Galleria Borghese General Catalogue

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SOMMARIO

Premessa

Francesca Cappelletti

Il mIto della statua.

la collezIone dI sculture come connotazIone del museo

Anna Coliva

nota Per la consultazIone delle schede albero genealogIco della famIglIa borghese PIantIne

OPERE MODERNE

schede

APPROPRIARSI DELL’ANTICO

aPProPrIarsI dell’antIco: reInterPretazIone, trasformazIone, coPIa. un cambIamento dI ProsPettIva

Simona Ciofetta

schede

DALL’ANTICO AL MODERNO

dall’antIco al moderno e rItorno. alcune rIflessIonI suI restaurI dI sculture antIche nelle raccolte borghese

Giulia Salvo

schede

sculture antIche: InterventI dI restauro modernI

APPARATI

abbrevIazIonI

bIblIografIa

esPosIzIonI

IndIce delle oPere In catalogo

IndIce deI nomI

NOTA PER LA CONSULTAZIONE

DELLE SCHEDE

s truttura del catalogo

Il catalogo è articolato in tre sezioni. La prima, dedicata alle opere moderne, costituisce il corpo principale del volume e prende in esame, oltre alle sculture appartenute alla collezione Borghese o acquistate dallo Stato dopo la trasformazione della villa in museo, quelle che sono parte integrante dell’apparato decorativo del casino pinciano in cui l’aspetto figurativo è preponderante. La seconda sezione, intitolata Appropriarsi dell’antico, raccoglie l’analisi di un gruppo di opere considerate di dubbia antichità nel catalogo della scultura antica della Galleria (Moreno, Viacava 2003) o che non hanno trovato spazio né in quest’ultimo né nel volume sulla scultura moderna di Italo Faldi (1954) e comprende quindi pezzi restituiti a epoche diverse. L’ultima sezione, Dall’antico al moderno e ritorno, è dedicata invece ad alcuni degli interventi di restauro più significativi compiuti nel corso dei secoli sulle opere confluite nella collezione archeologica.

All’ordinamento topografico adottato nel catalogo della scultura antica e a quello alfabetico già utilizzato nel volume di Faldi si è preferita una progressione strettamente cronologica, mentre la collocazione attuale delle opere è stata esplicitata all’interno delle schede. La seconda e la terza sezione sono ordinate in base alla cronologia degli interventi moderni.

Sezione “Appropriarsi dell’antico”: criteri di selezione delle opere La sezione riguarda un nucleo di opere finora prive di una collocazione storica e culturale certa nella critica e nei cataloghi del museo. Trattandosi per la maggior parte di elementi usati in funzione decorativa, tra i quali un caso esemplare è costituito da alcuni rilievi e busti nel portico, è stato indispensabile comprendere la storia e la modalità del loro impiego nel casino, da ricondursi nella quasi totalità dei casi alle operazioni condotte tra il secondo e l’inizio del quarto decennio del XIX secolo per ripristinare, su iniziativa di Camillo Borghese, una raccolta di scultura antica dopo la vendita del 1807 e la spoliazione del casino. Lo studio ha portato a interessanti risultati: è stata provata non solo la modernità di alcune opere – giungendo talvolta all’identificazione del loro autore – ma anche una consuetudine con il pezzo antico sottesa a certune rilavorazioni che ha condotto, attraverso una vera appropriazione dell’antico, alla creazione di opere nuove. Per giungere a queste conclusioni è stato necessario anche un approccio “materiale” alle opere, allo scopo di intrecciare i dati storici con quelli relativi alle tecniche, allo stato conservativo del supporto, alla presenza di interventi integrativi, di restauri, di rifacimenti anche succedutisi in più fasi nel corso del tempo. Tale studio preliminare è stato condotto da Maria Grazia Chilosi della CBC Conservazione Beni Culturali, che ha redatto relazioni su ciascuna opera indispensabili, insieme a un proficuo confronto diretto su aspetti specifici, alla ricerca storica, artistica e documentaria (Simona Ciofetta).

Sezione “Dall’antico al moderno e ritorno”: criteri di selezione delle opere

Le schede che compongono questa sezione del catalogo costituiscono una selezione di opere scultoree a tutto tondo e a rilievo antiche, a vario titolo confluite – non solo tra-

OPERE MODERNE

Il rilievo dovette essere trasferito al palazzo a seguito del riallestimento tardosettecentesco della villa pinciana: nell’inventario del 1812 risulta collocato al secondo piano, in un andito definito «coretto della cappella», nel quale sono indicate «Tre custodie impellicciate di legno di Portogallo con piedi di metallo dorato e cristalli avanti e nelli lati e dentro due statuine ed il Calvario, tutte di cera» (doc. 5).

Descritto nell’inventario fidecommissario del 1833 come «lavoro bellissimo dei tempi di Michel’Angelo» (doc. 6), il rilievo, trasferito definitivamente presso la villa dal 1891, viene ritenuto di scuola michelangiolesca nella guida di Venturi (1893), che ne evidenzia la maestria esecutiva. L’attribuzione a Della Porta si deve a Middeldorf (1935), che lo esamina insieme a un altro simile, già presso Hoving e Winborg a Stoccolma, anch’esso ricondotto al catalogo dell’artista. Lo studioso riferisce la Crocifissione Borghese allo scultore sulla base dei confronti con alcuni suoi disegni conservati nella Kunstakademie di Düsseldorf, in particolare con uno raffigurante studi per una Deposizione. Oltre allo specifico rapporto con alcune delle figure della composizione, l’autore sottolinea il marcato gusto per il dettaglio comune tanto ai disegni quanto al rilievo. Secondo lo studioso nella Crocifissione potrebbe identificarsi uno dei modelli per quattordici rilievi in bronzo con Storie della Passione ricordati da Vasari (1568, ed. 1878-1885, VII, p. 548), sebbene essa risulti di dimensioni diverse da questi, o quanto meno una delle fasi di lavorazione degli stessi. Anche la tecnica a cera, non riferibile per Middeldorf a un’opera autonoma ma collegabile a un modello per la fusione in metallo, contribuisce a tale ipotesi. L’autore ritiene inoltre che in questa impresa Della Porta possa essersi giovato del contributo di collaboratori, avanzando il nome di Jacob Cobaert (? 1535 ca.-Roma, 1615).

Il nome di Guglielmo Della Porta quale autore del rilievo è confutato da De Rinaldis (1937), che lo ritiene piuttosto opera di «uno di quei scultori-orafi della Scuola fiamminga del secolo XVI, che venivano a Roma ad “italianizzarsi”»; l’attribuzione è invece accolta da Venturi (1937), seguito da Della Pergola (1951) e Faldi (1954), che conviene sul fatto che il rilievo fosse preparatorio per una fusione in metallo. Gabhart (1968-1969) ne rileva la vicinanza con una Deposizione in oro nel Walters Art Museum di Baltimora (n. 57.564), al tempo priva di attribuzione ma attualmente riferita nel catalogo del museo a Cesare Targone.

La produzione di Della Porta relativa a complessi cicli narrativi è esaminata dalla critica recente. Sono ricordati, tra gli altri, la grande

impresa delle quattordici scene della Passione, probabilmente riferibili a un progetto per la chiesa romana di San Silvestro al Quirinale commissionato da papa Paolo IV (1555-1559) e abbandonato alla sua morte, il progetto per il grandioso mausoleo di Carlo V comprendente una statua equestre e un analogo ciclo della Passione, anche questo senza seguito, nonché la più contenuta impresa costituita dalla commissione da parte di Pio IV (1559-1565) di una porta per San Pietro, composta di otto rilievi: anche questo progetto non giunse a compimento, interrotto dalla morte del pontefice (Gabhart 1968-1969; Extermann 2012; Pierguidi 2015a; Pierguidi 2017, pp. 1-4).

Herrmann Fiore (1997b) propone per il presente rilievo il riferimento alla porta in bronzo per la basilica di San Pietro, le cui otto formelle dovevano tuttavia essere di dimensioni molto più grandi (Extermann 2012, p. 67). Avery (2012, p. 123) cita la Crocifissione quale possibile modello preliminare per pannelli bronzei destinati a progetti monumentali, ritenendo di fatto incerta la loro destinazione finale, per un altare domestico o per un edificio sacro.

