

chiave del famoso testo warburghiano.3 La dea della Fortuna ci parlava del Francesco Sassetti minacciato da tracollo commerciale e finanziario. I centauri ci parlavano del Sassetti fondatore di dinastia, orgoglioso del suo clan e delle sue armi, come nei due favolosi quadrupedi antropomorfi del suo stemma attraversato da una fionda, biblica allusione alla pietra scagliata da Davide contro Golia.4 Warburg fissava in poche battute il compromesso tra mito antico e Antico Testamento, impreziosito da un gioco etimologico sulla parola pietra, “sasso”, e sul cognome Sassetti. Ma mentre nella vela della Fortuna tradizionalmente dispiegata un vento di paganesimo soffiava sulla nave del mercante avventuroso, sotto il cuoio dei centauri un vigore equino fremeva con una «superumanità egocentrica di stampo antico e rinascimentale» («antikisch drapierte egozentrische Übermenschtum der Renaissance») o per dirla con Warburg:
[...] inoltre, l’impresa personale di Francesco Sassetti ci offre una base decisiva, che fa luce sulla psicologia di questo particolare stato oscillatorio, poiché la sua scelta è caduta su un’antica divinità degli elementi, come illustrazione simbolica delle armi della sua famiglia: il centauro. All’apice, e giunto alla mèta finale della sua esistenza, Sassetti si è riservato il centauro lanciatore di pietre come simbolo del suo senso di sé.5
È altresì vero, per Warburg, che il Rinascimento “egocentrico” si stemperava nella pietà medievale. Nel Sassetti pagano si scontravano il dominio della Fortuna e la pulsione energetica del centauro. Nel pio Sassetti la fede cristiana e la forma antica si ricomponevano tra la sottomissione a Cristo e l’autoaffermazione dell’ego avventuroso, di modo che l’equilibrio potesse apparire sempre precario. Questo fenomeno veniva chiamato da Warburg “oscillazione” o “Schwingung”, termine caratteristico di una concezione ondulatoria dell’esistenza umana che lo studioso non era l’unico a difendere all’epoca. Altri pensatori non meno fondamentali come Paul Yorck von Wartenburg,6 di cui gli studi warburghiani non hanno abbastanza tenuto conto, condividevano una visione analoga del tempo storico.
Immersa in un rapporto dialettico con un passato pregno di memoria viva, l’umanità warburghiana evolveva tra grandi estremi psicologici. Emetteva oscillazioni psichiche tanto quanto ne riceveva. Con Sassetti, si è detto, questa emissione di onde alternava tra pietà e paganesimo. Ma tale alternanza non implicava un sincretismo, nozione sostanzialmente estranea a Warburg per il quale l’animo antico e demoniaco doveva rimanere tale – cioè pagano – pena la perdita, per estendere la metafora, della sua differenza di potenziale magnetico con il cristianesimo. Così, come in un basso continuo, Warburg percepiva l’energia del demone della natura mediata dall’identificazione del mercante fiorentino con i centauri nel ricordo paganeggiante di «un consapevole dispendio di energia» necessario all’avventura del capitalismo fiorentino.7 Oltre la scelta consapevole degli emblemi dell’anima, la dualità sassettiana si proiettava nel suo monumento. La cappella di famiglia di Santa Trinita consacrava il trionfo di Cristo e di San Francesco, e respingeva nel limbo delle grisaglie marginali le scene copiate dalle monete romane care al Sassetti numismatico. Tuttavia, era a un sarcofago all’antica decorato con bucrani,
che Sassetti affidava le sue spoglie mortali, ancora e sempre poste sotto la protezione dei centauri pagani.
Se la critica erudita è rimasta allineata sulle ricerche di Warburg e poi di Fritz Saxl,8 sembra lecito interrogare l’idea di un’imitazione passiva, di una ricezione emozionale o patetica della paganità scolpita. In tal caso la scultura per (com)muovere potrebbe occultare la cultura del committente e l’emozione potrebbe nascondere l’intenzione. Negli anni scorsi la meticolosa analisi di Florence Buttay-Jutier sull’allegoria della Fortuna ha già evidenziato la relativa fragilità del discorso warburghiano nell’equivoco del paganesimo di una Fortuna,9 non ignota al Medioevo cristiano, presente sullo stemma di un grande mercante, Giovanni Ruccellai, la cui contiguità con Sassetti forniva a Warburg più di un appiglio. Sembrerebbe che, a partire da Jakob Burckhardt e da Aby Warburg, suo continuatore dichiarato, la tesi dell’affermazione egocentrica dell’uomo rinascimentale nel ritorno del paganesimo, abbia generato un lungo “a priori interpretativo”.
Chiediamoci anzitutto su quale precedente Warburg basava l’identificazione con le forze demoniache della natura. Come per la Fortuna, poeticamente descritta «demone del vento», questa caratterizzazione spontanea era più che altro un fatto di intima convinzione: in una sola formula energetica i centauri esprimevano per Warburg l’animalità primitiva. Certo, lo studioso ripeteva implicitamente una tradizione, quella del centauro lapidatore o «Steinschleudernder Kentaur».10 Ma inversamente, Chirone, precettore e istruttore di Achille, perpetuava l’immagine opposta di un centauro saggio e colto, totalmente ignorato dal testo warburghiano con la doppia tradizione antica, in particolare quella dei vasi attici, del centauro positivo o negativo, amico o nemico dell’umanità. Se il centauro si poteva dividere grosso modo in due tipi, l’esperto cacciatore e il feroce guerriero,11 Warburg concentrava la sua interpretazione sui centauri miniati nel codice dell’Etica aristotelica (fig. 1) appartenuto al Sassetti e conservato in un prestigioso codice fiorentino della Biblioteca Medicea Laurenziana, il ms. Plut. 79.1.12
Sorge immediatamente quest’altra domanda: ma il ms. Plut. 79.1 della Biblioteca Laurenziana era veramente tra i migliori esempi che Warburg potesse scegliere a sostegno della sua tesi “selvaggia” ed “energetica”? Privi di aggressività i centauri


