RASSEGNA DEGLI AVVOCATI ITALIANI - 2/2018

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ASSITA EDITORE

2 2018

RASSEGNA

degli AVVOCATI

ITALIANI

ORGANO UFFICIALE ANF ASSOCIAZIONE NAZIONALE FORENSE


Pendiamo sempre dalla tua parte.

PASSATO FUTURO

Aggregazioni professionali, multidisciplinarietà, nuove tecnologie e forme di organizzazione del lavoro: l’avvocatura è in continua evoluzione. Anche se aprirsi e innovare può essere rischioso, diffidiamo di chi preferisce conservare, ignorare la realtà e spaventare. Cogliamo le opportunità e affrontiamo nuove sfide per costruire una professione migliore.

associazionenazionaleforense.it


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SOMMARIO

RASSEGNA degli A V V O C AT I I TA L I A N I 2018

ORGANO UFFICIALE

Marcello Pacifico Ognun vede quel che vuole…

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Luigi Pansini … ma io penso positivo…

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ASSOCIAZIONE

Giovanni Delucca Il bisogno di coesione? ANF è una risposta…

ANF

NAZIONALE FORENSE

Prescindere dal processo per scelta Ana Uzqueda e non per necessità

Giampaolo Di Marco Prospettive di riforma del processo civile

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Andrea Noccesi Diritto giurisprudenziale e giurisprudenza creativa 21 Direttore responsabile

Marcello Pacifico Direttore editoriale

Daniela Bernuzzi Bassi Editore Assita S.p.A. 20123 Milano Via E. Toti, 4 tel. 02 48009510 - fax 02 48012295 e-mail: assita@assita.com www.assita.com Comitato di redazione Pier Enzo Baruffi Carmela Milena Liuzzi Francesco Maione Mario Scialla Fotografie Archivio ANF Indirizzo Internet dell’ANF www.associazionenazionaleforense.it Casella di posta del Direttore pacifico@iternet.it Periodico quadrimestrale Anno XLIII Registrazione n. 237 del 26-6-78 del Tribunale di Taranto Realizzazione e stampa Still Grafix - Cernobbio

Foto In copertina:

Catania, Cattedrale di Sant'Agata

Francesco Mazzella L'avvocato in regime di monocommittenza L'avvocato dipendente in regime di Carmela Milena Liuzzi monocommittenza: quale il regime previdenziale applicabile? Cassa Forense, migliorare le prestazioni Osvaldo Galizia pensionistiche, una possibile soluzione Al Congresso parliamo anche Federica Mariottino di reddito e fiscalità

Franco Uggetti Una cosa divertente che non farò mai più Cesare Piazza L'inganno del diavolo

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Donata Giorgia DDL Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione: Cappelluto inadeguato il modello sanzionatorio

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Crisi del principio di legalità e nuovi assetti Fabio Cassibba della giurisdizione penale dopo la legge n. 103 del 2017

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Le specializzazioni forensi e i problemi della Giuseppe Amicarelli concorrenza in Europa

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Paola Fiorillo La riforma delle norme UE sulla protezione dei dati 59 Valeria Rodelli Social network e democrazia

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Redazione Palermo 2018, un gran bel Congresso per l’ANF

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Redazione L'ANF nel segno della continuità

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Andrea Noccesi Adelante Cesare Simona Guido Associazione Forense Lecce: Alberto Sansonetti storia e tradizione sindacale Simona Guido Nuovo Ruolo - La voce di AFL Lecce Lino Spedicato

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EDITORIALE

La stanza del Direttore

Ognun vede quel che vuole… Dopo la rappresentanza politica, ora la costituzionalizzazione Ma l’avvocatura avrebbe bisogno di ben altro di Marcello Pacifico Per l’avvocatura italiana è tempo di elezioni. Per i primi di ottobre è convocato a Catania il XXXIV Congresso Nazionale Forense, massima assise della categoria, ancor più imminente è l’avvicendamento delle cariche alla Cassa di Previdenza e da gennaio saranno gli Ordini a rinnovarsi per il successivo quadriennio. L’evento etneo non pare destinato a conseguire effetti dirompenti, tutt’altro. Se a Rimini tre anni fa il passaggio del testimone da Guido Alpa ad Andrea Mascherin avveniva all’insegna dell’era già tutto previsto, l’esito dell’assise siciliana appare ancora più scontato. Le modalità di svolgimento sono state accuratamente modulate per non lasciare spazio ad imprevisti di sorta, e questo nonostante la partecipazione sia di fatto ristretta precipuamente a rappresentanti del mondo ordinistico, dunque di provata fede. Un Congresso blindato, insomma, che porterà all’esaltazione del tema principale, quello dell’avvocato nella costituzione. Pervenire alla modifica costituzionale dell’art. 111 della Carta mediante la previsione della libertà e dell’autonomia dell’avvocato e della necessità della difesa tecnica costituirà un traguardo indubbiamente prestigioso e, almeno apparentemente, foriero di auspicate maggiori tutele per una professione alle prese con una crisi che viene da lontano e che le vicende della società contemporanea hanno finito con l’aggravare pesantemente. A ben riflettere, un siffatto riconoscimento per la figura dell’avvocato, e dunque la sua legittimazione ad essere l’esclusivo tutore

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del cittadino nelle aule di giustizia, avrebbe però avuto maggior valore e significato qualche anno fa, allorquando la crisi di cui si diceva non aveva ancora morso così fortemente la categoria. Ora, invece, che l’ambito della giurisdizione statale, almeno sul fronte della giustizia civile - ma non mancano preoccupanti avvisaglie anche per quella penale - ha già registrato una forte contrazione a causa della progressiva degiurisdizionalizzazione e la crisi economica va inducendo i meno abbienti a rinunciare sempre più frequentemente alla tutela dei propri diritti, la auspicata modifica della Costituzione con l’esplicita integrazione della professione forense e la previsione della necessità della difesa tecnica appare un po’ tardiva e comunque destinata ad avere una relativa e scarna efficacia. In altre parole, la sensazione è quella di voler chiudere le porte dopo la fuga dei buoi. Se poi, come ormai molti pensano, il reale obiettivo che si intende in tal modo perseguire è quello di conferire riconoscimento costituzionale, oltrechè all’avvocatura, anche al CNF, la questione assume diverso valore politico e strategico. L’inserimento tra gli organi costituzionali conferirebbe al Consiglio Nazionale Forense ben altro ruolo e peso specifico, tanto più che l’organismo apicale dell’avvocatura racchiude già in se - raro se non unico esempio potere legislativo, esecutivo e giurisdizionale. I sottotemi del Congresso sono di indubbio interesse: si parlerà dell’avvocato monocommittente (così letteralmente si legge nel manifesto congressuale e nella pagina web dell’evento, ma forse sarebbe stato più giusto parlare di avvocati in regime di monocommittenza, in quanto sia i “committenti” che i “commessi” o “commissionati” che dir si voglia, sono avvocati e dunque c’è da diversificarne i ruoli), delle società di capitali tra e con avvocati, della natura giuridica degli ordini forensi, di modifiche al codice di procedura civile, della natura giuridica degli Ordini e dello statuto dell’OCF. I primi due sottotemi sono di indubbia attualità e, si consenta la constatazione autoreferenziale, esplicito riconoscimento dell’impegno quasi decennale profuso in materia dall’Associazione Nazionale Forense, che sin dal 2010, in un convegno tenuto a Firenze, ha iniziato a evidenziare la problematica degli avvocati che prestano la propria attività unicamente in favore di altri col-

leghi e dunque in regime di monocommittenza, come pure ormai da anni si è battuta per il riconoscimento, finalmente statuito per legge, delle società professionali multidisciplinari e/o con socio di capitale.

Quel che vede l’ANF Sempre in Sicilia, a fine maggio, a Palermo, l’Associazione Nazionale Forense ha celebrato il proprio VIII Congresso nazionale, titolato “L’Avvocato in evoluzione – un professionista indispensabile per il cittadino, l’impresa, la società, il paese”. Diversa, con ogni evidenza, l’impostazione tra i due appuntamenti: quella in un qualche modo statica e per certi versi conservatrice dell’evento di Catania, che individua implicitamente nel riconoscimento costituzionale della figura dell’avvocato una sorta di argine alla crisi in atto, l’altra, quella dell’evento di Palermo, che ha invece posto al centro del dibattito il superamento dell’attuale condizione di difficoltà attraverso l’evoluzione dell’attività professionale in termini di specializzazioni, organizzazione del lavoro, nuove tecnologie. Così come qualche anno fa proprio sulle pagine della Rassegna argomentavo sul conflittuale tema della rappresentanza politica e sulla considerazione che a condizionare il futuro della professione sarebbero stati invece e soprattutto fattori assai diversi, analogo ragionamento credo possa, anzi debba farsi oggi in materia di costituzionalizzazione della figura dell’avvocato. L’eventuale raggiungimento di questo pur significativo e prestigioso riconoscimento difficilmente costituirà per gli avvocati anche motivo per il superamento della condizione di precarietà economica che li attaglia, come pure non allevierà il disagio nei confronti di una magistratura sempre più debordante ed invasiva. Lasciando ad altro momento notazioni sul secondo aspetto, quanto al primo è da ritenere, ora come allora, che ad incidere sulle sorti economiche-finanziarie della categoria sono e saranno prevalentemente altri fattori, originati dalle esigenze di una società in continuo divenire, che pretende modelli professionali più rispondenti alle sollecitazioni dell’economia e della finanza, alle mutazioni sociali, a forme di comunicazione impensabili fino a pochi anni or sono. Nell’era della globalizzazione, delle economie di scala che esulano dai confini nazionali, di innovazioni tecnologiche che rendono sempre più impalpabile la differenza tra il reale ed il virtuale, limitarsi a difendere la professione integrandone ruolo e funzioni col riconoscimento

costituzionale senza badar ad altro, pare un obiettivo che, come detto, potrà essere pregevole sul piano istituzionale ma scarsamente rilevante a livello pratico. È un dato di fatto innegabile che la digital revolution interessa ogni settore della vita sociale, e dunque economia, istruzione, cultura, ma anche e soprattutto il mondo del lavoro. In passato l’avvocatura ha pagato a caro prezzo la difesa ad oltranza di posizioni “statiche”, arroccandosi nella difesa di privilegi desueti e nel tempo divenuti anche insignificanti, senza avere quella lungimiranza indispensabile per affrontare idoneamente prima la cd. rivoluzione multimediale1 ed oggi quella digitale, trascurando pertanto colpevolmente processi innovativi e mutazioni sociali impossibili da arrestare. È da sperare che ciò non si ripeta, perché a rischio c’è la sopravvivenza stessa di questa nostra professione che, pur con le prerogative culturali ed intellettuali che devono continuare a caratterizzarla, non può affatto sottrarsi a logiche proprie del mondo dell’impresa, della comunicazione, dell’innovazione tecnologica. La funzione che l’avvocato ha fin qui conosciuto e svolto va insomma adeguata alla figura di un professionista al passo con i tempi.

Pansini succede a Pansini Al Congresso di Catania è maturata la conferma del Segretario Generale uscente Luigi Pansini alla guida dell’Associazione Nazionale Forense, sancita poi dal Consiglio Nazionale di fine giugno a Roma. Diversamente a quanto accaduto in passato, l’elezione di Pansini è scaturita a conclusione di una vigilia caratterizzata dalla presentazione di una candidatura alternativa, quella di Marco Lepri, responsabile della sede ANF di Roma. Non sono mancati momenti di vivace confronto sia nella vigilia elettorale che nella seduta del Consiglio Nazionale. Ha finito col prevalere con sicurezza Pansini, che sarà affiancato nel nuovo Direttivo Nazionale da Francesco Mazzella, Valeria Rodelli, Paola Fiorillo, Donata Giorgia Cappelluto, Urbano Rosa e Giampaolo Di Marco, una squadra giovane, preparata e motivatissima, come ha già fatto capire con l’elaborazione dei documenti e delle mozioni congressuali da presentare a Catania. L’ANF del prossimo triennio sarà dunque attiva e determinata più che mai sul fronte della tutela dei diritti e degli interessi della collettività e dell’avvocatura. NOTE 1. Sartori, Homo videns, Laterza, 1997

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a “chi” si rivolge il congresso? “chi” sa che si sta per celebrare un congresso?

… ma io penso positivo… di Luigi Pansini Roma 30 giugno 2018 L’  Associazione Nazionale Forense rinnova le cariche direttive per il prossimo triennio riponendo nuovamente in Luigi Pansini la fiducia per un secondo mandato da suo segretario. Il Consiglio Direttivo è nuovo nella quasi totalità dei suoi componenti: Francesco Mazzella (Napoli), Paola Fiorillo (Salerno), Giampaolo Di Marco (Vasto), Urbano Rosa (Firenze), Donata Giorgia Cappelluto (Parma) e Valeria Rodelli (Lecce). L’ufficio di presidenza è retto da Giovanni Delucca (Bologna), vicepresidenti Federica Mariottino (Napoli) e Franco Uggetti (Bergamo). Roma, 10 settembre 2018 I giornali specializzati, nell’edizione del lunedì, prestano particolare attenzione al mondo delle professioni: l’impatto di un’eventuale flat tax sui redditi degli avvocati e delle altre figure professionali; le regioni di Puglia, Toscana e Sicilia che si impegnano per il rispetto della normativa in tema di equo compenso; l’invito, rivolto da Bruxelles a 27 paesi a rimuovere gli ostacoli alla libera circolazione dei professionisti; il consueto valzer delle poltrone negli studi legali con nuovi settori e frontiere da esplorare. 4

Catania, 4 ottobre 2018 Apertura del XXXIV Congresso Nazionale Forense di Catania, il primo dopo l’adozione delle nuove regole per il funzionamento della massima assise dell’Avvocatura e dell’organismo che dovrebbe attuarne le volontà. “Il ruolo dell’avvocato per la democrazia e nella Costituzione” è il tema predominante, con argomenti a latere dedicati alla ricerca di una migliore definizione della natura giuridica degli ordini circondariali forensi, di una più compiuta disciplina delle società tra avvocati per l’esercizio della professione, della regolamentazione dell’istituto dell’avvocato dipendente e/o collaboratore e dell’ennesima riforma del processo civile.

Chi siamo, cosa siamo, dove andiamo Sono le domande senza apparente risposta che l’avvocatura si pone da sempre, seduta comodamente sul divano dello psicanalista o dinanzi a una tastiera, e che rimarranno senza apparente risposta anche all’esito del congresso di Catania. Dal precedente congresso di Rimini, due anni fa, ad oggi, la realtà nella quale viviamo non è più la stessa. L’inizio di una nuova legislatura, l’insediamento del Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, le società per azioni tra avvocati, il numero programmato per l’accesso alle scuole obbligatorie ai fini del tirocinio forense, le misure di sostegno per il lavoro autonomo: queste le principali novità dell’ultimo biennio, che si sono affiancate alle considerazioni (che col passar del tempo sono diventate vere e proprie litanie) sul calo dei redditi degli avvocati, sulla loro rilevanza sociale, sull’esosità dei contributi previdenziali. E, non dimentichiamolo, abbiamo anche un nuovo congresso dell’avvocatura. Tuttavia, chi si aspetta che l’assise catanese, madre dell’Avvocatura, possa dare alla luce idee e strumenti per la professione dell’immediato presente e del futuro potrebbe rimanere profondamente deluso. Una delusione che riguarda non solo i contenuti della discussione ma anche, e soprattutto, i suoi destinatari avvocati. “Chi” si aspetta qualcosa? A “chi” (oltre che al legislatore e alla politica) si rivolge il congresso? “Chi” sa che si sta per celebrare un congresso? Domande legittime se pensiamo che, rispetto alla massima assise dell’Avvocatura, la “nostra professione” sia altrove, nei numeri e nella realtà delle cose. I numeri: i delegati che a Catania potranno esprimere col voto il loro pensiero sugli argomenti all’ordine del giorno sono 669, di cui 140 presidenti degli organi circondariali forensi. Anche i restanti 520 delegati hanno una provenienza prevalentemente istituzionale. Le discussioni di preparazione al Congresso, a livello locale, sono state quasi del tutto inesistenti, indipenden-

temente dalla partecipazione dei colleghi alle competizioni elettorali finalizzate alla designazione dei delegati congressuali. La discussione dei temi congressuali è prevista nell’ultima della sessione pomeridiana del giovedì e nella mattinata successiva; il venerdì pomeriggio tutti al voto. Complessivamente, i partecipanti sono più o meno 1.500, a fronte di 245.631 avvocati iscritti agli albi, di cui 10.000, ad essere benevoli, sono coloro che si occupano di politica forense. La realtà delle cose: è tutto il resto, è nelle pagine della stampa specializzata che racconta la nostra professione e le professioni, è nelle sentenze dei giudici che erodono poco alla volta gli istituti cardine del processo quali noi li abbiamo conosciuti (nel civile, ad esempio, con la discrezionalità nel differimento di udienza con la chiamata del terzo; la limitazione dell’istituto della sospensione; il venir meno della distinzione tra garanzia propria e garanzia impropria), è nei siti che dispensano contratti e consulenze on line, è nelle reti e nelle aggregazioni professionali. A ciò si aggiunga che i giudici amministrativi, laddove è stato sollecitato il loro intervento, prima, e il legislatore, poi, hanno ridisegnato alcuni aspetti dell’assetto e dell’organizzazione della professione. E ciò, nonostante la vigenza della legge ordinamentale del 2012, che, proprio rispetto a questo preciso compito, si è rivelata inutile. Una realtà delle cose che, diremmo, è quasi disinteressata al Congresso e alle dinamiche che lo precedono e seguono. L’introduzione dell’equo compenso, per pochi ma non per tutti e voluto dall’Avvocatura più istituzionale, è l’unico filo sottile che lega la celebrazione del congresso alle sorti della “nostra professione”, ma solo il tempo dirà se questa misura è destinata a reggere, ad essere concretamente applicata e a rendere più spesso l’esile legame di oggi.

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la presenza dell’avvocato nei consigli giudiziari, la stipula di protocolli a livello istituzionale e le varie forme di collaborazione fattiva con gli uffici giudiziari non hanno nulla a che fare con il diritto di difesa, già sancito dall’art. 24 della Costituzione, con l’Ordinamento della Repubblica e con l’art. 111 invocato. Nel merito, quindi, per quanto suggestivi possano essere il titolo e l’obiettivo del congresso di Catania e della massima istituzione forense e per quanto si possa discutere del riconoscimento di una figura professionale che, nell’organizzazione del suo assetto interno, è contro la separazione dei poteri sancita dalla Costituzione, le perplessità non mancano. Certo, si vorrebbe affermare il ruolo pubblicisticamente rilevante dell’avvocatura nel rispetto della natura libera della professione, ma chi è avvezzo alla politica forense, senza sminuire le ricostruzioni della dottrina e della giurisprudenza, non sbaglia se ritiene che l’idea dell’“avvocato in Costituzione” mira, in realtà, a “blindare” le istituzioni forensi, nazionali e locali, e a metterle al riparo dalle ingerenze del mondo reale, quello della realtà delle cose cui si accennava in precedenza. Il Congresso nazionale forense è utilizzato strumentalmente per la legittimazione politica e costituzionale delle istituzioni forensi: non c’è nulla che riguardi la “nostra libera professione”. E la strumentalizzazione è accompagnata, all’esterno, da un messaggio equivoco e fuorviante: (premessa maggiore) le istituzioni forensi, nazionali e locali, così come previsto dalla legge ordinamentale (L. 31.12.2012, n. 247) curano la tenuta degli albi e vigilano sul corretto esercizio della professione; (premessa minore) l’avvocato che intende esercitare la professione deve iscriversi agli albi; (conclusione) le istituzioni forensi sono portatrici e curano gli interessi degli avvocati iscritti albi che esercitano la professione. L’ “avvocato in costituzione” è la ciliegina sul messaggio equivoco e fuorviante. Ma, rimane il nulla per “la nostra libera professio-

ne”, il perimetro della giurisdizione che la caratterizza e i cambiamenti che la riguardano.

Futuro, indipendenza, apertura, giurisdizione. L’ Associazione Nazionale Forense partecipa al Congresso di Catania con i suoi delegati e le sue mozioni sull’avvocato dipendente, le società tra avvocati, il nuovo processo civile. Partecipiamo consapevoli, senza fasciarci la testa e senza coltivare particolari illusioni, forti delle esperienze dei precedenti congressi e di quanto il mondo reale, il legislatore e la politica hanno inciso e possono ancora incidere favorevolmente sulla professione; indipendentemente dagli esiti dell’appuntamento siciliano, l’impegno nel portare avanti un’idea di giurisdizione e professione continua. Aggregazioni professionali, multidisciplinarietà, nuove tecnologie e forme di organizzazione del lavoro: l’avvocatura è in continua evoluzione. Anche se aprirsi e innovare può essere rischioso,

diffidiamo di chi preferisce conservare, ignorare la realtà e spaventare. Abbiamo un’idea democratica, plurale e libera dell’avvocatura. Solo un avvocato libero e indipendente è in grado di svolgere in pieno il suo ruolo: garantire la tutela dei diritti delle persone ed essere custode della democrazia. L’ordinamento forense favorisce l’ingresso alla professione di avvocato, in particolare alle giovani generazioni, con criteri di valorizzazione del merito. Per questo, siamo contro le rendite di posizione e i privilegi corporativi: aprirsi alla qualità e al talento fa crescere tutta l’avvocatura. La giurisdizione rimane il perimetro principale entro cui si definiscono le funzioni e il ruolo dell’avvocato. Questo però non basta: l’avvocatura non deve rinnegare sé stessa ma adattarsi ai tempi con spirito critico e porsi come interlocutore necessario nell’individuazione delle risposte più idonee alle domande di giustizia. “Levate l’àncora; questa è la rotta, questa è la direzione, questa è la decisione”.

… ma io penso positivo…

… ma io penso positivo… 6

L’avvocato in Costituzione È il principale obiettivo della massima istituzione forense. Ad esso si affiancano le aspettative degli ordini circondariali forensi sull’esito della discussione infinita sulla loro natura giuridica, messa fortemente in discussione dall’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato e dai giudici amministrativi, e sul loro ruolo rispetto al presente e al futuro della professione. L’obiettivo è la riforma dell’art. 111 della Costituzione, con l’introduzione, dopo il secondo, di tre nuovi commi: il primo per ribadire che nel processo le parti sono assistite da uno o più difensori, salvo casi straordinari tassativamente previsti dalla legge; il secondo per ribadire che l’avvocato esercita in posizione di libertà e indipendenza; il terzo per ribadire che la funzione giurisdizionale sugli illeciti è esercitata da un organo esponenziale forense eletto nelle forme e nei modi previsti dalla legge. A ben guardare, la proposta in sé non contiene alcuna novità. Il diritto di difesa è assicurato dall’art. 24 della Costituzione, che è collocato nel contesto dei diritti individuali del cittadino unitamente ad altri diritti; indipendenza, libertà e funzione giurisdizionale, sono garantite da norme ordinarie vigenti. La novità, semmai, è nella forzatura volta all’introduzione di un interesse particolare, quello di una professione, nella seconda parte della Costituzione, che disegna l’Ordinamento della Repubblica sul principio della separazione dei poteri, e all’interno del suo titolo IV, dedicato ad uno dei tre poteri. L’ equilibrio che sorregge la Carta Costituzionale e che risponde ad interessi generali della collettività dovrebbe, cioè, essere stravolto dal riconoscimento di una figura professionale particolare, seppur importante (al pari di altre che trovano rispondenza in altrettanti diritti costituzionalmente garantiti). Sicuramente, nel tempo il ruolo dell’avvocato è mutato rispetto al sistema giustizia; tuttavia,

▲ Gigi Pansini con la delegazione di Confprofessioni dal Ministro Bonafede

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Il bisogno di coesione?

ANF è una risposta

ammirato la farfalla che gli girava attorno si rese conto che era rimasto senza il bruco per la sua lenza. Poco è stato studiato il costo sociale del leaderismo.

di Giovanni Delucca

La crisi dei corpi intermedi non è determinata dal venir meno della loro funzione, ma dalla perdita di identità. Il bisogno non è venuto meno, semmai è aumentato La inaspettata grande crisi e la successiva decimazione dei corpi intermedi si è fondata su un equivoco di fondo: che cioè l’elemento divenuto negativo fosse la loro esistenza o la loro necessità, e non già la trasformazione deteriore della loro natura, da strumento a fine. Proprio mentre venivano finalmente codificati nella Carta Costituzionale i nuovi comandamenti laici della adeguatezza, sussidiarietà e differenziazione nell’organizzazione dello Stato, il sentire diffuso circa le rappresentanze era proprio nell’opposto senso, di ritenere che organismi, che pur avevano costruito lo Stato, fossero divenuti improvvisamente inadeguati, inutili e, in definitiva, ormai tutti uguali. Va però detto che alla radice del populismo, del linguaggio dell’odio, di una diffusa violenza, per ora ancora per lo più verbale e scritta, è possibile intrav-

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vedere il venir meno di ambiti di ascolto, di formazione e crescita, di attesa e responsabilizzazione delle persone. I vecchi modelli organizzativi, basati su livelli di responsabilità, poi divenuti gerarchie, e su regole di organizzazione, poi divenute vuote liturgie, hanno cominciato ad andare in crisi nel momento esatto in cui la funzione apicale di un gruppo organizzato ha assunto un valore superiore alla struttura. Ce ne accorgiamo nel linguaggio comune, ormai al centro del palco sta il singolo e non la struttura. Segretari che si sono trasformati prima in Presidenti e poi in Leader non hanno cambiato solo il loro nome, ma hanno cambiato natura. E non tutti i cambiamenti sono positivi come ben comprese una mattina quel pescatore che dopo aver

Di certo la figura carismatica del profeta, di chi indica la via, è tanto fondamentale quanto rara. Ma pochi leader sono veramente guide e non tutti sanno dove andare. Quando un capo non percorre le distanze assieme alla sua gente, finisce solo per creare distanze tra sé e la sua gente. La tesi è che adesso abbiamo bisogno di pastori più che di profeti: che l’esigenza sociale non è quella di ammirare instancabili camminatori, ma è quella di mantenere unito un popolo.