Tale posizione può essere ritenuta condivisibile, considerata la consuetudine dell’artista nel realizzare opere simili, di grande finezza e di rara qualità, da proporre a qualche possibile committente o utilizzabili a fronte di una commissione specifica quali modelli per una fusione, ma che potevano assumere nelle mani di un collezionista autonoma e degna considerazione.

Restauri. Nell’Archivio Restauri della Galleria Borghese è conservata documentazione di restauri del 1907 (Luigi Bartolucci) e del 1915 (Cesare Fossi); nel 1956 l’Opificio delle Pietre Dure ha operato un intervento sulla cornice, mentre nel 1987 sono stati effettuati da Gianluigi Colalucci la pulitura del rilievo e la disinfestazione e il consolidamento della cornice lignea intarsiata.

Nel corso del 2022 sono state effettuate sulla cornice indagini petrografiche (Artelab) e XRF (Ars Mensurae).

2. AAV, Arch. Borghese 421, Inventario 1725, cc. 85-86, «Gabinetto primo [sala XII]»: «Un quadro rappresentante la Crocefissione di Nostro Signore di basso rilievo d’avorio o sia altra mistura con molte figure di palmi 3 e 2 in circa di passetto del n. 226, con cristallo davanti e cornice di granatiglia et ebano, il detto cristallo in un cantone spezzato».

3. AAV, Arch. Borghese 1007, n. 270, Inventario 1762, c. 100.

4. AGB, AIV/1, Inventario 1765, c. 156 (Faldi 1954, p. 51).

5. AAV, Arch. Borghese 309, n. 115, Inventario 1812, c. 64v: palazzo di Campo Marzio, «coretto della cappella».

6. AGB, B/2a, Inventario fidecommissario 1833, Prima Nota, lettera A (palazzo di Campo Marzio), p. 15, n.n.: «Ultima stanza» (Mariotti 1892, p. 86).

7. AGB, C1/1, Estimi, Allegato D, Stima dei quadri di L.  Gauchez, maggio 1892: L. 25.000 (Atti parlamentari 1899, p. 68, n. 496); Allegato E, Stima di W. Bode, s.d.: L. 5000 (ivi, p. 81, n. 496); Allegato F, Stima dei quadri di G. Piancastelli, gennaio 1893: L.  30.000 (ivi, p. 94, n. 496); Allegato G, Estimo dei quadri della Galleria Borghese e de’ marmi moderni di A. Venturi e G. Piancastelli, [1897]: L. 9000 (ivi, p. 107, n. 496).

DOCUMENTI

1. AAV, Arch. Borghese 27, Atti di famiglia, Titoli diversi, n. 128, “Nota delle gioie consegnate a Don Marcantonio Principe Borghese Seniore”, 1619 (copia ottocentesca), n. 292: «Un bassorilievo in cera sopra lastra di lavagna alto circa palmi tre rappresentante la Crocifissione di Nostro Signore Gesù Cristo al Calvario, lavoro del Cinquecento scudi 500» (Faldi 1954, p. 51).

Marina Minozzi

gliatura, che presenta il motivo appena accennato delle ciocche a tenaglia al centro della fronte, quanto nella fisionomia del volto, animato da segni d’espressione. La fronte è solcata da rughe e ha la tipica fossetta centrale sopra il naso; gli occhi, infossati, hanno iride incisa e pupilla incavata. Le guance sono solcate da rughe, le orecchie sporgenti; il naso è grande e la bocca, serrata, è caratterizzata dal prolabio inferiore pronunciato. Ha il mantello fissato da una fibula circolare sulla spalla destra e risvoltato sulla sinistra: sono appena visibili la lorica e la tunica.

7f

Busto di Nerone

marmo bianco (testa), breccia medicea (busto); cm 78

inv. LIII f

La testa dell’imperatore riproduce alcune delle caratteristiche tipiche del volto di Nerone, tali da renderlo riconoscibile nonostante altre importanti differenze. La capigliatura a ciocche sovrapposte, portata sulla fronte in onde parallele, è comune a tanti dei ritratti noti del personaggio, così come la barba sotto la mandibola, che doveva mascherare il sottogola pingue di Nerone, qui caratterizzato invece da un volto piuttosto asciutto. Gli occhi sono lisci, incorniciati dalle sopracciglia lineari; il naso e la bocca sono regolari, il labbro superiore è lasciato scoperto dai baffi leggeri; il mento è sporgente. L’imperatore indossa una lorica con gorgòneion al centro del petto, dalla quale fuoriescono le corte maniche frangiate e lo scollo della tunica; sulla spalla destra porta il paludamento fissato con una fibula circolare.

7g

Busto di Galba

marmo bianco (testa), marmo africano (busto); cm 78 inv. LIII g

La bruttezza, tramandata dalle fonti insieme alla vecchiezza del personaggio, è l’unico aspetto identificativo del ritratto di Galba, le cui fattezze sono peraltro testimoniate solo dalle emissioni monetali, mentre Svetonio (Vit. VII, 21) lo descrive calvo e con il naso aquilino. La testa è coperta da una capigliatura compatta; la fronte è solcata da un’evidente ruga orizzontale e da due verticali, piuttosto profonde, tra le sopracciglia corrugate e sporgenti. Gli occhi hanno iride incisa e

pupilla incavata a fagiolo, il naso è grande e la bocca piccola, con prolabio inferiore pronunciato; il mento sporgente ha una fossetta circolare al centro. Le guance sono incavate da rughe che partono dai lati del naso, il collo è cadente. Il paludamento, fissato da una fibula circolare alla spalla destra, è risvoltato sulla sinistra, e scopre lo scollo e la manica della tunica.

7h

Busto di Otone

marmo bianco (testa), marmo africano (busto); cm 78

inv. LIII h

L’opera ritrae Otone attraverso dati ripresi dalla ritrattistica antica dell’imperatore ma in una riproduzione di tipo stereotipato sovrapponibile ad altri ritratti della serie. Il volto è largo e squadrato, la testa mostra una capigliatura a ciocche ricurve e parallele che si dispongono sulla fronte in una corta frangia. La fronte è solcata da una ruga orizzontale e sporgente sulle arcate sopracciliari delineate da incisioni. Gli occhi hanno iride incisa e pupilla incavata a fagiolo. Il naso è grande e regolare, la bocca piccola, il mento sporgente. Il collo è taurino. Il mantello è fermato sulla spalla destra da una fibula tonda e risvoltato sulla spalla sinistra; sono visibili la manica e lo scollo della tunica.

7i

Busto di Vitellio

marmo bianco (testa), bigio morato (busto); cm 78 inv. LIII a

La testa riproduce le fattezze del famoso ritratto del Museo Archeologico di Venezia (inv. 20) proveniente dalla collezione del cardinale Grimani, rinvenuto al principio del Cinquecento nei pressi del colle del Quirinale e subito identificato, erroneamente, con questo imperatore. Rivolto a sinistra, ha forme opulente, guance cadenti e sottogola abbondante sul collo taurino. Gli occhi hanno iride e pupilla incise. Il busto segue un modello analogo a quelli degli altri ritratti della serie, con paludamento appuntato sulla spalla sinistra e risvoltato sulla destra, sotto il quale si scorgono lo scollo e la manica della tunica.

7j

Busto di Vespasiano

marmo bianco (testa), breccia dorata (busto); cm 78 inv. LIII i

Il ritratto individua Vespasiano con qualche caratteristica tipica dell’anziano e rude imperatore, ma in modo piuttosto libero e generico rispetto ai prototipi antichi. Sono usuali i capelli sui lati delle tempie per l’incipiente calvizie e il ciuffo al centro della testa, che si presentano però piuttosto voluminosi e ben definiti. La fronte è solcata da rughe parallele e arcuate, le sopracciglia aggrottate formano due solchi verticali alla radice del naso. Gli occhi sono piuttosto grandi, a differenza dei ritratti noti, e con iride e pupilla incise. Il volto mostra i segni dell’età e presenta in particolare una profonda ruga ai lati delle guance che prosegue sotto il mento. Quest’ultimo è sporgente, il naso è grande e regolare, la bocca piccola e serrata. Sopra la tunica, della quale si vedono lo scollo e la manica, e la lorica, si dispone il paludamento a coprire la spalla sinistra, fissato sulla destra da una fibula tonda.

