2019; l’opera “Flow Control” (2013) di Alejandro Zaerapolo; “Eyes of the City”, progetto di curatela di una delle

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due mostre principali ospitate dalla Biennale di Urbanistica e di Architettura di Shenzhen. Si tratta di interventi artistici e al contempo funzionali che hanno restituito- reinventandolo – un valore d’uso pubblico a porzioni di città e di infrastrutture urbane. Torino può ispirarsi a interventi trasformativi di questo tipo per affrontare le sfide del futuro e, in parte, ha già un proprio modello, come Luci d’Artista, che pur non avendo caratteri di permanenza, rappresenta una spinta alla reinterpretazione degli spazi pubblici. Luci d’Artista può diventare un elemento propulsivo per estendere l’indagine su aree della città che potrebbero beneficiare di interventi trasformativi art-based. Un secondo tipo di interventi che lega cultura e trasformazione urbana è rappresentata dalle azioni di rigenerazione effettuate per accogliere distretti creativi. Su questo fronte Torino è stato un modello per molti interventi, come quelli che caratterizzano le architetture delle industrie creative nella Cina contemporanea. Si tratta di interventi che trasformano in distretti artistici il tessuto originale delle industrie cinesi, in cui fabbrica, servizi e abitazioni erano tra loro in una relazione di prossimità. Un esempio è il PARC Pearl River, un parco culturale a Guangzhou realizzato dal Politecnico di Torino e dalla South China University of Technology (2017-2021) e che è stato promosso da un’industria di pianoforti che spostando la propria attività fuori città ha destinato a uso pubblico gli spazi precedentemente utilizzati per gli impianti produttivi. Interventi di questo tipo possono costituire laboratori per sperimentare nuove forme di dialogo tra componenti diverse del tessuto urbano, identificando percorsi di fruizioni integrati. Alessandro Pontremoli - Università di Torino Enrico Bertacchini - Università di Torino Torino si caratterizza per una lunga tradizione di studi e analisi dei fenomeni di trasformazione urbana e di innovazione sociale connessi alla valorizzazione del patrimonio culturale e delle attività artistiche. Si è sempre auto-analizzata, come dimostra l’attenzione rivolta ogni

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anno al Rapporto Rota o alle relazioni annuali dell’Osservatorio Culturale del Piemonte. Fortunatamente, passata la sbornia per modelli come quello della «città creativa», si sta imponendo anche nello studio dei fenomeni culturali un approccio di tipo ecosistemico, che pone al centro le interconnessioni tra produzione artistica e la dimensione individuale, sociale, ambientale, economica, urbanistica etc. La crisi aperta dalla pandemia mette in serio rischio la sopravvivenza di molte organizzazioni operanti nell’ambito delle performing arts, in particolare i teatri sociali o di comunità che rappresentano un vero e proprio «paradigma» basato sulla prossimità e la relazione, stimolo essenziale per nuove forme di cittadinanza attiva, di coesione sociale, di produzione simbolica, di costruzione di senso. Non si tratta di semplici «organizzazioni» o istituzioni ma di veri e propri strumenti di rigenerazione urbana, tanto più importanti in questo periodo di forzato distanziamento. Un indirizzo di politica culturale che non tenga conto di queste caratteristiche e del ruolo giocato da queste tipologie di soggetti concentrandosi esclusivamente sul pur importante sistema composto dalle istituzioni culturali, non è più’ percorribile. Ma non si tratta di una sfida banale: basti pensare alla difficoltà a costruire adeguati strumenti di supporto e di finanziamento. È molto importante che il disegno delle policies dei prossimi anni su Torino siano consapevoli che esistono almeno tre traiettorie, tre indirizzi per sostenere le organizzazioni culturali: quello relativo al contributo che tali soggetti possono fornire per il benessere del territorio e dei cittadini; quello che premia l’adozione di modelli imprenditoriali; quello, infine, che sostiene la produzione artistica, il suo contenuto innovativo etc. Si tratta di linee non necessariamente alternative ma neppure così facili da far coesistere. 8.2. Driving Forces e Discontinuità Il 23 marzo dalle 9.00 alle 13.00 si è tenuto il sesto workshop nell’ambito di “Torino 2030”, che ha avuto come tema la produzione culturale.

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La riflessione ha riguardato la produzione culturale a Torino nel 2030, esplorata attraverso uno sguardo prospettico su come i processi di produzione culturale potranno evolvere nel futuro. Sono stati al centro di questa riflessione la produzione culturale, la dimensione “professionale” della produzione culturale, il campo produttivo e gestionale dell’economia della cultura, l’interdipendenza con l’economia del turismo e con la filiera della formazione. Il tema è stato analizzato anche in relazione a quei processi che hanno a che fare con le pratiche di appropriazione e rielaborazione dei contenuti artistico-culturali, con i comportamenti legati alle nuove forme di consumo, con le forme emergenti di creazione ed espressione artistica. Infine, si sono esplorate le connessioni tra cultura e processi di rigenerazione urbana, in cui la cultura diventa elemento centrale dei processi di attribuzione di senso ai luoghi e agli spazi urbani. I temi sono stati affrontati dal panel attraverso una metodologia di scenario planning che ha consentito di esplorare possibili scenari relativi alla produzione culturale nella Torino del 2030. Di seguito si riassumono i principali esiti del laboratorio, divisi in due parti: 1) individuazione delle driving forces e discontinuità; 2) elaborazione delle narrative a sostegno di quattro differenti scenari. a. Driving Forces Sociological Le forze di cambiamento identificate per la Torino del 2030 offrono lo scorcio di una città caratterizzata da uno sviluppo urbanistico policentrico, in cui si generano però diseguaglianze sociali crescenti. Le driving forces delineano una tendenza di contrazione della socialità e alla maggiore sfiducia nei confronti delle relazioni interpersonali, specie da parte dei giovani. La contrazione riguarda in particolare la socialità offline, nel mondo fisico, e si declina in varie forme, dalla disabitudine alla convivenza e alla condivisione delle diversità, a una paura endemica del contatto, in una società che è sempre più multietnica, caratterizzata da forte diversità culturale, e anziana (in cui

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cresce l’esigenza di nuove forme di scambio intergenerazionale). Il corpo diventa sempre più marginale nelle relazioni sociali, che sono in gran parte digitalizzate. Anche il dialogo tra soggetti e istituzioni è mediatizzato, ovvero filtrato dalle tecnologie della comunicazione, ma al contempo disintermediato, quindi meno legato al ruolo politico e sociale dei corpi intermedi. La tendenza all’aumento della povertà, non solo economica ma anche educativa, potrebbe portare all’incremento del disagio psicologico e alla conseguente esigenza di ricollocare il tema del benessere sociale all’interno del dibattito pubblico. Technological Le driving forces individuate dai partecipanti nel dominio tecnologico invitano alla riflessione prospettica sul tema del digital divide e circa la diffusione delle competenze digitali. In una realtà in cui le tecnologie della comunicazione diventano essenziali per l’esercizio dei diritti di cittadinanza, una possibile diffusione non omogenea, o a diverse velocità, delle competenze digitali potrebbe amplificare disuguaglianze e conflitti sociali. La tendenza alla democratizzazione dell’accesso alle risorse tecnologiche potrebbe invece offrire l’opportunità per proseguire nella direzione della semplificazione nella gestione delle relazioni tra cittadini e istituzioni. Tuttavia, alcune delle forze di cambiamento evidenziate mettono in guardia circa la crescente necessità di gestire la velocità e la complessità: il sovraccarico informativo, la capacità critica di analizzare le informazioni, la velocità di creazione e di diffusione della conoscenza possono diventare fattori critici, sui quali intervenire in un mondo che vede una sempre più consistente diffusione dei sistemi di Intelligenza artificiale (che potrebbero trasformare ambiti prima toccati marginalmente dai sistemi di intelligenza digitale, come la dimensione affettiva e emotiva) e la pervasività dei Big Data. Una driving force complementare, individuata dai partecipanti, ha a che fare con la dipendenza dalle tecnologie che potrebbe essere aggravata dalla rimediazione digitale di alcune attività come gli spostamenti e i viaggi lavorativi.

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Economical In ambito economico i partecipanti evidenziano come principali driving forces alcune tendenze che potrebbero ridefinire in modo ampio il dominio della produzione culturale. Si potrebbe divaricare il consumo dell’offerta culturale, seguendo la polarizzazione economica e sociale, ma potrebbero anche nascere nuove forme di ibridazione tra settori potenzialmente complementari, come quello della cultura e della green economy, generando esperienze innovative di comunicazione, nonché di coinvolgimento e di partecipazione dei cittadini. L’utilizzo delle risorse economiche provenienti dal Recovery Fund e interventi di defiscalizzazione del settore culturale potrebbero aprire scenari complementari o alternativi: potrebbero aumentare significativamente, ad esempio, gli investimenti economici nel settore culturale, con il conseguente potenziamento di attività di formazione e counseling per la creazione e lo sviluppo di imprese culturali. Potrebbero essere potenziati gli interventi di sviluppo di tecnologie per la produzione e la fruizione di contenuti culturali, come la VR e la telepresenza. Potrebbero aprirsi nuovi mercati per la cultura, anche attraverso la sinergia con i settori dell’intrattenimento, del turismo. Ma permane il rischio che la produzione culturale venga trasformata dalla pervasività della gig economy, un modello economico basato sul lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo (tra opportunità creative e assenza di garanzie contrattuali e tutele). In un mondo dominato dalla gig economy il teatro genererà valore solo più attraverso la vendita di performance a domicilio? Environmental Per quanto riguarda l’ambiente, i partecipanti hanno identificato una serie di driving forces che consentono di immaginare due direzioni complementari di trasformazione della Torino 2030. Da una parte il decremento della popolazione che abita in città e un conseguente re-design degli spazi urbani: queste driving forces vanno

