IL PROGETTO /krəʊk/ - Tesi di Biennio Sperimentale di Sound Design (2020)

Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica Conservatorio di Musica “G. B. Martini” di Bologna Scuola di Musica Elettronica

Tesi di Diploma accademico di II livello Biennio Sperimentale di Sound Design

IL PROGETTO /krəʊk/ Insieme di idee installative tra sound art e composizione elettroacustica

Relatore: Lelio Camilleri Correlatore: Francesco Giomi Candidata: Agnese Banti Matricola: 9482

Sessione Invernale a. a. 2018/2019

Stampato presso OCRA Stamperia e Legatoria, Firenze 2020

Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Alta Formazione Artistica, Musicale e Coreutica Conservatorio di Musica “G. B. Martini” di Bologna Scuola di Musica Elettronica

Tesi di Diploma accademico di II livello Biennio Sperimentale di Sound Design

IL PROGETTO /krəʊk/ Insieme di idee installative tra sound art e composizione elettroacustica

Relatore: Lelio Camilleri Correlatore: Francesco Giomi Candidata: Agnese Banti Matricola: 9482

Sessione Invernale a. a. 2018/2019

INDICE Introduzione

5

Capitolo I - Installazioni sonore 1.1. Problematiche della definizione 1.2. La relazione con lo spazio

7 9

1.3.

Tra sound art, teatro sonoro e composizione elettroacustica

2.

Capitolo II - Il materiale sonoro di /krəʊk/ 2.1. La fonè della rana 2.2. La fonosfera delle voci antiche: animali e oracoli 2.3. Rane e rospi: tra mitologia, religione e cultura 2.4. Comunicazione acustica fra rane 2.5. Senti le rane che cantano... etnomusicologia e zoomusicologia 2.6. Materiale sonoro compositivo: field recording e composizione 3.

Capitolo III - Nel situ ideale 3.1. Il teatro greco: luogo e simbolo 3.2. Un’acustica speciale 3.3. Paesaggio sonoro hi-fi 4.Capitolo IV - /krəʊk/: primo studio 4.1. Nel Chiostro del Conservatorio “G.B. Martini” di Bologna 4.2. Allestimento e forma compositiva

12

15 17 21 25 26 30

36 39 41

43 45

Conclusioni

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Riferimenti bibliografici - discografici e sitografia

50

Sotto un cespo di rose scarlatte offre il rospo tè caldo con latte.

Sotto un cespo di rose paonazze tocca al rospo sciacquare le tazze.

Tᴏᴛɪ Sᴄɪᴀʟᴏᴊᴀ

Introduzione

/krəʊk/ può essere definito come “un insieme di idee installative” la cui intenzione è quella di evocare un paesaggio sonoro senza tempo in cui canti di rane, animali affascinanti dal punto di vista culturale e sonoro, suggeriscono una forma rituale e onirica in cui sono celati messaggi arcani.

Questo progetto si destreggia tra finestre di interesse e orizzonti di ricerca diversi fra loro e apparentemente non in immediata comunicazione: discipline artistiche e musicali, storia dell’architettura, etologia, bioacustica, antropologia, filologia antica, zoomusicologia e soundscape studies. Un universo multidisciplinare che mi ha portato ad approfondire e mettere in connessione tematiche diverse, condizionando il percorso stesso del lavoro. Una notte di inizio giugno, a Mantova, sdraiata sulla riva di un laghetto, mi sono ritrovata a registrare, per interessi compositivi e di field recording, il simpatico verso di una rana (la cui scrittura fonetica è /krəʊk/) e non capivo se, tutta quella musicalità, fosse in realtà confusa nella mia percezione perché mi ero addormentata o se quel suono fosse “effettivamente” così musicale... da quel momento, il piccolo verso mi ha guidato in questo lavoro arricchendosi via via di valori artistici e culturali.

Credo che l’interdisciplinarietà della mia tesi sia, da una parte, lo specchio di un background variopinto di studi ed interessi entrato in comunicazione con il fertile ambiente accademico della Scuola di Musica Elettronica del mio Conservatorio e, dall’altra, la dimostrazione di come un progetto di sound design possa costituire il minimo comune denominatore di un lavoro che coinvolge discipline scientifiche, umanistiche e artistiche.

Dedicherò la parte iniziale di questo scritto alle installazioni sonore e a come queste si inseriscano, dalla seconda metà del Novecento, nell’orizzonte delle discipline artistiche

5

che lavorano con il suono, risultando un ibrido tra sound art, teatro sonoro e composizione elettroacustica; nel seguito affronterò gli aspetti culturali, bioacustici e compositivi attribuiti e attribuibili alla voce delle rane e dei rospi, ovvero il materiale sonoro e riferimento simbolico di /krəʊk/; concluderò infine descrivendo due luoghi: quello ideale per cui l’idea installativa è nata, ovvero le rovine di un teatro greco antico in notturna, e uno reale, ovvero il Chiostro del Conservatorio “G. B. Martini” di Bologna, che ospita il “primo studio” di /krəʊk/ con una partitura site specific.

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Capitolo I

Installazioni sonore

1.1. Problematiche della definizione L’installazione è stata una di quelle forme artistiche che hanno scardinato a cavallo del Novecento la secolare divisione tra arti spaziali e arti temporali poiché, dal momento che questa è inserita in uno spazio da intendersi come “situazione spaziale”, agisce necessariamente ed intrinsecamente anche nel tempo. Nata “dal dissolversi dei confini fra le arti”1 l’installazione per definizione ha sempre coinvolto diversi media e, infatti, definire un’installazione multimediale può essere di per sé ridondante: agendo nel tempo e nello spazio, è intrinseco che questa si avvalga di diversi media, perlomeno uno che agisca sullo spazio e uno che agisca nel tempo.

Con “multimediale” si fa riferimento anche all’utilizzo di una tecnologia audio-video che è stato possibile iniziare pensare e sperimentare dalla metà del secolo scorso e che continua ad essere pensata e sperimentata tutt’oggi.

Gli aggettivi che accompagnano la definizione di installazione connotano in maniera più precisa i media o il medium tramite il quale o i quali questa è stata realizzata, come ad esempio: “installazione multimediale”, “installazione sonora”, “installazione video”, “installazione interattiva”, etc. La locuzione sound installation appare per la prima volta con il compositore e percussionista Max Neuhaus (Beaumont, USA, 1939 - Marina di Maratea, Italia, 2009) in occasione della composizione Drive in Music (1967)2 per la quale installò venti trasmittenti radio dentro gli alberi di un tratto di Lincoln Parkway a Buffalo (NY). Neuhaus adopera il termine sound perché è confacente alla sua produzione, come scrive il musicologo italiano Giacomo Albert (Torino, 1975) nel suo saggio

1

Aʟʙᴇʀᴛ, G., Rapporti tra opera e fruitore nelle origini dell’installazione sonora (1900-1966) in ACT - Zeitschrift für Musik & Performance, Ausgabe 2012/4, Torino, 2012.

2 https://medienkunstnetz.de/works/drive-in-music/ (ultima consultazione febbraio 2020).

7

Sound Sculptures e Sound Installations (2010): “la sua estetica si fonda sull’idea di abbandonare la concezione della composizione musicale per giungere a una liberazione cageana del suono”3. Sempre come scrive Albert nel medesimo saggio, installare il suono, comporre un ambiente, pensare una situazione acustica non musicale e portare alla luce suoni della natura sono tutte operazioni che iniziano a far parte della produzione musicale e sonora dalla seconda metà del Novecento in poi e costituiscono una buona parte della sparsa ricerca di nuovi modi e forme di espressione musicale e sonora da cui deriva la nascita delle installazioni sonore. La forma artistica definibile come “installazione sonora” non deriva, infatti, da una somma precisa di innovazioni estetiche e non viene inventata da un autore preciso o da una corrente artistica, bensì fiorisce, contemporaneamente, in diverse parti del mondo a metà del Novecento. Sempre secondo Albert, l’espressione “installazione sonora” crea un paradosso logico4 poiché la maggior parte delle installazioni sonore non viene descritta in base al medium che gli è proprio (cioè il suono) ma in base alla modalità di fruizione e, dunque, sarebbe più opportuno parlare di installazioni “multimodali” invece che multimediali.

Dal momento che non è possibile dividere la totalità di un’esperienza sensoriale di una situazione spaziotemporale, possiamo ragionevolmente dire che una qualsiasi installazione debba sempre confrontarsi con il sonoro: il suono è sempre un elemento compositivo anche nella sua neutralità e/o nella sua intenzionale assenza. Possiamo altresì aggiungere che il suono sia già in un certo senso di per sé installativo poiché gli sono proprie la terza e la quarta dimensione: il suono si diffonde nello spazio tridimensionale e si sviluppa nel tempo.

Tutte le definizioni di installazione concordano che sia centrale l’elemento del fruitore per definire un’installazione come tale. Un’installazione però può essere pensata per non essere fruita ed avere lo stesso un chiaro senso artistico. Quello che invece veramente definisce un’installazione come tale è “l’atto installativo” poiché il verbo stesso installare indica un’azione che modifica lo stato precedente dello spaziotempo in cui viene effettuata.

3

Aʟʙᴇʀᴛ, G., Sound Sculptures e Sound Installations, in Acoustical Arts and Artifacts AAA • TAC, Technology, Aesthetics, Communication, Fabrizio Serra Editore, PISA - ROMA, 2010.

4 Ibid.

8

Nonostante esistano teorie filosofiche che neghino su un piano metafisico la dimensione spaziale del suono5, certamente questo non può essere percepito a prescindere dallo spazio, inteso come parte intrinseca della struttura scientifica unitaria di spaziotempo: tutto ciò che è nel tempo è anche nello spazio e viceversa. A livello percettivo e concettuale possiamo invece dire quasi il contrario: una delle caratteristiche delle installazioni sonore è quella di aver generato la percezione di una “musica-spazio” quasi sospendendone la temporalità.

L’errore che spesso viene commesso in una visione ordinaria del mondo nel considerare il suono come “immateriale” ha origine nell’utilizzare immaterialità e invisibilità come sinonimi ma, ovviamente (e d’accordo con l’ABC della fisica acustica), non è così poiché il suono si trasmette in un mezzo materiale. L’aspetto dell’invisibilità è il segreto in cui si racchiude la magia delle installazioni sonore e, dato che il suono permette di modellare uno spazio in maniera invisibile, una scelta comune nelle installazioni è quella di nascondere anche le sorgenti in modo da assecondare questa percezione.

Per la diffusione del suono nello spazio ci si può avvalere di diversi supporti e dispositivi, che siano interattivi (computer, sensori, etc.), semplici sorgenti sonore (altoparlanti, cuffie, etc.) o strumenti acustici suonati da performer o da un pubblico6.

1.2. La relazione con lo spazio La musica che sto cercando è scritta con lo spazio: essa non è mai uguale in qualsiasi spazio, ma lavora con lui.7 Lᴜɪɢɪ Nᴏɴᴏ

Avendo precedentemente stabilito che un’opera può essere definita installativa solo nel momento in cui è pensata e progettata per essere in una “situazione spaziale” possiamo

5

Alcune teorie filosofiche rivendicano il fatto che il suono possa essere concepibile in un modello metafisico in cui è assente una nozione di spazio ma non in un modello in cui è assente una nozione di tempo.

Dɪ Bᴏɴᴀ, E., Sᴀɴᴛᴀʀᴄᴀɴɢᴇʟᴏ, V., Il suono. L’esperienza uditiva e i suoi oggetti, Raffaello Cortina Editore, 2018.

6 en.wikipedia.org/wiki/Sound_installation (ultima consultazione febbraio 2020).

7 in Aɢᴜᴅᴏ, A., Nel suono una essenza cinetica: le “altre continuità” di Luigi Nono, Il Manifesto, 19.01.2020 (https://ilmanifesto.it/nel-suono-una-essenza-cinetica-le-altre-continuita-di-luigi-nono/).

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ragionevolmente dire che connotare qualitativamente questa relazione può offrire spunti di comprensione dell’idea installativa stessa.

Mark Lawrence Rosenthal (Philadelphia, USA, 1945), storico e filosofo statunitense, proprio in quest’ottica individua due tipologie di relazioni con lo spazio8 nelle installazioni artistiche: la prima è quella delle installazioni filled space o “non in situ”, ovvero quelle che non sono pensate per un luogo specifico in cui essere realizzate, come ad esempio le “Enchantments”, ovvero le installazioni astratte e volte a stupire ed affascinare il fruitore (ad esempio Plight di Joseph Buys, 1985) e le “Impersonations”, cioè le installazioni concrete che imitano la vita quotidiana (ad esempio The Store di Claes Oldenburg del 1961); la seconda è quella delle installazioni site specific o “in situ”, che sono invece strettamente legate allo spazio in cui sono installate, come gli “Interventions”, ovvero le installazioni che intervengono sullo spazio che le accoglie (ad esempio Miles Of Spring di Marcel Duchamp, 1942) e i “Rapprochements”, cioè le installazioni che stabiliscono un’annessione totale del luogo in cui si trovano, attraverso una trasformazione e una metamorfosi profonda (come ad esempio Le Reichstag Emballè di Christo e Jeanne Claude, 1977-1995).