7k

Busto di Tito

marmo bianco (testa), marmo africano (busto); cm 78 inv. LIII l

Il ritratto di Tito riproduce i caratteri principali dei diversi prototipi antichi noti dell’imperatore, seppure rappresentati in modo astratto e convenzionale. La capigliatura rigonfia sulle tempie e sulla parte superiore della testa, costituita da riccioli ben delineati con l’uso del trapano, è tipica della ritrattistica flavia; la fronte è solcata da rughe, le sopracciglia sono contratte e formano due rughe verticali alla radice del naso, altro carattere tipico di Tito. Gli occhi ben delineati, con iride e pupilla incise, hanno palpebre superiori leggermente cadenti e le inferiori rigonfie. Il naso è regolare, la bocca piccola e con prolabio inferiore accentuato – anche questo un tratto di somiglianza con la ritrattistica di Tito – e il mento è sporgente. Ha un lieve doppio mento e un collo taurino. La lorica e la tunica sono appena visibili sotto il paludamento appuntato sulla spalla sinistra, risvoltato sulla destra.

cat. 7g
cat. 7h
cat. 7i
cat. 7j

Matthias Wallbaum (Kiel, 1554-Augusta, 1632)

Altarolo

con

Storie della Vita della Vergine e di Cristo

1579-1619 ca. palissandro e argento; cm 115 × 50 × 19 inv. CCLXXIII

Provenienza: documentato nella collezione Borghese dal 1619.

Bibliografia: Mariotti 1892, p. 85; Venturi 1893, p. 216, n. 478; Della Pergola 1954, p. 13; Faldi 1954, pp. 62-63, n. 60; Löwe 1975, pp. 24-26, n. 1; Hayward 1976, p. 229; Le collezioni 1981, p. 103; K. Herrmann Fiore, in Da Sendai a Roma 1990, p. 195, n. 71; Moreno, Stefani 2000, p. 124, n. 6; A.M. Pedrocchi, in Una donna vestita di sole 2005, p. 203, n. 48.

Esposizioni: Roma 1990, n. 71; Città del Vaticano 2005, n. 48.

Nella sua elaborata microarchitettura questo oratorio portatile riproduce in scala lo schema tipico dei grandi altari di area tedesca, sviluppato dal basso verso l’alto su tre registri rettangolari di dimensione decrescente. La struttura in legno di palissandro è interamente ricoperta da una fittissima decorazione in argento, a rilievo e a tutto tondo, spesso arricchita da dorature che ne impreziosiscono la gamma cromatica.

Il basamento rettangolare su cui poggia l’Oratorio domestico ospita quattro riquadri raffiguranti gli Evangelisti con i rispettivi simboli, dentro i propri studioli, fatta eccezione per San Giovanni che viene rappresentato all’interno di un’ambientazione naturale. Sopra il basamento è impostato un alto zoccolo scandito da quattro pilastrini posti a

intervallare tre scomparti: in quelli laterali, entro nicchie centinate, alloggiano a sinistra l’Arcangelo Gabriele e a destra la Vergine Annunciata mentre nel riquadro centrale si trova una testa di cherubino in rilievo, recante un festone di frutta, insieme a quattro figurine a tutto tondo da identificare forse con un Pastore e i Re Magi (due inginocchiati in primo piano e Baldassarre in secondo piano a destra). Sui piedistalli dei quattro pilastrini si ergono altrettante figurine a tutto tondo raffiguranti le Virtù cardinali (da sinistra: Temperanza, Fortezza, Giustizia e Prudenza) con ai lati, in scala minore, i santi Giovanni Evangelista e Rocco

Il registro inferiore dell’altare è anche quello di maggiori dimensioni: vi campeggia al centro il grande rilievo centinato dell’Immacolata Concezione, circondato da una cornice entro cui alloggiano due nicchie con le figure a tutto tondo della Carità e della Fede insieme a quattordici riquadri a rilievo raffiguranti episodi della vita di Cristo. La lettura delle scene inizia (la prima in basso a sinistra, sotto la Carità) dall’Adorazione dei Magi, cui seguono Fuga in Egitto, Gesù tra i dottori, Ingresso a Gerusalemme, Lavanda dei piedi, Orazione nell’Orto, Cattura di Cristo, Cristo davanti a Pilato, Cristo deriso, Flagellazione, Incoronazione di spine, Ecce Homo, Andata al Calvario, Cristo al Limbo. All’esterno, sui due lati, si aprono quattro nicchie aeree a giorno con le figure a tutto tondo dei Dottori della Chiesa. Sulla sommità delle due nicchie superiori, sempre a tutto tondo ma in scala minore, gli apostoli Mattia (?) e Pietro mentre in basso, ai lati delle nicchie inferiori, sono Paolo e Giacomo Maggiore Il secondo registro ospita un altro grande rilievo centinato raffigurante la Pietà. Sul secondo gradino della base, il piccolo gruppo a tutto a tondo della Natività, affiancato dai santi Antonio Abate (?) e Girolamo (?). Più in basso, sul primo gradino, prendono posto San Michele Arcangelo e San Giorgio. Ai lati della Pietà sono due pilastri con figure di Angeli su piedistalli, mentre ancora più in basso, sempre partendo da sinistra, ancora piccole statue raffiguranti Sant’Andrea Apostolo, l’Arcangelo Gabriele, la Vergine Annunciata e San Filippo Apostolo (?).

Nel terzo registro campeggia il rilievo del Giudizio universale, con in alto la figura di Cristo Giudice seduto nei cieli tra gli eletti e sostenuto da

angeli con le trombe del Giudizio; in basso sono le due schiere di anime dei beati e dei dannati. Le due figurine femminili a tutto tondo poste in primo piano ai lati di una piccola ara potrebbero invece essere identificate come le due madri coinvolte nell’episodio biblico del Giudizio di Salomone, che troverebbe così corrispondenza iconografica con il Giudizio universale nel rilievo retrostante.

A coronamento dell’altare è posto un piccolo Crocifisso, su una base con rilievo dell’Ultima Cena, e ai piedi della Croce le figure a tutto tondo di Longino e una figura femminile non meglio identificata. Più in basso, partendo da sinistra, altre tre piccole figure della Vergine, Cristo Giudice, San Tommaso

L’altarolo è probabilmente una delle prime opere note dell’orafo tedesco Matthias Wallbaum, attivo ad Augusta dal 1579 fino alla sua morte. La firma dell’artista è apposta nella zona inferiore sinistra del riquadro mediano, con il rilievo della Pietà, riconoscibile nei due marchi impressi a punzone raffiguranti uno la pigna, emblema della città di Augusta, l’altro il noce (in tedesco Walnussbaum), simbolo che Wallbaum fece proprio per assonanza fonetica con il cognome e che iniziò ad utilizzare a partire dal 1579. La datazione dell’altarolo potrebbe quindi oscillare tra questa data – o con molta probabilità il 1590, anno in cui si patentò come maestro ad Augusta (Rosenberg 1922, p. 64, n. 428; Löwe 1975, p. 13) –e il 1619, quando l’opera fece il suo ingresso nella collezione Borghese (doc. 1).