Fortuna, che da appoggio al piede della Moira allorché questa iscrive Meleagro nel suo elenco fatale, lascia il posto allo stemma Sassetti. Un braccio del dotto bibliofilo appare compostamente ripiegato sul petto in segno di meditazione. La temibile scrittrice del destino mortale si tramuta in un lettore immortale, mentre sullo sfondo una colonnina sorregge un putto scudato con le armi dei Sassetti.
Indubbiamente qualcuno è intervenuto in corso d’opera presso lo scultore per instaurare una concatenazione semantica tra due scene di cui una almeno ostenta un riporto arbitrario, essendo il trio della Fides totalmente assente dai sarcofagi di Meleagro L e M (fig. 16). Un consigliere intellettuale di Sassetti – il suo nome poteva essere Fonzio o Ficino, se non questi due amici insieme – aveva inteso riunire i nostri personaggi A e B nel simbolo del libro? E vedremo dopo come l’individuo C chiude idealmente questa serie. Veramente il libro sembra un simbolo legato alle vicende terrene del Sassetti collezionista e bibliofilo.
Senza temere conclusioni affrettate possiamo dedurre che la figura A svolge la stessa funzione delle altre due figure B e C, anch’esse caratterizzate dalla presenza di un volume, le cui pagine sono addirittura suggerite nella pietra con la precisione incisiva di un orafo (fig. 17).
Con una certa verosimiglianza, A, B e C potrebbero evocare tre volte la passione di Sassetti per la sua preziosissima biblioteca, in una calcolata iterazione figurativa.

Verosimilmente ancora, nel fregio biografico e celebrativo di una vita, un mecenate di tale prestigio intendeva moltiplicare la sua sopravvivenza sotto diverse guise e attraverso diversi avatar. In tal caso, i tre avatar di Francesco Sassetti, distribuiti nel bassorilievo ai lati del proprio cadavere, garantivano che egli sopravvivesse alla sua morte per i posteri. Collocate l’una in relazione con l’altra, le tre apparizioni A, B e C creano dunque nella pietra una sequenza prosopo-iconica, ovvero una storia incarnata da personaggi chiave, carichi di un significato che filtra dall’oltretomba. È la storia di un’esistenza raccontata per immagini, prima, durante e dopo l’episodio fatale anticipato dal Sassetti successivamente al 1480, quando incaricava Ghirlandaio e forse Sangallo di progettare e di decorare la sua cappella funeraria. Precisamente due anni prima, Sassetti aveva ricevuto due epistole decisive, l’una da Fonzio e l’altra da Ficino, sulle quali mi sarà d’uopo tornare attentamente. Nel 1900, lo storico ed ellenista Concetto Marchesi pubblicava uno studio sul grande letterato Bartolomeo della Fonte, detto Fonzio, amico di Sassetti e suo umanista di riferimento. Fonzio scriveva il Saxettum, raccolta dedicata al suo patrono e un trattato De mensuris per lo stesso. Nella sua erudita monografia – consultata da Warburg19 – in cui definiva Sassetti «l’Aurispa della seconda generazione umanistica», Marchesi ricordava come il ricco mercante «non fosse un negoziatore di libri», poiché non si arricchiva con il commercio dei suoi codici.20 Spendeva lautamente per acquistare manoscritti che poi passarono in parte alla Biblioteca Laurenziana, dove sarebbero diventati «uno dei tesori

Anche se il campo semantico delle parole ozio o rilassamento non viene usato expressis verbis, sembra essere implicito quando un umanista si dedica alle arti visive.29
Ma Plinio (Nat. hist. XXXV, 72) aveva anche menzionato un’altra possibilità di distensione. Il pittore Parrasio si era divertito nel tempo libero a realizzare piccoli quadri con scene erotiche, mentre Ludovico Castelvetro, nel suo commento ad Aristotele (1570), avrebbe poi incluso tra le cose piacevoli che procurano ilarità tutto ciò che è pertinente alla sfera sessuale.30 Al contrario, Costanzo Landi (come Benzi) sottolineava che uno studioso dovrebbe evitare tutto ciò che è erotico. Spiegava anche che gli uomini erano come dei Pan, fauni e satiri, poiché la mente controllava solo la metà superiore del corpo, mentre quella inferiore era guidata dalle pulsioni e dalla lussuria.31 Le innumerevoli statuette e i dipinti con esseri naturali sembrano riprendere proprio questa idea: un’esistenza tra virtù ed erotismo o fantasie erotiche (fig. 4). In questo caso, però, è stato rilevante anche un altro aspetto, almeno altrettanto importante: l’idea dell’ispirazione erotica delle Muse come stimolo determinante per qualsiasi tipo di creatività e produzione intellettuale.32 Per Bernardino Corio, quindi, anche la ricompensa per essere uno studioso virtuoso nello studiolo poteva manifestarsi sotto forma di figure femminili eroticizzate.
3
La virtù, l’erudizione, la ricerca della fama sono fattori centrali di uno stile di vita umanistico e determinano quindi la decorazione pittorica di sale di lavoro, biblioteche e collezioni dell’epoca. Tuttavia, se questi aspetti, se la ragione, la volontà e l’autocontrollo vengono enfatizzati in modo troppo unilaterale, c’è il grande rischio di diventare malinconici e improduttivi a causa di sforzo e lavoro eccessivi. Per questo, come antidoto, si richiedevano momenti consapevoli di rilassamento, varietà, gioia e si consigliava di vivere (moderatamente) gli affetti e le emozioni. Dal XV secolo, i mezzi e le forme di questa distensione hanno incluso esplicitamente le arti visive. La sintesi di queste considerazioni fatte da Costanzo Landi nel 1557 evidenzia come sia stato ben sviluppato lo spettro sorprendentemente ampio di figurine e altre opere pittoriche del Rinascimento, che ci si deve immaginare nel contesto di uno studiolo: accanto alle opere d’arte, ai quadri e agli oggetti che servivano all’educazione, alla ricerca e alla virtù, hanno trovato giustamente posto – per la salvaguardia dell’equilibrio mentale – innumerevoli animali, raffigurazioni di bambini che giocano, divinità naturali, figure nude e scene erotiche. In questo senso muove anche la raccomandazione che il vescovo Girolamo Garimberto fece al cardinale Alessandro Farnese, nel 1566, per l’allestimento dei Palazzi Farnese e della Cancelleria a Roma:
[...] ch’io la potessi persuadere a mandare inanci il disegno ch’ella havea dell’antiquario nel Palazzo di casa Farnese, per conservatione e concerto di tante cose rare, et delettatione publica e privata, et per recreatione di se stessa, per la quale ancora crederei che fosse un gran condimento in quei camerini suoi della Cancelleria far un studiuolo di tutte le cose sue minute, come sono medaglie, camei, calamaro, oriuoli, [...]. Et col far
animent donc les bacchanales angéliques de Donatello et servent à donner figure à la réjouissance des âmes dans l’au-delà.
De tels spiritelli reviennent sous une forme moins agitée mais, dans certains cas, guère moins dionysiaque avec le premier grand ensemble décoratif d’Agostino di Duccio, celui du Temple Malatesta à Rimini (ca. 1450-1455), comme il ressort de quelques comparaisons entre les reliefs de la chapelle des Anges (figs. 1, 3) et des figures de sarcophages qui furent souvent copiées à la Renaissance, que ce soient une joueuse de crotales qui a précédemment inspiré Luca della Robbia pour sa Cantoria de la cathédrale de Florence, une joueuse d’aulos se déplaçant vers la gauche retranscrite avec une grande fidélité (fig. 2), une tympanistria au corps sinueux et vue de dos et en contrapposto (fig. 4) que l’on retrouve dans le vase Borghèse (dont Agostino s’est contenté de masquer la nudité et supprimer l’instrument tout en lui ajoutant une paire d’ailes), et une autre se dirigeant