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dalla valorizzazione degli spazi comuni, all’incremento delle aree pedonali, fino al potenziamento del verde nelle aree pubbliche. Dall’altra lo sviluppo e la diffusione di una coscienza green, che muove dalle preoccupazioni delle fasce di popolazione più giovani per il cambiamento climatico, che si diffonde a tutta la società. La richiesta green della generazione Z potrebbe portare alla definitiva affermazione dell’economia circolare e della mobilità sostenibile. Torino, nel 2030, potrebbe essere il modello per le città eco-friendly e accessibili per tutti. Political In ambito politico le driving forces emerse delineano alcune traiettorie che stimolano la riflessione sulla produzione e sul consumo di cultura nella Torino del 2030. Una di queste è relativa al processo di rinnovamento della classe dirigente, una classe che risponda al crescente senso di sfiducia nei confronti della politica da parte delle nuove generazioni. Al contempo si potrebbe rinforzare la tendenza alla valorizzazione delle iniziative di prossimità, con l’incremento delle forme di partecipazione che partono dalle comunità di prossimità e dai quartieri. Questo fenomeno potrebbe accompagnarsi tanto a una accelerazione dell’offerta politica disintermediata, quanto a nuove forme di attivismo civico e civile. Le tecnologie potrebbero svolgere un ruolo sempre più centrale nei processi democratici. Potrebbero crescere le piattaforme digitali abilitanti alla base dei processi collettivi di innovazione sociale e per sistemi integrati di welfare culturale. Alcune forme di partecipazione, non allineate, potrebbero svilupparsi, quasi in forma resistenziale, fuori dalle piattaforme, dando vita a modelli di attivismo bottom-up in contesti borderline rispetto a quelli legali. L’internazionalizzazione della città è una driving force che, accompagnata all’attenzione delle politiche europee nei confronti dei giovani, potrebbe aprire scenari nuovi per la diplomazia culturale, con progetti di scambio e di comunicazione all’avanguardia.

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b. Discontinuità Sociological Tra le discontinuità sociali evidenziate dai partecipanti, emerge quella legata alla dimensione del cambiamento, un cambiamento sempre più veloce, la cui ulteriore accelerazione potrebbe determinare un’incapacità strutturale della società di elaborare strategie di adattamento. Questo potrebbe portare a scenari in cui i processi di cambiamento tecnologico, ambientale, culturale sfuggono alla capacità di gestione da parte delle istituzioni e dei decisori. In questo contesto, una discontinuità potrebbe essere rappresentata dal rinnovamento della classe dirigente, che potrebbe includere in misura sempre maggiore le donne e le fasce più giovani della popolazione (in un’Italia caratterizzata dal crollo delle nascite). Questo però potrebbe non essere sufficiente a prevenire la forte esplosione di conflitti intergenerazionali. Alcune discontinuità potrebbero cambiare in modo drammatico lo scenario della Torino del 2030, ad esempio la necessità di convivere con nuove pandemie o il collasso della rete informatica a causa di virus digitali, in una città fortemente digitalizzata. La riscoperta della socialità, della prossimità e di una partecipazione autentica potrebbe rappresentare una discontinuità forte rispetto alle esperienze del passato e potrebbe portare a una crescita delle relazioni di prossimità, alla diffusione di forme di co-gestione degli spazi pubblici grazie alla partecipazione attiva dei cittadini, all’implementazione di sistemi di credito sociale e di welfare diffuso, alla crescita delle modalità di cura e assistenza orizzontale, all’interno delle comunità e nella direzione di un modello sociale più orizzontale. Technological Nell’area tecnologica un forte elemento di discontinuità potrebbe essere rappresentato dall’innovazione dei sistemi di democrazia digitale e partecipativa, che porterebbe allo sviluppo e all’adozione di piattaforme con sistemi evoluti di intelligenza artificiale e di gestione

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dei dati. Questo scenario mette in evidenza altre potenziali discontinuità, legate ad esempio alla sorveglianza e alla privacy. Se la partecipazione implica l’identificazione e il tracciamento dei cittadini, il rischio della violazione della privacy di intere categorie sociali diventa un elemento di preoccupazione, così come i possibili conflitti attorno al possesso dei dati sensibili e/o che possono alimentare gli “algoritmi del consenso”. La tenuta della democrazia digitale dipende anche dalla gestione condivisa di discontinuità come l’ipersorveglianza, che potrebbe delineare scenari distopici e che potrebbe essere facilitata dall’adozione su ampia scala di tecnologie come quella del microchip sottocutaneo e dei software per la mappatura e il monitoraggio comportamentale. L’Intelligenza Artificiale può rappresentare una discontinuità in due direzioni diverse: si potrebbe sviluppare al di là delle aspettative imponendo un’accelerazione nella normazione anche di aspetti etici finora non considerati. Oppure potrebbe deludere le aspettative troppo elevate: il centro A.I. nazionale di Torino potrebbe chiudere e il know-how potrebbe essere riconvertito verso progetti orientati ad altre soluzioni tecnologiche, come l’integrazione uomo-macchina. La discontinuità rispetto ai trend tecnologici attuali potrebbe delineare scenari in cui l’uso del digitale è fortemente ridimensionato, a seguito della crisi dei social network (e delle forme e dei modelli di socialità che hanno incentivato) e dai continui crash di Internet dovuti a nuovi e potenti virus informatici che determinano vere e proprie pandemie digitali. Ma le discontinuità potrebbero anche riguardare l’incremento delle missioni spaziali, con ricadute tecnologiche di tali imprese spaziali in diversi comparti dell’economia civile. Economical Lo scenario economico in cui si colloca la Torino nel 2030 potrebbe essere plasmato da alcune grandi discontinuità. Una di queste ha a che fare con le grandi multinazionali della tecnologia e con il potere e la forza contrattuale che stanno acquisendo, anche nei confronti degli stati nazionali. Il potere delle grandi industrie

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tecnologiche potrebbero aprire scenari inediti di monopolio tecnologico legalizzato, ad esempio in relazione all’offerta globalizzata di servizi specifici. Una seconda grande discontinuità individua una strada diametralmente opposta: il ridimensionamento del potere delle multinazionali grazie agli interventi antimonopolistici dei governi nazionali e ad accordi internazionali, che creano il terreno fertile per la definitiva affermazione dell’impresa sociale. Si potrebbe arrivare a sperimentare su ampia scala modelli economici e di scambio alternativi, orientati non al profitto ma al benessere, in una logica di trasformazione e di rimediazione delle logiche dell’economia del baratto e della riduzione dei consumi. Una discontinuità che potrebbe influire su scenari economici alternativi è la maggiore disponibilità di denaro per la spesa pubblica e la creazione di forme di reddito minimo garantito. In tale scenario, una discontinuità potrebbe essere determinata dall’istituzione della settimana lavorativa di quattro giorni per tutti i lavoratori, in ogni settore. Oppure, in alternativa, uno scenario meno favorevole potrebbe essere determinato da discontinuità come il possibile dissesto finanziario del Comune e il collasso delle misure di welfare. A ciò potrebbe aggiungersi una crisi del sistema bancario-finanziario territoriale che determinerebbe il forte ridimensionamento dei fondi (in particolare per la cultura e la formazione) da parte della Compagnia di San Paolo e della Fondazione CRT. Environmental Le principali discontinuità individuate nel settore dell’ambiente identificano una serie di alternative. Un primo insieme di discontinuità è legato al clima: il superamento del punto di non ritorno potrebbe determinare un forte e rapido incremento delle catastrofi naturali. Una discontinuità potrebbe essere legata al forte cambiamento di rotta nella gestione dell’ambiente (supportata anche da movimenti civili che sollecitano azioni migliorative) con adozione di innovazioni tecnologiche capaci di incrementare l’efficienza energetica. Torino potreb-

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be diventare un modello di città ecosostenibile e green, grazie alla regolamentazione dell’accesso alle aree pubbliche, all’affermazione dell’economia circolare come modello dominante, allo sviluppo di comunità urbane di prossimità, a dimensione umana e sociale, con l’integrazione del verde in ogni spazio urbano. Un’ulteriore discontinuità potrebbe essere legata al ritorno all’energia nucleare. Oppure, in senso opposto, una discontinuità potrebbe essere legata al collasso del sistema, alla rottura dei protocolli diplomatici e alla gestione autarchica del problema ambientale. Questo scenario potrebbe generare ulteriori discontinuità, ad esempio Torino potrebbe trovarsi in una situazione di crescita drammatica della quantità di rifiuti e senza risorse per gestirla. Political I partecipanti hanno identificato una serie di discontinuità in ambito politico che vanno nella direzione di una progressiva disgregazione della Comunità Europea e, addirittura, di un’intensificazione dei conflitti tra i Paesi Europei. L’Italia potrebbe uscire dall’Europa, cancellare il progetto TAV e isolarsi in una prospettiva neofeudale. Una discontinuità potrebbe essere rappresentata dall’aumento delle spinte nazionalistiche e dall’affermazione di una forma di governo autoritaria. In contemporanea, fuori dai confini nazionali l’Africa potrebbe diventare un nuovo Big Player, mentre si potrebbe affermare il dominio economico, sull’Europa, dei Paesi ora in via di sviluppo. E della Cina, naturalmente. 9.3. Narrative Dopo aver identificato le possibili driving forces per Torino 2030, il tavolo di lavoro ha utilizzato il modello Four Archetypes declinandolo sul tema delle sfide della produzione culturale. Lo strumento del Four Archetypes permette di usare le driving forces e le discontinuità identificate in precedenza in quattro scenari predeterminati, archetipici, che sono: Growth, Collapse, Discipline, Transformation.