La particolarità di questi oggetti, già dagli anni settanta del Cinquecento tra i più richiesti sul mercato principesco europeo, era dovuta alla fruttuosa collaborazione tra l’artista argentiere e l’artigiano specializzato nel lavoro del legno incaricato di preparare l’anima vera e propria della struttura. Se da un lato l’accentuata verticalità della microarchitettura evoca un lessico ancora gotico, le scene maggiori così come la fitta selva di figurine che ne popola lo spazio è concepita con un’impostazione monumentale di lontana origine michelangiolesca e con precisi riferimenti a modelli del Giambologna (ben evidenti, ad esempio, nella Fortezza). Il rilievo della Pietà, tratto da un noto disegno di Guglielmo Della Porta, divenne poi il prototipo per una serie di “paci” (tavole di venerazione) che nel Giappone del Cinquecento furono trasformate in yefumi o fumi-e: immagini sacre esposte a un calpestamento obbligatorio come verifica di abiura nel periodo delle persecuzioni dei cristiani (K. Herrmann Fiore, in Da Sendai e Roma 1990).

L’Altarolo viene menzionato per la prima volta nel già citato documento datato 1619, noto da

cat. 10i
cat. 10j
cat. 10k
cat. 10l

10j

Ignoto scultore attivo a Roma

Busto di Vitellio

XVII secolo

porfido e alabastro orientale (in portoro il peduccio); cm 65 × 70,5 × 32, peduccio 21,5 inv. CLVIII

Come il ritratto del busto eseguito da Cosimo Fancelli (inv. CXXXX), anche questo si rifà al prototipo famoso proveniente dalla collezione Grimani e conservato al Museo Archeologico di Venezia (inv. 20), all’epoca riconosciuto come ritratto di Vitellio (si veda cat. 10i). Rispetto all’originale, ma anche al summenzionato Vitellio riferito a Fancelli, questo ha un’espressione meno viva, un volto più levigato e una capigliatura rigonfia, più compatta e manierata, disposta in lunghe ciocche ondulate parallele. Il busto loricato è coperto da un ampio paludamentum fermato sulla spalla destra da una fibula a fiore con una prominenza centrale, dalla quale torna sulla spalla sinistra con un panneggio morbido e voluminoso.

10k

Ignoto scultore attivo a Roma

Busto di Vespasiano

XVII secolo porfido e alabastro orientale (in portoro il peduccio); 72 × 72 × 36,5, peduccio 21 inv. CLI

Primo imperatore della dinastia flavia, Vespasiano è ritratto secondo una tipologia ben nota, soprattutto grazie al busto già in collezione Farnese (Napoli, Museo Archeologico Nazionale, inv. 6068), che ne rappresenta i lineamenti appesantiti da vecchio militare e l’espressione bonaria ma decisa che lo caratterizza. La testa massiccia, impostata su un collo segnato e cadente, è quasi calva, con pochi capelli sui lati, sopra le grandi orecchie, e un piccolo ciuffo al centro del capo; la fronte è solcata da rughe parallele che seguono la linea delle sopracciglia arcuate e contratte. Le palpebre ricadono sugli occhi, piccoli e vicini, le rughe solcano le guance e fiancheggiano le labbra sottili e serrate, il mento è prominente. L’insieme sottolinea l’età avanzata dell’imperatore, dal busto avvolto in un ampio e morbido paludamentum allacciato sulla spalla destra da una fibula tonda con bottone centrale, che ricopre la lorica, appena visibile dallo scollo e dalla spalla destra.

10l

Tommaso Fedeli (Fossombrone, 1598-Roma, 1658)

Busto di Vespasiano 1619

porfido e alabastro orientale (in breccia pavonazza il peduccio); cm 66,5 × 68 × 32, peduccio 19,5 inv. CLV

Nel busto è riconosciuto quello eseguito per i Borghese da Tommaso Fedeli nel 1619 (doc. 1), lo stesso citato nella stanza del Gladiatore dapprima in un inventario del 1725, dove si specificava che era già presente nei «fondi» della villa (González-Palacios 1993b) ed era descritto come «Vespasiano Imperatore con la testa di porfido, busto di alabastro venato e pieduccio di breccia pavonazza» (doc. 7), e a seguire in altri inventari della villa fino al 1765 (docc. 8, 9). Il busto sarebbe quindi quello aggiunto alla serie proveniente dal palazzo di città, come raccontato nella lettera di Giuseppe Gozzani del 13 ottobre 1831, e sistemata nella galleria della palazzina pinciana entro il 1832, dai cui esemplari si distingue per il diverso materiale del peduccio e per le dimensioni leggermente inferiori. Il ritratto presenta le caratteristiche consuete della fisionomia dell’anziano imperatore, quasi calvo, dal volto magro e con il mento prominente segnato dalle rughe sulla fronte e sulle guance, ma appare nobilitato dalle fattezze meno rudi e presenta occhi più grandi, sebbene segnati da borse pronunciate. Il busto paludato mostra un panneggio dalle pieghe schiacciate, risvoltato sulla spalla sinistra e fermato su quella destra da una fibula tonda, dal quale si intravedono la corazza, lo scollo e una manica della tunica.

10m

Ignoto scultore attivo a Roma

Busto di Tito

XVII secolo porfido e alabastro orientale (in portoro il peduccio); cm 77 × 76,5 × 33, peduccio 18 inv. CXXXXIV

Il ritratto ben riconoscibile di Tito mostra il volto squadrato e piuttosto pieno con la caratteristica pettinatura a corte ciocche arricciate portate all’indietro sulle tempie, dove acquistano volume; la fronte è solcata da rughe parallele, le sopracciglia arcuate sormontano occhi dallo sguardo diretto e deciso. Il naso è corto, la bocca carnosa. Sottogola e collo contribuiscono a sotto-

lineare l’aspetto corpulento dell’imperatore. Il busto mette in evidenza la lorica anatomica della quale è visibile lo spallaccio destro, indossata sopra la tunica dalle corte maniche; il paludamentum, allacciato sulla spalla sinistra da una fibula circolare con un bottone centrale, si avvolge sotto il braccio destro.

La tipologia del ritratto, analoga a quella di altri esemplari moderni, tra cui il ritratto proveniente dalla collezione Della Porta (inv. LIII l; cat. 7k), viene fatta risalire al tipo del Museo Nazionale Archeologico di Napoli (inv. 6059; Fittschen 2006, pp. 240-241).

10n

Ignoto scultore attivo a Roma

Busto di Domiziano

XVII secolo porfido e alabastro orientale (in portoro il peduccio); cm 71 × 75 × 28, peduccio 19 inv. CLIV

Domiziano, ultimo degli imperatori della dinastia dei Flavi, è noto per la fisionomia simile a quella del fratello Tito, suo predecessore, connotata dal collo possente, il naso aquilino e il mento sporgente, la bocca piccola dal labbro inferiore meno pronunciato. Soggetto a una calvizie precoce, l’imperatore nei ritratti antichi mostra solitamente sulla fronte stempiata una corona di riccioli portati in avanti. In questo ritratto la capigliatura rigonfia e folta è formata da ciocche arricciate che giungono a coprire parte delle tempie e della fronte, dove l’arcata sopracciliare si riunisce al centro sporgendo sugli occhi. Le fattezze del volto, piuttosto largo, richiamano in modo generico le caratteristiche note della fisionomia di Domiziano. Il busto è rivestito della lorica anatomica, di cui si vede uno degli spallacci; la spalla sinistra è coperta dal paludamentum ripreso e appuntato da una fibula tonda. La corazza lascia intravedere la manica corta e lo scollo della tunica.

Ignoto scultore attivo a Roma

Busto di Cicerone

XVII secolo

porfido e alabastro orientale (in portoro il peduccio); cm 75 × 74 × 33,5, peduccio 19 inv. CXXXXVIII

Oratore, filosofo, uomo politico, Marco Tullio

Cicerone indossa la toga disposta con il lembo anteriore avvolto intorno al torace, ovvero contabulata, secondo una moda intervenuta solo con il tardo impero, non coeva al personaggio. Anche l’esecuzione del panneggio presenta qualche incertezza nell’intreccio delle pieghe. Il ritratto dimostra invece una realizzazione viva e attenta. Cicerone è raffigurato in modo corrispondente ai ritratti che ci sono giunti, per esempio quello dei Musei Capitolini (inv. MC0589), così come alla personalità tramandata dalle fonti storiche. I capelli, lisci, sono pettinati ordinatamente verso il lato destro, lasciando scoperta la fronte stempiata e solcata da rughe. Anche il volto magro e il collo presentano i segni dell’età avanzata, mentre le sopracciglia aggrottate, che formano due rughe verticali alla radice del naso, sottolineano lo sguardo intenso del personaggio.

