Lo Scatolino N50 | Inverno 2025

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LO SCATOLINO

Rivista trimestrale. Poliedrica. Interattiva. Viandante

Inverno 2025

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PUBBLICAZIONE DEL PRIMO BILANCIO DI SOSTENIBILITÀ DELLO SCATOLIFICIO UDINESE SRL

La pubblicazione del primo Bilancio di Sostenibilità dello Scatolificio Udinese srl rappresenta un rilevante passo verso la trasparenza e la responsabilità aziendale, a testimonianza dell’impegno dell'azienda

nell’osservare il presente, ma con lo sguardo diretto al futuro, con l’obiettivo di superare le sfide che si stanno proponendo in continuo mutamento, con opportunità da cogliere ma anche rischi da anticipare.

Questo bilancio, redatto per scelta volontaria, va oltre i tradizionali strumenti di rendicontazione per impattare non solo sul piano finanziario, ma anche in termini sociali, ambientali e di governance.

Solo attraverso un impegno comune e spirito innovativo si può immaginare di affrontare un modello di business che influenza aziende di ogni dimensione - con le persone che vi fanno parte - e che appartengono alla stessa catena del valore.

Per sfogliarlo:

https://issuu.com/36415/docs/scatolificio_udinese_bilancio_di_sosteniblit_2024?fr=xKAE9_zMzMw

A destra - Il bagolaro (Celtis australis) forma viali cittadini, ombreggia parcheggi ed è frequente nella nostra pianura. Questo esemplare dalla quarantennale esistenza è stato visitato dalla neve alcuni anni fa, poi questa si è dissolta come i suoi nomi friulani (crupignâr / cluchignâr / bovolâr) e i ricordi dei bambini che ne mangiavano le poco carnose bacche più che altro per il piacere di sputarne i semi.

In copertina - Sella Prevala nel 1936. L'immagine si deve al fotografo gemonese Guerrino Crapiz (1895 - 1938). Collezione privata.

PROSSIMA USCITA DE

•I TRIMESTRE: MARZO - PRIMAVERA

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Reg. Tribunale di Udine - nr. 9 - 24 settembre 2013 Nr. Roc 24037

Proprietà: Scatolificio Udinese srl

Direttore responsabile: Davide Vicedomini

Progetto grafico: U.T. Scatolificio Udinese

Impaginazione: Federico D'Antoni

Stampa: Scatolificio Udinese srl

Editore: Igab sas

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IL NATALE NEL MISTERO DELL’INCARNAZIONE:

UNA TESTIMONIANZA

Gabriele Fadini

Lo devo ammettere – e spero che il lettore mi perdoni un inizio così personale... – ma per molti anni ho vissuto il Natale con un forte senso di inadeguatezza: il dover essere un po’ (perché è meglio non esagerare…!!!) più buono, i regali, la messa di mezzanotte, il pranzo, il taglio del panettone, il tempo passato in famiglia etc. etc.

Tutte cose che, secondo quanto diceva la tradizione ieri e quanto ripetono ossessivamente i media oggi, mi avrebbero dovuto rendere più felice. Io non mi sentivo più felice, e tanto più respiravo il senso di “dover” essere felice, tanto meno lo ero. Con il tempo, ho conosciuto molte altre persone che vivevano il Natale come me e la cosa mi ha fatto sentire meno solo. Il punto, tuttavia, rimaneva sempre lo stesso: come uscire da questo sentimento di inadeguatezza? Come sentire più “mio” il Natale?

Per provare a dare una risposta a questa esigenza, ho trovato molto fecondo l’approfondimento di quello che è il vero significato del Natale dal punto di vista cristiano.

Come si sa, ma forse non sempre si ricorda a sufficienza, o per lo meno io non sempre ricordavo a sufficienza, alla base della devozione per il bambinello del presepe, è presente il mistero dell’Incarnazione, del Dio che si fa uomo. Detta in maniera più corretta, il mistero dell’Incarnazione della seconda persona della Trinità, il Figlio, nell’uomo Gesù di Nazareth. Con il Natale è, dunque, sempre bene ricordare che si celebra, si medita e si festeggia, la venuta nella storia e nella materialità di un corpo analogo a quello umano, dalla nascita sino alla morte, del Figlio di Dio. La disciplina che studia e approfon-

disce questo mistero, come forse è noto, è chiamata “cristologia”. Ebbene, se il lettore volesse andare a scoprire cos’è la cristologia si troverebbe di fronte a montagne e montagne di libri, manuali, monografie (moltissime delle quali molto corpose e poderose!!!) che articolano la riflessione sui dogmi cristologici dai primissimi secoli dopo Cristo fino agli orizzonti più contemporanei della ricerca. Tra il dato biblico e tra i pronunciamenti ecclesiastici fino alle interpretazioni di teologi, biblisti ed

esegeti dei giorni nostri, orientarsi non è sempre facile pur essendo molti di questi testi e documenti assai validi e stimolanti.

Generalmente oggi, a differenza che nel passato, si dice che esistono molte cristologie, ovvero molti tentativi di dare ragione del mistero di Gesù Cristo, insieme uomo e Dio.

Più modestamente, al fine del discorso che sto qui portando avanti, possiamo, semplificando un po’, raggruppare queste cristologie in due grossi filoni: una cristologia “dall’alto” e una cristo-

logia “dal basso”.

Stando al Nuovo Testamento, possiamo benissimo sostenere che la cristologia dall’alto è ottimamente espressa da due inni: quello con cui si apre il quarto vangelo (quello di Giovanni) e quello incastonato nella lettera ai Filippesi di san Paolo. Nel primo caso, Giovanni sostiene che la seconda persona della Trinità, da lui chiamata la Parola (in greco, il Logos), si fece carne (Gv 1,14) e venne ad abitare, da uomo, in mezzo agli altri uomini. Nel secondo inno, Cristo si fece uomo svuotandosi e spogliandosi della propria divinità per assumere la condizione umana (Fil 2,6-7).

A ben vedere, tuttavia, la seconda parte dell’inno presente in Filippesi, è un ottimo modello a cui guardare per descrivere anche una cristologia dal basso. Nei versetti che vanno dal 7 all’11, infatti, è possibile leggere che la caratteristica dell’umanità di Gesù è quella di essere un servo – un uomo al servizio degli altri – che si è abbassato sino alla morte di Croce e che, per questa ragione, è stato innalzato da Dio Padre ponendolo al di sopra di ogni nome, affinché venga riconosciuto come il Signore.

Se quindi la cristologia dall’alto parte dalla divinità per scoprire l’umanità di Cristo, la cristologia dal basso parte da questa umanità per risalire alla sua divinità. L’una in un movimento che scende dall’alto al basso, l’altra in un movimento che sale dal basso verso l’alto.

Ciò che va precisato è che le due cristologie non sono modalità alternative di guardare al mistero dell’Incarnazione e della compresenza di due nature nell’unica persona di Gesù Cristo, ma

sono perfettamente complementari, lasciando alle sensibilità dei credenti la possibilità di sentirsi più a proprio agio con la prima piuttosto che con la seconda.

Ciò che è importante sottolineare, inoltre, è che quello che le accomuna è che nell’umanità e divinità di Gesù di Nazareth – vero uomo e vero Dio – non si dà più un Dio che non si riferisca all’uomo e viceversa non si dà più un uomo che non si riferisca a Dio.

Questa relazione è spiegata mirabilmente da papa Francesco in quello che forse potremmo considerare il suo testamento spirituale, e cioè la lettera enciclica Dilexit nos dedicata all’amore umano e divino del Cuore di Gesù Cristo. Il Papa paragona il Cuore di Cristo a una fornace ardente d’amore. In essa l’amore di Dio è talmente grande, è talmente desideroso di essere corrisposto dall’amore dell’uomo, da permettere

a questi di entrare in questa “fornace divina”. Dio, in altri termini, riserva uno spazio unico e irripetibile a ogni uomo che voglia partecipare di questo amore. Ma non solo, poiché quanto più l’uomo penetra nell’amore di Dio tanto più egli ha la possibilità di continuare l’opera redentiva di Cristo Gesù nel tempo e nella storia, diffondendo l’amore di Dio anche agli altri uomini. Ciò comporta che a tutti gli uomini è data la possibilità di apportare il proprio originalissimo contributo al piano di salvezza di Dio.

Se, dunque, l’essenza del Cuore di Gesù Cristo è l’amore, questo sentimento non potrà escludere alcuni a scapito di altri, ma sarà totalmente inclusivo, cioè dovrà abbracciare tutte le creature, poiché più si ama Dio più si ama il prossimo e più si ama il prossimo più si ama Dio.

Per corrispondere, quindi, all’amore di Dio l’uomo è chiamato ad avere gli “stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5), ovvero il divenire – con le parole del grande teologo tedesco luterano Dietrich Bonhoeffer – “un uomo-per-altri”, e cioè un uomo completamente dedito al servizio al prossimo fino alla rinunzia e al dono ultimo di sé.

Il percorso tracciato da papa Francesco è stato ripreso dal suo successore papa Leone XIV nella Dilexi te. Esortazione apostolica sull’amore verso i poveri , che effettivamente si pone come compimento di un desiderio del suo predecessore sul soglio pontificio. Per Leone, l’amore del Cuore di Cristo è legato indissolubilmente all’opzione preferenziale per i poveri. Gesù – ci dicono oggi anche i biblisti – è l’uomoper-altri in particolar modo per i più poveri e i più sofferenti. Ciò comporta

che più si penetra nel cuore di Cristo più si amano i poveri e più si amano i poveri più si penetra nell’essenza del suo amore.

Tutto ciò ci porta a sostenere che l’amore per i più sofferenti in cui possiamo vedere, mediante lo Spirito Santo, la presenza di Cristo, è il culmine di tutta la dinamica cristologica.

Ma non solo, poiché se l’incarnazione come abbiamo visto è il farsi carne della Parola, l’amore per i più deboli consiste nel dare parola alla loro carne martoriata al fine di elevarla a una più piena umanità.

Se quindi il mistero dell’incarnazione è l’assunzione di ciò che è umano nel divino, la risposta dell’uomo a questa discesa di Dio in lui, consiste nel dare dignità a tutti gli aspetti che nella persona sono più sofferenti e più scartati. Ne consegue che nell’elevazione, l’amore per i più poveri smette definitivamente di essere una pratica assistenzialista per divenire promozione integrale dell’uomo e partecipazione concreta e diretta al Regno di Dio. In quest’ottica, il Natale è riconoscimento della gratuità dell’amore di Dio per ogni persona nella sua interezza. Dio, cioè, nel farsi uomo comunica all’uomo il modo in cui essere più autenticamente e pienamente se stesso, e lo invita ad accettare di farsi incontrare da Lui anche in ciò che è inconfessabile di sé, e cioè anche nelle sue “povertà esistenziali” e non solo materiali, senza discriminazioni o meriti da presentare per poter essere riconosciuto come suo figlio.

Ma il Natale trova il suo senso anche nella pratica e nell’esperienza di solidarietà con gli altri come partecipazione attiva alla costruzione del Regno

di Dio. Il Regno, infatti, per un verso inizia con quell’amore di Dio che, come è visibile in Gesù Cristo, è pronto a rinunciare anche a se stesso al solo fine che la persona raggiunga la sua pienezza e la sua felicità, e per altro verso continua con la collaborazione proprio di quell’uomo che Dio vuole per compagno nella pratica della giustizia.

Il lettore, a questo punto, si domanderà se questa riflessione mi è stata utile a vivere meglio il Natale, che è la domanda da cui ero partito. Direi proprio di sì! A patto che ciò su cui ho riflettuto e di cui ho cercato, a tentoni, di rendere ragione in queste righe, non abbia la pretesa di spiegare e così esaurire i misteri natalizi né abbia la pretesa – ci mancherebbe!!! – di indicare a chiunque come vivere il Natale.

Il mio sforzo con questo scritto è stato solo teso a esprimere la personale testimonianza di come, nel mio piccolo, poter vivere la giornata del Natale dal punto di vista di una spiritualità incarnata nella direzione e nella prospettiva di un mondo più giusto e più solidale.

CONSIGLI DI LETTURA

*Papa Francesco, Dilexit nos. Sull’amore umano e divino del Cuore di Gesù Cristo. *Papa Leone XIV, Dilexi te. Esortazione apostolica sull’amore verso i poveri.