fig. 3. Agostino di Duccio, Ange dansant, marbre polychromé, 1450-1455. Rimini, San Sigismondo, chapelle des Anges. fig. 4. Ménade dansant avec un tambourin, marbre, Cratère Borghèse. Paris, musée du Louvre, no Ma 86.
vers la droite avec la tête tournée vers l’arrière, qui a aussi bien servi à l’élaboration de l’un des anges jouant du tambourin qu’à celle de la figure d’Euterpe dans la chapelle voisine dédiée aux Muses.11
Ce sont toutefois les grandes figures angéliques qui vont surtout nous retenir, à commencer par celle qui apparaît à saint Sigismond dans un relief souvent mentionné, conservé maintenant au Castello Sforzesco à Milan (fig. 5). Warburg y a reconnu une adaptation de l’une des ménades classiques et, dans une note de 1924, « une ménade tout juste transformée à laquelle il ne manque que le thyrse », la planche 8 du premier état de L’Atlas Mnémosyne juxtaposant le relief milanais aux types 25 et 28 de Hauser, et seul ce second type étant retenu dans le dernier état de l’atlas.12 Le mouvement des cheveux et des vêtements flottants, ainsi que la posture et les gestes de la figure androgyne, pourraient bien nous ramener à l’une des figures de Callimaque, au moins la porteuse de thyrse et de victime animale tournée vers la gauche correspondant au type 28, et nous orienter vers l’hypothèse d’une source puisée dans un relief néo-attique semblable à celui des


fig. 5. Agostino di Duccio, Ange apparaissant à saint Sigismond, détail de Saint Sigismond en voyage vers Agaune, marbre, 1449-1452. Milan, Museo d’Arte Antica del Castello Sforzesco, inv. 1089.
fig. 6. Ménade ou Hora, marbre, IIIe-IIe s. avant J.C. (prov. Pergame). Istanbul, Musée archéologique, inv. 764.
sont essentiellement dédiées à Agostino di Duccio.21 Warburg ajoute que Bertoldo « s’est donné corps et âme – et plus que quiconque – à la formule du pathos antique ».22 Même s’il est difficile de savoir quels purent être les modèles précis de cet artiste, la posture de cette Madeleine comme le mouvement agité et la transparence de sa robe pourraient faire penser à un relief néo-attique d’après les ménades de Callimaque, et notamment aux types 26 et 29, qui n’affichent pas d’attribut sacrificiel contrairement aux types 25 et 28 retenus à ce propos par Warburg, mais proposent le point de vue latéral droit, la tête renversée en arrière, le bras droit élevé et, pour le type 26, les jeux de transparence du peplos au niveau du torse et des cuisses. Mais à y regarder de plus près, on doit constater que la figure du sculpteur florentin ne reproduit vraiment aucun des types classiques. Après Warburg, cette Marie-Madeleine a été plus justement rapprochée d’une tympanistria hellénistique des plus célèbres, tirée du cratère de Salpion conservé aujourd’hui au Musée archéologique de Naples (fig. 8), dont il existe bien d’autres exemples connus à la Renaissance.23 La ménade à la tête renversée est alors beaucoup plus dénudée et légère que les modèles classiques (elle déshabille le type 29 et abandonne le thyrse pour le tympanum) en étant accompagnée, selon les cas, d’un faune dansant ou d’un joueur de flûte, sans rapport aucun ni avec le deuil propre à ce nouveau contexte, ni avec le

fig. 7. Bertoldo di Giovanni, Saintes femmes au pied de la croix, détail de la Crucifixion, bronze, vers 1475-1480. Florence, Museo Nazionale del Bargello, inv. 207 Bronzi.

fig. 8. Ménade jouant du tympanum, détail du Vase dit de Salpion, marbre. Naples, Musée archéologique, inv. 6673.