Oppressi dalla cronaca, lontani dalla storia Se almeno in parte queste considerazioni si riferiscono alla cittadinanza, è chiaro che hanno a che fare pure con gli Avvocati, che della cittadinanza (forse non sempre consapevolmente) fanno parte. La particolare natura del mondo forense, peraltro, fa sì che i medesimi processi che colpiscono la società civile siano destinati a presentarsi ▲ Alighiero Boetti, Inaspettamente, 1987

anche tra gli Avvocati. Ma contemporaneamente molto tempo dopo, sia improvvisamente. Gli Avvocati, si sa, in questa epoca faticano a scrivere la Storia, perché sono oppressi ed attratti dalla Cronaca Oggi ci si lamenta di numerosi fattori, come la crescita del numero degli iscritti, il calo dei redditi, l’impossibilità di un agire unitario od anche solo organizzato, una certa irrilevanza politica ed una pessima immagine sociale. Spesso la presunta analisi socio-economica assume le sembianze del vecchio processo inquisitorio, incentrato sulla ricerca di un colpevole, piuttosto che sulla individuazione e rimozione delle cause, Quando il lamento sostituisce l’analisi, non ci si deve stupire che l’anelito al monologo sostituisca la dialettica e che alla sintesi sia preferito il proclama. Ognuno di noi conosce realtà nelle quali azzardarsi ad auspicare il dibattito o il confronto pare sia insolito e singolare come rappresentare al cliente di un professionista intellettuale la necessità di una riflessione. Elementi necessari e costitutivi - come il dialogo nelle realtà complesse o la riflessione per chi opera con la mente - possono forse essere educatamente tollerati, ma ormai faticosamente compresi in un contesto che si adagia su slogan e click. Eppure le esigenze che avevano dato luogo alla proliferazione dei corpi intermedi non sono venute meno, anzi. La crisi economica, la diffusa solitudine, le paure e l’alienazione, così sottilmente diffuse, dovrebbero richiedere all’individuo progredito di ricercare percorsi solidaristici e umanamente ricchi. Ma il popolo del ventunesimo secolo, come quello dell’esodo, ha trovato il suo nuovo vitello d’oro nel virtuale: nella finta amicizia e nella rete senza pesce: nella strana felicità di chi beve da solo e cena davanti alla tv. In questo quadro, che sarebbe ozioso descrivere

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Rappresentanza come professione e non più come servizio? La struttura burocratica e la rappresentanza che diviene quasi una professione stanno infatti rischiando di fare ammalare le istituzioni dallo stesso germe che ha colpito i corpi intermedi. L’istituzione è forte, ha il vaccino dell’autorità pubblica, ma non è immune da possibili vizi. Primo di tutti la lontananza e la autoreferenzialità, resa evidente dalle parole di chi ritiene che la rappresentanza istituzionale sia ormai una professione e non più un nobile servizio. Ma se davvero si ha a che fare con una “nuova” (?!) professione, è allora legittimo chiedersi se un ceto sociale può essere rappresentato da chi implicitamente non si riconosce più componente di quel ceto, ma solo da esso proveniente, e che fa della guida la sua nuova professione. Non c’è dubbio che ciò possa avere risvolti positivi, ma pure negativi. Tuttavia, il punto decisivo sembra essere che quella risposta non soddisfa la domanda e non allevia la sofferenza. Il superamento dell’assemblearismo unitario miraggio meritevole e mai sopito - non può stare, dunque, nell’autoritarismo e nel centralismo. La risposta è in una parola: coesione. Un corpo sociale è coeso quando ha in comune una struttura valoriale definita, esplicita e solida. Questo univa un tempo partiti e sindacati ed unisce oggi tifosi e fan. Si badi, non statuti, norme o leader, ma l’individuale accettazione di un senti-

re collettivo e il ritenere importanti, qualificanti e diversificanti i medesimi ideali. E come condividere ideali se non enunciandoli esplicitamente, se non sottoponendoli alla libera adesione di propri pari? Ecco il punto: la risposta alla frammentazione ed alla solitudine è la coesione e la coesione alberga nel mondo dei valori e nel dialogo tra pari. Non mai nell’istituzione e nell’autorità. L’istituzione ha indubbiamente una maggior vocazione a nutrirsi di coesione, più che a produrla. Non è una sorpresa che una libera professione intellettuale possa aver necessità di ritrovarsi sul piano valoriale e non solo su quello istituzionale.

nascono da soli, come dalla testa di Giove. Costruire un pensiero pubblico, infatti, richiede tempo e richiede persone! C’è la necessità che i rappresentati sentano che chi li rappresenta conosce, parla e interviene sulla loro vita, su qualcosa di vicino e concreto. Questo accade in ANF, dove le idee possono procedere se sono patrimonio di molti e possono essere patrimonio di molti se trovano condivisione nelle sedi e negli organi. Tra le persone, insomma! Dalle differenze prospettiche e dalla preferenza per uno sguardo dal basso si ha una visione plastica su certe sfaccettature del congresso forense di Catania, che tratterà anche di monocommittenza e di società. Molte parti dell’Avvocatura dubitano della necessità di intervenire in questi ambiti, se non ingranando la retromarcia, e vedono più rischi che opportunità. Come sempre al levar del vento si pensa prima ai muri che ai mulini. L’estate delle sciagure appena trascorse, però, con le crisi dei ponti e gli sciacalli che procacciavano incarichi insinceramente gratuiti a soccorsi in corso e feriti a terra, hanno fatto vedere come

L’associazionismo forense come necessità Questo approccio accenna il perché, oggi più che mai, l’associazionismo forense sia una necessità. Necessario è l’associazionismo tradizionale, quello con Segretari, e non con leader, dove le cose che vengono dette escono da una condivisione diffusa, basata su regole democratiche. Praticando cioè quel meccanismo virtuoso per cui chi rappresenta parla a nome d’altri sostenendo cose decise assieme e non già pretende che altri invece semplicemente aderiscano a pensieri che Alighiero Boetti, Ordine e Disordine, 1980 ▲

▲ Alighiero Boetti, Far quadrare tutto, 1979

temi la cui titolazione può appare lontana siano concreti e veri a chi a terra tiene i piedi. Che dire di coloro che svolgono il contenzioso in regime di monocommittenza per conto di chi ottiene incarichi con le medesime tecniche di chi vende materassi o divani? Si tratta di soggetti spesso con un unico cliente: in pratica si trovano alle dipendenze di società di capitali che svolgono intermediazione legale, che sono detenute da chi legale non è, e che, non essendolo, fa commercio dei diritti. Questa è la realtà! Non solo occorre tutelare chi lavora alle dipendenze di un collega, non solo occorre valorizzare laicamente tutte le forme di esercizio della professione che possono condurre a flessibilità ed opportunità, estendendo l’applicazione delle nostre regole ai soci di capitale. Occorre anche dare un giudizio di valore per combattere la possibilità che legali siano dipendenti di fatto di chi legale non è, e che l’attività di consulenza funzionale al contenzioso non possa essere gestita da chi non svolge la professione ovvero rispetti le medesime regole degli Avvocati. Occorre essere capaci di individuare i valori e di dare giudizi sulle situazioni, prima che le situazioni diventino norma. Per questo non servono liturgie o fasti, ma lavoro sul territorio, o ancora meglio, il lavoro sulle e con le persone verso la condivisione! E dire che la gente non si interessa alla politica non è un’esimente ma una grave pronuncia di condanna per una classe dirigente che ha volto lo sguardo per troppo tempo dal lato sbagliato. Proprio perchè la risposta è piccola, umile ed al livello delle persone che si mobilitano, si può dire che ANF è una risposta! Con lo sforzo di fare sì che gli impopolari valori delle regole, del confronto e della democrazia siano affermati con coraggio ovunque. Albus Silente disse ad Harry Potter che “non sono le nostre qualità a dire chi siamo, sono le nostre scelte”: noi scegliamo assieme ciò in cui credere!

Il bisogno di coesione? ANF è una risposta

Il bisogno di coesione? ANF è una risposta

oltre e per capire il quale, in fondo, ad ognuno di noi, basterebbe uno specchio, la risposta non può più essere verticistica. Non si tratta di fare l’Italia, ma di fare gli italiani! (ed il richiamo storico fa comprendere quanto si parli di cosa complessa e di non agevole risolvibilità). La tesi è che quella istituzionale non è una risposta efficiente né di per sé idonea a lenire il malessere.

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LEGAL ENGLISH CONTRACTS, COMPANIES, DISPUTE RESOLUTION AND HUMAN RIGHTS

Il corso di alta specializzazione che si traduce in nuove opportunità .

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Prescindere dal processo per scelta, non per necessità La giustizia forense, un'opportunità di Ana Uzqueda La flessibilità degli strumenti stragiudiziali permette di allargare il ventaglio di soluzioni delle controversie attraverso plurime strade, adeguate alla specificità dei singoli contrasti, che la logica del processo non può contemplare. In questa prospettiva, noi operatori del diritto dobbiamo seriamente chiederci se è possibile ritenere che la devoluzione della decisione al giudice come principale sistema per la composizione delle vertenze possa o debba costituire ancora l’unico fondamentale rimedio a disposizione del cittadino per ottenere il riconoscimento e l’affermazione dei propri interessi. Noi avvocati dobbiamo limitarci a rimettere la decisione ad un terzo, oppure possiamo utilizzare le nostre competenze professionali per trovare soluzioni autodeterminate a favore dei clienti? La grave difficoltà in cui si dibatte l’attuale processo civile è solo un problema la cui soluzione spetta solo ad altri? O anche noi giuristi abbiamo la possibilità di considerare la crisi come un’opportunità e adottare una posizione proattiva di fronte ad essa?

Come emerge dal rapporto Censis – Cassa Forense, il 71,6% dei cittadini ritiene che il sistema giudiziario italiano non sia in grado di garantire pienamente la tutela dei diritti fondamentali. Lo stesso rapporto rivela che nel corso degli ultimi due anni il 30,7% degli italiani ha deciso di non avviare un’azione legale a propria tutela. Ad aver rinunciato alla tutela giudiziaria di un diritto sono soprattutto le persone più istruite: il 36,3% dei laureati e il 31,1% dei diplomati, a fronte di solo il 15,7% di chi ha la licenza media. Tra le ragioni che hanno convinto i cittadini a non farlo, il 29,4% indica il costo eccessivo della procedura e il 26,5% i tempi lunghi per giungere a un giudizio definitivo. Più contenuta è la percentuale di chi motiva la rinuncia con la sfiducia nei confronti del funzionamento della giustizia (16,2%) e con l’incertezza dell’esito finale (15,9%). Quattro parametri, ossia costi eccessivi, tempi lunghi, sfiducia nel sistema e incertezza dell’esito finale, rappresentano l’altra faccia, in negativo, dei principali vantaggi dei metodi stragiudiziali, che si caratterizzano per i costi contenuti e predeterminati, tempi brevi, autodeterminazione e controllo della soluzione finale. L’antitesi non dovrebbe essere, tuttavia, quella tra processo e metodi stragiudiziali, perché non si intende sostenere ovviamente la sostituzione del processo, bensì la diversificazione delle vie di accesso alla tutela dei diritti, la possibilità per i cittadini di appropriarsi delle scelte, e per gli avvocati di potersi districare all’interno di ogni sistema, saper consigliare al cliente la modalità più opportuna a seconda della situazione concreta, ed essere in grado di utilizzarle in maniera strategica. Otto anni di esperienza nella mediazione civile hanno dimostrato una maggior efficacia dell’istituto nelle materie in cui tra le parti ci sono rapporti interpersonali, di natura familiare, di vicinato, oppure di lunga durata, ma sempre

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con una componente importante di relazione interpersonale. Si evidenzia ad esempio una netta differenza nei risultati ottenuti nelle mediazioni riguardanti le controversie in materia successoria e nelle divisioni, nei patti di famiglia (nonostante il numero esiguo dato lo scarso ricorso al patto di famiglia in Italia), condominio e diritti reali, rispetto a quelli riscontrati nelle controversie relative ai contratti bancari, finanziari e assicurativi. L’importanza di mantenere l’obbligatorietà nonostante il buon funzionamento delle mediazioni relative al primo gruppo risiede nel fatto di poter

La negoziazione è alla base di tutti i metodi stragiudiziali Ma non possiamo e non dobbiamo limitarci solo alla mediazione. Alla base di tutti i metodi, stragiudiziali c’è la negoziazione. C’è da chiedersi quali siano gli ostacoli che possano trovare due bravi avvocati per identificare gli elementi oggettivi e soggettivi necessari per comporre una controversia al di fuori del tribunale. Se gli avvocati delle parti sono competenti, quasi sempre riusciranno a trovare una soluzione giuridicamente condivisibile.. Ad esempio, nelle controversie la cui soluzione dipende da una CTU, nulla impedisce agli avvocati di nominare un tecnico di comune accordo, identificato in base a parametri oggettivi e predeterminati, sia in sede di negoziazione diretta, di negoziazione assistita o di mediazione. Quando il problema è comunque arrivare ad una decisione anche dopo una perizia che abbia chiarito gli aspetti controversi, perché non utilizzare la perizia contrattuale quando ne ricorrono i presupposti? La perizia contrattuale condivide con l'arbitrato libero lo scopo di risolvere una controversia nel suo complesso, ma se ne differenzia per la natura della vertenza - tecnica nella perizia, giuridica nell’arbitrato (oltre che in alcuni casi per il costo). La perizia contrattuale si distingue anche dall’arbitraggio perché l’arbitro-perito non deve ricercare un equilibrio economico alla luce dell’equità mercantile, ma deve applicare norme tecniche e criteri tecnico-scientifici attinenti alla disciplina, arte o scienza attinente la valutazione che gli è stata affidata. Al fine di conservare il controllo sulla decisione, gli avvocati potrebbero determinare parametri per l’efficacia vincolante della perizia con-

trattuale, ad esempio stabilendo percentuali di discostamento rispetto alle loro posizioni (meglio se basate su una perizia di parte). Infine, si potrebbero abbinare più metodi stragiudiziali per garantire la possibilità di addivenire ad un accordo, con un procedimento controllato dagli avvocati e dalle parti. La difficoltà potrebbe consistere, in alcuni casi, nella soddisfazione dei contenuti emotivi del conflitto e delle aspettative dei clienti, nella gestione delle convinzioni non sempre razionali o dei risentimenti personali tra i configgenti. Sono questi i casi in cui la facilitazione del negoziato da parte di un terzo imparziale potrebbe costituire un valido supporto: uno scenario protetto in cui potersi confrontare sui diversi elementi del contrasto e adottare decisioni consapevoli garantite dalla presenza dei legali. L’esigenza di una degiurisdizionalizzazione risponde non soltanto a mitigare le gravi difficoltà in cui si dibatte l’attuale processo civile, ma anche e fondamentalmente, a dare una risposta diversa in un contesto sociale ed economico in cui i tempi e le esigenze dei cittadini e delle aziende sono sostanzialmente cambiati. Ammonisce Calamandrei che “la giustizia è fede nella giustizia”, ha bisogno della fiducia dei cittadini. Gli Italiani attribuiscono agli avvocati un ruolo attivo nella diffusione della legalità (27,4%), nel miglioramento della macchina amministrativa pubblica (22,1%), nella stabilizzazione dei rapporti di lavoro (20,3%) e nella tutela dei segmenti deboli della società (20,1%). Rispetto al tema della giustizia il 42,3% dei cittadini ritiene che gli avvocati possano svolgere un ruolo nel risolvere l’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari, il 27,7% glielo riconosce nella riforma del sistema e nei rapporti con la magistratura, l’11,1% per i costi d’accesso alla giustizia. Il Rapporto del Censis contiene anche un’indagine sull’autopercezione della professione secondo un campione di circa 10.000 avvocati. Nel 2016 il 44,9% degli avvocati ha subito un ridi-

mensionamento delle proprie entrate. Tra il 2015 e il 2017 è anche aumentata la quota di quanti prevedono un peggioramento, passati dal 24,6% al 33,6% del totale. In Italia ci sono 11 giudici ogni 100.000 cittadini e 391 avvocati ogni 100.000 cittadini. In che modo queste cifre possono diventare un valore e non come qualcuno ha osato sostenere, fonte ulteriore di conflittualità?

Le alternative possibili Di fatto, l’allontanamento dello Stato dalla giurisdizione pubblica e dal processo è ormai una realtà inconfutabile. E come accade con tutti i processi di cambiamento, si accompagnano o si abbandonano. Ma qual è l’alternativa per chi decide di abbandonarlo? E soprattutto, quali sono gli strumenti per contrastare il processo di degiurisdizionalizzazione? Le risposte a queste due domande non sono molto incoraggianti. Quali sono invece le opportunità nell’ambito della giurisdizione forense per l’Avvocatura? L’approccio negoziale, la giustizia al di fuori del processo, permetterà a noi avvocati di intervenire in maniera più attiva nella prevenzione dei conflitti dei nostri clienti, di gestire in maniera personalizzata la composizione delle controversie, scegliendo gli strumenti che di volta in volta riterremo più adeguati a seconda delle singole esigenze del caso, di riappropriarci di un ruolo più attivo nell’ambito della giustizia e di recuperare uno spazio per superare la percezione di impotenza nello svolgimento della nostra professione, di fronte ad un legislatore che ontologicamente non è sempre in grado di fornire soluzioni efficaci e tempestive. Proposte che possano sottrarre cause alla giurisdizione ordinaria non sono avversate dai giudici (anche perché non si tratta ovviamente di sostituzione bensì di diversificazione delle vie di composizione delle liti), ma sempre di più incoraggiate dallo stesso sistema giudiziario.

Prescindere dal processo per scelta, non per necessità

Prescindere dal processo per scelta, non per necessità

superare (venendo anche in aiuto degli avvocati che assistono le parti) le resistenze emotive che presentano inizialmente i contendenti a sedersi allo stesso tavolo.

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e degli altri sistemi stragiudiziali, ma soprattutto, di approcciarsi con curiosità e interesse a queste materie non tradizionali che ormai cominciano a formare parte dell’offerta formativa di molti atenei italiani. La giurisdizione forense, intesa come il complesso delle risorse, diverse dal processo, a disposizione degli avvocati per la definizione delle controversie, richiede necessariamente dall’attitudine dell’avvocatura a utilizzare i mezzi offerti dalla normativa vigente a favore del principio di autodeterminazione dei nostri clienti e della nostra libera professione.

Prescindere dal processo per scelta, non per necessità

La giurisdizione forense ha a disposizione una gran varietà di metodi e servizi: negoziazione libera, negoziazione assistita, mediazione, conciliazione, arbitrato, difensori civici, autorità garanti, arbitraggi, perizie contrattuali, abbinamenti tra i diversi metodi, oltre a tanti ancora non praticati in Italia ma plausibili senza bisogno di accoglimento normativo specifico. Vi sono ovviamente alcuni punti critici da superare. Forse il più importante riguarda la formazione, che richiama la necessità per l’avvocatura, di approfondire lo studio teorico e pratico dei diversi strumenti, di acquisire la padronanza delle tecniche di negoziazione, di advocacy mediation

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▲ Giustizia civile, testimonianze...


Prospettive di riforma del processo civile all’orizzonte ancora interventi spot prevedibilmente poco efficaci di Giampaolo Di Marco

L’attenzione del legislatore è da tempo concentrata sul contenimento della durata del processo civile e dei costi per il recupero dei crediti, nonché sull’opportunità di responsabilizzare maggiormente le parti, il giudice ed i suoi ausiliari nell’affrontare in maniera chiara e precisa le questioni controversie, senza adottare comportamenti dilatori o tattiche ostruzioniste. I settori normativi individuati per il perseguimento di tali obiettivi sono molteplici. Si riflette, in primo luogo, sulla possibilità di limitare rigorosamente i rinvii d’ufficio e su istanza congiunta delle parti, sovente motivati con la pen-

denza di trattative. Questa prassi, infatti, stona con l’art. 296 c.p.c., che attribuisce ai litiganti, quale strumento per porre in quiescenza il processo fino alla conclusione delle negoziazioni, la sospensione volontaria del giudizio, stabilendo, però, che essa può essere disposta una sola volta e, comunque, per una durata non superiore ad un trimestre. Al contempo, pare emergere una tendenza a favorire – ed a rendere obbligatorio in talune precise circostanze – l’impiego, da parte del giudice, delle sentenze parziali e non definitive, capaci di riconoscere alle parti una decisione, seppur solo frammentaria, con una tempistica sensibilmente inferiore alla durata del processo. Non può trascurarsi di considerare, in questo contesto, che una riforma processuale di tal genere, che, ad esempio, imponesse al giudice di pronunziare sentenze parziali o non definitive ogniqualvolta si presentasse una domanda liquida e di pronta soluzione, potrebbe comportare un notevole aggravio di spese a carico dei contendenti, se non altro perché l’attività legale e procuratoria del difensore sarebbe destinata ad aumentare e, conseguentemente, anche i corrispondenti crediti retributivi. È dubbio, peraltro, che un simile sistema possa davvero comprimere i tempi del giudizio, atteso che l’emissione di sentenze parziali o non definitive su questioni manifestamente infondate, tali da poter essere decise unitamente al merito, potrebbe favorire strategie dilatorie ad opera della parte verosimilmente in torto, motivata a proporre eccezioni pretestuose al solo scopo di segmentare e di rendere più tortuoso l’itinerario processuale.

Norme canzonatorie V’è il rischio, peraltro, che novelle legislative di questo genere si traducano in “norme canzonatorie” nella misura in cui l’eventuale violazione dell’obbligo normativo non 17


sto degli artt. 648, 649 e 283 c.p.c., nella parte in cui impediscono al giudice di appello di sospendere l’efficacia esecutiva del decreto ingiuntivo confermato in primo grado. La non revocabilità e modificabilità delle ordinanze ex artt. 648 e 649 c.p.c., infatti, sembra deporre a vantaggio del solo creditore e, comunque, pare attribuire all’opposto un trattamento preferenziale rispetto ai soggetti che rivendicano il credito con il giudizio ordinario, sottoposti al rischio che l’esecutorietà della sentenza di primo grado loro favorevole sia sospesa in appello. Desta invece più d’una perplessità la generalizzazione del rito del lavoro, non tanto per l’eliminazione delle memorie ex art. 183, 6° comma, c.p.c., quanto per la difficoltà per gli uffici giudiziari di espletare in maniera estremamente celere le attività istruttorie relative a tutti i ruoli. I riti che sorgono per materie specifiche difficilmente possono essere generalizzati alla pluralità delle materie. Dei vantaggi proverrebbero, comunque, dall’eliminazione delle udienze di prima comparizione e di trattazione, di ammissione dei mezzi istruttori e di precisazione delle conclusioni, nella prassi dotate di scarsa rilevanza sostanziale e spesso ridotte al compimento di meri formalismi. Potrebbe generare curiosità, poi, una rivisitazione delle ordinanze ex artt. 186-bis, 186-ter e 186-quater c.p.c., introdotte dall’art. 20 della L. 26 novembre 1990, n° 353 e prefigurate quali provvedimenti anticipatori. In realtà, il loro impatto è stato piuttosto limitato, in quanto: l’art. 186-bis c.p.c., presupponendo la mancata contestazione dei fatti generatori del credito ad opera della parte costituita, si presta ad applicazione soltanto in casi estremi o di errori difensivi; l’art. 186-ter c.p.c. trova sostanzialmente impiego nelle stesse ipotesi in cui il creditore avrebbe potuto chiedere ed ottenere il decreto ingiuntivo. Senza contare, poi, che, qualora il provvedimento d’ingiunzione non sia emesso in forma

esecutiva, l’unico vantaggio per il creditore è di trasferire sul debitore l’onere di coltivare il giudizio di merito per impedirne l’estinzione; l’art. 186-quater c.p.c. è utilizzabile soltanto quando il giudice ha potuto studiare approfonditamente la causa e ben difficilmente ciò è possibile non appena esauritasi la fase istruttoria.

Per le ADR il rischio di inutili sovrapposizioni Effervescente, inoltre, è la riflessione sugli strumenti di A.D.R., il cui numero tende a proliferare, senza che a ciascuno di essi sia attribuito una potenzialità idonea a distinguerlo dagli altri e, quindi, creando rischi di sovrapposizioni e di inutili complicazioni fra i procedimenti conciliativi. Si pensi, a titolo di esempio, alle controversie per il pagamento di somme non superiori ad € 50.000,00, che insistano su un danno da responsabilità professionale o su polizze assicurative: a voler applicare letteralmente l’art. 5, comma 1°-bis, del D.Lgs. 7 marzo 2010, n° 28 e l’art. 4 del D.L. 12 settembre 2014, n° 132, convertito dalla L. 10 novembre 2014, n° 162, parrebbe che l’attore sia tenuto, a pena di improcedibilità della domanda giudiziale, ad esperire tanto la mediazione civile e commerciale, quanto la procedura di negoziazione assistita, nonostante un cumulo di questo genere non presenti alcuna concreta utilità. Non meno opinabile è l’odierna configurazione della mediazione delegata che, a dispetto di una volontà legislativa di accelerare il percorso processuale, costituisce, non di rado, uno strumento a disposizione del giudice per ritardare la decisione e sollecitare i contendenti a comporre la lite anche in assenza di margini di conciliazione. La mediazione, nonostante alcune recenti e sterili recrudescenze polemiche sull’obbligatorietà, ha dato buona prova di se rispetto ai numeri delle sopravvenienze giudiziali e può certamente migliorare lo smaltimento del ruolo, migliorando la preparazione dei mediatori e crescendo la col-

laborazione del ceto forense. Vivo è anche il dibattito sull’utilità del giudizio di appello, che potrebbe essere rimosso, magari attribuendo alla parte soccombente il diritto di ricorrere in cassazione anche contro sentenze viziate da motivazione insufficiente o illogica. Anzi, è possibile rinvenire una serie di interventi riformistici che testimoniano la volontà del legislatore di conservare il doppio grado di giudizio di merito e, al contempo, di limitare il sindacato di legittimità alla sola ipotesi di contrasto fra i dispositivi assunti dai due giudici territoriali e sempre che la motivazione sia stata soltanto apparente. Depongono in questo senso le innovazioni di cui all’art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n° 83, convertito dalla L. 7 agosto 2012, n° 134 e, segnatamente: - il nuovo art. 360, 1° comma, n° 5), c.p.c., che consente il ricorso per cassazione sul fatto soltanto “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, ossia in casi ben più rari rispetto alla precedente versione, che lo permetteva “per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”; - l’introduzione dell’art. 348-ter, 4° e 5° comma, c.p.c., che vietano la proposizione del suddetto motivo di ricorso per cassazione nell’ipotesi in cui la sentenza di secondo grado abbia confermato quella di primo, ossia in ipotesi di cd. doppia decisione conforme. Sembra, quindi, che il legislatore abbia mirato principalmente a decongestionare la Suprema Corte di Cassazione civile, piuttosto che a velocizzare lo svolgimento dei processi innanzi ai giudici di merito. Non viene chiarito, poi, il motivo per cui, in un ordinamento basato sull’assoggettamento dei giudici alla sola legge, nel quale neppure agli arresti pronunciati dalle Sezioni Unite viene riconosciuta forza normativa, le sentenze emesse dal giudice di primo grado devono presumersi meno affidabili rispetto a quelle pronunciate in

Prospettive di riforma del processo civile

Prospettive di riforma del processo civile 18

venga sanzionato da parte del giudice se non con la labile minaccia di provvedimenti disciplinari. Più interessante, invece, è il rafforzamento e la responsabilizzazione del C.T.U., il cui compenso potrebbe essere maggiorato nell’ipotesi in cui riesca a convincere le parti al raggiungimento di un accordo conciliativo e, di converso, potrebbe essere sottoposto a trattamenti sanzionatori nel caso di ritardi oppure in ipotesi di deposito di un elaborato tecnico deficitario o viziato da errori manifesti. Analogamente, è condivisibile la propensione ad aumentare il potere dell’avvocato di autenticazione degli atti processuali, accompagnata dall’alleggerimento degli oneri formali per il rilascio della procura ad litem e l’estensione delle ipotesi di sanatoria con effetto retroattivo ex art. 182 c.p.c.: l’orizzonte potrebbe essere quello di mutuare l’esperienza di altri Stati occidentali, nei quali la costituzione in giudizio del difensore con la spendita del nome della parte si presume assistita da una valida procura, senza che sia necessario la produzione della stessa o l’indicazione dei suoi estremi. Il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, proliferato, ovviamente, con l’aumento degli inadempimenti alle obbligazioni nascenti da transazioni commerciali, potrebbe essere rivisitato nella sua struttura: così, all’ingiunto, al fine di evitare la definitività, potrebbe essere assegnato l’onere di notificare alla controparte, entro un termine estremamente ridotto, un atto di opposizione di carattere assolutamente generico, attribuendo al medesimo debitore la facoltà di articolare i motivi con una successiva memoria. In questo modo, il creditore potrebbe immediatamente agire in via esecutiva, senza attendere i 40 giorni, per il recupero di quei crediti che neppure l’obbligato ha interesse a contestare nell’an e nel quantum. Al riguardo, sono altresì sorti dei dubbi sulla legittimità costituzionale del combinato dispo-

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seconda istanza. Scarseggiano, inoltre, prospettive di rivitalizzazione dell’arbitrato, il cui ridotto impiego in un periodo di crisi e di stagnazione economica non può certo stupire, se non altro a cagione degli elevati costi ad esso connessi. Percorsi di formazione di aspiranti arbitri e creazione di istituti di conciliazione capaci di gestire i relativi procedimenti in modo economico potrebbero rappresentare due espedienti per la rivitalizzazione di un istituto capace di contribuire alla deflazione del contenzioso presso i giudici statuali. Altrettanto evanescente è la discussione in ordine all’imposizione alle parti dell’obbligo di indicare, all’atto della costituzione in giudizio, i loro beni prontamente liquidabili, allo scopo di permettere al soggetto che risulti titolare di un credito di soddisfarlo celermente tramite azione esecutiva su di essi. Infine, ormai dimenticata pare la cd. class action all’italiana ex art. 140-bis del del L.gs. 6 settembre 2005, n° 206, impiegata in casi estremamente rari e, comunque, esitata in provvedimenti favorevoli ai consumatori soltanto in controversie di rilievo economico estremamente modesto. D’altro canto, è noto che tale istituto, in assenza di un’esplicita e generale ammissione dei cd. danni punitivi, tende a risultare sconveniente sia per i titolari di crediti elevati, i quali sono ben più tutelati dall’azione individuale, sia per i titolari di crediti contenuti, che hanno scarso interesse a fruire di una giustizia estremamente costosa nella speranza di ottenere un ristoro modesto e soltanto eventuale. Sarebbe necessario, quindi, pensare a una riforma che sia processualmente utile e non politicamente conveniente.