DOCUMENTI

1. AAV, Arch. Borghese 1030, Villa Pinciana 16091624: «luglio 1619. Fo [sic] pagato scudi trenta di moneta a Tomaso Fedele scultore in prezzo di una testa di porfido di Vespasiano» (Faldi 1954, p. 17).

2. AAV, Arch. Borghese 5688, Filza del mastro dei mandati, n. 15, conto dei lavori della galleria del palazzo di Campo Marzio [1674-1676]: «Per haver fatto un busto d’alabastro novo di un Vitellio, che sta nella testata sopra l’ovato verso le remesse largo palmi 3½ alto palmi 31/3 [?] all’antica tutto armato con fibbie all’antica e commessaci la testa con la sua anima, e connesso sotto il pieduccio con li bugi e fattovi il suo perno, et attaccato sopra il detto pieduccio, e lustrato tutto il busto con grandissima diligentia importa scudi 20» (Hibbard 1962b, p. 20, doc. 1).

3. AAV, Arch. Borghese 5683, Filza del mastro dei mandati, n. 174, conto dei lavori dello scalpellino Francesco Fancelli al palazzo di Campo Marzio, 9 maggio 1674: «Per n. 45 giornate di 3 allustratori che hanno allustrato n. 15 busti di alabastro con teste d’imperatori di porfido che stanno alla galleria fatta di nuovo, a baiocchi 40 il giorno per ciascheduno, importa scudi 20

Per stucchi per li sopradetti, baiocchi 0,60

Per haver refatto un pieduccio di giallo e nero di nuvovo [sic] a pietra, e manifattura et allustrato che sta al busto che si è fatto nuovo ad un Vitello [sic], importa scudi 4».

4. AAV, Arch. Borghese 1476, Filza del libro mastro 1671-1679, conto di lavori del capomastro muratore Pietro Giacomo Mola al palazzo di Campo Marzio a partire dal 18 ottobre 1671: «[ante 30 maggio 1674] Per la mettitura in opera di n. 16 busti di imperatori con teste di porfido e petti di alabastro antico messi in opera con le traglie, con la mettitura in opera e muratura con il gesso di due sprangoni grossi per ciascuno dove posa il pieduccio di detti petti con haver pigliato li detti petti alla sala vecchia e portati in detto loco scudi 16

Per haver di proprio messo in opera n. 3 di detti busti nelli ovati per vedere che effetto facevano levati et rimessi più volte scudi 1,50» (segnalato in Fumagalli 1994, p. 101, n. 209).

5. AAV, Arch. Borghese 7504, Inventario 1693 (palazzo di Campo Marzio): «Nella Galleria … Sedici testa [sic] d’imperatori di porfido con busti d’alabastro».

6. AGB, AI/33, “Nota delli quadri dell’appartamento terreno di Sua Eccellenza il Signor Principe Borghese”, [1700]: «Settima Stanza. Sedici teste di porfido con il busto di alabastro rappresentanti li dodici Cesari, e li quattro Consoli Romani, ritrovate nel Pontificato di Paolo V» (De Rinaldis 1936, p. 203, n. 41).

7. AAV, Arch. Borghese 421, Inventario 1725, c. 16, «Terza stanza verso l’uccelliera detta del Gladiatore [sala VI]»: «n. 3 altre teste con busti di marmo antiche, due delli quali hanno il pieduccio di marmo e l’altro d’alabastro moderno rappresentanti una Settimio Severo e due altre due imperatrici»; nota nella carta di destra: «In luogo di una delle due teste di imperatrici è stato collocato il busto di Vespasiano imperatore con la testa di porfido e busto di alabastro venato con pieduccio di breccia pavonazza et il busto dell’imperatrice che resta è nominato Berenice, qual busto di Vespasiano era nelli fondi» (González-Palacios 1993b, p. 31, doc. 1). c. 110, «Fondi»: «Una testa di porfido rappresenta Vespasiano Augusto»; nota nella carta di destra: «La [dietroscritta?] testa di Vespasiano è stata trasportata nella stanza del Gladiatore [segnata?] in p. 16».

8. AAV, Arch. Borghese 1007, n. 270, Inventario 1762, c. 20 [Vespasiano (inv. CLV)] (González-Palacios 1993b, p. 31, doc. 2).

9. AGB, AIV/1, Inventario 1765, c. 30 [Vespasiano (inv. CLV)].

10. AAV, Arch. Borghese 8099, Registro dei mandati 1831-1832, n. 601, 14 novembre 1831: «Ad Alessandro Rinaldini scarpellino lustratore scudi 128 moneta quali sono per la riduzione a pulimento di n. 16 Busti di alabastro con teste di porfido spettanti a Sua Eccellenza».

11. AAV, Arch. Borghese 8099, Registro dei mandati 1831-1832, n. 656, 16 dicembre 1832: «Al Signor Pietro Paolo Spagna scudi 94,50 moneta sono cioè 82,50 pagati per formare n. 16 gessi dei Busti di porfido».

12. AAV, Arch. Borghese 8099, Registro dei mandati

1831-1832, n. 24, 14 gennaio 1832: «Al Signor Francesco Salghetti disegnatore scudi 23,75 moneta per disegno e incisione di n. 16 Busti esistenti nella Galleria di Villa Pinciana rappresentanti i Dodici Cesari e quattro Consoli dalla nota qui annessa».

13. AAV, Arch. Borghese 458, n. 5, Inventario 1832, n. 270: «Sala Nobile o sia Galleria».

14. AGB, B/2a, Inventario fidecommissario 1833, Terza Nota, lettera C, p.  49, n. 111 (Mariotti 1892, p. 97).

15. AAV, Arch. Borghese 426, Inventario 1859, cc. 16v-17r, nn. 1, 4, 6, 14, 16, 19, 20, 23, 26, 28, 30, 31, 33, 35, 36, 37, 40.

16. AGB, C1/1, Estimi, Complemento degli allegati I e L, Stima delle sculture del Rinascimento e basamenti su cui posano di A. Venturi e G. Piancastelli, [1897]: «n. 124. Busto di Traiano L. 6000»; «n. 127. Busto di Galba L. 6000»; «n. 130. Busto di Claudio L. 6000»; «n. 135. Busto di Scipione Africano L. 6000»; «n. 136. Busto di Agrippa L. 6000»; n. 139. Busto di Augusto L. 6000»; «n. 140. Busto di Vitellio L. 6000»; «n. 144. Busto di Tito L. 6000»; «n. 148. Busto di Cicerone L. 6000»; «n. 149. Busto di Nerone L. 6000»; «n. 151. Busto di Vespasiano L. 6000»; «n. 152. Busto di Ottone L.  6000»; «n. 154. Busto di Domiziano L. 6000»; «n. 155. Busto di Vespasiano L. 6000»; «n. 157. Busto di Caligola L. 6000»; n. 158. Busto di Vitellio L. 6000»; «n. 162. Busto di Tiberio L. 6000» (Atti parlamentari 1899, pp. 120-121).

Scultore ignoto

Busto di uomo (Pseudo-Scipione)

fine XVI-inizi XVII secolo bigio antico (testa), giallo antico (busto); cm 64 inv. LXXVI

Provenienza: nella collezione Borghese dal primo quarto del XVII secolo?

Bibliografia: [Lamberti, Visconti 1796, I, p. 11, n. 21]?; [Indicazione 1840, I, p. 10]?; [Nibby ed. 1841, p. 913]?; [Indicazione 1854, I, p. 12]?; [Indicazione 1873, I, p. 12]?; [Mariotti 1892, p. 95]?; [Venturi 1893, p. 21]?; [Giusti 1903, p. 20]?; Faldi 1954, pp. 14-15, n. 8; Le collezioni 1981, p. 103; C. Stefani, in Moreno, Stefani 2000, p. 76, n. 16.