Per quanto possa essere “non in situ”, un’installazione sonora è sempre e comunque site specific nel momento in cui viene realizzata, sia che venga pensata per un solo spazio, sia che venga pensata per inserirsi in ambienti diversi fra di loro. Lo spazio non è mai neutro, nemmeno nella sua neutralità: influenza l’installazione nella sua idea progettuale e nella sua realizzazione pratica portandosi dietro caratteristiche estetiche, acustiche, psicoacustiche e di senso. Avendo specificato che lo spazio è da intendersi come situazione, anche il “contesto”, che si crea con e nello spazio installativo, diventa fondamentale per la sua fruizione complessiva. Una situazione installativa non può esistere, dunque, a prescindere dal tempo, dallo spazio e dal contesto.

In queste due tipologie individuate da Rosenthal che definiscono bene la relazione tra l’idea installativa e lo spazio che la accoglie manca uno sguardo alla relazione tra lo spazio installativo e il fruitore. Un’installazione infatti si dice immersiva nel momento in cui il fruitore è inserito in un ambiente in cui tutti gli elementi creano connessioni

8

Lᴀᴡʀᴇɴᴄᴇ Rᴏsᴇɴᴛʜᴀʟ, M., Understanding Installation Art: From Duchamp to Holzer, Munich, London; Prestel, 2003.

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alimentando la percezione di “un’altra realtà”. In questo caso l’installazione è in completa adesione con l’esperienza del visitatore e distrugge la frontalità della fruizione dell’opera d’arte, un celebre primo esempio è The Man Who Flew into Space di Ilya Kobakov del 1982.

La percezione acustica naturale è per definizione immersiva, non è sbilanciata verso una direzione come la vista e non la si può interrompere chiudendo le orecchie, come invece possiamo fare chiudendo gli occhi. Oltretutto dell’apparato uditivo fanno parte anche le ossa che sicuramente non possiamo dividere dal nostro corpo che riceve qualsiasi tipo di onda acustica. Il suono agisce intrinsecamente in maniera immersiva sul fruitore ma, ovviamente, la scelta, il numero, la posizione delle sorgenti sonore e la spazializzazione dei suoni possono creare ulteriori diversi gradi di immersione.

Un altro aspetto che può caratterizzare diversamente le installazioni sonore è se queste siano open space o meno, ovvero se, imparentandosi con la land art, queste interagiscano con un paesaggio sonoro (naturale o urbano che sia), o se invece queste siano pensate per un luogo chiuso con diversi gradi di insonorizzazione rispetto all’ambiente esterno.

Come abbiamo accennato nel capitolo precedente, la relazione della composizione sonora con lo spazio non è solo una questione tecnica volta a stabilire un criterio di definizione e catalogazione delle installazioni sonore, è anzi una questione filosofico-estetica che entra prepotentemente nel dibattito avanguardistico musicale del secondo Novecento grazie a compositori come Iannis Xenakis (Brăila, Romania, 1922 - Parigi, Francia, 2001) e Karlheinz Stockhausen (Kerpen, Germania 1928 - Kürten, Germania, 2007), annoverati fra i più significativi e visionari compositori del ventesimo secolo che, fra gli altri significativi contributi che hanno dato alla musica sperimentale del secolo scorso, hanno portato un’idea creativa e multidirezionale di spazio nella composizione e nell’esecuzione musicale.

Proporre un’idea di “suono spaziale e plurale” può generare, inoltre, una riflessione politica, come scrive la giornalista Arianna Agudo parlando del lavoro di un altro fondamentale compositore del secolo scorso, Luigi Nono (Venezia, 29 gennaio 1924 - Venezia, 8 maggio 1990): Ripensare il suono come entità cinetica implica superare le barriere dell’ascolto frontale e mono-

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direzionale di ascendenza borghese che, nel corso dei secoli, si è sclerotizzato nella “forma fissa” e impositiva della sala da concerto: bisognerà piuttosto dislocare, moltiplicare, dinamizzare le fonti sonore per costruire spazi che offrano non una sola possibilità di ascolto, restando invece aperti a tutti gli infiniti possibili; spazio cangiante, in continuo divenire, spazi plurimi.9

L’idea di uno spazio cangiante e costellato da diverse fonti sonore e da diverse possibilità di ascolto può descrivere una forma possibile di installazione sonora.

1.3. Tra sound art, teatro sonoro e composizione elettroacustica Diverse forme sonore compositive generano diverse relazioni con il fruitore. Una forma sonora “statica” permette una fruizione completamente libera dell’installazione poiché questa può essere sempre uguale a sé stessa (come per esempio un breve loop) o subire dei microcambiamenti ininfluenti all’esperienza (come ad esempio un flusso sonoro di durata indefinita). Con questa forma compositiva è dunque molto facile controllare l’esperienza che i fruitori avranno all’interno dell’installazione per qualsiasi durata decidano di trattenersi nello spazio, non è un caso che siano forme compositive molto utilizzate nella sound art, forma artistica che nasce agli inizi del Novecento con l’Intonarumori di Luigi Russolo (1913) e i successivi esperimenti artistici dadaisti, surrealisti e fluxus dove il suono è completamente lontano dall’essere considerato in relazione a una qualsiasi forma musicale.

Una forma sonora più “lineare” definisce una fruizione temporale precisa, come accade con una composizione su supporto (ad esempio una composizione acusmatica o una composizione elettroacustica), ed è dunque necessario controllare i tempi di fruizione dei visitatori perché potrebbero non vivere l’esperienza propria dell’intenzione compositiva. Può essere utile trattarla come se fosse una pièce di teatro sonoro e, anche se quest’ultimo non esiste come genere artistico riconosciuto, è un’espressione che definisce l’idea di un teatro in cui gli attori sono solo i suoni e/o degli oggetti sonori composti in uno spazio.

9

Aɢᴜᴅᴏ, A., Nel suono una essenza cinetica: le “altre continuità” di Luigi Nono, Il Manifesto, 19.01.2020 (https://ilmanifesto.it/nel-suono-una-essenza-cinetica-le-altre-continuita-di-luigi-nono/).

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Una forma sonora a metà fra queste due appena descritte può accogliere una fruizione temporale mista, sia breve che lunga, con accesso libero. Una composizione lineare mandata in loop diventa circolare e se è spazializzata in modo non uniforme può generare, muovendosi nello spazio, un’esperienza diversa a ogni ripetizione. La fruizione libera nel movimento è tipica della sound art mentre la posizione ideale di ascolto è propria della composizione acusmatica ed elettroacustica.

Il senso artistico di un’installazione sonora sta nella sua esperienza estetica ma, possiamo dire che, nella forma loop o nella forma flusso, il concetto ha sicuramente più peso della narrazione. Diversamente, nella forma lineare, la narrazione e la drammaturgia hanno più peso del concetto. Fra questi due poli formali si possono creare tanti stati intermedi, ibridi e in cui concetto e narrazione si ritagliano ogni volta il proprio ruolo.

Per quanto riguarda le sorgenti sonore prendiamo in considerazione gli altoparlanti perché sono interessanti a livello tecnologico, oggettuale e sono propri di tutte e tre i generi artistici: la sound art, il teatro sonoro e la composizione su supporto. L’orchestra di altoparlanti e le composizioni multicanale sono eredità delle avanguardie della metà del Novecento e, quando si pensa a una moltitudine di altoparlanti, non si può non pensare all’Acousmonium di François Bayle (Toamasina, Madagascar 1932), compositore francese cardine per lo sviluppo della musica elettroacustica del Novecento che per decenni è stato al vertice del GRM e al quale si deve il recupero del termine, prima pitagorico poi schaefferiano, di “musica acusmatica” come identificativo per tutta la musica elettroacustica realizzata per essere diffusa da altoparlanti. La possibilità di inventare la disposizione degli altoparlanti, e, a un livello più concettuale, di considerare lo spazio come elemento compositivo, come abbiamo precedentemente accennato, rappresenta un momento di radicale “svolta”10 nella musica del Novecento: Stockhausen per primo “lega la struttura musicale alla disposizione degli altoparlanti e il contenuto musicale al luogo della diffusione”11 e questo altro non è che il processo creativo necessario alla progettazione di un’installazione sonora multicanale e site specific.

In una forma ibrida artistica installativa gli altoparlanti possono svolgere diversi ruoli come quello di creare la scenografia sonora di questa recitazione, che in precedenza

10

Rᴜssᴏ, M., Lo spazio come fonte di ispirazione nella musica del secondo Novecento, Rivista Italiana di Acustica, Vol. 26 n. 2-4/2002, 2002.

11 Ibid.

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abbiamo definito invisibile, o quello di creare una presenza meta-attoriale in relazione al materiale sonoro che viene diffuso (ad esempio se una stessa voce viene diffusa sempre e solo da un altoparlante specifico questo potrebbe essere il simulacro della presenza che ha emesso quella voce). Il ruolo degli altoparlanti cambia anche a seconda della loro grandezza e della loro disposizione in relazione allo spazio e ai fruitori in esso. La presenza visibile di un altoparlante collocato in uno spazio non è mai neutra all’atto artistico, nemmeno se questo è spento: in tal caso infatti l’altoparlante crea un’immagine sonora di silenzio e attesa.

Un esempio di installazione sonora di sound art pensata e installata all’aperto e allo stesso tempo immersiva in cui sono stati usati altoparlanti anche come scenografia sonora, è Earth Tones (1992), del sound artist pioniere Bill Fontana (Cleveland, Stati Uniti, 1947), realizzata presso l’Oliver Ranch, a Sonoma County nel Nord della California, dove, immersi nella natura circostante un lago, l’autore ha posizionato sei altoparlanti dotati di un cono grande per poter esaltare le basse frequenze. Dagli altoparlanti escono suoni a bassissima frequenza, registrati nell’Oceano pacifico, che producono una vibrazione della terra e attivano una vibrazione dell'intero ambiente: le frequenze sono talmente basse da non superare la soglia dell'udibile. I suoni vengono mossi lentamente tra gli altoparlanti, in maniera tale da creare una texture che vibra ed è costantemente cangiante. /krəʊk/, il progetto di cui inizieremo a parlare dal prossimo capitolo, è un lavoro che può essere classificato a metà tra una composizione elettroacustica multicanale e un’operazione di sound art e che strizza l’occhio a un’idea di teatro sonoro. È un lavoro site specific ed è un’installazione open space che dialoga con il paesaggio sonoro in cui è installata, pur creando un buon grado di immersività. La derivazione principe di questa classe di idee è pensata per le rovine di un teatro greco antico e una moltitudine di piccoli altoparlanti distribuiti nella platea per la durata di una notte. Il primo studio di /krəʊk/ viene invece pensato per il Chiostro del Conservatorio G. B. Martini di Bologna in una forma loop dilata nel tempo.

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Capitolo II

Il materiale sonoro di /krəʊk/

2.1. La fonè della rana Il principale materiale sonoro del progetto /krəʊk/ sono voci di rane, animali che in molte culture sono legati alla magia e al sacro per la loro duplice natura, terrena ed acquatica (letteralmente il termine “anfibio” deriva proprio dall’unione di ἀμφί/amphì, doppio, e βίος/bìos, vita, e vuol dire “doppia vita”), a un’identità di gruppo (allo stesso tempo sono molte voci e un’unica voce), alla trasformazione (per la metamorfosi da girino a rana che subiscono) e, infine, alla rinascita (per il cambio di pelle che effettuano periodicamente). Le rane sono sempre state caratterizzate e definite per la loro voce, tant’è che l’etimologia indoeuropea RAK della parola “rana” vuol dire proprio “emettere una voce”12. La voce, curiosamente, è ciò di più universale e intimo che abbiamo anche noi come uomini, e, come dice Italo Calvino (Santiago de Las Vegas de La Habana, 1923 - Siena, 1985), scrittore e partigiano italiano, è il mezzo più “vero” con cui affermare l’esistenza di una persona: La voce potrebbe essere l'equivalente di quanto la persona ha di più nascosto e di più vero. [...] Una voce significa questo: c'è una persona viva, gola, torace, sentimenti, che spinge nell'aria questa voce diversa da tutte le altre voci.13

Nella famosa commedia di Aristofane “Le rane” (406-5 a.C.) un gruppo di rane costituisce proprio il coro tragico della commedia e loro stesse vengono definite per la loro voce “cigni della specie rane” e “razza di amanti del canto”14. I loro canti vengono descritti con gli stessi aggettivi che sono usati in altri passi per descrivere altri animali

12 13

https://etimo.it/?term=rana (ultima consultazione febbraio 2020).

Cᴀʟᴠɪɴᴏ, I., Un re in ascolto, in Sotto il sole giaguaro, Garzanti, 1986, pp. 81-4.

14

βατράχων κύκνων e ὦ φιλῳδὸν γένος, in Rᴏᴄᴄᴏɴɪ, E., Il canto delle rane in Aristofane, academia.edu, 2016.

15

altamente musicali (come le cicale e i grilli) e sono ricchi di riferimenti e invocazioni a divinità musicali: il loro canto è dedicato a Dioniso, definiscono le Muse come “abili nel suonare la lira”, appellano Pan come “suonatore di syrinx” e Apollo come suonatore di uno strumento a corda tipico degli aedi. Le rane invocano le divinità come garanti del loro canto anche perché il loro habitat naturale è ricco di canne di bambù, pianta da cui venivano ricavate alcune delle più antiche forme di strumenti musicali (syringes, auloi e il manico di alcuni cordofoni). Questa analisi, presente nel saggio della musicologa specializzata in musica antica, Eleonora Rocconi15, dedicato al ruolo musicale delle rane nella commedia di Aristofane, suggerisce come le rane abbiano un multidirezionale collegamento con la musica.