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Narrativa Growth Attraversando Torino vediamo le “Luci d’Artista” accese tutto l’anno in ogni angolo della città. Le aree verdi e le isole pedonali sono spazi culturali con programmazione di eventi all’aperto. I grandi teatri proseguono la loro attività mentre quelli piccoli si trasformano in centri culturali che erogano servizi e promuovono attività sociali. I grandi teatri sono aperti nel corso di tutta la giornata e sono ad accesso gratuito. I musei sono aperti tutte le sere, anch’essi a ingresso gratuito. Entrando nelle case si vedono grandi schermi ottimizzati per la fruizione di spettacoli, concerti e prodotti audiovisivi. Le piattaforme digitali online favoriscono la fruizione culturale, ma, al contempo, l’attività artistica è ritornata sistematicamente nella scuola, nei luoghi di cura, nelle RSA e nelle carceri. Torino è tornata a essere un “laboratorio” in cui l’arte e la creatività entrano dentro le zone di conflitto e disagio (recuperando e attualizzando le esperienze dell’animazione teatrale). Tuttavia, sebbene cresca l’offerta e si adottino politiche di audience development Torino presenta un panorama ancora fortemente differenziato dal punto di vista della domanda. In parte, gli investimenti compiuti hanno prodotto un “effetto San Matteo” facilitando ulteriormente il consumo di prodotti culturali a una nicchia di pubblico già “educato”, ma non riuscendo ad attirare giovani, migranti, disoccupati. Anche sul piano dell’offerta, pur in una generale crescita delle opportunità, si ravvisa un effetto San Matteo, perché a beneficiare maggiormente dei contributi sono i grandi musei, teatri, case editrici, club di musica dal vivo, e non i piccoli gruppi, associazioni, le scuole. Torino continua a essere una città metropolitana mediamente più colta di altre, ma con fette della popolazione sempre più ampie disinteressate o convinte che i fondi per la cultura siano uno spreco. Del resto, l’offerta maggiorata di servizi, ottenuta anche grazie alle risorse del Programma Nazionale di Ripresa e Resilienza, è stata prevalentemente investita nel digitale (ad esempio nel VR – Virtual Reality –, nella telepresenza) che in alcuni casi hanno sostituito il lavoro umano senza però aumentare produttività o creare nuove occasioni di lavoro più qua-

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lificato. Una delle cause della polarizzazione nell’accesso alla cultura è proprio la sua eccessiva enfasi per le tecnologie digitali che per gran parte della popolazione sono accessibili solo per una minima parte delle opportunità. Dopo la pandemia, infine, si è affermato un consumo culturale prevalentemente domestico, ritirato, rivolto al relax e all’intrattenimento piuttosto che all’approfondimento. Narrativa Collapse Attraversiamo la città, gli spazi culturali sono chiusi, al loro posto ci sono luoghi abbandonati, supermercati, attività commerciali e servizi senza alcun riferimento alla creatività, all’arte, alla produzione culturale. Lungo la strada ci sono enormi schermi su cui scorrono le immagini di contenuti culturali. Questa è l’unica forma di fruizione degli spettacoli che i cittadini hanno a disposizione, dal momento che tutti i luoghi della cultura sono chiusi o adibiti a nuove funzioni. La distribuzione delle opere culturali tramite schermi pubblici presuppone tuttavia l’imposizione di nuovi formati brevi, che richiedono la riedizione delle opere in versioni ridotte, adatte per una fruizione distratta. Lungo la strada incontriamo diversi performer che mettono in scena opere note e meno note, gli artisti oramai non hanno altra scelta che esibirsi per strada. Ma gli spettatori sono pochi, dal momento che la maggior parte delle persone privilegia oramai una fruizione mediale (tramite visori o schermi pubblici). In città si assiste a un aumento della povertà (economica ed educativa) e della diseguaglianza con un conseguente impoverimento della domanda, dell’offerta e del consumo di cultura. Nella società civile prevalgono l’apatia e il totale disinteresse nei confronti della produzione culturale, anche influenzata dal distanziamento sociale strutturale e permanente, che non consente la fruizione in spazi pubblici. I fondi per la cultura sono esauriti. Anche le fondazioni, oramai stremate da continue crisi economiche, devono vendere le proprie opere d’arte per cercare di recuperare liquidità. Gli enti culturali sono in costante conflitto tra loro per riuscire a garantirsi la sopravvivenza con le pochissime risorse ri-

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maste. Al Museo Egizio e si notano etichette “in vendita” sotto ciascuno dei reperti rimasti. Narrativa Discipline Nella Torino del 2030 l’utilizzo delle piattaforme online è disciplinato e si prevedono un numero massimo di ore a disposizione dei cittadini per fruire dei contenuti online. Molte delle attività quotidiane, legate alla sfera culturale, sono regolamentate. Dall’imposizione di una passeggiata quotidiana, al tempo riservato alla salute e alla socialità. Nel tentativo di tenere sotto controllo e arginare una deriva legata all’abbassamento del livello di partecipazione culturale, ogni cittadino deve dimostrare di aver fruito di eventi e beni culturali per un certo numero di ore nel corso dell’anno. È previsto anche un sistema di fidelizzazione (o raccolta punti) per prodotti culturali, con premi o abbassamento di oneri fiscali per i cittadini virtuosi. Il consumo culturale è tracciato e monitorato in tempo reale e sulla base dei propri consumi, i cittadini possono accedere a servizi e benefit. Il tema ambientale ha acquisito centralità nella produzione culturale anche per la capacità della stessa di generare storytelling e valorizzazioni utili a una conversione dei comportamenti sociali: la riduzione dei consumi energetici, idrici, una corretta gestione dei rifiuti, un ripensamento delle scelte alimentari, altri aspetti prima sostanzialmente ignorati da cinema, tv, teatro, musei, diventano oggetto di eventi, festival e iniziative. Per colmare, almeno in parte, il digital divide, è stata introdotta nelle misure di welfare locale una voce per le diseguaglianze digitali, con interventi di sostegno al reddito e altre forme di facilitazione nell’accesso a connettività, dispositivi mobili e PC da parte delle famiglie meno abbienti, degli anziani e dei disabili. Lo strapotere delle piattaforme digitali (da Amazon ad Air BnB) è stato in parte ponderato da iniziative promosse da reti collaborative tra pubblico e privato sia a livello locale che nazionale, interventi essenzialmente finanziati da misure redistributive tese a finanziare il nuovo welfare per la cultura.

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Tuttavia, la maggiore digitalizzazione che si è affermata attraverso un ruolo più forte da parte dello Stato e della dimensione pubblica nella gestione dei processi di diffusione delle tecnologie ha avuto anche un effetto “panoptico”, rafforzando la capacità di controllo da parte delle autorità. L’autorganizzazione, le occupazioni, e altre forme di mobilitazione dal basso, legate direttamente o indirettamente al mondo della produzione culturale, scontano una maggiore difficoltà a operare “nell’ombra”. Narrativa Transformation Nella Torino del 2030 c’è un nuovo modello di produzione e consumo culturale che è il risultato di una profonda trasformazione non solo dei contenuti della cultura ma anche dei luoghi della fruizione. La sperimentazione tecnologica e l’adozione di buone pratiche hanno consentito di integrare in modo sistematico l’innovazione nei servizi di offerta culturale. Dunque, l’innovazione nell’offerta dei servizi, come le forme di teatro a domicilio, si muove in parallelo rispetto all’innovazione dei contenuti, grazie al potenziamento delle performance attraverso tecnologie aumentate o di telepresenza. Viene sviluppato ulteriormente l’apparato per la fruizione a distanza di eventi culturali e emergono nuovi modelli di finanziamento (sempre più basati sulla co-creazione da parte di gruppi di affinità e di comunità di interesse che producono o finanziano i contenuti “dal basso”). Si sviluppano, a Torino, nuove realtà imprenditoriali composte da ragazze e ragazzi giovani che integrano l’innovazione di prodotto all’innovazione di processo, agendo su tecnologie e creatività. Nella Torino del 2030 la cultura è diventata un driver crossdisciplinare di costruzione di identità individuale e sociale. In questa Torino i depositari della creatività (gli artisti, i narratori, i ricercatori) diventano fondamentali in ogni ambito sociale, si favorisce il loro inserimento in tutti i tavoli decisionali. Gli artisti concorrono alla stesura di policies, non solo in ambito culturale, e alla governance delle istituzioni del territorio. Le imprese e le istituzioni saranno molto più sensibili nei confronti del tema del

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welfare culturale (istituzioni e imprese metteranno le persone e il loro benessere al centro del loro agire). Nel 2030 si riconosce alla finzionalità artistica una legittimazione nel suo ruolo dirompente per quanto riguarda le esperienze di coesione sociale e di sviluppo di soft skills. Nella Torino del 2030 il sistema universitario diventa un polo fondamentale per la produzione culturale, anche grazie al fatto che supererà la logica competitiva a favore di un approccio cooperativo. I due Atenei si fondono in un unico Polo potenziando la loro internazionalizzazione. Allo stesso tempo il polo universitario dialoga con le istituzioni del territorio nella progettazione della divulgazione scientifica e accademica, attraverso narrative e approcci creativi e artistici. Torino è un modello di welfare culturale evoluto: in città la cultura esce dagli spazi deputati e diventa pervasiva nelle dinamiche sociali, produttive ed educative. Torino è al centro di network internazionali che condividono il processo di trasformazione del settore della cultura e che usano l’arte e la creatività per affrontare problemi sociali di grande importanza, come la gestione delle malattie degenerative e croniche, nella consapevolezza che il benessere non è solo assenza di malattia ma spazio di supporto sociale e relazionale.