fig. 9. Ménade dansante, détail d’un relief de sarcophage, La mort de Penthée (T. Camuren. Myronis), marbre. Pise, Campo Santo, C 18 est.
sacrifice sanglant et le diasparagmos auxquels on pourrait être tenté de renvoyer quatre des ménades de Callimaque. On peut ajouter qu’à l’inverse de cette Marie-Madeleine, les ménades classiques ne se touchent pas les cheveux mais tiennent soit un couteau derrière la tête soit un voile à hauteur et à une certaine distance de celle-ci.24 Le geste de la main gauche de Marie-Madeleine nous ramène plutôt à un type hellénistique de ménade dansante que le sculpteur devait connaître à travers le sarcophage du Camposanto de Pise le plus souvent copié, et que l’on croise déjà dans la céramique athénienne comme on le voit sur un stamnos du peintre de Dinos conservé à Bologne, où il s’agit toujours de tenir le voile à proximité de la tête ou à son contact et pas de s’arracher les cheveux.25 Je serais même tenté de le rapprocher du geste canonique avec le bras recourbé au-dessus de la tête, geste de l’athymia qui peut signifier l’ivresse chez Bacchus et le symposiaste, le repos chez l’Apollon Lykeios et l’épuisement ou le sommeil de la ménade et du faune.
Comme déjà observé, il faut surtout relier ce geste à celui de l’une des pleurantes située à gauche de la Lamentation de Donatello à la basilique San Lorenzo de Florence, geste reproduit à l’autre extrémité du relief, d’autant que cette pleurante tient sans doute dans l’autre main une touffe de cheveux comme le fait ici Marie-Madeleine26. Donatello put élaborer cette expression de désespoir en détournant le geste, récurrent dans les reliefs dionysiaques, de la tenue du voile avec une main derrière ou au-dessus de la tête, pour le combiner à celui du deuil ou du désespoir, le fait de s’arracher les cheveux. Celui-ci est issu d’autres reliefs de sarcophage (consacrés à Méléagre, à Hippolyte ou aux Niobides) comme d’œuvres plus récentes de Giotto et de Simone Martini, il et propre à des rites immémoriaux qu’évoque déjà Homère, en particulier lors de la mort d’Hector, et il est toujours d’actualité dans les rites funéraires florentins de la fin du Moyen Âge . 27 Bertoldo a pu y trouver le point de départ d’une exploration et d’un investissement plus approfondi de la source antique en se tournant vers la tympanistria. Quoi qu’il en soit, si on peut bien affirmer après André Chastel que « la pleurante a absorbé la ménade »28 dans le relief du Bargello, il ne s’agit pas d’une ménade sanglante ou sacrificielle, tout au contraire, et aucune ménade peinte ou sculptée à l’Antiquité ne s’est jamais arraché les cheveux. Inversement il faut bien rendre compte de l’érotisation de la figure, d’autant qu’elle est tout à fait exceptionnelle pour Marie-Madeleine à cette époque et qu’elle entre en tension avec le geste de désespoir comme avec le voisinage de la figure sur le côté gauche du relief (où se trouvent la Vierge, saint François et saint Jérôme).29
Les deux dimensions ainsi réunies dans cette figure, érotisme et désespoir, se trouvent énoncées de manière disjointe dans les deux autres figures féminines échevelées inscrites dans le relief. Agenouillée au pied de la croix dans une robe nullement transparente, la seconde sainte femme n’a rien d’une ménade, quoi qu’on ait pu en dire, car les bras écartés ainsi tendus vers le ciel correspondent à une gestuelle fréquemment adoptée en pareilles circonstances dans les reliefs tardifs de Donatello et de son atelier (y compris le Calvaire de l’autel Forzori en terre-cuite du Victoria and Albert Museum, Londres, inv. 7619 :2-1861), geste de désespoir qui dérive de Masaccio et plus encore de Simone Martini et de son pathos d’inspiration franciscaine et que l’on peut faire remonter à l’art chrétien de l’Antiquité tardive.30
The ambiguities surrounding the monkey and the Prisoner are of a different sort, and so, too, is their affective charge. The figure is now commonly or often called the Dying Slave (L’esclave mourant), and the other statue carved during the same years, also at the Louvre, is dubbed Rebellious (L’esclave rebelle). The terms have been questioned and with good reason.7 To focus on the adjectives, could “dying” be replaced by “dreaming” and “rebellious” by “ardent” or “yearning,” for example? Is the monkey arching behind the languid captive’s legs there to prop up a young man about to collapse? Does a dying man clench his butt cheek or clasp his hair with an arm bent over his shoulder (fig. 7)? The figure’s still taut muscles and smooth flesh, its pursed lips, and even its lightly closed eyes are all the opposite of the physical signs of death. Or to put it another way, the statue’s connection with death is both idealized and metaphorical. As has been frequently remarked, it conveys the longing for release from the “earthly prison” of the body, a desire repeatedly described by Petrarch in his sonnets and most pointedly in his Triumph of Death. Michelangelo knew those verses well, even quoting the Triumph on one of his drawings, writing that “death is a release from a dark prison” (“la morte e’l fin d’una prigione scura”).8 That imprisonment became a recurring image in his poems. Taken in a poetic sense, it could be said that the young man is languishing in a sort of dream of death, longing for the moment when he would be freed from the tie binding his chest, just above the heart, where his hand is pointed—a gesture that Michelangelo studied with great care (fig. 8).9