Nella commedia di Aristofane le rane fanno anche da ponte fra il mondo dei vivi e quello dei morti e, infatti, come analizzeremo successivamente, le rane in moltissime culture, quasi globalmente, hanno sempre svolto un ruolo di intermediarie tra un qualcosa e un qualcos’altro, in particolare in fasi di passaggio della vita. In /krəʊk/ la loro voce, d’accordo con l’idea antica illustrata nel capitolo successivo secondo la quale la “Natura”, un tempo avrebbe parlato attraverso moduli fonici primordiali propri degli animali e comprensibili solo a una cerchia di persone iniziate, fa da ponte tra il mondo ordinario e quello extra-ordinario, la realtà di oggi e quella del passato. Nel mio progetto la fonè delle rane è protagonista di un inno alla voce, al suono, alla musica considerandoli tre cose distinte ma anche tre aspetti diversi di una stessa idea primordiale di musica.

In questa idea di una musica primordiale e primitiva, ho trovato due concetti suggestivi tratti da La musica primitiva (1992) del musicologo tedesco Marius Schneider (Haguenau, Francia, 1903 - Marquartstein, Germania, 1982) che generano due immagini sonore interessanti. Come dice Schneider, “gli dèi sono canti”16 ovvero, prima di essere figure e volti, sono stati ritmo e melodia, perché, indagando le cosmogonie arcaiche, Schneider è arrivato a constatare che l’origine di tutto è una vibrazione, ovvero una forma sonora: Tutte le volte che la genesi del mondo è descritta con sufficiente precisione, un elemento acustico interviene nel momento decisivo dell’azione. Nell’istante in cui un dio manifesta la volontà di dare vita a sé stesso o a un altro dio, di far apparire il cielo e la terra oppure l’uomo egli emette un suono. Espira, sospira, parla, canta, grida, urla, tossisce, espettora, singhiozza,

15 16

Rᴏᴄᴄᴏɴɪ, E., Il canto delle rane in Aristofane, academia.edu, 2016.

Sᴄʜɴᴇɪᴅᴇʀ, M., La musica primitiva, 1992, Adelphi, pp. 13.

16

vomita, tuona oppure suona uno strumento musicale. [...] La fonte della quale emana il mondo è sempre una fonte acustica. L’abisso primordiale, la bocca spalancata, la caverna che canta.17

La “bocca spalancata” e vibrante è un’immagine sonora che sembra essere cucita sull’idea di una rana che sta emettendo un suono, quel suono RAK che la definisce tale.

In un altro passo Schneider usa, invece, l’espressione “musica umida” che genera un’immagine sonora altrettanto suggestiva: Vediamo dunque come la musica umida e luminosa nata dalle acque eterne in seguito a un grido, a un colpo di vento o a un tuono, sia opera degli dèi o dei morti. Ogni cantore, ogni strumento è un cadavere vivente e l’espressione del dualismo delle forze cosmiche.18

Premettendo che la rappresentazione grafica di un’onda sonora è esattamente quella di un’onda meccanica che si propaga sulla superficie acquatica e che è quindi molto facile associarle visivamente, in questo passo, si crea un collegamento fra un suono forte, un ambiente acquatico, una presenza divina e un cantore che è espressione di vita e di morte: quattro punti cardine attorno ai quali ruotano le mitologie di tutto il mondo legate alle rane e i rospi che verranno analizzate in seguito.

2.2. La fonosfera delle voci antiche: animali e oracoli Il filologo antico Maurizio Bettini (Bressanone, 1947), analizza nel suo recente libro, Voci – antropologia sonora del mondo antico (2019)19, i termini secondo i quali gli animali e gli oracoli “si esprimevano” nel mondo antico e questo capitolo ne riassume i punti salienti e funzionali alla mia indagine.

Aristotele distingueva tra la parola ϕωνή/fonè, usata per definire la vocalità degli animali in generale, e la parola διαλεκτικός/dialektikós, usata per la vocalità di esseri in possesso di un linguaggio, ovvero umani e uccelli. Nei testi omerici, invece, troviamo una distinzione tra la parola fonè, usata per definire una voce animale perturbante dalle

17

Ibid.

Ivi, pp. 82.

19 Bᴇᴛᴛɪɴɪ, M., Voci - Antropologia sonora del mondo antico, Carocci Editore, Roma, 2018.

18

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sonorità inusuali (come ad esempio quella di umani trasformati in porci, di carni arrostite che nel bruciare “tornavano in vita” o madri che come usignoli piangevano il lutto del figlio), e la parola ὤψ/òps, usata per definire sia la voce animale propria di tante specie (dalla cicala all’agnello), sia la voce umana nella parola, nel lamento e nel grido disarticolato. Quando òps era connessa alla sfera umana spesso indicava una voce insolita, tendenzialmente estranea all’ordinaria sfera della comunicazione (come un’esortazione alla guerra, un pianto o un sussurro), una voce di non facile comprensione e che poteva essere sopra o sotto le righe. Interessante è il mito della “Babele degli animali” secondo cui gli animali possedevano una lingua universale, a cui fa riferimento Filone l’Ebreo (Alessandria d'Egitto, 20 a.C. - 45 d.C.), filosofo greco antico di cultura ebraica, commentando il racconto biblico della confusione delle lingue: Si narra infatti che in antico tutti gli animali, terrestri, acquatici e alati, avessero la stessa voce; [...] così allora tutti trattavano con tutti riguardo alle cose che capitava di fare o subire.

Questa specie di “Età dell’Oro” del linguaggio animale si interruppe perché gli animali, esattamente come gli uomini, peccarono di tracotanza nel voler assomigliare agli dei e vennero duramente puniti con l’incomunicabilità fra le specie: [...] da quel momento in poi parlarono lingue diverse cosicché nessuno poté più intendere gli altri, a motivo della diversità che si era stabilita fra le varie lingue in seguito alla divisione di quella che era unica e comune a tutti.20

Nel linguaggio umano le voci degli animali venivano “tradotte” in modo da poter diventare elementi del discorso umano, ovviamente con forme onomatopeiche, ma anche con altre forme linguistiche, come ad esempio verbi che indicavano emissioni sonore di origine differente dalla specifica voce animale e che permettevano di aggiungere alla voce animale ulteriori connotazioni culturali. Di questo sono un esempio l’assimilazione tra animale e oggetto (il serpente/fischio) o alcune sovradeterminazioni più complesse che potevano assumere carattere narrativo (l’orso che “incrudelisce”). Le voci degli animali, in particolare quelle degli uccelli, venivano integrate nel mondo antico tramite un

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Fɪʟᴏɴᴇ ᴅɪ Aʟᴇssᴀɴᴅʀɪᴀ, - De confusione linguarum, 6-8 in Bᴇᴛᴛɪɴɪ, M., Voci - Antropologia sonora del mondo antico, Carocci Editore, Roma, 2018, p.50-51.

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processo di ri-articolazione semantica della voce in cui un’emissione sonora non linguistica e non umana veniva riprodotta nella forma di una stringa composta da fonemi articolati e dotati di senso: il gioco consisteva nel mantenere il più possibile inalterata la stringa fonica che corrispondeva al verso e, allo stesso tempo, identificare in essa una sequenza di suoni articolati in modo da generare un senso. In questo modo la voce degli animali provocava la costruzione di stringhe sonore caratterizzate da una coloritura molto primitiva, al limite tra la pura ri-articolazione della voce animale e l'articolazione del linguaggio umano. Secondo Bettini, potremmo definire queste stringhe sonore come “funzioni ad articolazione ristretta”21 e la struttura di queste emissioni sonore è la stessa “del balbettio dei bambini, della nenia, della parola magica o incantatoria”22. Quando la “natura” parlava attraverso un animale sceglieva moduli fonici assolutamente primordiali che stavano al confine tra suono e senso e che proprio per questo motivo sembravano essere dotati di grande autorevolezza.

Tramite il loro stesso nome e la loro stessa voce gli animali erano in grado di evocare miti, facendo scattare immediatamente nella memoria culturale il ricordo di un determinato gruppo di personaggi, di una specifica sequenza di eventi narrativi e di alcuni modelli culturali. Esattamente allo stesso modo la voce degli animali era in grado di diventare “un’icona sonora” del fenomeno meteorologico o naturale che stava per verificarsi (temporale, terremoto, inondazione...etc.) annunciato dalla loro sola voce o presenza o dal solo nome.

Nell’antichità, molte di queste caratteristiche della voce animale erano proprie anche delle voci oracolari che comunicavano tramite delle forme paralinguistiche a carattere estatico23, dette glossolalie, concepite non per veicolare messaggi dotati di senso, ma per evocare la presenza della divinità, stabilendo con i presenti una forte comunicazione a carattere emotivo. Anche senza voler evocare una divinità, possiamo trovare (e continuare a trovare) nella storia del teatro e della musica lo stesso utilizzo della vocalità umana, finalizzato ad evocare una specie di “spiritualità laica”.24 21

Bᴇᴛᴛɪɴɪ, M., Voci - Antropologia sonora del mondo antico, Carocci Editore, Roma, 2018, p.134.

Ibid.

23 “Unitellegible, non-cognitive utterance which may vary in sound from inarticulate to articulate” Wɪʟʟɪᴀᴍs, C. G., Tongue of the Spirit: A study of pentecostal Glossolalia and Related Phenomena, The University of Wales Press, Cardiff 1981 in Bᴇᴛᴛɪɴɪ, M., Voci - Antropologia sonora del mondo antico, Carocci Editore, Roma, 2018.

24 Nel secolo scorso, ad esempio, percorsi di autori e/o interpreti come Luciano Berio (Imperia, 1925 – Roma, 2003) e Cathy Berberian (Attleboro, USA, 1925 – Roma, 1983), Demetrio Stratos (Alessandria 22

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Agli animali e agli oracoli, che spesso erano connessi, venivano tradizionalmente attribuite la capacità di conoscere ciò che agli uomini restava nascosto e, non era un caso che, apprendendo il loro linguaggio, fosse possibile comprendere le predizioni sul futuro che le creature si scambiavano regolarmente fra di loro. La fonosfera antica, così, si riempiva di parole di voci animali capaci di comunicare messaggi articolati solo a coloro che possedevano la chiave del loro linguaggio. Le voci naturali sembravano possedere un’articolazione, propria di una comunicazione non umana, che esprimeva un linguaggio non inferiore ma superiore a quello degli uomini: questi non potevano comprenderne il significato se non dopo che i loro organi di percezione uditiva fossero stati purificati e potenziati da un intervento magico (ad esempio con l’inserimento della saliva dell’animale nelle orecchie)25. Bettini conclude il suo studio con il seguente passo, nell’ottica del quale ho interpretato la presenza delle rane e dei rospi nella composizione del primo studio di /krəʊk/: Quello degli animali è un linguaggio dimenticato, smarrito, che si manifesta solo in certi momenti, solo a certe persone. Come quello di profetici o estatici. È un linguaggio oscuro, addirittura vincolato dal segreto, ma esiste e si manifesta per brandelli sonori. Ecco perché il canto degli uccelli - così musicale, complesso e raffinato - sembra sempre sul punto di ri-articolarsi nelle forme del linguaggio umano. La vocalità delle creature aeree, quella a cui Alcmane attingeva niente meno che le parole e la melodia della propria poesia, a ogni nota evoca il senso: vi allude, lo corteggia e, come nella notte di Natale, lo fa balenare alle orecchie degli uomini.26

D’Egitto, Egitto, 1945 – New York, USA, 1979) e Carmelo Bene (Campi Salentina, 1937 - Roma, 2002), in ambiti e contesti diversi, hanno emancipato la voce dal linguaggio, liberandola nel suono e nella musica, recuperando più o meno volontariamente un’idea antica in cui, gli aspetti musicali della voce, erano più importanti nel veicolare un messaggio. Quando penso ai messaggi celati in una prosodia, in un timbro o in una ripetizione, penso a tutte le forme rituali in cui la vocalità, spesso corale, viene utilizzata come momento collettivo di catarsi e in cui, il significato linguistico delle parole, è del tutto secondario. Ad esempio, recentemente ho fatto un’esperienza con il gruppo del Workcentre di Jerzy Grotowski e Thomas Richards di Pontedera (PI), dove la voce attoriale, cantata e corale, viene utilizzata proprio in questo senso.

25 Bᴇᴛᴛɪɴɪ, M., Voci - Antropologia sonora del mondo antico, Carocci Editore, Roma, 2018, p. 191.

26 Ivi, p. 211.

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2.3. Rane e rospi: tra mitologia, religione e cultura Sin da tempi antichissimi nelle culture preindoeuropee dell’antica Europa, dell’antica Anatolia e del Mediterraneo, la dea madre veniva raffigurata come rospo: simbolo di fertilità e maternità, ma anche di morte e rigenerazione all’interno dei cicli del tempo.

Nel Nord e nel Sud America sono presenti un insieme di miti che offrono una rappresentazione animale della madre Terra come rospo, contemporaneamente distruttrice e generatrice di vita. Le civiltà dell’America centrale vedono il rospo come entità benefica divoratrice che si trasforma in sciamano conoscitore delle arti magiche e dell’agricoltura. In una leggenda azteca, una rana da un aspetto mostruoso Tlaltecuhtli, simboleggia la Terra ed è l’origine dell’intero universo: viene trovata dagli dei nell’oceano primordiale e ne viene diviso il corpo a metà per creare cielo e terra. Nelle tradizioni dell’America precolombiana la rana era portatrice di salute e la dea Ceneotl, patrona della nascita e della fertilità, era infatti rappresentata come una rana.