Gabriele Fadini è dottore di ricerca in filosofia e laureato in scienze religiose. Si occupa di tematiche in cui il pensiero filosofico si intreccia con quello teologico; e anche di teologia-politica, cinema e psicoanalisi. Collabora e ha collaborato con riviste nazionali e internazionali.

PARTE DAL COGNAC PER ARRIVARE A MARTIGNÀ

NOMI DI LUOGO IN FRIULI, UNA INTRODUZIONE

Enos Costantini

I nomi di luogo servono a identificare un luogo (se vado al mercato di Maniago non vado a quello di Spilimbergo) e a fissare punti di riferimento nel paesaggio (se vuoi andare al villaggio di Surisins attraversi il Riul di Marcuç, sali per la Stentaria e arrivi sul Pecol dai Cjarpins, poi scendi per Cjastenêt e, passata la Selvate, sei in vista di Surisins; per arrivarci più velocemente prendi il sentiero detto Traversagn che comincia dove c’è la Fontane Rosse...). Questi sono nomi di luogo tradizionali; oggi ci si orienterebbe con nomi di vie e di piazze, ma anche di supermarket, cavalcavia, pompe di benzina, ecc. Ogni popolo ha dovuto “inventare” dei nomi di luogo per questioni pratiche e, ovviamente, lo ha fatto nella sua lingua. Così gli antichi romani, che parlavano latino, hanno chiamato Quadruvium ‘quadrivio’ il luogo che per noi è Codroipo / Codroip e Tricesimum ‘il trentesimo (miglio da Aquileia)’ quello che è Tricesimo / Tresesin. Vi è nondimeno da dire che in molti casi si è adottata una denominazione “già bella e pronta”, e ciò succede soprattutto, anche se non solo, con nomi importanti quali città e grandi fiumi. Così tanti nomi di luogo canadesi (ad es. Ontario, Ottawa, Québec, Toronto e lo stesso Canada) sono quelli che i coloni hanno appreso dagli indiani, accontentandosi semplicemente di adattarne la pronuncia ai suoni della propria lingua. I Romani, quando hanno occupato il Friuli, hanno mantenuto nomi che erano stati creati dalle popolazioni preesistenti: Udine, Osoppo, Gemona, Tagliamento, Isonzo non sono certo nomi latini.

Tuttavia, siccome i Romani hanno colonizzato in modo capillare un territorio con bassa densità demografica, ecco

che si sono trovati a dover creare nomi nuovi: possiamo affermare che buona parte dei villaggi friulani ha nomi latini i quali, nella maggioranza dei casi, sono quelli di coloni romani.

Ovviamente anche i popoli parlanti lingue germaniche o slave che sono arrivati dopo i Romani hanno lasciato dei nomi di luogo: si è creata, così, una “stratificazione” che parte da molto lontano e che arriva fino ai giorni nostri. Conviene, perciò, andare con ordine e partire dai tempi più antichi.

Misteri

Non sappiamo nulla delle lingue parlate in Friuli prima dell’arrivo dei Romani. Alcuni nomi di luogo come Udine e Osoppo / Osôf rimarranno probabilmente sempre un mistero.

Per quanto riguarda Osoppo uno studioso ha detto una cosa seria: “il nome non è celtico, non è latino, non è germanico, non è slavo, quindi è più

Il nome Tagliamento /Tiliment / Teament / Taiament, come quello di tutti i grandi fiumi, è abbastanza misterioso. In effetti, quando la lingua locale cambia perché ne subentra un’altra, fatto frequente nella storia, non è “economico” creare un nuovo nome per queste grandi entità idrogeografiche. La lingua che è subentrata semplicemente lo adatta alle sue strutture fonetiche e, così, il significato originario del nome va perduto: non si saprà mai quale popolo, e in quale lingua, lo ha coniato. Per il fiume Tagliamento sono state formulate molte ipotesi etimologiche, nessuna delle quali soddisfacente. La più accreditata gli assegna una origine celtica col significato di ‘fiume dalle piene tumultuose e improvvise’. Non abbiamo certezze su questa spiegazione linguistica, ma come caratterizzazione dell’idrotoponimo regge.

facile dire quello che non è piuttosto che quello che è...”.

Anche nomi come Venzone / Vençon e Aurava / Dogràva (comune di San Giorgio della Richinvelda) si prestano

solo a supposizioni: gli studiosi ne hanno tentato la spiegazione con parole che forse appartenevano a lingue tanto lontane nel tempo da essere praticamente sconosciute. Per esempio Venzone, un tempo scritto Aventione, potrebbe venire da av- che significava ‘acqua’, ma non si dice in quale lingua, né quando era parlata in Friuli. Lo stesso per Aurava: si dice che derivi da un’antica parola aur che significava ‘acqua’ ma, francamente, a spiegazioni così noi preferiamo il mistero: ha più fascino.

La nebbia si dirada

Le nebbie si diradano un po’, ma proprio poco, con i nomi di luogo creati dalle popolazioni celtiche che qui abitavano prima dell’arrivo dei Romani. Della lingua celtica parlata in Friuli non sappiamo proprio nulla, ma gli studiosi, grazie alla conoscenza di idiomi appartenenti allo stesso gruppo linguistico, sono riusciti a stabilire che nomi quali Vendoglio / Vendòi in comune di Treppo Grande, Vendasio / Vendâs in comune di Tricesimo, Tagliamento, Gemona / Glemone potrebbero essere di origine celtica.

Tanto in Vendoglio che in Vendasio c’è l’aggettivo vindos ‘bianco’, Tagliamento significherebbe ‘fiume che si gonfia d’acqua’ e Gemona / Glemone ‘cocuzzolo tondeggiante’ (stessa base linguistica di glemùç ‘gomitolo).

Carnia

Il nome storico della parte alpina del Friuli deriva chiaramente dal nome del popolo Galleis Carneis più volte documentato dalle fonti classiche. Sulla celticità dell’etnia non avevano dubbi gli antichi e anche il nome sembra tale, avendo fra l’altro buoni confronti

in altre regioni celtiche o celtizzate d’Europa: il popolo dei Carnutes o Carnuntes della Gallia centrale (con il centro a Carnunta / Carnuntoratum, ora Chartres) e il nome della città di Carnuntum presso Vienna. Sul significato da dare al nome di questo popolo si possono fare due ipotesi. Il termine gallico carnu ‘corno’ poteva determinare il nome di etnie i cui guerrieri (anche in popoli non celtici) portavano spesso tali emblemi sui copricapi.

Un’altra voce attestata presso tutti i gruppi celtici è carn(o) ‘mucchio di pietre’: si trattava qui certamente di uno dei tanti prestiti da lingue preindoeuropee come il basco o il ligure. La semantica di questa seconda base ipotetica del nome rimarrà per forza di cose incerta: poteva indicare coloro che abitano ‘fra le pietre’ (fra i monti), coloro che sono ‘duri come le pietre’ o spiegarsi, come accadeva spesso, con antichi ed ignoti miti di origine e di fondazione.

Fundus flavianus e Flaiban

I Romani sono il popolo che, a causa di un molto intenso uso del territorio, ha maggiormente modificato l’ambiente friulano. Si è trattato di modifiche “razionali”, volte a un uso ottimale dei terreni a fini agricoli, senza distruzioni sconsiderate e con una autentica maestria nel tracciare strade, fossi, filari di alberi. Tracce di strade romane e della stessa centuriazione, sono tuttora visibili.

È grazie ai nomi di luogo, però, che possiamo capire quanto forte sia stato l’impatto della civiltà romana in Friuli. Abbiamo già detto di nomi latini quali Codroipo e Tricesimo, ma potremmo aggiungerne altri quali Coderno e Concordia Sagittaria. Vi spieghiamo,

In epoca preromana si parlarono parecchie lingue in Friuli, ma è arduo dire quali fossero e non le conosceremo mai. Di sicuro sappiamo solo che qui si parlò un idioma celtico prima dell’arrivo dei Romani. Grazie a confronti con idiomi appartenenti alla stessa famiglia linguistica si può dedurre che alcuni, pochi in verità, nomi di luogo friulani possono avere un’ascendenza celtica. Uno dei più sicuri è Vendoglio / Vendoi in comune di Treppo Grande: da vindos ‘chiaro’ e ialos ‘campo’ o ‘radura’. Insomma coi Celti, le nebbie, almeno quelle linguistiche, cominciano a diradarsi.

però, un semplice “trucco” per capire quando un nome di luogo, con il 90 % di probabilità, si è formato in epoca romana: se il nome finisce in -àn (-ano nella forma italiana) siamo quasi sicuri che si sia formato in epoca romana. Questi nomi sono tanti: Aviano, Azzano, Barbeano, Borgnano, Brazzano, Coseano, Cusano, Dignano, Flaibano, Magnano, Majano, Manzano, Mariano, Morsano, Mortegliano, Pasiano, Papariano, Pinzano, Ranzano, Rodeano, Savorgnano, Sedegliano, Sedrano, Sevegliano, Togliano, Torreano, Valeriano, ecc.

Ognuno di essi porta il nome di un colono romano!

Dovete sapere che gli antichi Romani erano molto attaccati alla terra e la

loro massima aspirazione era quella di avere un podere, un’azienda agricola. Così, quando un Romano finiva il servizio militare, riceveva dallo stato una certa superficie coltivabile in una terra conquistata. Il podere, oggi si direbbe l’azienda, prendeva il nome di chi la coltivava; ad esempio l’azienda di Flavius si chiamava fundus Flavianus e da Flavianus è venuto il nome di Flaibano. Dove abitava Mursius il nome è divenuto Morsano, dove viveva Malius il nome è divenuto Maiano, e sarà facile capire che da Valerius viene Valeriano. Potremmo continuare con altre decine di nomi, ma sarebbe un noioso elenco; vi lasciamo, invece, alle tabelle stradali che indicano i nomi dei centri abitati: ora possono darvi informazioni prima inaspettate.

Altri nomi di persona

Non tutti i nomi di persona latini hanno dato nomi che finiscono in -àn (italiano -ano). Per esempio Plasencis, in comune di Mereto di Tomba, potrebbe venire dal nome di donna Placentia, come la più nota Piacenza dell’Emilia. Martinazzo, in comune di Cassacco, viene dal nome di persona Martino, ma non possiamo sapere in che epoca si è formato perché tale nome è stato ininterrottamente in uso dall’epoca romana ai nostri giorni; possiamo solo dire che è precedente al XIV secolo perché la prima attestazione è del 1342.

Un got di Cognac

Il Cognac è un liquore a tutti noto che prende il nome da una cittadina francese. In Francia vivevano popolazioni celtiche le quali, per indicare il luogo in cui abitava una persona, usavano il suffisso

-àc. Così Cognac è il luogo in cui viveva

un certo Cominius

Anche in Friuli vivevano popolazioni celtiche le quali, per indicare il luogo in cui viveva un certo Martinius dicevano Martiniac , da cui il nome di Martignacco. Nomi di luogo col suffisso celtico -àc sono molto frequenti nel Friuli centrale (Brazzacco, Caporiacco, Cargnacco, Carvacco, Cassacco, Fraelacco, Laipacco, Leonacco, Loneriacco, Lumignacco, Montegnacco, Pagnacco, Tavagnacco, Urbignacco, Ziracco, eccetera). I Friulani, che non amano sprecare fiato, hanno accorciato il suono e la pronuncia è diventata Martignà, Breçà, Cussignà, Cjaurià, Cjargnà, Cjarvà, Cjassà, Dedeà, Deveà, Faugnà, Fraelà, Laibà, Leçà, Lipà, Luvinà, Lumignà, Luserià, Montegnà, Nanarià, Pagnà, Poperià, Primulà, Roscjà, Segnà, Sià, Tavagnà, Urbignà, Vergnà, Zeà, Zerà, eccetera.

Non è una bella musica?

Gli italiani, che amano le consonanti doppie e le vocali a fine parola, li fanno finire in -acco. Anche Manià / Maniago

Luseriacco / Luserià in comune di Tricesimo è uno dei tanti toponimi formatisi da un nome di persona (in questo caso Lucerius) con l’aggiunta di un suffisso originariamente celtico -àc, divenuto -à in friulano, -acco in italiano e -ago in veneto. Qui vediamo la villa Masieri di Luseriacco in una vecchia fotografia scattata dal Cuel Taront.

appartiene a questa serie, ma la sua forma scritta risente dell’influenza veneziana, quindi finisce in -ago e non in -acco.

In genere questi nomi di luogo sono formati da un nome di persona latino, ma potrebbe anche essere il nome di un “indigeno” latinizzato.