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10. Sei missioni “a prova di futuro”: verso Torino 2030 Filippo Barbera, Andrea Bocco, Antonio De Rossi, Marco Guerzoni, Patrizia Lombardi, Paolo Mellano, Alessandra Quarta, Giovanni Semi

Introduzione Una politica economica basata su Missioni (Mazzucato, 2021) si basa su sette principi-chiave. Il primo è quello di valore pubblico: la ricchezza materiale e civile di una collettività dipende da più dimensioni (economiche, ambientali, tecnologiche, civiche ecc.) e queste dimensioni a loro volta sono frutto dell’interazione tra più attori e istituzioni. La ricchezza non è mai frutto dell’azione eroica e isolata di un singolo: successi e fallimenti sono frutto di processi e dimensioni collettive, sia pubbliche che private. La seconda riguarda i mercati, che vanno concettualizzati come outcomes. L’attore pubblico non risolve solo o tanto i “fallimenti del mercato”, ma genera attivamente i mercati sia individuando mete generali auspicabili, sia promuovendo processi di creazione del valore non estrattivi, con modelli di business più inclusivi e che remunerano tutti gli “anelli” della catena del valore e non solo i più forti. Il terzo concerne la rilevanza dell’organizzazione e del cambiamento organizzativo: i prezzi e il mercato mandano segnali, ma non possono sostituire l’organizzazione e le sue capacità di coordinamento. Queste capacità vanno intese in senso “sperimentale”, come meccanismi di prova ed errore aperti e fallibili, che permettono l’apprendimento incrementale, in modo trasparente e rendicontabile a una pluralità di interessi interni ed esterni ai confini organizzativi. Il quarto è la finanza d’impatto e a lungo termine. Pensare per Missioni significa mettere gli strumenti finanziari al servizio di obiettivi collettivi, che rispondono alla domanda “cosa è necessario fare?” e disegnano di conseguenza

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strumenti finanziari capaci di sostenere i processi adatti per soddisfare obiettivi collettivi e di lungo termine. Il quinto riguarda la distribuzione dei frutti della crescita: non solo re-distribuzione attraverso la leva fiscale e il welfare, ma pre-distribuzione capace di intervenire a monte dei processi di formazione della ricchezza. Disegnando, per esempio, diversi diritti di uso e proprietà dei beni, modelli di “voice” sugli asset collettivi, titolarità dei poteri e accesso ai saperi e alle risorse produttive equo ed equilibrato, diffusa capacità di agire per realizzare liberamente piani di vita degni di valore come prerequisito della cittadinanza sociale. Il sesto è il ripensamento del valore della partnership: occorre passare da relazioni “parassitarie” – dove gli attori negoziano solo in base al proprio interesse di breve periodo – o “cosmetiche” – dove la relazione serve solo a legittimarsi agli occhi di potenziali finanziatori esterni – a relazioni “simbiotiche”, basate sul mutuo riconoscimento di obiettivi condivisi. Il settimo e ultimo riguarda l’abuso del concetto di partecipazione e la necessità di immaginare forme di partecipazione non solo cerimoniali o strumentali, ma capaci di incidere in modo strutturale sui processi decisionali pubblici. Va sottolineato come un approccio per Missioni richieda una Pubblica Amministrazione forte e dotata di risorse: economiche, umane, organizzative e tecnologiche. Una Missione trasversale a tutte quelle che saranno illustrate qui di seguito, quindi, è il rafforzamento della PA. Una seria riforma della Pubblica Amministrazione richiede un profondo ripensamento delle strutture organizzative, del sistema di incentivi e delle procedure. Tutto ciò è necessario ma niente affatto sufficiente. Deve assolutamente accompagnarsi a un assai consistente aumento di organico, ben al di là del turnover tra chi va in pensione e nuovi assunti (cfr. www.centrostudiargo.it). Fondamentale per l’attuazione di un approccio mission-oriented è la necessità di rinvigorire il rafforzamento delle capacità e delle competenze all’interno dello Stato in modo tale che le sue diverse organizzazioni possano svolgere efficacemente i loro ruoli nel coordinamento e nel fornire indicazioni agli attori privati durante e

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l’attuazione di politiche che affrontano le sfide della società (Mazzucato 2016, 7). Un’azione pubblica che definisce obiettivi collettivi e ambiziosi, all’altezza dei wicked problems, rifiutando l’idea che il pubblico stabilisce le regole del gioco, l’impresa gioca la partita e la società si esprime solo attraverso le preferenze del consumatore o il voto elettorale. Posizione, questa, che consente anche di rifiutare l’idea che il consenso politico e l’intervento amministrativo seguano strade distinte e separate o che l’uno possa riferirsi all’altro in modo del tutto strumentale. Nell’affrontare i wicked problems sulla strada del futuro, politica, mercato, società e amministrazione vincono o perdono insieme. La de-politicizzazione del futuro, il ridurlo a mera questione di “attivazione individuale”, non permette di affrontare questi aspetti in modo corretto. Come illustrato nel primo capitolo, l’azione pubblica deve a questo fine poggiare su una classe dirigente capace di abilitare processi decisionali eterarchici all’insegna del confronto, aperto, acceso e informato tra attori centrali e marginali, tra politiche sociali, dello sviluppo e industriali, tra luoghi e processi high-tech e low-tech, così come tra distinti livelli istituzionali e attori della rappresentanza politica e sociale. Un confronto politico il più possibile privo di zone d’ombra, automatismi e derive tecniciste. Per questa via, l’attore pubblico agisce come uno «spettatore equo e imparziale» con il compito di innescare il cambiamento endogeno: per farlo, questo attore dovrà promuovere spazi di deliberazione pubblica dove prendano forma il disegno di una visione, la formulazione di risultati attesi, l’individuazione di indicatori di risultato monitorabili, la costruzione di progetti funzionali al raggiungimento dei risultati attesi. Il soggetto pubblico dovrà avere capacità di spesa per finanziare i progetti, come esito del processo partecipativo/deliberativo, e avere potere di veto e di gatekeeping (Barca et al., 2018). Le Missioni qui di seguito descritte vanno quindi intese come corsie preferenziali per andare verso gli scenari auspicabili descritti nel capitolo precedente, così come strumenti per evitare gli scenari wicked. Vanno intese, dunque, come leve per costruire una città “a prova di futuro”.

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10.1. Asse 1. La riconversione Manifatturiera Il modello attuale di competizione globale premia la specializzazione ad alto contenuto di conoscenza. Una specializzazione di successo è un processo di trasformazione e ricombinazione delle competenze esistenti che permette alle imprese di un territorio di generare alto valore aggiunto e di essere competitive. È al contrario estremamente difficile che un’area riesca a riconvertirsi in nuovi settori, le cui competenze di riferimento sono lontane da quelle presenti. Due sono le aree di conoscenza da cui Torino può ripartire. Da una parte la tradizionale e, seppur in declino, ancora competitiva industria manifatturiera da riconvertire in chiave “green” e, dall’altra parte la nascente comunità legata alle tecnologie digitali spinta dagli Atenei della città e dalla presenza di alcune imprese. Se declinate insieme, queste due aree di competenze possono rappresentare un’opportunità per la trasformazione della città in un centro di manifattura avanzata caratterizzata da un alto impiego di robotica e intelligenza artificiale. I settori industriali che fin da subito possono essere coinvolti attivamente sono quello della produzione di macchine utensili, della componentistica automobilistica e, in prospettiva, quello biomedicale. Il Piemonte è all’avanguardia nel settore dei metalli, dei polimeri, della meccatronica e dei derivati dai bio-carburanti. Il ritorno alla manifattura non è anacronistico. Gli ultimi vent’anni hanno dimostrato che le regioni che hanno mantenuto una capacità manifatturiera si sono dimostrate più resilienti in termini di shock economici e occupazionali e hanno spesso diversificato la loro attività in servizi avanzati per la manifattura. Prova di questo è la crescente discussione, pur non ancora evidente nei dati, sul re-shoring, ovvero la tendenza di alcune imprese a ricollocare in Italia produzioni che in passato avvenivano in Europea dell’Est o nei paesi asiatici. Inoltre, la recente pandemia da COVID-19 ha dimostrato l’importanza strategica di una capacità manifatturiera in un mondo, la cui connessione logistica si è rivelata molto più fragile della narrativa dominante fino all’anno scorso.

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Infine, ma non meno importante, una riconversione industriale in questo preciso momento storico deve avvenire in chiave sostenibile, generando per la città due grandi vantaggi. Da un punto di vista industriale, lo sviluppo di competenze ecologiche rappresenta un ulteriore possibile vantaggio competitivo. Da un punto di vista ambientale, la ricerca della sostenibilità scorpora il rilancio industriale dal rischio ambientale a esso connesso. In nessun modo un rilancio industriale è quindi alternativo alla qualità dell’ambiente o ad altre vocazioni della città come quelle turistica. Tuttavia, raramente un territorio riesce a modificare in modo spontaneo la propria specializzazione poiché le competenze acquisite che ne hanno decretato il successo nel passato possono diventare ostacoli, rigidità e fonte di miopia nelle classi dirigenziali, imprenditoriali e politiche dell’ambito territoriale. Sono necessarie forti discontinuità e interventi pubblici per facilitare il coordinamento tra gli attori del sistema. Per rispondere a questa specifica sfida vengono individuate due Missioni. La prima Mission riguarda gli ingenti investimenti che servono per sostenere le imprese nella riconversione, le politiche di incentivo e per fornire loro le adeguate infrastrutture. Questa Mission riguarda in primo luogo decisioni di politica industriale, ovvero la scelta di settori prioritari nella distribuzione dei finanziamenti pubblici. Questa scelta avviene a livello di politiche nazionali e regionali e coinvolge le decisioni sulla spesa dei fondi strutturali regionali, nazionali ed europei. Ma anche a livello della città è possibile ri-orientare altri enti finanziatori semi-pubblici, come le Fondazioni, le cui strategie negli ultimi anni non sono state sempre lungimiranti. Tali risorse hanno tre obiettivi: 1. Esse sostengono le imprese in investimenti ingenti e

rischiosi il cui livello di incertezza non renderebbe possibile una ricerca di risorse sul mercato. 2. Fungono da meccanismo di coordinamento per in-

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centivare lo spostamento dell’attività di impresa verso ambiti specifici, in particolare l’adozione dell’automazione avanzata, l’integrazione hardware e software, la consapevole raccolta dati e il loro utilizzo in modo corretto e verso settori specifici come il biomedicale, la componentistica e la robotica. 3. Creano le infrastrutture necessarie per la riconversione industriale come, ad esempio, lo sviluppo di piattaforme di cloud per imprese pubbliche o almeno locali e lo sviluppo di appropriate tecnologie per la riconversione ecologica dell’intera filiera della produzione.