Un uomo di età matura, con un volto di forma squadrata e il capo rasato, è intagliato in questa effigie in bigio antico, montata su un busto panneggiato, realizzato invece in un giallo antico chiaro. In queste fattezze si è a lungo ravvisata la fisionomia di Publio Cornelio Scipione detto l’Africano (236-183 a.C.), il generale al comando delle truppe romane che sconfisse il cartaginese Annibale nella battaglia di Zama, l’ultimo scontro della seconda guerra punica (218-202 a.C.). Almeno dalla metà del Cinquecento questo modello, noto da vari marmi archeologici, era riconosciuto come simulacro del condottiero, a quanto si desume dalla guida antiquaria di Roma composta da Ulisse Aldrovandi nel 1550, ma stampata sei anni dopo. Tra i ritratti menzionati dall’erudito bolognese si deve ricordare l’illustre pezzo oggi al Museo Nazionale Romano, denominato Rospigliosi per le sue vicende collezionistiche seicentesche, costituito da una testa antica in basalto e da un busto moderno in bronzo dorato (sull’oggetto si veda L. de Lachenal, in Museo Nazionale Romano 1979-1995, VI, 1986, pp. 112116, n. III,6). Con questo esemplare è identificabile, come proposto già da Antonia Boström (2003, pp. 166-168), lo «Scipione Aphricano» ricordato nella guida tra le sculture del cardinale Niccolò Ridolfi ereditate dal fratello Lorenzo (Aldrovandi 1556, p. 294): si specifica, infatti, che la testa presentava una «veste ornata di oro» e poggiava «sopra una basi [sic] de la medesima selice», elementi che Boström ha attribuito allo scultore e fonditore ferrarese Ludovico Lombardo, documentato come autore, intorno al 1550, di busti bronzei di soggetto archeologico per Lorenzo Ridolfi. Nel periodo in cui Aldrovandi stava completando il suo testo,

Scultore ignoto

Coppia di piedistalli triangolari

prima metà del XVII secolo marmo bianco; cm 94,5 × 64 × 58,5, zoccolo 5,5 [cat. 19a], 95 × 61,5 × 54,5, zoccolo 6 [cat. 19b] inv. CVI a, CX a

Provenienza: attestati nella collezione Borghese dal 1650.

Bibliografia: Manilli 1650, p. 83; Montelatici 1700, pp. 212-213; Lamberti, Visconti 1796, II, p. 12, al n. 14; Nibby 1832, pp. 85-86; Indicazione 1840, I, p. 15, ai nn. 2, 5; Nibby ed. 1841, p. 917; Indicazione 1854, I, p. 18, ai nn. 2, 5; Indicazione 1873, I, p. 18, ai nn. [2], 5; Mariotti 1892, p. 96; Calza 1957, p. 16, nn. 174, 175; Moreno 1980, p. 15; P. Moreno, in Le Collezioni 1981, p. 102; Cain 1985, pp. 75, 174, n. 72 (con bibliografia); Ronchetti 1993; Moreno 1997b, p. 46; P. Moreno, in Moreno, Stefani 2000, p. 106, n. 2; Moreno, Viacava 2003, p. 188, n. 166; Rossi, Sandrelli 2011, pp. 170, 171; Fabréga-Dubert 2011b, pp. 215, 216, 217.

I due piedistalli triangolari presentano la medesima tipologia decorativa e poggiano su dei plinti di foggia antica, percorsi su tutti i lati da un fregio continuo a rilievo di foglie e girali d’acanto. Su questi si innestano gli alti zoccoli curvilinei delle basi, culminanti agli spigoli con protomi di sfingi alate da cui hanno origine dei sottili viticci che recano una rosetta; subito sopra, da un calice di foglie d’acanto si innestano tre lunghe foglie fra le quali si erge una palmetta. Su ciascuna delle tre facce, nella parte centrale del fusto, sono scolpiti a rilievo degli amorini alati desinenti in foglie d’acanto con diversi attributi: il primo reca un grappolo d’uva e il pedo pastorizio, il secondo sorregge un cesto colmo di frutti e una piccola corona conviviale, mentre il terzo si cinge il capo con un nastro. Un fregio a palmette e fiori di loto con teste d’ariete aggettanti agli angoli chiude superiormente i due piedistalli.

L’inventario del 1725 (doc. 1) li descriveva nel dettaglio su «3 balaustre di metallo ciascheduna e suoi zoccoletti sotto, 1 di breccia antica, l’altro di marmo» (così anche Manilli 1650, Montelatici 1700 e docc. 2, 3), che però dovettero essere rimosse prima del 1796 poiché non venivano più menzionate nel volume di Lamberti e Visconti sulle sculture della villa pubblicato quell’anno. I due eruditi impostavano inoltre un confronto stilistico tra questi due piedistalli e due di sei candelabri di età adrianea rinvenuti verosimilmente a fine Quattro-

cento nei pressi del Mausoleo di Santa Costanza, in seguito divisi tra quest’ultimo e la chiesa di Sant’Agnese, e infine trasferiti a fine Settecento in Vaticano. Attualmente quattro di questi sono conservati nella galleria dei Candelabri dei Musei Vaticani, mentre un quinto venne ricondotto nella chiesa di Sant’Agnese dopo il restauro. Il sesto si ritiene perduto (Ronchetti 1993, p. 208).

L’inventario del 1832 (doc. 4) stimava i due piedistalli Borghese come opere moderne, mentre Nibby, se in un primo momento (1832) non aveva esitato a considerarli antichi, si trovò poi a ricredersi (ed. 1841). Calza (1957) ha avanzato per prima l’ipotesi che solo uno dei due (inv. CVI a) fosse antico e che vi si potesse individuare quello proveniente dal nucleo rinvenuto vicino a Santa Costanza di cui si era persa notizia. L’altro piedistallo (inv. CX a) era invece stimato come probabile opera dello scultore romano Lorenzo Cardelli, coinvolto nel rinnovamento del casino della villa Borghese negli anni ottanta del Settecento, che lo avrebbe realizzato appositamente come pendant di quello che Calza considerava antico (proposta accolta anche in Cain 1985).

Solo più di recente Eleonora Ronchetti (1993) ha escluso che uno dei due potesse appartenere a quel nucleo originario di candelabri antichi, in quanto Fioravante Martinelli nel 1653 li menzionava tutti e sei nella chiesa di Sant’Agnese, mentre la precedente testimonianza di Manilli (1650) documentava per la prima volta entrambi i piedistalli della collezione Borghese all’interno della villa. Ronchetti (p. 211) ritiene che questo possa fornire un utile termine ante quem per escludere che uno dei due appartenesse all’antico nucleo di Santa Costanza e suggerisce di collocarne l’esecuzione entro la prima metà del XVII secolo, dato che non risultano nel dettagliato Inventario delle statue antiche, colonne, tavole, pietre e marmi di proprietà della famiglia fatto stilare nel 1610 da papa Paolo V (si veda De Lachenal 1982, pp. 96-99, doc. VI).

Manilli nel 1650 descriveva dunque per primo i due piedistalli quando si trovavano al piano terra della villa nella «Stanza del Moro» (odierna sala VII) e fungevano da supporto ai Camilli oggi al Louvre (DAGER, inv. MR 119, MR 120), allora esposti sulla parete tra le finestre affacciate verso il giardino segreto di tramontana. Lì rimasero sicuramente fino al 1765 (si vedano Montelatici 1700 e i docc. 1-3) per poi essere trasferiti nella «sala del Bernini» (odierna sala III o di Apollo e Dafne), dove si trovano tuttora. In questo ambiente furono inizialmente descritti nel 1796 da Lamberti e Visconti come basi di due vasi a foggia di cantaro di Massimiliano Laboureur e Lorenzo Cardelli e in

della gradina e dello scalpello, abilmente celati all’occhio dello spettatore (Coliva 2002, pp. 12, 20; P. Rockwell, in Bernini 2002, p. 129). Un espediente per risparmiare tempo che nelle opere seguenti l’artista spingerà all’azzardo in una vera sfida virtuosistica.

