Geologie Trasparenti: Opera Aperta per l'Arsenale Franz Josef I di Verona

Geologie Trasparenti: opera aperta per l’Arsenale Franz Josef I di Verona

Alberto Ghezzi y Alvarez

Geologie Trasparenti: opera aperta per l’Arsenale Franz Josef I di Verona

Tesi di Laurea Magistrale

Relatrice: Maria Grazia Eccheli

Sessione: Settembre 2020

Correlatrice: Caterina Lisini

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Indice

Prologo: Imago Urbis: Verona e la continuità tra i sedimenti

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L’Arsenale Franz Josef I nella piazzaforte di Verona Austriaca

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la città e le grandi realizzazioni militari

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1854-1861: Il racconto del progetto dell’Arsenale, dall’Entwurf Skizze alla fine dei lavori

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Severità pittoresca: considerazioni stilistiche sul manufatto

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Il declino dell'Arsenale

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1861-1866: Breve storia dell’Arsenale austriaco in funzione

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1866-1945: L’Arsenale nell’Italia postunitaria e fra le due guerre mondiali

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1945-1995: Dalla Campagnola a Borgo Trento: storia di un “assedio”

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Le premesse di una rinascita Abbandono e recupero tra storia e memoria

Geologie Trasparenti

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Approccio al progetto

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Le officine dell’arte

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Verona, città del teatro

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Sacellum: La nuova chiesa di San Francesco e la cappella feriale

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Bibliografia

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Imago Urbis

“S’ avvertono, a guidare e a indirizzare il comporsi dell’imago urbis di Verona — dal suo primo assetto romano riconoscibile alla crisi indotta dalle ragioni, secondo l’espressione di J. Musil, della seconda rivoluzione urbana —, la costanza e la coerenza della trama segreta, e però sicura, di un’intenzione univoca, pur nel rapporto stabilito col mutare, financo sovente tumultuoso, delle congiunture […]

Verona costituisce un campo singolare e privilegiato all’indagine storico-urbanistica, laddove la costruzione dell’identità s’accorda, e rispecchia, nella definizione e nell’incremento e nella custodia della forma. L’intuizione gramsciana di una «unità ideologica urbana», intesa ovviamente nella sua più articolata accezione dinamica e magari rivisitata alla luce del pensiero del Cattaneo onde la città è spazio costruito dal «filo ideale … delle istorie» (e, s’aggiunga, inevitabilmente, dall’autocoscienza delle istorie), alla sua volta incontra un’occasione propizia e stimolante di verifica.”

LIONELLO PUPPI, L’identità e la forma in Ritratto di Verona (1978)

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Verona e la continuità tra i sedimenti

Adagiato tra i colli prealpini e la pianura, cinta dalla stretta cintura d’acqua dell’Adige, quello che per molto tempo fu prima un guado di immensa importanza commerciale e poi incrocio delle prime strade che solcavano il nord Italia, si fece città, grazie alla groma degli ingegneri romani, che per primi tracciarono il suo ortogonale reticolo di strade. Questa origine, comune alla maggior parte delle colonie e poi municipia nei domini di Roma, è la cifra principale di una città che per molti secoli dalla sua fondazione, attraversando sconvolgimenti sociali, economici e urbanistici d’ogni sorta, non ha mai sublimato. I segni della Verona romana hanno rappresentato, anche in quei secoli in cui la coscienza antiquaria o archeologica non dava segni di particolare vigore, un punto fermo, una sorta di continuità formale, quasi al pari delle peculiarità contingenti del territorio veronese, forgiato dai milioni di anni che lo hanno trasformato da mare tropicale a cretto di bionda roccia scavata dalle imponenti morene dell’era glaciale.

Il carattere della forma di Verona, che pure condivide il suo passato con miriadi di centri urbani d’occidente, sembra essere fatalmente legato alla natura, seppur minimamente alterata, dell’ansa dell’Adige che ne chiude il nucleo più antico, e la straordinaria capacità degli antichi fondatori di sposare un così geometrico e unitario disegno nel paesaggio organico.

Non si dovrebbe tuttavia leggere questo carattere come un invito all’immobilità, in una sorta di racconto perfetto non più interpretabile.

La storia urbanistica di Verona è invece un corollario di differenti racconti, dialettici o più liberamente interpretativi, di come rapportarsi con la preesistenza, un libro di modernità successive in cui la continuità formale va intesa in astratto come una continuità della forma intesa come leggibilità, in cui le diverse trasformazioni hanno continuato a narrare

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la trama segreta delle diverse “istorie”. Forse la stessa leggibilità che rende Verona, nel suo organico disegno, vicina alla suggestione che Lynch ebbe nel descrivere il concetto di figurabilità: “Elevare la figurabilità dell’ambiente urbano significa facilitare la sua identificazione visiva e la sua strutturazione”. Una sintesi la cui definizione interessò tanto Scipione Maffei nelle intenzioni di redazione della Verona Illustrata.

Il tradimento di tale processo è avvenuto proprio quando si è tentato di cristallizzare tale sviluppo, di renderlo “presagio delle lacerazioni dell’identità e della forma emblematizzate dalla caduta e dal tumultuoso travalicamento delle mura; ch’è oggi, per l’appunto, con i suoi diritti, che sarebbero però rivendicazione e istituto del disordine e dello smarrimento, quando rinunciassero a fondarsi, alle condizioni ampie e nuove, sulla riprogettazione delle istorie”.

L’Ottocento, con le sue superficiali riproposizioni di caratteri veronesi e i suoi restauri imbalsamatori, ha consegnato l’immagine di una città in formalina che non è più tessitura di racconti, ma gloria di singoli monumenti, isolati dalla vita della città, balene spiaggiate nei lidi affollati dal nascente turismo di massa. Ed ecco che come accadde a Notre Dame, la Basilica di San Zeno viene isolata tramite un vasto piazzale dal Borgo omonimo che aveva contribuito a creare, nella silenziosa crescita altomedievale della comunità monastica. Ecco che i restauri di Piazza Erbe cancellano le sovrapposizioni di trame secolari per restituire ai palazzi del potere la veste di un medioevo mai esistito. Ed ecco l’invenzione della Casa e Tomba di Giulietta, preferenziale attrattiva scaligera per molti visitatori di ieri ed oggi.

Il progetto a Verona deve essere autenticamente moderno, come moderne per la loro epoca furono le sovrapposizioni a quella forma originaria e coerente, una modernità che sappia leggere il racconto di Verona, fatto di tre grandi aspetti della vita umana che tanto hanno plasmato le città d’Europa: la città militare, quella civile e quella religiosa.

La peculiarità veronese non sta tanto nel possedere vasti cataloghi storici di questi tre tipi di organizzazioni della cultura umana, bensì in come essi si siano influenzati, trasformati a vicenda e di come abbiano cambiato, in modo indicativo di come l’attività edificatoria possa influenzare le società umane o rappresentarne le evoluzioni in atto, l’immagine identitaria della città.

Le mura di Verona, dalla cinta romana di Gallieno alla cinta voluta dagli Scaligeri, hanno contribuito a formalizzare espansioni in atto, pur tradendo il disegno predeterminato dalla città romana, dando alla città un’altra forma, che tuttavia fu pur sempre leggibile. Forma diversa, dunque, che porterà il poeta Francesco Corna, immigrato nella città veneta da Soncino intorno alla metà del Quattrocento, a descrivere la città vista probabilmente dalla torre di Castelvecchio come “Aquila Gentile”.

Gli elementi lineari delle mura, del fiume con i suoi ponti e delle strade, e gli elementi puntuali delle grandi opere pubbliche e religiose, sono stati i pastori dello sviluppo di un tessuto continuamente teso tra la città e la campagna, il privato e il pubblico, il sacro ed il profano.

L’esempio esemplificativo, una sorta di sintesi architettonica di questo racconto può essere letto sul Colle San Pietro, il punto di origine di Verona, in cui si stanziarono probabilmente le prime popolazioni neolitiche.

In questo luogo, il monte che al tempo dei romani ospitava il teatro, e presentava tra la cornice dei ponti Pietra e Postumio la vera e propria scenae frons della città, si sono sovrapposte tutte le fasi storiche in un insieme ancora una volta figurabile e unitario, che neanche i restauri ottocenteschi per ricostruire la cavea del teatro antico sono riusciti a manomettere.

Tra cambi di potere politico, iniziative troncate e grandi slanci, Verona nella sua continuità urbana mostra un catalogo ancora di grande importanza di modi di raffrontarsi alle proprie preesistenze. Dal riempimento delle grandi opere della romanità nei secoli prima del Mille, alla riconfigurazione dello spazio pubblico di Piazza Erbe in età comunale fino all’innesto delle opere

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sanmicheliane nelle fabbriche militari e religiose del gotico veronese.

Innesti e riconfigurazioni che hanno sempre rispettato, quasi con un tacito accordo, la traccia di quel che prima esisteva, senza il timore di essere sfacciatamente moderni. L’opera scarpiana del Museo di Castelvecchio rappresenta l’apice di questa ricerca nel Novecento, un luogo in cui le anime della città si ritrovano, dove architettura civile e militare vibrano insieme nella sintesi moderna della poesia del racconto. Una lezione di un maestro del dopoguerra, che come Albini, Gardella, Samonà, Moretti, Nervi e molti altri hanno saputo cogliere il senso dell’intervento nella città storica come aggiunta di un capitolo delle “istorie” citate dal Cattaneo.

Castrum

Nella più antica rappresentazione di Verona a noi nota, l’Iconografia del vescovo Raterio (X secolo), l’immagine dell’unità urbana nei suoi elementi primari sopracitati (il fiume, le antichità romane e le mura) diviene una sovrapposizione per piani bidimensionali, aprospettica, una sintesi assoluta dell’identità precedentemente discussa. I recenti studi hanno cercato di comprendere se tale immagine sia la riproduzione di un’immagine antica della città, presente in qualche edificio pagano anche in forma di mosaico, oppure di una veduta idealizzata altomedievale realizzata per enfatizzare il richiamo delle origini romane attraverso la citazione dei monumenti antichi.

Quale che sia la verità, il fascino poetico di tale rappresentazione la rende assimilabile ad un panegirico, come testimoniano i versi riportati del Versus de Verona sullo stesso documento.

Spicca subito alla vista come la cornice figurativa e urbana di questa “sintesi” cartografica siano le mura, quella dell’antica cerchia romana (accorpate insieme sono probabilmente le varie fasi della stessa, dal periodo repubblicano alle mura di Gallieno che circondano l’anfiteatro) rappresen-

Alfred Guesdon, VERONE / vue prise au-dessus du Castel Vecchio, 1850 ca.

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tate in verde, e l’addizione teodoriciana in rosso.

La vicenda delle mura romane rispecchia in maniera lampante l’alternanza secolare tra periodi di immensa importanza bellica della città, e periodi di pace, in cui gli stessi elementi difensivi divengono semplici “atri” del centro urbano stesso. Le mura della fase municipale repubblicana, costruite in laterizio, al termine del perenne stato di allerta esteso idealmente fino alla prima età imperiale, perdono il loro connotato difensivo e vedono le prime “uscite” del tessuto abitativo dal rigoroso tracciato cardo-decumanico della colonia. Le porte urbiche divengono quinte sceniche, che al loro dorico e marziale rivestimento repubblicano vedono sovrapposto un retablo in pietra calcarea, fatto di eleganti colonne tortili e lesene. Entrando dalla via Postumia lo spettacolo di Porta Iovia (poi Borsari) e uscendo dal cardo sulla via Claudia Augusta Padana, la vista di Porta Leoni si trasmutano da presidi militari in overture o cadenze della sinfonia urbana.

I convulsi ultimi secoli dell’età antica vedono il necessario ripristino della funzione militare delle mura, con Gallieno prima, che per primo cinge la mole dell’Arena, e Teodorico poi, nella segnata e coerente volontà di una renovatio urbis. Il leggendario Dietrich von Bern, re germanico sì, ma per cultura e ambizioni amministrative latino fino al midollo, farà conoscere a Verona la sua ultima fase di splendore prima della relativa stagnazione edilizia durata fino al Mille.

La città, in contraddizione con chi parla di secoli oscuri, conobbe comunque una sostanziale espansione proprio in questo periodo, forse nell’abitare civile comunque esclusivamente legato ad un’edilizia povera, fatta di legno e paglia, ma pur sempre significativa in termini territoriali. Ed ecco che attraversate le fasi longobarda e carolingia, Verona tradisce la quadriglia romana, espandendosi a sud ed est. Ed ecco che puntualmente, nell’esplosione del Mille, la nascita della Verona comunale vede la circoscrizione di tale immagine apparentemente disordinata, con la costruzione di una nuova cinta di mura. Dopo la fase della dittatura di Ezzelino III da Romano,

Copia settecentesca dell’Iconografia Rateriana, fatta eseguire nel 1739 da Scipione Maffei sull’orginale conservato nel monastero di Lobbes in Belgio. E’ la più antica rappresentazione di Verona nota.

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I signori ospiti di Dante, per far fronte alla convulsa situazione di un’Italia divisa tra le lotte dei partiti Guelfi e Ghibellini, costruiscono l’ultima cinta in termini spaziali. L’immagine di Verona nel XIV secolo si cristallizza con la cinta voluta dagli Scaligeri, che muniscono la città anche di infrastrutture difensive come il castello di San Martino in Aquaro, meglio noto come Castelvecchio. Quest’ultimo, più che voluto per difendere la città da nemici esterni, fu costruito dai Signori per rifugiarsi dalle eventuali rivolte cittadine, e fuggire attraverso il magnifico ponte sull’Adige a nord, attraverso i ricchi seminativi della Campagnola.

A parte le modifiche minori volute dai Visconti (come la costruzione della Cittadella e del Castello di San Felice) il segno di Verona, ormai l’”Aquila Gentile” cantata dal poeta, è immagine chiusa, comprensibile. L’espansione a macchia d’olio, testimone del fermento dei secoli della Verona volgare, raggiunge la sua forma urbis autonoma. Le due fasi, Verona latina e volgare, si compenetrano organicamente in un tutt’uno sposato dall’immagine cristallina delle anse dell’Adige.

Alla fine del Quattrocento, l’elemento militare si fa più denso di significati.

La rivoluzione tecnologica data dalle armi da fuoco necessita l’appropriazione da parte della modernità rinascimentale del tracciato scaligero. Il cambio di potere, ora nelle salde mani di Venezia, porterà alla ridefinizione del grande valore strategico della città scaligera. Ed ecco che il connubio tra la naturalità delle rocce scavate del territorio veronese e l’arte della guerra si fa manifesto nelle infrastrutture della nuova cinta bastionata, gioco plastico di pieni e vuoti casamattati che conosce il suo capolavoro funzionale e spaziale nella Rondella delle Boccare. Un’altra acutissima sintesi, prima timidamente abbozzata dagli interventi veneziani in Porta San Giorgio e Porta Vescovo, è data dal genio di Michele Sanmicheli.

L’elemento della porta, come si è visto nel caso delle soglie romane, nei momenti di gloria cittadina diventa anche architettura civile, elemento plastico catalizzatore. Porta Nuova, Porta Palio e Porta San Zeno del San-

micheli sono proprio questo: edifici, muniti di un loro spazio interno e quindi architetture in toto, che richiamano la stessa tettonica e plasticità dei monumenti pubblici romani: Venezia è la nuova Roma, e Sanmicheli è il progettista della sua gloria civile, più che militare. Non la ricerca di un’immagine militare pittoresca, come quella che gli austriaci ricercheranno negli interventi dell’Arsenale o Castel San Pietro, ma la ricerca di una violenza scultorea, quasi michelangiolesca, così antididascalica da forgiare la sua anima su fabbriche civili e non militari.L’arrivo degli austriaci darà il suo contributo all’architettura militare veronese nella sovrapposizione sulla cinta magistrale, la stessa operazione dei Veneziani su Scaligeri e Visconti, e nella costruzione dei forti collinari, che rispondono alle esigenze contemporanee di un nuovo tipo di guerra, basato sul calcolo balistico a distanza, su quel territorio-fortezza che Napoleone Bonaparte a inizio XIX secolo aveva obbligato a istituire con le sue battaglie campali lontane da qualsiasi idea di assedio. L’Arsenale Franz Joseph I, oggetto del progetto ivi descritto, è per certi versi la negazione della sintesi sanmicheliana. L’abbandono di questo complesso, così felice nella sua posizione di intermezzo tra Castelvecchio e Borgo Trento, tra la forma della “città delle istorie” e l’informe dei quartieri speculativi del dopoguerra, è stata decretata dal suo essere, come si vedrà, progettato al di fuori di questa logica poetica di imago urbis. Una poetica che attende di penetrare al suo interno, come una linfa vitale, che sappia prendere dal formale e l’informale precedentemente descritti, i quali hanno in comune la qualità innegabile di essere riflesso della vita, di una collettività che attende di ottenere gli spazi di cui necessita.

Civitas

Anno 1604: l’Accademia Filarmonica, a pochi passi dall’anfiteatro Arena, commissiona all’architetto Domenico Curtoni il progetto della pro-

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pria sede. Egli fa erigere un grandioso pronao d’ingresso, riprendendo le misure e addirittura i resti delle basi del colonnato del Capitolium presente in epoca romana nell’area forense della città. Seppur diverso nell’ordine eseguito (ionico contro il tuscanico del tempio romano), il pronao si ispira alla sua controparte antica anche nella scelta di coprire i fusti d’intonaco. Circa un secolo dopo, su iniziativa dell’intellettuale illuminato e socio filarmonico Scipione Maffei, all’Accademia viene realizzato un teatro su progetto di Francesco Galli da Bibbiena, rappresentante della celebre stirpe di architetti della tipologia. Sempre il Maffei realizzerà, a guisa di atrio all’antica davanti al pronao del Curtoni, uno dei primi musei pubblici d’Europa, dove poter osservare una vasta collezione di epigrafi antiche. Il teatro, il pronao, il museo Lapidario divengono il primo complesso di una agognata renovatio che la Verona settecentesca, influenzata dal ribollire del pensiero europeo che porterà alla rivoluzione del sistema politico e sociale alla fine del secolo, auspicava da una città che iniziava anche nelle sue parti socialmente più minute, a voler iniziare un’avventura imprenditoriale, civica ed economica, che la portasse a pareggiare con i maggiori centri di cultura del continente. Il richiamo al passato classico della città, oltre che legato al dibattito architettonico e antiquario del tempo, era anche in funzione di una riscoperta di un senso collettivo della costruzione.

Piazza Erbe, da secoli centro del potere politico e commerciale della città, stava abdicando a favore della grande spianata a fianco dell’Arena, che ha il nome di piazza Bra. Gli intellettuali vedevano in questa sostanziale trasformazione in atto la possibilità di creare un nuovo polo di servizi moderni nel nuovo baricentro della città, tra l’antico tracciato del castrum romano e l’espansione culminante con la Porta Nuova del Sanmicheli. Un classicismo inteso non letteralmente (in senso filologico, sarebbe stato più sensato ritrasformare Piazza Erbe nell’antico Foro) ma come progetto per la nuova città civile. Così come il tessuto della città romana aveva come elementi catalizzatori i servizi dell’Anfiteatro, del Teatro e le sue terrazze su Colle

Saverio Avesani, Francesco Zucchi, Il Nuovo Teatro dell’Accademia Filarmonica di Verona, 1730 ca.

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San Pietro, delle ipotizzate Terme e degli edifici forensi, così il Maffei e coevi auspicavano la realizzazione di una Fiera commerciale presso il Campo Marzio (mai realizzata) e di una Dogana fluviale (progettata da Alessandro Pompei, realizzata nel 1746) che regolasse l’imponente tratta commerciale e manifatturiera che la Verona del tempo stava conquistando. La città da secoli dominata da padroni diversi stava prendendo il volo, non senza problematiche. La vicenda della nuova Dogana del Pompei, invisa a Venezia perché ritenuta “adatta ai commerci illegali” e costruita in tempo record e quasi a sua insaputa, dimostra quanto la città scaligera avesse sete di costruire una rete infrastrutturale che ne denunciasse lo spirito imprenditoriale e collettivo. La civitas veronese, il cui simbolo architettonico è il palazzo della Ragione, costruito in epoca comunale accorpando una torre privata (quella dei Lamberti), finiva con la Dogana il suo cammino di autodeterminazione, con la costruzione di edifici posti a beneficio della collettività, nei suoi aspetti imprenditoriali, di svago e di rappresentanza.

E se si scrosta la monumentalità romana degli edifici di spettacolo del loro carattere “coloniale” (che li rendono non dissimili dalla pletora di esempi coevi sparsi per l’Impero), si scorge come essi, nella loro immane presenza nel tessuto veronese, anche nei momenti in cui la loro origine era immaginata come intrisa di leggende, hanno dato al cittadino l’idea dello sforzo della collettività nel poter produrre tali opere, e ne hanno decretato la sopravvivenza, anche solo nella modalità di permanenza della forma.

Il sogno della Verona illuminata sarà spazzato via dal tumultuoso periodo napoleonico prima, e dalla scelta fortificatoria austriaca poi. Una trasformazione degli elementi utopici in eterotopici, dalla città dei condensatori sociali alla città delle zone vietate, circoscritte, inaccessibili ed aliene degli occupanti teutonici. A circa due secoli di distanza, lo stesso bisogno di elementi catalizzatori di cultura della collettività è ancora vivo e non ha purtroppo trovato riscontri, se non per sparute eccezioni, in quel racconto della città così necessario e tuttavia interrotto.

La dogana di Alessandro Pompei. Pianta e alzati

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Verona Minor Ierusalem

Mumford ha sintetizzato come l’esistenza monastica, invenzione del cristianesimo per allontanarsi dalla sete di gloria e onore del mondo classico, sia il senso primario delle trasformazioni nell’idea di città medievale. Per Bernardo di Chiaravalle nel XII secolo il chiostro era un avamposto della città celeste: egli arrivò addirittura a coniare l’espressione paradisus claustralis.

Il cristianesimo nell’Europa mediterranea non si allontanò mai completamente dalla classicità: le segrete tendenze pagane di questi popoli, tra cui le “Veneri bianche e nere del mondo romano si ripeterono nelle immagini bianche e nere della Madonna”, la traccia dei luoghi sacrali gentili non spense mai la propria aura. Come nel sito di Notre-Dame-Du Haut poi occupato dal magnum opus di Le Corbusier, che prima essere stata luogo di pellegrinaggio cristiano fu ara pagano, così nella Verona del IV o V secolo d.C. il Tempio di Iside e Serapide divenne sede di un altro culto orientale: quello di Cristo, e in particolare dedicato a uno dei suoi martiri seguaci: Santo Stefano.

La vera novità del cristianesimo in senso urbano non sta nell’aver definito nuovi luoghi del sacro, ma piuttosto di aver trasformato i luoghi della sofferenza e della vita povera in veri e propri catalizzatori di comunità.

Così nascono i grandi complessi monastici in tutta Europa, e a Verona, la basilica paleocristiana dedicata al suo vescovo e poi patrono San Zeno, diventa uno di questi complessi seminali nella crescita della città. Intorno a San Zeno si inizia, già prima del Mille, a formare un nuovo polo urbano, di grande importanza produttiva pur trovandosi al di fuori della cerchia muraria.

Dopo il terremoto del 1117, i cui effetti reali furono sicuramente esagerati dalle cronache, si ebbe una grande rinnovazione urbana. Le grandi chiese cittadine iniziarono ad essere ricostruite non più utilizzando le spoliazioni

Lunetta del protiro di San Zeno, con la benedizione da parte del Patrono dei milites e pedites

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degli edifici antichi, ma utilizzando le risorse litiche che i potenti vescovi e feudatari iniziarono a sfruttare proprio in questa fase. Verona conobbe la sua fase policroma, di laterizio e tufo, pietra di Prun e calcare, che ne ha definito l’aspetto nelle grandi fabbriche romaniche dell’età comunale.

L’effetto psicologico collettivo del terremoto fu enorme, se è vero che l’ordine esterno dell’Arena crollò in conseguenza di esso, lasciando il solitario diaframma dell’”Ala”. L’età antica era veramente terminata, le grandi fabbriche ecclesiastiche potevano finalmente confrontarsi con gli edifici dell’antichità veronese. Nell’età d’oro degli ordini mendicanti, che come in molte città italiane edificarono i loro tempi in maniera equidistante dal centro del potere civile, l’attività edilizia coincise con l’espansione scaligera, e con l’esplosione del gotico, nella sua versione veronese costruito con laterizio a vista. Se nella città comunale i campanili erano occultati dalle innumerevoli case-torri, nella fase scaligera potevano svettare in tutta la loro verticalità. E proprio in questa fase, la chiesa domenicana di Sant’Anastasia, dopo che l’antico ponte che permetteva alla via Postumia di attraversare l’Adige crollò nel mondo fisico e nella memoria degli abitanti, si stagliava con la sua imponente mole a “tappare” il decumano massimo, segnando il dominio plastico della cristianità sul tracciato romano, di cui sempre era, comunque, culturalmente debitore.

Nei secoli successivi le chiese veronesi conobbero innesti di grande impatto, come le numerose cappelle estradossate cilindriche che dal Cinquecento al Seicento hanno rappresentato delle addizioni volumetriche, quasi parassitarie, delle chiese medievali, e sulle quali spicca il capolavoro sanmicheliano della Cappella Pellegrini presso San Bernardino.

A testimonianza di come il racconto delle “istorie” ha proseguito il suo corso anche nell’edilizia religiosa, regalando innumerevoli improvvisazioni su una melodia precedente, in un gioco ritmico e volumetrico fatto di linguaggi e spazi dal significato sempre diverso, ma pervaso di una continuità anche nella radicalità dell’intervento.

Nel Novecento, i nuovi quartieri di espansione hanno ritentato l’utilizzo del complesso ecclesiastico come elemento catalizzatore della comunità.

A Verona Borgo Trento ha visto la fondazione della moderna chiesa di San Pietro, che tuttavia ha ritrattato spazialmente e matericamente gli esempi medievali, senza lanciarsi nelle sperimentazioni successive al Concilio Vaticano II, e senza mantenere quel senso di comunità che più che parrocchiale è conventuale. La stessa vibrazione sincera che emanano i muri della chiesa della Tourette, di Ronchamp, o di tutti quegli esempi che hanno tentato nella modernità secolarizzata e post-darwiniana di ritrovare un senso profondo della spiritualità umana nell’universo figurativo dell’astrazione e del messaggio originale della religione.

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L’Arsenale Franz Josef I nella piazzaforte di Verona Austriaca

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Rapporti paesistici tra l'Arsenale, le preesistenze architettoniche e gli interventi austriaci

1814-1866: La città e le grandi realizzazioni militari “18 maggio. Incomparabile Verona! Come ti ripaga della monotonia, delle persiane verdi, dell’oppressiva Firenze, e persino di Venezia, perché Venezia non è del tutto armoniosa; ma questa città è ricca di sentimento, perfetta in ogni sua parte, completa nel suo disegno generale1” Con questo entusiasmo un John Ruskin poco più che ventenne celebra nel suo diario di viaggio la città scaligera. L’anno è il 1841, e Verona, nella sua didattica stratificazione di testimonianze architettoniche, appare come un quadro di straordinaria bellezza agli occhi dei visitatori nel Gran Tour almeno dai tempi di Goethe.