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La seconda Mission riguarda lo sviluppo delle competenze che devono accompagnare la riconversione industriale. Esistono tre modi per creare competenze: la formazione, l’attrazione da altri luoghi e la ritenzione di quelle presenti. La formazione deve avvenire attraverso la creazione di scuole specialistiche secondarie ma anche intensificando i rapporti di trasferimento tecnologico tra università e imprese. Le politiche educative nazionali in Italia hanno sacrificato l’istruzione secondaria tecnica, ma è possibile un suo rilancio a livello regionale. I trasferimenti tecnologici operati dalle università mal funzionano in quanto gli incentivi della ricerca e quelli dell’attività di impresa non sono sempre coincidenti. Al contrario, spesso funziona la creazione di istituzioni indipendenti per il trasferimento tecnologico. La conferma della crea-

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zione a Torino dell’Istituto Italiano per l’Intelligenza Artificiale sarebbe una buona notizia in questa direzione. Sul lato dell’attrazione dei cervelli, la città può fare molto sfruttando alcuni chiari vantaggi competitivi come il basso costo del mercato immobiliare, una buona qualità della vita e gli ingenti sgravi fiscali per i lavoratori che si trasferiscono dall’estero. È tuttavia necessario

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un piano di marketing territoriale per i cervelli e uno per il loro accoglimento. Le Mission e le azioni strategiche a esse collegate non sono il risultato di un mero piano dirigistico ma una loro precisa definizione deve avvenire con un coinvolgimento degli attori locali: formazione, enti di ricerca, reti e associazioni di piccole e grandi imprese, consumatori, fondazioni. Questo processo combina quindi una componente top-down di stimolo e di priorità con una bottom-up per la realizzazione delle azioni strategiche. 10.2. Asse 2. La Visione Metromontana Mission 1 La capacità della montagna di creare ricchezza richiede di affrancarsi dal dibattito che, per lungo tempo e in modi opposti, ha contrapposto una visione romantica della pura conservazione della montagna a una visione ludica, caratterizzata dal suo asservimento all’uso consumistico urbano, con il rischio finale di trasformare le aree montane in quel che viene provocatoriamente definito un “deserto verde”. Queste immagini rappresentano forme di appiattimento e di semplificazione che riducono in modo stereotipato la complessità dell’ambiente fisico e sociale della montagna, che potrebbe invece essere alla base di molteplici processi di creazione di ricchezza. Innanzitutto, ai tradizionali fattori di complessità di un ambiente mosaico di lingue e di popoli, vario nei panorami e nella biodiversità, si aggiungono oggi fattori emergenti di sviluppo che diventano sempre più visibili e che assumono nuovi significati nell’ambito delle profonde trasformazioni tecnologiche e culturali che caratterizzano le attuali tendenze. La riscoperta centralità delle risorse ambientali, le potenzialità delle tecnologie digitali e della connettività diffusa, gli orizzonti dell’economia circolare e dell’innovazione sociale, fanno emergere possibili traiettorie di evoluzione del rapporto tra persone e territorio montano del tutto inedite, collegate alla costruzione di imprese e comunità progressivamente capaci di adottare strategie cosiddette smart e green, specificamente innestate nei con-

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testi ad alta quota. Per esempio, la produzione di energia attraverso fonti rinnovabili come l’idroelettrico in piccola scala, le biomasse vegetali, l’eolico e il solare, unitamente ad un ripensamento del modo di estrazione, produzione e consumo delle risorse ambientali, possono rappresentare una leva cruciale per la creazione di ricchezza a livello di scala metromontana. Infatti, l’utilizzo delle fonti fossili prevede un sistema energetico organizzato su filiere molto lunghe in cui la produzione è centralizzata e l’estrazione è localizzata, generalmente a grande distanza dai luoghi di produzione e consumo. Le fonti rinnovabili, invece, presentano una diversa organizzazione territoriale, derivante dalla loro più marcata diffusione spaziale, che consente un utilizzo decentralizzato delle risorse sia nelle fasi di approvvigionamento e di produzione sia in quelle di distribuzione e consumo dell’energia. Un attento esame degli squilibri e degli scambi tra i territori montani e quelli di pianura, ad alta densità urbana, mostra come flussi e bilanci risultino ben più complessi di quanto si poteva derivare dalle immagini tradizionali della montagna come valvola di sfogo e luogo di loisir per il dinamico e produttivo territorio urbano. Anche in questo caso andrebbe superata una rappresentazione stereotipata della montagna economicamente dipendente e assistita, bacino di risorse da sfruttare a basso costo, immagine nostalgica di un mondo che non c’è più. Contabilizzando correttamente i servizi eco-sistemici e gli scambi tra risorse dei differenti territori in chiave di complementarità e reciproco vantaggio e sfruttando le potenzialità attuali di scelta nella localizzazione del lavoro subordinato e autonomo, sarebbe possibile sfumare i confini tra città e montagna e riconfigurare lo spazio all’interno di nuove geografie di significati. Sembra quindi necessario riconoscere, nelle esperienze dei territori montani, la contemporanea presenza di straordinarie risorse, ampiamente sottoutilizzate, soprattutto alla luce delle trasformazioni tecnologiche e culturali in corso, e di pervasive difficoltà nel loro utilizzo. Dalla valorizzazione delle filiere economiche metromontane “tradizionali” (per es. agricoltura contadina-grani tradizionali-mulini-panificazione; filie-

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re latte d’alpeggio-formaggio di qualità, carni all’erba) e “innovative” (servizi eco-sistemici, trasporto persone e logistica merci), al ruolo della domanda pubblica (appalti metromontani), alla creazione di servizi a sostegno dell’imprenditorialità (cfr. www.cittametropolitana. torino.it/speciali/2020/vivere_in_montagna), fino alla valorizzazione dell’enorme patrimonio immobiliare, sia privato che pubblico. Imprese, imprenditori, servizi innovativi, filiere metromontane, ibridazioni tra risorse locali

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e tecnologie, la montagna come bacino per la sperimentazione di innovazioni tecnologiche (es. geologia, sport), sociotecniche (es. comunità energetiche) e d’impresa (filiere tradizionali e innovative). Le vie per la creazione di ricchezza sono numerose e promettenti, posto che la città non guardi alla pianura come unica fonte per generare economia e benessere. Mission 2 Il contributo che le specificità ambientali, paesaggistiche e climatiche dei territori di montagna possono fornire ai percorsi di cura, supporto o riabilitazione sanitari, psicologici e sociali è noto da più di un secolo. Tale ruolo è evoluto insieme alle trasformazioni delle terre alte, passando dall’importanza di sanatori, stabilimenti termali ed elioterapici nella nascita del turismo alpino a partire dalla fine del XIX secolo, fino allo sviluppo di riflessioni e approcci più complessi e scientifici: montagna-terapia, wilderness therapy, green care e così via. Oggi il contributo della montagna all’offerta di servizi sanitari-terapeutici e di integrazione sociale si confronta con nuovi significati e nuove potenzialità legate a diverse sfide che caratterizzano il presente: i cambiamenti climatici; la fragilità mostrata dai sistemi urbani di fronte a eventi complessi come la pandemia di COVID-19; il ruolo attivo delle aree interne nel ricercare e percorrere nuove traiettorie di sviluppo locale; la costruzione di nuovi rapporti bidirezionali, complessi e meno sbilanciati tra città e montagna. In questo quadro, i servizi legati alla salute e all’integrazione sociale, possono essere interpretati e considerati come un vero e proprio servizio ecosistemico e sociale, che i territori di montagna offrono agli altri territori, oltre che ai propri abitanti, vecchi, nuovi e potenziali. La presenza di siffatte potenzialità, del resto, non da sola sufficiente ad attivare un vero e proprio sistema territoriale integrato. Occorre, a riguardo, un approccio Mission-oriented, che poggi sulla mobilitazione dell’ecosistema territoriale in modo trasversale all’azione pubblica e a quella privata. Si pensi, poi, all’innovazione dei modelli intervento a favore degli anziani – dal punto di vista organizzativo, tecnologico,

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della relazione tra soggetti pubblici e privati, delle forme di finanziamento, della promozione di strategie di solidarietà sostenibile – che valorizzino nel contempo il patrimonio edilizio delle aree montane. Le Terre Alte si sono dimostrate luoghi per la sperimentazione di modelli di accoglienza innovativa per migranti, in particolare se in possesso dello status di rifugiati. Gli argomenti a sostegno sono fondati: ripopolamento, abitazioni vuote e seconde case in quantità, minore costo della vita. Tali intenti daranno buoni frutti, però, solo se la strategia sarà condivisa con le esigenze chi abita e amministra la montagna. Delineando cioè un insieme di vincoli e opportunità ben calibrati rispetto agli interessi legittimi di cittadini e amministratori delle Terre Alte. Diversi casi di riattivazione di comunità in aree interne, montane e margine – come nel caso di Ostana in valle Po in Piemonte, o delle Cooperative di comunità dell’Appennino emiliano – dimostrano l’importanza di accompagnare i percorsi rigenerativi attraverso la costruzione di “luoghi”, di “fuochi” dove concentrare più attività di welfare, di servizio, di conoscenze ecc., capaci tramite la loro “massa” di innescare processi virtuosi e di sviluppo. Luoghi acceleratori della rigenerazione e della riattivazione che possono, e devono, prendere le mosse dal recupero di manufatti patrimoniali esistenti e in stato di abbandono e sottoutilizzo, ma già vocati in virtù delle loro caratteristiche morfologiche e tipologiche a usi collettivi e molteplici. Si tratta di potenziali spazi “scambiatori” tra montagna e città – in un’ottica davvero metromontana – che definiamo “case alpine del welfare”, dalle quali dare avvio a percorsi di riuso e di potenziamento delle risorse locali. Diventa allora importante provare a definire un prototipo e un modello fisico e gestionale, declinabile puntualmente rispetto le specifiche necessità di un luogo, e che in linea di principio potrebbe contenere al proprio interno, in quantità e modalità diverse a seconda del puntuale progetto locale, queste attività: • ristorazione; • piccolo commercio e promozione-vendita dei prodotti locali;

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• •

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ricettività turistica e scolastica (nuove «colonie» per ragazzi e giovani delle aree metropolitane, appartamenti per famiglie e anziani ecc.) eventuale residenzialità e cohousing (residenzialità temporanea, ad esempio, per ricercatori universitari; cohousing per i nuovi abitanti giovani delle aree montane); servizi di valenza pubblica (sportello Posta, ambulatorio medico e per infermiere di comunità, babyparking, infopoint turistico, uffici decentrati, ecc.) spazi per eventi e attività culturali, sociali, ricreative; spazi per la formazione (agricoltura, artigianato, servizi ecosistemici, filiera legno, mestieri di montagna), anche a servizio della ricettività turistica e scolastica (scambi scuola-lavoro);


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spazi per il coworking e per incubatori di nuove imprese; • piccoli spazi produttivi (trasformazione di prodotti, ecc.). •