Presso gli Olmec, antica civiltà precolombiana che popolava l’area dell’odierno Messico, i reperti archeologici hanno evidenziato l'ossessionante presenza del rospo nell'iconografia religiosa e mitologica. Nel centro cerimoniale del sito archeologico di San Lorenzo Tenochtitlán che si trova nello stato messicano di Veracruz e centro della vita degli Olmec tra 1200 e il 900 a.C., sono stati ritrovati in grande quantità resti ossei di Bufo marinus, il cosiddetto “rospo delle canne”, ovvero resti di misteriose comunioni sacramentali a base di rospo (“misteriose” perché non è possibile spellare un rospo senza entrare in contatto con un liquido altamente velenoso e quindi si è ipotizzato che gli Olmec usassero i rospi per estrarre dalle ghiandole parotoidi, che non a caso sono sempre in risalto nelle rappresentazioni iconografiche, una sostanza allucinogena: la bufotenina). Negli schemi iconografici dell’arte olmec il rospo viene spesso rappresentato in una posizione che ricorda quella del parto fra le popolazioni locali e, dato che in aggiunta le secrezioni del rospo sono dotate di una componente chimica che aiuta le contrazioni del parto, l'associazione dell’animale alla fertilità acquisisce un significato che va oltre quello meramente simbolico. Gli Olmec dell’America centrale ritenevano che i poteri dello sciamano derivassero dagli insegnamenti diretti dei rospi. Testimoni di questo sono la scultura Olmec che si trova presso il Princeton University Art Museum nel

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New Jersey27 (500-900 a. C.) in cui è rappresentato uno sciamano che si sta trasformando in rospo e il fatto che gli uccelli che rappresentano il volo sciamanico sono tutti predatori di rospi (falco, aquila, oca, anatra selvaggia, gru, ibis, gufo e corvo). La mitologia olmec ha creato l’immagine di un rospo-dio della trasformazione e della rinascita che poteva trasformarsi in giaguaro ed esprimere la sua massima funzione di psicopompo e trasformatore della coscienza nel mangiarsi la propria pelle (come fanno tutti gli anfibi in occasione delle mute periodiche). La forma della pelle mutata dal rospo è quella di una farfalla perfettamente simmetrica e veniva probabilmente usata come maschera dagli sciamani. Mentre si preparano a cambiare pelle i rospi sbadigliano per mezz’ora ed è per questo che nella maggior parte delle rappresentazioni iconografiche il rospo è raffigurato a bocca aperta: nel momento del cambio della pelle il rospo realizza “il dramma cosmico della trasformazione e del rinnovamento”28. Gli Olmec certo non sapevano che esiste una specie di rana che abita zone più fredde, ovvero la Sylvatica canadese, che è in grado di ibernarsi interrompendo il battito cardiaco e il respiro mentre è protetta da uno strato di ghiaccio e, una volta che la temperatura è tornata calda, la rana è in grado di ripartire riprendendo i processi vitali. Questo avrebbe sicuramente alimentato la simbologia della rana come ponte fra il mondo della vita e quello della morte.

In Giappone si diceva che i maghi/eremiti avessero appreso la loro arte misteriosa e i loro poteri soprannaturali dai rospi29. Nelle leggende cinesi, invece, rospi e rane sono animali associati alla longevità e alla ricchezza, tant’è che è diffusa la loro raffigurazione ornata di gioielli e tutt’ora di fronte a molti negozi in Cina è possibile trovare statuette di rana, simbolo di fortuna, rappresentata con denaro, monete d'oro o monete in bocca. In un racconto popolare cinese di origine indiana si narra invece di una figura magica femminile che si trasformò in un rospo a tre zampe e salì sulla luna. La tradizione vedica racconta di una rana gigante come supporto al mondo come metafora dell'Età Iniziale della Materia. Nella mitologia mongola del XVII secolo si narra che i

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https://artmuseum.princeton.edu/collections/objects/32269 (ultima consultazione febbraio 2020).

Bᴀɪʟᴇʏ Kᴇɴɴᴇᴅʏ, A. - Ecce Bufo: The Toad in Nature and in Olmec Iconography, Current Anthropology, 1979, pp. 273-290.

29 Ibid.

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cinque elementi ebbero origine da una rana d’oro in mezzo al mare che il Buddha Gautama, ovvero il Buddha storico, avvistò e trapassò con una freccia: dalla bocca della rana sgorgò il fuoco, dalla sua groppa che diventò la terra scorse l'acqua30.

Nella mitologia aborigena australiana, in quella che è considerata l’epoca antecedente alla creazione del mondo e contemporaneamente la "dimensione" accessibile agli aborigeni attraverso il sogno, il Dreamtime, non mancano i racconti che cantano di rane, come ad esempio quello della rana Tiddalick31, la rana più grande del mondo capace di bere tutta l’acqua della lanca e mettere in crisi gli altri animali che solo ingegnandosi per indurre alla rana una grossa risata riescono a far tornare l’acqua nella lanca. Il dio Huh nell’Antico Egitto era l’aspetto maschile di una divinità primordiale che rappresentava l’infinito temporale, ovvero dell’eternità. In un primo momento era raffigurato come una rana o come uomo con la testa di rana32, in seguito ha assunto sembianze completamente umane ma veniva raffigurato con dei rami le cui dentellature simboleggiavano il trascorrere degli anni e che terminavano con il glifo di un girino che stava a simboleggiare “centinaia di migliaia”, ovvero era la “divinità dei milioni di anni”.

Un’altra divinità egizia Heket (o Heqet), dea della fertilità e della rigenerazione, era venerata come protettrice dell’astro solare durante la sua rinascita dall'Oltretomba, come protettrice delle nascite e delle partorienti ed era spesso rappresentata con la testa di rana, probabilmente perché queste comparivano dopo l'esondazione del Nilo ed erano simbolo di abbondanza e di rigenerazione della natura.

Nella mitologia africana Bantu esiste una leggenda che attribuisce al canto delle rane il ritorno della pioggia dopo un periodo di grande siccità, come se fossero le intermediarie tra il cielo e la terra33. L’associazione tra il canto delle rane e la pioggia è presente anche nelle tradizioni dell’Asia Sud-Orientale e del Messico.

Nell’interpretazione ebraica dell’Antico Testamento la seconda piaga inflitta all’Egitto fu proprio un’invasione terrificante di rane: Poi l'Eterno disse a Mosè: «Va' dal Faraone e digli: "Così dice l'Eterno: Lascia andare il mio popolo perché mi serva. E se rifiuti di lasciarlo andare, ecco, io colpirò l'intero tuo paese col

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Nᴀssᴇɴ-Bᴀʏᴇʀ, Sᴛᴜᴀʀᴛ, K., Mongol creation stories: man, Mongol tribes, the natural world, and Mongol deities, Asian Folklore Studies, 1992, Vol.51, No.2, pp. 323-334, Ottobre.

31 https://dreamtime.net.au/tiddalick-the-frog/ (ultima consultazione febbraio 2020).

32 Bᴜɴsᴏɴ, M., Enciclopedia dell'antico Egitto, Fratelli Melita, La Spezia, 1995.

33 https://maldafrica.net/news/8/riti.htm (ultima consultazione febbraio 2020).

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flagello delle rane. Così il fiume brulicherà di rane, ed esse saliranno ed entreranno nella tua casa, nella camera dove dormi, sul tuo letto, nelle case dei tuoi servi e fra il tuo popolo, nei tuoi forni e nelle tue madie. E le rane verranno contro di te, contro il tuo popolo e contro tutti i tuoi servi"».34

Un aspetto terribile della vicenda biblica è che le rane entrarono persino nei corpi dei morti continuando a gracidare dall’interno delle carcasse fino a che Mosè non liberò l’Egitto dalla piaga.

Nonostante la piaga d’Egitto, il rospo come archetipo della fecondità femminile è giunto fino ai giorni nostri anche nella cultura cristiana, come dimostra la tradizione tirolese e tedesco-meridionale attraverso i "rospi votivi" offerti dalle donne nelle chiese locali allo scopo di ottenere figli, per avere un parto facile e guarire da malattie ginecologiche, come ad esempio la statuetta conosciuta come “ceramica di Maissau”35 (Austria Inferiore), risalente al nono secolo a.C., raffigurante una creatura mezzo rospo e mezza donna. Tuttavia, più tardi, alla rana sono state associate la magia nera, la sfortuna e l'impurità36, infatti il rospo nell’iconografia cristiana arriva a raffigurare il demonio. Ad esempio, in Francia lo si trova sul fondo delle acquasantiere per indicare il demonio esorcizzato dall’acqua benedetta, invece nel quadro di Bramantino (Bergamo, 1465 circa - Milano, 1530) pittore e architetto italiano, “Madonna delle Torri” è rappresentato ai piedi della Sacra Famiglia a pancia in su, sconfitto. Legato alle streghe, il rospo è divenuto l’emblema della lussuria di cui è spesso personificazione nelle rappresentazioni medievali. Nel Medioevo le rane e i rospi sono spesso iconograficamente legati alla personificazione della Morte, oltre ad essere presenti su molti monumenti funerari insieme al corpo del defunto.37 Nel Medioevo le streghe usavano i rospi per i loro infusi e per gli incantesimi ma già Plinio Il Vecchio, scrittore, naturalista, filosofo, comandante militare e governatore provinciale romano del primo secolo d.C., nella sua Naturalis Historia, scriveva dell’utilizzo di rane e e rospi per: [...] fermare le emorragie, alleviare il mal di denti, curare patologie dell’occhio, restituire chiarezza visiva, [...] curare casi di intossicazione, tosse, crampi, tetano, rigidità cervicale, dissenteria, artrite, alopecia, febbre, ustioni e fuoco di S. Antonio; inoltre per controllare il desiderio sessuale, intensificare la fedeltà nella donna ed erano considerati un ottimo antidoto contro i veleni.38 34

Antico Testamento, Esodo 7.26-8.5, Nuova Diodati. https://museumhorn.at/index.php?id=149 (ultima consultazione febbraio 2020).

36 https://vistano.com/it/spirituelle-lebensberatung/mythologie-alte-kulturen/der-frosch-in-der-mythologie/ (ultima consultazione febbraio 2020).

37 https://storiaememoriadibologna.it/rana-rospo-16-simbolo (ultima consultazione febbraio 2020).

38 Pʟɪɴᴏ Iʟ Vᴇᴄᴄʜɪᴏ, Naturalis Historia, 23 - 79 d.C. in Cᴏʀʙɪɴᴏ, C. A., Deposizioni rituali di rospi in una sepoltura enotria della prima età del Ferro, Annali dell'Università degli Studi di Ferrara, Museologia 35

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Una comune credenza attribuiva alle streghe la facoltà di trasformarsi in rospi e nei pressi degli incontri cerimoniali di quest’ultime al cospetto del demonio erano soliti esserci corsi d'acqua o stagni. Uno dei culti che la Chiesa bollò come “stregoneria” era proprio il culto del rospo che assunse, di conseguenza, l’immagine di beniamino delle streghe.

2.4. Comunicazione acustica fra rane La comunicazione acustica è diffusa e importante in molti vertebrati terrestri, compresi anfibi, mammiferi e rettili. I segnali acustici sembrano essere ampiamente utilizzati nella scelta del compagno nelle rane e negli uccelli e sono cruciali per la selezione sessuale, il riconoscimento delle specie e la riproduzione. Tra gli anfibi la comunicazione acustica è assente negli apodi ma è presente in alcune salamandre e nella maggior parte delle rane (in trentanove delle quarantuno famiglie campionate)39.

Le rane, specialmente negli esemplari maschi, sono dotate di corde vocali e pieghe cutanee della gola dette “sacche vocali”. Emettono suono tenendo la bocca chiusa, gonfiando e sgonfiando la sacca in modo da mettere in vibrazione le corde vocali ed esercitando una forte pressione di aria su di esse.

Ogni specie ha una sua vocalizzazione precisa e talvolta anche all’interno della stessa specie, in regioni diverse, è possibile trovare dialetti diversi, anche se l’orecchio umano non è in grado di distinguerli.

La voce dalle rane si trasmette al novanta per cento dei casi in aria ma in alcuni casi anche in acqua, dato che alcune specie comunicano nuotando. Gli esemplari maschi di alcune specie vocalizzano generando un'onda che fa vibrare il terreno immersi per metà nel fango, altre specie comunicano con ultrasuoni40, mentre altre, sprovviste di corde vocali (specialmente negli esemplari femmine), utilizzano strategie come l’inspirazione Scientifica e Naturalistica - Atti del 7° Convegno Nazionale di Archeozoologia, a cura di U. Thun Hohenstein, M. Cangemi, I. Fiore, J. De Grossi Mazzorin, Archeoart Basilicata, Policoro (Matera), ISSN 1824-2707 volume 11 n. 2 (2015), pp. 81-84.

39 Cʜᴇɴ, Z. & Wɪᴇɴs, J. J., The origins of acoustic communication in vertebrates, January 2020, (https://www.nature.com/articles/s41467-020-14356-3).