Riforme a senso unico L’accorciamento del periodo di sospensione feriale è risultato infruttuoso ed anche inopportuno. Se l’intenzione era quella di contribuire in

tal modo a velocizzare il processo, le statistiche dicono che nessun reale giovamento se ne è tratto in termini concreti, anche perché stranamente sono stati ben pochi i magistrati che hanno fissato udienze nella prima metà del mese di settembre o che, dopo averle fissate, non le abbiano delegate agli onorari. Di fatto a patirne gli effetti è stata unicamente l’avvocatura, poiché la decorrenza anticipata dei termini processuali l’ha costretta ad operare anche nel periodo feriale. Analogamente va detto per quegli interventi che si sono limitati a limare in termini minimali taluni adempimenti istruttori o ad eliminarli addirittura, comprimendo anche il diritto di difesa, per guadagnare 10-20 giorni nell’ambito di un processo che dura ancora anni, e dunque da ritenere pregiudizialmente poco efficaci. Sarebbe ormai il caso che l’avvocatura cominci a pretendere, oltre al riconoscimento costituzionale, riforme che, nella reale ottica di ridurre i tempi del processo, non siano a senso unico, e dunque che investano sì il lavoro degli avvocati, da tempo sacrificati “sull’altare” della riduzione del loro numero e dell’eccesso di litigiosità, ma non trascurino quello dei magistrati, ad esempio facendo si che le sentenze vengano depositate in tempi certi, perentori, come pure avvenga la fissazione di udienze di precisazione conclusioni, tanto per citare i profili più lampanti. Del resto è noto a tutti, e non da poco, che il collo di bottiglia del processo civile è rappresentato dalla fase della decisione ed a memoria d’avvocato non è dato ricordare interventi normativi che abbiano inciso su questo fronte. I tempi potrebbero essere anche maturi, se è vero, com’è vero, che negli ultimi 7 anni le iscrizioni a ruolo nel civile sono scese del 37%, che gli avvocati sono 8.000 di meno, che il contenzioso sul fronte della giustizia civile insomma è in forte calo.


Diritto giurisprudenziale e giurisprudenza creativa c’era una volta la primazia della legge scritta di Andrea Noccesi Nel corso di studi per conseguire la laurea in giurisprudenza capita di sostenere l’esame di sistemi giuridici comparati e, nell’occasione, di apprendere che esistono paesi di civil law e paesi di common law. Com’è noto, nei primi vi è il primato della legge scritta, mentre nei secondi, a fronte di poche leggi scritte, il diritto viene creato dalla giurisprudenza tramite il metodo del precedente vincolante. Durante la pratica forense mi sono poi imbattuto, nella lettura degli atti di parte e delle sentenze, in innumerevoli citazioni di massime giurisprudenziali a sostegno delle tesi propugnate o accolte, e mi è stato spiegato che la giurisprudenza in Italia non scrive le norme giuridiche, ma le interpreta. Da qui la convinzione che in Italia sussistesse la primazia della legge scritta e che, soprattutto in tema di regole processuali, le norme cui fare riferimento fossero quelle scritte nel codice di procedura civile, all’interno delle quali parti, giudice e suoi ausiliari dovessero muoversi. Negli ultimi venti anni le norme procedurali sono state modificate svariate volte, con esiti non proprio altamente positivi, anche in termini di certezza del diritto, ma, negli ultimi tempi, a questo continuo lavorìo di cambia-

mento se ne è aggiunto un altro: la creazione (o la modifica) di norme processuali da parte della giurisprudenza. Ci viene spiegato che ciò discende dall’applicazione di una norma di rango superiore (art. 111 Cost.) sancente il principio del “giusto processo”, che determinerebbe la necessità di realizzare lo stesso in una ragionevole durata e sotto il profilo della giustizia della decisione. La cosa lascia più che perplessi. A parte il fatto che nessuno (credo) abbia mai teorizzato la necessità di un processo ingiusto, di irragionevole durata e conducente a una decisione ingiusta, il fatto è che, nel dichiarato intento di dare concreta attuazione ai suddetti principi, vengono cambiate (per via giurisprudenziale) le regole del gioco.

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Diritto giurisprudenziale e giurisprudenza creativa 22

Alcuni casi sono illuminanti. Ad esempio, contrariamente a quanto scritto nell’art. 269 c.p.c., la Cassazione (SS.UU. 4309/10) ha ritenuto che, salvo il caso in cui si debba integrare un litisconsorzio necessario, il giudice possa rifiutare la concessione al convenuto del termine per effettuare la chiamata in causa del terzo. Ancora, la Suprema Corte (Cass. 4767/16 e 13653/17) ha ritenuto che il giudice possa, qualora ritenga la causa matura per la decisione, rifiutarsi di concedere i termini per le memorie dell’art. 183, comma 6, c.p.c. A quanto sopra si aggiungono decisioni assunte da giudici di merito, di fatto non impugnabili, quali quelle adottate in tema di valido esperimento del procedimento di mediazione davanti a organismi di conciliazione, da taluno ritenuto esperito solo qualora le parti abbiano effettivamente aderito allo stesso e non si siano limitate a partecipare alla prima sessione (cd. informativa), come previsto dal combinato disposto dagli artt. 5 comma 2 bis e 8 comma 1 del d.lgs. 28/2010. E, per finire, ma non certo ultima quanto a importanza, è da ricordare la giurisprudenza della Corte di Cassazione in tema di sinteticità e (simultanea) autosufficienza del ricorso, in applicazione della quale, molte impugnazioni vengono dichiarate inammissibili. Vero è che, per cercare di mitigare alcuni effetti pericolosi per la tutela dei diritti delle parti, si è talvolta provveduto a redigere dei protocolli di supporto ai naviganti nella perigliosa operazione di condurre nel porto della decisione di merito la loro navicella senza farla incagliare nelle secche della reiezione in rito. Vi è però da segnalare che, se l’opera protocollare è utile e meritoria fintanto che la si adotti per integrare norme in bianco o per fornire interpretazioni il più possibile univoche di norme non chiare, altrettanto utile non pare qualora la stessa si spinga a sancire la modifica di norme giuridiche o addirittura ad avallare ipotesi di

inammissibilità non previste dalla legge. Sia chiaro: la critica alla giurisprudenza processuale creativa, non cela alcun intento di difendere condotte contrarie a quello spirito di collaborazione fra le parti che deve regolare il processo. A tutti è capitato di leggere (e talvolta di scrivere) atti poco chiari o inutilmente ridondanti, ma, a ben vedere, i veri danneggiati dalla poca chiarezza e dalla ridondanza del proprio atto dovrebbero essere, davanti al giudice attento, proprio gli estensori, che non riusciranno a rappresentare efficacemente le ragioni del proprio assistito. Per quanto ispirate da lodevoli intenzioni, le forzature operate dalla giurisprudenza alle norme procedurali codificate non appaiono condivisibili: se la parte ha agito o resistito in giudizio ottemperando alle regole procedurali scritte, è nel merito (e col regolamento delle spese di lite) che il giudice potrà “sanzionare” il ricorrente eccessivamente fantasioso o il convenuto meramente dilatorio, in tal modo operando in accordo a un altro articolo della Costituzione, non certo di minore importanza rispetto a già menzionato art. 111: l’art. 24 per il quale, fra l’altro: “Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi. La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento”.


L’ Avvocato in regime di monocommittenza

tema importante, da affrontare però nel più vasto contesto delle collaborazioni professionali di Francesco Mazzella Il XXXIV Congresso Nazionale Forense ha tra i suoi sottotemi quello relativo alla “analisi dei contenuti di un’eventuale proposta normativa concernente la figura del cd. avvocato monocommittente”. L’appuntamento congressuale rappresenta il momento iniziale di un pubblico confronto all’interno dell’Avvocatura su una tematica che, per molti anni, è stata trascurata o, meglio,

accantonata in considerazione delle significative ripercussioni che è in grado di produrre circa la visione “tradizionalista” dell’esercizio della professione forense. È il caso di evidenziare che le determinazioni che verranno assunte nell’assise congressuale non avranno alcuna implicazione diretta sulla disciplina ordinamentale in vigore, né sulle tutele da applicare ai rapporti di “collaborazione” tra Avvocati, ma potranno, legittimamente, rappresentare le proposte politiche che i soggetti di rappresentanza dell’Avvocatura potranno veicolare nel dibattito che andrà a svilupparsi con il mondo politico. Per queste ragioni la pluralità di opinioni, di proposte e punti di vista, su un tema così rilevante ma da poco tempo all’attenzione delle Istituzioni forensi, deve essere considerata un elemento di ricchezza per l’ Avvocatura italiana, dal momento che può consentire un confronto utile per l’individuazione delle soluzioni che meglio possano contribuire al miglioramento delle condizioni nelle quali viene svolta la professionale forense. L’  intendimento dell’Associazione Nazionale Forense è quello di assicurare al dibattito, congressuale e post-congressuale, il proprio punto di vista, frutto di un approccio laico verso le problematiche della professione e di attenzione alle caratteristiche della società moderna. Non vi è alcuna ragione, né tanto meno convenienza politica, a dover ricercare forzature di sintesi che, allo stato, apparirebbero soltanto idonee a snaturare il pensiero dell’Associazione ed a mortificare il tentativo di affrontare la tematica in discussione con un approccio sistemico ed, al tempo stesso, innovativo. E va da subito segnalata quella che può essere considerata una miope scelta politica ovvero quella di limitare il tema all’ordine del giorno del Congresso alla sola fattispecie delle “collaborazioni in regime di mono-committenza” in luogo

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Superare l’obsolescenza della dicotomia lavoro subordinato/autonomo Bisogna tenere in debita considerazione la tendenza legislativa che mira a realizzare “Tutele Universali per i Lavoratori”, favorendo quella transizione dal “diritto del lavoro” al “diritto dei lavoratori”, nel tentativo di superare l’obsolescenza della dicotomia lavoro subordinato/autonomo, anche in considerazione del diffondersi delle innovazioni tecnologiche e degli effetti che producono nel mondo del lavoro. Tra l’altro il contesto normativo, in perenne evoluzione, è stato scosso da recenti interventi legislativi, tra cui quello del D. Lgs. 81/2005, e dalle relative discussioni interpretative dottrinali

che non devono trasformarsi in mere dispute dogmatiche, ma consentire di realizzare quella finalità che una normativa giuslavoristica tende a realizzare, ovvero quella di sviluppare politiche che possano garantire la compatibilità tra l’affermazione dei principi di solidarietà, equità e giustizia sociale con i valori di un moderno sistema produttivo economico. Per farsi carico di questa finalità l’Avvocatura italiana deve abbandonare posizioni anacronistiche, di chiusura preconcetta a soluzioni normative già in essere per le altre professioni intellettuali, che ben si possono applicare alla professione forense attraverso un necessario percorso di adeguamento che tenga in considerazione le peculiarità della realtà forense e che necessità di appositi “spazi” regolamentari. Tale processo di adeguamento potrà incidere su tradizionali aspetti dell’esercizio della professione forense, così come su regole deontologiche attualmente in vigore, ma certo non intaccherà i principi cardine sui quali si fonda l’avvocatura, ovvero quei principi di libertà ed indipendenza che vanno declinati in modo coerente con una realtà della professione che si è già profondamente trasformata e che, oggi, sono messi in seria discussione dall’attuale assenza di qualsivoglia regola e di tutele. D’altronde, l’esperienza dei diversi paesi europei dimostra come i principi di libertà ed indipendenza tipici della professione forense siano compatibili con lo svolgimento della professione mediante rapporti di collaborazione di diversa natura sia essa subordinata che autonoma. Sotto altro profilo, per favorire la diffusione di tali rapporti e perché possano essere occasioni di crescita professionale, prima ancora che economica, appare opportuno lasciare all’autonomia delle parti la libertà di prevedere il grado d’intensità del rapporto tra “committente” e “commesso”, secondo le esigenze del caso, lasciando che l’applicazione delle tutele avvenga in considerazione della tipologia contrattuale che il concreto

atteggiarsi del rapporto e le effettive modalità di svolgimento della prestazione professionale determinerà. Sarà, infine, importante che la discussione, congressuale e post-congressuale, tenga in considerazione che il tema delle “collaborazioni” tra Avvocati risulta strettamente connesso con quello delle “aggregazioni professionali” e delle “specializzazioni”, che rappresentano tasselli di un puzzle che restituisce un nuovo archetipo dell’Avvocato moderno, che non ha trovato spazio nella Legge Professionale, ma che inesorabilmente avanza nella realtà e che, alla lunga, vincerà le resistenze di quella parte dell’Avvocatura che continua ad avere paura dei cambiamenti e del confronto con la realtà.

L’avvocato in regime di monocommittenza

L’avvocato in regime di monocommittenza 24

di una più ampia una riflessione sistemica sui “rapporti di lavoro” tra Avvocati. L’impegno dell’Associazione, pertanto, deve essere preliminarmente rivolto ad allargare la riflessione dal sottotema all’ordine del giorno del Congresso della “monocommittenza” al più ampio tema dei “rapporti di lavoro” tra Avvocati, tenendo presente che l’assenza di una disciplina ordinamentale ha consentito, in questi anni, l’instaurazione di diversi rapporti di collaborazione, caratterizzati da un diverso grado di intensità nel rapporto tra “committente” e “commesso”, che non rappresentano, necessariamente, fenomeni patologici da reprimere, ma in molte occasioni esperienze da preservare. Nel contempo l’Associazione Nazionale Forense è chiamata a far sì che il dibattito congressuale o, comunque, la discussione nel mondo forense verta su soluzioni in linea con le tutele che l’ordinamento prevede per i cd. “knowledge” e non tenda a rivendicare discipline speciali, incapaci di rappresentare efficaci forme di tutela. In proposito una serena riflessione sull’esperienza sia della Legge Professionale sia della disciplina relativa alla partecipazione del “socio di capitale” non professionista, dovrebbe spingere la governance dell’Avvocatura a comprendere che non sempre le discipline speciali rappresentano soluzioni adeguate a risolvere le problematiche della professione forense, ma possono rappresentare ulteriori ostacoli all’esercizio della stessa oltre che occasioni mancate per un’Avvocatura in difficoltà. Per questa ragione appare imprescindibile un’analisi del contesto normativo nel quale “i rapporti di lavoro” tra Avvocati si inseriscono, ovvero quel mondo del diritto del lavoro dove, in una fase di cambiamento epocale dei sistemi economici e produttivi, tenta di affermarsi un “cambio di paradigma” capace di incidere sulla morfologia delle tradizionali categorie concettuali del lavoro “subordinato” e del lavoro “autonomo”, pur di contemperare i diversi interessi in gioco.

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L’avvocato dipendente in regime di monocommittenza: quale il regime previdenziale applicabile? Una scelta non facile per il Congresso di Catania di Carmela Milena Liuzzi Alla fine meglio tardi che mai. Finalmente a Catania 2018, nel corso dei lavori del XXXIV Congresso Nazionale Forense, l’avvocatura italiana tenta di strappare il velo di ipocrisia rispetto alle modalità di svolgimento della professione forense, cominciando a discutere dell’avvocato cd. monocommittente. Discussione delicata e profonda, giacché va ad incidere su moltissimi colleghi, 30.000 scrive Cassa Forense1, ma io credo molti di più, in considerazione delle tante forme che la collaborazione può assumere, soprattutto nei piccoli e medi studi, e che fino ad oggi hanno esercitato la professione senza alcuna, ovvero con pochissime tutele. Non è facile fare una scelta su come disciplinare questa delicatissima materia, ma è certo che la trasparenza delle regole e l’attuazione di un semplice principio, quale quello della libertà di esercizio della professione, anche alle dipendenze, ovvero in collaborazione coordinata e continuativa, presso altro avvocato, sia il primo passo verso il miglioramento delle condizioni, anche economiche, di tanti di noi. È indubbio che le scelte che saranno fatte a Catania non potranno non influire sul sistema previdenziale, peraltro alla vigilia dell’insediamento del nuovo comitato dei Delegati che

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verrà designato dalle elezioni immediatamente precedenti la sessione Congressuale. Il primo nodo da sciogliere sarà certamente a quale sistema previdenziale sottoporre le figure professionali che andranno a delinearsi. Partendo dal dato normativo, il primo aspetto che va evidenziato è l’art. 21 della Legge Professionale Forense, che prevede l’obbligatorietà dell’iscrizione alla Cassa Forense contestualmente all’iscrizione all’albo. Va da sé che, laddove venga disciplinata una figura che

preveda il mantenimento nell’albo ordinario, la diretta conseguenza sarà l’obbligo di iscrizione alla Cassa Forense e alla contribuzione attualmente prevista dai regolamenti vigenti. Se tale soluzione è, a parere di chi scrive, perfettamente compatibile con la figura dell’avvocato che presta la propria attività in regime di collaborazione coordinata e continuativa, ma che non ha un regime di esclusiva con uno studio professionale, meno coerente appare invece per il cd. avvocato dipendente da altro studio professionale. Attualmente l’avvocato dipendente esclusivamente da altro avvocato è tenuto ad essere titolare di una partita IVA, al pagamento dei contributi previdenziali, in misura analoga al proprio datore, ma in considerazione della limitata possibilità di deduzioni e detrazioni fiscali, derivanti dal fatto di dipendere da uno studio in cui non sopporta alcun costo, anche in presenza di compensi professionali di una certa rilevanza, il peso della contribuzione fiscale e previdenziale erode in modo consistente il ricavo, nel mentre costituisce spesso un vantaggio fiscale per l’avvocato “datore di lavoro”, sia a fini IVA che in termini di imposte IRPEF. E, in mancanza, spesso, di tutele specifiche in ordine al preavviso di recesso e della malattia spesso, comporta per il collega “licenziato” dalla sera alla mattina un vero e proprio disastro economico, in caso di mancata ricollocazione, con condizioni economiche similari. Attualmente la disciplina generale in materia previdenziale per i lavoratori dipendenti prevede l’obbligo del versamento dei contributi previdenziali quale diretta conseguenza dell’obbligo assicurativo che sorge nel momento in cui le prestazioni di un soggetto (lavoratore) vengono utilizzate da un altro soggetto (datore di lavoro), con conseguente nullità di qualunque patto tra il lavoratore ed il datore di lavoro volto ad eludere gli obblighi relativi alla previdenza (cfr. art. 2115, comma 3 c.c.) e la contribuzione previdenziale ordinaria, pari al 33,00% della retribuzione lorda

o del compenso, prevede il 23,81% a carico del datore di lavoro (o committente) e il 9,19% a carico del lavoratore. La contribuzione previdenziale attualmente vigente nel sistema di Cassa Forense in relazione al reddito IRPEF dichiarato, è commisurata in una percentuale pari al 14,5%. Tale percentuale di contribuzione deve necessariamente essere coordinata con la previsione dei cd. contributi minimi, attualmente commisurati in € 2.815,00, a prescindere dal reddito dichiarato. Ciò comporta che il collega che sia titolare di un reddito pari ad € 10.000,00 di fatto si trovi a versare una contribuzione in percentuale doppia rispetto al collega che dichiari € 50.000,00 e che, non possiamo non evidenziarlo, tanti tra questi colleghi rappresentano figure di avvocato cd. dipendente, per l’effetto certamente sfavoriti dalla mancanza di regolamentazione della materia.

Urge una contribuzione previdenziale ad hoc Occorre allora immaginare una disciplina della contribuzione previdenziale per queste figure professionali che da un lato garantisca la permanenza nel mercato delle collaborazioni professionali, senza scoraggiare coloro che abbiano la forza economica di inserire nel proprio studio i collaboratori e al tempo stesso comporti una pressione previdenziale compatibile con una vita dignitosa. Un nodo preliminare da sciogliere è se il cd. avvocato dipendente da altro studio professionale debba rimanere o meno iscritto all’albo o se per tali figure debba prevedersi un elenco speciale. La scelta è fondamentale per le successive decisioni, in tema previdenza, se pensiamo ad esempio che gli avvocati iscritti negli elenchi speciali, in quanto dipendenti da Pubbliche Amministrazioni, non versano la contribuzione a Cassa Forense, ma è il proprio datore di lavoro che versa la contribuzione all’INPS. 27


L’avvocato dipendente in regime di monocommittenza: quale il regime previdenziale applicabile? 28

L’eventuale previsione di un elenco speciale degli avvocati dipendenti di altro avvocato, a mio parere, è strettamente collegata alla scelta se privare o meno l’avvocato dipendente dello ius postulandi verso propri clienti. In caso, infatti, di ius postulandi limitato alle questioni trattate dallo studio professionale da cui si dipende, e solo in questa ipotesi, non solo si giustificherebbe la necessità di creare tale elenco, ma il percorrere tale soluzione potrebbe giustificare la creazione di un secondo pilastro, all’interno del sistema previdenziale di Cassa Forense, con una previsione di contribuzione concorrente tra avvocato “datore di lavoro” e avvocato “dipendente” e con il mantenimento costante della possibilità di ricongiunzione e di cumulo delle contribuzioni, nel passaggio dall’una all’altra situazione professionale. Diversamente qualificabile il discorso per il collaboratore coordinato e continuativo che però non è sottoposto a vincolo di esclusiva con uno studio professionale. È fuor di dubbio, a mio parere, che la necessità di coordinare tale figura nel sistema vigente, non solo con l’obbligo di iscrizione contestuale albo/ cassa (Art. 21 comma 8 Legge 247/12), ma anche del possesso dei requisiti ex art. 21 comma 1 Legge 247/12, in tema di permanenza nella Albo, determini la necessità per tali colleghi, intanto di contribuire in maniera autonoma ed ordinaria a Cassa Forense.

Per tali ipotesi però potrebbe essere utile una riflessione in relazione a regimi fiscali diversi per le prestazioni in favore di altro collega, rispetto alle prestazioni professionali svolte per un proprio cliente che potrebbero, poi andare ad incidere sulla complessiva contribuzione previdenziale dell’avvocato che operi attraverso le collaborazioni professionali. Al Congresso di Catania, nel quale auspichiamo un dibattito, vero, senza preconcetti e con la volontà di cambiare davvero le regole del gioco, non sarà facile la scelta. L’avvocatura sta cambiando, anzi è già cambiata, solo che tanti, troppi di noi, rimangono ancorati ad una visione miope della professione, incuranti dei segnali che vengono da più parti, in relazione alla qualificazione del servizio professionale come impresa e, soprattutto, del grido di aiuto che proviene dai tanti giovani che non vorrebbero essere espulsi dal sistema e cercano libertà di scelta nelle modalità di svolgimento della professione, senza sottostare al giogo del più forte economicamente. Non tutto è perduto e, anche se con grande ritardo, l’avvocatura ha la possibilità di una ripartenza che le apra la strada della modernità e dando un futuro, anche previdenziale, ai tanti giovani che oggi non si sentono tutelati e avvertono una distanza incolmabile rispetto ad un sistema che pretende tanto, dando poco o niente.

NOTE 1. Previdenza Forense n. 1/2018 Liberi professionisti o dipedenti? I giovani avvocati fra indipendenza, collaborazione e salariato. Di Valeriano Vasarri

▲ Roma, la sede della Cassa di Previdenza Forense


Cassa Forense, migliorare le prestazioni pensionistiche, una possibile soluzione di Osvaldo Galizia I colleghi da cui pervengono lamentele e segnali di preoccupazione circa l’inadeguatezza degli importi dei trattamenti pensionistici che vengono erogati dalla Cassa di Previdenza Forense sono sempre di più. Il tema è serio ed assolutamente problematico, tanto è vero che non sono molti coloro che fin qui ci si sono cimentati. Anche perché, oltrechè impegnativo, l’argomento ha le sue indubbie ricadute sul fronte della politica previdenziale forense e, sotto elezioni, c’è sempre il rischio di incorrere in proponimenti non condivisi. L’eventuale adeguamento dei trattamenti pensionistici pone davanti a due scelte: la prima è quella di aumentare la percentuale del contributo soggettivo, il che, in un periodo di perdurante crisi economica, appare poco sostenibile ed ancor più impopolare. L’altra è quella di accrescere il montante contributivo attraverso la destinazione al montante di una parte del contributo integrativo e quindi senza alcun onere economico a carico degli avvocati. Tale soluzione è consentita dall’art. 8 del Dlgs 103/1996 come modificato dall’art. 1 della legge 133/2011 il quale statuisce che “la misura del contributo integrativo … non può essere inferiore al 2 per cento e superiore al 5 per cento del

fatturato lordo. Al fine di migliorare i trattamenti pensionistici degli iscritti alle casse … che adottano il sistema contributivo, è riconosciuta la facoltà di destinare parte del contributo integrativo all’incremento dei montanti individuali, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica garantendo l’equilibrio economico, patrimoniale e finanziario delle casse…”. Dall’analisi dei dati di bilancio del 2017 risulta che tale soluzione è assolutamente percorribile garantendo l’equilibrio economico, patrimoniale e finanziario di Cassa Forense, garantendo soprattutto le iniziative di assistenza messe in atto dalla Cassa con il nuovo regolamento per l’assistenza. Nel bilancio 2017 i contributi integrativi ammontano ad euro 542.465.218,52 con un incremento rispetto al 2016 dell’1,4%.