Il mandato di pagamento di 350 scudi a Gian Lorenzo «per una statua nova» il 14 ottobre 1619 (doc. 2) reca la stessa data della giustificazione di pagamento presentata da Giuseppe di Giacomo per la rilavorazione di un’ara romana ornata di bucrani adibita a «piedistallo della statua di Enea» (doc. 4). Collocato su questa base antica che ne accentuava lo slancio in verticale, il gruppo fu esposto nella terza sala, «di Dafne» (Manilli 1650), al centro della parete rivolta verso il giardino segreto «de’ Melangoli». Sulla medesima parete Manilli riferisce che fosse esposto anche il capolavoro di Barocci (1598) con il medesimo soggetto. In seguito alla ristrutturazione e alla completa ridecorazione degli interni della villa voluta dal principe Marcantonio IV e affidata ad Antonio Asprucci, l’Enea e Anchise fu tolto dall’ara antica e spostato nella nicchia tra due colonne sulla parete adiacente alla scala, mentre l’Apollo e Dafne venne avanzato e collocato al centro della sala (Lamberti, Visconti 1796, II, pp. 1, 4), secondo il progetto di razionalizzazione degli allestimenti disposti ortogonalmente su precisi piani assiali che presupponevano un focus su opere emblematiche della raccolta, come mostra un disegno di Charles Percier (Parigi, Bibliothèque de l’Institut de France, ms. 1008, f. 32, n. 60).

Dopo una parentesi che nella prima metà dell’Ottocento portò una sorta di rivoluzione nell’allestimento con il trasferimento nella loggia al primo piano dei gruppi berniniani e delle altre opere seicentesche, come riportano le fonti del tempo (Indicazione 1840, 1854, 1873; Nibby ed. 1841; doc. 16; si veda inoltre la fotografia ottocentesca nel fondo Moscioni dell’Archivio Fotografico dei Musei Vaticani in Bernini 2002, p. 119, fig. 2), nel 1888 le sculture tornarono al piano terra: l’Apollo e Dafne fu ricollocato nella sua stanza originaria; il David nella sala II e l’Enea e Anchise fu posto definitivamente nella sala VI a occupare il posto lasciato vuoto dal Gladiatore, emigrato al Louvre (doc. 17). In quella circostanza fu collocato sul nuovo piedistallo in marmo eseguito nel 1909 da Pietro Fortunati assieme a quelli analoghi per il David, del 1910, e per il Ratto di Proserpina, del 1911 (Faldi 1954, p. 28).

La completa trasformazione degli interni della palazzina Borghese ad opera di Antonio Asprucci aveva compromesso la visione che Bernini stesso

L’incarico dato a Bernini nel marzo di quell’anno di eseguire la «statua del Re David che fa per servitio del nostro giardino» proveniva in realtà dal cardinale Alessandro Peretti Montalto che l’aveva commissionata all’artista assieme al Nettuno (oggi a Londra, Victoria and Albert Museum) per la peschiera della sua villa di Termini (docc. 1-2). La funesta circostanza della morte improvvisa di Montalto nel giugno del 1623 aveva offerto a Scipione Borghese l’opportunità di sostituirsi a lui come committente. Il documento del luglio seguente infatti proviene dalla contabilità Borghese e riporta il pagamento di «scudi 200 … per la scoltura di una statua di David» e 60 scudi per il rimborso del marmo «dove lo scolpisce … per uso nostro» come fa ben precisare il cardinal Borghese (doc. 3).

Le vicende della committenza indicherebbero pertanto che una delle quattro “storie” che segnarono il passaggio tra il talento di Pietro Bernini e l’esplosione di Gian Lorenzo e che condussero la scultura del Seicento a una visione completamente nuova, senza raffronti formali possibili a quelle date, non fosse nelle previsioni originarie. Questo nonostante i quattro gruppi costituissero il mirabile progetto scultoreo concepito da Bernini e dal cardinale, attraverso il quale avvenne un radicale cambiamento di linguaggio stilistico, compositivo, inventivo, nell’euforica metamorfosi della materia in figure fantastiche, dai modi e dagli “affetti” più vari, che si svolse tutto in casa Borghese a partire dal 1619-1620.

La perfetta simmetria concettuale instaurata tra i due diversi generi rappresentati, quello storico e quello favolistico (R. Preimesberger, in Bernini 1998, p. 209), tenderebbe a escludere che un elemento di casualità possa essere intervenuto per determinare o alterare tale costruzione. I fatti favolosi nei miti “inventati” di Proserpina e di Apollo e Dafne e i fatti storici incarnati da Enea e Anchise quale compimento dell’impero romano della Chiesa e da David, profeta di Cristo e poeta cristiano, dunque verità storico-biblica, formano le due coppie dei miti pagani e degli eroi cristiani e vengono a integrarsi come miti complementari. Pertanto la raffigurazione di David vi si inserisce come necessaria. Bisogna pensare allora che qualcosa di analogo dovesse essere previsto per contrapporsi, affiancando l’Enea e Anchise, alle due favole antiche come rappresentazione di una “storia” cristiana. Considerando il valore di autorappresentazione che Bernini conferisce al David, scelto come antagonista dell’altro David, quello in cui si identificava Michelangelo quale artista eroico nel proclamare «Davicte cholla fromba e io coll’archo», è verosimile che proprio questa fosse la storia prevista nel costante tema

cat. 38 a-b

Giovanni Campi

(documentato a Roma a metà del XVII secolo) Coppia di cacciatori mori

1651-1653

nero del Belgio, giallo antico (statue), nero del Belgio, breccia gialla (basi), metallo dorato (zoccoli); cm 66 × 25,5 × 17 [cat. 38a], 66 × 26,5 × 19,5 [cat. 38b] inv. CCLXXIV, CCLXXV

Provenienza: commissione di Marcantonio II Borghese.

Bibliografia: Tessin, ms. [1687-1688], ed. 2002, p. 323; Montelatici 1700, p. 220; Lamberti, Visconti 1796, II, p. 18, nn. 25, 26; Nibby 1832, p. 114; Indicazione 1840, I, p. 21, n. 9; Nibby ed. 1841, p. 922; Mariotti 1892, p. 97; Venturi 1893, p. 216, nn. 479, 480; Riccoboni 1942, p. 174; De Rinaldis 1948b, p. 85; Della Pergola 1951, p. 18; Faldi 1954, pp. 53-54, n. 51; Le collezioni 1981, p. 103; Agosti 1984, p. 68, nn. 479, 480; Debenedetti 1991, p. 243, n. 25; González-Palacios 1993c, pp. 5, 29, docc. 1, 13-15; González-Palacios 1994, p. 304; Kalveram 1995, p. 133 nota 194; S. Zanuso, in Bacchi 1996, p. 792; González-Palacios 1997, pp. 32-34; Ferrari, Papaldo 1999, p. 472; C. Stefani, in Moreno, Stefani 2000, p. 157, n. 3; Boudon-Machuel 2005, pp. 347348, nn. R.34a e b; Fabréga-Dubert 2009, I, p. 270, doc. 057, nn. 25, 26; E. Sandrelli, in I Borghese e l’antico 2011, pp. 282-283, al n. 23, 284-285, n. 24. Esposizioni: Roma 2011-2012, n. 24.