Verona è per il visitatore colto una straordinaria occasione di osservare pregevoli esempi di architetture che, strato dopo strato, attraverso i secoli, hanno delineato una “geologia architettonica” di linguaggi, suggestioni, in un quadro unitario cinto dall’ansa dell’Adige. Quando Ruskin scrive, la presenza austriaca è in città da 27 anni. Molte delle grandi opere fortificatorie volute dalle autorità asburgiche sono già state completate, ciononostante l’attenzione del grande critico d’arte inglese si sofferma sull’immagine della città medievale, romantica e vagheggiata, in cui

1 MULLALY, TERENCE, Ruskin a Verona, Museo di Castelvecchio, Verona 1966, cit.

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“Le donne sono assai graziose, forse più nelle forme che nel volto, e solite indossare un velo nero come a Genova uno bianco […] le finestre hanno un particolare stile di intaglio, traforate, con un semiarco superiore ricco di irregolari decori floreali. Sulle facciate, così come risulta dai miei disegni, si scorgono numerosi affreschi carichi di toni verde e porpora2” Piuttosto significativo appare invece il malcontento degli intellettuali veronesi nei confronti delle vicende architettoniche della città, così come si erano delineate nella prima metà del secolo. Dietro al grande valore di Verona come città d’arte e di storia, si celava in quegli anni una stagnazione del dibattito architettonico “civile” (legato, prevalentemente alla cultura neoclassica), causato da un progressivo cambio di rotta dalla concezione illuminista di città come centro di servizi pubblici di pregio (come teatri, mercati, biblioteche) verso la più prosaica scelta fortificatoria dei dominatori austriaci.

Ne lamenta già Gaetano Pinali, figura di spicco nel panorama artistico e culturale del primo Ottocento veronese al Conte Bartolomeo Giuliari già nel novembre del 1832:

“Io mi tratterrei qui [a Milano] lungamente, e può pensare con quanta soddisfazione […] e parlando spesso della nostra sfortunata, e bella Verona […] come le nostre

2

ivi, cit.

pubbliche Municipali sieno così mal digerite, e come sia possibile ciò, mentre esiste in Verona un Conte Giuliari, valentissimo Architetto. […] Qui si fabbrica a rotta di collo, e più bene, che male, e si comincia a veder colonne sulle facciate, il che non era del genio de’ milanesi3” Il fulcro della questione, se scremata dall’indirizzo culturale del Pinali (così filofrancese da risultare inviso alle autorità austriache), è, oltre che legato alle “vicende negate, per ambiziosi programmi tenacemente tessuti e non pervenuti a compimento”4 , in riferimento, non troppo velato, alla questione della sistemazione di Piazza Bra a grande centro della vita culturale della città. La critica è rivolta anche ai progetti effettivamente realizzati in quegli anni, che portano nei casi più significativi la firma di Giuseppe Barbieri, architetto municipale inviso al Pinali, perché ritenuto troppo tecnico e accademico, lontano dalle discussioni “alte” che figure come lo stesso Pinali o il già citato Giuliari portavano avanti sulla forma della città moderna. Progetti vagheggiati come la costruzione del Cimitero Monumentale fuori porta Vittoria o la Gran Guardia Nuova (attuale Palazzo Barbieri, sede del Comune) vengono sì portati a termine, ma nei modi e termini “ben diversi da quelli da lui stesso auspicati”5 .

Il principale rammarico riportato da questo rappresentante del ceto col3 BCVr, Carteggio Giuliari, b.75, lettera del 20 novembre 1832, in SANDRINI, ARTURO, Il primo Ottocento: dal neoclassicismo ‘civile’ all’architettura della restaurazione, in BRUGNOLI, PIER PAOLO e SANDRINI, ARTURO, L’architettura a Verona dal periodo napoleonico all’età contemporanea, 1994 Banca Popolare di Verona, Verona 4 SANDRINI, ARTURO, Il primo Ottocento: dal neoclassicismo ‘civile’ all’architettura della restaurazione, in BRUGNOLI, PIER PAOLO e SANDRINI, ARTURO, L’architettura a Verona dal periodo napoleonico all’età contemporanea, 1994 Banca Popolare di Verona, Verona, p.1 5

ivi

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to della città è bene espresso dal continuo raffronto che egli effettua con Milano, ormai assunta capitale della scena neoclassica italiana. Il richiamo è anche alla lunga tradizione classicistico-rinascimentale della Verona di Sanmicheli, e più tardi, alla città come principale centro promotore del “buon gusto” nell’Europa dei Lumi, incarnato dalla figura di Scipione Maffei intorno alla metà del ‘700.

Esaminando effettivamente le opere realizzate in quegli anni, che di fatto ancora oggi rappresentano il volto della Verona ottocentesca, si coglie, al di là delle critiche di Pinali, una precisa dignità nell’ambito del neoclassicismo veneto nelle opere del Barbieri.

Tali opere ricevettero tuttavia apprezzamenti da organi di certa importanza, come l’Accademia di Belle Arti di Venezia, interpellata per esempio nel caso della realizzazione della Gran Guardia Nuova in Piazza Bra, e addirittura dell’Accademia Milanese, che lodò, nel 1834, il progetto del Cimitero Monumentale.

Come ha già evidenziato Arturo Sandrini, sarebbe tuttavia sottovalutante trascurare le critiche mosse dal Pinali, non solo per le relazioni anche prestigiose del personaggio (con, tra gli altri, Canova e Valadier), ma anche e soprattutto per un trend innegabilmente individuabile nelle vicende veronesi del tempo: un passaggio dalle utopie pubbliche della stagione illuminista/napoleonica del Regno d’Italia, alle eterotopie militari (e, in egual misura, di minuta edilizia privata) della stagione austriaca.

Lontani da dare, con atteggiamento anti-storiografico, un giudizio su questa trasformazione, è innegabile osservare questo tipo di mutamento culturale.

A partire dagli anni ’20 del XIX secolo, gli spazi di autonomia locale si riducono, in favore della più incombente e inevitabile esigenza di trasformare la città in fortezza.

Le idee di munire l’antica Verona di nuovi e necessari servizi (passaggi, teatri, atenei, coffeehouses, pinacoteche, terme, carceri, cimiteri, piazze,)

G. Barbieri, Iconografia del Campo Santo per la Regia Città di Verona, 1827

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rimarrà, anche a causa di una sostanziale disarticolazione delle proposte, il più delle volte, sulla carta.

Tra il 1812 e il 1819, ad esempio, l’episodio della sistemazione di Piazza Bra vedrà coinvolti tutti i maggiori operatori urbani, anche dilettanti, che proporranno diverse visioni, ad un certo punto anche aprendo la possibilità di un concorso pubblico, mai bandito. Pinali, ad esempio, propose la realizzazione di un Teatro diurno, in relazione plastica e volumetrica con l’Arena, mentre un altro architetto-intellettuale, Saverio della Rosa, proporrà una struttura coperta circolare dove alloggiare il “mercato dei grani” con rimandi alla Halle au Blés parigina di Nicolas Le Camus de Mézières.

Da questo ridotto campionario di progetti citati si incomincia a vedere la crisi progettuale denunciata da Pinali, in cui l’esito finale, ovvero il Palazzo della Gran Guardia Nuova, è una riduzione a “termini schematici e retorici di un palladianesimo dilatato e insieme frammentario, privo di particolari tensioni e svuotato di ogni implicazione sovrastrutturale e ideologica” 6.

La critica è anche legata alla sfera professionale. C’è forse la presa di coscienza che al posto degli “specialisti” del periodo napoleonico, durante la dominazione austriaca saranno utilizzati architetti e ingegneri municipali (se non, come si vedrà, ingegneri del genio militare), “puri tecnici preposti a rivestire contenitori di servizi pubblici secondo formule accademiche, ormai stereotipate e universalmente adottate” 7.

Al di là delle posizioni indubbiamente elitarie espresse da tali asserzioni, è innegabile che la cultura architettonica veronese, specialmente dopo il 1826, anno in cui la città diventa sede del comandante in capo delle forze armate del Lombardo-Veneto, viri verso una progressiva scelta militare, annullando, di fatto, le voci in capitolo degli architetti-intellettuali locali, spingendo per l’efficienza di una piazzaforte piuttosto che sull’interesse

6 ivi, p.4 7 ivi, p.5

S. Dalla Rosa, Progetto per una rotonda ad uso di mercato delle biade nella Piazza della Brà. Planimetria generale, incisione di G. Mazza, 1819

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“civile”. Ogni traccia dell’auspicata renovatio decantata sin dall’epoca del Maffei si deve piegare alla realtà di una città-piazzaforte, impossibilitata a conoscere esplosioni industriali ed espansioni del tessuto urbano.

Le dovute eccezioni sono rappresentate, ad esempio, da una rinnovata attenzione verso le antichità (lo “sgombero”, oggi probabilmente considerabile come discutibile, dell’area del Teatro Romano, piuttosto che gli sforzi mirati alla ricostruzione dell’Arco dei Gavi) e la necessità, da parte della cittadinanza veronese, di svaghi, costretti com’erano in una caserma urbana in perenne stato d’assedio con una guarnigione di quasi ottomila uomini. Tale necessità venne ben presto ovviata (almeno virtualmente) da un exploit di teatri, che da simboli di una società di massa in cui il contadino poteva sedere con il nobile o il funzionario, ad emblemi del “buon governo” dei dominatori. Il potere austriaco che pure esercitava, attraverso la polizia, un attento controllo sulla programmazione degli spettacoli. I teatri divennero nuovi spazi di aggregazione sociale, in contrapposizione alle nuove strutture militari. Oasi nel deserto della militarizzazione della città. Anche il nuovo Macello, voluto dal Comune per sostituire con un moderno impianto collegato al fiume in rispetto delle norme igieniche, venne realizzato in questi anni (1856), ma si trattò per sempre di un’opera meramente utilitaristica.

Sarebbe tuttavia fuorviante, come già ha indicato Arturo Sandrini, tracciare un quadro della cultura architettonica “prescindendo dall’analisi dei tumultuosi mutamenti politici, istituzionali, sociali ed economici”8, ma è tuttavia indicativo come a cavallo delle dominazioni napoleoniche e asburgiche, personaggi di rilievo lamentassero tale inasprimento di un dibattito così vivo nel secolo precedente.

Sugli anni della dominazione austriaca, come di qualsiasi fenomeno storico, è impossibile trarre un quadro unitario.

8

ivi, p.5

G.Pinali, Pianta della Piazza della Brà e degli edifici ivi esistenti e progettati

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La popolazione della città, prevalentemente legata al mondo contadino e alla nobiltà, vedeva in maniera tutto sommato positiva la protezione offerta dal cattolico e rassicurante Impero d’Austria, e la presenza quasi trascurabile di una borghesia imprenditoriale mancò di formare il consenso verso l’insurrezione nei confronti degli occupanti, cosa che invece avvenne a Milano9, città indubbiamente diversa sul piano sociale, che nell’episodio delle Cinque Giornate si dimostrò “città rivoluzionaria” al pari delle grandi capitali europee. Non mancarono certo soprusi e irrigidimenti, censura di attività sovversiva, e alcune importanti limitazioni economiche, anche sul piano urbano, per esempio nei confronti di privati cittadini che volessero edificare strutture industriali stabili, per timore che potessero oscurare il tiro dell’artiglieria10 . Verona divenne teatro dell’omonimo Congresso nel 1822 che vide riuniti nella città scaligera imperatori e re di tutta Europa, con lo scopo dichiarato di:

“Resistere alla rivoluzione, prevenire i disordini, i delitti, le innumerevoli calamità che essa chiamava sull’intera Italia; ristabilirvi l’ordine e la pace; somministrare ai governi legittimi l’appoggio che erano in diritto di reclamare; tale è stato l’unico oggetto de’ pensieri e degli sforzi de’ Monarchi11” La complessa situazione politica d’Europa, in cui la Restaurazione tentava di ribadire il potere temporale prerivoluzionario (e prenapoleonico),

9 ma anche Brescia e Venezia, nel 1849 10 cfr. JACOBACCI, VITTORIO, La piazzaforte di Verona sotto la dominazione austriaca 1814-1866, 1994, Banca Popolare di Verona, Verona, p.177 11 cit. dal documento finale del Congresso, in LAITA, PIER LUIGI, Il Congresso di Verona (1822), Verona, 1850

conobbe numerose situazioni di stallo con i moti del 1822 e del 1848, quando alcuni sovrani iniziarono a concedere delle Costituzioni, su pressioni dei popoli insorti (e per timore di scoppi di vere rivoluzioni violente).

L’impero austriaco era allora il garante della presenza del potere sacro e secolare della “croce e della spada”, ostile a qualsiasi riforma, nonostante in quegli anni tra tutti i popoli dell’Impero iniziarono a sbocciare i fiori della rivolta.

Verona, forse per le ragioni sociali ed economiche precedentemente discusse, non ha mai dimostrato un vivo interesse collettivo per le cause rivoluzionarie. Basti pensare che è testimonianza degli ufficiali piemontesi durante la Prima Guerra d’Indipendenza come i contadini lombardi, al loro passaggio, vedessero questi come dei liberatori, mentre, appena entrati nel territorio veronese e mantovano, fossero “più inclini verso il tedesco, che ha sempre cercato di favoreggiarli”12 .

Pur peccando di semplificazione, e trascurando illustri eccezioni, si può affermare con una certa sicurezza che Verona fosse una città reazionaria, pur essendo punto di riferimento per illustri uomini di cultura di tutta Europa, arroccata su una posizione “difensiva” nei confronti degli sconvolgimenti in ogni campo. Tratto che, a opinione di chi scrive, ha condizionato l’humus culturale della città anche nei secoli successivi. È evidente che in un clima così favorevole e congeniale, unito alla posizione territoriale, fosse un’occasione facilmente sfruttabile dall’autorità Imperiale per una trasformazione in chiave militare della città.

La posizione strategica di Verona, come perno tra i quattro punti cardinali d’Europa, è stata sfruttata sin dalla fondazione, conoscendo varie fasi fortificatorie testimoniate dalle cinte murarie ancora osservabili. Verona ha in sé un lungo passato militare, protrattosi, in modalità differenti, ad-

12 dalle lettere del generale piemontese Eusebio Bava, citate da BARBERO, ALESSANDRO nella conferenza Lo spazio della guerra. La prima guerra di Indipendenza, Festival della Mente, Sarzana, 2016

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dirittura sino alla Guerra Fredda.

Dopo l’anno 1830 rinnovate tensioni tra il regno di Francia e l’Impero asburgico si diffondono in Europa.

Gli esperti militari austriaci consideravano decisiva l’azione strategica nel campo di guerra meridionale, “classico scacchiere dei conflitti tra Francia e Stati tedeschi”13 . Questo teatro di guerra, solcato dalle linee fluviali del Mincio e dell’Adige, come già evidenziato dalle campagne napoleoniche, doveva essere bilanciato con il fronte del Reno e del Danubio.

Seppur non interessato ancora direttamente agli scontri veri e propri, il territorio tra Lombardia e Veneto viene ben presto dotato di tutte le necessità fortificatorie in preparazione al potenziale conflitto.

Il rinnovamento della cinta muraria

La nefasta distruzione delle architetture bastionate Sanmicheliane a opera delle armate napoleoniche (1801-1802), aveva causato insicurezza e ostilità da parte della popolazione, anche perché rappresentavano, oltre a opere di indiscusso valore architettonico, la più viva testimonianza della sospirata Repubblica Veneta.

Dopo il 1833 l’effetto di tale distruzione si traduce nel progressivo irradiarsi delle difese permanenti della città alla costruzione di una costellazione di forti esterni, come indicava la teoria dei campi trincerati della Scuola fortificatoria neotedesca.

Dopo il 1850 Verona diviene la principale piazzaforte asburgica in Italia, il centro vitale di quel sistema difensivo costituito da 4 città fortificate a difesa del Lombardo-Veneto: Verona, Mantova, Legnago e Peschiera, il cosiddetto Quadrilatero (Festungsviereck), in cui le città non sono più consid-

13 AA.VV., a cura di BOZZETTO, LINO VITTORIO, Verona e Vienna, Gli arsenali dell’Imperatore; Architettura militare e città nell’Ottocento, 1996, Cierre Edizioni, Verona, p.27

Verona rappresentata tra le fortezze del Quadrilatero nella rivista prussiana Die Gartenlaube (1866)

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erate separatamente come teste di ponte, bensì come un sistema difensivo a scala territoriale.

Nella teoria della guerra ottocentesca l’organizzazione di piazzeforti, per il supporto che queste potevano dare alle armate sul territorio, era posta tra le prime necessità strategiche.

Se Peschiera, Mantova e Legnago sono funzionalmente i perni di manovra (Waffenplätze), Verona, all’estremità meridionale, rappresenta il centro logistico, ovvero la piazza di deposito (Depotplatz).

Lino Vittorio Bozzetto riporta la riflessione (datata 1820) di von Clausewitz, grande teorico militare dell’Ottocento, a proposito del sistema di piazzeforti:

“…un gruppo di due, tre o quattro piazzeforti, distanti solo qualche giornata da un centro comune, conferisce a questo punto, o all’esercito che si trovi intorno ad esso, tale che, se le altre esigenze lo consentono in qualche modo, conviene costituire un simil bastione strategico14” De facto tale disegno strategico era stato voluto dal deus-ex machina delle operazioni militari nel Lombardo-Veneto, il comandante Josef Radetzky (dal 1834), figura centrale nelle vicende sociali, architettoniche e militari dell’epoca.

Ne era derivato un primo grande ciclo fortificatorio attuato secondo i piani dell’allora direttore del Genio, Franz Von Scholl, tra il 1833 e il 1847, con la ricostruzione ed il rafforzamento della cinta magistrale (che ricalca

14 Karl von Clausewitz, della Guerra, Roma, 1942 (edizione a cura dello Stato Maggiore del Regio Esercito, Ufficio storico, traduzione di Ambrogio Bollati ed Emilio Canevari, qui nella ristampa Milano, 1978) p.514 in AA.VV., a cura di BOZZETTO, LINO VITTORIO, Verona e Vienna, Gli arsenali dell’Imperatore; Architettura militare e città nell’Ottocento, 1996, Cierre Edizioni, Verona, p.15

l’originale cinta veneziana, e come sedime precedente, quella scaligera, apportando innovazioni sostanziali come l’introduzione dei muri alla Carnot) e la costruzione dei forti collinari.

I forti collinari

Von Scholl progettò i forti che ancora oggi costellano le colline intorno alla città (forte Sofia, San Leonardo, San Mattia, Biondella e le quattro Torricelle) al fine di dominare le vie di comunicazione che entravano ed uscivano dalla città.

Altri forti, come il San Procolo e il forte Scholl (successivamente detto “Gasometro”) erano stati edificati in pianura e più vicini al centro abitato.

Altri forti vennero costruiti infine dopo l’arrivo delle truppe di Carlo Alberto di Savoia, le quali si erano spinte fin sotto le mura cittadine, in un raggio di circa 1 km dalla cinta magistrale, tra il 1848 e il 1852. Infine, nel 1850-1852 un’altra serie di forti furono edificati per chiudere a occidente il giro verso l’Adige.

Vale la pena di soffermarsi su alcune caratteristiche di tali costruzioni, testimonianze peculiari di “architettura funzionale” dell’Ottocento, così come le ha definite Christoph Hackelsberger15 .

L’utilizzo di una sorta di opus poligonale di pietra di Avesa fu uno dei marchi di fabbrica delle costruzioni del Von Scholl anche fuori dalla città (ad esempio nel complesso fortificatorio a Fortezza, nei pressi di Bressanone) e una delle caratteristiche più riconoscibili delle architetture militari austriache a Verona: persino i suoi successori, come Conrad Petrasch,

15 HACKELSBERGER, CHRISTOPH, Das k.k. österreichische Festungsviereck in Lombardo-Venetien: E. Beitrag zur Wiederentdeckung d. Zweckarchitektur d. 19. Jh, Monaco di Baviera-Berlino, 1980 in BRUGNOLI, PIER PAOLO, Eclettismo, neoromanico e neogotico nell’architettura dell’Ottocento, in BRUGNOLI, PIER PAOLO e SANDRINI, ARTURO, L’architettura a Verona dal periodo napoleonico all’età contemporanea, 1994 Banca Popolare di Verona, Verona, p.85

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uno dei progettisti dell’Arsenale Franz Josef I, intraprenderanno questa scelta stilistica e costruttiva nelle loro opere (utilizzando più spesso il friabile tufo delle colline veronesi), come si tratterà in seguito. Le opere di fortificazione, lontane da “compiacimenti scolastici o accademici”, per la loro aderenza alla funzione militare, e per lo spazio lasciato all’”impulso sperimentale e innovativo”, sono, secondo Brugnoli, e prima di lui Hackelsberger, addirittura anticipazioni dell’architettura organica “che sul versante civile e religioso avrà solo molti decenni appresso i suoi esiti decisivi”16 .Senza spingersi nel pieno del Novecento si possono tuttavia considerare i forti come una grande testimonianza del valore estetico, storico e militare di un’architettura più vicina ad una concezione di spazio e luogo, piuttosto che sull’effimera concezione di “stile” che interessava i trattatisti del XIX secolo.I numerosi studi che hanno valorizzato nel corso degli ultimi decenni tale patrimonio, come quelli di Jacobacci e Bozzetto nel 1980, non hanno tuttavia visto riscontro nelle politiche di recupero architettonico di tali manufatti da parte delle autorità competenti, e soprattutto il destino dei forti collinari rimane incerto.

Le infrastrutture logistiche

Verona si munì inoltre di servizi logistici per far fronte al proprio ruolo di piazza di deposito.

Il piano si tradusse nella costruzione di imponenti edifici per far fronte alle necessità di rifornimento, manutenzione e cura dell’artiglieria, nonché del vitto e della salute della fanteria.

Negli anni 50 del XIX secolo si apre una nuova fase per la città, la definizione di Verona come Depotplatz del Quadrilatero. Nel 1850 (1849 secondo Jaco-

16 BRUGNOLI, PIER PAOLO, Eclettismo, neoromanico e neogotico nell’architettura dell’Ottocento, in BRUGNOLI, PIER PAOLO e SANDRINI, ARTURO, L’architettura a Verona dal periodo napoleonico all’età contemporanea, 1994 Banca Popolare di Verona, Verona, p.85

Il sistema dei forti collinari austriaci

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bacci) Conrad Petrasch viene nominato direttore delle Fortificazioni, e un anno dopo l’allora direttore del Genio territoriale, Hlavaty, comunica a Radetzky gli interventi urbanistici da attuare “affinché la piazzaforte di Verona possa rispondere alla sua importante destinazione come piazza di manovra e principale piazza di deposito”. Dopo che una commissione guidata da Petrasch (1852) delineerà la disponibilità per gli spazi in città dove collocare l’artiglieria, si inizia a comprendere la necessità della costruzione di una Zeughaus, o “casa delle armi”, l’idea embrionale che porterà alla costruzione dell’Arsenale d’artiglieria Franz Josef I, l’opera più significativa della compagine degli interventi austriaci, edificato tra il 1854 e il 1861, sulle cui vicende progettuali e costruttive si discuterà più avanti.

Tra il 1852 e il 1856 si colloca la progettazione e costruzione di una caserma neoromanica nel sito del medievale Castel San Pietro.

Tale costruzione rimane la più marcata testimonianza, anche visiva, del dominio asburgico sulla città. Essa si colloca infatti, appollaiata come un uccello da preda, sulla quinta scenica che fu del Teatro Romano, nel punto in cui secondo gli archeologi si svilupparono i primi insediamenti umani della zona.

Uno statement di potere, in uno dei luoghi identitari di Verona.

La nuova caserma anticipa per molti versi molti dei temi compositivi dell’Arsenale, e più in generale la vocazione “castellana” di tali costruzioni, specialmente quelle destinate a una così stretta vicinanza al centro abitato.

Heinrich von Scholl, figlio di Franz (deceduto nel 1838), teorizzava l’uso di forme medievali nell’architettura militare, per dare dignità artistica e non sottrarsi alle discussioni più elevate sulla disciplina in generale.

A sua detta si deve sempre essere in grado di unire “alla forza classica degli antichi greci e romani, la poesia nostalgica del Medio Evo”17 .

Il primo progetto per la caserma prevedeva l’inserzione di torri cilindriche

17 VON SCHOLL, HEINRICH, Über Baustil, zum Schluss mit Beziehung auf Militär-Bauwerke, 1864, traduzione italiana in appendice a BOZZETTO, LINO

Il Forte Dossobuono, parte della fortezza austroungarica di Verona, nel 1863.

Foto di Moritz Lotze (1809-1890)

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nei risvolti d’angolo, e considerando che la bozza fu supervisionata da Petrasch, risulta interessante che tale tema sarà reimpiegato nel Padiglione del Comando dell’Arsenale.

I progetti del 1853 di Julius Bolza, sempre supervisionati da Petrasch, si ispirano comunque sempre all’accezione linguistica dell’architettura militare di matrice austro-prussiana, e a detta di alcuni studiosi come Bozzetto, su una programmatica ripresa di molti caratteri del luogo. Sul significato culturale di tali scelte si discuterà più avanti.

Sempre nel 1852 inizia la costruzione del nuovo Ospedale Militare (Garnisons Spital), nei pressi della sanmicheliana Porta Palio, progettato per rispondere alle più avanzate esigenze dell’arte sanitaria. Significativo è il fatto che per il progetto si sia scelto un linguaggio neoclassico, distante dalle suggestioni del Rundbogenstil utilizzate invece per le costruzioni più prosaiche della Depotplatz. Tale ricambio di linguaggi riguarda comunque soltanto l’impostazione di facciata, in pieno spirito storicista.

Altri due interventi significativi sul versante militare realizzati negli anni 60, al tramonto della dominazione austriaca, sono la Provianda o panificio militare di Santa Marta e la ristrutturazione di Porta Vescovo, entrambe nel quartiere di Veronetta.

Quest’ultima porta la firma del capitano Anton Naredi Rainer, per conto della direzione del Genio. Nella facciata del monumento rivolta verso la città l’autore annulla qualsiasi rapporto con le preesistenze cinquecentesche della facciata opposta, e senza seguire un codice linguistico fisso, parte dal neoromanico per arrivare ad un “capriccio d’invenzione” di gusto eclettico, con moltissima grammatica (come l’utilizzo di torri ottagonali d’angolo, merlature e arVITTORIO, La caserma ottocentesca di Castel San Pietro, note storiche e osservazioni nella proposta di nuovi contenuti funzionali, “Architetti Verona” n°8 (dicembre 1983), pp.91-94 in BRUGNOLI, PIER PAOLO, Eclettismo, neoromanico e neogotico nell’architettura dell’Ottocento, in BRUGNOLI, PIER PAOLO e SANDRINI, ARTURO, L’architettura a Verona dal periodo napoleonico all’età contemporanea, 1994 Banca Popolare di Verona, Verona, p.81

L’altura del Colle San Pietro sormontata dalla caserma austriaca. Foto di Moritz Lotze, p.1866

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chetti pensili) che più che dal romanico veronese sembrano provenire da variazioni sul tema castellano tedesco.