However described, what can be said is that Michelangelo conceived the statues in contrasting attitudes, working on them at more or less the same time and bringing them to more or less the same state of finish. The contrast was likely inspired by the sons of Laocoön in the group that had been discovered to much excitement

in January 1506 (with Michelangelo soon on the scene with his friend Giuliano da Sangallo, who immediately recognized the group to be the one known from Pliny). It is logical to suppose that Michelangelo was intrigued by the notion of pendant attitudes when he started to design the tomb soon after the discovery of the famous sculpture, taking up the idea but to different ends.10
A struggle against tragic death is the subject of the ancient work. The dreamy and ardent expressions of Michelangelo’s bound men are not in the same emotional register as the anguish and fear on the faces of the two boys suffering their ghastly fate; they were mauled and killed by vicious sea serpents. The difference is revealing. The Laocoön encapsulates a gruesome narrative. The evidence of surviving drawings and successive contracts indicates that the Louvre figures are two of twelve planned to flank niches with statues of Victories standing over defeated enemies. The allegorical ensembles were intended to frame reliefs with episodes symbolizing Julius’s reign. In that scheme, they were a form of eulogistic punctuation in a magnificent material encomium to the pontificate.
The combination of historical narratives with victors and captives had an authoritative model in Roman triumphal arches. It was also familiar from the poetic Triumphs by Petrarch and their illustrations, particularly (and appropriately in the context of the memorial to Julius) with the Triumphs of Death and of Fame. The tomb wall of Filippo Strozzi’s chapel in Santa Maria Novella in Florence presented another compelling precedent for Michelangelo when he began to ponder how to meet the pope’s extravagant expectations

(fig. 9). The chapel was completed in 1503, while Michelangelo was in Florence and not long before Julius commissioned his monument. The majestically standing Virgin with Child in the chapel window, framed by its arch and placed over seated saints in the chapel, resonates with Michelangelo’s early ideas for the upper level of the tomb seen, for example, in a modello drawing in the Metropolitan Museum in New York dated to between 1505 and 1506 (fig. 10). Filippino Lippi’s design adapted the triumphal form specifically to the subjects of death, devotion, and commemoration. Lippi’s imaginative combination of pagan allegory and biblical prophecy in a funerary chapel had every reason to spark Michelangelo’s thoughts on how to realize Julius’s ambitions for the afterlife.
The two sources written during Michelangelo’s lifetime by authors who knew him agree in calling the bound figures prigioni. They also assign them allegorical meanings. But not the same ones. In the first, 1550, edition of his biographies, Giorgio Vasari says they are provinces. In his life of Michelangelo, written under the artist’s guidance and published in 1553, Ascanio Condivi says that they represented the Liberal Arts: Painting, Sculpture, and Architecture, each with its attribute, signifying (“denotando”) that all such virtues, like Pope Julius, were prisoners of death. Vasari revised his account in the second, 1568, edition, blending it with Condivi’s. He specifies that the captives were the provinces subjugated by Julius and adds that the other figures were the arts, subjected to the same death as the pope, who had used them so honorably.11
The mixed messages they describe are not mistaken. The three accounts compress the


Fig. 16. Donatello, Lamentation, ca. 1460–1464, bronze, detail Wailing Women. Florence, San Lorenzo.

Fig. 17. Donatello, Crucifixion, ca. 1460-1464, bronze, detail, Huddled Mourner. Florence, San Lorenzo.
Tornabuoni chapel, often alluded to actual birth practices, with attendant servants, female visitors, young and old, and the infant in the arms of the wet nurse (fig. 18). That template provided a particularly poignant contrast to Francesca’s story. It is pointedly embodied in the contrasting adaptations of maenad (the young woman hurtling toward the bed in the relief) and nymph (the white-clad female shown stepping forward at the right in Ghirlandaio’s mural). Those two poles of Aby Warburg’s “pathos formula,” Warburg’s archetypes of affect—one hysterical in bereavement, the other a gracefully moving figure of fertility—had already been reanimated by Donatello, the first in the context of Christ’s death in the Passion reliefs and the second to represent Abundance in a now-lost statue that once stood atop a column in the center of Florence.37
Fully aware of these prototypes and their subjective power, in the scene showing Francesca’s death Verrocchio paired the frenzied maiden tearing her unbound hair against a draped matron howling with anguish across the bed—parenthetical frames to Francesca’s exhausted and already cadaverous body (fig. 15). Behind Francesca, the midwife tenderly lifts her arm, as though testing the flagging pulse. Every detail gives meaning to the moment: Francesca’s haggard jaw, the lank strands of her hair around her face and limp along her neck, the linen shift fallen from her shoulders and clinging to her sunken torso. There is nothing formulaic about Verrocchio’s rendering of her death and its focus on her passing. It is no surprise that he did not show the postmortem cesarean section that actually followed, though the physician is central to the group around Giovanni. Instead, the swaddled infant lies across the lap of the wet nurse, whose bodice remains tied, for the baby will never be nursed.38 The horrible irony of mortality

is manifested in the juxtaposition of Francesca’s frail body slumping into death with the robust old woman huddled in mourning below her. Faceless and almost completely covered, Verrocchio guaranteed that the woman’s age could be recognized by the telling signs of her wrinkled wrist and bunioned foot. She is the figure of desolation.
Giovanni is portrayed in the pendant scene with his hands lifted above his heart (fig. 19) while the midwife walks toward him carefully holding out her pathetic burden, the dead infant resting on a cushion. Like the midwife, the physician (identifiable by his doctor’s garb) seems to be explaining the course of events to the sadly attentive father. A razor handle or scalpel is in his right hand—a gruesome reminder of the bloody extraction he had been called upon to perform.
The well-dressed young man at the (viewer’s) far left of the relief and the younger man behind him do not portray Giovanni’s two sons in reality. His legitimate son, Lorenzo, was only nine years old when his mother died. His illegitimate son, Antonio, who was an acknowledged member of the family, was older, but it is unlikely that he would have been put in the foreground. The pair may represent a projection of Giovanni’s hopes that the lineage would survive in the masculine line. If so, or if not, like the equally well-dressed young ladies at the right, they bracket the central episode as examples of decorous behavior and thoughtful reaction to the sorrowful course that life can take.
(inv. RA 809 A).10 Apart from the rarer choice of portraying Isaac as an adult man, to increase the parallel with the age of Christ, the most obvious visual detail stressing the typological value is the depiction of the wood for the sacrifice, in a bundle often in the shape of a cross and carried by Isaac himself, who adopts a posture reminiscent of the Carrying of the Cross or kneels down to highlight the sacrificial aspect. Ilsebill Barta-Fliedl and colleagues describe a late-fifteenth-century engraving by Andrea Mantegna whose general composition can be considered emblematic for the Pathosformel identified by Aby Warburg.11
In Britain, the episode appears rather rarely and only from the twelfth century; later pictorial and glass representations and manuscript miniatures are found at Malmesbury, Canterbury, Great Malvern, and Worcester, in the latter two as antetype.12 In some cases, the scene is more violent: Abraham’s sword is not raised but connects with Isaac’s throat.13 Similar schemata appear in several Bible miniatures, such as the Winchester Bible, ca. 1170 (Winchester Cathedral, ms. 17); although the expression of the depicted characters is of the patiens type, the emotional element is not stressed further. However, in the Lambeth Bible, also from the twelfth century, Isaac’s mother is included in one of the illustrations, thus stressing the “familiar” element, as some dramatic representations will later do. In other examples, Isaac is bound and/or stripped before the sacrifice, with a pattern reminiscent of the binding of Christ to the column (London, Lambeth Palace Library, ms. 3, f. 6), and occasionally this detail is also followed in drama,14 to which we turn next.
Abraham’s perplexity and reluctance are represented rather prominently and frequently in early British drama. His final acceptance of God’s will is compared to God’s willingness to sacrifice his son and thus provides an educational example.15 To this aim, Abraham must be turned into a fully human character, and his final relief must be turned into a joy that prefigures the Resurrection, even increasing his love toward his son after God’s trial. Other