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Cassa Forense, migliorare le prestazioni pensionistiche, una possibile soluzione 30

Tali contributi vengono destinati al funzionamento della Cassa nonché ad interventi assistenziali. Sempre dai dati del bilancio 2017 i costi di funzionamento di Cassa Forense ammontano, complessivamente, ad euro 105.621.513 di cui: 19.628.503 per spese del personale 3.347.426 per compensi professionali 3.681.737 per spese organi amm.vi e di controllo 4.696.206 per servizi vari 106.767 per affitti passivi 220.883 per spese pubblicazione periodico 133.541 per materiali sussidiari e di consumo 495.466 per utenze varie 5.900.567 per oneri finanziari 1.786.274 per altri costi 63.028.984 per ammortamenti e svalutazioni 2.595.959 per oneri straordinari I costi per l’assistenza ammontano ad euro 63.279.560 e quindi il totale complessivo dei costi per il funzionamento e per l’assistenza ammontano ad euro 168.901.073 Pertanto, senza incidere sugli oneri di funzionamento dell’Ente e dei costi per l’assistenza, si potrebbe destinare almeno 1/4 del contributo integrativo (quindi l’1%) all’incremento dei montanti contributivi individuali che sono utili per il miglioramento delle prestazioni pensionistiche, senza che ciò vada a pregiudicare l’equilibrio economico, patrimoniale e finanziario di Cassa Forense, e soprattutto senza nulla togliere ai fondi destinati all’assistenza. Dai dati di bilancio del 2017 risulta che la quota che potrebbe essere destinata ad incrementare i montanti contributivi individuali ammonta ad euro 135.616.304 (542.465.218/4), che contribuirebbe nel tempo, soprattutto per i giovani colleghi, ad un significativo miglioramento del trattamento pensionistico, senza alcun onere economico a loro carico. Per il funzionamento dell’Ente e per l’assistenza residuerebbero euro 406.848.912, somma ampiamente superiore alle spese rilevate dal bilancio 2017, che ammontano complessivamente ad euro 168.901.073, con un residuo di euro 237.947.839 da destinare a patrimonio netto, attualmente di gran lunga superiore a quello richiesto dalla legge, come

attestato nella relazione al bilancio 2017. Altre Casse previdenziali dei liberi professionisti hanno destinato parte del contributo integrativo a montante contributivo individuale. Tra questi l’Inarcassa (ingegneri e architetti percentuale variabile), Enpacl (consulenti del lavoro 3%), Enpab (biologi 2%). Di qui la fattibilità, sostenibilità ed opportunità di destinare di parte del contributo integrativo, nei limiti previsti dalla normativa, a montante contributivo individuale. Quindi si auspica che il prossimo CdA di Cassa Forense affronti il problema e, attraverso le verifiche tecnico-attuariali, possa consentire un adeguamento delle prestazioni pensionistiche senza oneri economici a carico degli avvocati.


Al Congresso parliamo anche di reddito e fiscalità di Federica Mariottino

dal Sindacato Forense di Napoli spunti e riflessioni per integrare l’ o.d.g. di un evento “ingessato” Ho iniziato la mia esperienza nel mondo della politica forense convinta che fossimo una categoria di individualisti, con la mente ed il cuore degli uomini che conoscono le regole perché hanno contribuito a fondarle, modificarle ed applicarle, ma comunque riottosi ai cambiamenti. La crisi economica ha stravolto il sistema produttivo del paese, colpendo il ceto medio e, in particolare, i liberi professionisti, da sempre privi di protezione sociale. L’Avvocatura, contrariamente alla sua inclinazione di soggetto abituato al conflitto, è però rimasta ferma, avvolta in uno stato di torpore, pervasa dalla strana convinzione che lo status sociale che da sempre ha accompagnata la professione l’avrebbe protetta da quanto stava accadendo intorno. Le cose, invece, non sono andate così, la crisi si è abbattuta come uno tsunami anche sull’avvocatura, assolutamente impreparata ad affrontarla. L’inefficienza del sistema giudiziario,

la riduzione del contenzioso connesso all’aumento delle spese di giustizia, la revisione della geografia giudiziaria, l’eliminazione del sistema tariffario, la rilevante pressione fiscale, i nuovi costi per l’esercizio della professione previsti dalla Legge Professionale ed, in generale, il negativo andamento dell’economia nazionale hanno contribuito alla sensibile riduzione dei redditi, spingendo alla cancellazione dagli albi professionali di migliaia di avvocati.

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Al Congresso parliamo anche di redditi e fiscalità 32

La voce che grida tutto questo non è quella di un soprano o di un tenore, e purtroppo neppure quella di un coro, e ridotti sono gli spazi dove è possibile trasmettere questa sofferenza alle istituzioni forensi. Il Congresso, massima Assise dell’avvocatura italiana, in base all’art. 39 della legge 247 del 2012 dovrebbe svolgere anche questo compito, essere cassa di risonanza delle problematiche dell’Avvocatura, luogo di confronto e discussione alla ricerca di soluzioni alle problematiche del mondo Forense. Eppure il Congresso di Catania 2018, già nel suo titolo, “il Ruolo dell’avvocato per la democrazia e nella Costituzione”, mostra la distanza da questa realtà e non appare per nulla interessato a misurarsi con la crisi reddituale dell’Avvocatura, neppure fosse un qualcosa di cui vergognarsi. In realtà la vera vergogna è restare immobili dinanzi al dramma umano di colleghi costretti a cancellarsi dall’Albo, perché non più in grado di sostenere le spese previdenziali. Per queste ragioni il Sindacato Forense di Napoli ha intrapreso un’iniziativa concreta per cercare di porre all’attenzione della platea congressuale un tema di grande attualità, quello della pressione fiscale, oggetto dell’attenzione del Governo e della Politica, che prospettano una revisione del sistema impositivo dei redditi delle persone fisiche e delle imprese, nel senso di alleggerire il prelievo fiscale e, quindi, di creare quelle condizioni economiche necessarie per favorire la qualità delle prestazioni professionali. Una tematica di sensibile rilevanza per l’Avvocatura, che proviene dal territorio, dal basso, dall’attività dei Delegati Congressuali, che tenta di crearsi un proprio spazio di discussione nella “massima assise”, scontando tutte quelle difficoltà insite nel suo assetto statutario, in quelle regole che hanno ingessato, volutamente, il Congresso, mortificandone l’originale natura. Ed allora l’iniziativa partita dalla Delegazione partenopea, oltre che centrare un tema politico

rilevante, di attualità e con sensibili ricadute sulle condizioni economiche degli avvocati italiani, cerca di dare dimostrazione dell’esistenza di un’Avvocatura viva, che ha voglia di partecipare, di essere “protagonista del cambiamento” e non solo spettatore passivo, di scelte calate dall’alto, lontane dalle esigenze e dalle problematiche della classe Forense. Un’iniziativa che ha suscitato interesse e sostegno sia all’interno della Associazione che nelle Delegazioni territoriali e che, comunque vada, sarà un successo. E se a qualcuno manca il coraggio delle scelte ben vengano sempre gli impulsi provenienti dal mondo associativo, auspicandosene sempre più l’interpello per un confronto vivace e costruttivo.

Catania, il Monastero dei benedettini, sede del Congresso Nazionale Forense ▲


Ordine Avvocati Catania

CittĂ Metropolitana di Catania per informazioni: www.congressoforensecatania.it segreteria@ordineavvocaticatania.it


Una cosa divertente che non farò mai più notazioni semiserie di un delegato OCF di Franco Uggetti Sono stato il primo a stupirmi della mia elezione, per il Distretto di Brescia, all’interno della Assemblea dell’Organismo Congressuale Forense.

E ne avevo ottime ragioni. La mia candidatura era nata infatti un po’ per caso o per gioco (almeno da parte mia) e con dichiarate finalità di bandiera, per poi cominciare a prendere piede solo a fronte di una serie di veti incrociati tutti interni al mondo ordinistico della Lombardia. Il successo nell’elezione è poi stato il

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frutto dell’appoggio dei delegati distrettuali di provenienza associativa (perchè i risultati arrivano se le associazioni fanno rete tra loro !). Quando poi, ad elezioni avvenute, mi sono messo a scorrere l’elenco dei 51 eletti, mi sono reso conto di essere davvero un’anomalia in quanto uno dei pochissimi (due o tre) di derivazione unicamente associativa. Come noto, l’assoluta, totalizzante stragrande maggioranza di OCF è composta da Presidenti di Ordini, da Consiglieri dell’Ordine con l’aggiunta di alcuni (pochi) Colleghi con una passata esperienza nell’Organismo Unitario (anche la mia straordinaria, insostituibile, fantastica “compagna di banco” Melania Delogu, pur ANF al 100%, aveva fatto parte dell’OUA). Ma di questo diremo meglio tra poco. La prima fase è stata quindi dedicata a cercare di comprendere dove mai mi trovassi. Le differenze con il mio mondo e la mia esperienza (mi riferisco in particolare alla partecipazione al Consiglio Nazionale) mi sono state da subito del tutto evidenti: “differenze climatiche”, in primo luogo. Non che da noi non si discuta o, se del caso, si litighi, ovviamente, ma il tasso di divisione e di conflittualità, anche a livello personale, non ha davvero paragone o confronto. L’elezione dell’Ufficio di Coordinamento ha dato plastica dimostrazione di un OCF di fatto diviso in due come una mela (26 voti contro 24) e questa divisione di certo non si è sanata per molto tempo (ammesso che si possa dire davvero sanata o superata anche oggi), con una sorta di separazione tra “noi” e “loro” (con alcune mie perplessità sul “noi”). Superata la partenza, la prima fase che doveva essere dedicata allo start up di un Organismo del tutto nuovo è stata davvero estremamente complicata e sofferta. Un vecchio modo di dire afferma che nei rapporti vale sem-

pre “l’articolo quinto” (ovvero: chi ha in mano i soldi, ha vinto). Ignoro se all’interno del CNF tale proverbiale quanto cinica espressione sia nota o meno. Di certo per molto tempo in OCF non abbiamo avuto in cassa il becco di un quattrino e ci siamo trovati a dover operare senza una sede, senza un computer od un solo foglio di carta che non ci fossero messi a disposizione da parte di altri soggetti. Di fatto, quindi, eravamo del tutto bloccati e sotto scacco. Al netto del tono volutamente leggero e semiserio di questo mio scritto, resta evidente il fatto che il tema del finanziamento dell’organismo e della sua conseguente libertà, autonomia ed indipendenza è tema centrale e, a mio modo di vedere, non ancora risolto.

Asimmetrie e difficoltà È ovvio come questo ci porti ad affrontare il rapporto tra OCF e CNF: rapporto difficile e caratterizzato da un’evidente asimmetria (“Superior stabat lupus, longeque inferior agnus”) e fin troppo palesi, e per me non comprensibili ed ancor meno giustificabili, sensi di minorità se non di sudditanza, tali da aver spesso svuotato, frustrato o scavalcato quanto si andava discutendo e decidendo in sede assembleare. Una volta riempita un poco la cassa comune ed acquistata quindi una certa capacità esecutiva, OCF ha finalmente cominciato ad operare, pur tra molte contraddizioni e difficoltà. In questo periodo sono stati elaborati diversi documenti, si è riusciti a far entrare tra i temi congressuali argomenti caratterizzati da una indubbia rilevanza e concretezza (forse apparentemente meno “alti” rispetto alla costituzionalizzazione del ruolo dell’avvocato, ma indubbiamente di impatto concreto e sentito dai colleghi) e comunque cari a noi di ANF quali quelli sul processo o sugli avvocati che operano in regime di monocommittenza ed altri ancora. Si è anche cercato, almeno da parte di molti, di instaurare rapporti di collaborazione e di siner-

gia con le varie Associazioni; di certo, tuttavia, la costruzione di un rapporto non è facile e spesso ci si è dovuti scontrare con reciproche sospettosità e diffidenze (devo dire talvolta anche da parte della nostra Associazione) non sempre giustificate o giustificabili, oltre ad essere spesso poco generose o lungimiranti. OCF, oltre ad un ruolo troppo subalterno al CNF, sconta inoltre un rapporto eccessivamente stretto e squilibrato con il mondo ordinistico, di cui corre il rischio di essere una duplicazione o, peggio, uno strumento (ad esempio nelle mani del Coordinamento degli Ordini, che, a quanto pare, spesso si riunisce prima delle assemblee OCF per discutere sulle medesime questioni, con le ovvie ricadute che tutti comprenderanno, dati i rapporti in OCF ove la maggioranza assoluta è composta da Presidenti di Ordine). Se tra le cause delle difficoltà incontrate dall’OUA vi era il regime delle incompatibilità con la conseguente conflittualità con gli Ordini, ora con OCF si è caduti nell’eccesso opposto, con un organismo di fatto composto solo da Ordini. Se a questo si aggiunge il fatto che lo stesso Congresso Nazionale è pesantemente condizionato dalla componente ordinistica, mi pare evidente che si ponga un problema di non scarso rilievo, di cui farebbero bene a rendersi conto per primi gli Ordini stessi. A questo si aggiunge la questione, francamente stucchevole, della stessa natura di OCF come “mero esecutore”, qualsiasi cosa significhi questa espressione, dei deliberati del Congresso o, come a me pare più logico, di mandatario del Congresso e quindi con libertà di azione e di rappresentanza politica. Personalmente continuo a ritenere che per quanto attiene alla questione della rappresentanza, la soluzione migliore sia quella a suo tempo proposta da noi di ANF, ovvero mettere mano ad un intervento davvero risolutivo sul Consiglio Nazionale Forense, vero e proprio dominus, ci piaccia o meno, del quadro, con una sua radicale

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Una cosa divertente che non farò mai più …

riforma che ne garantisca la democraticità nell’elezione con al contempo una effettiva separazione interna dei poteri (sezione giurisdizionale separata dal resto). Il “sistema” OCF è quindi largamente imperfetto ed è augurabile che già a far tempo dal prossimo Congresso Nazionale di Catania si voglia lavorare sullo statuto per dare all’Organismo maggiore autonomia e maggiore funzionalità. Di fatto ad oggi OCF, per come è costruito, deve scontare non poche difficoltà operative, stretto tra una natura volutamente assembleare ed un “ufficio di coordinamento” decisamente sottodimensionato e privo di autentici poteri di leadership e decisionali. Nel frattempo, tuttavia, OCF è lo strumento che abbiamo per le mani ed è nostro dovere darci da fare per partecipare alla sua vita, per migliorarlo e per poterlo rendere uno strumento di democrazia utile alla avvocatura. Eventualmente anche per litigarci, ma nel merito dei singoli problemi e non per aprioristiche prese di distanza. Tutt’altro che perfetto, abbiamo detto. Ma è quello che abbiamo, qui ed ora, e ritengo che non si debba voltargli le spalle o pensare di poterne fare a meno.

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▲ Catania, Cattedrale di Sant' Agata

Da ultimo una osservazione personale. Alla fine restano e contano anche i rapporti personali ed in OCF ho avuto la fortuna di incontrare diversi colleghe (a proposito: scandalosamente scarsa la presenza femminile !!) e colleghi con i quali si sono instaurati rapporti di amicizia, di stima e di colleganza e che si impegnano davvero con generosità e spirito di servizio. A loro il mio abbraccio, il mio affetto e la mia gratitudine. Il mio incarico in OCF è terminato e non ho dato la mia disponibilità ad un nuovo mandato (la vicepresidenza di ANF mi basta ed avanza). Credo quindi che la mia esperienza, con i suoi alti ed i suoi bassi, possa essere efficacemente descritta con l’ironico titolo di un divertente libro del geniale e compianto scrittore americano David Foster Wallace: “una cosa divertente che non farò mai più”.


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L’inganno del diavolo ma gli avvocati ne sanno sempre una di più… di Cesare Piazza Quando è vocazione Riguardò e rigirò fra le mani ancora una volta quelle maledette carte che la posta gli aveva recapitato: e gli parve che davvero ormai stesse per toccare il fondo. È vero che due carte sgradevoli e sgradite, ancorché giunte insieme, potevano essere considerate uno dei soliti inevitabili guai della professione, ma per lui costituirono proprio la goccia che faceva traboccare il vaso. Eppure l’Agesilao Granocchini non era né uno sprovveduto né un fatuo minimizzatore di difficoltà: buon avvocato civilista – ma non ignaro di diritto amministrativo e di diritto tributario - aveva una solida base culturale e una approfondita pratica professionale. Aveva svolto il tirocinio presso il massiccio e canuto avvocato che da vent’anni presiedeva il consiglio dell’Ordine, e dietro sua raccomandazione, dopo l’eccellente esito dell’esame, era riuscito a farsi accettare come collaboratore nel mega studio di diritto civile amministrativo e tributario Anelli-Tondini-Rigiri & partners, dove gli avevano anche assegnato un tavolo in una stanzina in fondo al corridoio. Ma qui si era impantanata la sua carriera, iniziata sotto così luminosi auspici. Gli avevano detto: ti occuperai delle pratiche civili dei clienti di questo

studio, quelle più semplici le svolgerai da te, quelle più importanti le svolgerai sotto la direzione del capo-studio, e in cambio noi ti daremo, dietro tua regolare fattura, un compenso forfettario e onnicomprensivo mensile dal quale ovviamente detrarremo il 20% di ritenuta IRPEF. Beninteso, potrai assumere incarichi da clienti trovati da te soltanto previa valutazione e approvazione del capo-studio. Per un po’ di tempo la faccenda era andata benino: tutto sommato, per un giovane come lui, meglio che nulla…. Poi, pian piano erano cominciati i problemi, anche di coscienza, certamente. Che ci faccio io qui? Maneggio i diritti e gli interessi di persone che non conosco, nulla so delle loro vite, delle loro aspirazioni, dei loro intenti, li ho intravisti, sì e no, al momento della firma del mandato che poi non è nemmeno rilasciato a me ma ai mega avvocati Anelli-Tondini-Rigiri & partners. E comunque se mi fermo a questo punto non diventerò mai qualcuno, come invece era il

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Strada in salita In effetti, qualche pratica era arrivata: pignoramenti presso terzi, opposizioni a sanzioni amministrative, sfratti per morosità, consulenze richieste da petulanti condòmini avverso l’operato di obliqui amministratori (spesso pagate col fatidico GPO1 ), insomma quanto bastava appena per fronteggiare l’affitto, le utenze, gli aggiornamenti dei programmi del suo computer, le tasse professionali, l’abbonamento alle banche dati, eccetera. Gli erano pervenuti poi: una proposta di collaborazione con un’agenzia di informazioni commerciali, per patrocinare le pratiche di recupero dei crediti (spese rimborsate a piè di lista, onorari quali recuperati a carico dell’esecutato, se no niente); un invito dal comune di Strangolagalli di

partecipare alla gara di selezione di un avvocato per la fornitura generica di servizi legali per un anno al compenso a base d’asta di 180 (diconsi centottanta) euro lordi; una miriade di inviti a partecipare ad eventi formativi dai costi variabili fra 20 e 200 euro; e infine, una telefonata bonaria del suo maestro presidente del consiglio dell’Ordine, deprecante la collocazione dello studio in un fondo di negozio, ed esortante comunque a togliere l’insegna dalla vetrina, a scanso di sanzioni disciplinari. Due suoi giovani colleghi, ex compagni di università, gli avevano prospettato l’ipotesi di mettere insieme capacità e intelligenze, con le abbondanti risorse che sarebbero state fornite da uno zio (celibe, senza figli, e benestante) di uno di loro; e cioè in pratica di costituire una società a responsabilità limitata tra avvocati, col capitale interamente conferito dallo zio, socio per un solo terzo dei diritti, e non amministratore. Si sarebbe potuto così impiantare una dignitosa sede per lo studio e far fronte a tutti i costi iniziali (magari con il concorso di un finanziamento bancario garantito dallo zio). Si erano informati, presso un commercialista, presso il consiglio dell’Ordine, presso l’ufficio studi del Consiglio Nazionale Forense, presso la Cassa di Previdenza Forense; ma ne erano pervenute risposte dubbie, problematiche, pessimistiche, praticamente sconsiglianti. Gli era poi capitata un’occasione niente male: un anziano geometra, ben introdotto nel campo dell’edilizia e delle compravendite immobiliari lo avrebbe volentieri associato nelle sue attività, anche di intermediazione, con lo scopo di contattare i clienti, proporre schemi di contratti, raccogliere e verificare la documentazione del caso, gestire gli appalti dei lavori in corso. Dunque gli si proponeva un’associazione professionale multidisciplinare, che non pareva vietata da alcuna disposizione di legge. Era andato a informarsi presso un notaio, presso un tributarista, presso il Collegio dei geometri, presso il consiglio dell’Ordine: ma anzi, proprio da questo aveva ricevuto

un’allerta dissuasiva, non un gran che motivata, ma paventante un possibile contrasto con il codice deontologico. Tutte queste esperienze avevano cominciato a disanimarlo; e si domandava a che cosa avessero servito i suoi studi e i suoi entusiasmi per la professione. Aveva trovato una fidanzata tosta, coraggiosa e intraprendente, la quale con l’aiuto dei suoi genitori aveva messo su una piccola impresa start-up innovativa nel campo di impianti e manutenzioni termoidrauliche, caloriferi, condizionatori, autoclavi, e guadagnava assai bene, con pagamenti sull’unghia. Questa cosa, anziché provocargli compiacimento, gli aveva indotto un corrosivo principio di depressione, soprattutto vedendo con che spirito disinvolto e gioioso la fidanzata maneggiava il denaro, anche prestandoglielo volentieri nei momenti – non rari - in cui lui ne aveva bisogno. Per esempio quando, dopo aver eseguito con coscienza e intelligenza tutte le prestazioni dovute in regime di patrocinio a spese dello Stato, si sentiva dire che il pagamento dei compensi miseramente liquidati sarebbe avvenuto, se tutto andava bene, l’anno seguente.

Toccare il fondo Quella mattina, poi, la depressione gli era virata a furore compresso, perché quelle due carte che la posta gli aveva recapitato, un invito del Team verifiche e controlli dell’Agenzia delle Entrate al contribuente Granocchini Agesilao a presentare i suoi documenti contabili in quanto segnalato dal sistema automatico come “non congruo” rispetto agli studi di settore, e l’avviso della Cassa di Previdenza secondo il quale egli, pur avendo puntualmente versato i minimi contributivi, si era dimenticato la scadenza per l’invio del Modello 5 e quindi gli sarebbe stata inflitta una specifica sanzione disciplinare, quelle due carte – dicevo – che da un bel po’ girava e rigirava fra le mani gli avevano dato l’impressione di aver toccato il fondo. E nell’esaltazione parossistica del momento gli erano sgorgate amare invettive e imprecazioni: “…. maledetto me e il momento

che ho pensato di fare l’avvocato! Ma è possibile che uno debba inciampare sempre in ostacoli, impedimenti, strade in salita…. A che mi è servito studiare tanto, menare come vanto l’appartenenza al Foro, dedicarmi onestamente alla tutela dei clienti? E allora ditelo, che non mi resta altro che dare l’anima al diavolo per vedere se ottengo qualcosa!...” Urlava, e non se n’era accorto: così come non si era accorto di un brutto gatto nero con gli occhi gialli che lo guardava intenso dal pavimento, e chissà da dove era entrato. Appena lo vide, l’Agesilao s’infuriò ancora di più, e come se il gatto fosse un pallone gli sparò addosso una tremenda pedata. Ma…. dov’era più il gatto? Con una sorta di scoppio si era aperto un alone di fumo verdastro nel quale si era affacciato un brutto essere, cornuto e dal ghigno beffardo. “Agesilao, mi hai chiamato? Sono qui! Ho sentito che mi vuoi dare l’anima, da parte mia me la prendo volentieri; e tu che cosa vorresti in cambio? Lo sai che per le anime perse io posso tutto?” Il povero avvocato, dalla sorpresa e dallo spavento, non sapeva più che dire o che fare, era letteralmente annichilito. Balbettò qualcosa di banale o di insensato, mentre l’essere infernale gli stava davanti, fissandolo con occhi di brace, e insinuandogli: “Su, dimmi che cosa vuoi; vuoi fare la vita da nababbo, agi, lussi, donne, ville, palazzi, servitù; o preferisci avere un potere immenso su orde di schiavi proni ai tuoi ordini o desideri; o essere venerato dai popoli come un profeta saggio e chiaroveggente dispensatore di grazie; o essere un campione sportivo eccelso, adorato dai tifosi e pagato come un imperatore del Catai, capace di mobilitare le folle? Dimmi pure, scegli, la tua anima vale questo e altro…”.

Voglio fare l’avvocato L’Agesilao era annichilito, sì, ma qualcosa della sua primigenia scelta di vita ancora gli premeva il cuore: e tutte quelle proposte diaboliche gli parevano banali sciocchezze, enfasi da ciarlata-

L’inganno del diavolo

L’inganno del diavolo

sogno mio e dei miei genitori, gente modesta ma schietta, onesta, e desiderosa di promozione sociale. Insomma, siccome gli avevano detto che la nuova legge di ordinamento professionale era stata studiata apposta per favorire la promozione e il successo dei nuovi entrati nella categoria, non aveva dubitato che se avesse osato chiedere al suo capo-studio un maggior coinvolgimento nella gestione delle pratiche e nel trattamento dei clienti tutti lo avrebbero benevolmente aiutato. E infatti così era andata: lo avevano subito benevolmente aiutato ad andarsene, con tanti saluti e auguri. L’Agesilao ci era rimasto male, ma, di necessità, aveva subito cercato rimedio. Aveva preso in affitto da una vecchia merciaia messasi a riposo il suo modesto fondo di negozio, aperto però su un marciapiede di grande passaggio, e sulla vetrina ci aveva messo un’insegna invitante, aveva contattato tutti i vecchi amici di famiglia fra cui un pensionato ex cassiere di banca, aveva lasciato suoi biglietti da visita un po’ ovunque, e aveva spulciato attentamente tutti i bandi di concorso pubblicati dai vari comuni ed enti della zona per fornitura di servizi legali.

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complicazioni. Ciao, ci sentiamo.” L’Agesilao, all’improvviso, si accorse che nella stanza era solo, non c’era più traccia né del gatto nero né del diavolo, se non fosse stato un lieve sentore di zolfo che aleggiava impalpabile a rammentargli l’accaduto. Gli ci volle un bel po’ per riaversi, e per riflettere a quello che gli era successo; deliberò di non parlarne con nessuno e di fare conto che non fosse successo nulla: se era stato soltanto un brutto sogno, pazienza; e se invece era stata un’arcana realtà…. beh, non negò a sé stesso di essere anche davvero incuriosito di vedere come il diavolo, che millantava tanto potere, se la sarebbe cavata. Intanto però da quel giorno erano passati giorni settimane e mesi: e il diavolo non si faceva sentire. L’Agesilao cominciò a rimuginare cose anche abbastanza assurde, considerato il caso: preparare per salvare l’anima un’eccezione di inadempimento, calcolare un qualche risarcimento del danno per ritardato adempimento, sollevare un’eccezione di lesione ultra dimidium, eccetera. Appena il suo lavoro, condito di quotidiano affanno, gli concedeva qualche pausa, non poteva fare a meno di macerarsi lo spirito nel dubbio e nell’aspettativa. La situazione però stava degenerando: era diventato scorbutico con i clienti, insofferente con i magistrati, stizzoso con la fidanzata, antipatico a sé stesso e agli altri. Meditò come fare per intimare alla controparte di adempiere entro un certo termine sotto pena di risoluzione del contratto, e insomma, stava veramente andando fuori di testa.