Nella Provianda il linguaggio è più spiccatamente germanico, con richiami più o meno espliciti ad opere del medioevo teutonico, come la chiesa abbaziale di Santa Maria Laach, nonché l'impiego di contrafforti goticheggianti in facciata, e l’utilizzo di frontoni a gradoni negli edifici adibiti a silos.

Il panificio militare era provvisto, oltre ai già citati silos, di mulini a vapore e di 14 forni in grado di produrre ogni giorno 52.000 razioni di pane da 750 grammi e 20 quintali di gallette biscottate.

Costruita nelle vicinanze del collegamento ferroviario di Porta Vescovo, la Provianda esplica la vocazione industriale delle grandi costruzioni militari cittadine, restando profondamente legata ad una cultura ottocentesca architettonicamente pudica, che ha timore di mostrare la crudezza delle forme e della prosaicità, e mostrare la bellezza di un edificio in termini volumetrici e spaziali, ma ha ancora bisogno di vestirsi di storicismi, che nel caso della Provianda si rifanno direttamente alla cultura dei dominatori.

Se nell’Arsenale, ad esempio, l’uso dei corsi alternati di tufo e laterizio può essere letto come un richiamo del locale romanico veronese, nella Provianda, opera più tarda e meno rappresentativa, si raccolgono i riferimenti da un bacino lontanissimo dalla cultura locale, per cui è molto pericoloso parlare di genius loci nel caso dell’architettura austriaca a Verona18 .

Sempre a proposito delle murature, nel panificio è usata la stessa alternanza di tufo e laterizio, ma in maniera più prosaica e grossolana, quasi dando l’idea di una scelta costruttiva dovuta alla disponibilità di materiali piuttosto che da una precisa scelta stilistica. Tale interpretazione è per altro confermata dal fatto che l’intera struttura fosse intonacata, a differen-

18 cfr. AA.VV., a cura di BOZZETTO, LINO VITTORIO, Verona e Vienna, Gli arsenali dell’Imperatore; Architettura militare e città nell’Ottocento, 1996, Cierre Edizioni, Verona, p.97w

In basso: Il prospetto verso la città di Porta Vescovo, progettata da Anton Naredi Rainer. Foto di G.A. Bressanini, 1901

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za dell’Arsenale. Il complesso è stato interessato nel XXI secolo ad un pregevole restauro attivo ad opera di Massimo Carmassi, per ospitare i locali dell'Università degli Studi di Verona.

In quadro così ricco di realizzazioni, nel pieno della militarizzazione della città, si sviluppa la vicenda dell’Arsenale Franz Josef I, la più significativa testimonianza urbana della dominazione austriaca, e dell’oblio che ha interessato questa finestra temporale nella coscienza collettiva di Verona.

Provianda di Santa Marta nel XIX secolo. Come si può apprezzare dalla fotografia, l’intero complesso era intonacato

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1854-1861: Il racconto del progetto dell’Arsenale dall’Entwurf Skizze alla fine dei lavori È stato più volte tracciato dagli studiosi un filo rosso che collega la tipologia dello Zeughaus (letteralmente, casa delle armi), ossia l’edificio che nella cultura mitteleuropea era deputato a custodire le armi e l’artiglieria sin dal XV secolo, con L’Arsenale di Verona.

A partire ad esempio dal fatto linguistico che un’opera precedente, lo Zeughaus di Berlino, risalente alla seconda metà del Seicento, viene oggi definito in italiano come “Arsenale”, ma anche dal fatto che a partire dai disegni di Zeughäuser presenti sui trattati secenteschi, per esempio dello Furttenbach, ci si imbatta in soluzioni organizzative simili a quelle adottate nel complesso veronese.

Si è cercato di vedere nella concezione di unico luogo in cui disporre le armi, o addirittura metterle in mostra (è di uso comune, negli arsenali centroeuropei, disporre un “museo delle armi”) una marca tangibile di identità germanica. Purtuttavia si consideri il fatto che la stessa parola arsenale, alla sua radice (l’arabo dār aş-ṣinā'a «casa del mestiere», da cui poi anche il veneziano darsena e arzanà) abbia un significato non direttamente collegato al deposito di armamenti, ma più di centro produttivo, traslitterato poi nell’antico Arsenale veneziano, in cui si fabbricavano effettivamente le galere militari. Ebbene, nel caso dell’Arsenale veronese (e viennese), gli austriaci utilizzano il termine Artillierie Arsenal, quasi ad indicare che oltre alla “casa delle armi” vi sia anche attività d’officina.

Esiste un nodo diretto molto più vicino nel tempo, al di là di ogni suggestiva speculazione linguistica e tipologica, ed è sempre correttamente citato: il legame con L’Arsenale di Vienna.

Vienna era già il principale centro di produzione e custodia dei materiali di artiglieria dell’Impero, e la costruzione di un arsenale che riunisse tutte le

Il rapporto tra l'Arsenale, il ponte di Castelvecchio e la Campagnola, ancora ben apprezzabile in una fotografia di inizio '900

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officine di manutenzione e riparazione si dimostrò d’uopo, anche nell’ottica di utilizzare macchine a vapore per fornire forza motrice ad officine opportunamente ricollocate.

Il progetto per l’Arsenale di Vienna precede quello veronese di pochi anni, e malgrado variazioni formali (come l’idea, poi abbandonata, di costruire una vera e propria cittadella ottagonale) si mantiene sulla linea di concentrare tutte le funzioni collegate alla manutenzione, il magazzino e la fabbricazione delle armi e dell’artiglieria in un’unica porzione di città.

Esso era stato previsto su un sito d’impianto a circa 2 km da Vienna, su un’area rettangolare mastodontica di 64 ettari. L’assetto planimetrico dell’edifico finale era costituito da due “corti” contenenti edifici produttivi e di deposito, circondati da una collana di edifici, a guisa di muro di cinta, con imponenti fabbricati quadrati angolari a simulare torrioni d’angolo. Il tutto organizzato secondo una precisa logica formale, fatta di simmetrie e moduli, discendenti dagli esempi durandiani e da una concezione meccanica e razionale dello spazio della guerra.

Già in quest’opera si apprezza la divisione organizzativa in “settori” che caratterizzerà anche il Franz Josef I: edifici isolati, principalmente con tre funzioni: produttiva, rappresentativa e di deposito, oltre che una caserma per tre reggimenti di Artiglieria (6000 uomini).

Nel piano generale, era stato inoltre previsto che in caso di insurrezione, l’Arsenale di Vienna avrebbe dovuto ospitare la Corte e il Governo.

Anche qui permane il tema della Zeughaus con l’edificazione del Museo delle Armi, l’edificio più distaccato di tutto il complesso, esaltato anche in termini decorativi: su di esso risaltano ornamenti di gusto eclettico, di foggia orientaleggiante e a tratti veneziana, forse a ribadire paratatticamente l’unione delle diverse culture che componevano l’Impero. Altro edificio di rappresentanza è quello destinato al comando, posto all’ingresso del complesso, con decorazioni allegoriche di tipo meccanico e profilo turrito che sarà proposto, su scala minore, anche nella controparte veronese.

Pianta e prospettiva a volo d'uccello dell'Arsenale viennese

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Da segnalare è anche la presenza di una chiesa, posta simmetricamente rispetto al Comando.

Sul versante stilistico, si predilige per il complesso, l’utilizzo dello stile Rundbogen, ovvero un neoromanico austriaco fuso ecletticamente a quello bavarese. Il Rundbogenstil era prediletto, come già indicato in precedenza, per le costruzioni militari, per la sua severità romantica e insieme richiamo alla culturale identità germanica, oltre che per un altro motivo: l’associazione del medioevo con un periodo di “sincerità” strutturale, porterà all’utilizzo di soluzioni formali e costruttive che possano mettere in mostra la capacità tecnica e strutturale degli ingegneri dell’Impero. Essi diventano così i discendenti dei capomastri medievali, aggiornati però ai recenti ritrovati della Scienza delle Costruzioni. Tale equazione appassionerà anche i teorici ottocenteschi, come il già citato Ruskin in Inghilterra, o Viollet-Le-Duc in Francia, e sarà alla base del movimento Arts and Crafts. All’atto pratico, tuttavia, l’utilizzo del Rundbogenstil rimarrà comunque legato a indirizzi culturali di tipo storicista, che hanno nello “strutturismo” soltanto un’arma per dimostrare competenza tecnica, e non nobili intenti architettonici di trovare uno stile sincero per lo Zeitgeist, come invece auspicavano gli autori citati.

Nel caso dell’Arsenale veronese, come si vedrà, tale stile cercherà un compromesso con le suggestioni della cultura locale, pur restando sostanzialmente fedele nell’impostazione al progenitore nella Capitale.

Verona Depotplatz del Quadrilatero

Verona, ora centro così importante nello scacchiere strategico dell’impero, e divenuta Depotplatz del Quadrilatero, segue lo stesso destino di Vienna, accentrando le medesime funzioni in un unico complesso.

Si è già menzionata la commissione guidata dal Direttore delle Fortificazioni Petrasch, che nel 1852 delinea la necessità di un nuovo Zeughaus, come

a porre il cardine del grande dispositivo logistico:

“[…] Oltre alle polveriere per il tempo di pace e di guerra, per una piazzaforte così grande e importante, è la necessità non procrastinabile il possesso di un nuovo Zeughaus per l’artiglieria. Che non si sia accolta la necessità, già fin da tempo dei primi progetti fortificatori di Verona, della costruzione di questo stabilimento di artiglieria così altamente necessario alle esigenze della piazzaforte, e qui particolarmente anche alle esigenze di armamento e di equipaggiamento dell’armata, dovrebbe derivare dal criterio fondamentale che all’inizio si ebbe il proposito di fortificare la piazza di Verona essenzialmente per un vigoroso sostegno alle operazioni offensive di un’armata, e non per una durevole resistenza autonoma anche contro le operazioni di assedio regolare. Questa concezione venne confermata dalla proposta di dotazione d’artiglieria dell’anno 1839, poiché la stessa proposta prevedeva il fabbisogno di munizioni per la difesa contro un assedio regolare […] Attualmente Verona possiede un tale grado di resistenza, in ragione delle nuove opere fortificatorie, pag. 61

sicure dagli assalti, da essere in grado di resistere anche gli attacchi più impetuosi del nemico […]19” In una delle prime formulazioni, tale “stabilimento di artiglieria” viene ipotizzato vicino al Bastione di Spagna, nei pressi della Basilica di San Zeno, ancora all’interno della città murata.

Al primo nucleo dello stabilimento si dovranno aggiungere anche altri edifici per la raccolta di tutti i carreggi appartenenti alle batterie da campagna e alla loro riserva.

Il progetto dell’Arsenale si sviluppa a partire dallo Zeughaus aggiungendo altri corpi funzionali, come abitazioni per il personale di sorveglianza e di amministrazione.

Uno dei tanti edifici che ospitavano le funzioni sparse della piazzaforte, tra cui anche quella di Arsenale, era la caserma settecentesca e l’interno di Castelvecchio, edificio legato, oltre che spazialmente, anche storicamente con L’Arsenale. La commissione si riunisce ancora, nel maggio dello stesso anno, prefigurando il progetto di armamento. Nella loro mentalità geometrica, ancora settecentesca “persisteva […] lo spirito ordinatore e positivo. Gli strumenti matematici potevano essere applicati, direttamente, alla pianificazione di secondo ordine, per calcolare la dotazione dei pezzi di artiglieria nelle singole opere ed il numero dei colpi necessari ad ogni pezzo, tradotti in proiettili e polveri e, di conseguenza, negli spazi protetti delle polveriere; come i pezzi di artiglieria si tradurranno negli spazi dei magazzini, delle officine, dell’Arsenale”20 .

19 LICHNOFSKY, ZWIEDINEK, PETRASCH, corrispondenza dell’8 gennaio 1852 in BOZZETTO, LINO VITTORIO, Verona e Vienna, Gli arsenali dell’Imperatore; Architettura militare e città nell’Ottocento, 1996, Cierre Edizioni, Verona, p.37, cit.

20 BOZZETTO, LINO VITTORIO, Verona e Vienna, Gli arsenali dell’Imperatore; Architettura militare e città nell’Ottocento, 1996, Cierre Edizioni, Verona, p.39

Finalmente, Radetzky esamina le dettagliate tabelle di armamento inviate da Verona, e osserva come esse rendano evidente la quantità di artiglierie e dotazioni di equipaggiamento da depositare nella città, e quali magazzini siano da stabilirvi, per l’armata e la piazzaforte, se dovrà essere trasformata in principale punto di manovra e prima piazza di deposito nei territori italiani dell’Impero.

Dopo aver anche individuato le carenze logistiche presenti, il feldmaresciallo propone alla Commissione di stilare una nuova direttiva, con ciò che è disponibile e ciò che si dovrà costruire. Tale documento sarà sottoposto al giudizio dell’Imperatore, insistendo in particolare sugli spazi disponibili già utilizzati dall’Artiglieria in città, e per quali materiali di equipaggiamento non sia disponibile lo spazio necessario.

Dalle nuove tabelle trasparrà cosa effettivamente mantenere, ristrutturare o costruire ex novo. Radetzky si propone, senza pressioni sul Comando di piazzaforte, che diversi stabilimenti siano concentrati il più possibile, e annuncia che “senza affrontare costi sproporzionati si dovrà forse riunirli in uno stesso, chiuso, stabilimento di artiglieria”21 confermando di fatto le intenzioni iniziali.

L’arsenale alla Campagnola

Si inizia a superare la prima ipotesi, anche per questioni dimensionali, di situarlo nei pressi del bastione di Spagna. Radetzky condivide l’idea già precedentemente valutata di erigere l’Arsenale su un altro sito; oltre all’ansa dell’Adige, che chiude il nucleo della città romana, esiste un’altra ansa, di dimensione eguale e capovolta sul piano verticale, che chiude un lembo di terra rimasto inedificato fino a quel momento.

21 RADETZKY, 23 novembre 1852, ms in BOZZETTO, LINO VITTORIO, Verona e Vienna, Gli arsenali dell’Imperatore; Architettura militare e città nell’Ottocento, 1996, Cierre Edizioni, Verona, p.40, cit.

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Uscendo dal Ponte di Castelvecchio, ci si ritrovava in un paesaggio dominato da orti che quotidianamente rifornivano i mercati di Piazza Erbe con le verdure di stagione, tra le ruote idrovore e i casoni, le abitazioni di generazioni di ortolani.

Nella parte settentrionale esisteva anche un collegamento con la strada postale Tirolese, che immetteva nella valle dell’Adige.

Questa “penisola” speculare a quella circoscritta dall’ansa della città storica, un lembo di campagna cinto dall’Adige e chiuso dalle colline a nord, prende il nome, almeno dal IX secolo, di Campagnola.

Il suo potenziale strategico era stato sfruttato anche dagli Scaligeri: l’edificazione di Castelvecchio con uno sfogo verso settentrione, rappresentato dalla via di fuga del Ponte merlato, era stato condizionato dalla volontà dei Signori di Verona di poter, in caso di insurrezione della popolazione, poter fuggire verso nord e ricongiungersi coi principi ghibellini teutonici.

La Campagnola rimase de facto vergine di grandi interventi urbani fino alla costruzione dell’Arsenale, ma non sulla carta.

Già nel 1612 era stata proposta la costruzione di una porzione del muro di cinta che la chiudesse a nord, ma non fu mai realizzata.

Interessante testimonianza, riportata anche da Bozzetto, è la pianta della città disegnata dal Baron di Chiaban nel 1630 per la Repubblica Veneta, in cui oltre allo studio di nuove fortificazioni viene proposta una cittadella bastionata proprio sulla penisola della Campagnola, la cui posizione rispetto alla città richiama ad esempio la Fortezza da Basso a Firenze.

Con tali precedenti, è difficile, anche per gli austriaci, ignorare la felicità di tale scelta, anche sfruttando il rapporto nodale dell’ex arsenale di Castelvecchio con la nuova struttura.

Nel pensiero di Radetzky l’idea dell’Arsenale inizia a delinearsi in maniera più distinta, e “quasi a tracciare l’iniziale configurazione dell’opera prima

In alto: Veronna disegnata dal Baron de Chiaban, Anno 1630.

In basso: Pianta di Verona della prima metà del XVII secolo, anonima, in cui si osserva la Campagnola inedificata. Alla metà del XIX secolo la situazione resterà sostanzialmente invariata.

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che prenda forma nei disegni degli ufficiali ingegneri”22 , sono enunciate alcune caratteristiche ritenute fondamentali: la concentrazione unitaria dei diversi spazi, il carattere spaziale chiuso nell’insieme, la sua ubicazione all’interno del corpo di piazza ma integrata col dispositivo fortificatorio. La Campagnola, data l’estensione del nuovo insieme di edifici, sarebbe inoltre il punto ideale in cui non interferire con il minuto centro urbano in termini dimensionali, in quanto il complesso si sarebbe sviluppato in orizzontale, proprio come, in scala maggiore, il suo antecedente negli estesi campi intorno a Vienna. Ciò avrebbe inoltre ridotto il numero di espropri e demolizioni necessarie.

La divisione logistica dei materiali segue una precisa volontà di maggiore economia possibile. Secondo la commissione, un significativo risparmio di spazio, rispetto ai nuovi magazzini, si potrà ottenere utilizzando i forti esterni per depositare i materiali, e nei ridotti casamattati potranno essere depositati gli equipaggiamenti d’artiglieria, gli affusti, i legnami per i paioli e altri materiali non conservabili all’aperto. Nel nucleo della piazzaforte sarà invece conveniente ricoverare solo i materiali di armamento della cinta magistrale.

Durante la campagna del 1848-49 (corrispondente con la Prima guerra d’Indipendenza) si rendono evidenti le difficoltà operative dell’artiglieria, dovute ad un’organizzazione di marchio ancora settecentesco.

Nel decreto del giugno 1854 si stabilisce la divisione tra parte combattente dell’artiglieria e parte tecnica (Artillerie Truppe e Technisce Artillerie), la seconda delle quali si è attribuito il servizio di materiali da guerra, articolato in 18 sedi di comando.

La produzione degli armamenti avveniva per lo più nell’Arsenale di Vienna, e il compito della Technische Artillerie rimane essenzialmente di car-

22 BOZZETTO, LINO VITTORIO, Verona e Vienna, Gli arsenali dell’Imperatore; Architettura militare e città nell’Ottocento, 1996, Cierre Edizioni, Verona, p.40

attere amministrativo, in quanto dovevano provvedere alla manutenzione del materiale d’artiglieria da fortezza e da campo, che era in loro consegna per la custodia e l’amministrazione in tempo di pace.

Nel frattempo, la commissione guidata da Petrasch inizia a limare il lavoro di schedatura precedente, proiettando i materiali di artiglieria in uno spazio geometrico astratto, ma dimensionato secondo le necessità. Nella seconda fase di tale operazione si valutano i materiali in relazione allo spazio realmente disponibile, e infine in una terza fase in base allo spazio reale e a quello da edificare ex novo.

Dalla pianificazione logistica precisa e misurata si passa, per iterazioni successive, alla delineazione del progetto architettonico.

La precisione di Petrasch si scontra per alcuni punti con l’idea di Radetzky di concentrare il più possibile in un unico complesso i diversi stabilimenti. Egli per esempio propone di allontanare i magazzini dalle officine, proposta che si attuerà in un certo senso anche nel progetto finale. Inoltre, sempre Petrasch non prevede per l’Arsenale della Campagnola anche un magazzino per le riserve da campagna, in quanto l’edificio sarebbe “ordinato come testa di ponte e perciò costruito con strutture a prova di bomba”23 . In caso di ritirata su Verona, le riserve avrebbero potuto essere ricoverate nei magazzini della riva sinistra, più protetti. Per questioni di sicurezza, l’ingegnere aggiunge:

“Gli Zeughäuser o arsenali devono accogliere, secondo le regole, tutti i tipi di armi, munizioni metalliche e proiettili, materiali di equipaggiamento in generale e altre provviste, e materiali di ogni genere, mentre le officine

23 BOZZETTO, LINO VITTORIO, Verona e Vienna, Gli arsenali dell’Imperatore; Architettura militare e città nell’Ottocento, 1996, Cierre Edizioni, Verona, p.45

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di artiglieria, particolarmente quelle più pericolose per gli incendi, non dovrebbero trovarvi posto. La consistenza di Castelvecchio, la grande estensione di Verona, e la sua divisione interna attraverso l’Adige, come anche la maggiore economia possibile e, in misura non minore, la diminuzione apportata agli armamenti, sono tuttavia i motivi per i quali i depositi per l’artiglieria, e per i carreggi, della fortezza e dei forti posti sulle alture, non furono riuniti in uno Zeughaus o arsenale[…]24” Petrasch, anche alla luce di quanto appreso dai trattati di architettura militare, ha già in mente di separare il deposito degli armamenti dalle officine, per scongiurare il rischio di incendi o altre calamità causate dalla vicinanza di queste attività. Zeughaus e Arsenal si dividono rimanendo uno come sineddoche dell’altro.

A queste due funzioni si pensa di unire i quartieri per il personale dell’artiglieria tecnica, gli uffici e le abitazioni per gli ufficiali dirigenti e sorveglianti, infine un’armeria per 40.000 fucili ed altri locali per l’equipaggiamento.Ancora un'altra approssimazione prima di pervenire al disegno, prefigurerà che esso

“verrà situato […] sulla penisola della Campagnola nel modo più sicuro e adatto, in modo che esso sia protetto 24 LICHNOFSKY, RUCKER, KOCHMEISTER, FINDEIS, PETRASCH, 21 marzo 1853, ms. in BOZZETTO, LINO VITTORIO, Verona e Vienna, Gli arsenali dell’Imperatore; Architettura militare e città nell’Ottocento, 1996, Cierre Edizioni, Verona, p.46, cit.

dalle inondazioni e, inoltre, possa servire da testa di ponte, davanti a Castelvecchio […] sarà conveniente costruirlo con strutture a prova di bomba, in modo che possa resistere ad un energico attacco. Per questa ragione gli edifici per gli equipaggiamenti ed i depositi costruiti sul perimetro, verso l’esterno, saranno ordinati per il fuoco di artiglieria e di fucileria. L’Arsenale avrà la forma di un quadrato chiuso alla gola da un muro distaccato a feritoie; sul fronte anteriore e su entrambe le ali laterali i necessari fabbricati per le abitazioni, i depositi, e le officine saranno disposti in modo che su entrambi gli angoli di spalla formino dei corpi sporgenti, i quali serviranno al fiancheggiamento della faccia e delle ali, e dell’antistante fosso25” .

Dopo altre inquisizioni sull’organizzazione, e in attesa del nuovo ordinamento d’Artiglieria, in preparazione a Vienna, la commissione articola il programma dei lavori, in cui vengono indicati tutti i nuovi interventi di adattamento e costruzione in città. Il tutto per un totale stimato di circa 2.053.000 Gulden, su cui spiccano i 360.000 Gulden destinati all’Arsenale e i 2300 Gulden per la sistemazione di Castelvecchio. Nell’elenco inviato dal

25 BOZZETTO, LINO VITTORIO, Verona e Vienna, Gli arsenali dell’Imperatore; Architettura militare e città nell’Ottocento, 1996, Cierre Edizioni, Verona, p.47, cit.

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Genio compaiono anche ben 6 nuove caserme da edificare.

La macchina austriaca inizia a Verona, dopo il ciclo fortificatorio di Von Scholl negli anni ’30, una nuova fase: l’edificazione del perfetto meccanismo logistico.

Il disegno dell’Arsenale

Ancora altri cavilli ostacoleranno una decisione ferma e decisa su come impostare il progetto dell’Arsenale; nel luglio del 1853, l’Imperatore Franz Josef in persona invia una risoluzione a Radetzky da Schönbrunn in cui tratta dei nuovi lavori di Verona, e in cui il primo punto riguarda proprio l’Arsenale.

Egli è risoluto sull’idea iniziale di collocare le funzioni previste in un unico complesso di edifici, ma propone una nuova possibilità di collocazione.

L’Imperatore ritiene più idonea la collocazione dell’Arsenale nella zona di Veronetta, più vicina alla spianata del Campo Marzio e al terminale ferroviario di Porta Vescovo. Inoltre, la sua protezione appare migliore in questo luogo (ad est, meno esposta alla piazza di manovra in caso di attacchi franco-piemontesi) e garantita dai massicci bastioni cinquecenteschi. Qualora non si possa trovare un sito adeguato in quella zona, Franz Josef propone come seconda ipotesi di ripiegare sull’opzione Campagnola.

Tale ipotesi non era stata minimamente formulata dalla Commissione, e appare piuttosto logica (probabilmente era stata formulata dalla General Genie Direction26 e poi proposta all’Imperatore), ma l’ampiezza spaziale garantita dal sito originariamente ragionato, oltre che la protezione non meno sicura offerta dal muro di cinta d’acqua dell’Adige e dai fuochi incrociati dei forti collinari, non rende necessario un cambio di rotta.

26 Direzione Generale del Genio, con sede a Vienna (il Genio viennese).

Con Genie Direction si intende invece, in questo contesto, il Genio militare veronese sottoposto.

Se ciò fosse avvenuto, ancora oggi sussisterebbe un nucleo agglutinato di grandi edifici militari nei pressi del Campo Marzio, con Arsenale e Provianda in stretto rapporto. Come sarebbe cambiato ad esempio, il futuro quartiere novecentesco di Borgo Trento che sorgerà nella Campagnola, senza l’Arsenale? L’idea che sia esistita, nella mente dei suoi autori, un’altra possibilità di collocazione del manufatto, restituisce un’idea di quanto l’Arsenale abbia influenzato il carattere di questa zona di Verona, ma non si può certo immaginare, in assenza di un progetto alternativo a Veronetta, come il complesso sia stato influenzato dalla Campagnola stessa.

Un'altra proposta interessante formulata dall’Imperatore consiste nell’eliminare ogni forma di fortificazione a difesa dell’Arsenale, per renderlo più simile alla sua controparte viennese; “un grande edificio autonomo, esterno alla città, ma compreso nel suo spazio di gravitazione, funzionale e percettiva”27 .

Per il resto, le posizioni della commissione e del sovrano coincidono. Castelvecchio viene rinnovato idealmente come nuova caserma di fanteria, e avrà un destino separato da quello dell’Arsenale, di cui si pensava originariamente sarebbe diventato parte integrante.

Una interessante menzione va fatta sul ruolo dei veronesi nel progetto; il Genio militare austriaco di Verona (Genie Direction), come si è visto, non aprì mai la possibilità a progettisti locali di contribuire al progetto dell’Arsenale. Unica eccezione va fatta per gli appalti alle aziende di costruzione; per l’Arsenale viene verificata la disponibilità dell’impresario Luigi Trezza, cavaliere veronese a cui si era proposto di eseguire lavori di importo superiori al capitolo annuale, remunerabili nell’esercizio successivo, o con l’acquisizione di contributi aggiuntivi.