Fig. 1. Miniature of Isaac as a typological figure of Christ from Speculum Humanae Salvationis, ca. 1360, Westfalia/Köln. Darmstadt, Universitäts- und Landesbibliothek Darmstadt, ms Hs 2505, f. 40v.
analyses16 emphasize obedience as the key value in these plays and provide evidence that shows how the emotional aspects of the story were indulged in, including the potentially heretical sentiment of fear in Isaac and his reluctance to accept his own destiny. This aspect marks the difference between the liturgical typology of Abraham and Isaac and the types they represent in vernacular drama, more related to devotional typology, where human feelings of anger, fear, and doubt are emphasized along with obedience. This struggle between human and divine love shows these characters still to be types of Christ but of a different Christ—not the acquiescent sacrificial lamb but a suffering human being.
The episode is frequent in British dramatic cycles, influenced by earlier textual sources including carols, sermons, and collections such as Mirc’s Festial 17 According to critics, pathos is the most evident in the Brome Play of Abraham and Isaac, along with the Northampton Abraham Play, where there is a crescendo in Isaac’s fear and horror.18 The focus is also Isaac’s fear in the Chester cycle, while in the York cycle, the only one in which Isaac is an adult, there is no insistence on emotional elements. Towneley is the only cycle that has different plays for Abraham and for Isaac, where obedience and doubt for the former and obedience and fear for the latter are in focus.19
In other European dramatic traditions, the episode is often framed as comedy, since it features a “happy ending”; the tragic element is thus only a preparation for the subsequent triumph. In contrast to the English tradition, the pathos element is not as prominent; the German tradition has the simplest plays about the episode, while the French and Spanish traditions mostly focus on Abraham’s dilemma rather than on Isaac.20 A particular emphasis on Isaac’s fear, his weeping and pleading, is a peculiarity of the English tradition, as are mentions of Isaac’s mother21 and Abraham’s weeping at the prospect of killing his own child, which was considered a particularly hideous crime. Therefore, the Abraham and Isaac of medieval drama should not be viewed as mere types but rather as exempla of the conflict between human will and God’s will. There are, consequently, different linguistic elements that appear variously prominent across the plays.
Highly relevant and recurrent are, of course, words indicating emotions, such as “joie,” “pleasaunce,” “rejoice” but also “crye,” “sorrow,” “greeve,” “adreade” (afraid), “sorye.”22 Apart from these and other lexical items pertaining to the same semantic field, three other elements will be explored: terms and pronouns of address, interjections, and linguistic indicators of deontic modality.
In a cultural system in which forms of address reflect relational dynamics, asymmetrical pronoun use can indicate different levels of power and intimacy between speakers. In late medieval Europe, courtesy pronouns (often derived from plural pronouns used for single address: “vous,” “voi,” “you,” “Ihr”) start to get widespread in vernaculars as forms to indicate deference, and dramatic dialogue reflects this quite consistently.23 Thus, Abraham addresses Isaac as a child, and therefore as “socially inferior,” using the pronoun “thou” and employing terms of endearment such as “my dere darlinge” (Chester IV.229) and “my childe” (379), while Isaac employs the pronoun “you” of respect, stressing the affective component through terms of address such as “my deare father” (251 and 1240 ff.). This type of asymmetry is indicative of a family relation in which children show

Fig. 3. Donatello, Putto soufflant dans une trombe, v.1429, bronze. Sienne, Baptistère San Giovanni, font baptismal.

Fig. 4. Donatello, Putto avec un tambourin, v.1429, bronze. Berlin, Bode Museum inv. 2653.
leur fonction décorative, la représentation d’images et d’instruments musicaux ainsi que la représentation du mouvement dansé24. L’analyse de ces spiritelli nous permet d’aborder encore une fois la question de la tridimensionnalité, de la succession des mouvements et de la multiplicité des points de vue.
Comme le rappelle Marc Bormand, c’est à Sienne que l’on trouve les premiers spiritelli en ronde bosse, « six petits Enfants ailés en bronze doré (de 36 cm de hauteur) »25 sculptés par Donatello, faisant comme une ronde au sommet de l’édicule conçu par Jacopo della Quercia pour le font baptismal du Baptistère San Giovanni. Le cercle que compose ainsi les spiritelli dansants, si l’on excepte le putto comme arrêté soufflant dans une trompe (fig. 3), permet de représenter aussi la succession de différents moments de la danse et différents pas. Ces pas sont exécutés en attitude arrière pour l’un, d’autres

Fig. 5. Donatello, Putto dansant, v.1429, bronze. Sienne, Baptistère San Giovanni, font baptismal.