40 https://jeb.biologists.org/content/209/24/4984 (ultima consultazione febbraio 2020).

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rapida dell’aria o un pattern ritmico fatto con le zampe posteriori tamburellate su fili d’erba e canne di bambù. Come accade in altre specie animali, le rane, utilizzano una strategia comunicativa simile a quella delle emittenti radio, differenziando la banda di frequenze per evitare sovrapposizioni e riconoscersi più facilmente. In alcune specie gli esemplari maschi emettono suono in un range frequenziale più basso rispetto agli esemplari femminili, in altre specie questa differenziazione avviene a seconda delle dimensioni delle rane stesse: gli esemplari più grandi emettono voci più basse e diradate, quelli più piccoli effettuano richiami più acuti e più ravvicinati41.

Le rane producono due tipi di richiami diversi e uno dei due è finalizzato al corteggiamento: un esemplare maschio può ritrovarsi a cantare nel silenzio senza altri contendenti e, altre volte, può capitare che centinaia o migliaia di esemplari siano in competizione fra di loro e che cantino tutti insieme in coro. Quando cantano in coro questi creano un pattern sonoro che, semplificando nei termini, lascia spazio a ogni esemplare che sta cantando di esprimersi “a turno” e gli esemplari che non seguono il pattern in coro sono facilmente fuori dai giochi. Quando il richiamo di una rana è dominante su quello degli altri questo può innescare un botta e risposta degli altri in coro o addirittura generare silenzio.

Le rane non sono dotate di orecchie esterne, hanno un semplice timpano situato dietro l’occhio, identificabile nell’area piatta circondata da un anello di cartilagine42. I due timpani sono troppo vicini fra loro per poter localizzare il suono in modo accurato e, infatti, il suono viene localizzato solo tramite la differenza di tempo in cui le onde sonore raggiungono i singoli timpani e il “vibration spot”, punto del corpo situato vicino ai polmoni.

2.5. Senti le rane che cantano... etnomusicologia e zoomusicologia “Senti le rane che cantano”43 è l’incipit di un famoso canto di lavoro delle mondine della pianura padana. Il lavoro della monda, largamente diffuso nell'Italia settentrionale tra la 41

Nᴀʀɪɴs, P. M., Comunicazione fra rane, in Le Scienze, 1995. https://animals.howstuffworks.com/amphibians/frog3.htm (ultima consultazione febbraio 2020).

43 Senti le rane che cantano / che gioia e che piacere /lasciare la risaia / tornare al mio paese… https://ildeposito.org/canti/senti-le-rane-che-cantano (ultima consultazione febbraio 2020).

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fine del XIX secolo e la prima metà del XX, consisteva nello stare per intere giornate, con l'acqua fino alle ginocchia, ad eliminare le erbacce infestanti che disturbavano la crescita delle piantine di riso. Questa condizione lavorativa e sociale ha dato forma a un corpus di canti di lavoro che ha caratteristiche del tutto specifiche. La funzione del canto di monda è quella di accompagnare, alleviare e ritmare il tempo del lavoro come pure i tempi della pausa e del pasto. È un repertorio comprensivo di canti contadini, canti alpini, canzonette di consumo, inni anarchici, canti socialisti, di mood e contenuti molto diversi fra di loro e che è stato recentemente raccolto e analizzato a sei mani dagli studiosi italiani Franco Castelli (Alessandria, 1942), Emilio Jona (Torino, 1927) e Alberto Lovatto (Grignasco, 1957). Dal loro studio44 emerge che, di un repertorio così eterogeneo, il minimo comune denominatore consiste nella modalità di fonazione, ovvero l’utilizzo di un registro vocale acuto eseguito tra gola e testa a voce piena, nel fatto che le canzoni si snodino senza soluzione di continuità passando da un brano a un altro per analogia melodica, testuale o ritmica e nel carattere “festosamente combattivo dal volume potente”45 riscontrabile nella maggior parte dei brani. Il lavoro delle mondine avveniva in ambiente paludoso da aprile a giugno e non poteva che svolgersi in mezzo ai canti stagionali delle rane. È curiosamente possibile pensare a un’analogia timbrica proprio fra le rane e il canto delle mondine stesse: quest’ultimo è un po’ sguaiato e ripetitivo, la voce di gola non educata e il volume potente sono caratteristici forse del fatto che, per riuscire a sentirsi in un ambiente con un alto tasso di umidità, la voce ha bisogno di un tono squillante e di volume. Inoltre, molti canti delle mondine, come abbiamo visto, sono articolati in una struttura A-B-A-B-A-B che si ripete fino quando la storia da cantare non finisce.

L’associazione fra un canto di lavoro e quello delle rane trova felicemente riscontro anche nello studio di Rocconi citato in precedenza46. Tornando ad Aristofane, infatti, troviamo la costruzione di un botta e risposta fra il solista Dioniso e il coro di rane che ricorda quello di un canto di rematura di marinai, descritto qui in un passo di Longo

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Cᴀsᴛᴇʟʟɪ, F., Jᴏɴᴀ, E., Lᴏᴠᴀᴛᴛᴏ, A. Senti le rane che cantano. Canzoni e vissuti popolari della risaia. (con CD audio), Donzelli Editore, Saggi. Storia e scienze sociali, 2005.

45 Gɪᴏᴠᴀɴɴᴏɴᴇ, P. M. (https://ibs.it/senti-rane-che-cantano-canzoni-libro-vari/e/9788879899437, ultima consultazione febbraio 2020).

46 Cfr. Capitolo 2.1 - La fonè della rana.

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Sofista (romanziere greco antico del 300 a.C. di cui si hanno pochissimi cenni biografici): Come sono soliti fare i marinai, per ingannare la fatica, così anch'essi facevano nel sollevare i remi. Uno di loro, incaricato di dare la cadenza, intonava canzoni marinaresche, e gli altri, come un coro all'unisono e a tempo con la voce di lui, rispondevano con un grido. Finché lo facevano in mare aperto, il loro grido, spandendosi la voce nella vastità dell’aria, si dileguava; ma quando, doppiato un promontorio, entrarono in una insenatura a forma di mezzaluna e profondamente incavata, il grido si udiva più forte, e distinti giungevano a terra i canti cadenzati. Infatti un vallone incassato e sottostante alla pianura, ricevendo in sé come una cassa armonica quei suoni, restituiva un imitazione sonora di tutto ciò che veniva detto: distintamente lo sciacquio dei remi, distintamente la voce dei marinai; e l’ascolto era piacevole. La prima a giungere era la voce del mare, mentre quella che si rifletteva da terra cessava tanto più lentamente quanto più tardi era iniziata.47

Rocconi evidenzia come le rane riportino in Aristofane quell’effetto di eco vocale nelle insenature, giocando con il loro verso onomatopeico “βρεκεκεκὲξ κοὰξ κοάξ/Brekekèx koàx koàx” dotato di ripetizioni sillabiche e assonanze linguistiche presenti anche nei versi di Dioniso stesso.

La morfologia del canto delle rane e dei rospi suggerisce un punto di contatto anche con un altro universo musicale situato esattamente dalla parte opposta del globo rispetto alla pianura padana: l’Australia. È comune fra gli aborigeni dire di un suonatore di didgeridoo molto capace he/she’s got the throat48, letteralmente “ha la gola”, perché nel praticare la respirazione circolare necessaria all’emissione del suono continuo tipico dello strumento i suonatori imparano ad incamerare l’aria nella gola e non nelle guance, anche se queste un po’ naturalmente si gonfiano. Il suono del didgeridoo assomiglia a molti versi di molte rane e rospi e anche il movimento delle guance e la conservazione dell’aria sulla gola ricordano proprio il funzionamento della sacca vocale delle rane. I didgeridoo tradizionali del Nord Est dell’Australia sono stretti e lunghi e sono suonati in un repertorio di pattern ritmici e percussivi, quelli del nel Nord Ovest invece sono corti e larghi e si suonano sfruttando maggiormente gli armonici come elemento com-

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Sᴏғɪsᴛᴀ, L. - Dafni e Cloe, 3, 21 (trad. M. P. Pattoni, Milano, 2005).

Informazioni apprese da Roberto Laneri (Arzignano, 1945), musicista, compositore e scrittore contemporaneo e suonatore di didgeridoo.

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positivo. Nella tradizione aborigena ogni didgeridoo ha un suo “animale totem” disegnato sopra lo strumento dal costruttore ed è frequente che questo animale sia proprio la rana. Non si può dire che il suono del didgeridoo imiti il verso delle rane ma, sicuramente, è possibile trovare delle analogie timbriche e ritmiche. Ho preso tre brani a esempio, due meno tradizionali e uno più tradizionale, di tre noti suonatori di didgeridoo: Tanami frogs (1995)49 di Andrew Langford, Frog Dreaming (1993)50 di David Hudson e Bullfrog (2005)51 di Ash Dargan, tre brani che, non a caso, contengono “frog” nel titolo. Il primo brano potrebbe ricordare la voce del rospo Discoglosso dipinto, con i suoni gravi e di ritmo mediamente veloce, il secondo brano potrebbe ricordare il Pelodite punteggiato, anche conosciuta come “rana prezzemolo”, dal canto che ricorda un’onda a dente di sega modulata e filtrata con un attacco lento e un decadimento e rilascio veloci, il terzo brano, invece, potrebbe ricordare, con quell’ostinato sugli armonici acuti, un rospo tipo il Bufo bufo o il Bufo calamita.

Dopo questa analisi potremmo proprio aver ragione di affermare che “le rane cantino” oppure che “suonino”, ma è il caso di affrontare questo concetto entrando nel merito di una riflessione zoomusicologica. La zoomusicologia è una disciplina recente e ha origine con Musique, Myth et Nature, testo del 1982 di François Bernard Mâche (Clermont-Ferrand, Francia, 1935), musicologo e compositore francese che fa parte della lunga lista degli allievi di Olivier Messiaen (Avignone, Francia, 1908 - Clichy, Francia, 1992). È un campo di studi interdisciplinare che coinvolge nella sua ricerca la semiotica, l’etnomusicologia, le scienze sociali, l’etologia e la filosofia. Il suo interesse è quello di stabilire se ci sia o meno un uso estetico nella comunicazione sonora presso gli animali chiedendosi dunque se siamo noi umani che decidiamo di percepirla come musica o se questa è musica. Per farlo, ereditando la metodologia etnomusicologica, tenta una comprensione del fenomeno dal punto di vista di chi lo produce (approccio emic)52 e non di chi lo osserva, nonostante il punto di vista degli animali non sia semplicissimo da determinare.

49

Lᴀɴɢғᴏʀᴅ, A., Didgeridoo Tracks, Larrikin Records, LRF404, Australia, 1995.

Hᴜᴅsᴏɴ, D., Woolunda: Ten Solos For Didgeridoo, Celestial Harmonies 13071-2, US, 1993.

51 Dᴀʀɢᴀɴ, A. Wirrimbah, Indigenous Australia, Australia, 2005.

52 L’approccio emic si contrappone all’approccio etic, ovvero l’analisi dal punto di vista di chi osserva ed è una distinzione metodologica ereditata dalla ricerca sul campo etnomusicologica.

50

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Parlare di “canzoni” delle rane e dei rospi può essere una semplice metafora linguistica esattamente come può esserlo “danza” associato a un’ape, ma le loro vocalizzazioni vengono spesso definite come canzoni perché è provata l’esistenza di duetti musicali e l’esistenza di comportamenti coristici senza una funzione biologicamente chiara, come riporta lo studioso Thomas Albert Sebeok (Budapest, Ungheria 1920 - Bloomington, USA 2001), fondatore della zoosemiotica: The striking vocalizations of frogs and toads have also been termed ‘songs’, often in reference to the existence of duetting throughout some nineteen genera, or more complex chorusing behavior, the biological function of which has hitherto eluded all investigators.53

Un interessante punto di vista è quello proposto dal biologo americano Roger Payne (New York, USA, 1935), famoso per gli studi condotti sul canto delle megattere, che ipotizza54 l’esistenza di un “platonismo musicale”, cioè di un grande archetipo musicale universale al quale tutte le specie viventi farebbero capo nel loro specifico sviluppo. A oggi non sappiamo quanto sia antica l’attività musicale umana ma sappiamo che è più vicina al cervello preistorico dei protorettili rispetto alla più recente corteccia, ovvero la zona, di non facile analisi, deputata al ragionamento. La musica, dunque, potrebbe precedere il linguaggio umano poiché l’uomo condivide con altre specie animali come le balene, gli uccelli, etc. manifestazioni comportamentali canore, dimostrando un’impressionante reciproca somiglianza nell’utilizzo di molte strutture musicali.

2.6. Materiale sonoro: field recording e composizione Listening for the wooden chimes of tree frogs, we were met by a heavy rhythm, a wall of nocturnal sound.55 Cʜʀɪs Wᴀᴛsᴏɴ

53

Fʀɪɴɢs, H., Fʀɪɴɢs, M., Animal Communication. Norman: University of Oklahoma Press, 1977, p. 179 in Mᴀʀᴀɴ, T., Mᴀʀᴛɪɴᴇʟʟɪ, D., Tᴜʀᴏsᴋɪ, A. READING IN ZOOSEMIOTICS, De Gruyter Mouton, 2016, p. 212.