Il Trezza avrà, come ricorda Bozzetto, un discreto monopolio sulle

27 BOZZETTO, LINO VITTORIO, Verona e Vienna, Gli arsenali dell’Imperatore; Architettura militare e città nell’Ottocento, 1996, Cierre Edizioni, Verona, p.52

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costruzioni militari, almeno fino agli anni ’60, quando un altro veronese, Daniel Salisoglio, progetterà i forti della linea trincerata più esterna.

Finalmente Petrasch può delineare un progetto di massima: tutti gli stabilimenti e gli altri fabbricati saranno collocati su un impianto di forma rettangolare con lato lungo con orientamento nord-sud, e lato corto normale rispetto all’asse del Ponte di Castelvecchio. Dal castello Scaligero avrà una distanza di 25 Klafter (circa 47 metri), anche per ridurre la quantità di terreni da acquistare. La sicurezza offerta dalla presenza di un unico attraversamento del fiume in mano allo stesso esercito (il Ponte scaligero) permetterà a Petrasch di immaginare gli edifici di rappresentanza nella testata meridionale del complesso, impostazione che rimarrà anche nel progetto realizzato.

La posizione del complesso vicina alla città, ma alla giusta distanza da Castelvecchio per una eventuale difesa a distanza, si rivela vantaggiosa anche per il fatto che è prevista anche una linea fortificatoria a nord, rendendo l’Arsenale praticamente inespugnabile.

Pressioni giungono dall’arciduca Wilhelm, luogotenete feldmaresciallo dell’Artiglieria. Egli è l’uomo al centro delle relazioni tra gli attori viennesi di questa vicenda, ovvero la General Genie Direction e la General Artillerie Direction. Egli pretende una decisione definitiva sulla posizione dell’Arsenale di Verona, ponderata sui costi.

Inutile dire che i due organi accolgono l’ipotesi di variare ancora una volta la posizione del complesso, e di rielaborare completamente il progetto.

Nei disegni inviati da Verona compaiono degli evidenti difetti di funzionalità nella disposizione d’insieme, e torna al pettine il nodo dell’eccessivo raggruppamento di attività discordi, da tenere invece separate. In particolare, si contesta l’utilizzo della parte meridionale come se fosse una “caserma”, in quanto prevedeva la presenza di una corte a cui si affacciavano l’armeria, gli uffici, le abitazioni per gli ufficiali e le maestranze e i ricoveri per le truppe. Tale conformazione avrebbe non solo ostacolato

le operazioni di manutenzione degli armamenti, ma avrebbe anche reso eccessivamente dispersiva l’attenta traduzione di necessità funzionali e logistiche che si erano prefigurate per il complesso.

L’Arsenale di Verona giungerà finalmente ad un progetto preliminare su carta che resterà, nel suo nucleo sostanziale, fondamentale anche nella sua realizzazione. Per comprendere quanto fu effettivamente edificato, bisogna esaminare il prezioso documento dell’Entwurf Skizze (letteralmente: abbozzo, schizzo di progetto) del 1854.

L’Entwurf Skizze de eines Artillerie-Arsenals für Verona della General Genie Direction

All’arciduca Wilhelm vengono inviate 6 tavole di grande formato redatte dalla General Genie Direction in accordo con la General Artillerie Direction.

Sono piante, alzati, sezioni e planimetrie di contesto per il nuovo Arsenale di Verona. Sono redatte da Michael Maly, veterano disegnatore nel Genio veronese, che tuttavia non rielabora il progetto della Genie Direction di Verona, ma propone un nuovo complesso, che più esplicitamente richiama l’Arsenale di Vienna (ancora in costruzione), per scelte di configurazione e spazialità.

Il principio compositivo è direttamente ascrivibile alla concezione spaziale sette-ottocentesca, di matrice durandiana: si possono infatti tracciare dei paralleli con le tavole comparative del Recueil et parallèle des édifices en

tout genre, anciens et modernes (1800). Lo stesso Durand auspicava l’uso di forme di derivazione romanica per opere di pubblica utilità, sugellando a posteriori un rapporto diretto con le opere asburgiche.

Tutto il complesso è retto da una rigorosa simmetria: i 16 corpi di fabbrica sono rigidamente costretti sulla maglia ortogonale. Si varia da un’altezza di un piano fino ai tre piani che compongono gli edifici perimetrali. I magazzini sono già previsti come costruzioni modulari, con campata quadrata

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Entwurf Skizze de eines Artillerie-Arsenals für Verona e progetto della Palazzina di Comando (cortesia dell'ÖSTERREICHISCHES STAATSARCHIV)

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Rapporto dimensionale tra il progetto dell'Arsenale mostrato nell'Entwurfskizze (vedi pagina 79) e la città nella seconda metà del XIX secolo

Rapporto dimensionale tra il progetto dell'Arsenale mostrato nell'Entwurfskizze (vedi pagina 79) e la città nel XXI secolo

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e voltati a crociera. Per l’approvvigionamento idrico è previsto lo scavo di numerosi pozzi.

Il rettangolo che contiene l’intera costruzione misura circa 370 per 318 metri, per un totale di 11,76 ettari. Pur mastodontica, l’area occupa solo un terzo di quella dell’Arsenale di Vienna.

Sono distinguibili due macro-aree funzionali; la corte settentrionale è destinata ai magazzini per i materiali di armamento, tradendo, di fatto l’idea di Petrasch di non riunirli nell’Arsenale; la corte meridionale è invece destinata agli alloggi, alle officine di artiglieria e manutenzione, e ai depositi principali e secondari.

Per diminuire i rischi di incendio, tra gli edifici è osservata la distanza di 10 tese (18,96 metri).

L’idea di disporre le differenti funzioni in edifici separati e distanziati si basava anche sulla felice intuizione della “difesa a compartimenti”.

Il settore settentrionale

Nella parte settentrionale è prevista una corona di edifici, modulati secondo tre campate sul lato minore, destinati a magazzini dell’artiglieria da campagna.

La profusione di spazi aperti non è legata soltanto a criteri di sicurezza, ma serve come deposito all’aperto di materiali d’artiglieria non deperibili. È adottato per la conservazione dei cannoni il sistema francese e olandese, con le bocche di fuoco smontate dagli affusti, divise per calibro, e le palle di cannone disposte a piramide.

Tale configurazione spaziale è in linea con il già citato ordinamento d’Artiglieria, che prevedeva lo stoccaggio dei materiali da campagna all’interno degli arsenali.

La cessione dello stesso materiale ai reggimenti, nel 1859, decreterà forse la mancata realizzazione di questa porzione di Arsenale.

Il settore meridionale

È facile riconoscere nella parte meridionale prevista dall’Entwurf Skizze parte di quello che sarà l’Arsenale effettivamente realizzato. Delle tre unità spaziali che lo compongono soltanto i magazzini e le officine saranno effettivamente edificati. L’Hauptgebäude avrà un carattere totalmente differente, pur nella mantenuta configurazione di sede del Comando al centro e armerie ai lati. Discorso diverso andrà fatto per gli edifici d’abitazione, mai edificati. Le scuderie appaiono inoltre decisamente più piccole di quelle effettivamente edificate.

Al centro è collocata la corte delle officine, con al centro lo stabilimento per le lavorazioni dell’artiglieria dell’Arsenale. Al piano superiore sono previsti gli uffici tecnici e amministrativi, con la sala dei disegni e modelli di artiglieria. Nel corpo lineare, ad un solo piano, che attornia la corte, si trovano le officine vere e proprie, destinate ai mastri, con depositi di materiali a uso corrente. Dietro questo complesso con pianta a forma di “U”, si trova il corpo rettilineo delle lavorazioni a fuoco, con la centrale di forza motrice per la macchina a vapore.

A oriente e occidente della corte, perfettamente simmetriche, le due corti delimitate dai magazzini dell’Artiglieria di amministrazione, con le scuderie a chiusura meridionale. A un piano sono i magazzini di fronte alla corte centrale, a due quelli esterni.

L’idea di porre i corpi di fabbrica destinati alla rappresentanza e all’alloggio degli ufficiali a sud, di rimpetto alla città, come già discusso, è in contrasto con la generale concezione sei-settecentesca di Arsenale, in cui gli edifici più importanti (un po’ come la torre del mastio nel castello medievale) venivano posti al centro, come nuclei difesi dal resto del fabbricato.

Tale concezione era rimasta invariata anche nell’Arsenale di Vienna, in cui l’armeria, luogo prezioso per eccellenza, veniva racchiusa all’interno del

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recinto. Per dare una giustificazione di tale scelta, Bozzetto spiega come “a Verona (l’armeria) la si espone liberamente all’esterno, alla città, come elemento architettonico primario, paesistico. Di certo non era un monito, o una minaccia, giacché la sua architettura la si prefigurava di aspetto nobile, ricco e fantasioso. Dimostra, piuttosto, quanto fosse remoto il timore di una insurrezione e la sicurezza attribuita al luogo, avvolto dall’Adige, guardato da Castelvecchio, difeso dalle artiglierie della cinta magistrale e dai forti collinari”28 . Per quanto inattaccabile possa essere l’ultima osservazione, cioè che in virtù della posizione, una pianificazione accentrata per “nobiltà” delle funzioni fosse profondamente fine a sé stessa, appare più probabile che tale sicurezza derivasse da un cambiamento radicale nel modo di concepire la “fortezza”. Dopo le guerre napoleoniche, l’idea stessa di assedio perderà la propria importanza strategica, a favore delle battaglie campali. La stessa predisposizione di un territorio difeso (il Quadrilatero) anziché una serie di città fortificate scollegate tra di loro, denuncia come anche gli austriaci avessero appreso la lezione del periodo napoleonico, e se nell’arsenale di Vienna persiste tale configurazione tradizionale, è anche perché ci troviamo nella capitale dell’Impero, luogo decisamente più al sicuro da insurrezioni, e più lontano dal fronte militare vero e proprio. Vale la pena di ricordare come uno dei principali errori dei piemontesi nella prima e nella terza guerra d’Indipendenza fu quello di puntare tutto lo sforzo strategico in un singolo obiettivo, ovvero l’assedio di Peschiera, mentre avrebbero probabilmente messo più in difficoltà il nemico rincorrendo le armate in campo aperto; si ricordi, inoltre, come uno dei momenti decisivi nella definizione della guerra moderna, la battaglia di Gettysburg, avvenne solo un decennio dopo la costruzione dell’Arsenale.

28 BOZZETTO, LINO VITTORIO, Verona e Vienna, Gli arsenali dell’Imperatore; Architettura militare e città nell’Ottocento, 1996, Cierre Edizioni, Verona, p.57

Sicuramente non un monito (visto che era impossibile, per un comune cittadino, potersi avvicinare abbastanza all’Hauptgebäude per apprezzarne la “nobile, ricca e fantasiosa” architettura), il posizionamento dell’armeria può essere spiegato come un vezzo geometrico di mettere l’elemento di rappresentanza nell’effettivo centro del complesso fortificato, costituito dalla compagine Adige-Castelvecchio-Arsenale. La scelta stilistica di nobilitare il lato verso la città è ribadita in uno scritto da Maly:

“La destinazione dell’edificio principale, come anche la circostanza che il fronte anteriore dell’Arsenale, a sud, sia rivolto verso la città di Verona, giustificano lo sfarzo architettonico delle facciate, da riservare a questo edificio come ai due edifici d’angolo […] nello stesso modo, occorre conferire agli altri edifici, destinati ai depositi di questo Arsenale, una schietta semplicità, adatta alla loro severa funzione29” Sull’Entwurf Skizze si delineano le caratteristiche che poi saranno dell’Arsenale reale; l’utilizzo, tutto illuministico, di maglie cartesiane a reticoli ortogonali per definire vuoti e pieni, nonché la totale concezione a tabula rasa del sito di costruzione (facilitata anche dall’assenza di rilievi) e rispetto al minuto tessuto storico della città.

29 MALY, 26 febbraio 1854, ms. cit in BOZZETTO, LINO VITTORIO, Verona e Vienna, Gli arsenali dell’Imperatore; Architettura militare e città nell’Ottocento, 1996, Cierre Edizioni, Verona, p.60

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Bozzetto critica tuttavia come limitata la visione di chi voglia vedere l’opera come esclusivamente durandiana, riconoscendo nel suo funzionalismo una foggia francese, ma ascrivendo l’organizzazione d’insieme ad altri riferimenti, come le idee architettoniche di Goldmann, Sturm, Faesch e Penther.

Toccherà ora al Genio veronese solcare il mare che separa il progetto dall’opera edificata.

Il progetto esecutivo e la costruzione

Nel denso 1854, l’Imperatore risolutamente adotta il progetto della General Genie Direction, con la prescrizione che i lavori fossero iniziati l’anno stesso.

Conrad Petrasch a Verona affronta l’impresa di concretizzare il disegno, premeditando le modalità di stesura degli esecutivi. Alla sua mercé ha a disposizione sette ufficiali ingegneri, contro i diciotto in servizio ai tempi di Von Scholl. La figura di spicco è Julius Bolza, l’autore della caserma a Castel San Pietro. Egli calcola un tempo di elaborazione grafica degli esecutivi di circa 40 settimane, data la redazione ridotta costituita da Bolza e altri due ingegneri meno esperti.

Nella costruzione dell’Arsenale Petrasch distingue sette parti principali, corrispondenti alle autonome unità funzionali: l’Hauptgebäude con l’armeria, i due edifici per le abitazioni, le due corti dei magazzini, la corte centrale delle officine, e la grande corte settentrionale.

Trascorsi complessivamente sei mesi, Petrasch ha finalmente la possibilità di inviare gli esecutivi alla General Genie Direction e i preventivi di spesa all’ufficio di contabilità del Consiglio Aulico di Guerra.

Di fronte agli attori della vicenda si apre un dilemma: se sia più opportuno costruire tutto l’Arsenale contemporaneamente, o se sia invece più conveniente costruirlo per parti, valutando l’urgenza e l’utilità delle singo-

le opere. Alla fine, di comune accordo, si propende per la seconda ipotesi.

La scelta ha evidenti vantaggi di ordine economico: si possono acquistare i terreni gradualmente, e distribuire in maniera più efficace le spese per l’acquisto del materiale da costruzione. I lavori sono programmati per un periodo di sette anni, in cui la costruzione degli edifici sarà subordinata alla loro urgenza e necessità. Il punto chiaro ribadito da Petrasch e dal Genio veronese è l’utilizzo di materiali lapidei non troppo costosi.

Il piano settennale viene definito puntualmente dalla commissione:

-Nel 1854 (anno militare) saranno da edificare i fabbricati che formano la corte centrale (H), ossia i laboratori con i magazzini di uso corrente, oltre ai due depositi principali ad un piano (F e G); -Nel 1855 l’inizio dei due depositi principali (D ed E) e i depositi degli affusti (J-J); -Nel 1856 il completamento dei due depositi (J- J) e l’inizio dei depositi (K) per la riserva dei legnami d’opera pesanti e di entrambi i depositi di affusti (L e M); -Nel 1857 il completamento dei depositi (K, L, M) -Nel 1858, l’inizio dell’Hauptgebäude e dei dormitori (A e B-B) -Nel 1859, il proseguimento di questi tre edifici -Nel 1860, il completamento di questi edifici e l’interno dell’Arsenale.

L’approvazione dell’Entwurf Skizze parte dell’Imperatore impedisce qualsiasi modifica del disegno, specialmente in termini dimensionali. Il tempo a disposizione e le risorse, tuttavia, potrebbero ottenere delle variazioni di flusso.Rimane da stipulare il contratto d’appalto con l’impresa Trezza. Si decide che alla fine di ogni anno lavorativo si accerterà l’importo delle opere sulla base dei rapporti di misurazione eseguiti per stati di avanzamento, evitando così la compilazione di preventivi da integrare con

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i verbali dei lavori eseguiti in più o in meno. Il programma ne risulta così agevolato per iniziare i lavori nel giugno del 1854. Finalmente la General Genie Direction dà comunicazione all’Alto comando per la sanzione definitiva nel maggio del 1854. Considerazioni ulteriori vanno fatte su alcune decisioni che Petrasch prende in merito alla sicurezza della costruzione.

Egli propone alla General Genie Direction di alzare il livello del piazzale interno di almeno 1 piede, sulla piena del 1845. L’organo tuttavia ritiene insufficiente la misura, e rincara di circa 2 piedi per la zona degli alloggi e 3 piedi per i depositi principali.Tale scelta si dimostrò lungimirante, pur non realizzata. Nella rovinosa piena del 1882, l’acqua dell’Adige porterà le acque all’interno dell’Arsenale al livello di 1,41 metri sul piano del piazzale, con ingenti danni patiti dall’artiglieria del Regno d’Italia, allora proprietario del complesso.La Genie direction di Verona comunica alla General Genie Direction di Vienna che il 28 agosto è iniziata la costruzione delle fondazioni della corte delle officine, e di entrambi i depositi ad un piano del nuovo Arsenale di Artiglieria. La cerimonia di posa della prima pietra viene però celebrata il 18 dello stesso mese, in concomitanza con il 43esimo compleanno dell’Imperatore Franz Josef I, al quale verrà intitolato l’Arsenale.

Per comprendere come dall’Entwurf Skizze si sia giunti, di fatto, ad un Arsenale incompleto, occorre valutare le vicende che hanno interessato le fasi di costruzione precedentemente descritte, per ogni singolo blocco funzionale che oggi si può ancora ammirare, per poi giungere alla nebulosa fase della conclusione dei lavori, più tarda di quella prevista, ormai nel meriggio della dominazione austriaca della città.

La corte centrale delle officine

Alla costruzione della corte delle officine è riservata la massima priorità.

Essa è stata collocata, come da programma, nel primo anno di edificazione

L’Arsenale nella Campagnola, immaginato da Michael Maly e la General Genie Direction , in una veduta a volo d’uccello del 1854 (Litographie Rust in Verona) In basso: riproposizione grafica del progetto originario.

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dell’Arsenale.

Particolare cura è riservata alla pratica funzionalità d’interno e alla sicurezza dell’edificio destinato alla lavorazione con il fuoco, ovvero il corpo rettilineo settentrionale, destinato ai fabbri ferrai ed i meccanici.

L’Entwurf Skizze prevedeva per gli interni delle officine una copertura a volte, su archi e pilastri, divisi da un’intercapedine dai tetti, sorretti da capriate metalliche, il tutto organizzato su due navate con pilastri intermedi, come nei magazzini perimetrali.

Tale soluzione, a opinione di Petrasch, appare poco conveniente, specialmente considerando la necessità di collocare camini. Essi infatti, che siano a cupola o semplici, non possono essere addossati ai pilastri, ma a causa della struttura costruttiva, devono essere posti al centro delle campate.

“Poiché la canna fumaria dovrà attraversare la chiave dell’arco, sarà necessario predisporre conci di pietra da taglio, scavati, la cui grandezza dipende dalla ciminiera”, e tale soluzione, oltre che svantaggiosa per la distribuzione della luce naturale, renderà difficoltose le operazioni di maneggio e spostamento delle lunghe barre metalliche necessarie alle operazioni di fucina.

Oltre a questo, la macchina a vapore, cuore pulsante dell’edificio, necessita di argani di lunghezza ragguardevole per distribuire la forza motrice alle officine.

Al posto delle volte Petrasch propone dei solai piani, con un soprastante piano in tavelle laterizie, retti da colonne di ghisa, e di rivestire il soffitto con una plafonatura di lamiera metallica dipinta con vernice ad olio grigia, da fissare alla struttura lignea con staffe distanziatrici, per prevenire che le scintille prodotte dalla battitura dell’acciaio rovente potessero causare incendi.

Per il ristagno d’aria tra il solaio e la plafonatura di sicurezza, l’intercapedine sarà ventilata con prese d’aria nei muri perimetrali.

Senza le volte, i camini possono essere addossati alle colonne di ghisa, ai

lati della trave centrale. Tale soluzione svincola il sistema dall’utilizzo delle capriate metalliche, ritenute dall’ingegner Petrasch una sconveniente possibilità, per questioni economiche e anche perché

“sono sempre soggette a movimenti, e la loro costruzione è quanto mai ardua giacché la carpenteria metallica in questa regione è ancora ad un grado poco evoluto30” Per i tetti, Petrasch propone una soluzione tradizionale, l’utilizzo del sistema milanese, che prevedeva la posa dei coppi direttamente sui conventini, al contrario di quello veneziano, in cui erano posati erano posati sul piano di tavelle leggere.

Le coperture a sistema veneziano vennero tuttavia prescritte dalla General Genie Direction nei locali in cui fosse più urgente la protezione contro l’umidità. L’ultima parola da parte del Genio viennese viene anche data sull’utilizzo delle volte, rendendo la copertura totalmente libera e senza soffitto, formata dalla sola struttura del tetto, per il quale tuttavia conferma le capriate metalliche.

Il problema resterà irrisolto anche iniziati i lavori di fondazione, dopo che la General Genie Direction proporrà delle coperture di tipo Winiwärter’schen a pannelli di lamiera ondulata, costruito sotto un arco di 60 gradi. Petrasch non riterrà questa soluzione adatta, ma dopo altre tribolazioni, neanche il suo giudizio verrà salvato dalle critiche, visto che la plafonatura da lui prevista avrebbe potuto essere d’esca al fuoco, con le loro staffe e inchiodature roventi.

La questione della ventilazione è risolta come da disegno, con l’apertura di

30 PETRASCH, 24 aprile 1854, ms.cit in BOZZETTO, LINO VITTORIO, Verona e Vienna, Gli arsenali dell’Imperatore; Architettura militare e città nell’Ottocento, 1996, Cierre Edizioni, Verona, p.68

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grandi superfici finestrate, e ci si mantiene sull’idea di liberare quanto più possibile lo spazio in altezza.

Sulla decisione finale anche la fonte secondaria di Bozzetto rimane nebulosa.

Per quanto riguarda l’altro edificio della corte, saranno utilizzate coperture a capriate lignee con occasionali diaframmi divisori sormontati da capriate lapidee ad arco.

Con la costruzione della corte centrale fa la sua comparsa anche il tema stilistico predominante dell’Arsenale, che ha la sua origine in una scelta anche tecnologica; Petrasch propone di modificare l’orditura muraria delle facciate, sostituendo alla prevista tessitura liscia di mattoni a vista, un paramento di tufo a listature orizzontali di laterizio, a imitazione delle costruzioni medievali veronesi 31.

La vicinanza della Basilica di San Zeno potrebbe indicare questa come precisa fonte di ispirazione, anche se è probabile che l’ingegnere avesse una vasta cultura sulle tradizionali modalità costruttive locali. Molto interessante è il paragone che ad esempio si potrebbe ricavare osservando il Palazzo della Ragione in Piazza Erbe, allora non ancora deliberatamente “purgato” dalle successive stratificazioni storiche dalle manie restauratrici postunitarie, ma in cui poteva ancora leggersi il substrato romanico, con la medesima tessitura.

Se le ragioni culturali di tale suggestione saranno esplorate nel prossimo capitolo, vale la pena di soffermarsi sull’aspetto prettamente pragmatico: analizzando e comparando il costo unitario di una parete con muratura di pietrame mescolata a strati di laterizio, nella proporzione di 1/3, aveva realizzato la superiore economicità di tale impiego, soprattutto effettuando la scelta del laterizio veronese, contro quello mantovano, più costoso.

Per le superfici esterne, Petrasch scelse di usare quest’ultimo, in quanto lo

31 Soluzione peraltro ripresa, nel 1857, nel tribunale e carcere costruito accanto alla Chiesa di San Tommaso

riteneva più resistente all’umidità e più gradevole esteticamente. Secondo Bozzetto, tale scelta “non al ribasso”, sarebbe la testimonianza di come “lo spirito di economia per l’erario doveva essere applicato nella giusta misura dettata dalla necessaria funzionalità, solidità e bellezza. In ciò consiste il talento dell’architetto militare, ed il dovere della Genie Direction32” .

Un’ultima menzione di carattere funzionale sulle officine è quella da fare sulla presenza dei Kranbalken, ovvero le travi elevatrici che sporgono dalle testate che collegano l’edificio meridionale a “U” con quello settentrionale, utilizzate per sollevare le materie prime da immettere nei locali.

Le corti laterali dei magazzini

Per i depositi sulle corti laterali si decise, d’accordo con il progetto originale, l’utilizzo di un sistema strutturale lapideo, costituito da due navate di archi voltati a crociera, e per sorreggere la copertura, di diaframmi ad arco rampante intervallati da travi e travetti lignei.

Queste costruzioni conoscono una notevole controversia costruttiva, proprio nell’anno previsto per la loro realizzazione, il 1855.

Nella persona dell’ingegner Pietro Gonzales l’impresa Trezza esprime timori sulla solidità dei pilastri centrali di tali strutture, a suo avviso troppo sollecitati dal peso delle volte in laterizio e dagli archi d’imposta.

Il tufo veronese, secondo i calcoli dell’ingegnere, avrebbe posto dei problemi di integrità, in quanto il carico unitario (rispetto alla sezione) in esercizio equivaleva solo alla quinta parte della tensione di rottura, evidentemente inferiore rispetto al coefficiente di sicurezza di 1/10 preferibilmente osservabile.

Per questa ragione propone a Petrasch una soluzione radicale: sostituire

32 BOZZETTO, LINO VITTORIO, Verona e Vienna, Gli arsenali dell’Imperatore; Architettura militare e città nell’Ottocento, 1996, Cierre Edizioni, Verona, p.69

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alle volte a crociera le volte boeme, più leggere ed economiche.

Ciò avrebbe significato demolire le sedici campate voltate già edificate del magazzino occidentale ad un piano. Per il magazzino a due piani, invece, l’impresa ha maggior sicurezza per la maggiore robustezza dei pilastri e la spinta orizzontale sarà contenuta dai contrafforti, rafforzati con catene metalliche. Il problema sarà rigirato alla General Genie Direction, e successivamente al nuovo direttore del Genio veronese, il successore di Petrasch, l’ingegner Felix von Swiatkiewicz (direttore dal 1839).

Pur riconoscendo la notevole sollecitazione dei pilastri, quest’ultimo non vede come viabile l’opzione di demolirli e sostituirli con elementi in pietra da taglio, più resistente. Tale azione genererebbe infatti un ritardo sulla tabella di marcia non indifferente. Swiatkiewicz esprime inoltre scetticismo sull’utilizzo delle volte boeme, perché il loro utilizzo andrebbe uniformato anche ai magazzini di due piani, e la capacità resistente di tali volte in rapporto al peso dei materiali d’artiglieria non garantirebbe il necessario margine di sicurezza. L’impresa realizza, a proprie spese, una volta boema di prova. Gonzales tuttavia ottiene risposte non favorevoli alle sue richieste, e Petrasch, assente dall’ufficio per una licenza, rimanda il problema a Swiatkiewicz, considerato egualmente esperto di materiali locali.