Quindi, che cosa significa Maniago? Maniago significa “il luogo in cui abita Manilius” e la pronuncia originaria sarà stata Maniliac, poi diventata Manià e “ufficializzata” nella forma veneziana Maniago.

Anche Istrago / Distrà, finisce come Maniago / Manià, quindi la sua forma scritta risente dell’influenza vene -

ziana (in origine si sarà trattato della proprietà di un certo Histrius). Non dimentichiamo che il Friuli è stato sotto il dominio di Venezia dal 1420 al 1767.

Tanti nomi dagli alberi

Come si dice in friulano “un luogo dove ci sono tanti sassi”? Si dice clapêt, da clap “sasso” a cui si aggiunge il suffisso -êt che si utilizza quando si vuole indicare abbondanza di qualcosa. Così un luogo dove ci sono tante canne palustri sarà detto cjanêt e ciò corrisponde all’italiano “canneto”. Quindi abbiamo capito che il friulano -êt diventa -eto in italiano.

In effetti Merêt , centro abitato del Friuli centrale, in italiano è Mereto. Che cosa significa? Significa “il luogo dei meli”, da Melarêt, a sua volta da melâr ‘melo’, poi abbreviato in Merêt. Evidentemente i meli abbondavano in quest’area quando qualcuno, non sapremo mai chi, è venuto ad abitarvi e, per dare un nome al luogo, si è ispirato alla vegetazione.

Ci sono altri centri abitati che prendono il nome da alberi o arbusti: Cjarpenêt, Colorêt, Frassenêt, Gnespolêt, Lavorêt, Modolêt, Nearêt / Naiarêt, Paulêt, Sarsêt, Taiêt, Talponêt, (Val)picêt, Vencjarêt...

Anche qui c’è una complicazione dovuta all’influenza veneziana. Per esempio da Colorêt ci aspetteremmo una forma

La fontana di Venchieredo, resa celebre da Ippolito Nievo nelle Confessioni d’un Italiano: “Tra Cordovado e Venchieredo, a un miglio dei due paesi, v’è una grande e limpida fontana che ha anche voce di contenere nella sua acqua molte qualità refrigeranti e salutari…”. Venchieredo è la trasposizione veneta del friulano Vencjarêt ‘saliceto’.

L’immagine è dell’illustratore inglese Eric Fraser.

italiana Colloreto, perché i nomi collettivi di piante, in italiano, finiscono con -eto (meleto, pereto, noccioleto, vigneto, pioppeto…), invece la forma scritta è tipicamente veneziana, cioè Colloredo. Così possiamo elencare: Gnespolêt Nespoledo; Lavorêt / Roveredo; Nearêt / Nogaredo; Taiêt / Taiedo; Talponêt / Talponedo; Vencjarêt / Venchiaredo. Aggiungiamo che anche Merêt / Mereto veniva spesso scritto Meredo. Gli italiani, come abbiamo detto, amano raddoppiare le consonanti e far finire le parole con una vocale, così eccovi un elenco di nomi che finiscono con -etto, mentre in italiano corretto dovrebbero finire con -eto:

Paulêt / Povoletto; Naiarêt / Noiaretto; Frassenêt / Frassenetto; Modolêt / Modoletto; Sarsêt / Ceresetto; Valpicêt / Valpicetto.

La maggior parte di questi nomi si sono formati nell’alto Medio Evo, e forse anche prima, quindi non tutti si possono spiegare col friulano. Se per Cjarpanêt / Carpeneto e Gnespolêt / Nespoledo la spiegazione è facile per un friulano (il primo da cjarpin ‘carpino’, il secondo da gnespul ‘nespolo’), per Colloredo bisogna ricorrere al latino colurus ‘nocciolo’, pianta che nel friulano attuale si dice noglâr

Quindi, se questo villaggio si fosse formato solo 100 anni fa, avrebbe preso il nome di Noglarêt

Vi facciamo un ulteriore elenco (poi basta) mettendo, accanto al nome di luogo in forma ufficiale italiana, il nome italiano della pianta da cui deriva: Barazzetto ‘rovo’

Ceresetto ‘ciliegio’; Frassinetto ‘frassino’; Modoletto ‘cerro’; Muscletto ‘muschio’

Nogaredo ‘noce’; Noiaretto ‘noce’; Ornedo ‘orniello’

Povoletto ‘pioppo’; Rauscedo ‘canna’

Ravascletto ‘rovo’

Roveredo ‘quercia’; Ruscletto ‘rovo’

Taiedo ‘tiglio’; Talponedo ‘pioppo nero’

Valpicetto ‘abete rosso’; Venchiaredo ‘salice’.

Se vi capiterà di girare per il Friuli da turisti curiosi troverete tanti nomi che finiscono in -êt nelle campagne e sulle montagne.

Vi faccio solo alcuni esempi: Cjastenêt da cjastenâr ‘castagno’, Faêt da fau ‘faggio’, Bedoêt da bedòi ‘betulla’ e, per il resto, sta a voi divertirvi.

C’è solo una ulteriore piccola complicazione, questa volta tutta friulana. Il sufffisso -êt in alcune parti del Friuli diventa -éit, in altre -ìat, -ìet, -ìot, quindi allenate l’udito perché sentirete Faéit, Naiaréit, Colorìat, Valpicìot, eccetera.

Popoli germanici

Sappiamo che alla caduta dell’Impero romano qui arrivarono diversi popoli germanici e qualcosa dei loro nomi è rimasto se, nei pressi di Udine, vi sono due piccoli centri abitati che si chiamano Godia (dai Goti) e Beivars (dai Baiuvari, popolo che diede il nome alla Baviera).

I Longobardi, arrivati nel 568, si insediarono stabilmente, tanto da fare di Cividale la capitale del loro primo ducato in Italia, ma non lasciarono molti nomi di luogo. In effetti, non crearono nuovi insediamenti e, quindi, non dovettero inventare toponimi nella loro lingua. Potrebbero fare eccezione Farra ‘insediamento di una famiglia’, Gaio e Giais, entrambi col senso di ‘luogo recintato’.

Secondo alcuni studiosi anche Richinvelda, la vasta area che si trova a ovest di San Giorgio, detto appunto “della Richinvelda”, avrebbe un’origine longobarda, o comunque germanica, perché potrebbe significare ‘il campo (Feld) di Arichis’, dove Arichis è nome di persona longobardo.

Valvasone, di non facile spiegazione, è sicuramente di origine germanica; secondo qualche studioso potrebbe venire da due parole del tedesco antico: wal ‘altura, cumulo di terra’ e waso ‘prato’. Il senso potrebbe essere, perciò, quello di ‘prato con cumuli di terra’, oppure quello di ‘prato su un’altura’.

Nobiltà germanica...

Nell’alto medioevo la nobiltà friulana era di origine germanica e, come conseguenza, ci restano nomi di castelli che finiscono in -berg, parola che in origine significava ‘montagna’ e che poi ha preso il significato di ‘castello’. Qui ricordiamo Gronumbergo ‘il castello

Il mulino di Godia in una vecchia cartolina. Il nome Godia ricorda l’antica popolazione germanica dei Goti.

verde’, Guspergo ‘il castello degli uri’, Soffumbergo ‘il castello su un luogo aguzzo’, Pramper(g)o ‘il castello nel luogo disboscato’, Solimbergo ‘il bel castello’ e, ovviamente, Spilimbergo ‘luogo di vedetta’.

... e zappaterra slavi

I nobili di origine tedesca possedevano terre in zone dell’attuale Austria dove si parlavano idiomi slavi e da là fecero arrivare contadini per coltivare i loro possedimenti in Friuli. Ciò spiega perché nella pianura friulana vi siano dei villaggi che portano nomi slavi, per esempio Belgrado ‘il castello bianco’, Gradisca ‘luogo fortificato’, Iutizzo ‘zona desolata, selvaggia’, Lestizza ‘piccola proprietà terriera’, Glaunicco ‘sorgente’, Sammardenchia ‘(acqua) puzzolente’, ecc.

È però nelle campagne che si trova la maggior parte di nomi slavi (nomi di prati, campi, boschi, ruscelli…) perché gli slavi arrivarono come lavoratori della terra. Nel giro di poche generazioni abbandonarono il proprio idioma per passare al friulano, ma fecero in tempo a lasciare numerosi nomi di luogo.

Logicamente si trovano nomi slavi al confine con la Slovenia e su questi primeggia Gorizia, da gorica ‘collina’. Dalla stessa radice potrebbero derivare i nomi di Goricizza in comune di Codroipo e di Gorizzo in comune di Camino al Tagliamento. Un nome molto noto è Redipuglia che viene dallo sloveno e significa ‘terreno arido’, mentre Sagrado viene da za gradec ‘dietro la fortificazione’, e qui si intende una delle tante fortificazioni risalenti all’Età del Bronzo che in friulano sono dette cjastelîrs. A proposto di questi cjastelîrs: quando gli sloveni sono arrivati in Friuli li

hanno chiamati nella loro lingua (gradišče), e da qui sono nati i nomi di parecchi insediamenti: Gradisca di Sedegliano, Gradisca sul Cosa, Gradisca d’Isonzo, Gradiscutta di Gorizia, Gradiscutta di Varmo, Gradischiutta di Faedis.

Questa chiesa intitolata a Sant’Elena si trova in bella posizione su un’eminenza collinare presso Rubignacco / Ruvignans (comune di Cividale). Fotografia di Miloš L. Costantini.

Talvolta la trasposizione di termini slavi in friulano o italiano può trarre in inganno. Ad esempio il nome Santa Maria la Longa (era detta villa Sclavorum nel medioevo) può far pensare a un villaggio particolarmente “allungato” lungo la strada, ma non è così. Quel Longa, apparentemente aggettivo veneziano per ‘lunga’, maschera in realtà lo slavo logu ‘bosco’.

All the Saints...

Risalgono al Medio Evo, e in taluni casi al primo cristianesimo, i nomi di luogo derivati da nomi di santi. Sono abbastanza numerosi perché è facile che si formi il nome di un paese attorno a una chiesa che, fin dalla costruzione, è dedicata a un santo. Si tratta, talora, di cittadine che hanno mantenuto alcune sembianze medievali (San Daniele, San Vito al Tagliamento).

Va anche detto che in Friuli vi è una autentica costellazione di chiesette disperse tra campi, prati, boschi, colli e monti. Ne abbiamo contate oltre ottocento; sì, avete capito bene, sono oltre ottocento: un patrimonio artistico, spirituale, edilizio, architettonico senza pari!

Ognuna di esse diventa un toponimo, anzi, per dirla con gli “studiati”, un agiotoponimo, cioè un nome di luogo che si rifà a un nome di santo o di santa, senza escludere le madonne.

Alcuni santi sono abbastanza frequenti, come Stefano, Antonio e Rocco, altri meno, e si può arrivare a un unicum come San Candido / San Cjandi, chiesetta più volte rimaneggiata, posizionata sotto una strapiombante parete rocciosa nei pressi di Somplago.

Santificazioni

Il nome di San Vito, che abbiamo citato, potrebbe tuttavia nascondere un precedente nome latino, cioè vicus che significava ‘villaggio’. Non mancano altri casi di “santificazioni” dovute alla rassomiglianza di un nome di luogo con quello di un santo.

Che cosa ci possono dire i nomi di luogo?

Avete capito che i nomi di luogo possono essere un bel viaggio nella storia del

Siccome hanno la caratteristica di conservarsi nel tempo anche quando il paesaggio e l’uso del suolo mutano, possono fornirci informazioni sui cambiamenti che sono intervenuti in un’area. Per esempio quando ero bambino andavo con mia zia nella Selva. La prima volta mi aspettavo di trovare grandi alberi e, devo dire, anche i lupi perché, nei pressi, mi disse la zia, c’era un luogo detto Cjasa dal Lôf ‘casa del lupo’. In realtà vi vidi solo prati, filari di viti e canali per l’irrigazione. Il bosco, e i lupi, avevano lasciato il posto alle attività umane. Un altro esempio potrà spiegare anche i cambiamenti recenti nel paesaggio. La collina dietro casa mia si chiama I Prâts ‘i prati’ e, in effetti, vi erano dei bei prati dal colore verde smeraldino. Ora vi sono soltanto cespugli e rovi perché da ormai tanti anni nel paese non ci sono più vacche e nessuno è interessato all’erba. Così come non vi è interesse per altre forme di agricoltura e i rovi hanno invaso il territorio senza trovare

I Magredi sono terreni alluvionali recenti (grave, glerie) che fornivano solo poca erba e scarse quantità di legna da brucio. Buona parte di essi è stata “bonificata” e, attualmente, viene coltivata a vite, fruttiferi, mais e soia. Magredo è la trasposizione veneta del friulano magrêt che, evidentemente, significa ‘terreno magro’; in italiano avrebbe dovuto dare Magreto.