54 Pᴀʏɴᴇ, R. N., La vita segreta delle balene, Mondadori, Milano,1996 in Mᴀʀᴛɪɴᴇʟʟɪ, D., Quando la musica è bestiale per davvero. Studiare e capire la zoomusicologia. Arcane Editore, Roma, 2011.

55 Wᴀᴛsᴏɴ, C., River Mara At Night, 21.30h - 16th September 1994. (https://chriswatson.net/category/releases/, ultima consultazione febbraio 2020).

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Con scopo didattico e divulgativo l’erpetologo Charles M. Bogert (Mesa, Colorado, 1908 - Santa Fe, New Mexico, 1992), ha realizzato una raccolta commentata di versi di rane dell’America del Nord, registrate tra il 1953 e il 1958 con la collaborazione dell’American Museum of Natural History, che contiene più di una cinquantina di specie in novantadue tracce audio56. Anche Jean Claude Roché (Boulogne-Billancourt, Francia, 1931), ornitologo e figura importante della bioacustica dello scorso secolo, nel suo lavoro di catalogazione di field recording di animali, ha dedicato un volume alle rane dell’Europa occidentale57 in cui sono raccolte più di trenta specie in sessantanove tracce audio. Il field recording è un gruppo di pratiche di registrazione di suoni naturali sul campo, in italiano traducibile con fonografia, che è stato originariamente un modo per documentare ricerche sul campo di etnomusicologia ed è alla base di indagini bioacustiche e zoomusicologiche. L'utilizzo musicale di registrazioni sul campo nella musica sperimentale passa per noti compositori quali Pierre Schaeffer (Nancy, France 14 agosto 1910 - Aix-en-Provence, France 19 agosto 1995), Luc Ferrari (Paris, 5 febbraio 1929 Arezzo, 22 agosto 2005), Hildegarde Westerkamp (Osnabrück, Germany, 1946) e R. Murray Schafer (Sarnia, Canada, 1933). Quest'ultimo con il suo World Soundscape Project ha dato vita nel secolo scorso a un vasto campo di interesse che si concentra sullo studio dell'ecologia acustica, proprio attraverso le registrazioni sul campo. Un esempio di field recording in cui è presente un coro di rane è quello di Chris Watson (Sheffield, UK, 1952), musicista e sound recordist58 inglese specializzato in storia naturale, che ha registrato un paesaggio notturno estivo fortissimo del fiume Mara in Kenya59 dove, tra insetti e ippopotami, si trovano anche le cosiddette “rane degli alberi”. Con una coppia stereo Watson ha registrato il paesaggio sonoro e senza manipolarlo in alcun modo lo ha riproposto con intenzione documentativa e “approccio scientifico”60, ovvero rispettando l’unità di tempo, di luogo e l’equilibrio del paesaggio stesso (cioè la collocazione

56

Bᴏɢᴇʀᴛ, C. M., Sounds Of North American Frogs, Smithsonian Folkways - SF CD 45060, CD, Album, Reissue (US), 1998.

57 Rᴏᴄʜᴇ, J. C., Au pays des Grenouilles - Frog talk - Guide sonore des amphibiens- FREMEAUX & ASSOCIES, 1997.

58 Non esiste una traduzione italiana di sound recordist, termine inglese talvolta utilizzato nel secolo scorso nei paesi anglosassoni per definire una professione a cavallo tra il rumorista, il tecnico di registrazione e il sound artist che oggi probabilmente potremmo mettere fra i possibili significati di sound designer.

59 Wᴀᴛsᴏɴ, C., River Mara At Night in Stepping into the Dark, Bandcamp, 1996.

60 Fᴏʀᴛ, B., Field Recording Arno - Seminario presso Tempo Reale, Firenze, ottobre 2016.

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nello spazio e l’ordine temporale degli eventi sonori). La voce delle rane viene descritta dall’autore stesso per il suo “forte ritmo” e per il “muro di suono”61 che crea.

Materiale di field recording di rane è ovviamente riscontrabile nel lavoro di Bernard L. Krause (Detroit, Michigan, USA, 1938), musicista ed ecologista del paesaggio sonoro, figura centrale della bioacustica a cui dobbiamo i termini geofonia, biofonia e antropofonia, fondatore dell’organizzazione Wild Sanctuary dedicata alla registrazione e all’archiviazione di paesaggi sonori naturali. Nella piattaforma online62 del suo progetto, da cui l’omonimo libro63, The Great Animal Orchestra è possibile ascoltare rane e rospi da ogni zona del globo terrestre che è stata esplorata per l’archivio.

Le voci delle rane e dei rospi sono tante e diverse fra loro, come descrive Schafer in questo passo de Il Paesaggio Sonoro (1977), all’interno del capitolo dedicato ai suoni delle creature acquatiche: All’inizio della primavera le zone paludose di molte parti del mondo si riempiono dei suoni delle rane e dei rospi. L’America del Nord possiede un’orchestra intera: il belare del rospo dalla bocca stretta, l’abbaiare della rana latrante, il pigolio di palude ronzano come degli insetti, la rana della prateria sembra un tamburo, un’altra varietà ancora russa, la rana verde suona il banjo mentre la rana toro del sud rutta.

Quando Julian Huxley visitò l’America e udì per la prima volta il verso d’una rana toro, non volle credere che provenisse da una semplice rana: “Mi immaginavo piuttosto un mammifero enorme e feroce, tanto il suono era grave e potente”. Per i nordamericani le rane sono quello che le cicale sono per i giapponesi o per gli australiani. Le stridulazioni acute e risonanti del rospo del sud (Bufo terrestris) ricordano, senza dubbio, quelle di una cicala; i trilli sostenuti del rospo dell’ovest (Bufo cognatus), come risulta dalla registrazione, hanno avuto una durata di 33 secondi. Ma con il passare della notte nella palude l’ardore decresce; la voce della rana toro cala d’altezza e una alla volta, gradualmente, anche gli altri strumentisti svaniscono.64

Pur differenti, queste voci, hanno delle qualità comuni e, come materiale compositivo, possono essere scelte per diverse caratteristiche, in primis la loro coralità: nella maggior parte dei casi comporre con rane e rospi è come comporre per un coro anche se è possibile utilizzare voci soliste. Sono voci che possono essere interessanti timbricamente, poiché, dal momento che sono fortemente ricche di armonici, possono creare un senso

61

Wᴀᴛsᴏɴ, C., River Mara At Night in Stepping into the Dark, Bandcamp, 1996. https://legrandorchestredesanimaux.com/en (ultima consultazione febbraio 2020).

63 Kʀᴀᴜsᴇ, B. L., The Great Animal Orchestra, Finding the origins of music in the world’s wild places, Profile Books, 2013.

64 Sᴄʜᴀғᴇʀ, R. M., Il paesaggio sonoro, Edizione CASA RICORDI e LIM Editrice, 1985, pp. 60-61.

62

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di sovrapposizione identitaria con la voce umana con cui condividono alcune timbriche.

Sono voci che possono essere scelte anche per le caratteristiche ritmiche, o meglio poliritmiche, che danno un senso di pluralità, ripetizione e stabilità in continuo cambiamento durante un flusso: nel canto delle rane si trovano piccoli movimenti di pattern ritmici che ricordano canti pigmei o composizioni di musica ripetitiva americana dello scorso secolo. Sono voci che possono essere interessanti per la dinamica poiché, dato che le rane “cantano” per attrarre un esemplare e superare “il canto” degli altri, all’interno dei pattern ritmici si trovano piccole cellule di grande energia sonora che sommate fra loro creano un muro sonoro molto forte e talvolta fastidioso, a seconda della fascia frequenziale che occupa. Infine, sono voci che possono essere scelte perché, articolate nei pattern ritmici e armonici, possono diventare facilmente una fascia tessiturale, come dice la canzone tradizionale salentina Lu rusciu te lu mari, in cui in realtà il suono percepito come “rumore del mare” altro non è che il canto di “ranocchiule”65 in lontananza.

A questo proposito Krause, parlando musicalmente delle voci degli insetti e delle rane, descrive come il contenuto armonico di questi “vocal drones” talvolta sia responsabile di una modulazione di frequenza o ampiezza ma anche di una distorsione intermodulare dei segnali che sono vicini in altezza66. In un futuro ampliamento della ricerca di /krəʊk/, mi piacerebbe catalogare le voci di questi anfibi, creando, in un’ottica compositiva, un parallelismo meticoloso con i diversi tipi di modulazione e di forme d’onda, ovvero le principali modalità di sintesi sonora.

Nella composizione elettroacustica, il field recording di rane, lo possiamo trovare nei seguenti esempi, quasi per niente trattato e manipolato in fase di composizione: un primo esempio è quello di Graeme Revell (Auckland, New Zeland, 1955) compositore, pianista neozelandese e autore di colonne sonore, in Necropolis, Amphibians And Reptiles,67 dove le rane sono usate come semplice ouverture; un secondo esempio è Rick Nance (Leicester, UK, 1957) con From a lower canopy, pubblicato nell’aprile del 2017 e definito dall’autore un lavoro di “field recordings and site oriented sound art”68, che

65

'Na sira ieu passai te le padule / e 'ntisi le ranocchiule cantare. / Comu cantanu belle a una a una / ca me pariane lu rusciu te lu mare… (https://immaginasalento.it/salento/pizzica-e-taranta/lu-rusciu-te-lumare.html).

66 Kʀᴀᴜsᴇ, B. L., The Great Animal Orchestra, Finding the origins of music in the world’s wild places, Profile Books, 2013, pp. 103.

67 Rᴇᴠᴇʟʟ, G., Necropolis, Amphibians And Reptiles, Musique Brut (UK), 1986.

68 Nᴀɴᴄᴇ, R., From a lower canopy, Bandcamp, 2017.

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comprende quattro brani; un terzo esempio è Emmanuel Holterbach (Lyon, France, 1971), compositore di musica concreta, artista sonoro e curatore dell’archivio di Eliane Radigue (Parigi, 1932), con Patterns in a Moonshine Soundscape69, un disco di sei brani, registrato all’aperto tra il 2004 e il 2009, in un ambiente pieno di rane e rospi dove un organico di strumenti acustici (litofoni, trombone, banjo, cetra da tavolo, cembali, flauto e gong) convive con un “milione di creature invisibili e pattern vocali poliritmici” 70.

Le voci che ho scelto per /krəʊk/ sono state raccolte da me e altri compositori, Theodoros Lotis (Thessaloniki, 1967), Giovanni Magaglio (Palermo, 1984), Mattia Siboni (Cesena, 1996), in zone diverse della pianura padana (2018, 2019), dell’isola greca di Corfù (2019), nella riserva naturale a cavallo tra la Grecia e la Macedonia, Prespes, (2019) e a Gorgo del Drago in Sicilia (2014). In aggiunta ho collezionato registrazioni provenienti dall’Olanda (Zoetermeer, 2010), dalla California (Sherman Island, 2010), dalla Florida (Callahan, 2017) e dall’India (Calcutta, 2013).

Nella pagina seguente ho inserito una scheda di field recording della Rana di Lessona: la prima rana che ho registrato e da cui è nata l’idea di /krəʊk/.

69 70

Hᴏʟᴛᴇʀʙᴀᴄʜ, E., Patterns in a Moonshine Soundscape, Bandcamp, 2009.

Ibid.

34

Mantova, Parcobaleno, 9 giugno 2019 Ore 1:41 Coordinate geografiche Latitudine: 45.1402824 Longitudine:10.8025994 Elevazione: 20 m Rana di Lessona o Rana verde minore / Pool frog

Classificazione sistematica e distribuzione Classe: Anfibi Ordine: Anuri Famiglia: Ranidi Genere: Pelophylax Specie: P. lessonae Rana comune ampiamente diffusa in Europa, dalla Francia alla Svezia meridionale. In Italia è diffusa in quasi tutta l’area settentrionale e in Sicilia. Registrata con uno Zoom H6 in configurazione X/Y, 120°.

Nelle foto seguenti: la passerella dalla quale ho realizzato le registrazioni [1] e la rana verde che si mimetizza nell’ambiente circostante illuminata dalla luce della torcia [2]. Il suo canto è simile a quello della Rana Verde Albanese (Pelophylax shqipericus) e della Rana Verde Italiana (Pelophylax bergeri).

[foto 1]

[foto 2]

Capitolo III

Nel situ ideale

[/krəʊk/ (2020), installazione per rovine di un teatro greco antico e una moltitudine di piccoli altoparlanti]

3.1. Il teatro greco: luogo e simbolo La genesi dell’idea progettuale di /krəʊk/ nasce per le rovine di un teatro greco antico e una moltitudine di piccoli altoparlanti, distribuiti nella platea dal tramonto all’alba. È dunque necessario fare un excursus su questo “situ” ideale, poiché, come abbiamo detto in precedenza71, lo spazio non è mai neutro.

I teatri greci nascevano sul terreno in pendenza dei rilievi collinari e le sedute degli spettatori salivano lungo il fianco della collina dal basso verso l’alto partendo da un ampio terreno circolare detto orchestra. Di fronte a questa si trovava, se richiesta, la

71

Cfr. Capitolo 1.2 - La relazione con lo spazio.

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scenografia, a cui era possibile accedere dal centro e da due corridoi laterali (parodoi o eisodoi). Non è chiaro se nel V secolo a.C. ci fosse un palco rialzato per gli attori o se questi recitassero nell'orchestra insieme al coro.