In fase di costruzione delle fondazioni Gonzales aveva già proposto l’utilizzo del marmo per i pilastri dei magazzini, ma Petrasch, pur nella coscienza di dover quantomeno utilizzare blocchi monolitici per l’intaglio dei pilastri, ritiene il tufo perfettamente in grado di resistere alle tensioni in gioco, e bolla il coefficiente richiesto da Gonzales di esagerazione.

Addirittura, l’ingegnere asburgico accusa l’impresa di voler utilizzare la pietra da taglio per aumentare il guadagno, e invita la stessa all’utilizzo di conci di solo tufo scelto e perciò potrà esporre tutti i motivi per essere indennizzato per altre ragioni.

Petrasch sembra individuare il problema; l’esecuzione dei lavori è troppo rapida per permettere alla malta di calce area di consolidarsi. Purtuttavia,

alla relazione inviata alla General Genie Direction, conviene con Gonzales sull’utilizzo di volte boeme, ma in un profilo alternativo proposto da Swiatkiewicz.

Alla fine, il Genio viennese non se la sente di demolire in maniera così estesa, e ordina l’utilizzo di catene metalliche semplici o doppie inserite nei contrafforti e nelle volte.

Gonzales critica tale scelta, arrivando a dichiarare di non garantire per il futuro

“non tanto per la spinta laterale delle volte, quanto per la pressione a cui sono sottoposti i pilastri intermedi […] (a ciò) si è rimediato con uno spreco di catene33” Anche Swiatkiewicz dimostra preoccupazione, anche per l’inasprimento delle relazioni tra il Genio e l’impresa.

Il tempo passa, e si arriva all’anno successivo, il 1856. Il Genio viennese invia Michael Maly, disegnatore dell’Arsenale e autore dell’Entwurf Skizze.

Dopo un’attenta ispezione dei manufatti, egli esprime disappunto per la faccenda delle catene metalliche, ma anche per le volte di Swiatkiewicz, anche perché su due moduli costruiti per prova con volte boeme, erano apparsi segni di cedimento verso l’esterno. Di questo effetto aveva anche parlato Petrasch, ma ne aveva attribuito la causa alla eccessiva velocità della costruzione rispetto ai tempi di consolidamento della malta. Maly è tuttavia di differente avviso: non ci sono problemi sui pilastri centrali, come ricalcato da Gonzales, come dimostrano le osservazioni fatti da egli stesso. Il problema è il troppo esile spessore dei contrafforti esterni.

Sostituire quelli esistenti richiederebbe eccessive demolizioni, oltre che

33 SWIATKIEWICZ, 1 giugno 1856, ms.cit in BOZZETTO, LINO VITTORIO, Verona e Vienna, Gli arsenali dell’Imperatore; Architettura militare e città nell’Ottocento, 1996, Cierre Edizioni, Verona, p.15

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un turbamento del ponderato spazio interno (misurato sull’artiglieria da stoccare). Si decide risolutamente per l’aggiunta di spessi contrafforti supplementari. La scelta si rivela felice anche formalmente, per il gusto dell’epoca, dando più solidità severa agli edifici ed esaltando plasticamente il chiaroscuro delle facciate. Bozzetto esalta questa scelta arrivando a dire che “il cerchio si chiude nelle sue mani: l’architettura dell’Arsenale, ideata da Maly, trasfigurata e messa in opera da Petrasch, giunge alla perfezione”.

Il progetto ridotto

Il piano settennale di costruzione dell’Arsenale verrà pesantemente compromesso dalle vicende costruttive dei magazzini, che ritarderanno i lavori di oltre dieci mesi. Il destino della corte settentrionale, la cui costruzione era prevista per il triennio 1855-57, sembra sempre più incerto.

Oltre alla controversia costruttiva, anche altre cause, specialmente di natura economica concorreranno alla necessità di ridefinire il programma.

Come se non bastasse, il sollevamento dal Comando di Radetzky nel 1857 (e la sua morte nell’anno successivo) eliminerà l’importante carica decisionale che questo personaggio esercitava sui lavori di Verona.

Sempre nel corso di quest’anno cruciale, l’Imperatore decreta una riduzione dell’estensione del progetto, anche in virtù di suoi dubbi sull’effettiva necessità di completare l’opera nella dimensione prevista:

“Riguardo all’Arsenale di artiglieria di Verona, è da prendere in considerazione se, ed in quale misura, la prosecuzione dei lavori […] si dimostri inevitabile e necessaria, col fermo riferimento alle rilevanti capacità produttive ed alle provviste dell’Arsenale viennese, ed inoltre in riferi-

mento ai depositi di artiglieria che, in ogni caso, sono già disponibili a Verona. Inoltre si dovrà rispondere alla domanda, per quanto tempo si potrà differire il programma ristretto di completamento34” Dopo valutazioni da parte del Genio e dei reparti di artiglieria, si sospende il giudizio fino a nuovi sviluppi. Si decide successivamente di ridurre il progetto affinché risponda alle sole necessità dell’Artiglieria tecnica, quindi eliminando la parte di stoccaggio dell’artiglieria da campagna (come in origine aveva proposto Petrasch). Non saranno inoltre costruiti i padiglioni per le residenze/alloggi, e l’Hauptgebäude viene ridimensionato. Ad una concreta possibilità di un futuro recupero del progetto originario pone fine nel 1859 il riordinamento dei servizi tecnici dell’Artiglieria. Nebulosa è la vicenda che riguarda la decisione di munire il nuovo progetto di un muro di cinta: probabilmente una conclusione maturata da necessità figurative più che difensive, di chiusura unitaria del progetto. Piuttosto deliberati appaiono in quest’ottica i torrioni angolari del recinto, di foggia quattrocentesca, probabilmente aggiunti per richiamare la romantica idea dell’Arsenale come di una città murata medievale, addirittura con tipologie figurative che precedono l’era delle armi da fuoco.Sta di fatto che gli ultimi lavori non sono più documentati nei manoscritti Kriegsarchiv di Vienna, e persino la penna estremamente diligente di Lino Vittorio Bozzetto non chiude la vicenda costruttiva dell’Arsenale.Ciò che può fungere da chiosa è l’osservare il complesso reale, ridotto a 6,9 ettari di superficie, contro gli 11,76 dell’Entwurf Skizze, considerando anche che la guerra del 1859 farà

34 K.A.W., G.G.D. 1857, 12-2/2, EH WILHELM, K.K. Armee Ober Kommando. Über der aller unterthänigsten Vortag des Armee Ober kommando, Wien,19 gennaio 1857 in BOZZETTO, LINO VITTORIO, Verona e Vienna, Gli arsenali dell’Imperatore; Architettura militare e città nell’Ottocento, 1996, Cierre Edizioni, Verona, p. 88

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sospendere i lavori. Come data di chiusura, le fonti sembrano concordare sull’anno 1861, in cui viene terminato il Palazzo del Comando (Hauptgebäude) e il recinto perimetrale.

La vicenda dell’Hauptgebäude

Ultima menzione va fatta sull’edificio destinato all’armeria e al comando.

Sulle sue vicende progettuali esiste un documento cardinale, un disegno datato sicuramente dopo il 1856 (vedi pag. 72), in cui si osserva il prospetto verso meridione, di rimpetto a Castelvecchio. Il disegno è anonimo, ma è sostanzialmente fedele all’opera realizzata, se non per alcuni dettagli figurativi. Il complesso scultoreo allegorico che sovrasta il timpano (due grifoni che sorreggono lo scudo asburgico con l’aquila bicipite) è stato effettivamente realizzato, ma destinato successivamente a Porta Nuova, dove ancora oggi è osservabile. Il progetto si discosta dalla controparte dell’Entwurf Skizze (basato a sua volta sul Waffenmuseum Viennese) per le scelte decorative, ma si mantiene sulla stessa linea tipologica. Il museo delle armi è previsto per il piano superiore del blocco centrale, anche se si tratta più che altro di una sala espositiva dei trofei. Nelle ali laterali viene posta l’armeria, in una sequenza di ambienti coperti da volte ribassate.Il progetto definitivo verrà probabilmente studiato nel 1857, e di questo resta testimonianza un disegno con sezioni dettagliate ai sistemi costruttivi conservato al Kriegsarchiv di Vienna. La vicenda costruttiva dell’Arsenale avrà anche una data di chiusura spirituale: nell’agosto 1858 muore, improvvisamente, Michael Maly, uno dedue padri del progetto. Nello stesso anno, come menzionato, morirà anche Radetzky.Petrasch verrà trasferito a Znaim, in Moravia, per insegnare all’accademia del Genio nell’ex convento di Klosterbruch, dove morirà nel 1863.

Organizzazione funzionale dell'Arsenale, nella sua configurazione originaria: A. Fucina per i ferri di cavallo; B.B. Fabbri Ferrai;C. Macchina motrice a vapore; D.D. Meccanici; E. Tornitori; F. Armorari; G. Officina per avvitare il grano dei foconi;I. Verniciatori; L. Sellai; M. Uffici amministrativi e tecnici; N.N. Carpentieri; O.O. Bottai; P.P. Carradori; K. Depositi del carbone e materie prime; P. Pozzi;R. Magazzino di artiglieria a due piani; Q: Magazzino di artiglieria a un piano; S: Scuderie_Palazzina di Comando: T: Locali del Comando; U: Atrio; V: Scalone; W: Armeria; X. Torrioni d’angolo

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Severità pittoresca: considerazioni stilistiche sul manufatto Le peculiarità architettoniche che rendono l’Arsenale oggetto d’interesse storico non si fermano soltanto alla sua organizzazione spaziale, che può fornire, all’uomo del presente, una vaga idea di come si potesse organizzare l’imponente macchina logistica che alimentava i conflitti del XIX secolo; l’Arsenale di Verona è prima di tutto uno statement culturale, politico e architettonico che ben rappresenta il complesso e sfrangiato dibattito che nell’ottocento vedeva nascere le basi dell’architettura moderna. Nel corso degli anni si è dato per scontato il valore dell’architettura dell’Arsenale, senza tuttavia definirlo in sede critica, che vada al di là di semplice “documento storico” ma che abbia, in sé, il germe del progetto di qualità. Tale cristallizzazione (e immediato “fermo” su qualsiasi intervento, inserendo il complesso nella lista delle emergenze architettoniche veronesi) ha impedito un dibattito serio su quale sia effettivamente la cifra “pedagogica”, in termini architettonici, del complesso.L’effettivo valore, in termini puramente architettonici, del manufatto, può dipendere da cosa si intenda valorizzare in astratto di questa costruzione. Si potrebbe argomentare, anche peccando di superficialità, che l’Arsenale sia in fondo uno dei tanti prodotti dell’architettura storicista, che ad un sottotesto compositivo di matrice razionalista (espresso attraverso l’organizzazione lessicale del linguaggio classico, adattato alle funzioni, da buon prodotto della “scuola” di Jean-Nicolas-Louis-Durand) aggiunge, come una “pelle”, dei connotati stilistici intercambiabili nelle infinite possibilità offerte dalla conoscenza del repertorio storico dell’architettura, in cui lo stile diventa una sorta di conveniente espediente linguistico.

L’Arsenale nell’epoca dello stile

Il problema dello stile è chiaramente centrale nella trattatistica ottocentesca, e assume, nella schizofrenia degli indirizzi culturali, un continuo motivo di discussione.

Già agli albori dell’Illuminismo, quando Boullée e Ledoux iniziarono a trattare l’architettura come un testo fatto di forme pure, si veniva a delineare il problema fondamentale del Moderno: se da un lato l’esigenza di superare la nozione di stile tradizionale era ben compresa, “il canone classico dell’estetica non veniva tuttavia sostituito con un nuovo sistema altrettanto coerente” 35.

Il classico divenne, per certi versi, l’unico versante astratto di ricerca architettonica, e per tutto il XIX secolo, l’unica cifra compositiva dello spazio, vero oggetto d’interesse dell’architettura.

A coronamento di esso, lo stile diveniva quindi immagine di sovrastrutture diverse. Fu da un lato pretesto per individuare una cifra identitaria nell’epoca dell’alba dei nazionalismi, e dall’altro una pletora di possibili scelte estetiche di carattere moraleggiante, come ha osservato William J.R. Curtis:

“In una versione di revivalismo, alcuni stili storici erano considerati intrinsecamente superiori ad altri, a volte rispetto a parametri estetici, altre volte in virtù del fatto che alcuni periodi della storia erano ritenuti culturalmente migliori di altri. Imitando lo stile scelto si sperava 35

GÖSSEL PETER, LEUTHÄUSER GABRIELE, Architettura del XX Seco-

lo, Taschen, Berlino 2012, p. 13

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debolmente di poter anche riprodurre le sue eccellenze supposte e virtù morali connesse. Ma sussisteva l’evidente pericolo che si arrivasse a copiare le esteriorità senza riprodurre le qualità più intime, andando così a finire in uno stanco accademismo o nel pastiche36” Si partiva da una visione della Storia di carattere viciano, in cui si pensava che a epoche di cristallina superiorità morale si alternassero periodi di barbarie. L’architetto come operatore culturale era una sorta di interprete di tale visione del passato, e la scelta dello stile diveniva conveniente rispetto alle differenti agende. A proposito di neomedievalismo, il grande storico dell’arte Richard Krautheimer riconosce una sostanziale distanza tra l’idea della “copia” in epoca medievale di un edificio esistente (si riferisce in particolare alle molte chiese che riprendono, anche in maniera non pedissequa, i caratteri della Basilica del Santo Sepolcro), più basata sul richiamo spaziale, e la “superficiale” ritrattazione che l’Ottocento fa dei caratteri medievali stessi:

“Al tempo stesso pare che gli edifici comincino a perdere la capacità di comunicare il loro “contenuto”; questo processo, sebbene più volte interrotto da fasi di controtendenza, s’intensifica fino a raggiungere il suo culmine tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo. I vari tipi architettonici vengono ora usati indipendentemente dal 36 WILLIAM J.R. CURTIS, L’architettura moderna dal 1900, Phaidon, terza edizione, 2006, p. 24

loro significato originario: ad esempio a New York la copia di un tempio greco è adibita a ufficio doganale e poi filiale del Tesoro […] la copia di una cattedrale gotica a palazzo per uffici […]. Le moderne copie architettoniche […] trascurano proprio quell’elemento che nel medioevo era più importante: l’espressione del contenuto e del significato dell’edificio37” Non mancarono, tuttavia, le eccezioni.

Se si pensa agli architetti più talentuosi dell’Ottocento, come Schinkel, Labrouste o Richardson, sempre secondo Curtis, essi furono in grado di analizzare i principi degli stili storici, e non necessariamente per scimmiottarne gli effetti esteriori, ma per ottenere una straordinaria capacità lessicale che desse una “prodigiosa unità creativa” nei loro risultati.

Se si osservano ad esempio le opere di Schinkel, si osserva una straordinaria “modernità” nell’affrontare i problemi, nell’ottica che molte di esse furono influenzate da fattori pragmatici e di convenienza spaziale quasi gestaltica più che da formule precostituite o superficiali “mode” sugli stili da utilizzare.

La rivoluzione industriale, e la separazione brusca tra la figura dell’architetto (formatosi nelle accademie di belle arti) e dell’ingegnere (formatosi nelle scuole politecniche) inasprì il divario a tal punto da giungere agli esiti novecenteschi in cui Le Corbusier, per indicare le architetture che più puramente esprimevano quell’autenticità, utilizzò il piroscafo o il silo.

Nell’ottocento la questione dello stile non giungerà mai a quell’astrazione,

37 KRAUTHEIMER, RICHARD, Architettura Sacra Paleocristiana e Medievale, Universale Bollati Boringhieri, 1993, p.124

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se non per passi a tentoni, individuando nella sincerità costruttiva il nuovo stile o creando un pastiche tra tutti gli stili del passato, il cosiddetto eclettismo (ravvisabile anche nell’Hauptgebäude dell’Arsenale).

La romantica idea di medioevo come di età in cui la sincerità costruttiva avrebbe avuto, anche in architettura, un esito moralmente significativo, fu portato avanti in aperta opposizione all’utilizzo del bacino delle forme industriali per generare un nuovo linguaggio congeniale allo Zeitgeist.

Tracce di questo pensiero alto ed astratto perverrà nell’operatività dei grandi maestri del Moderno europeo, che tuttavia accetteranno il compito di nobilitare l’estetica industriale e saranno influenzati in termini spaziali dai nuovi ritrovati figurativi delle avanguardie e dall’esperienza americana di Wright e Sullivan.

Solo dopo il tramonto dell’Art Nouveau (ispirato ad una sintesi di riferimenti naturalistici) la questione dello stile espresso da ornamenti e scelte superficiali (letteralmente) perderà di influenza culturale.

La critica moderna all’architettura storicista, se epurata dalle sue pretese utopistiche, ha una validità se si considera il valore del senso dello spazio e del luogo come punti cardine della qualità di un edificio.

Ci fu anche, nel corso della prima metà del XX secolo, un’inversione di tendenza in senso filosofico, in cui il passato non poté più rappresentare un mercato aperto in cui figurativamente trafugare forme e elementi per i più svariati utilizzi, bensì una miniera da cui cavare l’essenza della storia, al di là della superficie. Queste idee erano già presenti, in potenza, prima dell’esplosione moderna (erano ad esempio il nucleo della teoria di Semper) ma non avevano mai trovato esiti progettuali coerenti. Sempre secondo Curtis:

“Fu ugualmente possibile considerare la storia dell’architettura, non tanto come una sequenza di stili, quanto una serie di trasformazioni di tipi base che ponevano le

proprie radici in un lontano passato e che derivavano da pochi elementi e forme archetipiche […] Secondo questo punto di vista, numerose invenzioni di differenti stili e periodi potrebbero basarsi sullo stesso criterio tipologico e condividere una origine comune. Per esempio l’Altes Museum (1824-28) di Schinkel, La Cappella Woodland (1918-20) di Asplund e il Parlamento (1951-63) di Le Corbusier a Chandigarh, nonostante varino in funzione, materiale e stile, potrebbero essere tutti visti come trasformazioni di una stessa idea basilare, cupola e portico –un tipo esemplificato in modo assai chiaro nell’antichità dal Pantheon di Roma del II secolo d.C.38” I maestri della modernità seppero essere “tradizionalisti” in senso universale, talmente era archetipico e astratto il loro linguaggio, sempre comunque legato agli esempi di spazio del passato. Nel tardo movimento moderno, anche l’idea di luogo prese a divenire fonte di questa astrazione (in modi diversi, ad esempio, in autori come Aalto, Scarpa o Kahn).

L’apporto del passato non era comunque inteso come pedissequa “variazione sul tema” di costruzioni già esistenti, le cui vicende culturali erano banalizzate in una sorta di “eterno presente” da cui saccheggiare lo stile più consono alla situazione. Interessante in questo senso è l’osservazione

38 WILLIAM J.R. CURTIS, L’architettura moderna dal 1900, Phaidon, terza edizione, 2006, p. 29

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che Bruno Zevi fa a tal proposito in Architectura in Nuce:

“Durante l’Ottocento […] al culto del mondo greco e romano si aggiunsero quelli del gotico, del bizantino, dell’egizio, dell’orientale […] si ebbe anche allora l’illusione che i monumenti del passato non fossero fatti storici definiti e conclusi, ma argomenti presenti e ripetibili.

Da questa illusione sorsero i revivals e un atteggiamento verso i monumenti che non si rivelò molto più rispettoso del precedente (quello quattrocentesco, n.d.a) come gli artisti del Quattrocento, disegnando le antichità romane, non si peritavano di perfezionarle secondo il loro estro, così nell’Ottocento si perpetrarono i restauri più arbitrari con la convinzione di poter completare e magari migliorare i monumenti del passato39” .

Non esisteva, in altre parole, il concetto di falso storico, e di come il valore delle forme architettoniche fosse tale proprio perché prodotto in un contesto culturale diverso da quello del presente.

Tenendo conto di questi punti di vista, è ancora possibile ritenere l’Arsenale di Verona un episodio significativo per lo sviluppo dell’architettura

39 ZEVI, BRUNO, Architectura in nuce, Volume 17 di Habitat, Quodlibet, 2018 (prima ed.1960), p.204

europea, e quindi passibile di salvaguardia anche in una veste che vada al di là di semplice testimonianza storica?

Una valutazione che veda il manufatto come architettura d’interesse anche al di fuori della propria vocazione di documento militare, dovrebbe muoversi sulla considerazione spaziale e tipologica.

In questo senso, l’Arsenale non reinventa un tipo pregresso (è piuttosto una rielaborazione del suo analogo viennese) e anche nella sua rielaborazione dell’archetipo germanico della Zeughaus si rifà comunque a modelli esistenti. In termini spaziali, inoltre, si affida una solida e severa simmetria marziale da manuale, razionale sì, ma non dissimile da una montagna di esempi coevi. Anche la sua appartenenza a Verona è rintracciata nell’unico codice riconoscibile come palesemente veronese, ovvero la bicromia del romanico comunale, la cifra più pittoresca e selettiva del medioevo sulle rive dell’Adige, nonché vicina linguisticamente all’adozione del Rundbogenstil. Un’appartenenza dunque di facciata, lontana dalla genialità delle soluzioni di Von Scholl (con cui tenterà una sintesi) e dall’opzione, balenata ai progettisti, di realizzare l’Arsenale in cotto a vista, soluzione più astrattamente “italiana” e localmente connessa alla fase gotico-scaligera della città.

Miseria dello storicismo

In linea con la cultura neomedievalista del periodo, qualche studioso potrebbe avanzare l’ipotesi che l’Arsenale sia la manifestazione di un principio di sincerità strutturale e costruttiva, arrivando a concludere che in questo orientamento si possa scorgere il seme della modernità, un po’ come nel Berlage della Borsa di Amsterdam.

Le interpretazioni, ovviamente, possono variare e si può dimostrare, nella maniera che Umberto Eco ha insegnato ne il Pendolo di Foucault (dove astrusi intellettuali esoterici ritrovavano conferma delle proprie teorie an-

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che dove non vi era evidenza reale) che un oggetto abbia precorso la strada battuta da altri di molti decenni, e che Petrasch e Maly abbiano effettivamente costruito un gioiello intoccabile di architettura, il cui destino non può che cadere nelle mani di un filologico restauro conservativo.

Prima di tutto, bisogna considerare che se la pianificazione dell’Arsenale mostra dei caratteri indubbiamente pragmatici, essi sono comunque espressi in funzione del medesimo meccanismo di “ricerca di uno stile”. La sincerità strutturale non viene mostrata nella magnificenza dell’esattezza dei calcoli, come avrebbe fatto un Pier Luigi Nervi un secolo dopo, ma è comunque affidata al codice già esistente del romanico. Si scorge, in altre parole, l’incapacità di astrazione, che invece è propria delle grandi architetture e del loro carattere atemporale. Anche la vicenda dei contrafforti nei magazzini, in cui un problema strutturale viene risolto con un espediente compositivo, è frutto dell’adattamento, e non di una intenzionalità “sincera” a priori, ma pur sempre un sistema in cui si adatta un codice alla situazione.

Quel che rimane, per fare un’analisi seria e rigorosa, del manufatto, è comprenderlo nel contesto culturale in cui esso è stato prodotto, in cui le qualità di spaziali dell’architettura erano soltanto intuite dai pochi maestri, nel mare di formule modulari durandiane e vestiti storicisti.

In questo senso è innegabile ritrovare il senso ottocentesco di stile se si indagano le origini del Runbogenstyl. Scrive Bozzetto, a proposito dell’Arsenale di Vienna:

“L’Accademia di Belle Arti, preposta alla formulazione dei principi estetici in architettura, era effettivamente in grado di indirizzare, anche a Vienna, l’evoluzione del gusto verso il Neomedievalismo che in quel tempo si affermava negli Stati tedeschi. Alcuni allievi di Pietro Nobile, in par-

ticolare Ludwig Foerster, […] si orientarono decisamente verso il Rundbogenstyl. Lo giudicavano adatto a risolvere, contemporaneamente, i problemi legati alla funzionalità, all’impiego di una tecnologia costruttiva modulare, e alla formazione di una nuova estetica nazionale40” L’utilizzo dello stile ricade nella descrizione già effettuata da Curtis; riportare in vita le virtù morali e identitarie dell’architettura del passato. Una precisazione è d’uopo: il Rundbogenstil non è propriamente un neoromanico, bensì una riproposizione, in chiave eclettica e paratattica, del romanico bavarese unito ad altre reminiscenze germaniche, nell’ottica di una ricerca, ancora una volta, di uno stile nazionale. Esso era emerso nell’attenzione dei progettisti di area tedesca nel 1828, quando Heinrich Hübsch ne aveva esaltato le qualità di nuovo stile che potesse conciliare l’”oggettività dello scheletro” con la “consistenza” dell’ornamento. La replicazione di queste qualità era, appunto, affidata alla cultura figurativa del progettista, essenzialmente garante, nella sua capacità citazionistica, di poter risvegliare i poteri dell’architettura riportandone in vita i caratteri letterali. Un po’ come fece il coevo e romantico dottor Frankenstein di Mary Shelley, il cui mostro viene riportato in vita dallo “spirito” della ragione, ma utilizzando pur sempre frammenti di cadaveri.

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BOZZETTO, LINO VITTORIO, Verona e Vienna, Gli arsenali dell’Im-

peratore; Architettura militare e città nell’Ottocento, 1996, Cierre Edizioni,

Verona, p.23

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La controversia “coloniale”

Pierpaolo Brugnoli, nel suo Eclettismo, neoromanico e neogotico nell’architettura dell’Ottocento ha proposto una singolare interpretazione dell’architettura ufficiale austriaca nella città scaligera. Nella sua opinione, quest’ultima “ispirandosi non tanto alla tradizione locale, quanto piuttosto al romanticismo d’oltralpe e segnatamente in quello viennese, imponeva a Verona, quasi in chiave coloniale, la costruzione di Castel San Pietro, dell’Arsenale e della fronte esterna di Porta Vescovo”41 .

Tale affermazione getta nuova luce sul significato di queste costruzioni, e risulta particolarmente appropriata se si considera la destinazione militare di tali interventi.

L’aggettivo “coloniale” sembra applicarsi in maniera calzante, se si considera la definizione da manuale di questo tipo di architettura, ovvero realizzata dai colonizzatori (dominatori) con elementi provenienti dagli stili e tipologie della madrepatria, talvolta fondendoli con le permanenze culturali del paese d’arrivo.

Se si considera l’aspetto figurativo dell’Arsenale, e lo si confronta (con le dovute precauzioni) con le esperienze britanniche in India nello stesso secolo, appare semplice confrontare l’eclettismo delle forme classicamente occidentali unite all’ornamentazione orientale, con il Rundbogenstil fuso con il romanico locale.