Ciò richiede però di pensare alla politica per la montagna in modo sinergico e integrato con la politica per le aree urbane, appunto in chiave metromontana, in un quadro complessivo basato sui giochi a somma positiva tra aree, tra opportunità degli uni ed esigenze degli altri, tra problemi locali e questioni globali. 10.3. Asse 3. Infrastrutture sociali abilitanti La città di Torino e la sua vasta area metropolitana hanno vissuto una lunga transizione dal modello organizzativo industriale e fordista che così fortemente le avevano segnate. Questa transizione è stata pensata, coordinata e in parte realizzata in prospettiva terziaria, dell’economia della conoscenza e della cultura, spingendo per un’integrazione del Torinese in una rete di spazi economici che si erano nel frattempo realizzati nel resto d’Europa e del mondo occidentale. Si è trattato di una scommessa che ha portato alcuni frutti, ma che avendo incrociato due crisi molto dure, quella finanziaria del 2008 e quella attualmente in corso legata alla pandemia, rischia di lasciare il territorio piemontese nel mezzo di un guado rischioso. Gli indicatori disponibili raccontano di due elementi molto preoccupanti: il trend demografico negativo di nuovi nati e la scarsa attrattività di immigrazione (che sia extra-regionale o extra-comunitaria), rendono il Torinese sempre più anziano e ripiegato su sé stesso. Ci sono segnali contrastanti con questa tendenza, come la crescita della popolazione studentesca e il successo dei due Atenei, oppure la progressiva crescita delle coorti di seconda e terza generazione che si fanno strada nel sistema scolastico, produttivo e sociale. Partendo dal riconoscimento di queste dinamiche contrastanti e dal rischio concomitante, di soffocare le emersioni e gli arrivi all’interno di un quadro fortemente regressivo, i nostri suggerimenti vanno nella direzione

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di due Mission ancorate all’idea dell’urgenza di ricostruire infrastrutture fisiche, digitali e sociali. La prima di queste si coagula attorno a un perno di tipo politico. Come ricordato nell’Introduzione e come emerge regolarmente dal dibattito pubblico locale, Torino e la sua area metropolitana continuano a soffrire un meccanismo di governo fortemente elitario, con un numero relativamente ristretto di attori dotati di potere di indirizzo. Se in epoca fordista questi attori erano largamente plasmati dal sistema industriale e riproducevano il classico conflitto tra capitale e lavoro, dalla transizione in poi si è assistito a un temporaneo ritorno dell’attore pubblico associato all’emersione, prorompente e decisiva, di attori terzi, come le fondazioni bancarie. Il risultato è che il potere di agenda, cioè di dire cosa bisogna fare, come farlo e, soprattutto, cosa non fare, rimane saldamente in mano a un numero ristretto di decisori, a loro volta legati a un numero ridotto di reti sociali. Questa rarefazione dei reticoli decisionali impoverisce l’innovazione, riduce l’emersione di altri gruppi sociali, limita fortemente l’affermarsi di opzioni alternative. Per favorire un rimescolamento di carte, occorrono due movimenti redistributivi: uno verso il decentramento e la delega, con la responsabilizzazione e il trasferimento di poteri verso un numero maggiore di decisori locali anche attraverso meccanismi di spoil system, e uno verso l’inclusione di tutto quel fermento di attivismo locale che continua a essere uno degli elementi vitali della società torinese. L’inclusione delle istanze minoritarie, sia legate ai mondi produttivi che a quelli della cultura, della conoscenza e della politica, dovrebbe prendere la forma dell’ascolto e del feedback costante, dell’investimento duraturo attraverso la concessione di spazi e convenzioni, linee di credito, finanziamenti a fondo perduto, sostegni strutturali. Molte attività e attivismi sono necessariamente ‘fuori mercato’, se analizzati in termini di produzione di solo valore economico, ma hanno la capacità straordinaria di produrre capitale sociale, legame e innovazione che, a loro volta, sono alla base della creazione di valore economico.

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La seconda Mission parte dal riconoscimento che le fratture sociali ereditate dall’epoca industriale non si sono mai completamente sanate e che Torino e la sua area metropolitana ne ospitano ancora un singolare mix: di competenze tecniche svalutate (pensiamo al sistema diffuso e capillare di officine meccaniche, in epoca di transizione tecnologica rapidissima), grave e duratura disoccupazione giovanile e disuguaglianze sociali ereditate dal passato e riprodotte nel tempo. Anzi, queste ultime sono fortemente selettive nello sfavorire i figli delle on-

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date migratorie che si sono succedute dal secondo Dopoguerra. Il ruolo dell’attore pubblico è perciò decisivo e deve essere ricostituito a partire da una serie di azioni complementari ma ugualmente necessarie. La transizione digitale dovrà basarsi su cittadini consapevoli e attivi, su reti pubbliche dove i dati siano considerati un bene comune condiviso e aperto, con istituzioni pubbliche e private che mettono a sistema le proprie informazioni a favore dei cittadini e non delle reciproche rendite di posizione. Per favorire l’integrazione sociale di figli e nipoti delle grandi migrazioni e perequare le opportunità dei cit-

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tadini che abitano in quartieri e comuni diversi, occorrono infrastrutture fisiche, a partire dai trasporti e dalle dotazioni di servizi sociali e culturali. 10.4. Asse 4. Spazi (in) comune Una delle sfide più intriganti e potenzialmente più efficaci della Torino del 2030 sta nel ripensamento e nella successiva gestione virtuosa degli spazi pubblici, attraverso una nuova definizione del ruolo della Pubblica Amministrazione nel governo dei beni comuni. Ciò significa, a partire dalla individuazione degli spazi operabili (essenzialmente quelli abbandonati o senza identità), impostare una policy di riuso e rigenerazione coinvolgendo in primis le associazioni e i gruppi di interesse, e poi i singoli cittadini, in azioni di ri-semantizzazione dei luoghi attraverso la promozione di usi diversificati ma efficaci nella rivitalizzazione delle aree oggi dimenticate, escluse dalla vita pubblica. L’obiettivo generale, dunque, è la liberazione delle opportunità (represse), comprendendo tanto quelle in senso fisico-spaziale che le energie umane, sociali, culturali, economiche, creative che possono dare vita, senso e utilità a tali spazi. Nel 2016, la Città di Torino ha introdotto un nuovo Regolamento dedicato alla cura e alla gestione dei beni comuni urbani; il testo è stato sperimentato con il progetto Co-City, finanziato dal programma dell’Unione europea “Urban Innovative Action”. Nel 2019-2020, la Città di Torino ha approvato una nuova versione del Regolamento, facendo tesoro dei risultati della sperimentazione permessa da Co-City. In questo scenario, il governo dei beni comuni urbani nella Torino del 2030 deve tenere conto delle scelte amministrative e delle regole che sono state già introdotte e che devono essere proiettate in un arco temporale decennale. Vi sono delle esigenze che mantengono la loro attualità. In primo luogo, occorre continuare sulla strada della de-burocratizzazione e dell’alleggerimento del procedimento amministrativo, ripensando il ruolo della pub-

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blica amministrazione. È necessario che gli enti locali diventino delle piattaforme capaci di abilitare processi collaborativi e di co-progettare gli spazi insieme ai cittadini riuniti in gruppi formali e informali. In secondo

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luogo, le pratiche di rigenerazione di spazi abbandonati andrebbero estese anche a proprietà private, rispetto alle quali la pubblica amministrazione potrebbe comportarsi come un mediatore, raccogliendo le richieste provenienti dai cittadini e verificando le intenzioni dei proprietari. Nonostante il Regolamento dei beni comuni torinese preveda questa possibilità, manca un censimento degli spazi privati abbandonati, che sarebbe invece molto utile per raccogliere manifestazioni di interesse rispetto a questi beni. Nella Torino del 2030, le strategie di recupero degli spazi urbani dovranno progressivamente convergere verso un sistema integrato, capace di mettere in rete competenze di attori diversi. La formazione e l’accompagnamento degli enti del terzo settore e di gruppi informali di cittadini possono coinvolgere gli atenei cittadini, mentre la necessità di assicurare la sostenibilità di lungo periodo dei progetti di rigenerazione richiede il coinvolgimento di attori privati – fondazioni e soggetti for profit anche da coinvolgere in processi di sponsorizzazione. Da ultimo, l’introduzione di una disciplina specifica in materia di usi temporanei consentirebbe di allargare l’offerta di beni e di intervenire anche in aree della città che sono in attesa di una nuova destinazione. 10.5. Asse 5. Giustizia ambientale e intergenerazionale La sfida della Torino del 2030 è quella di raggiungere una adeguata giustizia ambientale e intergenerazionale, ossia assicurare alla propria comunità, urbana e metropolitana, presente e futura, il diritto di vivere in un ambiente pulito e salubre. Il concetto, si basa su due presupposti interconnessi: quello di un giusto rapporto fra l’uomo e la natura, e quello del diritto di accesso per tutte le persone al patrimonio naturale comune: all’acqua potabile, all’aria pulita, a un ambiente sano, a un territorio non inquinato. Per rispondere a questa sfida, è necessario realizzare un delicato processo di de-carbonizzazione che consenta di mantenere la bio-capacità del pianeta disponibile per le generazioni future. Si parla di debito ecologico