La soluzione finale Fra una cosa e l’altra erano passati tantissimi mesi, e l’avvocato quasi quasi incominciava a pensare che quell’incontro diabolico non fosse mai avvenuto e fosse stato solo una sua immaginazione. Ma finalmente, una sera che aveva fatto tardi nello studio, pieno di bile perché il tribunale gli aveva dichiarato l’improcedibilità di una causa praticamente vincibile in partenza, perché lui

l’aveva fatta precedere da una media-conciliazione, anziché da una negoziazione assistita, un sibilo crescente in acutezza e un fracasso come di demolizione di pareti gli annunciò l’attesissimo evento. Nel solito alone verdastro comparve il diavolo in persona, eretto e meno caprino del solito, con un atteggiamento lieto ed entusiasta premonitore dell’annuncio di un trionfo. “Agesilao, tu non ci crederai, ma ho trovato la soluzione di tutti i problemi, e tu vedrai compiersi tutti i tuoi voti, a soddisfazione dell’intera categoria degli avvocati ed a magnificazione della mia illimitata potenza.” “Ma come hai fatto?” balbettò l’Agesilao sorpreso e stordito, e non ancora rimessosi dalla sorpresa. “Semplice – rispose il diavolo – i miei informatori mi avevano riferito di un grande, utopistico, progetto salvifico per tutti gli avvocati, risolutore di tutti i loro problemi, e allora io ho messo a disposizione di questo progetto i miei grandiosi poteri. E così ho inebetito e coartato la volontà di mille fra senatori e deputati, per il tempo e le occasioni di due deliberazioni conformi, e per questo ho dovuto farti aspettare tanti mesi ma ne valeva la pena, nevvero?, e ho fatto inserire la figura dell’avvocato e del Consiglio Nazionale Forense nella costituzione della Repubblica italiana. Ecco come ho risolto tutto, anche se la soluzione non è stata immediata. Sei contento Agesilao?” L’Agesilao era rimasto basito e di princisbecco: faticava a rendersi conto della congruenza di quel che il diavolo gli stava dicendo rispetto alle aspirazioni nelle quali si era identificato e alle quali aveva dedicato sogni e aspettative. Ma appena si riebbe, e cominciò a capire quello che era successo, la bile che già gli montava per altri motivi lo sommerse e straboccò, facendolo capace di investire il malcapitato diavolo di oscene e turpi invettive. “E tu saresti l’essere maligno più potente dell’universo? Ma fammi il piacere….... Tu sei un volgare truffatore e lestofante, che ti vorresti prendere la mia anima in cambio di una insignificante patacca! Ti avevo chiesto ben altro e più sostanzioso, ma avrei dovuto capirlo subito

che, siccome sei un manigoldo dedito al male, non avresti mai potuto realizzare nulla di buono né per me né per nessuno. E invece mi son lasciato convincere dalle tue maledette lusinghe, e tu mi hai preso bellamente per i fondelli! Escimi subito dai piedi e non farti vedere mai più!” “O bellimbusto – replicò stizzito il diavolo – io sono qui per prendere le anime, non per regalare situazioni e cose virtuose, oneste e dignitose. Quelle te le devi procurare da te: io, per mestiere, regalo solo vizi, turpitudini, scelleratezze, o illusioni ingannevoli. Anzi, ora mi dovresti ringraziare, perché mio malgrado ho fatto realizzare un progetto che non è una dannata porcheria, tutt’al più è solo un’illusione ingannevole, che però ha fatto contenta tanta gente. E ora basta, io ho fatto quel che dovevo, e mi prenderò la tua anima quando sarà il momento!” “No davvero, grandissimo furfante: uno non dà via la sua anima per niente, e tu niente hai fatto di quel che ti avevo chiesto. I problemi miei, e dei miei colleghi, sono rimasti tutti tali e quali, alla faccia dei tuoi immensi poteri! E va bene, ce la sbrigheremo da soli; ma tu non immaginarti di prendermi l’anima, perché al momento opportuno…… ci saranno pure degli avvocati bravi al mio letto di morte, che ti eccepiranno la tua ignominiosa vendita di aliud pro alio. E ora vattene via per sempre, addio.” Il demonio, udito quell’”addio” – inteso come “a Dio” – arretrò schiumando di ribrezzo, e sparì in uno schianto sulfureo urlando: “Eppure me l’avevano anche detto che gli avvocati ne sanno sempre una più del diavolo…!”

NOTE 1. Grazie Per Ora

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no, iperboli per acchiappare i gonzi. Chissà da quale profondo recesso della coscienza gli venne il coraggio per dire: “Ascolta diavolo tentatore, io sono un avvocato, so fare l’avvocato e voglio fare l’avvocato come mi è stato prospettato e promesso a suo tempo; voglio essere considerato dai clienti, stimato dai colleghi, temuto dagli avversari, e rispettato dai magistrati, in ragione della mia capacità e onestà, voglio ricavare dalla mia onorata professione un onorevole compenso che mi faccia vivere non dico da ricco sfondato ma almeno da agiato benestante, voglio essere considerato degno di stima e di considerazione in ogni ambiente sociale. E soprattutto voglio che nessun avvocato, specialmente se giovane avvocato come me, debba più avere intralci, esclusioni, limitazioni assurde, incompatibilità arcaiche, complicazioni burocratiche e procedurali, ricatti dei potenti, e vessazioni da parte dei vecchi notabili, codini e bacchettoni forensi. Chiedo troppo?” Il diavolo, preso così in contropiede, si era intanto appoggiato allo stipite di una porta, e si lisciava la barbetta caprina con fare perplesso. Per lui era una situazione inattesa, e gli rodeva il fatto di dover ammettere di essere in qualche difficoltà. “No – disse – non chiedi troppo, vista anche l’immensità dei miei poteri. Ma vedi, caro Agesilao, il catalogo ormai sperimentato delle richieste di coloro che mi danno l’anima è quello che ti ho snocciolato prima, e per quelle cose sono organizzatissimo: ma quello che mi chiedi è cosa decisamente fuori catalogo e bisogna che ci pensi su un momentino. Fra l’altro, mi pare che si debba andare a toccare una situazione piuttosto, come dire?, complessa, perché mi hanno detto che voialtri avvocati siete più di duecentomila e che i magistrati e la gente in generale ce l’hanno con voi a morte, non si capisce perché. Facciamo così: intanto rimane fermo il nostro contratto, tu mi hai dato l’anima, ed io in cambio ti darò quello che mi hai chiesto. Però, abbi pazienza per un po’ di tempo, perché devo trovare la soluzione giusta che funzioni subito e bene, senza troppe

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DDL Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione: inadeguato il modello sanzionatorio di Donata Giorgia Cappelluto

l’applicazione del DASPO nella Pubblica Amministrazione In adempimento del c.d. contratto di Governo siglato dalla Lega e dai Cinque Stelle, il Consiglio dei Ministri ha approvato in data 6 settembre u.s. lo schema del disegno di legge denominato “Misure per il contrasto dei reati contro la Pubblica amministrazione” preannunciato lo scorso mese di agosto. Secondo le previsioni “politiche” il disegno di legge doveva perseguire i seguenti obiettivi: l’aumento delle pene per tutti i reati contro la pubblica amministrazione di tipo corruttivo (per i quali debbono essere preclusi gli sconti di pena mediante un sistema che vieti l’accesso a riti premiali alternativi) DASPO per corrotti e corruttori con interdizione dai pubblici uffici introduzione dell’agente sotto copertura e provocatore per favorire l’emersione di fenomeni corruttivi1 rafforzamento delle tutele per il whistleblower2 potenziamento nell’utilizzo dell'intercettazioni. Il Ministro della Giustizia, Bonafede, presentando il disegno di legge in questione ha dichiarato, con estrema

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soddisfazione e orgoglio, che il testo approvato è lo strumento per attuare una rivoluzione alla lotta alla corruzione in coerenza con la scheda tecnica pubblica sul sito del Ministero. Al netto dell’enfasi di talune espressioni e della terminologia giuridica impropriamente utilizzata, giustificate - si fa per dire - per ragioni evidenti di immediatezza della comunicazione del messaggio o dello slogan di propaganda del

momento, il giudizio complessivo che ne deriva, all’esito della lettura dello schema di legge, è invero negativo e, in aggiunta, tradisce le aspettative degli operatori del diritto. Il complesso delle norme approvate, ancorchè suscettibili di ulteriori interventi correttivi su cui non resta che fare fiducioso affidamento, ha il grave limite di impostare la lotta alla corruzione rafforzando l’impianto repressivo tipico del contesto istituzionale e normativo italiano. Tale modello mira tradizionalmente a contenere gli episodi di corruttela affidandosi alle funzioni giurisdizionali e di controllo della magistratura contabile, nonché al ruolo preponderante di “supplenza” del giudice penale, in assenza di presidi organizzativi e amministrativi basati sulla prevenzione degli episodi di malcostume volti a scoraggiare ed impoverire la fertilità dei “terreni di coltura” dei reati contro la Pubblica amministrazione3. Come la storia giudiziaria degli ultimi decenni dimostra, il modello è inidoneo a contenere fenomeni degenerativi di mala-amministrazione. In proposito studi, condotti dall’Anac4 e di tipo internazionale, dimostrano che solo approntando la costruzione di un sistema di prevenzione della corruzione, ovvero di misure volte a codificare trasparenza, incompatibilità e codici di comportamento, di cui i piani di prevenzione (PTPC) e l’Autorità Anticorruzione sono una esemplificazione, è possibile condurre efficacemente la lotta alla corruzione . Cionostante il disegno di legge, contrariamente a quanto preannunciato, non ha potenziato le tutele del whistleblower, ovvero del dipendente pubblico che denunci condotte illecite apprese nel contesto lavorativo nell’interesse dell’integrità della P.A. (secondo la previsione di cui alla l.190/2012); la disciplina (whistleblowing),ha avuto invero scarsi risultati sul piano della prevenzione, proprio a causa della carenza di tutele effettive invero non approntate a suo favore. Benchè pacifico che il whistleblower sia soggetto

intraneo per definizione alla P.A. e quindi possa risultare più efficace, in punto di prevenzione almeno in astratto, a contrastare la pratica sociale della corruzione, qualsivoglia “agente sotto copertura” – opzione scelta dal nostro legislatore a scapito “dell’agente provocatore”- non può che operare solo al momento della repressione. L’ufficiale di P.G., sotto copertura, carente di necessaria dimestichezza a muoversi nelle pieghe e zone grigie della burocrazia, non può che operare nell’ambito di specifiche operazioni di Polizia Giudiziaria autorizzate al solo fine di acquisire elementi di prova5; precisazione da cui deriva che il ruolo assegnato all’agente sotto copertura è servente rispetto alla funzione, esclusivamente repressiva, riservata al giudice penale in tema di corruzione .

Il metodo resta quello repressivo In sintesi, anche il nuovo Governo ha perso l’occasione per “rivoluzionare” l’impianto normativo preesistente e la lotta alla corruzione, non avendo spostato l’asse del proprio intervento dall’area repressiva a quella più efficace della prevenzione, come sollecitato da più parti al sistema politico. In questa ottica, oltre ad aver inasprito le pene per i reati contro la P.A., in alcuni casi con la conseguenza indiretta di allungare i relativi tempi di prescrizione (per effetto dell’art. 157 c.p.), ovvero consentire il ricorso alle intercettazioni telefoniche, ha inasprito altresì, in modo discutibile, anche le sanzioni accessorie con particolare riguardo all’interdizione dai PP.UU., temporanea e perpetua (impropriamente appellata “DASPO”). L’intervento del legislatore sul modello sanzionatorio non può essere condiviso; merita anzi di essere contrastato duramente nel corso del suo iter parlamentare, in quanto introduce “deroghe” all’applicazione della disciplina ordinaria in tema di riabilitazione, sospensione condizionale della pena e durata di fatto sine die delle sanzioni accessorie di dubbia legittimità costituzionale . 47


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In particolare, la sanzione accessoria dell’interdizione perpetua dai PP.UU., che deriva dalla condanna definitiva a pena detentiva superiore ad anni due di reclusione, non può essere neutralizzata neanche in caso di riabilitazione; neppure dopo molti anni dalla condanna (peraltro espiata); tale previsione appare francamente in contrasto stridente con la funzione rieducativa della pena (art. 27), ancorchè volta a realizzare la definitiva espulsione dalla sfera della P.A. e conseguente morte civile del condannato. Il resto delle deroghe in precedenza elencate, al di là della dubbia efficacia dissuasivo-deterrente a commettere reati di corruzione, costituisce davvero un pessimo esempio di normazione importando un’evidente forzatura sistematica di istituti del codice penale (parte generale); le disposizione confezionate denotano poi una scarsa dimestichezza a muoversi nell’ambito delle categorie del diritto penale e processuale penale . L’idea di invocare l’istituto del DASPO davvero a sproposito, denota inoltre che questo legislatore ha inteso privilegiare le esigenze di propaganda anche a costo di sacrificare le esigenze di “certezza del diritto“ tanto predicate in passato! Come noto, la misura in questione è di per sé preventiva, rectius di prevenzione, non avendo natura di sanzione accessoria; pertanto, nell’ambito del procedimento penale la finalità del c.d. DASPO a carico dei corrotti e dei corruttori poteva essere soddisfatta già in precedenza mediante l’applicazione della misura cautelare interdittiva della sospensione temporanea dai PP.UU. di cui all’art. 289 c.p.p.; sicchè è evidente che del “DASPO”, almeno nei reati contro la P.A., non vi era alcun bisogno. L’istituto in questione, da ultimo modificato6, è stato congegnato per una tipologia di illeciti (le condotte violente negli stati) che alcun denominatore comune ha con i reati contro la P.A., sicchè l’auspicio è che il legislatore faccia tesoro dei moniti dell’Autorità Indipendente Anticor-

ruzione ed anticipi il momento della tutela del bene giuridico dell’integrità della P.A. in sede di disciplina e trasparenza dell’azione amministrativa, ovvero in epoca antecedente alla sua violazione o al momento della consumazione dei reati in questione. Che non si limiti, in modo miope, a concentrare il proprio intervento repressivo sulla patologia del fenomeno della mala-+amministrazione: è giunto il momento di spostare la prospettiva dell’intervento legislativo dal contesto patologico a quello fisiologico dell’attività della P.A. al fine di scongiurare la “privatizzazione” di fatto di risorse derivanti dal controllo di un potere pubblico, che sono poste sul mercato come merce di scambio o utilizzate impropriamente a fini privati, e tendere invece “all’applicazione imparziale delle regole dello stato di diritto”7 .

Note 1. Vd. In adempimento delle disposizioni ed impegni assunti con Convenzione di Merida; la Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall›Assemblea generale il 31 ottobre 2003 e aperta alla firma a Merida dal 9 all›11 dicembre dello stesso anno, è entrata in vigore a livello internazionale il 14 dicembre 2005. 2. il dipendente pubblico che, nell’interesse dell’integrità della pubblica amministrazione - elemento oggettivo della fattispecie - segnali al responsabile della prevenzione della corruzione dell’ente (individuato ex art. 1, comma 7, della legge n.190/2012) o all’Autorità Nazionale Anticorruzione o denunci all’autorità giudiziaria ordinaria o contabile condotte illecite o abusi conosciuti in ragione del rapporto di lavoro, non possa essere soggetto a sanzioni, demansionamento, 3. Rapporto finale ANAC 2007/2013 4. Autorità (indipendente) anticorruzione l.190/2012 5. Art.5 disegno di legge 6. D.l. 119/22 agosto 2014, convertito dalla l. 146 del 17 ottobre 2014 7. Rapporto finale ANAC 2007/2013 (Mungiu –Pippidi 2015)


Crisi del principio di legalità e nuovi assetti della giurisdizione penale dopo la legge n. 103 del 2017 1 di Fabio Cassibba Il tema in discussione pone dinanzi allo studioso del processo penale gli ampi scenari evocati dal concetto di giurisdizione, resi luminosi dal richiamo a nuovi principi fondamentali. Il senso di serenità restituito da quest’immagine viene, però, immediatamente turbato dall’aggettivazione: la “rivisitazione” del concetto di giurisdizione sembra alludere non tanto, in chiave denotativa, ad un mutamento di paradigma, quanto, in chiave connotativa, ad una torsione. Il primo suonerebbe positivo: basti pensare all’impulso evolutivo impresso alla normativa processuale dalla costituzionalizzazione dei canoni del giusto processo. La seconda suona fatalmente negativa perché richiama fenomeni involutivi: una giurisdizione che, sul fronte della tutela dei diritti fondamentali, ripiega su se stessa. Se così è, anche il riferimento alla creazione di “nuovi” principi fondamentali si colora di toni chiaroscurali: legislatore e giurisprudenza rendono protagoniste della scena tensioni efficientistiche e pragmatiche, destinate ad indebolire le tradizionali garanzie processuali penali. Un dato va immediatamente messo in luce. La “postmodernità giuridica” certifica la crisi in cui versa la concezione classica del processo penale, inteso come strumento di garanzia dell’im-

putato dal rischio di arbitrio dell’autorità giudiziaria, per impiegare il lessico della Corte di Strasburgo. S’indebolisce l’idea che l’accertamento della colpevolezza implica robuste garanzie per l’accusato e strumenti idonei ad assicurare la corretta ricostruzione del fatto: nel processo penale, la «caccia val più della preda» (Cordero), perché quello di procedura penale è il «codice dei galantuomini» (Carrara), dell’imputato presunto innocente. Oggi, tale concezione classica viene progressivamente - e pericolosamente - soppiantata da un’inedita funzione general-preventiva e special-preventiva che si pretende di assegnare al processo penale. Il diritto processuale sta cannibalizzando quello sostanziale, assorbendone gli scopi: non più «servo muto», ma «socio tiranno» (Padovani). Suona, dunque, inevitabile l’amplificazione del bisogno di efficienza della macchina processuale, normativamente coltivata a tutto discapito delle garanzie e mediaticamente enfatizzata, sin da momenti che persino precedono la formale iscrizione della notizia di reato. Si fanno strada, per l’appunto, torsioni concettuali e pragmatiche. Si assiste ad un’elefantiasi delle indagini preliminari, le cui risultanze – fisiologicamente provvisorie – vengono esibite come solidi punti di approdo in chiave accusatoria. Lo spostamento del baricentro procedimentale dall’ideale centralità del dibattimento alle indagini preliminari è evidente. Da qui, un paradosso: sul piano mediatico, delle indagini preliminari, avvolte dalle tenebre della segretezza interna ed esterna, tutto viene allo scoperto; sugli atti dibattimentali, illuminati dallo splendore dell’oralità, cala l’oblio. Il “bisogno di risultati” molto precoci, tranquillizzanti anche per la collettività, incide, poi, sulle tecniche d’indagine: legittima l’inflazione di mezzi investigativi invasivi, come le intercettazioni. L’assoluta indispensabilità del mezzo di

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▲ Roma, Corte di Cassazione

L’allungamento dei termini di prescrizione diviene, a sua volta, ulteriore volano che allontana dal soddisfacimento della ragionevole durata del processo. Prima ancora che condotte giuridicamente rilevanti degli organi procedenti, viene in gioco un fattore umano: per adempiere ad un certo compito si tende ad impiegare tutto il tempo di cui si dispone. Ingenuo, dunque, il legislatore, che allunga i termini di prescrizione per consentire al processo di pervenire ad una sentenza definitiva di merito. Naturale che, così facendo, gli organi procedenti si sentiranno ancor più legittimati a far avanzare i processi per i quali è più prossima l’estinzione del reato, con un ulteriore, surrettizio aggiramento del canone dell’obbligatorietà dell’azione penale. Anche su quest’ultimo versante, il quadro non è confortante. La necessità di gestire una mastodontica mole di notizie di reato – il rovescio operativo del panpenalismo esasperato (Fiandaca) del legislatore – agevola soluzioni pragmatiche, di volta in volta elaborate in seno alle procure della Repubblica. Evanescente la reazione del legislatore, che, sul piano ordinamentale, affida al procuratore della Repubblica e al procuratore generale presso la corte di appello la vigilanza

sulla corretta osservanza delle norme relative all’iscrizione della notizia di reato (art. 1 comma 2 e 6 comma 1 d.lgs. 106 del 2006). Manca un intervento volto a rafforzare il ruolo di garanzia del giudice per le indagini preliminari in rapporto al controllo sulla tempestività dell’iscrizione, previsto, oggi, solo per il procedimento a carico di ignoti ex art. 415 comma 2-bis c.p.p. Emerge prepotente la figura di un pubblico ministero sostanzialmente legibus solutus: circolari delle procure della Repubblica regolano l’iscrizione delle notizie di reato, lasciando l’osservanza del canone dell’esercizio obbligatorio dell’azione penale alle autonome ed incontrollate iniziative del titolare dell’accusa. Il giudice per le indagini preliminari rappresenta il “grande assente”: attualizzando le parole di Massimo Nobili, quel giudice ha occhi deboli (non vede tutto il fascicolo in sede di richiesta di proroga) e non ha, comunque, mani (non può retrodatare l’iscrizione della notizia di reato, facendo così scattare l’inutilizzabilità degli atti tardivi ex art. 407 comma 3 c.p.p.). La scelta legislativa di basso profilo di non dare centralità all’organo giurisdizionale - persino in contrasto con la proposta elaborata dalla Commissione Canzio, uno dei “padri nobili” della novella del 2017 – rischia di amplificare l’insofferenza verso il canone dell’obbligatorietà dell’azione penale. Certo, l’art. 112 Cost. nella prassi mostra sensibili crepe, ma proprio per ciò richiederebbe seri interventi rivitalizzanti da parte del legislatore. Si spiegano in tale cornice le linee di fondo della novella operata con la l. 103 del 2017. La ricerca di soluzioni processualmente economiche ed efficienti, capaci di assicurare, al contempo, la ragionevole durata del processo, è il leitmotiv espressamente proclamato nei lunghi e travagliati lavori preparatori della legge. “Efficienza” è ormai diventata parola magica, capace di schiudere ogni porta e di giustificare ogni intervento, facendo scattare un corto circuito concettuale, secondo cui efficienza, economia processuale e durata ragionevole si implicano

vicendevolmente. In realtà, quei valori non stanno e non cadono insieme. Ad ogni modo, in nome di esigenze economico-efficientistiche si sacrifica il diritto di difesa, la cui tutela è finanche scomparsa dall’intitolazione del d.d.l. consolidato. Va smarrendosi l’idea che la ragionevole durata abbia una natura sussidiaria rispetto al diritto di difesa (C. cost., sent. n. 317 del 2009; ord. n. 318 del 2008). D’altro canto, la novella racchiude – spesso – innovazioni prive di effettività. Emblematico il florilegio di “nuovi” termini, quasi mai perentori. Si pensi alle nuove cadenze del procedimento di archiviazione e a quelle, oltremodo complesse, oggi assegnate al pubblico ministero dall’art. 407 comma 3-bis c.p.p. per le determinazioni sull’esercizio dell’azione penale. Il legislatore è giustamente “ossessionato” dai tempi del processo, ma sembra incapace di dare corpo a una reazione efficace perché effettiva quanto alla repressione delle inosservanze da parte degli organi procedenti. La protezione della vittima è, poi, l’altra parola-chiave: l’irruzione nel processo di questa “nuova figura” reclama nuove forme di tutela, in coerenza con la direttiva UE/29/2012. L’ansia del legislatore per introdurre riforme in quest’ottica non porta ai risultati sperati: all’aumento, sul piano formale, delle prerogative della vittima non corrisponde un’effettiva tutela.

“Ottimi intendimenti, pessimo risultato”: ecco la cifra della L. n. 103 del 2017 Sul piano linguistico, da tempo, il «disordine lessicale» del legislatore (Vincenti) ha raggiunto un livello che rende arduo assicurare la legalità processuale e l’uniforme applicazione della legge. Scelte linguistiche poco sorvegliate amplificano la discrezionalità interpretativa e legittimano un largo impiego di soluzioni ampiamente creative. D’altro canto, ove la legge processuale è incerta, gli operatori si affidano a nuove forme di autodikia: fonte dei doveri degli organi procedenti sono vieppiù strumenti di soft law (circolari,

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ricerca della prova - presupposto codicistico in linea con il principio di proporzionalità nell’esercizio dei poteri d’indagine, ormai patrimonio consolidato della giurisprudenza della Corte europea – viene spesso aggirato: l’intercettazione tende a costituire il primo atto investigativo, senza che la giurisprudenza reprima tale prassi né che il legislatore vi metta freno. Anzi, la giurisprudenza a Sezioni Unite ha fatto da apripista per l’introduzione normativa di nuovi, subdoli strumenti di captazione, come il trojan horse. Altrettanto evidenti – e ancor più perniciosi – gli effetti in tema di libertà personale. La vicenda incidentale de libertate esercita una primazia su quella principale di merito: l’andamento del procedimento principale viene calibrato, nella prassi, sulle dinamiche cautelari (Zacché). Se la misura custodiale sta per perdere efficacia per decorso dei termini, s’imprime un’improvvisa accelerazione processuale per realizzare il passaggio di fase che legittima nuovi termini di custodia; viceversa, se la misura non è in procinto di scadere, il processo principale tende a languire. Si comprende, così, come l’irragionevole dilatazione della durata del processo vada di pari passo con l’allungamento dei termini di custodiali.

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di strumenti di soft law. In breve, la legalità processuale, intesa come esigenza di determinatezza e tassatività delle fattispecie processuali, viene svilita dal legislatore e, poi, erosa dalla prassi. Emblematica la nuova disciplina sui diritti informativi della persona offesa. La novella del 2017, con l’intento di completare il ventaglio delle garanzie informative e conseguentemente d’irrobustire la tutela della vittima, introduce l’art. 335 comma 3-ter c.p.p.: si assegna alla persona offesa l’inedito potere di chiedere informazioni «circa lo stato» del procedimento all’«autorità che [lo] ha in carico», alla duplice condizione che la persona offesa abbia presentato denuncia o querela e che siano «decorsi sei mesi dalla data della presentazione della denuncia, ovvero della querela». La persona offesa ambisce ad essere informata circa lo svolgimento delle indagini e delle attività compiute in un momento che precede la richiesta di archiviazione, mirando a colmare le asimmetrie informative tipiche della fase investigativa, al fine di depositare memorie o materiale probatorio volti a scongiurare un epilogo investigativo a lei sfavorevole. Ora, un musicofilo come me apprezza i silenzi ma i silenzi normativi stonano con lo scopo di dare effettività al diritto della persona offesa di essere informata sullo stato del procedimento. L’art. 335 comma 3-ter c.p.p. tace, ad esempio, sulle informazioni comunicabili dal pubblico ministero, diverse da quelle già considerate dall’art. 335 comma 3 c.p.p. D’altro canto, il pubblico ministero - fatta salva l’assenza di un dovere di comunicare alcunché “nel merito” delle indagini alla persona offesa - non è vincolato sul tenore delle risposte che è legittimato a fornire né al rispetto di un espresso termine per rispondere alla richiesta dell’interessato. In conclusione, il terreno normativo offre deboli segnali per orientare gli operatori, la cui condotta viene regolata dalle, già numerose, circolari delle procure della Repubblica, con un evidente limite: quand’anche reputate vincolanti per gli appartenenti all’uffi-

cio, sono intrinsecamente inidonee a garantire l’osservanza del principio di uguaglianza su tutto il territorio nazionale.