La differenza che intercorre tra questi due esempi sta nel fatto che ci troviamo di fronte ad un atteggiamento di “rispetto” maggiore da parte degli austriaci, data l’importanza dell’Italia nella formazione della cultura ger-

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BRUGNOLI, PIER PAOLO, Eclettismo, neoromanico e neogotico

nell’architettura dell’Ottocento, in BRUGNOLI, PIER PAOLO e SANDRINI,

ARTURO, L’architettura a Verona dal periodo napoleonico all’età contemporanea, 1994 Banca Popolare di Verona, Verona, p.80

manica, ma se si considera il tentativo nazionalistico di inclusione forzata delle differenti componenti dell’Impero perpetrato in nome di una unità reazionaria, anche l’edificazione di queste opere appare quanto mai imposta.

Brugnoli afferma anche come non esistesse, di fatto, una contrapposizione netta tra il neorinascimento come simbolo della riscossa veneto-lombarda degli architetti locali e il neoromanico in chiave austriaca. Purtuttavia, riporta questi interventi come “estranei alla città e i modi di costruire qui messi da secoli in essere”, e a sostegno di tale visione, la testimonianza del prefetto Sormani Moretti, che nel 1904 considerava ancora estranee queste architetture, definendo

“L’Arsenale dall’aspetto di Castello medioevale e castello e gusto tedesco […] Castel San Pietro dall’aspetto di Castello medioevale e gusto alemanno”, giudizio che sarebbe stato legato “al rifiuto psicologico di queste architetture mai ‘viste’ o stranamente ‘viste’ dagli italiani 42

”.

Forse nell’ottica di una salvaguardia dell’Arsenale dopo la cessione al Comune di Verona da parte dell’Esercito Italiano, avvenuta nel 1995, Lino Vittorio Bozzetto, nel suo documentatissimo saggio sul manufatto dell’anno

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BRUGNOLI, PIER PAOLO, Eclettismo, neoromanico e neogotico

nell’architettura dell’Ottocento, in BRUGNOLI, PIER PAOLO e SANDRINI,

ARTURO, L’architettura a Verona dal periodo napoleonico all’età contemporanea, 1994 Banca Popolare di Verona, Verona, p.80

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successivo, si lascia andare a elogi enfatici sulle qualità dello stesso, criticando la tesi di Brugnoli, e arrivando a definire l’Arsenale come addirittura precursore delle architetture del regionalismo critico.

L’utilizzo spregiudicato, da parte di Bozzetto, del termine genius loci, sembra voler ribadire come nell’intenzione dei dominatori vi fosse una sorta di felice matrimonio tra l’esistente e il costruito.

A supporto della sua teoria, tuttavia, non porta documenti che citino direttamente quest’intenzione, ma si lancia in considerazioni generali, come:

“Con eclettica indifferenza verso i con notati ideologici, della cultura nazionale, gli ufficiali ingegneri progettarono edifici neoclassici, o neoromanici, guidati dall’attenta percezione dei luoghi urbani, dalla l o r o vo c a z i o n e f i g u r a t i v a 43” o a ncora

“L’oscillazione degli stili dimostra l’attitudine eclettica, più che dogmatica e ideologica, dei progettisti, per i quali è decisivo il tema dell’ambientazione, ossia della conformità al

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BOZZETTO, LINO VITTORIO, Verona e Vienna, Gli arsenali dell’Im-

peratore; Architettura militare e città nell’Ottocento, 1996, Cierre Edizioni,

Verona, p.96

genius loci.

Allora per Verona non è pertinente parlare di uno ‘stile coloniale’ come si è scritto (nota riferita allo scritto di Brugnoli, n.d.a) ma si deve piuttosto notare una profonda coscienza urbanistica, nell’intenzionale apporto dei progettisti militari all’architettura della città.44” C’è una evidente dissonanza tra quanto sostenuto da Bozzetto e l’effettivo destino critico che queste architetture hanno avuto, da parte della cittadinanza. L’utilizzo delle listature di tufo e laterizio da sole non bastano a far sconfinare un’architettura dal “coloniale” al “genius loci”.

La complessa situazione in cui queste architetture nacquero, rende difficile epurarle da un qualsiasi alone di problematicità, senza scadere nell’elogio retorico che le “deumanizza”, o nell’oblio più totale che le deperisce.

Probabilmente molte delle decisioni stilistiche vennero prese dai singoli progettisti, suggerite da suggestioni personali, e non da un qualche tipo di agenda, nonostante nella difficile posizione di “dominatori”, gli austriaci si trovino comunque a giocare su un terreno problematico.

Parlare di genius loci appare sicuramente retroattivo, ma è anche vero che Leon Battista Alberti già nel Quattrocento, sia per necessità, sia per sua intenzione estetica, riprendeva letteralmente i caratteri stilistici e costruttivi dei luoghi in cui ha lasciato le sue opere. La differenza sta nell’intenzione progettuale, che nella pratica austriaca era probabilmente più dettata da un “buon gusto” o da un “decoro” di facciata, che potesse permettere a queste architetture di essere meglio digerite dalla popolazione locale, che, in questa fase, non poteva comunque avervi accesso, se non in osservazi-

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ivi, p. 97

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oni paesistiche in cui comunque l’Arsenale appare come opera sproporzionata rispetto al minuto tessuto del centro storico. Non c’era una vera intenzione di aprire un dialogo con la città e i suoi punti di aggregazione, il suo tessuto, e persino i suoi fatti urbani più importanti, ma piuttosto di vestire l’eterotopia di un romantico pittoresco.

Certo è che l’Arsenale, nel suo spregiudicato utilizzo di forme locali unite allo stile dei dominatori, può anche essere letto nella luce di un’appropriazione culturale45 senza il consenso dei locali, ed ignorare questo possibile significato vuol dire svuotare le forme dell’architettura dal loro significato storico, rendendole intercambiabili nello spazio e nel tempo, ma nel contempo dandogli quell’aura “sacrale” di opere d’arte intoccabili, prive di quel carattere umano che le ha generate, e destinandole, nel loro svuotamento di significati, all’oblio o alla fredda conservazione in vitro.

La poesia dell’ornato

Considerato il posto di non rilievo dell’Arsenale alla Campagnola in termini di architettura senza tempo, è possibile individuarne la poesia se si considerano alcuni accorgimenti figurativi. Si discosta dalla cultura ottocentesca in originalità nel modo in cui questi repertori storicisti sono stati comunque rielaborati, anche in maniera piuttosto coerente su tutto il manufatto, in modo fantasioso e non letterale. Gli interessanti pilastri a coronamento degli ingressi, sormontati da poliedri di pietra, o le analogie meccaniche riportate nelle merlature dell’Hauptgebäude, danno a 45 Termine che negli studi sociologici ha un significato neutro, ma che negli ultimi anni ha assunto, nella rilettura di alcune opere mediatiche di finzione che ripropongono rappresentazioni di culture non-occidentali, un significato negativo. In generale la linea che separa le accezioni di un’appropriazione culturale non è netta, ma si considera come problematica se è perpetrata da una cultura “dominante” (economicamente o militarmente), mentre all’altra estremità dello spettro è ritenuta positiva quando dalla fusione di stimoli differenti ne giovano due culture in maniera paritaria. Per approfondimenti, si consulti O. YOUNG, JAMES; G. BRUNK, CONRAD The Ethics of Cultural Appropriation, John Wiley & Sons, 2012

questa severa costruzione un lato giocoso e creativo che ancora stupisce l’osservatore per la sua innegabile carica romantica, e che troverà il suo compimento nella facciata interna di Porta Vescovo del Rainer. Anche la scelta di inserire, nei corsi di tufo della muratura, una strizzata d’occhio a Von Scholl nell’utilizzo dell’opus poligonale, rende sintetico e coerente lo statement di Petrasch, che nella pedissequa e banale imitazione del romantico veronese, sembra inserire anche uno sprazzo della cultura della Genie Direction, come a dire: Verona sì, ma pur sempre la nostra Verona asburgica.

Queste qualità stilistiche salvano l’Arsenale da un giudizio completamente negativo, che potrebbe ricadere invece su altri episodi del periodo, come la caserma di Castel San Pietro, i cui esiti compositivi appaiono decisamente più infelici.

Il resto è indubbiamente merito della ricerca ottocentesca continua di corrispondenze funzionali e simboliche tra il linguaggio e la tipologia edilizia.

Per riassumere l’anima compositiva dell’Arsenale e più in particolare di Porta Vescovo, Ornella Selvafolta ha parlato a ragione di "severità pittoresca "46, a proposito di questo utilizzo del castelletto turrito come analogia letterale, di matrice mitteleuropea, unita alle ascendenze neoclassiche e sanmicheliane.

Oltre alla dimensione puramente “programmatica” dello stile, esisteva nella volontà, insospettabile riferita a questi severi ingegneri militari, di poesia nostalgica, per un medioevo mai esistito, proiezione dei sogni artistici dell’epoca, che rendono forse più umani e meno autoritari questi edifici. Se da un lato vi era sicuramente una programmatica volontà di decoro, forse nel loro intimo Maly e Petrasch covavano un semplice entu-

46 SELVAFOLTA, ORNELLA, Verona Ottocento: i luoghi e le architetture dell’industria, in BRUGNOLI, PIER PAOLO e SANDRINI, ARTURO, L’architettura a Verona dal periodo napoleonico all’età contemporanea, 1994 Banca Popolare di Verona, Verona, p. 216

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siasmo nell’utilizzo di queste suggestioni, a tal punto da reinterpretarle in maniera fantasiosa e dimenticare in alcuni punti (non, tuttavia, nella totalità del progetto) le “virtù” dello stile, in favore di una più leggera poesia dell’ornato.

Proprio per la sua natura paratattica, in cui si confondono citazioni letterali, reinterpretazioni fantasiose e severi eclettismi, è necessario, per comprendere meglio le derivazioni stilistiche dell’Arsenale, osservarle separatamente, edificio per edificio.

Continuità stilistiche

La cifra stilistica dell’Arsenale è sicuramente il già citato utilizzo dei ricorsi policromi di tufo e laterizio per le murature.

Tale scelta è certamente desunta da Petrasch negli esempi più importanti del romanico veronese, in particolare la non lontana Basilica di San Zeno e il tipologicamente più vicino per il suo carattere civile-militare Palazzo Comunale (o della Ragione). Nei modelli romanici tale listatura appare tuttavia più ‘stretta’, e il rapporto tra il tufo e il laterizio appare negli originali medievali in rapporto 1 a 1. La scelta di allargare i corsi in tufo era forse dettata da motivazioni economiche, ma anche dalla volontà di mostrare la citazione alla “tessitura” dell’opus poligonale delle fotificazioni di Franz Von Scholl.

L’Arsenale appare assai poco ornato, e le ricche decorazioni sono espletate soltanto nell’Hauptgebäude. Vi è tuttavia una totale assenza di decorazioni figurative, presenti invece negli edifici di rappresentanza dell’Arsenale di Vienna, forse per rimarcare il carattere virilmente severo e utilitaristico del manufatto.

Anche le citazioni al romanico nei singoli elementi appaiono assai semplificanti, con elementi architettonici ridotti a unioni di forme semplici ma non primarie. I materiali utilizzati nelle facciate si riducono sostanzial-

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mente a tre: laterizio, tufo e pietra di Prun, quest’ultima nella sua variante più chiara e presente nelle cornici delle aperture e nel basamento delle murature esterne.

Un’altra interessante postilla riguarda la grande corte settentrionale non realizzata prevista nell’Entwurf Skizze, ed in particolare nella prospettiva dello stesso realizzata nel 1854, in cui si ravvisa il prospetto d’ingresso appena entrati nella corte dalla Campagnola, alcune reminiscenze della campata centrale del Duomo di Verona.

La corte centrale

La corte centrale delle officine risulta la parte del complesso più “estranea” ai tipi veronesi. Entrambi gli edifici che circondano la corte, a un piano, presentano testate a capanna che sembrano esaltare la pendenza delle coperture, rimandando alle costruzioni di area germanica e alle illustrazioni di Josephum Furttenbach nel suo Architectura Martialis.

Le testate e l’ingresso del locale destinato alle macchine a vapore presentano un disegno analogo, con una finestra circolare (in corrispondenza del sottotetto) incorniciata dalla pietra di Prun e un frontone con risalto sommitale, sormontato da un parafulmine. Tali disegni appaiono già in modo schematico nell’Entwurf Skizze.

Le trabeazioni appaiono molto semplificate e rustiche, presentando dei beccatelli di gronda realizzati con mattoni disposti a distanza regolare, desunti plausibilmente dalla facciata di Santa Maria in Organo, se non da una semplificazione dei dentelli classici.

Stessa cornice, ma diversi tipi di aperture, coronano il frontone delle facciate rivolte dall’edificio delle officine meridionale a quello settentrionale, dove compaiono aperture arcuate a tutto sesto sotto le travi per il sollevamento del materiale da lavoro.

Lungo le facciate longitudinali, in corrispondenza degli ambienti interni

Abside e Campanile della Basilica di San Zeno. Sono individuabili molti dei riferimenti grammaticali trasposti poi nell’Arsenale, come gli archetti pensili e la bicromia, oltre che il prospetto a coronamento della parte posteriore, probabile ispirazione per le facciate della corte

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si apre una serie di aperture coronate da archi ribassati e cornici in pietra di Prun bianca.

Il corpo centrale, che ospitava gli uffici amministrativi e tecnici, era originariamente a due piani completi, ma dopo i gravi bombardamenti che lo hanno interessato nel secondo conflitto mondiale, è stato ricostruito ribassato, in laterizio con intonaco a imitazione delle murature originarie.

Il prospetto ha tuttavia mantenuto il coronamento analogo a quello delle testate, pur ad una scala maggiore. A collegare i due edifici, porte con archi ribassati ricavate in diaframmi murari.

Le corti dei magazzini

L’immagine dei magazzini è, come si è visto, quella più influenzata dalle circostanze costruttive, con l’introduzione, per motivi statici, dei contrafforti esterni. Il coronamento di questi contrafforti, a frontone triangolare smussato, è di difficile interpretazione genealogica. Una suggestione potrebbe essere provenuta da San Zeno o dalla chiesa di Santo Stefano nelle paraste sporgenti presenti sulle facciate delle due chiese.

I contrafforti hanno due ampiezze, sono più larghi in corrispondenza degli angoli, dove si collegano alle facciate di testata tramite una semicolonna che indirizza l’andamento curvilineo della trabeazione che collega i due elementi.

Le aperture nelle campate dei magazzini sono, sia negli edifici a un piano che in quelli a due piani, costituite da bifore, la cui genealogia è ravvisabile in molteplici esempi del romanico in città, ma visto il rapporto con le murature, probabilmente sono state desunte ancora una volta dal Palazzo Comunale.

Le campate di magazzini a due piani presentano variabilmente, a piano terra, una bifora (a) o un portale con arco a tutto sesto (b). Nelle facciate rivolte verso la corte, l’andamento delle campate intervallate dai contraf-

Veduta prospettica di un arsenale fortificato, da Josephum Furrtenbach, Architectura Martialis, 1630

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Fotografie dei prospetti della corte centrale (sala macchine, officine) (foto aprile 2020/novembre 2019)

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Magazzino a due piani nella corte orientale (pag. precedente) e Palazzina di Comando (foto aprile-maggio 2020)

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forti, è di b-b-a-a-a-b-b-b-a-a-a-b-b, mentre nella facciata rivolta verso il muro di cinta non sono presti campate con portali. Per i magazzini a un piano, la sequenza verso la corte è a-a-a-a-a-a-b-a-a-a-a-a-a, verso le officine è invece a-a-b-a-a-a-b-a-a-a-b-a-a.

L’andamento delle aperture è ancora ravvisabile nonostante negli anni molte di esse siano state tamponate o modificate nel loro profilo originario.

La trabeazione in gronda delle campate, nei magazzini a due piani, presenta come primo elemento dal basso una serie di archetti pensili, molto simili a quelli del Palazzo Comunale ma visibili anche nella facciata di San Zeno e Santo Stefano.

Nei magazzini a un piano, invece, ritornano i beccatelli in laterizio in corrispondenza della gronda.

Le scuderie che chiudono le corti verso meridione presentano finestre arcuate a tutto sesto, e presentano possenti pilastri angolari. Anche qui la trabeazione è costituita da beccatelli in laterizio.

Il collegamento dei diversi volumi è ancora una volta legato all’utilizzo dei diaframmi con portali ribassati, e nella parte settentrionale della corte esisteva (come testimoniato dal disegno del 1864 circa)47 un muro di collegamento tra i due magazzini, il cui spazio è stato poi occupato dalle scuderie speculari costruite all’inizio del ‘900.

Il vento del nord dell’Hauptgebäude

L’oggetto più stilisticamente ricco di riferimenti di tutto il complesso è, non a caso, il palazzo del Comando (Hauptgebäude), rivolto verso Castelvecchio. In esso sono riassunti tutti gli stilemi provenienti dalla cultura mitteleuropea della tipologia dello Zeughaus, la casa delle armi in forma di palazzo teorizzata da Furttenbach.

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Artillerie Arsenal und Schwimmschule auf der Campagnola, 1864 ca.

Veduta della corte laterale occidentale da uno dei condomini novecenteschi che vi si affacciano (foto dicembre 2018)

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Si è voluto molte volte esaltare il rapporto tra Castelvecchio, dimora degli Scaligeri che un così stretto rapporto avevano con la cultura medievale tedesca, e il Palazzo del Comando.

Al di là di evidenti presenze di “spiriti” culturali nordici nell’architettura veronese, questo volume turrito ha più a che spartire con modelli “germanici” che con elementi della cultura locale (se si esclude l’onnipresente texture delle murature). Il corpo centrale, sede dell’atrio d’ingresso voltato non dissimile, per tipologia (ovviamente a scala ridotta), a quello del Palazzo Imperiale di Vienna, presenta al piano superiore la sala dei trofei, evoluzione ultima del museo delle armi già presente nell’Arsenale viennese, a cui si accede tramite uno scalone monumentale.

Le due facciate del castelletto, pressoché identiche dentro e fuori dal complesso, sono tripartite da pilastri ottagonali merlati, di ascendenza probabilmente Schinkeliana (cfr Schloss Kurnik, 1841-50) e presentano similitudini con quelle utilizzate nel progetto dell’Arsenale del Lloyd austriaco di Trieste (progettato nel 1853). Molte volte sono stati accostati ad un’analogia meccanica che li vorrebbe come ruote dentate, visione supportata da una citazione ornamentale letterale delle stesse nel portale d’ingresso dell’Arsenale di Vienna. Il coronamento della facciata è costituito da merli stilizzati di derivazione guelfa (scelta interessante vista la presenza di merli ghibellini a coda di rondine nel vicinissimo Castelvecchio), sotto i quali, per tutto il perimetro del volume centrale, corre una trabeazione ad archetti pensili. La facciata è sormontata al centro da un frontone rettilineo, in cui capeggiava la scritta “FRANZ IOSEF I MDCCCLXI”, sostituita poi da una più banale scritta “ARSENALE”.

Sulla sommità svetta un parafulmine, al posto del complesso scultoreo allegorico poi destinato a Porta Nuova, dove ancora si trova.

Al centro della facciata un complesso di tre grandi aperture, con una bifora maggiore al centro in cui si ravvisa l’unico elemento architettonico non eccessivamente semplificato, ovvero una colonnina romanica con capi-

Le ascendenze decorative dell’Haupgebäude: in alto, Schloss Kurnik, im Grossherzogthum Posent, Karl Friedrich Schinkel da Sammlung Architektonische Entwürfe, Berlino, 1841-50 In basso, il coevo Castello di Miramare a Trieste (1856-1860), voluto da Massimiliano d’Asburgo (fotografia di Michał Bulsa)

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tello fogliato. La bifora presenta un oculo tra le due aperture, elemento di chiara derivazione ecclesiale (uno analogo è visibile a lato della chiesa di Santo Stefano).

Ai lati, due coppie di finestre arcuate a tutto sesto, due più vicine, e accomunate alla bifora centrale tramite l’uso di un arco tripartito in pietra di Prun con decorazioni a solidi poliedrici in altorilievo, le altre due isolate ai lati, ma con lo stesso coronamento ad arco. Le finestre del piano nobile sono munite di un davanzale sorretto da mensole o peducci severamente squadrati.

Nel piano sottostante si ripete lo stesso disegno, ma al posto della bifora si apre un portale delle stesse dimensioni, con modanatura strombata e accessibile tramite 4 gradini.

Nelle campate laterali, al centro, capeggia la stessa bifora della campata centrale, mentre al piano terra si apre una bifora assai più sobria, priva della colonnina centrale e dell’oculo.

Guardando da dentro l’Arsenale, la facciata centrale dell’Haupgebäude differisce per l’assenza della bifora centrale, sostituita da un’apertura delle stesse dimensioni e perimetro.

Ai lati del palazzetto turrito sono presenti le armerie, in perfetta simmetria, constanti di 5 campate divise da paraste in tufo di poco sporgenti, a due piani. Le trabeazioni presentano gli archetti pensili, ma a differenza del volume centrale, non presentano merlature. La facciata delle armerie verso Castelvecchio presenta bifore (analoghe a quelle delle campate laterali del corpo centrale) al piano terra e al piano primo (a), su tutte le campate; nella facciata rivolta verso l’interno del complesso, invece, in rapporto b-a-a-a-b, con (b) a indicare le campate con al piano terra dei portali ad arco ribassato.

Le testate d’armeria presentano invece risalti d’angolo a pilastri ottagonali, non merlati e a gruppi di tre per ogni angolo, un profilo a Giebelhaus con archetti pensili e l’usale parafulmine a coronamento. Inoltre, una se-

Vedute del prospetto verso Castelvecchio della Palazzina (foto aprile 2020)

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quenza di aperture omogenea a quella delle campate laterali del volume centrale dell’Haupgebäude: la grande bifora vetrata e, al piano terra, la bifora “semplificata”.

Il muro di cinta

Elementi stilistici interessanti possono essere scorti anche nel muro di cinta del complesso, soprattutto negli elementi di collegamento fra le diverse porzioni di muro. I portali che davano accesso al complesso erano delimitati da pilastri con base classica a doppio toro ma coronati da capitelli d’invenzione, estremamente puri nella loro geometria diamantata.

A coronamento di questi dei prismi poliedrici di pietra, analoghi a quelli presenti sulle facciate dell’Hauptgebäude. Dei quattro torrioni d’angolo che ornavano il limes dell’Arsenale solo uno è giunto fino ai giorni nostri: quello dell’angolo sud-est, parte del quale si trova in un giardino privato, ma è osservabile nella sua interezza da Via Alfredo Cappellini. I torrioni erano ordinati per il tiro di fucileria, e riprendevano verosimilmente le immagini delle fortificazioni quattrocentesche, forse in forma diretta e dal vivo, ma non dai trattati di Francesco di Giorgio, come ha suggerito Bozzetto, in quanto, come ha ricordato Joseph Rykwert 48, al 1859 (anno in cui Cerdà progetta il piano urbanistico per Barcellona), quindi due anni dopo la progettazione dei torrioni, non era ancora disponibile in riproduzione (e i manoscritti erano poco accessibili) il Trattato di architettura civile e militare . Le feritoie sembrano invece riprendere le finestre in facciata della chiesa romanica di San Lorenzo sulla via Postumia.

48 RYKWERT, JOSEPH, Economia, Potere e Architettura in Domus n. 986, dicembre 2014

Torrino d'angolo (foto novembre 2020)

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Il declino dell'Arsenale

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1861-1866: Breve storia dell’Arsenale austriaco in funzione Nel campo di battaglia di Solferino, il 24 giugno 1859, lo scontro tra le

truppe franco-piemontesi e quelle austriache raggiunge proporzioni esorbitanti di morti e feriti. La guerra di liberazione del nord Italia, grazie

all’appoggio garantito dall’Imperatore Napoleone III a Cavour e Vittorio Emanuele II, era finalmente giunta ad uno scontro decisivo, alle porte del Quadrilatero. Il prezzo da pagare per un così importante evento strategico è tuttavia elevatissimo per entrambi gli schieramenti. La penosa condizione dei feriti commuove in tal modo un medico svizzero, tale Henri Dunant, da farlo decidere di progettare l’organizzazione neutrale di soccorso ai feriti di guerra oggi nota come Croce Rossa.

Molti dei ritirati austriaci ripiegano su Verona, e affollano le stanze di una delle architetture precedentemente discusse, ovvero l’Ospedale militare presso Porta Palio, insufficiente tuttavia ad ospitarne il gran numero.

L’Imperatore di Francia e Franz Josef, di fronte a tale carneficina, decidono di firmare una pace l’11 luglio, a Villafranca. Tale armistizio infrangerà il sogno italiano di annettere il Veneto.

La poderosa macchina del Quadrilatero era rimasta intonsa, e Verona rimase agli austriaci. L’anno successivo riprenderanno i lavori di costruzione dell’Arsenale alla Campagnola.

Alla battaglia di Solferino le grandi unità austriache disponevano di 82 batterie e di 656 pezzi, ma ben 200 di questi non furono impiegati nei combattimenti. È probabile che la maggior parte delle “macchine di morte” in mano all’esercito austriaco, responsabili di una parte di quello smisurato numero di vittime, sia stata trattata o addirittura forgiata nella corte centrale delle officine, costruita negli anni 1854-1855. Il 1861 chiude i lavori dell’Arse-

In alto: Il laboratorio dei carradori in Arsenale; In basso, l’officina di lavorazione a caldo dei metalli

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nale, e vede la nascita del Regno d’Italia. L’amministrazione austriaca non si trova nelle condizioni di gioire eccessivamente del nuovo manufatto; diventa sempre più difficile, infatti, esercitare il suo controllo sulla città e sui Comuni della provincia, nonché sulle persone fisiche ormai esasperate da decenni di sottomissione. Ciò non impedisce alla Genie Direction di proseguire i lavori di adeguamento della Depotplatz. La Provianda di Santa Marta e l’adeguamento di Porta Vescovo vedranno la luce proprio in questo ultimo decennio. Ora che i rivoluzionari Italiani, con l’appoggio della dinastia sabauda, hanno addirittura fondato uno stato liberale, le pressioni interne da parte dei veneti iniziano a scuotere anche la più impenetrabile delle piazzeforti, e le opere realizzate in questi anni appaiono quasi, retroattivamente, come un lento commiato della città austrica. I giorni del Congresso di Verona sono lontani, e la città inizia a ribollire di speranze.

Come se non bastasse, i cugini Prussiani, ormai potenza militare in rapida ascesa, iniziano a meditare una guerra contro l’Impero in funzione nazionalista. I venti di guerra e l’apertura di un nuovo fronte a nord dell’Impero esacerba l’animo dei patrioti veneti, che tuttavia devono attendere l’espletarsi della politica internazionale. Questo teso clima veneto è stato magistralmente rappresentato nel film Senso (1954) di Luchino Visconti (tratto da romanzo scapigliato dell’architetto Camillo Boito), senza retorica e rappresentando il Risorgimento per quello che fu, ovvero una “rivoluzione mancata”, fatta da persone con interessi e agende diverse. L’Arsenale ha modo di dimostrare la propria efficienza allo scoppio della guerra del 1866, a cui si arriva grazie all’alleanza dell’Italia con la Prussia in funzione antiaustriaca. L’inettitudine e i contrasti dei comandi italiani portano a inutili ma dispendiosi scontri, come la battaglia di Custoza, dimostrando come la macchina bellica austriaca, pur in crisi, sia ancora ben in funzione.