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oltre che economico. Inoltre, è ipotizzabile che anche Torino possa assumere il modello della città circolare come già è avvenuto per altre realtà europee, come Parigi, Londra, Bruxelles e Amsterdam (Ellen MacArthus Foundation 2019). Con riferimento alla prima Mission, l’attenzione è rivolta alla drastica limitazione delle emissioni di CO2 e degli altri gas climalteranti, che nei decenni passati sono stati prodotti senza controllo. Gli impegni presi con l’Accordo di Parigi (UNFCCC, 2015) identificano i target di riferimento. Sono necessari investimenti sia nella direzione di una maggiore produzione di energia da fonti rinnovabili, sia verso operazioni di contenimento dei consumi, agendo anche attraverso una maggiore efficienza ecologica del patrimonio edilizio, e la creazione di comunità energetiche di cittadini che partecipano attivamente alle diverse fasi del processo produttivo (da consumatori passivi a prosumer), contribuendo attivamente alla transizione energetica e promuovendo lo sviluppo delle fonti rinnovabili. Oggi l’autoconsumo può essere attuato anche in forma collettiva all’interno di condomini, mettendo in “comune” le utenze elettriche al fine di poter massimizzare i consumi dell’energia prodotta all’interno della comunità stessa. Ciò permette di diminuire i costi di trasporto e gli oneri di sistema, impegnando soltanto una parte della rete elettrica e riducendo l’energia persa per il trasporto negli elettrodotti. In connessione a questo tema, vi è poi quello legato alla sfida della mobilità sostenibile, che va dalla elettrificazione dei veicoli all’irrobustimento del sistema di trasporto pubblico locale, dall’incremento delle piste ciclabili all’incentivazione del car pooling e del car sharing, inclusi: una pianificazione integrata dei mezzi di trasporto, app e sistemi per l’infomobilità, politiche di pedaggi e tariffazione. Un’altra azione strategica è rappresentata dall’incremento e implementazione del sistema del verde (urban forestry) al fine di aumentare la percentuale di suolo permeabile e al tempo stesso mitigare, attraverso la fotosintesi, l’inquinamento urbano. Mediamente ogni anno

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foreste e alberi assorbono quasi il 40% delle emissioni di combustibili fossili prodotte dai sistemi urbani. I servizi ecosistemici prodotti dalle aree verdi sono variegati e comprendono un generalizzato miglioramento della qualità dell’aria (intercettando polveri e altri inquinanti atmosferici), regolazione del microclima urbano, contenimento dell’isola di calore in città, regolazione dei flussi idrici meteorici, fornitura di opportunità di svago/ricreazione, miglioramento della qualità della vita, conservazione della biodiversità, assorbimento di gas climalteranti e molto altro ancora. Con riferimento alla seconda Mission, l’attenzione è diretta alla perdita della biodiversità dei territori e a tutte quelle sostanze chimiche che a causa della loro accumulazione e smaltimento nel pianeta, provocano impatti negativi non solo sull’ambiente ma anche sulla salute. Il tema presenta ancora molte criticità e richiede specifiche rilevanti azioni di public awareness e tecnologie appropriate. Alcuni punti di attenzione sono il ciclo dei rifiuti, il sistema del cibo e l’impatto sulla biodiversità. Sono tutti problemi la cui soluzione non è delimitabile al solo ambito tecnico ma richiede un grande sforzo sul piano sociale e culturale. La Strategia europea per l’economia circolare prevede un ruolo fondamentale per le Pubbliche Amministrazioni nella promozione dell’eco-innovazione di prodotti e servizi e nell’incremento del riutilizzo dei materiali anche attraverso le pratiche di appalti verdi e acquisti verdi. Privilegiare l’acquisto di beni e servizi verdi costituisce uno stimolo per il mercato a investire nella ricerca e nell’innovazione tecnologica sui temi ambientali. Si innesca così un circolo virtuoso che porta a un miglioramento della qualità dei beni e dei servizi offerti dal mercato, alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica su tali tematiche, e, nel lungo periodo, a una attenzione maggiore anche da parte dei consumatori privati alla qualità dei prodotti acquistati sotto il profilo della sostenibilità ambientale degli stessi. Si mira, in altri termini, a favorire la diffusione di modelli virtuosi di consumo e di acquisto anche presso le aziende private e i singoli cittadini a par-

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tire dalla Pubblica amministrazione. Purtroppo, il nostro sistema di governance non sembra preparato ad affrontare le sfide della crisi ecologica, non è preparato ad agire nei tempi rapidi e con soluzioni radicali che il cambiamento climatico richiede. La crisi ecologica impone scelte chiare, concrete, lun-

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gimiranti, inequivocabili. Occorre una classe dirigente preparata e capace di prendere decisioni. Tra le azioni previste, vi è quindi, anche quella di costruire uno strumento interattivo di supporto alle decisioni in forma di piattaforma web/cruscotto diagnostico di cui dotare l’amministrazione che costituisca, da un lato, un ambiente di apprendimento e, dall’altro, un supporto decisionale alle azioni di policy locale di tipo partecipativo. La piattaforma, a base GIS (Geographical Information System), si potrebbe avvalere della strumentazione della Computer Mediated Communication (CMC)con l’obiettivo di produrre una nuova spazialità sociale e rafforzare i legami infra-comunitari e territoriali creando laboratori creativi digitalizzati. La piattaforma/cruscotto potrà costituire un prezioso strumento di carattere collaborativo e un’interfaccia tra livelli centrali di governo, comunità, e amministrazioni locali dell’area metropolitana grazie agli approcci innovativi che potrà contenere, in riferimento a buone pratiche territoriali e a soluzioni di policy orientate dalla dimensione pubblica e partecipativa dello sviluppo territoriale. Infine, va tenuto presente che l’impatto del cambiamento climatico non colpisce tutti allo stesso modo. I più poveri e i più deboli (anziani, bambini, malati) sono particolarmente esposti perché fanno fatica a proteggersi dalle conseguenze degli eventi atmosferici anomali e dalle malattie legate all’inquinamento. Serve una grande alleanza tra vecchie e nuove generazioni, perché qualsiasi cosa facciamo oggi determinerà il domani in modo irreversibile. Il cambiamento tecnologico va indirizzato verso obiettivi di giustizia ambientale e giustizia sociale, anche attraverso la leva del sistema delle imprese pubbliche e della terza missione delle Università. 10.6. Asse 6. Produzione culturale Le città possono svolgere un ruolo fondamentale per il supporto e la regolamentazione della produzione artistico-culturale. Le città possono promuovere, difendere o indebolire i diritti dei lavoratori delle filiere creative e promuovere modelli di business a valore diffuso per

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le industrie creative e culturali. La costruzione di strategie di nuovo municipalismo culturale e il dialogo sociale hanno un ruolo centrale in questo processo. In quest’ottica, le scelte regolative nell’ambito della c.d. “agenda urbana” – intesa come indirizzo di sviluppo strategico della città – hanno effetti decisivi sul “diritto alla città” dei lavoratori di queste filiere. Per esempio, un indirizzo delle filiere artistico-culturali verso una economia della cultura basata sui grandi eventi ha effetti diversi sul mercato del lavoro rispetto alla scelta di favorire “ecosistemi” stabili e comunità professionali ben integrate con

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le filiere produttive di beni e servizi. L’idea-forza è che le città, in quanto importanti attori della regolazione, possano agire per favorire processi di disintermediazione domanda-offerta attraverso varie leve di policy: e.g. la gestione della “rendita urbana” e “dei vuoti urbani”; per valorizzare la leva immobiliare favorendo l’insediamento delle comunità artistico-culturali; per garantire la fruizione dei beni e dei servizi fondamentali; per innescare processi di scaling delle esperienze di “disintermediazione cooperativa”, fisiche e digitali, che si sono sviluppate in ambito urbano. Anche a Torino, città fortemente creativa sul piano artistico e culturale, l’attuazione di una strategia specificamente rivolta alle impese culturali creative dovrebbe essere basata su una valutazione attenta della consistenza complessiva del settore economico della cultura, anche in relazione al patrimonio culturale immateriale, alle industrie culturali creative e alle produzioni artistiche e culturali, con numero di addetti, valore aggiunto, ecc. La catena del valore delle filiere creative presenta una “struttura a clessidra” se osservata dal punto di vista della numerosità degli attori: tanti produttori, molti consumatori e una strozzatura al centro creata dai distributori. Questa configurazione è correlata a un mercato del lavoro e/o a una struttura dell’offerta tipo “winners-take-all”: la produzione di beni/servizi/prestazioni nei settori analizzati è sovrabbondante, resa possibile anche dal basso costo marginale che le nuove tecnologie permettono a livello di riproduzione e distribuzione. Attraverso quale coordinamento le città e gli attori del dialogo sociale, a scala locale, possono promuovere forme di creazione e distribuzione del valore a favore del lavoro culturale? In che modo le forme di dialogo sociale a livello urbano possono favorire i processi di scaling delle comunità auto-organizzate sperimentate e sostenere le nuove forme di advocacy? Da una parte, le misure di supporto predisposte nella fase di lockdown dai governi nazionali a favore del lavoro indipendente (erogazione di bonus) hanno coinvolto nel raggio d’azione solo i freelance con una posizione

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attiva in una cassa previdenziale. Sono rimasti esclusi, quindi, molti collaboratori occasionali e i lavoratori con contratti che non richiedono il versamento di una quota contributiva da parte del committente, come alcuni contratti molto diffusi in ambito editoriale. Dall’altra, la protezione del lavoro dipendente spesso non è riuscita a dare copertura a varie forme contrattuali: contratti stagionali, tempo determinato sotto i sei mesi e lavoro a chiamata. A riguardo è significativo il caso di quelle categorie professionali che, pur impegnate in commesse di lavoro, sono risultate di fatto “inoccupate”. Questa situazione si è verificata per esempio nelle performing arts, dove i rapporti di lavoro di artisti e tecnici sono spesso attivati in occasione dell’esecuzione e/o della messa in scena e non comprendono le altre fasi del processo creativo: la formazione, le prove degli spettacoli e degli allestimenti, la scrittura ecc. Con le differenze derivanti dalla diversa struttura regolativa dei paesi membri, ciò ha reso visibile una “terra di mezzo” caratterizzata dall’esposizione individualizzata a rischi come: continuità del rapporto; stabilità economica; tutele di welfare. In varie città, compresa l’area torinese, la crisi innescata dal Covid19 sta favorendo l’aggregazione dei lavoratori culturali in network associativi di advocacy in tutto il mondo (Artnews websiste; CultureActionEurope). Questo è il momento opportuno per sperimentare nuovi modelli di dialogo sociale, atti a sostenere una domanda di lavoro “qualificata” attraverso le scelte dei settori strategici e del valore pubblico e multifunzionale dell’arte e della cultura. Anche in questo caso le città possono svolgere un ruolo centrale nell’attivare alleanze per un lavoro “equo” tramite un sistema di patti sociali che coinvolga tutti i soggetti impegnati nel mondo culturale: imprese, fondazioni, società cooperative di intermediazione, associazioni culturali, community artistiche, i soggetti del dialogo sociale (organizzazioni degli interessi, sindacati) e anche le nuove associazioni che, a livello di categoria e/o settore, svolgono attività di advocacy.