La fotografia, risalente agli anni Sessanta del secolo scorso, fa vedere un trattamento antiparassitario in un giovane impianto di melo sulle grave “redente”..

ostacoli. Però quel nome I Prâts ricorda il passato recente, quando mia nonna vi andava con la falce e la gerla. Poco più in alto c’è una collina detta Cjastenêt ‘castagneto’, ma i castagni sono scomparsi a causa di una malattia che nessuno ha pensato di curare perché il territorio è stato abbandonato. Il nome tuttavia rimane, anche sulle mappe, a testimoniare il passato del luogo.

Fagagna significa ‘il luogo dei faggi’, ma non esistono più faggi negli ameni

Friuli.

dintorni di questa cittadina, a meno che non siano stati piantati in tempi recenti a scopo ornamentale.

Il paesaggio del Friuli è cambiato in modo drastico negli ultimi 50 anni ed esempi simili si potrebbero fare a centinaia. Ciò non è valido solo per la montagna. Quando parcheggio nel piazzale asfaltato di un supermarket, ricordo che quell’area si chiamava La Cjaranduce ‘la piccola siepe’ e vi scorreva un fiumiciattolo noto come Riul dal Mulin perché poco più a monte muoveva le ruote del Mulin di Cec . Siepe, ruscello e mulino sono scomparsi, ma i loro nomi rimangono vivi tra la gente e lo rimarranno ancora a lungo sulle mappe.

Parole friulane

Alcuni nomi di luogo vengono da termini caratteristici del friulano. Così Zoppola sarà da collegare a çaup ‘truogolo’ che, come traslato, può avere dato il nome a un corso d’acqua e questo è passato poi al centro abitato.

Feletto in comune di Tavagnacco e Felettis in comune di Bicinicco derivano da felét ‘felce’.

Tesis in comune di Vivaro potrebbe venire da tese ‘luogo dove si catturano gli uccelli con le reti’.

Sono molti i toponimi che hanno come base ronc il cui significato è ‘luogo disboscato ai fini della messa a coltura’ (Ronche di Fontanafredda, Ronchi di Terzo di Aquileia, Ronchi di Monfalcone, Ronchiettis di Santa Maria la Longa, Ronchis in più luoghi e altri simili). Sui nostri colli orientali la parola ronc è ora passata a significare ‘vigneto in collina’.

Passons in comune di Pasian di Prato è il plurale di passon ‘pascolo’.

Vi sono diversi luoghi che si chiamano

Marsure: il nome viene dall’aggettivo

friulano mars, col quale si indicano terreni molto poveri, improduttivi. Savalons in comune di Mereto di Tomba è il plurale di savalon ‘sabbia’.

Chiudiamo questa breve rassegna con Magredo, forma veneziana di Magrêt che viene dal friulano magri ‘magro’, nel senso di ‘terreno povero, improduttivo’.

Salét

Con salét / selét in friulano si indicano quelle aree lungo le rive dei fiumi in cui crescono i salici. I fiumi, però, possono cambiare corso e il nome rimane, allora, all’interno di campagne coltivate, o può diventare nome di villaggio. Così troviamo Saletti in comune di Buja, Saletto in comune di Chiusaforte e di Morsano e Selet in comune di Vito D’Asio.

La casa bruciata

I nomi di luogo posso ricordare avvenimenti del passato che non sono entrati nella storia, ma che sicuramente colpirono la gente del posto. Casarsa significa ‘casa bruciata’ e non sapremo mai perché e quando bruciò; sicuramente dovette segnare anche il paesaggio per poter diventare nome di luogo. Lo stesso vale per Casasola ‘casa isolata’, nome di almeno tre villaggi, rispettivamente in comune di Majano, di Frisanco e di Chiusaforte. Anche una casa nuova dovette segnare il paesaggio e il nome rimase quando la casa invecchiò e da essa nacque un piccolo insediamento, ed es. Casanova di Martignacco e Casanova di Tolmezzo.

Errori di burocrati

Tutti gli elementi del paesaggio, siano essi naturali che artificiali, possono dare nomi di luogo. Talvolta il loro significato è trasparente: basta sapere l’italiano

per conoscere l’etimologia di Fiume. Nel caso di Fiume Veneto (in friulano Vile di Flum ) il curioso aggettivo “Veneto” è stato aggiunto nel 1911, in un periodo storico in cui si pensava che il Friuli fosse solo una appendice del Veneto.

Il catasto di Peonis porta una “via delle Dimesse” e sarebbe lecito supporre che lì si trovasse un istituto di quella congregazione femminile. La cosa sarebbe, tuttavia, perlomeno improbabile in quel pur ameno villaggio situato in riva al Tagliamento. In effetti si tratta soltanto di una trascrizione non corretta del nome che i paesani davano alla strada che conduce alla chiesa: la Via di Messa. La casistica sarebbe quanto mai varia e lepida, ma preferiamo fermarci qui.

Parole dimenticate

Alcuni nomi di luogo vengono da parole friulane che non si usano più. Per esempio Sequals viene da Sot i Cuals ‘sotto i colli’, ma la parola cual è caduta in disuso ed è stata sostituita da cuel Lo stesso vale per Qualso / Cuals che si trova in comune di Reana.

Attenzione!

Vi sono degli zuzzerelloni che si divertono a trovare le origini più strampalate ai nostri nomi di luogo.

Aprono il dizionario di un’antica lingua, per esempio l’Old English, trovano una parola che assomiglia a un nome di luogo friulano e così un nome di luogo che è latino, o friulano, o slavo, diventa anglosassone!

Se io apro il vocabolario di una lingua turanica posso trovare che ud in significa ‘la città sotto la collina’, ma posso spiegare così il nome di Udine? Certo che no. Qui non ci sono mai stati popoli turanici, né anglosassoni.

Non fatevi fregare da queste spiegazioni; si possono fare per gioco ma, per le cose serie, fidatevi solo di gente del mestiere. In questo difficile campo, peraltro, neppure i più grandi esperti sono depositari della verità assoluta e, di fronte a molti nomi, devono arrendersi perché non hanno elementi per arrivare a una spiegazione plausibile. Piuttosto che dire una stupidaggine preferiscono trincerarsi dietro un “non so”, e hanno tutta la nostra approvazione.

Il falco e l’airone fanno parte della splendida decorazione del soffitto nella cosiddetta “stanza dei fogliami” di palazzo Grimani (Venezia). Sono opera del pittore Camillo Mantovano che li dipinse negli anni Sessanta del Cinquecento.

Gli uccelli, a causa della loro mobilità, compaiono raramente in toponomastica. I pochi nomi che formano si rifanno a pennuti ben noti in quanto ritenuti nocivi (le opinioni dei moderni ambientalisti non fanno testo in toponomastica), ad esempio i rapaci diurni. Facciamo seguire alcuni esempi raccolti in un’area da noi indagata.

Il nîbli “nibbio”, classico nemico degli animali da cortile e, perciò, tanto inviso alle massaie si trova in ben cinque toponimi: Niblâr (col solito suffisso -âr che indica abbondanza) ad Avasinis, Cret dal Nîbli “roccia del nibbio” ad Alesso, Cuel dal Nîbli “colle del nibbio” a Cesclans, Pecòl dal Nîbli “erta del nibbio” a Pradis di Sotto. Ricordiamo, poi las Pàlas dai Vìdui “i pendii dei falchi” di Pert (Val d’Arzino) e, infine, la maestosa aquila che dà due toponimi ad Alesso: il Trói da l’Acuila “il sentiero dell’aquila” e il Cret da l’Acuila “la roccia dell’aquila”.

OSVALDO, UN SANTO INGLESE IN FRIULI

Osvaldo è un santo poco noto in Italia anche se gode di un culto particolare in Friuli, specialmente in Carnia, e nelle regioni contermini di Stiria e Tirolo. Insomma un santo del nord che non ha mai varcato la linea gotica. Ma, per capirci meglio, facciamo un passo indietro.

Oswald visse nel VII sec. in Northumbria (oggi Northumberland, contea all’estremità nord-orientale dell’Inghilterra). Era figlio del re di quella regione allora ancora pagana e ostile al messaggio evangelico. Oswald, divenuto re alla morte del padre, si fece cristiano e dopo la battaglia di Hevenfelt dove sconfisse il temibile Cadwalla grazie anche a una salvifica croce di legno che precedeva l’armata, riuscì a convincere i suoi ad accettare di buon grado il Vangelo. Venne chiamato il vescovo Aidano cui il nostro Osvaldo donò l’isola di Lindisfarne per fondarvi un monastero e una sede episcopale. Il buon Osvaldo riuscì, nel segno di Cristo, a unificare la regione e anche gli altri re riconobbero la sua supremazia specialmente dopo il suo matrimonio con la principessa Cineburga, figlia del re del Wessex che tanto aveva ostacolato il loro amore. Tutto procedeva per il meglio, ma come si sa, non esistono gioie durature. Dopo pochi anni di regno, nei quali si era comportato da saggio e avveduto cristiano, fu ucciso all’età di 38 anni nella battaglia di Maserfield dal re pagano Penda. Per ordine del crudele vincitore il suo corpo fu orribilmente mutilato e la testa, le braccia e le mani furono infisse su un palo a mo’ di trofeo. In seguito, assieme ad altre parti del corpo, furono pietosamente raccolte da alcuni devoti e portate in luoghi differenti. Ciò contribuì in modo

straordinario alla diffusione del suo culto perché spesso, dove c’era una reliquia, lì sorgeva una chiesa in suo onore. E come succede per i santi più venerati, gambe, braccia e teste di sant’Osvaldo sono in numero direttamente proporzionale alla sua notorietà tanto che alcune parti del suo corpo si trovano contemporaneamente in regioni estremamente lontane tra loro, in Irlanda, Olanda, Frisia, Fiandre,

Sant'Osvaldo visto dal pittore di Valeriano Plinio Missana.

Baviera, Svizzera, Tirolo, Boemia e Stiria.

In Friuli sant’Osvaldo è soprattutto venerato presso la chiesa di Sauris di Sotto/Dorf, a lui stesso dedicata, che afferma di possedere una sua preziosa reliquia. Anche in Carnia, come si diceva, sant’Osvaldo gode

di particolare prestigio, sia per la vicinanza di regioni in cui il culto è particolarmente attivo, sia per il fatto, non trascurabile, che Malborghetto dipendeva anticamente dalla diocesi tedesca di Bamberga, città in cui al santo è intitolata la chiesa cattedrale. Si tramanda che Sauris/Zahre fu colonizzata nel corso del XIII sec. da alcune famiglie provenienti dalla Lesachtal in Carinzia, sollecitate a trapiantarsi qui dai patriarchi di Aquileia, spesso di origine tedesca, allo scopo di ripopolare terre a loro soggette. Anche la lingua della comunità saurana, per noi così ostica, affonda le radici nel medio-alto tedesco.

In Pieve d’Asio sant’Osvaldo è titolare della chiesa di Casiacco. Da tempi antichissimi la festa di sant’Osvaldo si celebra il 5 agosto, principalmente nel mondo germanico e in Inghilterra, dove gli sono dedicate ben 62 chiese ed è considerato eroe nazionale.