La ricerca dell’efficienza pervade tutta la novella Rapsodicamente, sono numerosi gli esempi in cui simile ricerca è attuata a scapito delle garanzie difensive, anche in tal caso attraverso l’introduzione di disposizioni dal forte contenuto simbolico. Si pensi, ad esempio, all’effetto sanante assegnato dal nuovo art. 438 comma 6-bis c.p.p. alla richiesta di giudizio abbreviato, con riguardo alle nullità diverse da quelle assolute e alle inutilizzabilità diverse da quelle derivanti dalla violazione di divieti stabiliti dalla legge, nonché all’indeducibilità dell’incompetenza per territorio. Al di là dell’approssimazione linguistica e del contenuto oscuro della sfera dell’effetto sanante (l’inutilizzabilità che non derivano da un divieto probatorio) – di per sé, capace di amplificare la proposizione di questioni processuali e ad appesantire così il giudizio – la previsione è più che fortemente sospetta di essere in contrasto con gli art. 24 e 25 comma 1 Cost. La scelta del rito è espressione del diritto di difesa: l’imputato non può essere posto nella condizione di scegliere il rito alternativo, abdicando, però, all’osservanza della legalità processuale, oppure di coltivare la deduzione di invalidità processuali o di ambire all’osservanza del canone del giudice naturale, ma solo nel rito ordinario; il rispetto della legalità processuale e probatoria non è interesse disponibile. Paradossalmente, la riforma – ispirata all’efficienza – rischia, poi, di realizzare un’eterogenesi dei fini: scoraggiare proprio la scelta del rito alternativo, ingolfando ancor più la già sovraccarica macchina dibattimentale. Si pensi, ancora, all’enorme espansione della partecipazione a distanza dell’imputato all’udienza, ai sensi del novellato art. 146-bis norme att. c.p.p. La sfera della previsione si estende ormai ben

oltre le ipotesi (considerate legittime dalla Corte costituzionale e dalla Corte europea) collegate alla necessità di tutelare gravi ragioni di sicurezza che, sole, possono giustificare la compressione del diritto dell’imputato di partecipare personalmente al processo dinanzi al proprio giudice. Anche qui, evidenti i dubbi di legittimità costituzionale: il bilanciamento del legislatore è stato, irragionevolmente, spostato a tutto vantaggio del soddisfacimento di esigenze efficientistiche e a discapito del diritto di difesa. Anche la reintroduzione della rinuncia concordata ai motivi d’appello ex art. 599-bis c.p.p. si pone in linea col primario soddisfacimento di esigenze di efficienza, attraverso lo sfoltimento delle impugnazioni. Di per sé, l’istituto è espressione della disponibilità in capo alle parti degli strumenti impugnatori. Sennonché, preoccupa il ruolo dei criteri direttivi elaborati delle procure generali: il legislatore delega alla fonte non primaria il compito di fornire linee-guida intese a condizionare la condotta processuale degli appartenenti all’ufficio del pubblico ministero, anche nell’udienza. Da qui, non solo il contrasto con il principio liberale, di matrice costituzionale, espresso dall’art. 53 comma 1 c.p.p., per cui il pubblico ministero, in tale contesto, esercita le proprie funzioni «in piena autonomia». Anche in tal caso, negative le ricadute sul principio di uguaglianza: le già numerose circolari in proposito mostrano significative differenze contenutistiche da un distretto di corte d’appello ad un altro. Infine, non va dimenticato l’art. 618 comma 1-bis c.p.p., che assegna un’efficacia para-vincolante, nei confronti della sola giurisprudenza di legittimità a sezioni semplici, ai principi di diritto enunciati dalla Sezioni unite. Traspaiono tensioni efficientistiche, per deflazionare il carico di lavoro della Corte di cassazione; ma il significato della novella trascende qui l’economia processuale. La norma costituisce “segno dei tempi” perché espressione più piena dalla primazia del «diritto vivente» sul «diritto vigente» (Ferrua). Come acca-

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direttive amministrative, protocolli). Nonostante la crisi della tecnica di produzione delle leggi sia alquanto degradata, un prodotto legislativo tanto scadente è, però, davvero sorprendente e paradossale. Per un verso, il lungo e travagliato iter della novella e l’ampia messe di contributi e iniziative di studio che ne hanno accompagnato la discussione e l’approvazione parlamentare suggerivano – verrebbe da dire, imponevano – maggior ponderazione non solo nell’elaborazione delle disposizioni di nuovo conio ma anche nell’individuazione delle scelte di fondo. Per l’altro, l’espressa scelta dei lavori preparatori di codificare prassi giurisprudenziali consolidate offriva sì una base di lavoro ma avrebbe imposto di affrontare i nodi irrisolti e non di recepirle acriticamente. Si pensi, ad esempio, alla disciplina per molti aspetti “lacunosa”, introdotta dalla l. n. 103 del 2017 in materia di reclamo avverso al provvedimento di archiviazione ex art. 410-bis c.p.p., uno dei prodotti normativi più innovativi, ma – al contempo – uno dei meno riusciti. Il legislatore abdica al proprio ruolo, ponendosi in una posizione sussidiaria rispetto alla giurisprudenza: un’autentica «legislazione giurisprudenziale» (Marafioti). Sul piano contenutistico, il legislatore fa largo impiego di disposizioni-manifesto: previsioni “di scopo”, più tipiche di una direttiva europea che di un testo di legge, incapaci di guidare in modo stringente gli operatori, volte più che altro – in chiave simbolica – a “tranquillizzare le coscienze”. Proprio in quanto previsioni di scopo, a basso coefficiente di determinatezza, queste ultime si caratterizzano negativamente per gli ampi silenzi: difetta una compiuta regolamentazione delle condotte dei soggetti processuali, invece indefettibile se è vero che la ratio delle norme processuali penali è limitare i poteri pubblici, consentendo la massima espansione dei diritti di libertà. V’è di più: la lasca regolamentazione costituisce il più robusto argomento per giustificare prassi giurisprudenziali creative e l’adozione

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de per i gli strumenti di soft-law, anche il nuovo art. 618 comma 1-bis c.p.p. ambisce a soddisfare un’ineludibile esigenza: colmare, attraverso l’intervento pretorio delle Sezioni unite, i deficit di determinatezza delle fattispecie legali e ad assicurare, così, la prevedibilità delle decisioni giudiziarie. Tutto ciò, però, realizza un autentico mutamento di paradigma nella giurisdizione: il canone della legalità in senso forte –un controlimite per dirla con la Consulta (Corte cost., ord. n. 24 del 2017) – viene eroso da una nuova forma di legalità, “debole” perché non saldamente ancorata alla legge e, conseguentemente, plasmabile perché lasciata all’agile creazione giurisprudenziale.

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Occorre tornare a ragionare in termini di sistema, principi generali, valori costituzionali del processo I guasti sistematici e l’impatto negativo della novella del 2017 sui principi fondamentali del processo e sul ruolo della funzione giurisdizionale mi paiono evidenti. Occorre che la giurisprudenza, gli avvocati e gli studiosi si riapproprino, ciascuno nei rispettivi ambiti, del proprio ruolo in chiave di garanzia dei diritti fondamentali e del canone della legalità. Sul versante giurisprudenziale, in un sistema in cui il giudice resta soggetto soltanto alla legge, ma alla legge è soggetto, il rimedio all’insipienza del legislatore non sta nel giudice “creatore di norme”. Piuttosto, va valorizzata la sua funzione di garante della legalità processuale: un giudice solerte e fermo sollecitatore dell’intervento della Consulta attraverso questioni di legittimità costituzionale. E qui il ruolo dell’avvocato nella società moderna è decisivo: parafrasando il pensiero di Piero Calamandrei, l’avvocato deve adempiere ad un ruolo sempre più propositivo al riguardo. Sul versante accademico, la dottrina deve tornare a perseguire una funzione guida: lungi dal limitarsi a esegesi ricognitive dell’esistente, strappando - a fatica – deboli norme di garan-

zia da disposizioni mal costruite e orientate da intenti meramente efficientistici, occorre che la dottrina - nuovamente, come nel ventennio che precedette l’introduzione del codice del 1988 – fornisca un «modello direttivo» capace di orientare il legislatore (Luzzati), non rassegnandosi alle incertezze della post-modernità giuridica e alla primazia assunta dal formante giurisprudenziale. In breve, occorre che ciascuno torni a ragionare in termini di sistema, di principi generali, di valori costituzionali del processo. Questa mi sembra l’unica risposta alla voce di Robespierre, tornata prepotentemente attuale, che nel processo contro Luigi Capeto tuonava: «voi invocate le forme perché non avete la sostanza!». Se non s’inverte la rotta, vedo profilarsi sensibili rischi nel medio e nel lungo periodo. Nel nostro assetto costituzionale, la legittimazione del giudice si fonda – e, aggiungo, deve continuare a fondarsi – sulla sua soggezione soltanto alla legge e, dunque, sulla rigorosa osservanza del principio di legalità, sostanziale e processuale. Avere consegnato nelle mani del giudice “creatore di norme” le «chiavi della legalità» (Mazza), rischia d’indurre alla delegittimazione del potere giurisdizionale, perché l’incertezza derivante dal moltiplicarsi di interpretazioni apertamente creative può generare una forte sfiducia dei consociati verso il giudice, perniciosa per lo Stato di diritto. Uno scenario che dovrebbe allarmare tutti.

NOTA 1 * Testo della relazione svolta nella sessione di lavoro del 25 maggio 2018 su «La rivisitazione del concetto di giurisdizione e la creazione di nuovi principi fondamentali nel processo civile e nel processo penale» - VIII Congresso dell’Associazione Nazionale forense su «L’avvocato in evoluzione. Un professionista indispensabile per il cittadino, l’impresa, la società, il Paese» - Palermo 27-24 maggio 2018.


Le specializzazioni forensi e i problemi della concorrenza in Europa di Giuseppe Amicarelli

il raffronto con la regolamentazione dei partner europei evidenzia la necessità di rivedere a fondo il regolamento emanato nel 2015

Alla fine dello scorso giugno, dopo le pronunce della magistratura amministrativa sui ricorsi promossi (fra gli altri e soprattutto) da ANF, via Arenula ha proposto le modifiche al Regolamento sulle specializzazioni. Si tratta di modifiche strettamente conseguenti agli annullamenti giurisdizionali della precedente versione della normativa: è stato modificato l’elenco delle materie di specializzazione, ma il CNF – cui le norme in questione vanno attribuite assai più che al Ministero - non ha minimamente affrontato gli altri profili di criticità pur sollevati nel vivace dibattito che si è acceso e riacceso, nel mondo della politica forense. L’ANF è sempre stata molto attenta al tema e non si è mai limitata alla critica dell'elenco, sottolineando i molteplici profili per i quali le specializzazioni incidono pesantemente sull’assetto della concorrenza professionale. Già con la sua mozione, presentata (e approvata) al Congresso Nazionale Forense di Venezia del 2014, l’ANF aveva evidenziato la necessità di evitare che l'introduzione delle specializzazioni incidesse negativamente sul valore del titolo abilitativo posseduto da tutti noi avvocati1. Molto più di recente, nel proprio Congresso nazionale tenuto nel giugno scorso a Palermo, ANF ha addirittura iscritto nel proprio Statuto il principio della intangibilità dell’efficacia del titolo abilitativo da parte della normativa sulle specializzazioni2. Il CNF non sembra essersi affatto posto il problema dell’incidenza concreta delle specializzazioni sulle facoltà degli avvocati, contentandosi dell’esistenza della norma della legge professionale del 2012 per cui “7. Il conseguimento del titolo di specialista non comporta riserva di attivita’ professionale.” Questa, però, rischia di far la fine di tante altre, inutili, “norme manifesto”, se non ci si preoccupa di capire come e quanto le specializzazioni possano limitare di fatto la

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Confronto con gli Stati U.E. Questa verifica può essere proficuamente condotta confrontando la disciplina italiana con quella degli altri Stati dell’Unione Europea, soprattutto in considerazione della libera circolazione tutelata dalle norme comunitarie e della conseguente estensione del mercato concorrenziale di riferimento a tutta l’Unione, tali da imporre la tendenziale armonizzazione della disciplina, al fine di non fornire ad alcuni ingiustificati vantaggi competitivi e ad altri difficoltà altrettanto e specularmente ingiustificate per l’acquisizione degli incarichi. In un primissimo approccio, che vuol essere di mero stimolo a migliori approfondimenti, il sito del Conseil des barreaux européens - CCBE offre un’ampia pagina di sintesi e comparazione della regolamentazione delle specializzazioni in Europa e delle vie per ottenere il titolo di avvocato specialista . Dalla Comparative note on national regimes of specialisation del dicembre 2015 si apprende essenzialmente che “La maggior parte delle giurisdizioni europee (34) non ha un regime specifico di specializzazione ….. normalmente richiedendo che gli specialisti abbiano un’ampia esperienza pratica e teorica nel settore in questione. Infatti, i paesi con un regime di specializzazione richiedono dai tre ai dieci anni di esperienza pratica, ma non tutti i regimi richiedono anni di pratica nel settore prescelto. … i candidati devono dimostrare una vasta esperienza nel settore in tutte le giurisdizioni. A tal fine, alcuni paesi hanno adottato norme precise (ad esempio, un numero fisso di casi), mentre altri sono più flessibili. Per valutare l’esperienza di un avvocato nel settore prescelto, gli esaminatori possono prendere in considerazione i seguenti elementi: la complessità dei casi, il ruolo del candidato nei casi, i reclami e le richieste di risarcimento registrati dal richiedente, ecc. Inoltre, la valutazione comprenderà di norma le conoscenze teoriche del candidato nel settore. E può riguardare la partecipazione del

candidato a programmi di formazione obbligatori, i suoi titoli accademici (ad esempio, un dottorato di ricerca in questo campo, o una cattedra), o qualsiasi pubblicazione di articoli accademici pertinenti. In rari casi, il regime di specializzazione consente alternative all’esercizio della professione di avvocato sul campo. È il caso della Francia, dove gli avvocati possono dimostrare la loro vasta esperienza nel settore con pubblicazioni, attività e lavori da essi intrapresi sul campo per (almeno) quattro anni. Un altro esempio in Italia, dove gli avvocati possono ottenere il titolo di specialisti dopo un periodo di due anni, 200 ore programma di formazione e superamento di un esame. L’assegnazione del titolo è decisa in seguito all’esame della candidatura da parte di un comitato, di norma composto da membri dell’ordine degli avvocati. In alcune giurisdizioni, i candidati devono sostenere un esame orale e/o scritto prima di ottenere il titolo di “esperto”5. Appare immediatamente evidente che la disciplina italiana costituisce di fatto un’eccezione rispetto a quelle adottate in tutti gli altri Stati comunitari. Soprattutto, solo in Italia è possibile acquisire il titolo di specialista – con tutti i vantaggi concorrenziali evidenziati nella prima parte di questo scritto – per un verso, avendo la sola esperienza costituita dai diciotto mesi di pratica indispensabile all’ammissione all’esame di abilitazione generalista e, per altro verso, allegando un’esperienza meramente quantitativa, senza alcuna verifica qualitativa della medesima. Infatti e com’è noto, ai sensi dell’art. 6 del d.m. 144-15: “2. Puo’ presentare domanda l’avvocato che: a) negli ultimi cinque anni ha frequentato con esito positivo i corsi di specializzazione di cui all’articolo 7, oppure ha maturato una comprovata esperienza nel settore di specializzazione ai sensi dell’articolo 8 (...)”. Ne consegue, con riferimento alla prima ipotesi e letto anche l’art. 7, che il titolo di specialista può essere conseguito da chi, compiuta la minima pratica di 18 mesi e superato l’esame di abilitazione generale, si limiti a seguire il corso biennale

e studiare, senza dover esercitare di fatto la professione. Qui sta la correttezza dell’affermazione della nota del CCBE, per cui solo in Italia ci si può specializzare a prescindere dall’esperienza, e qui sta il primo dei punti dolenti della disciplina: sia nei confronti degli avvocati degli altri Stati comunitari, sia nei confronti degli specializzati per esperienza, sia nei confronti degli avvocati italiani generalisti sia, infine e soprattutto, nei confronti della clientela e della ratio stessa dell’istituto delle specializzazioni degli avvocati.

Specialisti per titolo accademico Intendo dire che appare difficile affermare che la specializzazione acquisita per mero studio, ancorché fosse (ma lo sarà?) matto e disperatissimo, possa equivalere – anzitutto e rimanendo nello stesso sistema del regolamento - a quella riconosciuta per esperienza. Lo specialista per esperienza avrà certamente le conoscenze (accertate ex art. 6 comma 6 d.m.), come lo specialista per formazione, ma avrà in più e necessariamente l’esperienza acquisita sul campo, prevista dall’art. 8, che al secondo non è richiesta. Il titolo di specialista per formazione si manifesta qui più come un titolo accademico che professionale ed appare difficile sostenere che esso dia al consumatore-cliente il ragionevole affidamento nella speciale qualificazione attestata dal titolo richiesto dal Consiglio di Stato o che, almeno, lo fornisca tanto quanto il titolo acquisito per esperienza. Basterebbe pensare a quelle materie, per le quali l’esercizio professionale si esplica soprattutto in udienza e che richiedono, perciò, capacità che solo la pratica dell’udienza può fornire. Ma non è meno vero per le altre materie, ché ogni avvocato sa quanto abbia imparato con l’esperienza nel condurre trattative stragiudiziali o nell’adattare le soluzioni teoriche ad esigenze del cliente, che quest’ultimo neanche sa immaginare di avere. Per questo verso, dunque, la mancata previsione di un periodo minimo di iscrizione all’Albo,

Le specializzazioni forensi e i problemi della concorrenza in Europa

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concorrenzialità della generalità degli avvocati e di curare attentamente che il vantaggio competitivo per gli specializzati sia fondato sul riconoscimento di meriti effettivi e non su attribuzioni meramente formali. Pochi sembrano aver riflettuto sull’effetto delle specializzazioni relativamente agli incarichi delle PP.AA. e, in generale, della committenza istituzionale. Tema, questo, reso ancor più attuale dall’intervento di ANAC, che sta proponendo la formale regolamentazione di tutti gli incarichi delle PP.AA., anche per l’assistenza in giudizio3. La proposta di ANAC sembra essere stata ridimensionata dal Consiglio di Stato ma è stato comunque salvaguardato l’onere di effettiva motivazione della scelta dell’avvocato esterno della P.A. Si prospetta dunque una sempre più rigorosa procedimentalizzazione degli incarichi professionali e le pubbliche amministrazioni saranno inevitabilmente portate a preferire l’avvocato formalmente specializzato, potendo così facilmente soddisfare le esigenze motivazionali. Prendere atto dell’evoluzione in essere è doveroso: pensare che, al cospetto della formalizzazione delle procedure di incarico - che sempre più riguarderà non solo le PP.AA., ma anche la grande committenza privata - il titolo professionale generalista valga tanto quanto quello specializzato è intrinsecamente contraddittorio rispetto alla stessa istituzione delle specializzazioni e, in ultima analisi, velleitario. Volendo però aderire alla ratio stessa dell’art. 9 della legge professionale - per cui le specializzazioni sono una guida utile al cliente consumatore, che è inevitabilmente in posizione di asimmetria informativa rispetto al professionista4 - e leggerlo secondo Costituzione, appare necessario quanto meno assicurare che quel cliente consumatore possa fare effettivo affidamento nella speciale qualificazione attestata dal titolo di specialista.

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anche per gli specialisti per formazione, analogo a quello previsto dall’art. 8 lett. a), appare difficile da giustificare e rende il titolo così conseguito irragionevolmente discriminatorio sia nei confronti dei generalisti italiani sia, soprattutto, degli specialisti per esperienza sia italiani sia europei. D’altronde, la disciplina delle specializzazioni nel resto d’Europa suona come un campanello di allarme anche per la correttezza del riconoscimento del titolo di specialista per esperienza. Come si è visto, nel resto dei Paesi europei l’esperienza è valutata prendendo in considerazione la complessità dei casi, il ruolo del candidato nei casi, i reclami e le richieste di risarcimento registrati dal richiedente, ecc. Nulla di tutto questo è invece revisto dal d.m. 144-15, che all’art. 8 richiede solo dati quantitativi, senza entrare minimamente nel merito qualitativo dell’attività svolta, e poi rinvia al colloquio previsto dall’art. 6: né si può sostenere che questa disciplina sia stata significativamente modificata dallo schema di decreto proposto nel giugno di quest’anno. Per rendersi conto della lacunosità della disciplina italiana, sia consentito ricordare la vecchissima barzelletta del chirurgo il quale, per rassicurare il paziente, lo invita a non preoccuparsi se l’operazione cui sta per sottoporlo ha esito favorevole solo nel due per cento dei casi: “ché io i primi novantotto li ho già fatti fuori”. È immediatamente percepibile quanto sia ben più razionale, penetrante e rassicurante per il cliente consumatore la disciplina degli altri Stati UE, che entrano nel merito della qualità dell’esperienza acquisita, Per entrambi i versi, dunque, il raffronto con la regolamentazione dei nostri partner europei evidenzia la necessità di rivedere a fondo il regolamento emanato nel 2015 e in corso di integrazione: non limitandosi al minimo necessario per ottemperare alle decisioni giudiziarie, ma cogliendo l’occasione per assicurare che le specializzazioni siano uno strumento vero ed efficace per rendere i professionisti più trasparenti nei

confronti di tutta la clientela e per far sì che la competizione concorrenziale avvenga nel modo più corretto, in ambito italiano e comunitario6. Il quadro sinottico del CCBE chiarisce già da solo che questi obiettivi si raggiungono facendo sì che le specializzazioni siano davvero un titolo professionale e non accademico e che, perciò, esse devono essere disciplinate tenendo conto delle esigenze della clientela, in primis, e dei professionisti, in secundis; mentre gl’interessi dei formatori devono considerarsi recessivi rispetto a tali esigenze. NOTE 1. http://www.associazionenazionaleforense.it/la-mozione-dellanf-sulle-specializzazioni-forensi-approvata-dal-congresso-di-venezia/ 2. Dall’art. 2, lett. i): L’ANF … Promuove la formazione e l’aggiornamento professionale dell’avvocato, anche con riferimento al profilo specialistico ... – assumendo come condizione imprescindibile che il conseguimento del titolo di specialista non comporti riserva di attività professionale… 3. La proposta di ANAC è rinvenibile sul sito istituzionale, mentre dello scorso luglio è l’approfondito parere reso sulla stessa proposta dall’apposita Commissione del Consiglio di Stato, disponibile sul sito della Giustizia Amministrativa. 4. Dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 5575-17 sulle specializzazioni: 2.2. Il Tribunale regionale ha ritenuto che la previsione dell’art. 6, comma 4, del regolamento (“Nel caso di domanda fondata sulla comprovata esperienza il Consiglio nazionale forense convoca l’istante per sottoporlo ad un colloquio sulle materie comprese nel settore di specializzazione”) sarebbe intrinsecamente irragionevole per genericità in quanto non chiarirebbe nulla circa il contenuto del colloquio, le qualifiche e le competenze degli esaminatori, le modalità di svolgimento della prova. Essa conferirebbe perciò al Consiglio nazionale forense una latissima discrezionalità operativa, possibile fonte di confusione interpretativa e distorsioni applicative anche in punto di concorrenza fra avvocati e comunque in assoluta contraddizione con la funzione del regolamento come descritta dall’art. 9 della legge, cioè quella di individuare un procedimento di conferimento definito in maniera precisa e dettagliata, a tutela dei consumatori utenti e degli stessi professionisti che intendano conseguire il titolo. (…) 8.5. In effetti il colloquio, come delineato dalla disposizione regolamentare impugnata, ha contorni vaghi e imprecisi, sicché non ne risulta sufficientemente tutelato né l‘interesse del professionista aspirante al titolo, né, per altro verso, l’interesse del consumatore-cliente, che nella speciale qualificazione attestata dal titolo deve poter riporre un ragionevole affidamento. 5. libera traduzione del documento rinvenibile sul sito del Conseil des Barreaux européens.. 6. Preoccupazione, quest’ultima, che il CNF ha tenuto ben presente in tema di riconoscimento dell’abilitazione generale conseguita negli altri Stati comunitari e che pare aver dimenticato nel disciplinare le specializzazioni.


La riforma delle norme UE sulla protezione dei dati di Paola Fiorillo

…una disciplina fortemente innovativa, capace di adeguare il diritto ai profondi mutamenti generati dallo sviluppo delle nuove tecnologie… Garante della Privacy La deadline del 25 maggio 2018 è scaduta ed anche in Italia è ormai pienamente efficace il Regolamento Europeo 679/2016, meglio noto come GDPR. Anche gli studi professionali, nonché i singoli professionisti, che effettuano, o possano effettuare, il trattamento dei dati personali di persone fisiche, così come individuato dall’art. 4 del GDPR (quali raccolta, registrazione, organizzazione, conservazione, adattamento, modifica estrazione, consultazione, uso, comunicazione mediante diffusione, trasmissione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, limitazione, cancellazione o distruzione), devono pertanto adeguare le loro procedure interne alle necessità e caratteristiche del singolo trattamento svolto all’interno della

propria realtà, (c.d. “privacy by design”), in conformità alle disposizioni del GDPR. C’è da dire che per ora agli inosservanti non accadrà nulla, e questo perché la riforma della privacy, in Italia, (nonostante la piena efficacia del GDPR), almeno sotto il profilo dei controlli e delle sanzioni, entrerà in vigore in maniera graduale. Sarà cioè garantito un periodo transitorio di otto mesi, come si legge nel decreto di attuazione del GDPR e, considerata come data di entrata in vigore del decreto il 19.09.2018 (la sua pubblicazione in GU è del 04.09.2018), si arriverà a maggio 2019 inoltrato. Non si tratta di una sospensione delle sanzioni previste dal GDPR (cosa che il Governo non avrebbe mai potuto imporre al Garante, pena violare il Regolamento Europeo), bensì dell’indicazione di una loro temporanea attenuazione: il Garante, in questi primi mesi, nell’erogare le sanzioni, terrà conto del fatto che siamo in una fase iniziale di attuazione e promuoverà delle linee guida per fissare modalità di adeguamento semplificate e specifiche per le PMI. Mai come questa volta l’applicazione “attenuata” delle norme è stata una scelta obbligata in ragione della stima, approssimativa, che circa il 70% delle amministrazioni risulta inadempiente, con la conseguenza che, in caso di scelta diversa, a tappeto, si sarebbero dovute comminare sanzioni amministrative pecuniarie fino a 20 milioni di euro o, per le imprese, fino al 4 % del fatturato totale annuo dell’esercizio precedente. Di qui il provvidenziale ritardo di adeguamento del decreto legislativo 196/2003 (Codice Privacy), avvenuto con il dl.gs n. 101/18, pubblicato in G.U. il 4 settembre u.s.. Il Governo ha deciso di semplificare l’adeguamento alla nuove regole attraverso modifiche al Codice Privacy esistente, (nonostante l’approccio del GDPR alla tutela dei dati, sia completamente diverso dall’approccio che aveva

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La riforma delle norme UE sulla protezione dei dati

Regole democratiche per la rivoluzione digitale Rimandando ad altro momento l’analisi della versione “italiana” del nuovo Codice Privacy, vale però la pena di fare la conoscenza del Regolamento Europeo 679/2016. Il Garante della Privacy nella sua relazione annuale lo descrive come ” una disciplina fortemente innovativa, capace di adeguare il diritto ai profondi mutamenti generati dallo sviluppo delle nuove tecnologie…., la prima, anche sul piano internazionale, che tenta di inscrivere in un sistema di regole democratiche la rivoluzione digitale”.