Negli anni precedenti, il tipo di Artiglieria utilizzato dagli austriaci aveva subito dei miglioramenti tecnologici considerevoli (in particolare per quanto riguardava le bocche da fuoco), e l’Arsenale fu cruciale per la dis-

tribuzione, la verifica e il carreggio dei nuovi cannoni nella guerra del 1866.

Il laboratorio dei carradori, ad esempio, era una delle officine più attive, in quanto le ruote del carreggio d’artiglieria erano le parti più soggette a guasti. Questi vantaggi non impediscono all’Austria di essere sconfitta dalla Prussia a Sadowa, e in virtù della pace di Vienna, a cedere il Veneto alla Francia, che lo avrebbe posto sotto la sovranità del Regno d’Italia solo dopo lo svolgimento del plebiscito di annessione. La partenza dell’esercito austriaco è accompagnata da tumulti di giubilo, che culmineranno con la morte di Carlotta Aschieri, uccisa incinta da un soldato austriaco a baionettate nel caffè Zampi in Piazza Bra. Evento increscioso, definito dall’epigrafe che ricorda l’avvenimento come “ultimo sfogo di moribonda tirannide”. Il passaggio dell’Arsenale Franz Josef I al Regno d’Italia sarà repentino. Con il Regio Decreto del 10/10/1866 saranno istituite le Direzioni territoriali d’artiglieria di Verona, Venezia e Mantova, mantenendo il precedente ordinamento austriaco. Negli anni successivi, presso l’Arsenale e le Sezioni staccate d’artiglieria, che dipendono dalla Direzione territoriale che in esso aveva sede, si effettua la “riduzione” del materiale d’artiglieria austriaco utilizzato nell’armamento delle fortificazioni ex austriache del territorio di competenza della Direzione stessa. La continuità funzionale del complesso sarà determinante per il rapporto che lo stesso avrà con la città. L’impossibilità di scegliere, da parte della cittadinanza “civile”, il destino dell’Arsenale, determinerà la carica eterotopica di questo luogo mantenuta fino ad oggi, e che ne ha decretato, forse in parte, l’abbandono. Il cambio di proprietà impedirà alla città di associare il complesso alla dominazione austriaca, sancendo di fatto l’impossibilità di azioni radicali, come innesti, cambi di funzione, o addirittura demolizioni. In altre parole, lo scambio di poteri tra l’Impero asburgico e il Regno d’Italia manterrà l’Arsenale chiuso alla vita civile, ne eliminerà la carica simbolica e ne decreterà l’oblio “emotivo” da parte della città.

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1866-1945: L’Arsenale nell’Italia postunitaria e fra le due guerre mondiali La vocazione militare di Verona non muterà nemmeno dopo il 1866.

Nonostante l’allentamento della pressione sulla cittadinanza, in termini di diritti e libertà, la città rimane comunque presidio di frontiera. Il Regio Esercito si limiterà, come già accennato, a prendere possesso delle fortificazioni e strutture logistiche (compreso l’Arsenale) e ad invertire il tiro dell’artiglieria. La Verona “piazzaforte” perirà del tutto soltanto dopo l’annessione all’Italia di Trento e Trieste, dopo il 1918, spostando di fatto il fronte ancora più a nord. Le strutture costruite dagli austriaci saranno comunque sfruttate, con continuità funzionale, nei decenni a venire. Come accennato, l’Arsenale diverrà costruzione civile solo nel 1995.

Il passaggio di gestione dell’Arsenale avvia anche una lunga stagione di addizioni all’interno del complesso. Non più tardi del 1878 si registra la costruzione di due fabbricati speculari rispetto alle scuderie nelle corti dei magazzini, prima in forma di tettoia, successivamente come edifici veri e propri. Essi riprendono i caratteri dello stile Rundbogen, mimetizzandosi all’interno del complesso e mantenendosi nella linea di permutazioni della simmetria esistente. Dal punto di vista costruttivo, presentano una fattura più grossolana (sono realizzati con conci di tufo e laterizio in strati irregolari, tenuti insieme da abbondante malta d’allettamento) rivestita da intonaco che “simula” la trama pensata da Petrasch nel progetto austriaco.

Il muro retrostante, preesistente, mantiene la tessitura originaria.

Precedentemente, ma sempre nello stesso periodo, vengono aggiunti due corpi di fabbrica speculari nella corte delle officine, di dimensione ridotta, successivamente demoliti.

Negli anni Settanta dell’Ottocento inizia anche l’avventura industriale della città, culminata nella costruzione del Canale Camuzzoni fra la fine

Fotografia aerea del 1910. Si apprezza l'espansione da nord della città giardino di Borgo Trento.

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del decennio e gli anni ’80, che sancirà la fine della lunga stagnazione produttiva di Verona, e lo sviluppo, a sud della città, di un nuovo polo di fabbriche.La citta conoscerà anche altri interventi che ne cambieranno per sempre il volto. La cultura storicista eliminerà secoli di stratificazione storica nei palazzi nell’intorno monumentale di Piazza dei Signori, riportando alla luce le murature medievali.

Nel 1882 si verifica la nefasta e rovinosa piena del fiume, che come si è menzionato, interessa anche l’Arsenale. Al cambio di secolo, l’Arsenale è interessato a una notevole espansione della superficie coperta. Vengono realizzati ulteriori edifici all’interno del complesso, con coperture a shed, che riempiono le corti dei magazzini e l’angolo sud-occidentale e di fronte alla scuderia. Questi capannoni, di foggia evidentemente utilitaristica, rappresentano i primi segni di uscita dalla rigidità compositiva del progetto originario, che tuttavia ne stravolgono l’impostazione iniziale. Difficile, per la scarsità di fonti dirette, stabilire quale fosse la loro funzione, ma si può ipotizzare che fungessero da depositi più moderni per nuovi tipi di armamento, oppure semplici officine Anche lo spazio intorno all’Arsenale subisce trasformazioni notevoli. Oltre all’assedio di abitazioni di quello che diverrà Borgo Trento, i giardini antistanti l’Hauptgebäude saranno sistemati per il passeggio, e i Bagni Militari austriaci (costruzione che sorgeva di fronte) saranno demoliti lasciando scoperta la grande vasca di nuoto, ora fontana attorniata da alberi.

Negli anni ’30 del Novecento si costruiscono, seguendo l’edificazione del settore meridionale della Campagnola, gli argini fluviali tra l’Arsenale e Castelvecchio.

Il complesso, per la sua importanza strategica mantenuta, è interessato a un pesante bombardamento aereo nel 1944-45.

L’ala orientale dell’Hauptgebäude, una delle originarie armerie, viene lacerata lasciando in piedi soltanto la testata, come si può evincere dalle foto aree dell’epoca. A venir completamente distrutto è

Mappe dell’IGM rappresentanti i Piani urbanistici del 1935 (PR Marconi) e 1953 per Borgo Trento.

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il primo piano del corpo centrale nell’edificio meridionale officine, destinato originariamente agli uffici tecnici d’amministrazione. della corte delle Radicale è invece lo stato di rovina raggiunto dal magazzino orientale a due piani, di cui sopravvive all’azione delle bombe soltanto lo scheletro degli archi e alcune murature di tamponamento, per ben 6 campate.

Nel dopoguerra la campagna di ricostruzione dell’Arsenale, avvenuta in sordina e senza la produzione di documentazione accessibile destinata invece agli edifici civili, produce risultati contrastanti.

Da un lato impervia il “dov’era com’era”, specialmente nell’edificio emergente dell’Hauptgebäude, dall’altro, come nel caso del magazzino orientale, gli edifici vengono lasciati in stato di rovina.

A metà strada, il corpo centrale degli uffici, originariamente a due piani completi, viene ricostruito invece ribassato e in solo laterizio, con una falsante riproduzione della muratura di Petrasch realizzata incidendo i corsi direttamente sull’intonaco. Questa scelta, intesa come bieco “mimetismo” nei confronti della porzione superstite, ironicamente, dopo anni di degrado, permetterà una leggibilità del falso storico: un piano terra coerente con il resto della costruzione e un mezzanino “posticcio” i cui toni ambrati del finto tufo sono nel corso degli anni sbiaditi verso il grigio del rinzaffo, rendendo possibile la distinzione tra le fasi storiche. È come se il tempo si fosse preso una rivincita sul falso, distinguendo “alla Ruskin” le due parti.

Nel dopoguerra le trasformazioni all’esterno dell’Arsenale porteranno il complesso ad un sempre più passivo ruolo di filtro tra il centro storico e il quartiere di Borgo Trento. Tale ruolo di “terreno vago” o “spazio intermedio”, può essere compreso soltanto comprendendo le trasformazioni che hanno portato alla trasformazione della Campagnola nel quartiere odierno.

In alto:L’entità dei danni provocati dai bombardamenti aerei del 1945 in Arsenale è ben ravvisabile in questa fotografia della RAF. In basso: L'edificio degli uffici nella corte centrale.

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1945-1995: Dalla Campagnola a Borgo Trento: storia di un “assedio” Per registrare i primi esempi di edilizia residenziale nella penisola verde che conteneva il complesso austriaco, se si escludono i casoni (o case padronali) e la presenza a Nord del Borgo di San Giorgio (e le case che si affacciavano sull’attuale Lungadige Matteotti), occorre giungere all’alba del XX secolo.

In questi anni la promessa della Campagnola intesa come luogo dell’espansione moderna della città è ancora vivida e nel campo del possibile, ma già manca di una seria pianificazione; un quartiere che sorge “per la scelta approssimata e caotica della nuova classe borghese”.

La mancanza di organicità della proposta architettonica si esprime con l’edificazione di villette di gusto eclettico, assolutamente sconnesse e legate esclusivamente all’ostentazione della nuova classe emergente, pur intese nella piacevole cornice di una “città giardino”. L’espansione inizia da Nord-Est, con l’edificazione di ville in corrispondenza dell’attuale viale Nino Bixio, uno dei tre assi che conformeranno lo stato embrionale del quartiere, assieme a via Anzani e via dei Mille ; tale naturale movimento urbano è la conseguenza, diretta o indiretta, della fabbricazione nel 1864 del Ponte Newille (poi Garibaldi) per mettere in comunicazione il centro storico con l’area del futuro Borgo Trento.

Esso prende il posto di un antico traghetto che permetteva il medesimo spostamento, di cui rimane il ricordo nella toponomastica della “Riva Battello”. Oltre agli episodi “borghesi”, l’area non sarà interessata a particolari sconvolgimenti urbanistici. I terreni coltivi a sud, tra l’Arsenale e la Garden City sono ancora troppo redditizi perché la Società Trezza (proprietaria dei suddetti) decida di svenderli.

Finalmente, intorno al 1910, la zona riceve il proprio Piano Regolatore, ol-

tre che il proprio nome attuale: rivolto idealmente a Nord (un po’ come la sua antica preesistenza, ovvero l’Arsenale) prende il nome di Borgo Trento, in una tradizione estesa agli altri quartieri d’espansione di Verona ( a sud Borgo Roma; a est Borgo Venezia; a ovest Borgo Milano) A spanne, e senza un disegno preciso, si cerca di ricalcare idealmente l’ansa speculare del centro storico. Nasce così il “foro” rettangolare della futura Piazza Vittorio Veneto, al centro della penisola, lo slargo semicircolare che prenderà poi il nome di piazzale Cadorna, e una serie di viali convergenti al centro della piazza centrale. Dalla Prima Guerra Mondiale al primo dopoguerra, il nucleo originario di Borgo Trento continuerà ad espandere il proprio repertorio di villini. Alle costruzioni borghesi si affiancano i villaggi destinati ai lavoratori, come quelli della Cooperativa edificatrice Posteletelegrafonica (1922 ca.) e quelli destinati ai ferrovieri su Via Carlo Ederle (1921-26).

I condomini del Ventennio

Negli anni del Ventennio fascista l’edificazione si sposterà dalla minuzia delle ville con giardino ai grandi edifici multipiano, i primi ingombranti “pionieri” del superamento dell’orizzontalità della Campagnola. Complice la costruzione del pomposo Ponte della Vittoria di Ettore Fagiuoli nel 1925, che collega Borgo Trento al centro storico in asse con le mura romane.

I terreni prospicenti al muro settentrionale dell’Arsenale iniziano a riempirsi, portando l’assedio della città alle porte del complesso, che nonostante la sua intensa attività militare rischia di sparire per sempre. In una versione del Piano Regolatore Marconi del 1931-33 (e in una successiva del 1935) ne era infatti stata proposta la demolizione in favore di un parco pubblico che fungesse da filtro verde tra Castelvecchio e Borgo Trento.

Sorgono, tra il 1932 e il 1936, gli imponenti fabbricati dell’INCIS e la razionalista Casa Cirla, a poche decine di metri dal muro di cinta. La mano pe-

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sante di Ettore Fagiuoli produce anche l’imponente condominio “a ponte” in apertura del futuro viale della Repubblica (toponimo evidentemente posteriore), a contatto con il muro di cinta orientale. L’Arsenale, come un agente patogeno, attende di essere inglobato nel citoplasma macrofagico del quartiere in espansione.

Sempre negli anni del fascismo le antiche case prospicenti l’Adige sull’attuale Lungadige Matteotti vengono demolite in favore di fabbricati più ampli e moderni, terminando così, per la loro vicinanza al nucleo originale del quartiere, la continuità della “città giardino”.

Destini incerti

Nel secondo dopoguerra, l’apertura di Viale della Repubblica segna un punto di non ritorno nella storia dell’Arsenale: per questioni viabilistiche, l’interno cantone nord-orientale viene tagliato, con annessa demolizione di uno dei quattro torrioni d’angolo, due dei quali, negli anni successivi, subiranno la stessa sorte. La mutilazione dell’Arsenale sembra rappresentare il momento simbolico di caduta del lungo regno sulla Campagnola: il potere civile ha trionfato su quello militare, divorando l’illusoria pretesa di ordine e simmetria degli austriaci, ma al costo di rendere irrecuperabile in toto l’intera struttura, ormai lacerata nel suo disegno originario.

Nel decennio 1945-1955, nella zona circostante Ponte della Vittoria, ancora pressoché incontaminata, iniziano a svilupparsi i primi edifici di quella che sarà la principale arteria di Borgo Trento: via IV Novembre.

Compare sull’Arena del 6 novembre 1953 la magniloquente proposta, da parte del pubblicista Luigi Gabriello Pollino, di realizzare un “centro moderno” monumentale per Borgo Trento, che prevede la demolizione completa dell’Arsenale per essere sostituito con un’improbabile riproposizione del Prato della Valle di Padova in forma di parco, con tanto di arco dei Gavi spostato all’ingresso dell’ellisse viaria.

Si legge, nel l'allegato alla magniloquente proposta:

“Basta fare della zona dell’Arsenale un complesso che abbia marginalmente, almeno per il lato più accosto alla direttrice di maggior transito, il carattere di un “centro” moderno maestoso; e, nel mezzo, l’aspetto di un folto parco, ma con viali di attraversamento razionalmente tracciati, di guisa che l’area, pur diventando in sostanza una superficie fortemente alberata, conservi anche le caratteristiche funzionali di “piazza” quali sono richieste dalla presenza, su tre dei suoi lati, di edifici residenziali di forte mole […]In primo piano della veduta panoramica, in sostituzione della demolenda fronte dell’Arsenale, vediamo l’arco dei Gavi, da ricomporre qui per un complesso di ovvie ragioni estetiche. L’attuale ubicazione dell’arco è quanto mai impropria: l’arco trionfale è infatti una costruzione che presuppone di sorgere lungo una via lungo la quale si svolgesse il trionfo. Tutti gli archi romani o anche posteriori sorgono infatti a cavaliere di una qualche via 49 ”

49

Il complesso piazza-parco in L’Arena, 6 novembre 1953

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Il piano prevede anche la realizzazione di “case-torri, non grattacieli” che ricordano i più pesanti incubi piacentiniani, più prossimi al Foro Italico che non alle realizzazioni moderne di quegli anni.

Al di là dell’ingenuità e dello scarso valore figurativo di questa proposta, risulta interessante la totale disinvoltura con cui in questi anni di crescita frenetica si potesse parlare di demolizione del complesso austriaco.

La città sembra mantenerne il carattere eterotopico a tal punto da non poterne più sopportare la presenza.

La “Legge Ponte” del 1967, che prevedrà l’obbligo del PRG (costituito da piani di fabbricazione particolareggiati) tenterà la difficile strada di una pianificazione controllata.

Il famigerato “anno di moratoria”, tuttavia, permetterà agli speculatori di fare il pieno di concessioni edilizie, permettendo così la totale edificazione del quartiere.

La zona nord-occidentale, rimasta verde ma chiusa all’espansione dalla mole dell’Ospedale Civile (costruito durante il ventennio) conoscerà in questi anni la costruzione di mastodontici condomini alti anche 6 piani.

Lo stesso avverrà anche nella parte a ridosso del muro nord dell’Arsenale, in cui una schiera di condomini svettano prepotenti sulle masse asburgiche, senza alcun riguardo per le loro pur considerevoli moli.

Nel 1968 un nuovo ponte, firmato da Pier Luigi Nervi, aprirà la strada per un collegamento tra Borgo Trento e la zona della Basilica di San Zeno.

Il quartiere è ormai accessibile da ogni dove, e nemmeno il Piani regolatori riescono a fermarne l’avanzata, che si espande anche alle ultime aree verdi rimaste.

Sempre degli anni ’60 è la sede della Cattolica Assicurazioni, firmata da Luigi Caccia Dominioni, e le costruzioni intorno a piazza Vittorio Veneto, tra cui la chiesa di San Pietro Apostolo (centro religioso del quartiere) e la nuova fontana di gusto neoplastico del centenario dell’Unità d’Italia (1961).

Il pubblicista Luigi Gabriello Polinnio nel 1953 immagina, al posto dell’Arsenale, un monumentale parco circoscritto da un canale alla “Prato della Valle”.

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La chiesa di San Francesco d’Assisi: il colpo di grazia

L’Arsenale riceve un nuovo colpo, questa volta dallo strapotere della Curia veronese. Nel 1974 il Vescovo Mons. Carraro dà incarico a tale Don Gianfranco di dare vita ad una nuova comunità cristiana in Borgo Trento.

Il Ministero della Difesa, proprietario del complesso, dopo lunghe trattative decise di accontentare il parroco nella sua idea di recuperare funzionalmente il magazzino orientale bombardato per costituire una nuova chiesa.

Suggestionato da tale proposta, l’architetto Libero Cecchini pensò di ricavare lo spazio ecclesiastico sfruttando le arcate in rovina “che mi ricordavano le scenografie di Piranesi” come cornici di enormi vetrate che avrebbero trasformato lo spazio in una “cattedrale di memoria”50.

Tale interessante suggestione, a favore della progettazione di un monumento di continuità storica da parte di un talentuoso progettista, viene troncata di netto dalla Sovraintendenza, che impone un “dov’era com’era”.

L’imposizione trasformerà quello che poteva essere uno spazio emergente, in linea con un recupero più organico dell’Arsenale, in un adattamento malriuscito di un magazzino d’artiglieria in una chiesa in due navate, ricavata all’interno della parte superstite. La progettazione si esprime nella scelta dell’arredo, e nella discutibile scelta di porre la sagrestia nel sottotetto del magazzino, trasformando gli archi rampanti strutturali in finestre con terrazzine e tende al limite del kitsch.

La trasformazione dello spazio esterno vede sorgere un discutibile giardinetto tipo sagrestia, e a un piccolo campo di pallacanestro di cui possiamo riconoscere l’utilità ma che si stenta ad accettare accanto alle rovine della parte bombardata.

50 Parte della pubblicazione scritta da Libero Cecchini, reperibile in http://borgotrentoverona.org/quartiere/il-passato/luoghi-ponti-strade-ealtro-2/la-chiesa-di-s-francesco-dassisi/

Le rovine del magazzino orientale viste dall’esterno del muro di cinta. La rete del campo da basket testimonia un ritorno alla vita che non ha tuttavia avuto la felicità figurativa che una maggior libertà all’architetto Cecchini avrebbe garantito.

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Le premesse di una rinascita

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Abbandono e recupero tra storia e memoria La Chiesa di San Francesco rappresenta l’impossibilità di un recupero organico del complesso, ma più che la rispettabilissima destinazione d’uso risulta piuttosto esecrabile l’idea che un potere esterno a quello civile abbia ottenuto in pochi anni la possibilità di fare di una parte del complesso quello che ha voluto, mentre in vent’anni (contati fino all’anno di redazione di questo scritto) non si è riusciti a recuperare altre parti dell’Arsenale per usi diversi da quello religioso. Tale scelta sarebbe stata giustificata se vi fosse stata, nella riconversione del magazzino in chiesa, una qualche ricerca di qualità architettonica, e se dopo la cessione del complesso al Comune vi fosse stato un tentativo di ricollegare tale fabbricato al resto del complesso.

La fine di un assedio?

Finalmente, nel 1995, l’Esercito cede l’Arsenale al Comune di Verona Il recupero dell’Arsenale vedrà spesso schieramenti contrastanti, tra chi vorrebbe un recupero conservativo del complesso e chi invece lo vorrebbe partecipe di quella geologia architettonica di sovrapposizioni tra epoche che caratterizza il centro storico di Verona. Se si accetta quest’ultima possibilità, con la consapevolezza di poter scegliere progetti di qualità che possano rendere positivo l’inevitabile assedio, da parte della città civile, del complesso, bisogna smettere di lodare i tempi andati e maledire i con-

domini che circondano l’Arsenale, ma prendere atto di questa ombra (per dirla con Jung) urbana e trasformarla in una nuova possibilità di vita del complesso. Inevitabilmente, il destino di architetture tanto vaste è quella di essere “riempite” fisicamente dall’architettura della città, rimanendo

purtuttavia fatti urbani di rilievo.

Si pensi all’anfiteatro di Lucca, al Palazzo di Diocleziano a Spalato, o allo stesso Arsenale di Vienna, riempito nel suo mastodontico recinto addirittura da un’antenna televisiva.

Al posto di conservare il complesso austriaco in formalina, esaltandone i valori estetici ma ignorando la problematicità degli stessi, impedendo alla città di compiere il suo ultimo sacrificio, non varrebbe la pena trasformarlo, a poco a poco, in frammento, traccia, memoria, immersa nella città, oppure in un mare di verde pubblico, tanto necessario per Borgo Trento?

Per comprendere cosa sia avvenuto per evitare tale destino, occorre studiare le occasioni mancate e le possibilità per il futuro dell’Arsenale Franz Josef I.

Una nuova speranza

Dopo la cessione al Comune, nel complesso dell’Arsenale si concentrano le speranze della città. Con l’arrivo del nuovo millennio si apre una possibilità con la vittoria dello studio Chipperfield nel 2001, che presenta un progetto di massima in linea con molte delle proposte nate immediatamente dopo il passaggio di proprietà. Una delle versioni del masterplan proposta dall’architetto britannico (una sorta di cittadella culturale) prevede l’aggiunta di due grandi volumi a chiusura delle corti dei magazzini, destinati al Museo di Storia Naturale, trasferito dalla sua antica ma ormai vetusta sede in Palazzo Pompei, e un teatro per la Fondazione Arena, con gli edifici esistenti adoperati come estensioni funzionali. Il linguaggio adottato, di matrice razional-minimalista, si allontana dalle pretese dei conservatori veronesi, che vorrebbero un restauro passivo che addirittura preservi le costruzioni in stile (come i due edifici novecenteschi Rundbogen) e ripristini l’assetto originario. Con il cambio di amministrazione comunale l’anno successivo, opposizioni da vari campi e valutazioni sui costi, rite-

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nuti troppo alti, inceppano il progetto in un limbo amministrativo, lasciando nel frattempo l’Arsenale, ormai in dichiarato stato di abbandono, a degradare. Mentre si discute su cessione del complesso ai privati, Chipperfield viene congedato, relegato soltanto alla progettazione della vasca esterna (l’antica piscina del Bagno Militare), completata negli anni ’10 del XXI secolo come piacevole fontana dal fondale poco profondo.

La vita della città prosegue, e sull’Arsenale si aprono accesi dibattiti, proposte, concluse sempre in un nulla di fatto. La maggior parte dei veronesi sembra avere una coscienza “scolastica” dell’aspetto storico del manufatto, e tuttavia allo stesso tempo esiste una sorta di indifferenza nei confronti del luogo fisico. L’Arsenale diviene, nei primi anni di questo secolo, la naturale evoluzione di quello che è sempre stato: un luogo da sempre chiuso alla vita civile della città, che improvvisamente diventa uno spazio “in potenza”, in cui la stessa timidamente si affaccia, ma stenta a mettere radici. Confrontare il caso dell’Arsenale con quello degli spazi interclusi, o dei grandi manufatti industriali e militari abbandonati, può essere utile per inquadrare il problema, eppure non esaurisce la discussione nei suoi aspetti più peculiari. L’Arsenale è vincolato al centro storico in termini legislativi e paesaggistici, è l’atrio di Borgo Trento giungendo da Castelvecchio. Tale ubicazione dovrebbe garantirgli un posto di riguardo nel dibattito pubblico e un interesse trasversale rivolto al recupero. L’Arsenale è come

“un’altra forma di città, insomma, mutevole e ambigua, ancora in divenire […] le cui caratteristiche predominanti sono la frammentazione e la pervasività51”

51 MADDALENA ROSSI, In mezzo alle cose. Città e spazi interclusi, Didapress, Firenze,2018, p.29

La dissonanza che esiste tra la storia dell’Arsenale e la memoria dello stesso impedisce un tracciato comune che possa slanciare l’opera verso una nuova vita.

Lo storico Alessandro Barbero ha chiarito in innumerevoli conferenze la differenza tra storia e memoria: la prima riguarda lo studio dei fatti, gli apporti scientifici degli addetti ai lavori, la seconda riguarda la presenza di percezioni del passato, anche false e mistificanti, ma purtuttavia appartenenti a qualsiasi individuo. E se la confusione tra questi due termini ha generato, specialmente in campo politico, una pletora di discorsi biecamente propagandistici (si pensi al dibattito sul 25 aprile), il loro totale scollamento in campo urbano può produrre situazioni di oblio, o peggio, di valorizzazione iperprotettiva dei manufatti, ingessati nel loro status di “pezzi da museo” che hanno perduto la loro naturale possibilità di resurrezione attraverso il fluire del “sangue” dell’architettura: la presenza umana.

Lo storico non crede nella possibilità, ritenuta non a torto demagogica, dell’esistenza di una memoria collettiva, che sostituisca la seria ricerca storica.

In architettura le cose non sono molto diverse: si può solo sperare di poter disegnare degli spazi che attivino memorie individuali, perlopiù positive, e che la somma di questi generi il benessere urbano, ma non un’univoca risposta fatta di supposti archetipi, che nella complessità dei fenomeni umani, e nel sempre più mescolato panorama delle radici culturali è destinata al fallimento.