Per i Greci il teatro era un momento rituale di forte rilevanza sociale e religiosa. Considerato uno strumento di educazione per la comunità, era in grado di rappresentare “il rapporto dell’uomo con le potenze che dominano l’universo e il rapporto di queste con il suo destino”72. Data la partecipazione di massa del pubblico e la regolarità delle rappresentazioni, il teatro diventò in modo naturale cassa di risonanza per le idee, i problemi, la vita politica e culturale della Atene democratica del V secolo a. C.: le commedie trattavano di problemi di attualità e le tragedie si facevano metafore dei problemi profondi della società ateniese attraverso storie di un passato mitico.

Nel IV secolo a.C. e probabilmente già nel V, nel pubblico degli spettacoli erano ammessi “donne, bambini e schiavi”73.

A teatro si rappresentava ciò che non era comunicabile diversamente, affidando alla vista il compito rivelatore: la parola stessa θέατρον/théatron, teatro, infatti, condivide con il verbo θεάομαι/théaomai, guardare, la medesima radice, nonostante l’importanza del testo e della parola pronunciata, e quindi del suono, non fosse assolutamente marginale, ad esempio molto spesso le parti centrali delle tragedie venivano raccontante e non rappresentate. Θέατρον/théatron significa letteralmente “luogo della visione”, ed è il luogo dove le persone si aggregavano per condividerne una.

Come spiega il ricercatore Enrico Pitozzi (Università di Bologna e IUAV di Venezia)74, si trattava di una visione profonda, di una “visione interiore” e di una “percezione intuitiva” della natura del mondo che permetteva di avvicinarsi allo strato più vicino della “verità delle cose” che non sarebbe stato visibile “solo” con gli occhi e al di fuori dal contesto del teatro. Non è un caso infatti che della stessa radice faccia parte anche il termine θαῦμα/thàuma (meraviglia ma anche terrore), ovvero la ragione per cui secondo Aristotele75 abbiamo iniziato a porci le domande sul mondo.

72

Pɪᴄᴋᴀʀᴅ - Cᴀᴍʙʀɪᴅɢᴇ, A. W., Lᴜᴄᴀs, D. W., Dizionario di antichità classiche, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 1995, pp. 2123-4.

73 https://it.wikipedia.org/wiki/Teatro_greco (ultima consultazione febbraio 2020).

74 Intervento in occasione di Il femminile della vocalità, Palazzo delle Esposizioni di Roma, maggio 2019, a cura del Gruppo Acusma dell’Università La Sapienza.

75 Aʀɪsᴛᴏᴛᴇʟᴇ, Metafisica, 982b-983a.

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Nonostante nel corso dei secoli i teatri greci abbiano ovviamente perso la funzione che svolgevano sono rimasti luoghi suggestivi e spirituali che continuano a stimolare riflessioni introspettive sull’uomo e sul mondo, non ultimo per la loro acustica.

Henry Miller (1891 - 1980), scrittore, pittore, saggista e reporter statunitense, descrive così l’esperienza presso il teatro di Epidauro, nel diario di un viaggio in Grecia pubblicato nella prima metà del Novecento: The road to Epidaurus is like the road to creation. One stops searching. One grows silent, stilled by the hush of mysterious beginnings. If one could speak one would become melodious. There is nothing to be seized or reassured or cornered off here: there is only a breaking down of the walls which lock the spirit in. The landscape does not recede, it installs itself in the open places of the heart j it crowds in, accumulates, dispossesses. You are no longer riding through something — call it Nature, if you will — but participating in a rout, a rout of the forces of greed, malevolence, envy, selfishness, spite, intolerance, pride, arrogance, cunning, duplicity and so on. It is the morning of the first day of the great peace, the peace of the heart, which comes with surrender, I never knew the meaning of peace until I arrived at Epidaurus.76

I più noti teatri greci antichi77 si trovano in queste aree geografiche del Mediterraneo: ad Atene e nella regione dell’Attica (Dioniso, Erode Attico, Oropo, Zea, Torico, Aegina, Ramno); nella Grecia centrale e nella regione dell’Eubea (Ceronea, Orcomeno, Delfi, Strato, Oiniades, Eretria, Tebe); nella regione della Tessaglia e dell’Epiro (Larissa, Dodona, Ambracia, Demetria, Cassope, Gitanae); in Macedonia e nella regione della Tracia (Dion, Mieza, Amfipoli, Abdera, Verghina/Aigai, Olinto, Filippi, Maroneia); nel Peloponneso (Corinto, Epidauro, Megalopoli, Aigeira, Elis, Giteo, Isthmia, Mantinea, Messene/Itome), Orcomeno, Sicione, Sparta); nelle Isole egee (Delos, Milo, Rodi, Mytilene, Efestia, Samotracia, Taso, Santorini, Kos); nella Magna Grecia (Metaponto); a Cipro (Soli, Salamina, Kourion, Pafo); a Creta (Ierapetra, Gortyn, Lyttos); nella Sicilia greca (Agrigento, Catania, Palazzolo Acreide, Segesta, Siracusa, Taormina), in Asia Minore e Ionia, ovvero nell’attuale Turchia, (Aigai, Alessandria Troade, Antiphellus, Afrodisia, Aricanda, Aspendo, Asso/Behram, Efeso, Alicarnasso, Ierapoli, Cnido, Cuma eolica, Laodicea, Myrina, Pergamo, Focea, Pinara, Pitane-Aeolis, Priene, Sardi, Side, Termessos, Telmesso, Troia, Aizani), in Medioriente (Scythopolis, Gerasa).

76

Mɪʟʟᴇʀ, H., Il colosso di Marussi, 1941, Trad. italiana, Universale Economica Feltrinelli, Quarta Edizione 2019, pp.69-70.

77 https://it.wikipedia.org/wiki/Teatri_greci_antichi (ultima consultazione febbraio 2020).

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Il Teatro di Epidauro (360 a.C.), progettato da Policleto il Giovane, situato nel Peloponneso orientale e costruito all'estremità sud-est del santuario dedicato all'antico dio della medicina Asclepio, è sempre stato considerato perfetto nella sua estetica e nella sua acustica.

3.2. Un’acustica speciale A Epidauro, nella quiete, nella grande pace che scese su di me, udii battere il cuore del mondo.78 Hᴇɴʀʏ Mɪʟʟᴇʀ

Per secoli l’incredibile acustica dei teatri greci ha affascinato persone del settore e non.

Ancora oggi non si può infatti non rimanere sorpresi di come, in particolare nel teatro di Epidauro, un qualsiasi suono possa essere percepito senza nessuna amplificazione dal proscenio fino all’ultima fila della cavea. Dopo tante ipotesi e teorie, fra cui quella che i suoni fossero trasportati dai venti presenti in quella particolare posizione geografica, possiamo dire che la conformazione a semicerchio in forte pendenza delle gradinate permettono una maggiore diffusione del suono grazie a fenomeni di riflessione delle onde sonore e, in seguito a uno studio condotto all’Università di Sheffield (UK), possiamo anche dire che l’acustica migliora quanto più il palcoscenico è elevato.

Grazie a un altro recente studio condotto dai ricercatori Nico Declercq and Cindy Dekeyser del Georgia Institute of Technology (USA)79 è stato possibile risolvere il vero mistero acustico del teatro di Epidauro: la pietra calcarea ruvida con cui sono costruite le gradinate è una trappola acustica naturale e dunque agisce da filtro passa-alto permet-

78

Mɪʟʟᴇʀ, H., Il colosso di Marussi, 1941, Trad. italiana, Universale Economica Feltrinelli, Quarta Edizione 2019, pp.69-70.

79 https://livescience.com/7269-mystery-greek-amphitheater-amazing-sound-finally-solved.html, https://washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2007/04/08/AR2007040800668_2.html, https://economist.com/science-and-technology/2007/03/29/no-need-to-shout, https://vanillamagazine.it/svelato-ilsegreto-dell-eccezionale-acustica-del-teatro-di-epidauro-dell-antica-grecia/ (ultime consultazioni febbraio 2020).

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tendo un ascolto molto pulito dei suoni e delle voci degli attori provenienti dal proscenio. Nel Journal of the Acoustical Society of America80 i due ricercatori specificano però anche che le basse frequenze vengono filtrate anche dalle voci degli attori e dunque sono gli spettatori che compensano la parte mancante dello spettro sonoro grazie al “virtual pitch”, un fenomeno psicoacustico con il quale il cervello umano riesce a ricostruire le frequenze mancanti. Dato che in tutto il mondo classico nessuno è più riuscito a ottenere lo stesso risultato acustico del teatro di Epidauro possiamo ipotizzare che i costruttori non fossero a conoscenza delle eccezionali qualità acustiche della pietra calcarea utilizzata.

Un altro notevole mistero dell’acustica dei teatri greci è quello dei vasi risonanti utilizzati per amplificare e colorare la voce degli attori. Lo studioso Rob Godman dell’Università di Hertfordshire (UK) nel suo saggio dedicato al mistero dei vasi risonanti di Vitruvio81 tramite l’analisi e l’approfondimento di estratti del De Architectura individua i passi in cui l’architetto e scrittore romano del primo secolo a.C. racconta di questi ἠχεῖα (echèia), ovvero dei vasi di rame collocati sotto i gradini di pietra della platea dei teatri greci. Racconta82 che questi erano inseriti in cavità apposite, la cui posizione era calcolata matematicamente, in modo da amplificare e rendere più chiara la voce degli attori, arricchendola con parziali armoniche specifiche. La presenza di queste nicchie e gli scritti di Vitruvio sono l’unica testimonianza di esistenza che abbiamo di questi vasi risonanti che, sfortunatamente, non sono pervenuti ai nostri giorni. Le cavità che accoglievano i vasi sono state trovate in sei teatri antichi: Two pairs of compartments corresponding to those described by Vitruvius have been found in the supporting wall of the uppermost row of seats of the Greek theatre at Aizani in Phrygia, eight in the podium of the Roman theatre at Nicopolis, and seven in the Greek theatre at Scythopolis in Syria. There are 20 niches in the upper part of the Greek theatre of Gerasa in Jordan; at Ierapetra and Gortyn in Crete the theatres have 13 niches each; and at Lyttos, also in Crete, there are three rows of 13 niches each.83

80

Dᴇᴄʟᴇʀᴄᴏ̨, N., Dᴇᴋᴇʏsᴇʀ, C., Acoustic diffraction effects at the Hellenistic amphitheater of Epidaurus: Seat rows responsible for the marvelous acoustics, The Journal of the Acoustical Society of America n.

121, 2011 (2007).

81 Gᴏᴅᴍᴀɴ, The Enigma of Vitruvian Resonating Vases and The Relevance of the Concept for Today, 2002 (The Music Centre Faculty for the Creative and Cultural Industries University of Hertfordshire United Kingdom).

82 Vɪᴛʀᴜᴠɪᴏ, De Architectura, Libro I, 15 a.C. 83 Grove Dictionary (Belli, 1854, Müller, 1886) in Gᴏᴅᴍᴀɴ, 2002, p. 7.

40

Il numero dei vasi dipendeva dalla grandezza del teatro e le armoniche che questi mettevano in risonanza, analizzate da Godman, erano distribuite a specchio dalle estremità verso il centro. Ecco l’esempio di un teatro di piccole dimensioni: dall’estremità sinistra alla posizione centrale C 512 hz, G 384 hz, D 288 hz, F 341.3 hz, C 256 hz, G 192 hz; nella posizione del centro D 144 hz e poi a specchio verso l’estremità destra G 192 hz, C 256 hz, F 341.3 hz, D 288 hz, G 384 hz, C 512 hz.

3.3. Paesaggio sonoro hi-fi Considerando il mondo come “un’immensa composizione musicale”84 possiamo descrivere musicalmente e qualitativamente il paesaggio mediterraneo dei siti archeologici dell’Antica Grecia, secondo il metodo ideato da Schafer nella sua teorizzazione85 del concetto di paesaggio sonoro. Sicuramente in gran parte dei siti archeologici dell’area di dominio greco del bacino del Mediterraneo, quelli distanti dalle città, troviamo un paesaggio sonoro hi-fi86, ovvero caratterizzato da un buon rapporto segnale/rumore.

Schafer scrive che i paesaggi sonori naturali, i paesaggi notturni e i paesaggi sonori antichi sono quelli con maggiore alta-fedeltà. Felicemente in relazione al progetto /krəʊk/ possiamo dire che un sito archeologico greco antico di notte ha un’altissima qualità acustica. Mi vengono in mente infatti bellissimi paesaggi sonori naturali dei siti archeologici che ho visitato nelle controre estive tra la Sicilia greca e la Grecia: Selinunte e Segesta (provincia di Trapani), Delfi (Grecia continentale), Capo Sunio (regione greca dell’Attica), mentre diversi, ma ugualmente affascinanti, sono i paesaggi sonori di siti come l’Acropoli di Atene o della Valle dei Templi di Agrigento che si trovano vicini ad ambiente urbano.

L’area dell’antico dominio greco del bacino del Mediterraneo, in cui sono collocati i siti, possiede il cosiddetto clima mediterraneo, caratterizzato da un lungo periodo di siccità estiva ed inverni piovosi con temperature miti. Il più famoso ecosistema sviluppatosi in questo clima è la macchia mediterranea, riscontrabile con caratteristiche simili nel chaparral in California (Stati Uniti) e nel fynbos distribuito nella Zona del Capo

84

Sᴄʜᴀғᴇʀ, R. M., Il paesaggio sonoro, Edizione CASA RICORDI e LIM Editrice, 1985, p. 15.