Fig. 6. Donatello (attribué à), Putto dansant, v. 1429, bronze. Florence, Museo nazionale del Bargello, inv. 87 Bronzi.
esquissent une arabesque, les mouvements de jambe croisée pourraient esquisser le début d’un tour. Les bras sont souvent relevés, en appui du pas dansé, une fois tendant un tambourin (fig. 4), dans deux autres cas ornant la figure dansante presque en forme d’invocation (figs. 5 et 6).
L’« Orphée » de Bertoldo di Giovanni L’évocation de la figure d’Orphée, sous la forme du petit bronze de Bertoldo di Giovanni, offert à Cosme l’Ancien et aujourd’hui conservé au musée du Bargello (fig. 7),26 n’étonnera pas quand il s’agit d’évoquer la danse. Inachevée, cette œuvre illustre parfaitement la fascination pour Orphée dans l’entourage des Médicis et dans la culture florentine contemporaine. Les chants orphiques traduits par Marsile Ficin et leur re-

In front of the rotating rings appeared God in glory holding his Son on his knees, representing the image of the Trinity. Suspended on other ropes descending from the empyrean, two children dressed as angels flew lengthwise toward the rood screen; these were the consolers sent by the Trinity to announce the Ascension to the apostles and the two Marys. Afterward, the two angels returned upward to the second heaven, continuing to sing and flap their wings as if they were flying. Then the curtain closed behind them, concealing the celestial vision, while the two Marys and the apostles returned to the castle-Jerusalem where the performance had begun.
In the early fifteenth century, these heavens and clouds were totally new devices. We can only imagine the astounding emotional effect they must have had on the public of the time, with the child angels, the lights, the hosts of painted cherubim and seraphim, and the heavenly music, and the impression of all these figures floating in space must have seemed truly miraculous. This is why they had such an effect on the imagination of the Florentines and the artists in particular.
From a paraenetic perspective, these apparatuses were intended not to teach doctrine or catechesis to the faithful but rather to create an image of paradise by visualizing the



du chœur de San Francesco (1484) et, probablement, à Locarno, à l’ancona de la Pietà di Orselina – si l’on accepte la datation haute. Pour l’Observance, ils avaient également sculpté la Nativité avec saint Bernardin à Orta San Giulio (Saint-Bernardin).16 Rappelons en outre que la carrière de Giovanni Pietro avait commencé à Santa Maria del Monte sopra Varese, aux côtés de Giacomo Del Maino (ca. 1478) – un lieu bien connu de Caimi, nommé directeur spirituel des Romite Ambrosiane de Santa Maria del Monte en 1490.17
De telles commandes et – pour revenir aux formes intermédiaires de dramaturgie du sacré – de telles pratiques sont attendues dans un lieu tenu par l’Observance. Depuis le xiiie siècle au moins, sous l’impulsion, notamment, des franciscains, les drames liturgiques du Vendredi Saint prévoient la déposition de la statue du Christ dans les bras d’une Vierge vivante ou, plus souvent, d’une statue de l’Addolorata, en présence d’acteurs vivants figurant les autres personnages de la Mise au Tombeau et incarnant les différentes formes de l’affliction.18 Paolo Toschi avait étudié la théâtralisation croissante du spectacle de la Passion au cours du Moyen Âge, et les différentes formes, en puissance dans les rituels, que ce spectacle a ensuite pu prendre.19 Claudio Bernardi y est revenu pour le Moyen Âge tardif. Une fois déposée, la statue du Christ pouvait ainsi être portée au sépulcre, accompagnée par des processions, des musiques, des chants et des sermons, et, parfois, par de brefs dialogues ainsi que par une lamentation de la Vierge.20 Qu’en est-il plus précisément à la fin du xve siècle, en territoire Sforza ? On sait l’importance des formes de théâtre religieux dans l’Italie du xve siècle finissant, à l’initiative des religieux et notamment des ordres mendiants, et plus encore à celle des confréries de laïcs, ces dernières étant davantage marquées par leur « esuberante performatività ».21 Bien connues en Toscane et en Ombrie – autour, notamment, des crucifix aux langues mobiles