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Dopo oltre 20 anni la disciplina della protezione dei dati personali è stata oggetto di una riformulazione non formale ma sostanziale, essendo cambiato l’approccio stesso alla materia che oggi è dominata dal principio della accountability (responsabilità del titolare del trattamento), che si sostanzia nell’adozione di comportamenti proattivi e tali da dimostrare la concreta adozione di misure finalizzate ad assicurare l’applicazione del regolamento. I titolari dovranno decidere autonomamente le modalità, le garanzie ed i limiti del trattamento dei dati personali, nel rispetto delle disposizioni normative. Diventa, pertanto, indispensabile per gli stessi operatori del settore essere pienamente consapevoli degli adempimenti e degli obblighi connessi alla privacy, secondo la nuova disciplina introdotta dal GDPR e del connesso rischio di incorrere in sanzioni economiche. Nell’analisi della nuova normativa ci si imbatte sovente nell’espressione Data Protection by Design e by Default (art. 25 del Regolamento), che identifica la necessità di configurare il trattamento prevedendo, sin dall’inizio, le garanzie indispensabili per evitare rischi di impatti negativi sulle libertà e i diritti degli interessati. Tali impatti dovranno essere analizzati attraverso un apposito processo di valutazione, tenendo conto dei rischi noti o evidenziabili e delle misure tecniche e organizzative (anche di sicurezza) che il titolare ritiene di dover adottare per mitigare i rischi. All’esito di questa valutazione di impatto il titolare potrà decidere se iniziare il trattamento, ovvero consultare l’Autorità garante per ottener indicazioni su come gestire il rischio. La diversità di approccio rispetto al D.Lgs 196/2003 è evidente: nella relazione annuale del Garante Privacy si legge “Per molto tempo i governi, in ogni angolo del pianeta, hanno sottostimato gli effetti e i rischi di un regime privo di regolamentazione, nel quale i grandi gestori delle piattaforme del web hanno scritto le regole, promuovendo un processo inarrestabile di acquisizioni e concentra-

zioni, dando vita all’attuale sistema di oligopoli. Questi hanno acquisito il potere di orientare i comportamenti di diversi miliardi di persone: non solo nei consumi ma anche nella più generale visione sociale e culturale. Proprio le straordinarie potenzialità delle nuove tecnologie esigono, infatti, uno statuto di regole capace di restituire alla persona quella centralità altrimenti negata dall’economia fondata sullo sfruttamento dei dati: materia prima di un nuovo capitalismo estrattivo alimentato da frammenti, spesso delicatissimi, della nostra vita.

Al centro il diritto di disporre dei propri dati Tutta la disciplina contenuta nel GDPR ha messo al centro il diritto dell’individuo di disporre dei propri dati quali aspetti del fondamentale diritto di identità e personalità (art. 16 del TFUE, art. 8 della Carta dei diritti fondamentali), e ciò sia: quando tratteggia le modalità in cui deve avvenire il trattamento dei dati personali sia quando disciplina il contenuto dell’informativa e del consenso, nonché le modalità di acquisizione; sia quando disciplina le modalità di utilizzo e circolazione dei dati; Il trattamento deve essere lecito ( fondarsi sul consenso dell’interessato o su altra idonea base giuridica), corretto (l’interessato deve essere informato sulla raccolta, sull’utilizzo e su altri eventuali successivi trattamenti dei dati forniti), trasparente (realizzato con modalità predefinite e rese note all’interessato in modo chiaro, semplice e accessibile). L’informativa, fornita prima di effettuare la raccolta dei dati, (ovvero, in casi particolari, entro un mese dalla raccolta), deve avere un linguaggio semplice e chiaro e le informazioni relative al trattamento dei dati devono essere concise, trasparenti, intellegibili e facilmente accessibili, con l’indicazione di alcuni elementi, tassativamente indicati dall’art. 14 del Regolamento L’interessato ha diritto ad avere riscontro alle proprie richieste entro un mese dalla domanda

con l’onere per il titolare del trattamento di agevolare l’esercizio di detto diritto, adottando ogni misura tecnica ed organizzativa a ciò idonea. Il consenso dei minori è valido a partire dai 16 anni (nel D. Lgs. 101/18 la soglia è stata abbassata a 14 anni), Si evidenzia anche la scelta dello strumento normativo, ovvero l’adozione di un Regolamento Europeo e quindi self-executing ossia disciplina immediatamente esecutiva nell’ordinamento degli Stati membri (art. 288 TFUE), il che significa che le politiche pubbliche degli Stati membri dovranno fare della protezione dei dati una loro priorità. Altra espressione che è entrata nel vocabolario degli esperti di privacy, ma anche il loro maggior incubo, è il Data Breach (art. 33 GDPR). Si tratta della possibilità che il titolare del trattamento subisca una violazione dei dati considerati. Salvo sia improbabile che la violazione presenti un rischio per i diritti e le libertà delle persone fisiche, tutti i titolari del trattamento devono notificare all’autorità di controllo le violazioni di dati personali senza ingiustificato ritardo e, dove possibile, entro 72 ore dal momento in cui ne sono venuti a conoscenza. Quando la violazione dei dati personali presenta un rischio elevato per i diritti e le libertà delle persone fisiche, il titolare del trattamento, deve anche comunicare senza ritardo e con un linguaggio semplice e chiaro, la violazione all’interessato. Il GDPR introduce infine anche una nuova figura, il Data Protection Officer (DPO). Non si tratta di un delegato del titolare del trattamento ma di una figura autonoma e la sua posizione deve essere indipendente rispetto alle altre funzioni dell’azienda. Ha un ruolo consultivo e di garanzia ed i suoi compiti sono previsti nell’art. 39 del Regolamento. La nomina avviene attraverso un contratto di servizi, e riflette l’approccio responsabilizzante che caratterizza il Regolamento Europeo. Possiamo, quindi, ben concludere che il Rego-

La riforma delle norme UE sulla protezione dei dati

portato al dl.gs 196/2003), e per garantire la continuità ha stabilito che, per il periodo transitorio, resteranno salvi i provvedimenti del Garante e le autorizzazioni, che saranno oggetto di un successivo riesame, nonché i Codici deontologici vigenti.

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La riforma delle norme UE sulla protezione dei dati

lamento europeo affronta la tutela della privacy e la tutela dei dati personali con un approccio nuovo: nessuna linea guida fissa ma responsabilizzazione del titolare del trattamento, (accountability) che avrà anche l’onere di dimostrare la conformità del trattamento effettuato (privacy by design). Il GDPR affida ai titolari il compito di individuare e predisporre, autonomamente, le modalità compresi garanzie e limiti) migliori e più idonee a garantire il rispetto della normativa, utilizzando un’analisi preventiva e specifica di tutti i trattamenti dei dati, rinviando il controllo dell’Autorità Garante ad un eventuale momento successivo.

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Nuovi obblighi ma anche nuove opportunità La portata innovativa del Regolamento UE è in linea con la realtà attuale nonché con …il portato di una società fondata sul potere della personalizzazione dei contenuti proposti, al contrario dei mass media tradizionali, basati invece sull’universalità e unicità del servizio offerto(Relazione annuale Garante Privacy). Alcune considerazioni e riflessioni finali. La prima è che anche i professionisti devono oggi ripensare ed aggiornare le procedure interne di gestione dei dati personali al fine di dare concreta e

rapida attuazione ai diritti degli interessati. Diritti che non dovranno rimanere sulla carta, perché come si legge nella relazione annuale del Garante “al di là del quasi ancestrale timore di un uomo vittima delle sue creazioni, emerge quindi il bisogno di fondare basi etiche e giuridiche solide per uno sviluppo davvero sostenibile, perché la tecnologia deve poter servire e integrare, senza sostituire, l’intelligenza umana”. Altro aspetto è quello della valutazione degli effetti dell’applicazione del Regolamento nel contesto della rivoluzione digitale da tempo in atto, segnatamente della raccolta massiva di dati personali da parte di soggetti interessati alla loro utilizzazione nella creazione di intelligenze artificiali dirette ad orientare usi ed abitudini sociali, valga per tutti la vicenda Google/Mastercard. Nella relazione del Garante si legge ancora che ”Le regole di protezione dati, se iscritte negli algoritmi assieme ai principi di precauzione, tutela della dignità umana “by design”, possono ispirarne “l’intelligenza”, nella direzione di un nuovo umanesimo digitale”. Ultima cosa, ma non la meno interessante, è che questa materia potrà costituire per l’avvocatura, alla ricerca di nuove aree di attività, un fronte di impegno specialistico prevedibilmente non di poco conto.


Social network e democrazia La mediatizzazione, prima televisiva, ora digitale, ha accentuato la personalizzazione della politica di Valeria Rodelli Nei giorni scorsi mi sono imbattuta nell’ennesimo articolo (on-line) sul nostro attuale Ministro dell’Interno, Matteo Salvini, e sulla capacità, sua e del suo team, sin dalla campagna elettorale, di utilizzare i social network a fini propagandistici. Si parla spesso, al riguardo, delle funzioni del software utilizzato dalla Lega a tali fini, denominato – pare – dai suoi stessi dirigenti “La Bestia”. Il sistema controlla le reti social di Salvini, analizzando i post e i tweet che hanno ottenuto risultati migliori e il tipo di utenza che ha interagito, in modo da modificare la strategia propagandistica in base a tali dati. Lo confesso: uso poco o nulla i social network, quindi, in qualche modo, ho la presunzione di sentirmi una libera pensatrice che diversifica le proprie fonti di informazione, che ama il confronto vis à vis nello scambio di idee di qualsivoglia natura, che predilige il contatto con i propri simili in spazi reali e non nell’etere; da qui il mio crescente bisogno di partecipazione attiva alla vita politica dell’Avvocatura, e il mio ingresso nell’Associazione Forense Lecce, aderente all’ANF. Ciò nonostante ho voluto approfondire quale sia l’effetto dei social network sulla nostra vita (è irreale pensare che non ci siano conseguenze anche in

capo a coloro che se ne tengono lontani), il cambiamento che hanno generato nella politica e nella dialettica politica, nonché verificare la loro compatibilità con la democrazia. Ho, quindi, cercato e letto le opinioni di sociologi, psicologi, ingegneri, hacker. Ed ho trovato utile in primo luogo comprendere cosa si intenda dire quando si parla di “democrazia del pubblico”, definizione in cui ci si imbatte spesso quando ci si accosta alla materia degli effetti dei

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dibattito politico, scegliendone i protagonisti e i discorsi programmatici collettivi intorno ai quali il dibattito stesso viene svolto.

La democrazia del pubblico La crescente diffusione e l’evoluzione del mezzo televisivo e delle sue logiche, la moltiplicazione dei canali televisivi, unitamente a più complessi mutamenti sociali, determinano un ulteriore cambiamento nelle strutture della legittimazione e rappresentanza politica, ciò che Manin definisce con la locuzione “democrazia del pubblico”: il canale attraverso il quale si svolge la “prova della discussione” ora non è più da identificarsi con i partiti, ma viene sostituito dai media. La discussione pubblica diviene uno spettacolo costituito da un mix di informazione politica e intrattenimento, ed i cittadini acquistano il ruolo passivo di “pubblico”. Il dibattito pubblico, quindi, diviene materia di professionisti, esperti in tecniche di persuasione e marketing, e tolto dalle mani dei partiti. La mediatizzazione, prima televisiva, ora digitale, ha così accentuato la personalizzazione della politica, con l’identificazione degli elettori con i leader candidati, i quali si concedono loro in un rapporto diretto. In questo contesto, in cui la democrazia ha già perso le proprie radici collettive ed è, ormai, inaridita dalla crisi della rappresentanza, si diffondono i social media. Il loro utilizzo sembra consentire ai cittadini, abituati ormai ad avere un ruolo da spettatori, di interagire con i leader, i quali – a loro volta - approfittano di questa opportunità di comunicazione, ora priva della intermediazione un tempo spettante ai partiti e, in un momento successivo, alla televisione. Alcuni autori parlano, rifacendosi alle definizioni maniniane, di “post-democrazia del pubblico” o “contro-democrazia” per definire il mutamento avvenuto nella rappresentanza governativa. I partiti tradizionali si scollano definitivamente dalla società, vengono sfidati al loro interno da soggetti che guadagnano la propria leadership

al di fuori dei canali di reclutamento politico-partitico, e all’esterno da leader che creano nuovi soggetti partitici, che mobilitano i cittadini scontenti attraverso la critica dei partiti tradizionali. I social network costituiscono la forma (ora data per scontata) che ha assunto la socialità telematica, caratterizzata da una rete di contatti, in cui ognuno sceglie i propri, ad esclusione, quindi, di un sistema in cui tutti sono in contatto con tutti. La loro struttura si è sviluppata intorno al concetto di amico (Facebook), o follower (Twitter), che l’utente sceglie per scambiare informazioni e dati di ogni tipo. Lasciando da parte tutto ciò che attiene alla sfera personale di ogni individuo, che esula da queste riflessioni, è evidente che tale struttura è determinante nel caratterizzare la qualità e la quantità di informazioni con le quali gli utenti vengono in contatto. Se nel vicino passato avevamo un numero ridotto di strumenti di informazione, fornita attraverso l’opera di professionisti (di cui era verificabile l’attendibilità) tesa a filtrare le fonti, pur sempre molteplici, che giungevano loro grezze, ora la rivoluzione digitale ci ha portato a diretto contatto con le fonti. Paradossalmente a filtrare il flusso caotico di fonti ora ci sono gli “amici” o i FOAF (friend of a friend). La sostituzione dei giornalisti (per quanto anch’essi non privi di “bias”) - quali soggetti che, da professionisti, traducevano un fatto in una notizia - con la propria cerchia di amici quale filtro delle informazioni genera fenomeni quali le c.d. echo chambers (camere ad eco) o filter bubbles (bolle ideologiche). I social network, cioè, sono casse di risonanza, spazi virtuali in cui i partecipanti sono esposti a posizioni simili alle loro; la omogeneità delle idee avviene per effetto dell’eliminazione, da parte dell’utente, dal proprio feed, di contenuti non graditi e della ricerca di utenti che confermino le proprie idee, a discapito di un confronto critico fra posizioni diverse.

L’esame scientifico di tali fenomeni ha portato a studiare l’evidenza empirica che le bolle ideologiche o di informazioni restano isolate, poiché, paradossalmente, non vi è interazione inter-ideologica fra utenti con orientamento politico differente: la maggior parte dei retweet (ossia l’inoltro di un messaggio ricevuto ad altro utente) avviene all’interno della medesima comunità di valori, generando una estrema polarizzazione fra i cittadini-elettori, piuttosto che favorire un costruttivo dialogo democratico.

Gli spazi virtuali non sono frequentati da tutti Sembrerebbe, quindi, che i social network abbiano tradito le speranze, di chi, in buonafede, vedeva negli stessi uno strumento per favorirlo. Per logica, se, come ci dicono le scienze sociali, il contatto tra persone diverse fra loro, per caratteristiche e opinioni, riduce i pregiudizi e porta ad una maggiore comprensione, i social network avrebbero potuto diventare agorà pubbliche in grado di favorire la tolleranza, consentendo a tutti di esporre i propri punti di vista, in grado di annullare la distanza fisica, fonte di informazioni a cui difficilmente i più avrebbero potuto accedere. Ma così non è stato, anzi i social network hanno sortito l’effetto opposto. Gli spazi virtuali non sono frequentati da tutti: ragioni tecnologiche, economiche e culturali fanno sì che vi abbiano accesso soggetti con maggiori risorse economiche, con più tempo libero, migliore accesso a internet e più dimestichezza con le tecnologie. A ciò si aggiunga che è stato rilevato che partecipano alla discussione politica soggetti con posizioni ideologiche più radicate ed estreme, e che, stranamente, gli scontri più vivaci avvengono fra soggetti con posizioni simili, con una veicolazione di messaggi che contengono sentimenti molto più esasperati di quanto generalmente avviene nelle interazioni faccia a faccia. Studi protratti nel tempo hanno, peraltro, evi-

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media sulla democrazia: si tratta di una espressione (spesso citata a sproposito), coniata da Bernard Manin (nel volume “Principi del governo rappresentativo”, 1995), per riassumere le tendenze che negli ultimi decenni hanno tradotto la rappresentanza nella relazione diretta fra leader e “opinione pubblica”, cioè fra gli “attori” politici e il loro “pubblico”. Secondo l’impostazione di Manin il governo rappresentativo ha subito tre grandi metamorfosi in conseguenza delle trasformazioni sociali: dalla rappresentanza per notabilato, con suffragio ristretto, che vede la centralità del parlamento (luogo in cui si svolge quella che Manin definisce la “prova della discussione”), alla rappresentanza dei partiti, determinata dal suffragio universale. In questa seconda fase la rappresentanza politica è incentrata sui partiti quali soggetti collettivi, che determinavano l’aggregazione degli interessi attraverso le “ideologie”. I partiti politici divengono il luogo della “prova della discussione”, esercitata mediante canali fortemente organizzati e strutturati che essi controllano, sicché il parlamento si limita a registrare gli esiti dello scontro degli interessi sociali di cui i partiti si fanno portatori. La mediatizzazione della società non modifica tale equilibrio, poiché anche i media (la stampa in particolare) sono sovente legati in qualche modo ai partiti, i quali gestiscono la competizione elettorale e l’espressione dell’opinione pubblica attraverso cortei, petizioni, campagne stampa, ecc. Il linguaggio dei leader politici è ancora incentrato su temi specifici, per illustrare i cambiamenti che intendono apportare, nonché i principi e le politiche pubbliche che caratterizzano e differenziano il loro partito da quelli avversari. Il flusso di informazioni viene veicolato, senza mediazioni, dai mass media. L’elettore risponde identificandosi con uno dei partiti e con i valori ad esso riconducibili e non con il leader. In questa fase l’introduzione del mezzo televisivo lascia, comunque, i partiti padroni di condurre il

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calcolo e consapevolezza. Se così stanno le cose – e a riguardo ci sono ben pochi dubbi – i social network sono ben lungi dall’essere delle agorà pubbliche, capaci di offrire confronto e realizzare la vera democrazia. Appare evidente che contengono un insito antiparlamentarismo e quindi un evidente contrasto con la democrazia rappresentativa, e che siano espressione di una malsana “democrazia diretta delle sensazioni e delle pulsioni, tradotte nelle forme plebiscitarie del <mi piace>”, espressione tipica, però, dei giudizi estetici. Quanto detto sinora, peraltro, è al netto dell’utilizzo dei social network con modalità illecite o al limite del lecito, che si va ad aggiungere alla illegittima raccolta e gestione dei dati personali degli utenti: si pensi alla attività di trolling, ossia l’attività di un utente disturbatore (troll) che interviene nei social solo per creare confusione, magari con fake news, e provocare scontri, anche organizzandosi con altri soggetti in reti troll “reali”; attività che può anche essere molto aggressiva e finalizzata a precisi scopi (addirittura realizzata attraverso reti troll artificiali, con la creazione di falsi account, possibile ora grazie a software da poche centinaia di euro) quando si avvia una tweet-bomb, ossia l’invio in massa di migliaia di messaggi dai contenuti falsi, che mistificano la realtà e alterano la percezione di una notizia, o tanto violenti da scoraggiare gli utenti standard da un confronto.

I social network favoriscono la democrazia? Se ora dovessi rispondere alla domanda se i social network favoriscono la democrazia, risponderei certamente in senso negativo, e non per una preconcetta antipatia nei loro confronti. In realtà non sono nati per dare supporto all’argomentazione e alla deliberazione collettiva. Probabilmente uno dei motivi per cui i cittadini hanno iniziato a usarli in maniera impropria – per poi cadere nelle mani di coloro che di tale uso

ne fanno strumento di manipolazione – è perché c’è un gran bisogno di argomentare, confrontarsi e deliberare in una dimensione comunitaria, un bisogno che i partiti ormai non soddisfano più. Ritengo, quindi, che forse bisognerebbe fare un passo indietro, consapevoli degli errori che sono stati commessi in passato, e ritornare all’idea di partito, non come è oggi concepito (un nome e un leader plebiscitariamente scelto con pretesi strumenti di democrazia diretta), ma come soggetto che crea aggregazione intorno ad una ideologia (parola scandalosamente desueta, che pare non possa essere più pronunciata per la valenza negativa che le si attribuisce), intesa come insieme di valori, idee e principi che fondano gli atteggiamenti sociali di una comunità. I soggetti collettivi dovrebbero riprendere il contatto con il territorio attraverso la decentralizzazione del loro apparato amministrativo e organizzativo, essere espressione di interessi collettivi, nei quali i singoli cittadini possano identificarsi, e sentirsi chiamati ad una partecipazione civica concreta e vicina al loro vissuto. Io appartengo ad una generazione che è anagraficamente più vicina alla “democrazia del pubblico”, pertanto quanto espresso non è frutto di un ricordo del passato nostalgicamente edulcorato. Sono, peraltro, certa che ci sia la possibilità di

utilizzare internet e i social network in maniera virtuosa; mai come ora conoscenza e informazione – sia pure in modo disordinato e non garantito – sono a disposizione di chiunque le cerchi; così pure il costruttivo confronto delle opinioni è possibile se si cercano luoghi virtuali ove il dibattito si svolge con intelligenza e un minimo di competenza. È necessario ri-educarci ad una discussione la più possibile ordinata e pluralista, sforzarsi - nel confronto politico - prima di esprimere critiche e confutazioni del pensiero altrui, di ripetere quanto espresso dall’interlocutore con chiarezza e ragionevolezza per essere certi e dar prova di aver compreso; partire dalle questioni su cui si è d’accordo, per poi criticare le questioni controverse, citando quanto espresso sul punto dall’avversario. Tutto questo dovrebbe avvenire il più possibile di persona, o utilizzando internet al fine di eliminare la distanza fra le parti, non accentuarla. Tanto dovremmo pretenderlo dai politici, dato che ora abbiamo gli strumenti (telematici) per controllare la loro condotta e il loro operato anche nella comunicazione e nella gestione del conflitto e/o cooperazione con l’avversario. Sarà interessante verificare se e quanto scritto finora possa valere per l’attività politica forense, alla vigilia di un momento importante qual è il Congresso Nazionale Forense.

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denziato che nel lungo periodo questa tendenza all’isolamento e alla polarizzazione delle persone e dell’elettorato peggiora, non tanto a causa, come verrebbe da pensare, del sopraggiungere nelle comunità virtuali di soggetti dalle idee più estreme che monopolizzano lo spazio di comunicazione, ma a causa della circostanza che gli stessi, esposti per lo più a punti di vista sempre concordi ai loro, si arroccano nelle proprie opinioni, estremizzandole. Si definisce questo fenomeno “balcanizzazione” dei social network. La struttura dei social ha mutato anche il linguaggio della politica e le abitudini di consultazione e ricerca di informazioni da parte degli utenti. I messaggi dei post debbono necessariamente condensarsi in poche righe, sicché i politici si esprimono con una semplicità da slogan, rinunciando ad elaborazioni articolate ed organiche (benché sintetiche) in favore di comunicazioni al limite della banalizzazione. Peraltro anche la stampa è “costretta” ad adattare il proprio linguaggio e gli approcci alle notizie, dovendo registrare il dialogo politico e lo scontro di interessi che avvengono sui social. Quanto agli utenti, nella stragrande maggioranza dei casi, commentano e condividono articoli e post dopo aver letto il titolo, o al più il sommario, senza controllare la fonte e senza concedersi il tempo di riflettere ed elaborare quanto letto; fenomeno legato non solo alla tipologia di linguaggio al limite dello sharebait o clickbait di cui parlavo sopra, ma anche alla tendenza degli utenti ad allontanarsi da dibattiti ragionati per spostarsi verso spazi ove si consumano emozioni forti. Questo atteggiamento è legato alla struttura stessa dei social network: ha spiegato lo psicologo e premio Nobel Daniel Kahneman che, di fronte ad una notizia online, la nostra mente si avvale di metodi giudizi molto rapidi (System 1: sistema di pensiero “automatico, emotivo, stereotipico e subconscio), a discapito di un sistema di pensiero (System 2) che richiede più impegno e tempo per elaborare la realtà secondo logica,

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Palermo 2018 un gran bel Congresso per l’ANF È stato un Congresso assai partecipato ed effervescente, innovativo e qualificato nei suoi temi, quello tenuto dall’Associazione Nazionale Forense a fine maggio a Palermo. Sebbene per molti delegati la sede prescelta non fosse proprio dietro l’angolo, l’evento ha registrato numeri di ottimo rilievo quanto a presenze, segno evidente della particolare attesa e del vivo interesse della galassia ANF nel ritrovarsi a discutere dei temi propri dell’avvocatura, peraltro alla vigilia di importanti appuntamenti quali le elezioni settembrine dei delegati di Cassa Forense ed il Congresso Nazionale Forense in programma in ottobre a Catania. Dal Piemonte e dal Veneto fino alla ospitale Sicilia le sedi territoriali ANF non hanno fatto venir meno il loro apporto in sia in termini di partecipazione effettiva, sia di elaborazione di documenti. I temi congressuali erano del resto assolutamente attuali e stimolanti, a cominciare dal

titolo, “L’Avvocato in evoluzione”, emblematico dell’attenzione che l’ANF va rivolgendo al futuro della professione. A Palermo sono stati affrontati argomenti quali le aggregazioni professionali e le società di capitali con avvocati, le specializzazioni, le start up legal tech e le intelligenze artificiali. Ed ogni sessione si è svolta in un contraddittorio reale grazie alla presenza di avvocati, di magistrati, esperti qualificati, specialisti in tema di legal tech e di intelligenze artificiali e di una platea molto attenta. Del resto sarebbe oggi irreale, o forse anche surre-

ale, pretendere di guardare al futuro della professione forense trascurando quella digital revolution in atto in ogni settore della vita sociale, e dunque anche nel mondo del lavoro e delle libere professioni, influenzato anzi più di altri da queste mutazioni epocali. A Palermo si è parlato anche e soprattutto, e non poteva essere diversamente, di giurisdizione, un tema assolutamente caro all’Associazione Nazionale Forense, da sempre in prima linea nella sua difesa in un’epoca in cui la tutela giurisdizionale dei diritti trova sempre minore riconoscimento e applicazione. Le ultime due giornate del Congresso l’ANF le ha dedicate a

guardare dentro se stessa, a riflettere sulla necessità di adeguarsi ai cambiamenti, con discussioni vivaci ed approfondite. E non poteva essere diversamente per un’associazione che ha nel proprio DNA la politica forense e con essa tutto ciò che può afferire alla difesa dei diritti e degli interessi della collettività e dell’avvocatura. Ed al confronto talora acceso ha fatto seguito poi anche la sintesi, con l’approvazione di una serie di rilevanti modifiche statutarie, a conferma della capacità introspettiva dell’Associazione, consapevole dell’esigenza di cambiamenti indispensabili per affrontare le grandi mutazioni in atto nella società e nel mondo della giustizia. I delegati avrebbero potuto fare ancora di più, ad esempio sul fronte dell’organizzazione interna, che in un qualche modo negli ultimi anni ha faticato non poco a reggere il passo degli eventi. Ma i risultati sono complessivamente da considerare positivi, frutto della capacità di condividere conclusivamente anche ciò che inizialmente era sembrato divisivo. La libertà del dialogo ed il rispetto delle opinioni hanno caratterizzato più di ogni altra cosa i quattro giorni trascorsi al Teatro S. Cecilia, dove la democraticità del confronto l’ha fatta da padrona, senza mai precludere l’introduzione di temi e questioni attinenti i temi congressuali. Un esempio che dovrebbe valere anche in altri consessi che invece si appalesano nel tempo sempre più ingessati, a cominciare dal prossimo Congresso Nazionale Forense. Quello di Palermo è stato un ottimo Congresso anche sotto l’aspetto logistico ed organizzativo. Chi poteva aver nutrito perplessità sull’affidamento all’Associazione AGIUS – Associazione Giuristi Siciliani, che a Palermo costituisce la rappresentanza territoriale dell’ANF - si è subito e positivamente ricreduto. I giovani colleghi di AGIUS sono stati pressochè perfetti in ogni dove, dall’accoglienza alla gestione degli eventi congressuali e collaterali, in eccellente simbiosi con la Presidenza del Congresso, le commissioni, i relatori ed i delegati.