La storia, d’altro canto, rimane consultabile da tutti, e la sua visione scientifica, lontana dalle semplificazioni turistiche e scolastiche, insegna come i manufatti sono prodotti di epoche diverse, mentalità diverse, e il valore non sta nel gusto che ognuno di noi può attribuire alle differenti produzioni, ma al fatto stesso di essere “sovrapposizioni di modernità

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successive”52 .In questo sta il genio del progetto di Scarpa a Castelvecchio: attribuire alla storia, intesa come stratificazione di segni, un valore pedagogico, e alla memoria il piacere di una modernità senza tempo, un piacere dello spazio, del tatto, del colore.

Come già intuì il suo mecenate Magagnato, l’asse Castelvecchio-Arsenale, inteso in questo senso, può diventare il grande racconto urbano del rapporto tra architettura e memoria.

Occasioni mancate

Nel corso dei decenni del XXI secolo l’Arsenale vive una doppia vita. Da un lato il degrado colpisce i padiglioni, ed in particolare le coperture. Crollano rovinosamente molti dei tetti della corte centrale, e nel magazzino minore della corte occidentale parte delle campate settentrionali vengono scoperte, mostrando soltanto lo “scheletro” strutturale, in una sublime scenografia fatta di rovine che potrebbero avere anche mille anni.

Dall’altro il complesso finisce con l’essere occupato temporaneamente dalla città, con i padiglioni superstiti utilizzati come sedi per mostre ed eventi, e la grande esplanade che frontegga l’Hauptgebäude come grande parco pubblico, in cui generazioni di bambini di Borgo Trento hanno costruito le loro infanzie. E mentre le proposte di recupero in toto del complesso continuano ad imperversare, delle quali molte legate a propagandismo politico, la città occupa l’Arsenale a poco a poco, dividendosi tra la positività delle occupazioni “spontanee” di matrice culturale, e l’ignavia o il provincialismo che non accettano alcun tipo di intervento.

Le manifestazioni sono quasi sempre tuttavia folcloristiche o nazional-popolari, prive di quell’intenzionalità civica e pedagogica che ha visto nascere le riqualificazioni di luoghi simili in altre città d’Europa (ad esem-

52 NOUVEL, JEAN, Una lezione in Italia: architettura e design 1976-1995, Skira,1996, p.13

pio il Matadero di Madrid, i cui spazi sono stati dedicati all’attività artistica contemporanea).

Non mancano le eccezioni, come il trasferimento del “Teatro Scientifico – Teatro Laboratorio” (2010) nella corte delle officine, che negli anni ha proposto spettacoli di carattere sperimentale e cineforum.

Le istituzioni si palleggiano intanto tra le proposte di gestione pubblica e privata, tra la generazione di un nuovo polo commerciale o culturale, in una pletora di proposte tra la progettazione di qualità e il semplice recupero filologico. Manca tuttavia la possibilità per enti privati di organizzare grandi eventi di carattere culturale all’interno del complesso, come concerti di gruppi emergenti, cicli di conferenze, o altre esperienze che godono di un ampio consenso in altre città d’Italia. La cittadinanza e le istituzioni sembrano preferire per l’Arsenale manifestazioni folcloristiche a eventi di ampio respiro e cultura più “alta”.

Sia il concorso del 2016 (vinto per altro dallo studio 5+11AA, proponendo una copertura per la corte delle officine) che la più recente proposta del Comune in collaborazione con il Politecnico di Milano (una semplice riqualificazione con rifacimento delle coperture e ripristino della configurazione spaziale originaria, destinato a ospitare l’Accademia di Belle Arti e altre funzioni eterogenee) si concludono con un nulla di fatto.

Intanto, nel 2013 inizia la costruzione di un parcheggio sotterraneo multipiano in corrispondenza dei vecchi capannoni a sud della corte orientale, davanti al magazzino diroccato. La gestione di questa parte di Arsenale cade in mani private, che comunque riqualificano la parte antistante in superficie. Il cantiere del parcheggio rivela una geologia storica molto più ricca di quanto preventivato: oltre alle fondazioni della parte crollata del magazzino orientale a due piani, emergono una cisterna d’acqua di epoca austriaca (appartenente al sistema di pozzi immaginato per l’Arsenale) e, più in profondità, rovine romane di un complesso abitativo o produttivo, che registrano la rara presenza romana in questa zona della Campagno-

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la. Si deciderà poi, stravolgendo la percezione temporale delle rovine, di trasferirle per anastilosi nel giardino in superficie, al fine di disporre un “parco archeologico”.

Per il resto, l’Arsenale, se si esclude la presenza di una centrale della polizia municipale nelle scuderie occidentali e trasferimenti di archivi museali nell’Hauptgebäude, rimane un ingombrante presenza/assenza anche negli anni successivi, tra promesse e utilizzi temporanei.

Un possibile epilogo

Esiste, da parte della cittadinanza, un desiderio di cambiamento che deve tuttavia essere guidato da una filosofia progettuale di qualità, lontana dai consensi della politica, vicina a quelli di un mondo culturale aperto, che sappia confrontarsi con le esperienze analoghe nelle più vive città d’Europa.

Il recupero avrà bisogno del proprio apporto simbolico, di oggetti riconoscibili che sappiano incarnare la riattivazione del complesso. A questo tipo di necessità non si può rispondere con una mera riqualificazione del sito: al riparare le coperture crollate deve aggiungersi l’architettura. Non vi è niente di più rispettoso per una città come Verona di continuarne il racconto, fatto di giustapposizioni di edifici, che in vari atti hanno occupato la scena del Tempo, dimostrando quanto la vocazione di questo luogo, fino agli interventi novecenteschi di Scarpa e Cecchini, sia indissolubilmente legata alla dialettica tra le modernità passate. Tali interventi non dovrebbero constare solo di banali rappezzamenti e ripristini, ma di vere e proprie architetture che occupino gli spazi come “parassiti” della vita civile che si nutrono di quel che resta degli spazi militari. L’Arsenale, ad oggi, è una rovina in oblio, come furono i monumenti classici per secoli.

Ma a differenza di questi, la città non ha occupato con la linfa vitale i suoi spazi, anche aggrappandosi in maniera parassitaria a quelle antiche mura, mantenendo la traccia della passata grandezza. Il complesso è rimasto il

simbolo più chiaro della mancanza di comprensione della vocazione precedentemente nominata, il cui assecondamento è l’unica strategia possibile per uscire dall’empasse tra la conservazione passiva e la seduzione delle manifestazioni nazional-popolari.

Un intervento di matrice culturale dovrebbe dare a Verona quel polmone di gioventù creativa esiliato nei quartieri più periferici dalla cultura istituzionale, in un polo di idee illuminanti nel quartiere più borghese e conservatore.

Il recupero dell’Arsenale dovrebbe assecondare il naturale processo di appropriazione della città, senza ambiziosi masterplan, ma partendo da interventi puntuali diretti, che permettano la permanenza di quel verde pubblico di cui il quartiere così tanto necessita. Inutile dire che il tutto dovrà avere un filo conduttore, un racconto sublime che si allontani dal nazional-popolare per abbracciare l’arte anche nei suoi aspetti più giovanili e perturbanti, per fornire a Verona quella piazza di dibattito aperto, libero e progressista di cui ha, oggi più che mai, disperato bisogno. Se ad esempio all’Arena e il Teatro Filarmonico si potrebbero mantenere come i luoghi più riconoscibili per la fruizione dell’arte tradizionale (la lirica, i concerti di musica classica) l’Arsenale potrebbe trasformarsi nel polo della modernità e contemporaneità. Un luogo per l’arte, il teatro, l’avanguardia, la musica, l’incontro fruttuoso, che nasca a poco a poco, per segni evidenti.

L’Arsenale, da perfetta macchina militare, chiuso nella sua perfetta simmetria, dovrebbe trasformarsi in quello che Umberto Eco e Roland Barthes avrebbero definito opera aperta o testo scrivibile, in cui la città, con il suo secolare succedersi di generazioni, possa dare, ad ogni fase, una differente interpretazione.

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Geologie Trasparenti

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Federico Fellini 8½/ Ivan Leonidov, Città del Sole

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Approccio al progetto L’Arsenale di Verona è stato, fin dal suo concepimento, un complesso unitario in termini spaziali, un’infrastruttura di vasta scala racchiusa da un recinto rettangolare ben definito. Si nel progetto iniziale dell’Entwurfskizze che nella realizzazione ben più ridotta è persistita la relazione che tale complesso aveva intenzionalmente intessuto con la città e il paesaggio della Campagnola: un mastodontico intreccio di simmetrie poste a adempiere alle necessità logistiche della macchina bellica asburgica. Il suo destino è stato, come si è visto, quello di rimanere sostanzialmente isolato dal centro abitato, anche quando al cambio di potere non seguì una trasformazione della funzione militare. È sensato pensare, nell’ottica di un recupero dell’Arsenale, restituire questa unità perduta tentando di dare all’intero complesso una pianificazione funzionale che ne occupi ogni singolo padiglione. Tuttavia, l’intenzione di questo progetto è di rispettare le dinamiche in atto di riappropriazione da parte dell’utenza del complesso, fatta di occupazioni, scelte selettive, anche dettate dallo stato di conservazione, che possano permettere alla città di disporre di quegli spazi in potenza che già utilizza per eventi temporanei. Il nuovo Arsenale diviene quindi opera aperta, nel senso di testo dotatosi di punti organizzativi, ma anche di punti liberamente interpretabili dalla cittadinanza. Questo ha un duplice scopo: evitare l’imposizione dall’alto tramite ambiziosi masterplan, e la realizzazione di interventi solo dove c’è un’idea unitaria di progetto.

Dal punto di vista delle permanenze, l’Arsenale mantiene la traccia del percorso attualmente fruito da chi si reca a Borgo Trento da Castelvecchio e viceversa, che lo divide in due metà speculari, accentuando l’idea del complesso come di un filtro tra la città storica e i quartieri d’espansione, come già auspicò Magagnato. L’accesso e l’uscita dal recinto consisterebbe in una modalità sostanzialmente analoga a quanto già avviene. La parte

di muro aggiunta nel Novecento in corrispondenza dello sventramento di Viale della Repubblica viene demolita e lasciata come traccia, permettendo alla nuova chiesa di san Francesco una ariosa apertura verso il quartiere.

L’intero complesso vede la demolizione delle superfetazioni che ne hanno turbato l’aspetto originale di progetto, come i capannoni di inizio ‘900 e parte delle strutture in stile Rundbogen poste speculari rispetto alle scuderie nelle corti laterali. Pur essendo testimonianze della geologia storica del complesso, essi vertono in un tale stato di abbondono o fatiscenza che rende difficile decidere per loro la strada del recupero conservativo. Il progetto si inscrive in sistema di tracce dimensionali di quella integrità formale del complesso, stabilendo però delle variazioni che ne dinamizzino la simmetria, nel rispetto della maglia durandiana, ma in un rapporto quasi contrappuntistico con essa.

L’obiettivo è anche quello del riempimento degli spazi ipertrofici e magniloquenti dei piazzali militari con i pieni delle nuove architetture, che rappresenta il fluire della città all’interno di un complesso che gli è sempre stato alieno. L’assedio della vita attraverso interventi che con la loro leggerezza o plastica chiarezza si pongano in dialogo con le moli austriache, con la stessa dialettica che i secoli delle architetture veronesi hanno intessuto un racconto tra di loro: un nuovo strato nella geologia veronese, questa volta però, trasparente. La materia della texture di tufo e laterizio di Petrasch si contrappone ai due elementi che compongono gli interventi del progetto: la leggerezza dei pilastri e delle coperture e la sincera schiettezza dei muri bianchi. La leggerezza e la sospensione di questi interventi è riscoperta del valore dell’architettura come “sostanza di cose sperate” (Persico), un’espressione di “speranza, di galleggiamento anziché pesantezza” (Jacques Herzog, riferendosi a Ivan Leonidov e Bruno Taut).

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LA NUOVA ACCADEMIA E LA CITTA': OPERA APERTA IN ARSENALE Blocco Servizi_ Uffici di rappresentanza

Aule collettive

1.Segreteria 2.Direzione 3.Infermeria 4.Presidenza 5-6.Ufficio 7.Ufficio DGSA 8.Sala Riunioni 9.Macchinette 10. Rappresentanza 11. Didattica 12. Sala docenti 13. Ufficio acquisti 14. Ufficio progetti

15. Aula Magna 16. Locale Tecnico 17.Ripostiglio Aula Magna 18.Aula Kessler 19.Aula Sanesi 20. Aula studenti/ Aula studio

Dipartimento di Progettazione e Arti Applicate/ Dipartimento Arti Visive 21.Laboratorio NTA 22.Restauro lapideo 23.Restauro ligneo 24. Design 25. Decorazione 26. Affresco 27.Incisione 28.Scultura 29. Sala Pose 30-31.Pittura 32.Laboratorio Stampe 33.Deposito

Scenografia 34. Laboratorio Scenografie per stagione lirica (Arena) 35. Scenografia teatrale

la

Le arti e la città

La nuova Chiesa di san Francesco

36.Teatro di prova scenografie aperto ad uso della città 37. Spazio espositivo/conviviale coperto collegato alle aule collettive dell'Accademia 38. Anfiteatro estivo

39. Spazio liturgico riorganizzato 40. Cappella Feriale

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Pianta del complesso.

Il percorso centrale che la città utilizza e divide l'Arsenale sull'asse di simmetria diviene racconto dinamico tra gli spazi dell'arte.

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Sezione longitudinale. A sinistra lo scavo che contiene il laboratorio di scenografia dell'Arena, a destra l'anfiteatro estivo con rampa di accesso

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Sezione trasversale. Le braccia della corte centrale contengono aule e locali dell'Accademia. Al centro della corte lo spazio espositivo esterno coperto, in dialogo leggero con la pesantezza dell'esistente e la copertura altrettanto esile del laboratorio di scenografia dell'Arena.

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La copertura dello spazio espositivo aperto alla città in comunicazione con le aule collettive dell'Accademia.

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Le officine dell’arte L’elemento centrale, la forza motrice della grande macchina bellica dell’Arsenale era costituita dalla corte settentrionale delle officine. La pietrificazione del termine Arsenal, la casa di produzione, che con Zeughaus, casa delle armi, rappresentava per gli austriaci la sintesi delle due funzioni prevalenti del complesso veronese. In questa parte del complesso, le cui mura coperte di gramigna ancora riecheggiano dei suoni prodotti dai fabbri, dai carradori e falegnami, è stanziata la nuova sede dell’Accademia di Belle Arti di Verona, la cui sede a Palazzo Montanari in piazza Cittadella è da anni spazialmente insufficiente a sostenere tutte le attività richieste dai corsi di studi. Tale decisione è stata valutata da numerose proposte di recupero dell’Arsenale, anche per la necessità culturale per Verona di disporre di un centro vivo di produzione artistica a contatto diretto con la cittadinanza. Nessuna di queste proposte ha tuttavia considerato come interessante continuità funzionale l’idea di collocarla in questa parte del complesso. Dove vi era l’artigianato della guerra, oggi vi è l’artigianato della cultura: la produzione, il senso del fare (quel fare che in greco ποίησις, poiesis, è radice della parola poesia) che ha caratterizzato la produzione artistica nei secoli, nel suo rapporto alto di modificare la materia per fargli raggiungere nuovi significati. La nuova Accademia, posta nella corte delle officine, è permeabile al percorso sopracitato per entrare ed uscire dal complesso, donando alla produzione degli studenti una dimensione pubblica e sensibilizzante per i temi artistici contemporanei. Il cortile viene regolarizzato in due figure quadrangolari: una contiene un “bosco” costituito dagli alberi ripiantati dalle loro posizioni originarie prima dell’intervento, l’altra, che gli fa eco, una copertura tessenowiana, un bosco di leggeri pilastri che sorreggono una copertura perforata che permette ai pioppi neri preesistenti di svettare sopra l’orizzontale complesso. La co-

pertura è collegata alle aule collettive (Aula Magna, Sanesi, Kessler e aula studio) dell’Accademia, e permette agli studenti di scultura di esporre le proprie opere a fruizione della cittadinanza passante per il corridoio centrale. Essa è se si vuole un richiamo ideale alle strutture effimere che coprivano gli affusti dei cannoni non esponibili alle intemperie al tempo della fruizione bellica dell’Arsenale. Gli interventi interni agli edifici che circondano la corte tendono a privilegiare la fruizione spaziale originaria, già adatta per le ampie finestrature e l’altezza delle coperture ad attività da atelier. I nuovi diaframmi murari aggiunti fungono da “pastori” della circolazione, e si pongono sempre con un leggero distacco rispetto ai muri preesistenti. La scelta delle aule per i differenti indirizzi di attività rispettano le metrature ipotetiche ma auspicabili fornite dall’Accademia stessa.

Verona, città del teatro Simbolo svettante di Verona romana, quinta scenica oltre l’Adige sul Colle che ne vide la fondazione, l’antico teatro romano è sfacciata testimonianza di quanto la città scaligera sia legata a tale tipologia sin dalle sue origini.

Non è un caso che nell’immagine che si è citata come fondante nella leggibilità dell’organismo urbano veronese, ovvero l’Iconografia rateriana, il teatro e l’anfiteatro appaiano come elementi di spicco. L’Arena, con la sua platea di pietra, testimonia la vicinanza tra la suggestione architettonica dell’edificio che contiene lo spettacolo e lo spettacolo stesso, in una sorta di dialettica tra il diegetico e l’extradiegetico, tra la scenografia come quinta e il contenitore architettonico. Se è vera la leggenda che vede Dante ispirato per la “scenografia” del suo Inferno alle concentriche gradonate dell’anfiteatro, tale dialettica appare ancor più suggestiva. Senza contare l’importanza civica e urbanistica che i teatri hanno avuto nella storia della città, come l’utopia seicentesca del filarmonico dei Bibbiena, aperta dal pronao del Curtoni e successivamente dal Museo Lapidario di Maffei, i vari

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Il teatro ha come scena la rovina. Sul retro, un giardino di pietra.

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La massa policroma dell'Arsenale si confronta con l'astrazione del teatro.

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Lo scavo del laboratorio scenografico, coperto da meccaniche trasparenze, si confronta con il gioco decorativo di ruote dentate e fantasie castellane della Palazzina di Comando.

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La città può osservare di passaggio le scenografie dell'Arena in uno spazio del lavoro che criticamente le sappia porgere.

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teatri lignei che nel XIX secolo riempirono piazze e viali, come il noto Teatro Cittadella, o l’idea di Pinali negli anni 1830 di munire piazza Bra di un teatro in relazione plastica con l’Arena, il cui tracciato e posizionamento furono ripresi da Barbieri nella progettazione della Gran Guardia Nuova.

Teatri colti, popolari, di prosa e poesia, costellavano il tessuto urbano ieri come oggi, improntando alla città nel tema delle facciate decorate, dalle porte urbiche romane in poi, passando per i palazzi dipinti del rinascimento, un significativo inconscio dello spettacolo. Anche nella narrativa nazional-popolare e turistica, l’impronta del festival lirico in Arena e le menzioni che della città fa il bardo Shakespeare rendono quasi la linfa teatrale un tratto identitario, immediato, caratteristico del luogo. L’Arsenale, nell’ottica di divenire casa del lavoro artistico, diviene nel progetto polo di sperimentazione teatrale e scenografica; all’interno del nuovo complesso si distinguono due teatri: il primo, legato all’Accademia, il secondo, ad una fruizione estiva e fusa, in continuità con la tipologia, al tema della piazza.

Commensalismo delle rovine

La sezione di scenografia dell’Accademia viene collocata all’interno del magazzino occidentale a un piano. Ad essa è annesso un teatro polifunzionale ma pensato soprattutto per testare i lavori degli studenti. In relazione di commensalismo, la mole plastica del nuovo teatro approfitta delle rovine visibili nella parte settentrionale dell’edificio per ricavare una scenografia, costituita dallo scheletro strutturale del vecchio magazzino. Il teatro non tocca la rovina, ma la tange in maniera non distruttiva, con una copertura che termina oltre l’edificio, verso l’Accademia. La quinta scenica, chiusa dagli archi preesistenti, diviene sintesi moderna del tema già esplorato da Palladio nell’Olimpico di Vicenza: la scena fissa, in quel caso fantasia antica, in questo diviene rovina premoderna. Dall’esterno, il tema del muro bianco sfida le murature austriache, e denuncia schiettamente la

pendenza della gradonata interna. La platea prosegue fino al muro preesistente dell’edificio in stile successivo al progetto originario austriaco, divenendo via di esodo, ma anche discesa verso un giardino di pietra posto nel recinto del falso storico costituito dall’edificio sopracitato, che viene svuotato per lasciare soltanto i due muri (quello retrostante originaria chiusura della corte) come traccia di quello che fu. Il teatro funge anche da possibile elemento ospitante per gli spettacoli estivi che già si svolgono nella corte occidentale, oggi allestiti con strutture temporanee.

Il palco scavato

Tra l’Hauptgebäude e la corte delle officine, lo stesso gioco geometrico di figure quadrangolari visto nell’Accademia, produce due scavi. Essi sono i primi interventi visibili dopo aver attraversato la soglia della Palazzina di Comando, arrivando da Castelvecchio e quindi dal centro storico. L’incavo visibile volgendosi verso oriente contiene l’anfiteatro estivo, le cui gradonate sono intervallate a ponente dal contenitore delle imponenti radici del cedro libanese che da decenni svetta in questo ampio piazzale. L’incavo è destinato ad ospitare anche happening e concerti di artisti musicali emergenti nel panorama cittadino, nonché concerti jazz e musica sperimentale, permettendo all’Arena e al Filarmonico di mantenersi poli per la tradizione lirica e classica e ospitare artisti musicali di fama. La vicinanza di questo incavo con il tema veronese dei teatri lignei che riempivano le piazze, come il già citato Teatro Cittadella, oggi scomparso, è anche richiamata dalla forma quadrangolare che questi manufatti assumevano per adattarsi a tali spazi pubblici. Una rampa pensata per permettere a tutti di usufruire dello spazio per le rappresentazioni, funge anche temporaneamente da rampa per il trasporto delle scenografie dell’Arena, realizzate nello spazio annesso all’incavo, il secondo scavo. Le gradonate sono pensate come flessibili a qualsiasi tipo di rappresentazione, comprese le

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La cappella feriale completa la rovina, che diviene spazio di memoria tra i due altari.

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proiezioni cinematografiche all'aperto.

Strati traslucidi

Il secondo scavo nello spazio tra la Palazzina e la corte delle officine è idealmente connesso per tematica alla leggerezza della copertura esterna dell’Accademia tramite un “velo” traslucido in policarbonato, sorretto da una struttura reticolare. Lo spazio sottostante funge da laboratorio e stoccaggio delle scenografie destinate all’Arena, a disposizione degli artisti che vi si dedicano, agli studenti di Belle Arti, e all’osservatore casuale, che ancora una volta, guardando in basso dal percorso di attraversamento del complesso, può osservare gli addetti al lavoro. Tale incavo è la costruzione di un’idea di effimero, una sorta di cristallizzazione del lavoro in atto, nell’astrazione estetica del cantiere, quella che già Fellini immaginò nella scenografia delle scene finali di 8½. La luce filtrata, immobile, quasi atemporale e uniforme, getta sulle scenografie uno spazio irreale, vicino alla suggestione onirica, oltre che una luminosità ottimale per il lavoro diurno. Lo scarto tra lo scavo e la copertura offre una visione orizzontale, inquadrata e panoramica dei prospetti del complesso austriaco.

Sacellum: La nuova chiesa di San Francesco e la cappella feriale La cessione del magazzino orientale a due piani, bombardato nel secondo conflitto mondiale, alla diocesi veronese, è stata, come si è visto, la fine della possibilità di un recupero unitario del complesso. La chiesa di San Francesco è divenuta quasi elemento distante dal resto dell’Arsenale, e le difficoltà liturgiche derivanti dall’adattamento di un magazzino di artiglieria in chiesa sono ben documentate.Le suggestioni già citate di Cecchini, che vide nella parte in rovina la possibilità di costituire un piranesiano tempio della memoria, sono svanite con la sistemazione esclusivamente di

arredo dello spazio ecclesiastico.

La ricollocazione di tale edificio all’interno dell’Arsenale è il primo punto che si propone il progetto. La traccia del magazzino che fu viene da una parte tracciata a terra tramite un gioco di cambio di pavimentazione, e dall’altra occupato dal volume della cappella feriale esterna, che riprende le misure della parte mancante, distrutta dai bombardamenti. Un recupero dimensionale che idealmente e spazialmente ripone il volume del magazzino orientale all’interno dello schema planimetrico originario. Gli altari dei due spazi sacri (cappella e chiesa) si confrontano, intervallati dalla suggestiva assenza della rovina, che come nel corpo destinato alla scenografia, mostra lo scheletro strutturale dell’edificio originario. In questo spazio, rimosso un solaio in lamiera posto alla fine del secolo scorso, si ricava un giardino della memoria, piccolo spazio esposto alle intemperie in cui le rovine fungono da monito per gli orrori della guerra. L’altare della chiesa esistente viene ricavato in una delle campate della parte in rovina, permettendo così l’aggiunta di una porzione di copertura che faccia piovere la luce nello spazio corale, lasciando in ombra le due navate. Quasi un richiamo luministico e astratto ai suggerimenti architettonici per la liturgia di San Carlo Borromeo nelle Instructionum Fabricae.

Lux aeterna

La piccola cappella feriale esterna si pone come essenziale percorso spirituale, spazio recluso dal tema del muro. Riprendendo la traccia della pilastrata centrale del magazzino, un muro divide il percorso, il nartece di accesso, esposto agli elementi, dallo spazio liturgico, coperto fino alla zona dell’altare. La cappella tenta di donare l’intimità spirituale richiamando la sincerità del paleocristiano. Anche qui, alla pauperitas chiara e trasparente dell’intervento, si contrappongono le murature bicrome austriache, il cui richiamo al romanico veronese, nello spazio sacro, appare quasi dissacrante.

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Viste dei modelli.

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Ringraziamenti

Un sincero ringraziamento a tutti coloro che hanno reso questa ricerca e questo progetto possibili, a partire dalla professoressa Maria Grazia Eccheli, relatrice di questa tesi, per i preziosissimi insegnamenti progettuali e a Caterina Lisini per i consigli atti a migliorare sempre di più la qualità del progetto.

Ringrazio l' ÖSTERREICHISCHES STAATSARCHIV per avermi fornito le preziose scansioni delle piante del progetto originale dell'Arsenale. Senza il loro contributo non avrei compreso appieno la storia del manufatto.

Ringrazio l'architetto Alberto Vignolo per avermi fornito gli elaborati di stato di fatto dell'Arsenale.

Ringrazio Isabella Caserta per i preziosi consigli sulla progettazione di teatri.

Ringrazio la professoressa Angela Cavuoto per gli aiuti nella comunicazione con l' ÖSTERREICHISCHES STAATSARCHIV.

Infine ringrazio Angelo, Luca e Miguel per l'aiuto e il supporto in questo importante percorso.

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