Un culto così diffuso come poteva non sollecitare l’ingegno di tanti artisti? Tenendo presente verità e leggende essi lo rappresentarono in modi diversi. Osvaldo è raffigurato con la corona regale e l’armatura mentre regge con una mano lo scettro e con l’altra una coppa a forma di pisside, in ricordo del suo atto di pietà quando fece a pezzi un prezioso calice della sua mensa per distribuire i frammenti ai poveri che chiedevano l’elemosina. Meno frequente, ma caratteristico in Friuli, è il motivo del corvo, appollaiato sul braccio, che porta nel becco un anello che Osvaldo, per mezzo del corvo, avrebbe inviato all’ amata come pegno d’amore, dal momento che il futuro suocero era solito, poco civilmente, eliminare tutti i pretendenti della figlia che avessero avuto l’ardire di venirgli

al cospetto. Bisogna riconoscere che molta della fortuna del santo è dovuta al corvo, volatile considerato di forte valenza totemica nel mondo germanico e parte integrante del mito di Odino, il re degli dèi, di cui era l’alato, funereo e al tempo stesso salvifico messaggero. Perciò, senza traumi apparenti, anche il nero corvo, come tanti altri animali del pantheon pagano, è riuscito a riciclarsi in ambito cristiano mantenendo inalterata la sua delicata mansione di messaggero di un potente re. In questo atteggiamento collaborativo, sant’Osvaldo e il corvo li possiamo osservare in molti affreschi naif della nostra pedemontana. Emblematico, a livello socio-devozionale, è il caso di Solimbergo segnalatomi dall’amico Tullio Perfetti. A metà del ‘600 il ceppo detto “della Mussa” del clan Crovato, tipico cognome locale, complice l’assonanza corvo/corvat/crovat (suggestiva ma fuorviante), si identificò a tal punto col santo da avere in famiglia ben due Osvaldo, due Osvalda, diversi Sgualdin e vari Valdino e Valdina. Osvaldo veniva invocato per diversi motivi: in Baviera per proteggere il bestiame dalle epidemie, le case e le stalle dal fuoco e i raccolti dalla siccità e dai turbini atmosferici, in Cadore per trovare l’anima gemella quando stentava a…presentarsi. La sua funzione riconosciuta più importante è però sempre stata quella di santo taumaturgo, protettore da epidemie e pestilenze umane. Si tenga conto che, a partire dal 1348, quando tutto l’Occidente fu investito dalla terribile peste nera, Osvaldo fu santo gettonatissimo forse in antitesi con i celeberrimi san Rocco e san Sebastiano accanto ai quali però, per quanto ne so, non appare mai raffigurato. Una rivalità tra santi? Non

direi. Semmai una concorrenza leale senza reciproche invasioni di campo. I pellegrinaggi al santuario di Sauris iniziano proprio in seguito all’ondata pestilenziale del 1348. Flavia De Vitt così ha scritto: “Il culto del santo protettore dalle malattie contagiose, si diffuse clamorosamente dall’Austria alla Germania al Veneto dopo il 1348 quando i villaggi saurani furono risparmiati dalla peste: caso raro ma non unico, da porsi senza dubbio in relazione alla posizione geografica della conca e all’isolamento di questa nella cattiva stagione. Si diffuse la credenza che gli abitanti di Sauris fossero stati protetti proprio dalla reliquia del santo”.

Nella valle del Lumiei è ancora persistente la memoria della profonda eccitazione che pervadeva il paese il 5 agosto, giorno della festa patronale. Ovunque canti e rintocchi di campane accoglievano pellegrini e devoti. Brillava la gioia negli occhi dei bambini e delle bambine che potevano mettersi al collo il tanto desiderato paghele , la dolcissima ciambellona, dono sì di generosi padrini e madrine ma, in fondo, del buon Osvaldo, un santo venuto dalla fine del mondo. E, a proposito di lontananza, non possiamo dimenticarci di Thomas Becket (11181170), un altro santo inglese, molto meno fascinoso di Osvaldo ma che, qui in Friuli, ha pur sempre un suo posticino al sole, anzi …all’ombra, sulle malte affrescate della chiesetta di San Giorgio in Vado a Rualis di Cividale. Avviso ai lettori: se dovesse ripresentarsi il Covid (Dio non voglia), affidatevi sì ai dottori e ai vaccini ma ricordatevi di rivolgervi fiduciosi anche a sant’Osvaldo e al suo salvifico messaggero alato.

UN TESORO A PORTATA DI MANO: LE 44

CHIESETTE DELLE VALLI DEL NATISONE

Chi, come me, è nato e cresciuto in Friuli ha negli occhi ogni giorno la cerchia dei monti, l’ondeggiare delle colline, l’aprirsi della pianura verso lo scintillio del mare all’orizzonte. Poi va nelle città, da Udine con eleganze veneziane in cui è inserito l’eclettismo liberty di D’Aronco e non solo, a Gorizia che richiama splendori e drammi di inizio Novecento, a Pordenone in cui lo sviluppo industriale non fa dimenticare il pittore eponimo, a Spilimbergo con il duomo dai sette rosoni, a Tolmezzo dignitosa sentinella dell’aspra Carnia, a Cividale limitanea nel passato e presente di pietra e memorie. Non è tutto qui, si passa per San Daniele con le vicende di cultura e commerci, Tarcento ricca di tradizioni, Aquileia di antiche memorie, Grado veneta e asburgica, la modernità della spirale urbanistica di Lignano Pineta, cui seguono in folla i paesi sparsi di castelli, ville, chiese e cappelle dipinte, portali scolpiti e le brughiere con aggere di castellieri e tumuli. Una varietà continua, nel confondersi di ambienti naturali e climatici, così come di influssi etnici e culturali, che la Grande Storia ha più volte percorso e lacerato, spesso senza essere intesa e condivisa. In questa multiforme realtà del nostro territorio anche noi, che l’abbiamo sempre vissuto, a volte ci perdiamo, non conoscendone appieno la ricchezza. È proprio quanto a me capitato pochi anni fa quando ho visto la mappa del Cammino delle 44 chiesette delle Valli del Natisone: non avevo nozione della loro esistenza, pur se la mia famiglia proviene da Tarcetta e fin da bambino era prassi frequente visitare i parenti nelle Valli. La presenza di tanti piccoli edifici religiosi, spesso isolati e solitari, nei borghi, ma anche nei boschi o sui

crinali, è ricchezza incredibile e meravigliosa, lascito inestimabile delle generazioni che ci hanno preceduto perché, come ha dimostrato Giorgio Banchig, sono chiese vicinali, cioè costruite per iniziativa e con le risorse delle comunità locali, che secoli orsono andarono sino a Škofia Loka a cercare artisti e artigiani per dare forma sensibile alla loro fede e identità.

Raggiungere le chiesette una ad una, ammirarle e poi ripartire mi è sembrato riduttivo, forse irrispettoso nei confronti di chi, con mezzi modesti, ma ferrea volontà, ha affrontato fatiche e sacrifici, a volte privando la propria esistenza delle già magre risorse, per edificare qualcosa di bello e duraturo. Noi friulani, quando emergiamo da un impegno oneroso da cui non abbiamo ricavato un immediato e diretto vantaggio, esclamiamo “ a glorie di Diu!”. Certo, sono edifici religiosi a gloria di Dio, ma è la gratificazione all’impegno operoso della comunità, il raggiungimento di un risultato con

San Luca evangelista a Tiglio (comune di San Pietro al Natisone). La più antica fondazione dell’edificio viene fatta risalire al 1244, mentre altri l’attribuiscono al tardo Quattrocento: unica data certa è quella del coro, costruito nel 1544. All’interno l’aula è rettangolare, con il soffitto di travi a vista. L’abside, che segue lo schema tipologico sloveno, accoglie l’immagine dell’evangelista Luca, che campeggia sul pregevole altare ligneo settecentesco. Nelle pareti del coro, sui sostegni dei peducci, sonno raffigurati gli evangelisti.

la coesione del gruppo sociale che distribuisce la gloria dell’impresa a tutta la comunità e la trasmette nei secoli. Questi e altri pensieri non mi permettevano di lasciare ogni singola chiesetta dopo pochi minuti, mi imponevano di partecipare in maniera più coinvolgente alla bellezza che irraggiava tutt’attorno. È il motivo per cui ho deciso di fermarmi a ritrarre ogni singola costruzione, nel suo ambiente, nella stagione, nell’ora del giorno in cui l’ho raggiunta: con i miei acquerelli, su

un foglio di carta, ho cercato di fissare l’emozione del momento.

Sono autodidatta, tanti anni fa ho iniziato a dipingere come rilassante soddisfazione personale, senza ambizione alcuna: uso dodici colori, senza nero o bianco, e miscelandoli cerco di imitare quanto il soggetto mi offre. Non disegno il soggetto, vado subito con il pennello intinto sul foglio bianco che non perdona errori, per questo a volte la prospettiva è incerta, l’inquadratura non è centrata, la cuspide del campanile non entra nel foglio, la muratura resta incompleta.

Ho impiegato circa tre ore per completare ogni dipinto, minacciato da formiche, zanzare, rumori di cinghiali, col rischio di rovesciare la bottiglia d’acqua, oppure di affrontare l’instabilità atmosferica. In compenso riesco a entrare in sintonia con l’ambiente, cerco di tradurre nell’armonia della composizione le impressioni di una inconscia meditazione.

Sinceramente alla fine il risultato non sempre mi soddisfa: esaltato dalla bellezza del soggetto parto carico di ambizioni, poi la modestia delle mie capacità si trasferisce sul foglio e il risultato è impietosamente inferiore all’obbiettivo iniziale.

Poi però mi affeziono a quel disegno incerto, sbilenco, in cui ho cercato di trasferire tutto il mio impegno: considero che la nobiltà e la poesia del soggetto siano talmente incommensurabili da rendere gradevole anche una inadeguata copia.

Passo dopo passo, nel giro di tre anni, ho raggiunto tutte le chiesette, anche i ruderi, e dipinto quarantanove acquerelli.

A volte ho pensato ai viaggiatori del Nord Europa che, nel Settecento ed

Ottocento, raggiungevano, nel Grand Tour di istruzione, l’Italia per ammirarne le bellezze e riportarne memoria con disegni e acquerelli: il tempo necessario a completare tali opere obbligava il viaggiatore a immergersi nel soggetto da ritrarre, indagarne i particolari, ragionare sulla struttura ed essere immerso nell’atmosfera.

Le difficoltà e i rischi del tempo delineavano situazioni ben lontane dal contemporaneo turismo veloce e superficiale, in cui la bulimia delle infinite foto digitali è solo illusione di vedere, ma non vede e soprattutto non capisce. Il Cammino delle 44 chiesette con il suo passo lento permette di vedere e capire, conoscere un territorio ricco di panorami, singolari aspetti naturalistici, testimonianze di una economia perduta, tracce di tradizioni secolari. Per meglio comprendere questo territorio unico della Slavia italiana, cerniera fra terre di tradizione veneta e genti di una Europa più orientale, è fondamentale una visita allo

Pieve dei Tre Re a Prepotischis (comune di Prepotto). La si raggiunge dal piazzale del Santuario di Castelmonte con una facile e piacevole camminata nel bosco. La prima costruzione viene attribuita ad Andrea da Škofia Loka, a partire dal 1477. L’ingresso è preceduto da un piccolo portico che immette nell’aula rettangolare con travature a vista. Il presbiterio è caratterizzato da costoloni le cui chiavi principali raffigurano i Re Magi, dedicatari dell’ambiente sacro, la Vergine con il Bambino e sant’Anna. La pala cinquecentesca, di scuola pordenonese forse del Florigerio, posta sopra l’altare moderno raffigura i Re Magi.

"Slovensko Multimedialno Okno –Museo dei Paesaggi e Narrazioni" di San Pietro al Natisone. In una esposizione coinvolgente e affascinante sono presentate la storia, gli aspetti naturalistici, le tradizioni, le identità culturali, che caratterizzano le vallate di lingua slovena al confine orientale dell’Italia: anche questa sarà una scoperta inaspettata della ricchezza nascosta di un territorio quasi sconosciuto.

LA GRANDE ONDA ITALIANA: TERRA PROMESSA, SANGUE NASCOSTO

Cronaca di un’immigrazione che ha trasformato l’Argentina... e che fu costruita anche sullo spossessamento

Tra il 1850 e il 1950, l’Argentina fu una delle principali destinazioni della diaspora italiana. Più di due milioni di italiani attraversarono l’Atlantico in cerca di una vita migliore. Portavano con sé sogni, mestieri e fame, e qui trovarono terra, lavoro e comunità. Tuttavia, la storia luminosa di questa immigrazione è inseparabile dalla storia dello Stato argentino che consolidava il suo territorio attraverso lo sterminio dei popoli originari.

L’Italia tra Fame ed Esodo (18501870)

L’Italia della seconda metà del XIX secolo viveva una profonda crisi. L’Unificazione del 1861 non riuscì ad alleviare le disuguaglianze strutturali: il Nord soffriva di industrializzazione diseguale e disoccupazione, mentre il Sud sprofondava nella povertà rurale e nel dominio dei latifondi.

L’arrivo della Seconda Rivoluzione Industriale (dal 1870) aggravò la disoccupazione, sostituendo la manodopera con i macchinari. Di fronte a questo scenario, milioni cercarono un nuovo destino. Tra tutte le opzioni, l’Argentina si distingueva per la sua promessa di terra, opportunità e cittadinanza aperta.