ROMA

CONSIGLIO NAZIONALE giugno 2018

L’ANF nel segno della continuità

LUIGI PANSINI confermato Segretario Generale I positivi riscontri complessivamente registrati al Congresso Nazionale tenuto in quel di Palermo hanno portato Luigi Pansini alla conferma a Segretario Generale dell’Associazione Nazionale Forense. Pansini si avvia così al suo secondo mandato, avendo guidato l’ANF nel corso dell’ultimo triennio, dopo aver trascorso quello precedente in Direttivo con Ester Perifano. E’ dunque un Segretario ormai di buona esperienza ed in grado di dare il meglio di sè alla guida dell’Associazione, peraltro in una fase assai problematica per la professione forense. Diversamente a quanto accaduto in occasione degli ultimi rinnovi delle cariche apicali, la conferma di Pansini è scaturita a conclusione di una vigilia animata dalla presentazione di una candidatura alternativa, quella di Marco Lepri, responsabile della sede Anf di Roma. Ed anche il Consiglio Nazionale tenuto a fine giugno a Roma ha conosciuto momenti di particolare eccitazione. Alla fine l’ha spuntata Pansini con certo margine di sicurezza, ma Lepri, che aveva proposto proprio negli ultimi giorni la propria candidatura, ne è uscito con l’onore delle armi. La vivacità del Congresso tenuto a Palermo e del successivo Consiglio Nazionale di Roma rappresentano il segno evidente della vitalità di un’Associazione nella quale il dibattito interno, il confronto di idee,

l’elaborazione politica non mancano mai. L’affacciarsi di nuove sedi territoriali arricchisce costantemente l’ANF della presenza di giovani dirigenti che hanno modo di arricchirsi e fare esperienza grazie alla presenza di colleghi di spicco della politica forense italiana, quali Sazzini, Baruffi, Perifano, Mirandola, Balsamo, Bucci, tanto per citarne alcuni, nocchieri esperti, sempre in grado di indicare rotte sicure anche nei momenti più perigliosi. Ed il Consiglio Nazionale è la palestra dove ci si allena quotidianamente per affrontare il determinante confronto con la società, oltrechè con gli altri soggetti che abitano il mondo della giustizia italiana. Affiancano Pansini nel nuovo Direttivo Nazionale i colleghi Francesco Mazzella di Napoli, Valeria Rodelli di Lecce, Paola Fiorillo di Salerno, Donata Giorgia Cappelluto di Parma, Urbano Rosa di Firenze e Giampaolo Di Marco di Vasto, giovani ricchi di entusiasmo e voglia di far bene, come hanno già dimostrato con

ANF così nel triennio 2018-21 SEGRETARIO GENERALE Avv. Luigi PANSINI

( Bari )

DIRETTIVO NAZIONALE

PRESIDENTE ONORARIO Avv. Cesare PIAZZA

( Firenze )

TESORIERE

Avv. Donata Giorgia CAPPELLUTO

( Parma )

Avv. Giampaolo DI MARCO

( Vasto )

Avv. Paola FIORILLO

( Salerno )

COLLEGIO DEI REVISORI

Avv. Francesco MAZZELLA

( Napoli )

Avv. Leonardo CICIOLLA Presidente ( Bari )

Avv. Urbano ROSA

( Firenze )

Avv. Paolo MONAR Componente

( Bergamo )

Avv. Valeria RODELLI

( Lecce )

Avv. Maria SICHETTI Componente

( Vasto )

UFFICIO DI PRESIDENZA

Avv. Giuseppe FINO

(Bologna)

COLLEGIO DEI PROBIVIRI

Avv. Giovanni DELUCCA Presidente

( Bologna )

Avv. Laura PERNIGO

( Verona )

Avv. Franco UGGETTI

( Bergamo )

Avv. Giuseppe AMICARELLI

( Pescara )

( Napoli )

Avv. Maurizio CECCONI

( Roma )

Vicepr.

Avv. Federica MARIOTTINO Vicepr.

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l’elaborazione di documenti significativi. La grande forza dell’ANF sarà, come sempre, anche e soprattutto il Consiglio Nazionale, il parlamentino dell’Associazione, luogo di elaborazione e verifica della politica targata ANF. Il Consiglio Nazionale ha eletto anche il nuovo ufficio di presidenza. A Marcello Pacifico, presidente uscente, che dopo tre anni di Direttivo ed altrettanti di Presidenza ha ritenuto l’opportunità di passare la mano, succede Giovanni Delucca di Bologna, già componente del precedente Direttivo a guida Pansini, affiancato dai vicepresidenti Federica Mariottino di Napoli e Franco Uggetti di Bergamo. Il nuovo tesoriere è Giuseppe Fino di Bologna che raccoglie l’eredità di Ernesto Tucci. (MP)

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Adelante… Cesare

Cesare PIAZZA acclamato

Presidente Onorario dell’ ANF Nel corso del Consiglio Nazionale svoltosi a Roma il 30 giugno scorso Cesare Piazza è stato nominato per acclamazione Presidente onorario dell’Associazione Nazionale Forense. L’amico Marcello Pacifico mi ha chiesto di scriverne un breve ritratto e ho accettato volentieri per l’affetto, l’amicizia e la stima (nonché la collaborazione professionale) che da anni mi legano a Cesare ed anche perché sono stato felicissimo che la nostra Associazione gli abbia conferito questo prestigioso riconoscimento, in precedenza mai assegnato. Il cursus honorum di Cesare nelle istituzioni forensi e nell’associazionismo forense è lungo e glorioso e se cercassi di riassumerlo sono certo che ometterei qualcosa. D’altro canto questo scritto non vuole certo essere un “coccodrillo” perché Cesare è vivo e lotta insieme a noi ! La prima cosa che mi sovviene e che mi piace ricordare allora è l’impegno profuso da Cesare nell’Associazione Nazionale Forense e nel Sindacato degli Avvocati di Firenze e Toscana a tutti i livelli. Taluni (è umano) si impegnano a fondo allorquando ricoprono ruoli apicali nelle associazioni e si defilano nel momento in cui tali ruoli non ricoprono più. Cesare, da sempre, ha entusiasticamente profuso il proprio impegno associativo a tutti i livelli, contribuendo alla nascita dell’Associazione Nazionale Forense, ma anche lavorando nella stessa (e nel Sindacato fiorentino) intellettualmente e praticamente, dando luogo a una vera e propria immedesimazione fra la sua persona e l’associazione: per me (e per molti) Cesare è l’A.N.F., Cesare è il Sindacato ! L’ho conosciuto nei primi anni ’90, quando, giovane praticante, seguivo il Corso di Tecnica Forense del Sindacato Avvocati di Firenze, ove lui insegnava (fra le altre cose) la tecnica di redazione dei contratti. Oltre ad apprezzarne la enorme competenza, mi colpì l’entusiasmo col quale cercava di renderci partecipi della complessità della materia e mi domandavo come facesse un avvocato di tale importanza, sicuramente oberato da impegni di maggior prestigio e resa economica, a trovare il tempo da dedicare a noi sbarbatelli e come mai fosse così ansioso di condividere con noi (futuri potenziali concorrenti) il proprio sapere. La risposta ce la diede proprio lui nel corso di una di quelle lezioni: meglio avere a che fare con delle controparti rappresentate da colleghi preparati piuttosto che da colleghi ignoranti.

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Non credo che la sua risposta di allora esaurisse il ventaglio delle sue motivazioni, ma sicuramente esprimeva un anelito di comunità che mi convinse ad aderire a un’associazione sindacale composta da liberi professionisti. Una risposta più completa va certamente individuata nella curiosità di Cesare per tutto ciò che lo circonda: il diritto, ma anche la musica, la tecnologia, le persone, la vita in tutti i suoi aspetti. Una curiosità che, per la sua indole, non è mai superficiale, ma si addentra e sviscera, senza accontentarsi delle prime risposte (magari maggioritarie) avendo anche il coraggio di propugnare soluzioni innovative. Questa passione per l’approfondimento e per la condivisione dei suoi frutti la ritrovo anche nel corso della nostra collaborazione professionale ogni qualvolta volta ci capita di discutere di una questione. Ed è una grande fortuna quella di lavorare accanto ad una persona che ti stimola sempre a considerare la complessità delle cose e a non fermarti ai facili approdi (il tutto sempre senza mai prevaricare l’interlocutore, ma anzi ascoltandolo attentamente e ottenendone l’attenzione e il rispetto in forza dell’esposizione delle proprie argomentazioni e mai del dileggio). Talvolta le persone così acutamente analitiche corrono il rischio di essere inconcludenti, Cesare no. La sua vita professionale e associativa sono lì a testimoniare il contrario: l’analisi non è mai fine a sé stessa, bensì propedeutica all’individuazione di una soluzione e alla formulazione di una scelta operativa (siamo avvocati, dobbiamo risolvere i problemi!) Il mix costituito dalla curiosità, da una non comune intelligenza e da una notevole capacità di lavoro

e concentrazione è il motore che porta Cesare a essere aggiornato su tutto ciò che riguarda la nostra professione e la vita della nostra associazione. Tutti abbiamo notato la sua capacità di seguire per ore filate, senza alzarsi dalla propria posizione, i dibattiti sulle materie più disparate (anche perché è aduso partecipare a congressi, assemblee, consigli nazionali e convegni munito di materiale già letto e ordinatamente raccolto). Anche in questo costituisce un esempio che mi sforzo di seguire, non sempre riuscendovi. Mi fa piacere evidenziare infine una caratteristica di Cesare, sicuramente notata da tutti: nonostante l’età matura e la lunga vita professionale, egli (anziché rinchiudersi nel comodo recinto del bel mondo antico) è costantemente attento all’evoluzione sociale ed economica della nostra professione, evitando di vedere in negativo tutti i cambiamenti che ci sono stati e ci saranno, sforzandosi invece di interpretarli in modo virtuoso (penso sia stato fra i primi in Italia a redigere un contratto scritto coi clienti). A dispetto dell’età, Cesare è più all’avanguardia di molti giovani o supposti tali e mai l’ho sentito dire “si stava meglio quando si stava peggio”. E sono certo che dopo questo strameritato riconoscimento Cesare continuerà a presenziare le attività dell’Associazione con ancora maggio slancio e passione, indicandoci col suo esempio la strada da seguire. Adelante Cesare! Andrea Noccesi

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STORIA e Forense TRADIZIONE SINDACALE Associazione

LECCE

Quella che (oggi) conosciamo come ”Associazione Forense Lecce” nasceva, sia pur con altra denominazione, ben 45 anni fa, allorquando un gruppo di professionisti del Foro Salentino decideva, per vero nell’ambito di un clima, diffuso nell’intero Paese, che voleva un sindacato di avvocati in autonomia (e quando occorreva in opposizione) rispetto agli ordini forensi, anche per scrollarsi di dosso l’etichetta corporativista del fascismo. È così che, con atto del 13 ottobre 1973 per notar Domenico Mancuso, nasceva il Sindacato Provinciale Avvocati e Procuratori, in sigla SIAP, con l’avv. Bruno Magaraggia Segretario Generale, vera forza propulsiva dell’Associazione, aderente da subito alla Federazione dei sindacati avvocati e procuratori italiani, in sigla FE.S.A.P.I.. Erano anni in cui l’idea di voler costituire un “sindacato”, parola che evocava “sinistre” lotte di classe, veniva recepita dal Foro salentino alla stregua di un atto dal contenuto eversivo (sic!), in aperta dissonanza col pensiero dominante. Si paventava, invero, il rischio che la nobile professione liberale potesse venire compromessa o comunque svilita dalla presenza del sindacato. E tuttavia la forza innovativa e dirompente delle idee, accompagnata dall’entusiasmo degli avvocati, riuscirono nel tempo a vincere quelle resistenze contaminandole in senso indubbiamente positivo. Il primo Congresso distrettuale Si.A.P. sul tema “Un ruolo diverso per l’avvocatura per una giustizia nuova nella società” si tenne il 9 novembre 1973, il secondo Congresso Provinciale a Monteroni di Lecce il 14 febbraio 1976, sul tema ”Il sindacato forense per un’avvocatura garantita ed impegnata”. Qualche anno dopo, nei giorni 7-8 maggio 1983 si tenne ad Otranto il Consiglio Nazionale della FESAPI. Giova ricordare che nell’editoriale intitolato ”I martiri d’Otranto” pubblicato su “Nuovo Ruolo” n. 17 dell’ottobre 1983, Cesare Piazza (esponente fiorentino di punta dell’associazionismo forense) scrisse ”Il sindacalismo forense è di per sé stesso un movimento di opinione e di progresso che non conosce altra strada che quella della società e dell’impegno personale continuo ed attivo””. In data 15 ottobre 1983, segretario generale Bruno Magaraggia, in occasione del IV congresso provinciale SIAP tenutosi a Lecce, intervennero sia “Don” Vittorio Ajmone (come è sempre stato chiamato ed è tutt’ora ricordato qui a Lecce in segno di affettuoso rispetto), esponente di spicco del mondo della avvocatura leccese e locale, nonché componente del CNF, sia Maurizio Fumarola Mauro, Presidente del Consiglio dell’Ordine,

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i quali espressero unanime consenso alla relazione del segretario generale. Nel settembre 1985 a Majori, in occasione del XVIII Congresso Giuridico Forense, venne approvata una mozione che invitava gli ordini a costituirsi in Federordini, cosa che si verificò di lì a poco. I vertici della FESAPI, che non parteciparono a quel congresso, interpretarono tale circostanza come un tentativo di egemonizzare la rappresentanza dell’avvocatura. L’opposizione di matrice sindacale a quella iniziativa si levò anche a livello locale, con un severo intervento critico dell’allora segretario generale di Lecce Lino Spedicato. Nel Congresso giuridico-forense di Ancona (9-13 settembre 1987) venne approvata una mozione nella quale si affermava la necessità che l’avvocatura si presentasse unita e compatta sui grandi temi della giustizia poichè solo ”l’unità di tutte le libere associazioni, dei movimenti forensi e l’unità degli ordini forensi” possono consentire all’avvocatura ”il pieno esercizio della sua funzione e l’affermazione del suo ruolo nella società civile”. Venne infatti definito il congresso dell’unità. Il movimento sindacale avvertiva la necessità di accelerare il processo unitario, tanto che nel Congresso straordinario di Bologna (28 aprile/1° maggio 1988), insieme alla nascita del Sindacato Unico, si registrava la più drammatica frattura della storia sindacale forense, giacché alcuni sindacati, numericamente molto rappresentativi, dissentirono da questa scelta e non parteciparono alla trasformazione della Fesapi-Federavvocati in sindacato unitario nazionale. Formeranno poi l’Assoavvocati. Solo otto anni dopo, alla conferenza di Pescara del dicembre 1996, venne deliberata formalmente la riunificazione, che si consacrò definitivamente nel Congresso straordinario di Chianciano ( 20-22 giugno 1997, delegati di Lecce erano Danilo Antonaci, Sandra Muscogiuri, Alberto Sansonetti e Lino Spedicato). Dalla fusione delle due anime (sommariamente indicate come sindacato di proposte e sindacato di servizi) nacque l’A.N.F. - Associazione Nazionale Forense. Ed in connessione con questo evento anche il SIAP di Lecce mutò ragione sociale in A.F.L. - Associazione Forense di Lecce, aderendo pienamente all’ispirazione ed allo statuto nazionale nell’assemblea straordinaria dell’11 luglio 1997. Simona Guido - Alberto Sansonetti

NUOVO RUOLO la voce di AFL Lecce Formazione, informazione e servizi gli asset dell’Associazione Nel 1978, ad appena cinque anni dalla fondazione del Si.A.P. – Sindacato Avvocati e Procuratori della Provincia di Lecce – come allora si chiamava la nostra associazione, l’avv. Bruno Magaraggia, che ne era stato il principale promotore e ne rivestiva la carica di Segretario Dirigente, ideò “Nuovo Ruolo”, un giornalino che, con periodicità mensile, voleva essere il veicolo d’informazione dell’attività associativa del Sindacato. Nell’epoca in cui gli odierni mezzi informatici erano del tutto sconosciuti e tutti i giornali, anche quelli a diffusione nazionale, venivano composti con i caratteri di piombo per passare poi, formate le bozze di stampa, al vaglio dei correttori e quindi arrivare in tipografia, “Nuovo Ruolo” rappresentava un’impresa titanica per gli avvocati, dediti a tutt’altro mestiere. Il foglio veniva redatto dallo stesso Bruno Magaraggia e da pochi altri volenterosi colleghi, che si riunivano in una sorta di comitato di redazione e, ripartitisi i compiti, preparavano i pezzi da inviare in tipografia. Ben presto “Nuovo Ruolo”, da modesto organo d’informazione associativa, divenne adulto e si trasformò in punto di riferimento per gli operatori del diritto e, stampato in circa 6000 copie, veniva inviato a un gran numero di avvocati e magistrati del distretto della Corte d’appello di Lecce e a tutti i dirigenti e i consiglieri nazionali della Fe.S.A.P.I. Nonostante la rivoluzione digitale dell’ultimo ventennio, A.F.L. non si è arresa e, alla versione cartacea ha sostituito quella on line, la cui impaginazione è curata con encomiabile impegno dalla collega Antonella Totaro Fila. Auguri di lunga vita, quindi, al “nostro” “Nuovo Ruolo” che compie quarant’anni nel ricordo dell’indimenticato Bruno Magaraggia. Alla continua attività di politica forense, AFL affianca ulteriori attività di servizio quali un efficiente servizio copie, grazie all’impegno particolare di Mario Romita, in vari punti strategici del Palazzo di Giustizia, attività di formazione con l’organizzazione di convegni, nonché viaggi di studio presso le istituzioni e le corti europee (Strasburgo, Lussemburgo e Bruxelles) su impulso organizzativo di Lino Spedicato. Inoltre AFL offre una raccolta di giurisprudenza aggiornata sui temi riguardanti specificamente il profilo disciplinare e la responsabilità professionale a cura dell’avvocato viene curata da Angelo Galante e pubblicata sul nostro sito anflecce. Dal 2016, A.F.L. ha inoltre ideato una nuova modalità di formazione denominata Mini Tavole Rotonde, a cura del Segretario Generale Simona Guido e delle colleghe delegate Francesca Distante e Valeria Rodelli, tenute presso la sede della associazione, incontri caratterizzati dalla presenza di un numero limitato di associati e coordinati da uno o più esperti (magistrato, professore o avvocato) della materia trattata, che - dopo la illustrazione del tema prescelto - interloquisce con i presenti dibattendo in un continuo e costruttivo confronto.

AFL LECCE Segretario Generale e Dirigente di Sede GUIDO Avv. Simona Presidente NAPOLITANO Avv. Vincenzo Tesoriere ROMITA Avv. Mario Consiglieri DISTANTE Avv. Francesca GALANTE Avv. Angelo NICOLARDI Avv. Pietro ROLLO Avv. Andrea ROMITA Avv. Eugenio SANSONETTI Avv. Alberto SPEDICATO Avv. Antonio Lino MANSI Avv. Diego Revisori COPPOLA Avv. Francesco PANICO Avv. Mario Probiviri MEDEA Avv. Alfio Gianni PASCALI Avv. Sabrina PERRONE Avv. Franco Redattrice “Nuovo Ruolo” TOTARO FILA Avv. Anna Consiglieri Nazionali LAUDISA Avv. Barbara RODELLI Avv. Valeria SANSONETTI Avv. Giacomo

Simona Guido - Lino Spedicato

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2018

La RASSEGNA degli AVVOCATI ITALIANI I

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ringrazia per la collaborazione:

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Giuseppe AMICARELLI

Osvaldo GALIZIA

Luigi PANSINI

Avvocato in Pescara, si occupa prevalentemente della tutela di pubbliche amministrazioni, funzionari ed imprenditori. Membro attivo della sede pescarese dell’Associazione Nazionale Forense, è Consigliere Nazionale dell’ANF.

Avvocato del Foro di Pescara, consulente del lavoro, esperto di diritto del lavoro e previdenza aziendale. Già Presidente del Consiglio Prov. Ordine dei Consulenti del Lavoro di Pescara, Consigliere Nazionale dell’ODCL, componente del Comitato scientifico della Fondazione Studi ODCL, Consigliere di Amministrazione Ente Nazionale di Previdenza dei Consulenti del Lavoro (ENPACL) dal 2011 al 2015. Componente del Direttivo della sede ANF di Pescara.

Avvocato in Bari, con attività prioritaria nel campo del diritto fallimentare. Collabora con scuole di formazione e riviste per problematiche inerenti le procedure concorsuali. Già componente del Direttivo nazionale ANF, dal 2015 è attualmente Segretario Generale dell’Associazione Nazionale Forense, al suo secondo mandato dopo il Congresso di Palermo 2018.

Carmela Milena LIUZZI

Iscritto nell’albo degli avvocati di Firenze, è stato consigliere dell’Ordine di Firenze e delegato alla Cassa di Previdenza Forense. Già Segretario Generale della Federavvocati, è stato Presidente dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura dal 1999 al 2000, vice-presidente dell’ANF dal 2006 al 2009. Eletto Presidente onorario dell’Associazione Nazionale Forense dal 2018.

Donata Giorgia CAPPELLUTO Avvocato del Foro di Parma. Docente a contratto presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali presso l’Università degli Studi di Parma da 2001 in diritto processuale penale. Docente di procedura penale alla Scuola di Polizia Penitenziaria di Parma dal 1999. VPO presso la Procura di Modena dal 2012 al 2016. Componente del Direttivo Nazionale ANF dal 2015.

Fabio CASSIBBA Professore associato di Diritto processuale penale presso l’Università di Parma, dal 2008 al 2016 ricercatore di Diritto processuale penale presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca e dal 2009 membro del Collegio dei docenti della Scuola di dottorato in Scienze giuridiche. Docente di Diritto processuale penale presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali di Torino e di Parma.

Giovanni DELUCCA Avvocato del Foro di Bologna, si interessa prevalentemente di diritto amministrativo. Segretario dell’Associazione Sindacale Avvocati di Bologna e dell’Emilia Romagna dal 2013, è stato consigliere nazionale dell’Associazione Nazionale Forense dal 2009, componente del Direttivo Nazionale nel 2015-2018, è l’attuale Presidente dell’ANF.

Giampaolo DI MARCO Avvocato del Foro di Vasto, collabora con la cattedra di Diritto Privato della Scuola di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Bologna. Arbitro, Mediatore e Formatore nella mediazione ex d.lgs. n. 28/2010 e d.m. n. 180/2010, è componente del Direttivo Nazionale dell’ANF.

Paola FIORILLO Avvocato cassazionista del Foro di Salerno, svolge la professione prevalentemente in ambito societario e delle successioni. Già dirigente della sede ANF di Salerno, è Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Salerno, Consigliere Nazionale dell’ANF nonché attuale componente del Direttivo Nazionale. Dal 2016 è componente della Giunta nazionale di Confprofessioni.

Avvocato civilista in Taranto, opera nel settore fallimentare ed espropriativo. Dal 1997 dirigente dell'associazione forense “Lucio Tomassini” ANF Taranto, di cui è stata Segretario nel biennio 2008-2010. Componente del direttivo Nazionale ANF dal 2006 al 2012, responsabile della comunicazione e dell’area previdenza forense. Attuale componente del Comitato di redazione della Rassegna degli Avvocati Italiani e Consigliere Nazionale ANF.

Federica MARIOTTINO Iscritta all’Albo degli Avvocati di Napoli dal 2001, esercita la professione nel ramo civilistico. Segretario del Sindacato Forense di Napoli, tra le associazioni maggiormente rappresentative del foro napoletano, dal 2018 ricopre la carica di Vicepresidente dell’ANF.

Francesco MAZZELLA Avvocato del Foro di Napoli, civilista, si interessa prevalentemente di diritto bancario. Presidente di Confprofessioni Campania, Dirigente del Sindacato forense di Napoli, già Consigliere nazionale ANF, è attualmente componente del Direttivo Nazionale ANF.

Andrea NOCCESI Iscritto nell’albo degli avvocati di Firenze dal 1994, cassazionista dal 2007. Civilista, già docente in diritto civile alla Scuola Forense del Sindacato degli Avvocati di Firenze e Toscana, del cui Consiglio Direttivo è membro dal 2009. Già componente del Direttivo Nazionale ANF, è attualmente Consigliere Nazionale.

Cesare PIAZZA

Valeria RODELLI Avvocato in Lecce, si occupa prevalentemente di diritto civile e fallimentare. Mediatore nell’organismo di conciliazione dell’Ordine di Lecce, già attiva nella sede APF di Lecce e Consigliere nazionale ANF, è componente del Direttivo Nazionale dell’ANF dal 2018.

Franco UGGETTI Avvocato civilista in Bergamo, iscritto all’APF Bergamo dal 1992, ne è stato prima vicepresidente dal 2011 e poi presidente dal 2013. Consigliere Nazionale ANF dal 2013, componente dell’OCF fino al 2018, è attualmente vicepresidente dell’Associazione Nazionale Forense.

Ana UZQUEDA Avvocato, docente di “Negoziazione e Advocacy Mediation” presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna, dal 2014. Docente presso il Master di Mediazione della School of Management dell’Università Pompeu Fabra di Barcellona e il Master di Mediazione della Scuola Professionale della Svizzera Italiana (SUPSI).

numero chiuso il 18 settembre 2018 ●

CURRICULUM

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A ASSIT RE EDITO


Pendiamo sempre dalla tua parte.

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