Si tratta di due sculture in pendant realizzate in marmo nero del Belgio o paragone, raffiguranti due Cacciatori mori, con bandoliere in giallo antico (in parte rifatte), speculari nelle pose e poggiati su fusti di marmo di paragone modanato con applicazioni in breccia gialla, su zoccolo di metallo dorato. Le figure sono avvolte da un panneggio rifinito e mosso che cinge la vita e parte delle gambe a rimarcare lo stato d’animo di fierezza suggerito dagli atteggiamenti e dall’espressione dei volti. Sostengono sul braccio piegato un astore e trattengono alla catena rispettivamente un leone e una pantera. Le due piccole sculture vennero eseguite per il principe Marcantonio Borghese tra il 1651 e il 1653 (docc. 1-9). Sono menzionate per la prima volta nella camera del Gladiatore da Montelatici (1700), che li riferiva al fiammingo Du Quesnoy: inossidabile attribuzione non riscontrabile negli inventari ma trasmessa dalle guide e dalla critica fino alla pubbli-

cazione da parte di Faldi dei documenti di pagamento allo scultore Giovanni Campi. Personalità ancora sconosciuta, questi forse potrebbe essere identificato con quel «Monsù Giovanni de Campi» attivo nel 1648-1649 nell’impresa berniniana della decorazione dei pilastri della navata della basilica di San Pietro (Tratz 1991-1992, p. 372; S. Zanuso, in Bacchi 1996, p. 792; Bacchi, Tumidei 1998, p. 132). Nell’esposizione i due Cacciatori mori sono sempre stati collocati ai lati del rilievo con Baccanale di putti (cat. 37; attualmente si trovano nella sala VI o di

Enea e Anchise), con il quale hanno condiviso la storia attributiva e documentaria nonostante l’evidente incongruenza dei soggetti (docc. 10-15). Nel 1807 le opere non furono incluse nella vendita alla Francia effettuata dal principe Camillo Borghese, cognato di Napoleone, per quanto il commissario francese Pierre-Adrien Pâris ne ammirasse il materiale (Debenedetti 1991, p. 243, nn. 25-27; FabrégaDubert 2009); e risultano segnalate nell’Indicazione del 1840. Nell’inventario del dicembre 1859 si specifica però il loro trasferimento al «Palazzo Nobile di

Testa, Laura 88

Testi, Fulvio 185

Tetti, Giuseppina 300

Thomassin, Philippe 348, 388

Thorvaldsen, Bertel 116, 237, 343, 398, 399, 413

Tiberia, Vitaliano 89, 184, 190

Tiberio imperatore romano (Ti. Claudius Nero, poi Tiberius Iulius Caesar Augustus) 53, 56, 61, 67, 71, 73, 80, 343, 366, 383-384, 385-386, 392, 413

Timoteo (scultore) 387

Tito imperatore romano (T. Flavius Vespasianus, poi Titus Flavius Caesar Vespasianus Augustus) 53, 58, 61, 67, 71, 77, 80, 332-333, 409

Tiziano Vecellio 24, 200, 202, 287, 288

Toledo Herrera, Francisco de 89, 90

Tölle-Kastenbein, Renate 397

Tommasi, Giovanni 141

Topham, Richard 50, 86, 124, 130, 132

Torrenti, Camillo 176, 267-271 (cat. 57b), 322-325 (cat. A.8a-d)

Torriani, Orazio 178, 180

Tosini, Patrizia 84

Toynbee, Jocelyn M.C. 354

Traiano imperatore romano (M. Ulpius Traianus, poi Caesar Nerva Traianus Augustus) 67, 68, 72, 79, 80, 98, 115, 311, 323, 393

Tran Tam Tinh, Vincent 388

Tratz, Helga 200, 204

Travani, Antonio 218

Traversari, Gustavo 84, 360

Trucca, Pietro Martino 60, 100

Tumidei, Stefano 200, 204

Tummers, Anna 218

Ulivi, Michela 276

Unterperger, Cristoforo (Christoph Unterberger) 120, 248

Urbano VIII papa (Maffeo Barberini) 21, 148, 151, 162, 163-164, 166, 172, 175, 178, 184-185, 194, 197

Vacca, Flaminio 65-67 (cat. 9)

Vaes, Maurice 105

Valadier, Luigi 15, 23, 229-232 (cat. 44), 236, 282

Valaresso, Alvise 285

Valenti, Massimiliano 301, 345

Valeri, Claudia 345

Valier, Agostino 180

Valier, Pietro 180

Van Dyck, Antoon (Anthony) 89, 186, 187

Vannugli, Antonio 153

Vanvitelli, Luigi 226, 308

Vasanzio, Giovanni (Jan van Santen) 43

Vasari, Giorgio 46

Vasori, Orietta 358

Vaughan, Gerard 309

Vecellio, Cesare 118, 206

Vedovello, Sabina 50

Veggetti, Serena 212

Venturi, Adolfo 24, 25, 31, 38, 40, 46, 64, 80, 84, 90, 91, 95, 97, 100, 102, 105, 106, 108, 109, 114, 116, 120, 121, 124, 126, 127, 141, 143, 147, 156, 167, 176, 186, 188, 193, 194, 202, 203, 206, 208, 229, 264, 290, 298, 302, 312, 315, 316, 318, 320, 326, 327, 328, 332, 352, 364, 379

Venturi, Lionello 24

Venturini, Giovanni Francesco 210, 330, 390

Venuti, Domenico 308

Venuti, Marcello 308

Venuti, Ridolfino 106, 126, 202

Vergelli, Tiburzio 120

Vespasiano imperatore romano (T. Flavius Vespasianus, poi Caesar Vespasianus Augustus) 53, 58, 61, 67, 71, 72, 77, 80, 122, 298, 307, 308310, 325, 332, 334, 336, 404

Viacava, Antonietta 27, 38, 72, 98, 100, 124, 131, 300, 302, 308, 311, 314, 316, 318, 320, 321, 323, 324, 327, 331, 332, 333, 334, 345, 350, 351, 354, 355, 356, 357, 360, 362, 372, 378, 389, 390, 392, 393, 394, 396, 402

Villari, Pasquale 188, 202

Vima Kadphises imperatore Kushan 98

Virgilio (P. Vergilius Maro) 134, 211, 243, 245, 246, 247, 279, 307

Viscardi, Giovanni 154

Visconti, Ennio Quirino 23, 40, 50, 51, 52, 54, 56, 66, 82, 85, 86, 89, 90, 95, 100, 101, 105, 106, 110, 111, 116, 120, 128, 132, 137, 191, 202, 236, 237, 238, 239, 241, 243, 244, 246, 248, 250, 252, 254, 255, 256, 257, 258, 259, 261, 262, 264, 265, 269, 270, 271, 273, 276, 277, 278, 280, 282, 296, 298, 299, 300, 302, 304, 309, 310, 312, 314, 318, 320, 322, 323, 332, 343, 344, 345, 346, 354, 374

Visconti, Filippo Aurelio 89-90

Visconti, Giambattista (Giovanni Antonio Battista) 276

Vitali (argentiere) 64

Vitali, Giacinto 198

Vitellio imperatore romano (A. Vitellius, poi A. Vitellius Germanicus Augustus) 53, 56, 58, 61, 67, 71, 72, 74, 77, 80

Vitry, Paul 226

Vlad Borrelli, Licia 397

Vliete, Gillis van den (Egidio della Riviera) 8890 (cat. 14)

Vorster, Christiane 345

Voss, Hermann 211

Vredenburgh, Edric van 306

Waelkens, Marc 318

Wallbaum, Matthias 62-64 (cat. 8)

Walton, Guy 216

Watson, Katherine Johnson 126

Waywell, Geoffrey B. 306

Wegner, Max 304, 305, 308, 318, 320, 321, 332, 333, 351, 368, 376

Weston-Lewis, Aidan 212, 306

Wiggers, Heinz Bernhard 351

Wilson, Andrew 309

Winckelmann, Johann Joachim 71, 72, 82, 85, 106, 112, 124, 126, 254, 259, 260, 261, 262, 265, 318, 374

Winner, Matthias 152, 196, 197, 211

Wittkower, Rudolf 144, 181, 196, 211, 216, 218

Yeager-Crasselt, Lara 220

Zacchia (famiglia) 220

Zacchia, Felice, sp. Rondinini 220, 222

Zacchia, Laudivio 220, 222

Zacchia, Paolo Emilio 220, 222

Zacchia Rondinini, Antonio 220

Zanker, Paul 40, 73, 84, 306, 308, 318, 321, 332, 334, 336, 345, 383

Zanuso, Susanna 90, 200, 204

Zatti, Elisabetta 43, 52, 112, 124, 166, 331

Zen, Renier (Raniero Zeno) 184

Zimmermann, Adrian 358

Zizzi, Sabrina 301

Zuccari, Federico 126

Zuccari, Taddeo 65

Finito di stampare nel mese di settembre 2022 Ex Officina Libraria Jellinek et Gallerani

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