L’Argentina si prepara: svuotando il Territorio (1860–1884)

L’Argentina, ancora in formazione, abbracciava l’idea che “governare è popolare” come postulato da Juan Bautista Alberdi.

Ma per popolare, prima bisognava “sgomberare” il territorio.

Con il modello agro-esportatore in

piena espansione, le terre fertili erano indispensabili.

Per ottenerle, lo Stato avviò campagne

Sopra - Immigrati italiani dopo lo sbarco dalla nave, 1907.

Al centro - Macelleria a Colalao, 1870Sotto - Registro d'immigrazione.

militari di sterminio contro i popoli originari.

-1879 - Campagna del Deserto: guidata da Julio Argentino Roca, questa azione sfollò o assassinò migliaia di indigeni

Mapuche, Ranqueles e Tehuelches. Furono espropriati più di 15 milioni di ettari.

-1884 - Conquista del Gran Chaco: fu un’azione militare e repressiva contro i popoli Guaraní, Tobas e Mocovíes per annettere terre adatte alla produzione. Come è stato sottolineato “L’Argentina

non si è svuotata: è stata svuotata.”

L’arrivo massiccio degli europei fu costruito sullo spostamento sistematico di coloro che già abitavano quel suolo. Arrivo Massiccio e Insediamento (1880–1920)

Sopra - El Cerro de los Siete Colores, provincia di Jujuy (NEA) - Foto di Federico Lubo Millán da Pixabayn. Sotto - Parco nazionale Ischigualasto, Valle de la Luna, el Hongo Provincia San Juan (Regione del Cuyo)

Con la strada “spianata”, ebbe inizio la grande migrazione. Tra il 1860 e il 1920, più di 2 milioni di italiani

giunsero in Argentina, rappresentando circa il 45% degli immigrati europei. Nel 1914 il 30% degli abitanti di Buenos Aires era nato in Italia.

L’Argentina risultava attraente per le sue politiche di immigrazione aperte, la promozione di colonie agricole e il lavoro garantito in un territorio vasto e in espansione.

Buenos Aires fu l’epicentro. L’Hotel degli Immigranti fu il loro primo rifugio, offrendo alloggio, assistenza medica e orientamento lavorativo.

Molti si stabilirono nei quartieri popolari della capitale, come La Boca (fondato da genovesi), San Telmo e Barracas, epicentri del lavoro industriale e portuale.

Altri si diressero verso l’interno, dove province come Santa Fe, Córdoba ed Entre Ríos li accolsero come coloni e piccoli produttori. La distribuzione territoriale mostra l’entità del fenomeno: il 45–50% si stabilì a Buenos Aires (CABA + GBA), dedicandosi a fabbriche, costruzioni e commercio, mentre l’interno, specialmente Santa Fe (15%), si riempì di colonie agricole. Il lavoro degli italiani fu inizialmente molto duro: lunghe giornate, salari bassi e la barriera linguistica. Tuttavia, la loro capacità di risparmio, la loro etica del lavoro (il famoso laburar del lunfardo) e la formazione di forti comunità (società di mutuo soccorso, club) furono la chiave del loro successo e della loro successiva integrazione totale nella società argentina. In alcune località rurali di Santa Fe, i cognomi italiani superavano il 60% della popolazione intorno al 1920.

L’Italiano si fece Argentino: Cultura, Lingua e Usanze. L’eredità italiana ha trasformato profondamente la cultura nazionale.

Cucina: oltre ai classici gnocchi (che si mangiano religiosamente ogni 29 del mese, spesso con una banconota sotto il piatto per attirare la prosperità), i ravioli, i cannelloni e le tagliatelle divennero piatti domenicali indiscussi. La pizza, portata da genovesi e napoletani, fu adattata: in Argentina è tipi-

Parco

camente a impasto alto, abbondante di formaggio e con meno salsa. La grande invenzione locale è la fugazzeta, una

Sopra -
Nazionale di Iguazù, Provincia di Misiones (NOA)
Sotto - Campo Pampeano (Regione Pampeana)

pizza senza salsa di pomodoro, ripiena di formaggio e coperta di cipolla (una genialità derivata dalla fugassa).

Il gelato artigianale italiano è diventato un’istituzione nazionale.

Lingua e Accento: lo spagnolo parlato a Buenos Aires e dintorni ha una melodia particolare, segnata dal lascito italiano. I dialetti del Nord e del Sud Italia, scontrandosi con il castigliano, diedero origine al “ cocoliche ” (uno spagnolo malparlato dagli immigrati) e, cosa più importante, al “lunfardo”, l’argot porteño. Parole essenziali come “laburar” (lavorare), “pibe” (ragazzo) e la famosa interiezione “che” (attribuita all’eredità italiana), ne sono la prova.

Gesticolazione: il temperamento passionale, la voce alta e la ricca gesticolazione manuale degli argentini sono una chiara eredità italiana.

Sport e Lavoro: gli italiani costituirono la maggior parte della manodopera in fabbriche, porti e costruzioni, essendo fondamentali nello sviluppo del movimento operaio e dell’anarchismo. Molti dei più grandi e appassionati club di calcio hanno radici italiane, come il Boca Juniors, fondato da genovesi. In definitiva, questa “italianizzazione” non ha reso l’Argentina meno argentina, ma le ha dato quel sapore, quella passione e quella complessità che la distinguono. L’argentino, nella sua essenza, è un “tano” del Sud, che ha adottato il mate e l’asado, ma che non ha mai abbandonato il rituale della mamma e dei fideos.

Le Meraviglie dell’Argentina: dalla Pasta alla Pampa

La geografia argentina, che ha accolto questa grande ondata di immigranti con il suo vasto e sublime scenario, ha offerto un contrasto di estremi drammatico quanto le sue stesse

storie migratorie. L’Argentina è l’ottavo paese più grande del mondo, una vasta estensione che abbraccia praticamente tutti i climi ed ecosistemi immaginabili.

I - Il Nord Ancestrale e Cromatico (NOA)

Il Cerro de los Siete Colores (Jujuy): Una montagna che si erge come una

Sopra - Provincia di Neuquen (Patagonia)

Sotto - Il Parco Nazionale Los Glaciares, Provincia di Santa Cruz (Patagonia)

tavolozza di colori, un’immagine iconica dove strati di sedimenti creano uno spettacolo visivo impressionante.

I Valles Calchaquíes (Salta): Paesaggi di canyon rossastri e formazioni

rocciose surreali, dove la cultura ancestrale convive con il ricordo delle missioni coloniali.

II - Il Cuore Fertile: Pampa e Litorale Questa regione centrale è stata il luogo dove il sogno di “fare l’America” è diventato più tangibile, grazie alla fertilità dei suoi suoli che attirò gli agricoltori italiani.

La Pampa Húmeda: l’immenso granaio del paese, un mare di orizzonti infiniti dove nacque la ricchezza agropecuaria (agricola) argentina e si insediarono le colonie agricole.

Buenos Aires: la “Porta d’America”. Questa metropoli cosmopolita è il centro culturale famoso per il tango, l’architettura europea e la sua intensa vita.

III - Il Ghiaccio e l’Epica: la Patagonia

A sud si estende la Patagonia, un

territorio epico di venti implacabili e ghiacciai maestosi.

Il Parco Nazionale Los Glaciares (Santa Cruz): Casa dell’imponente Ghiacciaio Perito Moreno, una meraviglia naturale che avanza costantemente, rompendo iceberg con fragorosi scoppi.

La Fine del Mondo (Tierra del Fuego): La città di Ushuaia, la più australe del pianeta, dove la Cordigliera delle Ande si inabissa nel mare, offrendo un paesaggio di fiordi e valli glaciali.

I Pizzi di El Chaltén: Il monte Fitz Roy, con le sue guglie di granito, è una sfida per gli alpinisti e un magnete per gli escursionisti.

L’Argentina, con i suoi estremi geografici, non solo ha offerto una casa alla diaspora italiana, ma un telaio di bellezza incomparabile dove

il carattere e la cultura importata hanno potuto crescere e fiorire, creando un’identità unica e vibrante.

Conclusione: identità con Radice Italiana... e Ombra Indigena

L’immigrazione italiana ha lasciato un segno indelebile nell’Argentina: nella sua gastronomia, nella sua lingua, nelle sue città e, fondamentalmente, nel carattere appassionato ed espressivo dell’argentino.

L’Argentina moderna non è stata costruita solo con grano, carne e treni. Anche con cognomi italiani... e con territori strappati con il sangue e con il fuoco. La Grande Onda Italiana è, in sostanza, la cronaca di un’identità duale: una forgiata nella speranza e l’altra nello spossessamento.

Provincia di Chubut (Patagonia)

JOHANNA E IL BOSCO

Paola Canu

Johanna era andata a letto presto. La giornata a scuola era stata molto lunga. Si era divertita tanto nel bosco con i suoi compagni e per una volta non le dispiaceva andare a letto presto. La mamma le era sembrata preoccupata, era come se avesse delle nuvole nello sguardo. Ma poi il sonno ebbe la meglio e si addormentò, rapita da sogni abitati da fate e da gnomi, da innumerevoli animali come lo scoiattolo che spesso vedeva saltare da un albero all’altro, o i cervi che sembravano spuntare dal nulla e sparivano così come erano apparsi, lasciando un alone di mistero. Johanna fu svegliata nel mezzo della notte da quelle che le sembrarono delle voci arrabbiate. Arrivavano dalla sala. Johanna rimase fuori dalla porta e sbirciò dalla fessura: il babbo stava discutendo con il nonno. Rimase lì a origliare e scoprì che il babbo aveva deciso di vendere il bosco. “È necessario”, disse con voce perentoria. “Dobbiamo modernizzarci. La legna ci darà tanti soldi. Ci permetterà di vivere meglio e assicurare un futuro alla piccola Johanna”. Il nonno non rispondeva più. Sembrava essersi arreso… Probabilmente aveva già detto tutto quello che aveva da dire. Johanna osservava il suo babbo, così cupo e deciso, tanto da non riconoscerlo più. L’amato nonno, invece, i cui occhi sapevano illuminarsi come quelli di un bambino, ora sembrava tanto invecchiato: un velo grigio gli copriva il volto. Si sedette sulla sua poltrona, svuotato da ogni energia. Johanna tornò a letto, ma non chiuse occhio. Il bosco, quello in cui aveva mosso i primi passi, in cui giocava con i suoi amici, in cui si rifugiava per riflettere, piangere, sognare, sarebbe stato raso al suolo. Il babbo aveva parlato del suo futuro, ma

il bosco era il suo tutto. Come poteva esserci un futuro senza il suo bosco? La mattina dopo preparò lo zaino e chiese alla mamma di darle un po’ di merenda in più. “Ti sei svegliata affamata?”, chiese la mamma. Johanna annuì, finì di prepararsi e uscì di fretta

dopo aver dato un abbraccio particolarmente forte alla mamma. Ormai andava a scuola da sola, a piedi, ma oggi non ci sarebbe andata. Desiderava andare nel bosco. Voleva godere di ogni

Illustrazione di Renate Brutschin

momento. Era come se la stesse chiamando. Si sentiva come avvolgere dagli alberi, i profumi erano più pungenti, gli uccelli cantavano con maggior vigore. L’aria era limpida e fredda, come accadeva spesso in inverno. Sembrava che stesse per nevicare. Sperava che il bosco fosse ignaro di quello che sarebbe successo. Johanna non sapeva cosa fare, ma desiderava semplicemente esserci. Esplorava, girovagava e alla fine si sedette ai piedi del suo albero preferito: un abete gigante che le aveva mostrato il nonno. Lui stesso aveva giocato sotto le generose fronde di quell’albero da bambino. Tutte le volte che erano andati nel bosco insieme, si erano seduti in questo loro posto del cuore. I ricordi erano tanti: erano sempre stati preziosi momenti di gioco, di scambi, di gustose merende. I loro semplici panini acquistavano un sapore speciale, condivisi con allegria e semplicità all’aria aperta. In quei momenti capitava spesso che parlassero di quegli esseri che abitavano nel bosco e che erano invisibili ai più, come per esempio le fate che si muovevano con la stessa leggerezza e giocosità dell’aria, oppure gli gnomi con il loro stretto legame con la terra, tanto da abitarla e proteggerla al meglio. Un tempo questi esseri convivevano serenamente con gli umani, mentre ora si limitavano a entrare nei sogni e nel mondo di animi gentili e accoglienti. Il tempo passò in fretta e cominciava a imbrunire. Le giornate si stavano accorciando e mancava una notte a Natale. Johanna pensava che sarebbe dovuta andare a casa. La mamma si stava sicuramente già preoccupando, ma lei non se la sentiva affatto di rientrare. Non era pronta. Così si rannicchiò sotto l’albero cercando di scaldarsi, trovando

riparo sotto i suoi rami, quando all’improvviso sentì i passi di qualcuno che si stava avvicinando. Johanna ebbe paura, ma solo per un momento, perché quei passi le sembravano familiari. Infatti, si trattava proprio di lui! Si sedette accanto a lei. Aveva portato qualcosa con sé. “Nonno, come hai fatto a trovarmi?” “E me lo chiedi?”, disse il nonno con un lieve sorriso. “Ho sentito quello che ti ha detto il babbo stanotte”, disse Johanna. Il nonno annuì. “E ora non voglio più tornare a casa!” “Nemmeno io”, affermò il nonno. “Possiamo restare qui. Guarda, ho portato il quilt fatto dalla nonna. Ogni riquadro di questa coperta racconta un capitolo della storia della nostra famiglia. Quando sei nata tu, la nonna ha cucito questo: le fate del bosco, gli gnomi e tutti gli animali festeggiano la tua nascita, come se tu fossi una di loro”.