Ivi, p. 21.

86 Ivi, p. 67.

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(Africa meridionale). La macchia mediterranea, formazione vegetale costituita da arbusti spesso derivanti dalla foresta mediterranea sempreverde, è da secoli terra di agricoltori e allevatori e ha sempre accolto larghe terre di coltivazione di olivi, viti, agrumi e cereali.

Il paesaggio sonoro dei siti archeologici, oltre ad aver mantenuto un’alta-fedeltà che sembra essere cristallizzata nel tempo, è interessante perché si basa sulla percezione di un’assenza di suoni: suoni di vita, soprattutto umani, che secoli prima abitavano quei luoghi e che ora non lo abitano più. Questa mancanza può essere percepita come una “declinazione di silenzio” e, per classificarlo in termini schaferiani87, può essere anche considerata come un suono archetipo poiché, anche nella sua assenza, è un suono “che ci è stato tramandato dall’antichità”88. La tonica, invece, essendo l’insieme dei suoni sovrascoltati di un paesaggio sonoro e che fanno “da sfondo”, comprende sicuramente il suono del mare, del vento, degli insetti, delle cicale e dei grilli. Gli animali come gli uccelli, i daini, i cinghiali e le rane possono essere considerati come dei suoni segnale, ovvero i suoni ascoltati consapevolmente: le “figure” che emergono dallo sfondo. Questo paesaggio sonoro è annoverabile fra una delle impronte sonore del Mediterraneo, ovvero con un’identità sonora che conferisce unità alla vita di una comunità e che va tutelata in termini di ecologia e acustica.

87 88

Sᴄʜᴀғᴇʀ, R. M., Il paesaggio sonoro, Edizione CASA RICORDI e LIM Editrice, 1985., pp. 21-22.

Ibid.

42

Capitolo IV

/krəʊk/: primo studio

[/krəʊk/, primo studio - Chiostro del Conservatorio G.B. Martini, Bologna, febbraio 2020]

4.1. Nel Chiostro del Conservatorio “G. B. Martini” di Bologna Il primo studio di /krəʊk/ è pensato per il Chiostro del Conservatorio “G. B. Martini” di Bologna. La caratteristica di questo allestimento non è la creazione di un suono completamente immersivo ma la trasformazione di un elemento architettonico, ovvero il chiostro con focus sul pozzo, in un “oggetto sonoro” immerso nella realtà acustica cittadina e accademica.

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Il chiostro faceva parte del convento di San Giacomo (1267) per il quale, nel 1802, la Municipalità di Bologna fece il progetto di un Liceo Musicale che inaugurò nel 1804 come nucleo del futuro Conservatorio "G. B. Martini", chiamato così in onore dell’erudito e musicista Padre Martini (Bologna, 1706 - Bologna, 1784). Nel Medioevo, periodo a cui risalgono i primi chiostri, il pozzo situato al centro di essi aveva un forte valore simbolico ed era considerato la fons vitae (lett. fonte di vita), ovvero una fonte in cui l’acqua era intesa anche come purificatrice dello spirito.89 Il termine “chiostro” deriva dal latino claustrum e indicava la “serratura” che separava i monaci dal resto del mondo, l'identificazione con il termine italiano moderno “chiostro”, ovvero un cortile attorno a cui si dispongono tutti gli altri elementi architettonici, è infatti posteriore. Questa identificazione è dovuta alla centralità del chiostro nella vita monastica non solo in termini spaziali e si rispecchia perfettamente nella vita accademica in cui il chiostro costituisce il fulcro intorno a cui si snoda tutto.

Analizzando in termini schaferiani il suo paesaggio sonoro possiamo dire che la tonica è composta dal suono urbano in lontananza della città e dell’adiacente Piazza Rossini, dal suono degli strumenti e della voce cantata che arrivano dalle aule intorno, dal suono dei passi e delle voci parlate e infine dal suono degli uccelli che sorvolano il cielo e cantano dagli alberi; i suoni segnale sono l’apertura e la chiusura del cancello su Piazza Rossini, lo scatto dell’apriporta e le campane della basilica di S. Giacomo adiacente.

Quest’ultime sono particolarmente importanti perché, pervenuteci dal Medioevo e funzionali a limitare con il suono lo spazio di una comunità (quella della parrocchia) sono un suono che da “centripeto”90, ovvero che attirava verso di sé una comunità, è diventato “un messaggio acustico accartocciato su sé stesso”91 per via dei cambiamenti sociali e della crescita del rumore ambientale della città moderna.

Anche il chiostro del Conservatorio, come le rovine di un teatro antico, convive con un “suono della storia”, ovviamente assente, che può emergere sotto forma di silenzio nella percezione del fruitore, soprattutto nei momenti di quiete. La presenza di momenti silenziosi in un luogo come questo ci ricorda che il chiostro era un luogo di raccolta spirituale pensato per isolarsi dalle interferenze acustiche della città e dedicarsi ad un

89

http://leonexiii.org/restani_chiostri.htm (ultima consultazione febbraio 2020).

Sᴄʜᴀғᴇʀ, R. M., Il paesaggio sonoro, Edizione CASA RICORDI e LIM Editrice, 1985., p. 82.

91 Ivi, p. 247.

90

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ascolto interiore. Come scrive Schafer, le mura degli edifici possono costituire un atto spaziale a favore della ricerca di silenzio e della ricostruzione un “metabolismo spirituale”92 proprio nel cuore delle città, portando così ad avere un paesaggio sonoro discretamente hi-fi, nonostante la loro collocazione nella realtà urbana.

In /krəʊk/ le rane e i rospi popolano il chiostro del Conservatorio, arrivando dal pozzo e invadendo lo spazio centrale, creando un collegamento fra quell’idea di animali “di passaggio” e “rigenerazione” di cui abbiamo parlato a lungo nel secondo capitolo e l’idea di un elemento architettonico altrettanto “di passaggio” e “purificazione” come il pozzo. Non è mio specifico interesse riabilitare questi animali in un luogo di origine cristiana ma sicuramente non mi dispiace il contrasto che si crea tra l’immagine biblica dell’invasione delle rane e un’idea delle stesse come portatrici di un messaggio spirituale antico e di una musica primordiale. Di un messaggio arcano e invisibile poiché proviene dal buio di un pozzo ed è composto da materia sonora.

4.2. Allestimento e forma compositiva L’allestimento prevede cinque altoparlanti installati in quattro vasi di terracotta e uno nel pozzo. I vasi risonanti, nonostante non mantengano né la forma né il materiale di costruzione, sono una citazione degli echèia dei teatri greci antichi e sono in armonia con gli altri vasi presenti nel chiostro, inserendosi nell’organizzazione estetica e geometrica dello stesso. La sorgente sonora nel pozzo è nascosta ed è usata per creare un “effetto sorpresa”. Ho valutato che almeno due forme compositive possono inserirsi ed interagire con la situazione spaziale e il contesto del chiostro del Conservatorio in questo momento: una “forma flusso”93, ovvero una forma compositiva statica, e una forma che chiamerò “marker” derivante dall’ibridazione di una forma statica (senza tempo) e una forma lineare (con un tempo preciso). La forma flusso, che invade in maniera costante lo spazio sonoro del chiostro, prevede la composizione di un continuum di canti di rane dove pattern ritmici, diversi nel timbro e nel ritmo, si sommano e si incontrano creando microcambiamenti nella struttura interna, apprezzabili avvicinandosi al pozzo e ai vasi 92 93

Ivi, p. 139.

Cfr. Capitolo 1.3 – Tra sound art, teatro sonoro e composizione elettroacustica

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risonanti. Nella forma marker, invece, la composizione è circolare ed è composta da momenti simili (ma non uguali) di aggregazione + rarefazione di rane e rospi che, arrivando dal pozzo e disperdendosi nel chiostro, si inseriscono con cadenza regolare nel paesaggio sonoro del luogo marcando, insieme alle campane della chiesa di San Giacomo, lo scorrere delle ore. Le campane della chiesa suonano a ogni ora scandendo con il numero dei rintocchi l’ora raggiunta, ogni mezz’ora con un rintocco singolo e, per le chiamate alla messa giornaliera (ovvero alle ore 8, 10 e 17), suonano con una melodia festosa, a meno che non accada un evento straordinario, in occasione del quale, le campane potrebbero suonare ripetutamente e prolungatamente.

Ho scelto e declinato la “forma marker” in una partitura (illustrata a pagina seguente) che prevede un’alternanza tra il paesaggio sonoro naturale e tre accumulazioni e conseguenti rarefazioni, simili (per via dei suoni appartenenti alla stessa famiglia) ma diverse (A, B, C), di rane e rospi che arrivano dal pozzo e si disperdono del chiostro una volta fuori. Ogni accumulazione/rarefazione dura circa 10 minuti, si conclude con i rintocchi delle campane della chiesa di San Giacomo e torna ogni 80 minuti.

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Conclusioni

Nell’antica Grecia la “meraviglia” non poteva essere spiegata con il λόγος/lògos (termine che indicava la parola e il discorso razionale) ed era compito delle arti rivelare l’incanto del mondo all’uomo. In /krəʊk/ affido questo ruolo a un coro di rane, animale che come abbiamo visto in molte culture è legato alla magia, all’identità, al sacro, alla trasformazione, alla rinascita e alla musica. Compositivamente, la coralità delle rane e dei rospi, articolata nello spazio sonoro e fisico di /krəʊk/, vuole suggerire un’idea sonora di identità plurale e allo stesso tempo unitaria, una fascia ritmica cangiante, prima delicata e poi incalzante, che immerge e assorbe il fruitore in una forma rituale senza tempo. Questa suggestione della studiosa Charlotte Ossicini descrive perfettamente l’intenzione e l’intuizione del mio progetto: Il coro […] incentiva lo spettatore all’immedesimazione, rompendo la separazione fra scena e platea e costituisce un substrato ritmico, sonoro e spaziale, immersivo.94

Se, come dice Carmelo Bene95, “l’occhio è ascolto”, allora /krəʊk/ vuole portare, abitando le rovine di un teatro antico o restando nascosta in un chiostro del XIII secolo, una “visione interiore del mondo” alle orecchie degli ascoltatori, come se queste fossero gli “occhi dell’immaginazione”.

94

Ossɪᴄɪɴɪ, C. - Dal predrammatico al prediscorsivo. Il coro e la “musica del senso” in TEATRI DI

VOCE, n. 20, annuale 2010, a cura di Lucia Amara e Piersandra Di Matteo, UniBo, Bologna, 2010 95

https://www.youtube.com/watch?v=nd1aOzoZDQU (ultima consultazione febbraio 2020)

48

Ognuna di queste persone che sto per ringraziare sa perché viene ringraziata. Che sia per il contributo di qualsiasi tipo che ha dato a questo lavoro, ai miei anni al Conservatorio, a Bologna e/o più in generale alla mia vita: Martina Ajazzi Mancini, Mario Ajazzi Mancini, Tristan Alantar, Davide Baldazzi, Emiliano Battistini, Cristina Battistini, Mattia Bellei, Luigi Bellino, Pietro Bertocchini, Luisa Bonfiglioli, Tazio Borgognoni, Caterina Bucelli, Francesco Canavese, Lelio Camilleri, Daniele Carcassi, Chiara Carretti, Ettore Casali, Davide Ceredi, Niki Chondrogianni, Zoe Cinel, Mariacarla Colonna, Vincenzo Core, Massimo D’Amato, Doriana De Luca, Alessandro Del Taglia, Letizia Di Pillo, Federico Falaschi, Simone Faraci, Bernard Fort, Giacomo Franzoso, Daniele Furlati, Perla Ghionna, Marco Giampieretti, Arianna Giullori, Eleni Gkolfinopoulou, Michael Gmür, Simone Grande, Davide Greco, Francesco Giomi, Pietro Guarracino, Rachelle Hangsleben, Matteo Ichino, Nikos Kanelakis, Roberto Laneri, Mattia Lenti, Giovanni Longo, Theodoros Lotis, Francesco Maccario, Giovanni Magaglio, Valerio Maiolo, Maddalena Majorino, Benedetta Manfriani, Michele Marchiani, Lorenzo Mazzocchetti, Damiano Meacci, Andreas Miestris, Jacopo Mittino, Gina Molinari, Vanessa Montelpare, Stefano Musi, Roberto Neri, Giovanni Onorato, Federica Orlandini, Giovanni Ortoleva, Giovanni Pappagallo, Matteo Pastorello, Lanfranco Pieraccini, Federico Pipia, Francesco Perissi, Enrico Pitozzi, Roberta Porciani, Gabriele Quartarone, Leonardo Rubboli, Michele Russo, Niccolò Salvi, Michele Sanchini, Luisa Santacesaria, Domenico Santoro, Dimitris Savva, Matteo Serafini, Mattia Siboni, Chiara Sgatti, Agata Torelli, Dario Torno, Matilde Torno, Beniamino Tuliozi, Giada Turini, Andrea Trona, Stefano Vanacore, Veronica Veronesi, Sabra Vidali, Francesco Vogli, Claire Werthauer, Irene Zanibellato, Francesco Zedde, Stefano Zenni.

Grazie ai miei genitori: questa tesi è dedicata a voi e all’amore in tutte le sue forme che non mi avete fatto mancare.

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