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Comitato scientifico

Filippo Barbera (Università di Torino, Dipartimento di Culture, Politica e Società): Professore ordinario di Sociologia economica e del Lavoro e fellow presso il Collegio Carlo Alberto (Torino). Si occupa di innovazione sociale, economia fondamentale e sviluppo delle aree marginali. Tra le sue recenti pubblicazioni, ricordiamo: Innovatori sociali, Bologna, Il Mulino, 2019 (con Tania Parisi) e The Foundational Economy and Citizenship (a cura di, con Ian Rees Jones, Policy Press, 2020). Andrea Bocco (Politecnico di Torino, Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio): Professore di Tecnologia dell’architettura. Insegna Appropriate technology and low-tech architecture. Si è occupato di rigenerazione urbana, sviluppo locale, community hub. Ha fondato e diretto l’Agenzia per lo Sviluppo Locale di San Salvario (Torino). Le sue pubblicazioni concernono Bernard Rudofsky, Yona Friedman, analisi dell’ambiente costruito, rigenerazione di villaggi montani, architettura contemporanea low-tech, costruzione con materiali naturali, impatto ambientale; la sua più recente monografia è Vegetarian Architecture. Case studies on building and nature, Berlin: Jovis, 2020. Antonio De Rossi (Politecnico di Torino, Dipartimento di Architettura e Design): Professore ordinario di progettazione architettonica e urbana. È stato vicedirettore dell’Urban Center Metropolitano di Torino dal 2005 al 2014. Si occupa di rigenerazione urbana e delle aree interne, e suoi progetti sono stati pubblicati su riviste e libri nazionali e internazionali. Nel 2018 ha curato il volume Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste (Donzelli).

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Marco Guerzoni (Università di Milano Bicocca, Dipartimento di Economia, Metodi Quantitativi e Strategie di Impresa), è professore associato di Economia Applicata e fellow fondatore di DESPINA - Big Data Lab. Si occupa di economia dell’innovazione e di politiche tecnologiche con particolare attenzione alla trasformazione digitale. Tre le sue recenti pubblicazioni ricordiamo: Big data: Hell or heaven? Digital platforms and market power in the data-driven economy, Competition and Change, 2019 (con Massimiliano Nuccio) e Start-ups survival through a crisis. Combining machine learning with econometrics, Economics of Innovation and New Technology, 2020 (con Massimiliano Nuccio e Consuelo Nava). Patrizia Lombardi (Politecnico di Torino, Dipartimento Interateneo di Scienze, Progetto e Politiche del Territorio): Professore ordinario di Valutazione economica dei progetti, è Rettore vicario e Presidente della Rete delle Università per lo Sviluppo Sostenibile. È membro di rilevanti comitati scientifici, tra cui CAESAR, SYDIC, Urban@IT, SIEV, IASS, Eurispes. Da oltre 25 anni svolge ricerca a livello europeo e internazionale nel campo della Transizione ecologica e dello sviluppo sostenibile dei territori. Ha coordinato numerosi progetti internazionali e pubblicato oltre 250 titoli scientifici sul tema. Paolo Mellano (Politecnico di Torino, Dipartimento di Architettura e Design): Professore ordinario di Composizione architettonica e urbana e dal 2015 direttore di Dipartimento. Si occupa prevalentemente di progettazione architettonica e del paesaggio, recupero e rigenerazione urbana, architettura alpina, campi nei quali è autore di oltre 200 pubblicazioni. Ha fondato, con Flavio Bruna, lo studio Bruna&Mellano Architetti Associati, attivo fino al 2010, partecipando a numerosi concorsi e premi di architettura, e ottenendo importanti riconoscimenti (fra i quali la menzione d’onore al “Premio di Architettura A. Palladio 1993” e il “Premio Giovani dell’Accademia di San Luca in Roma 1993”). Bruna & Mellano sono stati invitati a numerosi convegni, congressi e mostre nazionali e internazionali di Architettura (fra cui le Biennali di Venezia del 2002 e 2004).

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5. Costruire una visione Comitato metromontana scientifico

Alessandra Quarta (Università di Torino, Dipartimento di Giurisprudenza): Professoressa associata di diritto privato presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino e Affiliate del Collegio Carlo Alberto (Torino). Si occupa di diritto della proprietà, diritto dei contratti e diritto delle nuove tecnologie. È coordinatrice di un progetto europeo H2020 dedicato agli urban commons (gE.CO Living Lab). Tra le sue recenti pubblicazioni ricordiamo Mercati senza scambi. Le metamorfosi del contratto nel capitalismo della sorveglianza (Esi, 2020) e Diritto privato dei mercati digitali, con Guido Smorto (Le Monnier, 2020). Giovanni Semi (Università di Torino, Dipartimento di Culture, Politica e Società): Professore associato di Sociologia. I suoi temi di ricerca riguardano le trasformazioni urbane e le disuguaglianze sociali. Tra i suoi lavori più recenti: Casa dolce casa? Italia paese di proprietari (con Marianna Filandri e Manuela Olagnero), Il Mulino, 2020 e Torino. Un profilo etnografico (con Carlo Capello), Meltemi, 2019. Gruppo di lavoro Alberto Robiati, direzione del progetto: Direttore di Forwardto e coordinatore della Foresight Academy al Cottino Social Impact Campus. Esperto di innovazione e specializzato in Futures & Foresight. A Torino, cultore della materia al Dipartimento CPS all’Università e collaboratore alla didattica al Politecnico. Per vent’anni consulente e formatore su sviluppo strategico, empowerment, immaginazione e creatività applicata, processi trasformativi. Damiano Aliprandi, coordinamento webinars programme. Esperto di management del Terzo Settore, con particolare attenzione al settore culturale. Direttore dell’Area Ricerca e Consulenza di Fondazione Fitzcarraldo e imprenditore sociale, founder di PRS Paratissima. Irene Coletto, scenarios visual design, Visual designer, illustratrice e facilitatrice grafica, sviluppa contenuti visuali per campagne di comunicazione con aziende, agenzie ed enti pubblici. Specializzata in scribing e rielaborazione grafica di temi complessi.

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Stefano Colmo, coordinamento tavoli sugli scenari. Manager e consulente specializzato in fundraising, PR e networking. Ex Segretario generale della Fondazione Terra Madre e responsabile delle Relazioni Istituzionali di Slow Food. Manager nel terziario, si occupa di pianificazione strategica e stakeholders engagement. Alex Fergnani, consulenza scientifica foresight methods, Consulente scientifico di Forwardto. Dottorando in Managment & Organization alla Business School dell’Università di Singapore, specializzato in Futures & Foresight. Ricercatore su Corporate Foresight e futures methods. Autore per “World Futures Review”, “Harward Business Review”, “Futures” e altre riviste. Claudio Marciano, analisi degli scenari e coordinamento editoriale: Responsabile della ricerca in Forwardto. Assegnista post-doc all’Università di Torino e docente di sociologia e politiche per l’innovazione all’Università della Valle d’Aosta. Sociologo, esperto di innovazione sociale, Smart Cities, economia circolare, A.I., sviluppo locale, immaginazione civica. Domenico Morreale, scenarios storytelling. Ricercatore per Forwardto. PHD, ricercatore in Sociologia dei media all’Università Guglielmo Marconi e docente di Transmedia al Politecnico di Torino. Specializzato in media design e cultura partecipativa. Collabora con Indire per la ricerca sull’innovazione nella scuola. Azzurra Spirito, facilitazione foresight methods, Designer di processi collaborativi tra pubblico, privato e comunità. Esperta di facilitazione e specializzata in service design e futures methods. Lavora con imprese sociali e organizzazioni del terzo settore su progetti di innovazione e social impact.

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Bibliografia

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Ringraziamenti

Grazie ai rettori Stefano Geuna e Guido Saracco per aver creduto e sostenuto il progetto. Grazie ai relatori dei webinar per gli spunti e la disponibilità ad accettare la sfida di adottare uno sguardo prospettico e rivolto al futuro su temi complessi. Un ringraziamento speciale va ai partecipanti ai workshop che hanno consentito di individuare le traiettorie su cui impostare gli scenari per Torino 2030. In ordine di partecipazione e invito ai tavoli di lavoro: Reindustrializzazione Emilio Paolucci; Francesco Ramella; Tatiana Mazali, Francesco Quatraro; Roberto Di Monaco; Enrico Macii; Paolo Neirotti; Barbara Graffino; Vittorio Di Tomaso; Patrizia Ghiazza; Lorenza Morello; Nicoletta Marchiandi; Dyala D’Aveni; Giampaolo Vitali; Claudio Bedino; Alberto Tazzetti. Città Metromontana Federica Corrado; Loris Servillo; Nicola Russi, Giacomo Pettenati; Monica Gilli; Marco Giardino; Elena Di Bella; Paola Molino; Chiara Lucchini; Marco Allocco; Roberto Colombero; Egidio Dansero. Infrastrutture Sociali Carlo Salone; Viviana Patti; Pietro Cingolani; Francesco Vietti; Tizia Ciampolini; Alberto Carpaneto; Fabrizio Barbiero; Monica Postiglione; Davide Calonico; Daniele Belleri. Spazi (in) comune Guido Boella; Rocco Alessio Albanese; Sandro Busso; Manfredo Di Robilant; Silvia Aru; Janira Vassallo; Michele Cafarelli, Ilda Curti; Daniele Russolillo; Anna Prat; Paolo Di Napoli.

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Torino 2030

Ambiente Vito Frontuto; Alessandro Sciullo; Elena Fregonara; Ombretta Caldarice; Emanuela Barreri; Simone Mangili; Raphael Rossi; Elisa Gallo; Elisa Campra; Andrea Vico. Produzione Culturale Maria Paola Pierini; Sonia Bertolini; Giovanna Segre; Sara Monaci; Walter Rolfo; Emiliano Audisio; Enrico Gentina; Luisa Carnelli; Beatrice Sarosiek; Laura Milani.

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