Johanna conosceva bene questa storia e si commuoveva ogni volta

che la sentiva. “Nonno, come mai hai portato la coperta della nonna?” “Beh, ho sempre pensato che avrei voluto lasciarla a te. Aspettavo il momento giusto e ho capito che era proprio questo, anche perché dentro c’è un’imbottitura di lana ed è molto calda. Ci servirà questa notte!” Il nonno coprì entrambi con la coperta. Johanna non aveva più parole e si lasciava abbracciare dal nonno e dalla coperta della nonna. Si guardarono e scese qualche lacrima solitaria. In quel preciso momento iniziò a nevicare. I fiocchi erano grandi e leggeri, sembravano danzare nella luce della luna e delle stelle. Era magico. Si addormentarono entrambi e non ebbero freddo. Sognarono che una miriade di fate e di gnomi li abbracciavano, muovendosi con delicatezza sopra la coperta della nonna per tenerli al sicuro, effondendo affetto e calore. Le fate danzavano

Illustrazione di Renate Brutschin

leggere, mentre gli gnomi procedevano con un passo più ritmico, una specie di massaggio camminato. Nonno e nipote si svegliarono rigenerati e decisero di tornare a casa per non fare preoccupare troppo la mamma e il babbo. Il bosco ricoperto di neve era particolarmente luminoso. Era bello procedere lentamente tenendo forte la mano del nonno, con sottobraccio la coperta della nonna, e sentire lo scricchiolio della neve sotto ogni passo. Johanna ora sapeva di essere pronta ad affrontare qualsiasi cosa per difendere il suo bosco e sapeva anche che non sarebbe stata da sola. Quando arrivarono a casa la mamma li stava aspettando. La videro alla finestra. Aveva preparato della cioccolata calda: “C’è qualcuno che deve dirvi qualcosa!”, disse. Il babbo entrò in cucina. Sembrava non aver dormito. Era visibilmente sconvolto. Si sedette al tavolo insieme a loro e disse: “Ho capito che finché avremo il bosco, abbiamo

tutto quello che ci serve e il resto, in un modo o in un altro, si sistemerà. Ero così convinto di dover risolvere io ogni problema, da non vedere i vostri desideri e quelli del bosco che poi ho capito essere anche i miei”. “Figliolo, cosa ti ha fatto cambiare idea?” chiese il nonno. “Beh, mi è successa una cosa strana… Ero talmente preoccupato ieri sera che ero convinto che non sarei riuscito a dormire. Poi però sono crollato in un sonno profondissimo e ho visto me stesso bambino nel bosco, sotto l’abete grande, ed ero così felice. Ero persino convinto di giocare con gli animali del bosco, ma anche con fate e gnomi. Che fantasia, vero?! Comunque non importa se sia vera o meno, mi sono detto: dove possiamo ancora sognare e crescere se non lì?”. Il nonno annuì, felice di ritrovare il proprio figlio. Sollevata,

Johanna cercò la mano del nonno e guardò fuori dalla finestra, verso il bosco che sembrava sorriderle. Sarebbe stato il Natale più bello della sua vita. I genitori non avrebbero potuto acquistarle dei regali, ma sua madre le aveva fatto un coloratissimo maglione di lana che scaldava il cuore, il babbo le aveva permesso di fare dei lavori con lui nella falegnameria e il nonno l’aveva accompagnata nel bosco. Insieme erano andati sotto il grande abete per festeggiare insieme allo scoiattolo, i cervi, gli uccelli che cinguettavano e - per chi ci crede - con il canto degli gnomi e la magica danza delle fate.

Paola Canu

è nata in Svezia da genitori italiani. A quindici anni, insieme alla sua famiglia, si trasferisce ad Alghero in Sardegna, e ora vive da diversi anni in Toscana. Le storie l’hanno sempre accompagnata: quelle ascoltate, quelle narrate e quelle ancora da scoprire, come fili che legano i tempi e i luoghi.

Renate Brutschin è una pittrice nata in Germania, anche se vive ormai da tanti anni in Sicilia, in provincia di Ragusa. La pittura la accompagna da sempre e la sua creatività si nutre dell’inesauribile generosità della natura. Già da piccola la affascinavano i colori, le matite, un foglio di carta bianca da disegnare, un mondo da creare una pennellata alla volta.

Angelica Pellarini

Cantastorie e arte-terapeuta con le Fiabe della tradizione, diplomata a “La Voce delle Fiabe”, Scuola Italiana Cantastorie fondata da Piera Giacconi. Conduce gruppi con le Fiabe rivolti a bambini, adolescenti e adulti. Realizza progetti su misura, spesso in collaborazione con altre figure professionali. cell. 328 5376003 angelicapellarini@virgilio.it

Illustrazione di Renate Brutschin

NATALE IN GROTTA? FRA TRADIZIONI CRISTIANE E TRACCE DELL’UOMO DI NEANDERTHAL

Nella tradizione natalizia cristiana la grotta ha un ruolo fondamentale. Gesù nasce in una grotta e non in una stalla, anche se i Vangeli non ne parlano esplicitamente, i riferimenti sono ben presenti negli scritti apocrifi. Nel vangelo “Pseudo di Matteo” si dice che, al momento del parto, un angelo dice a Maria di andare in una grotta “in cui non c’era mai stata luce, ma sempre tenebre, perché non riceveva affatto la luce del giorno”. All’ingresso di Maria la grotta si illumina a giorno e splende fintanto che la madre di Gesù vi rimane. In un altro vangelo la grotta viene descritta come grande e utilizzata dai pastori per il riparo delle greggi e del bestiame, tanto da costruirvi una mangiatoia.

Tutti questi elementi vengono da secoli riproposti nei presepi che rappresentano un aspetto fondamentale dell’iconografia natalizia, che ha rallegrato le case ben prima dell’ormai classico albero di Natale.

Anche oggigiorno le grotte sono utilizzate durante le cerimonie natalizie. Nelle Valli del Natisone la popolazione da anni segue la “Messa di mezzanotte” nella Grotta di San Giovanni d’Antro.

Nelle Prealpi Carniche dentro le Grotte Verdi di Pradis da molto tempo una suggestiva celebrazione, nella notte del 24 dicembre, vede protagonisti gli speleologi che si calano con le corde “portando” Gesù Bambino Quella delle Grotte di Pradis è, comunque, una storia molto particolare.

L’Altopiano di Pradis e la forra del Torrente Cosa sono una delle attrattive delle Prealpi Carniche. Punteggiata da grotte e ripari, è l’area che con maggior dettaglio in Friuli ci racconta

del Paleolitico. La sua posizione fra monti e pianura ha avuto un ruolo strategico per l’economia di caccia e di raccolta che ha caratterizzato questa fase culturale.

Sopra - L’ingresso della Grotta di San Giovanni d’Antro (foto Ivo Pecile)

Sot to - L’interno della chiesa in Grotta di San Giovanni d’Antro (foto Adalberto D’Andrea)

All’inizio degli anni Sessanta si decide di trasformare uno dei ripari che costellano la forra del Cosa in un sito religioso e turistico: vengono effettuati imponenti sbancamenti dei depositi presenti sul fondo della cavità al fine di creare un più comodo

pavimento, ora coperto da ghiaia e sassi, e viene realizzato un impianto di illuminazione le cui luci verdi danno il nome al sito, denominato appunto le Grotte Verdi di Pradis. Durante questi sbancamenti emergono anche dei resti ossei e altri frammenti litici. Negli

Sopra - Le Grotte Verdi di Pradis (foto Adalberto D’Andrea)

Sotto a sinistra - Le Grotte Verdi di Pradis durante la messa natalizia (foto Adalberto D’Andrea)

Sotto a destra - Le Grotte Verdi di Pradis: la consegna della statua del Bambino al Parroco (foto Adalberto D’Andrea)

anni Settanta l’Università di Ferrara organizza i primi scavi sistematici che portano al ritrovamento di diversi livelli ricchi di reperti anche con resti di orso delle caverne e un interessante strumentario litico risalente, appunto, al Paleolitico.

Le ricerche proseguono interessando anche altre cavità dell’area come il Clusantin (un riparo sotto roccia vicino alle Grotte Verdi), la Grotta di Rio Secco e la Caverna Mainarda: vengono così ricavate moltissime informazioni relative al contesto ambientale e ai modi di vita dell’Uomo di Neanderthal. Siamo nel Pleistocene superiore, quindi, indicativamente, fra i 40 mila e gli 11 mila anni fa. La comparazione fra elementi faunistici, studi archeozoologici e strumentari litici dimostrano che Clusantin e

Grotte Verdi erano un luogo di “lavorazione” di una delle più importanti risorse dell’area, la marmotta e le Grotte Verdi che conservano anche evidenze riferibili al Paleolitico medio, quindi a oltre 40 mila anni fa.

Alla stessa età risalgono i reperti e le documentazioni della Grotta di Rio Secco, che ci aiutano a comprendere anche la quotidianità dell’Uomo di Neanderthal: dall’attività di caccia al consumo dell’orso, sia quello delle caverne che quello bruno, sino al rinvenimento di un artiglio di aquila reale utilizzato a scopo ornamentale. Molte informazioni sulla mobilità provengono dall’esame del dente di un piccolo neandertaliano: le moderne tecnologie permettono di ricavare informazioni sino a pochi anni fa impensabili.

La Grotta del Clusantin (foto Adalberto D’Andrea)

Grotta del Rio Secco, Grotta del Clusantin e Grotte Verdi di Pradis sono fra i siti che meglio documentano, nelle Alpi Orientali, il popolamento umano fra la fine del Paleolitico e il Tardiglaciale, insomma negli ultimi 50 mila anni.

Quindi i fedeli che seguono la messa natalizia nelle Grotte Verdi di Pradis camminano sulle tracce dell’Uomo di Neandertal!

Giuseppe Muscio, Responsabile scientifico del Geoparco delle Alpi Carniche Circolo Speleologico e Idrologico Friulano

E DAL CANAL DEL FERRO

UN PREZIOSO AFFRESCO DI CARLO V D’ASBURGO A CAVALLO

Raimondo Domenig

Il ricordo della tappa a “Tarvis im Kanal”.

La grande storia ha lasciato un segno importante nella chiesa parrocchiale dei Santi Pietro e Paolo di Tarvisio con un affresco dell’imperatore Carlo V d’Asburgo (1500-1588) a cavallo. In breve gli antefatti dell’estate-autunno 1532. Un possente esercito austro-ungarico di circa 76 mila uomini tra imperiali e territoriali alpini al comando dell’arciduca Ferdinando di Boemia e Ungheria si preparava allo scontro con le schiere del sultano Solimano il Magnifico, per la difesa dell’Occidente cattolico e di Vienna in particolare. In marcia con 200 mila turchi verso il confine austriaco, il sultano non era riuscito neppure ad occupare la piccola fortezza ungherese a Köszeg, Güns in tedesco.

L’imperatore Carlo V d’Asburgo intese contribuire all’azione difensiva guidata dal fratello Ferdinando con 10mila mercenari, 11mila italiani tra cui nobili di Milano, Firenze e Spoleto e 8 mila spagnoli. Anche il papa Clemente VII aveva mobilitato il giovane legato pontificio di Germania, il 21enne vescovo Paolo Jovio di Nocera con la sua presenza e il cospicuo sostegno finanziario di 100 mila fiorini d’oro.