7. Gaudenzio Ferrari, Nativité, bois polychromé et terre cuite polychromée, v. 1515. Varallo, Sacro Monte, complexe de Bethléem, Grotte de Bethléem.
caractéristique de l’Observance lombarde à la fin du Quattrocento. Il y reconnait notamment son rapport aux traditions scripturaires, la très forte polarisation dramatique sur les Passions du Christ et – plus encore ? – de la Vierge, décrites dans leurs moindres détails, la part considérable qu’y occupent les laudes et le planctus et, enfin, l’emploi d’une rhétorique plus iconique que celle de Bernardin, en phase avec la culture figurative des premiers tramezzi32. Parmi les caractéristiques de ses sermons, la composition des lieux de Palestine, riche et scénique, qu’il décrit en témoin direct, est mise au service du souvenir authentique : Varallo procède logiquement de cette pensée. Cet extrait, qui associe Déposition, Pierre de l’Onction, Mise au Tombeau et indulgences, en donne une bonne idée : « Cum descendissent portantes corpus illud benedictum et essent in medio itinere inter montem Calvarium et sepulchrum, presisterunt ibi ut ungeretur. Et ille locus est ante ianuam ecclesiae, in ecclesia Santi Sepulchri, supra quem continue ardent lampades plures. Et, ut dicitur, est ibi plenaria indulgentia, est etiam primus locus visitatus a quibuscumque peregrinis devotus et sanctus. »33
Ceci laisse donc imaginer, avant la mort de Caimi en 1499 ou en 1500, et sans doute encore sous ses successeurs fra Candido Ranzo (à Varallo jusqu’en 1509 environ), dont Pier Giorgio Longo a également étudié l’activité de prédication,34 et fra Francesco da Marignano (présent à Varallo en 1515),35 des séquences comprenant à la fois des statues
ponctuellement mobiles, comme celle du Christ, susceptibles d’être vénérée, des acteurs vivants, a minima Joseph et Nicodème, et des groupes statuaires fixes comme celui de la Pierre de l’Onction récemment recontextualisée dans la spiritualité franciscaine par Marco Albertario, alors présenté dans la chapelle « subtus crucem », à proximité immédiate de l’autel et du sépulcre.36
Bethléem
Ce fait suscite et fonde une réflexion sur les autres lieux du premier Varallo qui auraient pu accueillir des formes de dramaturgie liturgique. Guère moins importante que les abords du Golgotha dans la « topographie légendaire des Évangiles en Terre Sainte »,37 la Grotte de Bethléem célèbre les événements de la seconde grande période du calendrier liturgique, de la veille de Noël à l’Épiphanie : le « festum festorum » dans la tradition franciscaine.38 Promoteurs historiques des crèches vivantes, les franciscains les associaient étroitement à la mémoire du fondateur.39 Point très intéressant, François aurait « inventé » la Crèche de Greccio (24 décembre 1223) – la pratique de la crèche étant attestée dès le viiie siècle – après avoir assisté à une mise en scène de la Nativité en Terre Sainte, dans la grotte de Bethléem (1219).40 Faute de documentation articulée, il n’est pas possible de replacer les crèches vivantes dans une histoire locale de l’Observance franciscaine à la fin du xve siècle. Tout au plus connaît-on l’importance originaire des laudes dramatiques tardo-médiévales du 24, du 25 et de l’Épiphanie, et du théâtre laïc qui se développe successivement en Toscane aux xive et xve siècles tandis qu’un équivalent piémontais, la Cantata del Gelindo, apparaît au début du xvie siècle.41 C’est donc directement sur place qu’il faut chercher des traces de telles pratiques. Attestée par la documentation en 1514 mais certainement construite du vivant de Caimi, la Grotte de Bethléem de Varallo est, comme les abords du Sépulcre, pourvue d’une table d’autel qui facilitait le développement d’une para-liturgie sacrée. Alors dépourvu d’images, cet autel sert désormais de base à la Nativité de Gaudenzio (fig. 5-6).42 Certainement composé par les frères de l’Observance, le premier guide de Varallo donne à entendre au chapitre IIII que les statues de l’Enfant, du bœuf (en bois, comme les premières statues de Varallo, donc forcément antérieure aux autres statues du groupe) et de l’âne (actuellement donné à Gaudenzio) étaient présentes dans la Grotte en 1514 (fig. 7), tandis que les Mages, placés à l’extérieur, attendaient d’y entrer : « Donde Giesu ha simil luoco nato/ Acanto il buone e lhumile Asinelo/ Dentro al monte a quello somigliato/ Con li tre magi fuor qua per intrare. »43 Une distribution à laquelle manquent les principales figures de l’adoration vérifiant le miracle de l’Incarnation… sauf si des crèches vivantes et, peut-être, avant qu’on place les premières statues des Mages, des arrivées des Mages, s’y sont tenues. Beth Mulvaney a montré que les crèches franciscaines tardo-médiévales associaient volontiers des statues – de l’âne et du bœuf, dont François avait affirmé la centralité,44 ainsi, parfois, que de la Vierge et de l’Enfant – à des acteurs vivants – Joseph, les bergers et, au besoin, la Vierge et l’Enfant.45 C’est probablement ce qui s’est passé à Varallo. Le recours aux statues de l’Enfant et des animaux, qui évitait le chaos et les
Nella mostra e nel catalogo Corpo e anima si era cercato di sintetizzare la complessa storia della scultura in Italia a cavallo del Cinquecento, raccontata attraverso l’alternanza proposta da Aby Warburg tra l’ethos «apollineo» e il pathos «dionisiaco». Le giornate di studio che l’hanno accompagnata, tenutesi a Parigi e a Milano, hanno offerto l’opportunità a numerosi storici dell’arte e studiosi di approfondire alcuni argomenti e hanno dato vita a questo libro.
Philippe Toussaint, prendendo spunto dalle interpretazioni warburghiane sull’antica figura del centauro, analizza il rito funebre nel rilievo della tomba di Francesco Sassetti in Santa Trinita a Firenze, evidenziandone il sincretismo tra mondo pagano e cristiano che ha dato origine a una «immortalità scolpita».
Ulrich Pfisterer esplora la scultura come veicolo di piacere, sensualità ed emozione negli studioli, i luoghi in cui gli umanisti e i letterati si dedicavano allo studio, mentre Philippe Morel mostra come la figura della menade, in preda all’antica trance dionisiaca, sintetizzi dolore ed erotismo nell’opera di Agostino di Duccio e Bertoldo di Giovanni.
Patricia Lee Rubin si concentra sulla scultura come espressione della malinconia associata alla morte a Roma, sia negli Schiavi per la tomba di Giulio II di Michelangelo sia nella tomba Tornabuoni di Andrea del Verrocchio.
La rappresentazione del pathos e il tema dell’obbedienza a Dio e dell’atteggiamento nei confronti della morte sono i temi al centro dello studio di Gabriela Mazzon sul sacrificio di Isacco. Ludmila Acone, dal canto suo, mostra la natura virtuosa della danza nell’Italia del Quattrocento, dove l’immaginazione del movimento coreutico permetteva di dar forma a un mondo ideale.
Nel suo studio sul teatro sacro nella Firenze del Quattrocento, Paola Ventrone dimostra come le innovazioni spaziali di Brunelleschi abbiano reso possibile una nuova efficacia espressiva del messaggio visivo per gli spettatori/credenti. Infine, Anne Lepoittevin mette in luce i legami tra il teatro sacro e i gruppi scultorei del Sacro Monte di Varallo. Tutti questi contributi mostrano l’importanza di analizzare le modalità di espressione delle emozioni da parte degli scultori rinascimentali, che, attraverso la loro arte, riflettevano sia i valori morali sia i valori visivi dell’antichità classica e della religione cristiana.