Il 30 agosto Solimano fermò la sua avanzata, abbandonando momentaneamente il suo piano di conquista alla notizia del raduno di un potente esercito imperiale nelle vicinanze di Vienna. Scampato l’immediato pericolo mussulmano per l’intera civiltà cattolica e accantonata la contesa con Martin Lutero e la sua teoria religiosa, dichiarata eretica

Sopra - Affresco di Carlo V a cavallo - Foto
Laureati Luca
Sotto - Particolari affresco

dalla chiesa di Roma 1, l’imperatore rivolse invece la sua attenzione al re di Francia Francesco I, suo antagonista per quanto riguardava l’Italia e in procinto di rivolgere le sue mire di possesso del belpaese. Il suo intento era di rinsaldare in primis la fiducia papale e nel contempo dislocare al meridione le sue truppe, per preservarle dal rigido inverno continentale. Così s’avviò da Vienna il 4 ottobre 1532 in direzione sud. Assieme al grosso delle truppe procedevano 20 mila uomini tra italiani e spagnoli a cavallo e appiedati e 11 mila fanti italiani, comandati dal soldato di ventura Fabrizio Maramaldo. Questi era poco intenzionato a seguire Ferdinando in territorio ungherese nella prosecuzione della campagna contro i turchi. Una parte della sua schiera fuggì verso l’Italia, saccheggiando e incendiando quanto incontrava lungo il percorso.

Carlo V raggiunse Leoben tra il 10-11 ottobre e il 15 Friesach. La sua avanguardia era costituita dalla cavalleria leggera al comando di Ferdinando Gonzaga, quella imperiale da Vasto Margravio di Guasto. A distanza di due giorni seguiva la truppa guidata dal cardinale Ippolito De Medici assieme al clero e ancora più indietro procedeva una terza dalla cavalleria spagnola2.

Il De Medici era stato inviato dal papa in aiuto dell’imperatore con un piccolo reparto. Descritto come tipo focoso, il religioso abbandonò ben presto il sovrano, ritenendo d’essere stato accolto nella missione con scarsa considerazione. L’imperatore lo fece arrestare e liberare poco dopo a St. Veit per non irritare il papa e autorizzandolo al rientro in Italia

via Villaco e la Valcanale. I cittadini della città carinziana non intesero però concedere il libero transito

Sultano Solimano I, da Hans Guldemundt, 60 Jahre auf Habsburgs Throne, p. 48

all’intera truppa. Un ponte provvisorio sulla Drava a Perau salvò la situazione, permettendo a tutti gli italiani la prosecuzione sulla riva opposta del fiume3.

Tra il 19 e il 22 ottobre l’imperatore si fermò con i suoi a Villach, città a lui non sconosciuta per avervi soggiornato a lungo una ventina d’anni prima. Raggiunse Tarvisio il 23 o 24 ottobre4 con 17 reparti, ossia 80mila armati in tutto! Possiamo immaginare ciò che dovette rappresentare per i soli 500 abitanti della Tarvisio di allora quel pernottamento, la requisizione di cibo e di biade per i cavalli! Le cronache non riferiscono della situazione locale; si dilungano

invece testimonianze sulla pur breve sosta imperiale a “Tarvis im Kanal”. La mattina seguente, prima di riprendere lungo la valle, Carlo V fece celebrare una messa nella chiesa parrocchiale5.

Trent’anni dopo quel memorabile evento venne ricordato da un grande e prezioso affresco, unico in assoluto del suo genere, sulla parete destra dell’abside della chiesa parrocchiale, sopra l’ingresso della attuale sacrestia. Raffigura l’imperatore a cavallo nell’armatura del tempo, nere aquile bicipiti, due angeli annuncianti con

trombe e due piccole colonne ornamentali facenti parte dello stemma imperiale con le scritte “ PLUS –OLTRE”, inoltre una dicitura incompleta sotto l’affresco. Vi erano citati la data 1562 di esecuzione del capolavoro, il donatore, non l’esecutore dell’opera 6 . Il solo Tiziano Vecellio ritrasse in un quadro l’imperatore a cavallo nel 1548 in contesto assai diverso, nella figura idealizzata da difensore della cristianità7

L’occasione del presente contributo è data dall’attento recupero dell’affresco, effettuato recentemente dalle restauratrici Angela Cecon e Roberta Visintin. Grazie al loro intervento l’opera cinquecentesca, recuperata allo splendore originale, assume nuovo interesse storico e artistico.

Note di chiusura

1 - In quell’anno firmò sul fronte interno la pace religiosa con la lega di Smalcalda. 2 - J. Weikard Valvasor, Topographie und Statistik des Herzogthums Kärnthen., 1688. pp. 235- 245.

3 - Philipp Vonend, Die Herrschaften des vormaligen Hochstiftes Bamberg, F.F. Hoffmann 1858, pp. 145-146.

4 - Nel testo dell’affresco era indicata la data errata del 29 ottobre, in quanto l’imperatore era a Venzone il 24 del mese.

5 - L’incontro con il papa Clemente VII avvenne a Bologna il 13 dicembre.

6 - Martin Wutte, Eine Reise Kaiser Karls V. durch Kärnten (1532), Carinthia I., Geschichtsverein für Kärnten, Klagenfurt 1921, Joh. Leon sen. pp. 84-91. Il donatore era Cristofer Guggenperger, controscrivano doganale di Tarvisio. Wutte ipotizza anche un altro funzionario, Erasmus Engelhart von Haslpach. Del primo e della moglie del secondo sono conservate in chiesa le pietre tombali con gli stemmi di famiglia.

7 - L’opera è esposta al museo del Prado a Madrid, mentre un primo ritratto è andato perduto.

Chiesa fortificata di Tarvisio, 18° secolo, arch. RD /N

I DIFENSORI DELLE MURA CITTADINE

Mario Salvalaggio

Nel XV secolo la Serenissima Repubblica di Venezia ebbe a costituire nei suoi domini di terraferma una milizia popolare denominata Cernide (dal latino cernere ‘scegliere’).

Se ciò costituì una novità per le campagne, non lo fu per le città murate friulane. Esistevano infatti già, come nelle altre città del Veneto, delle milizie di difesa variamente chiamate cittadine, urbane, popolari e, più tardi, dagli storici, borghesi. Si trattava di un anticipo della lista di leva, delle quali ancora si ritrova traccia: “ scribantur nomina et cognomina singulorum et arma que portabunt” (Joppi).

La presenza delle mura e delle fortificazioni a scopo difensivo nelle realtà urbane del Friuli medievale presuppongono, in tempi nei quali sono frequenti i conflitti, specie feudali, la presenza e l’utilizzo, quando necessario, di un corpo stabile di sorveglianza e difesa, solitamente su base volontaria e solo in casi straordinari di “assoldati” (da soldum ‘a pagamento’)

Le opere murarie da sé, infatti, non bastano perché la loro efficacia dipende sempre dall’uso che ne fanno gli uomini, serrati all’interno, per respingere gli assalti ostili e togliere l’assedio. Per questo motivo chi veniva chiamato alla difesa non solo doveva essere abile nell’uso delle armi, ma anche fermo di carattere, in quanto si trovava a combattere a breve distanza dal nemico e a subirne tutte le pressioni psicologiche.

Tutte le città murate friulane nel basso Medioevo disponevano di un piccolo esercito di difensori, che dall’alto delle mura erano chiamati a rintuzzare tutti i tentativi del nemico

di penetrare in città sia attraverso il lancio di proiettili sia attraverso altre strategie.

Il ritratto del Maggiore Doretti, a capo di un reparto di Cernide istituito dai Savorgnan, feudatari del Friuli

Lo stare in alto avvantaggia i difensori, sottraendoli al corpo a corpo e dà maggiore efficacia ai loro proiettili, che per il loro stesso peso in caduta acquistano maggior velocità. Questo tipo di difesa viene detto difesa piombante e si serve delle sporgenze delle mura verso l’esterno (bertesche). Un altro sistema di difesa era l’usare macchine da lancio, come le balestre da torre, per distruggere le macchine d’assedio nemiche. Più praticati erano i tiri con l’arco e balestre manuali con la tattica detta del tiro ficcante oppure del tiro fiancheggiante che rendeva inutile per l’assalitore portare lo scudo. La difesa era organizzata dalle magistrature reggenti la vita cittadina.

I gruppi armati sono composti, a seconda dei casi, da dieci a venti persone appartenenti alla stessa zona della città e alla stessa arte con una età che va dai 16 ai 40 anni.

Ad un richiamo particolare della campana civica i volontari si armano con le armi custodite da ciascuno in casa, si abbigliano per la difesa con cotte, elmi, livree e si adunano in tempi brevissimi agli ordini di un sergente.

In caso di assedio sono pronti a prendere posizione sulle mura perché ciascuno sa dove è il suo posto e cosa deve fare. Questa prontezza è dovuta al senso che ciascuno ha del dovere di salvare casa e bottega. É un patto cittadino che si basa anche sull’orgoglio dell’appartenenza e si manifesta con l’esibire un gonfalone.

La comunità urbana medievale friulana si organizza così per evitare che la propria libertà e soprattutto gli interessi economici che essa rappresenta vengano meno con il prevalere di un nemico esterno.

Viene quindi stabilito in ciascuna di esse a partire da un piccolo esercito (Burgerwehr) pronto, dall’alto delle mura, a colpire i nemici che tentano di forzarle o scalandole o aprendo una breccia con le macchine che lanciano proiettili, o usando testuggini contro le porte. In tempi normali questi armati servono per la sorveglianza degli ingressi, per “filtrare” persone indesiderate o malate e soprattutto per riscuotere gli incassi sulle imposte. “Tot cives tot milites” è un detto del tempo.

L’armamento delle milizie cittadine nel basso Medioevo è quello tipico delle fanterie del tempo: spada, lancia e scudo. Così anche l’abbigliamento

prevede elmi di diversa fattura, maglie di ferro coperte da cuoio, elementi in metallo a protezione dei punti deboli.

Specializzati, invece, sono gli arcieri e i balestrieri, le cui frecce colpiscono i nemici uno a uno con precisione grazie all’addestramento settimanale. Questa assiduità fa sì che in talune realtà nasca una vera e propria “scuola”, vale adire una associazione professionale religiosa affidata alla protezione di alcuni santi, fra i quali san Sebastiano per gli arcieri o santa Barbara per quanti lanciano proiettili infuocati. Per la fanteria, invece, l’adunata è mensile.

Ci si allena la domenica a tirar frecce durante quelle che vengono già chiamate mostre, anche per verificare l’efficienza delle armi che ciascuno tiene

in casa: “ homines tenentur habere arma in domibus suis”.“Quamplures cives, precipue milites ”: con l’andar del tempo e con la frequenza degli scontri alcuni gruppi finiscono con l'esercitare più l’arte della guerra che il mestiere, cosicché vengono remunerati, diventando i principali attori di tutte le azioni di guerra promosse dal comune.

La presenza di cavalieri nelle città è rara perché sono finalizzati a compiere delle sortite a sorpresa e soprattutto perché costavano troppo.

Le milizie volontarie erano espressione della comunità retta dalla vicinia o da altra assemblea locale dei cittadini, che forniva all’esercito

Difensori delle mura cittadine

cittadino fanti e balestrieri, le sentinelle che vegliavano la notte sulle mura, guardie che facevano la ronda notturna per le strade (custodes)

I più giovani partecipavano con entusiasmo a gare di ogni genere con i coetanei delle altre contrade a scopo di addestramento sportivo

e militare. Solitamente a capo della milizia volontaria cittadina vi è un capitano (Hauphtman), una persona che ha una esperienza professionale del mestiere delle armi, il quale giura ai cives che l’hanno scelto di mantenere “civitatis integritatem et civium universorum incolumitatem”.

È aiutato da un tenente (Stadthalter) e da sergenti. Le fonti narrative del basso Medioevo in Friuli generalmente non descrivono l’organizzazione militare delle città, i metodi di reclutamento degli eserciti urbani, Antonio Savorgnan

la struttura dei reparti e le diverse funzioni a cui erano assegnati, né disponiamo di documentazione pubblica e privata, che potrebbe almeno permettere di formulare alcune ipotesi.

Le poche notizie a nostra disposizione sono tramandate in alcune fonti narrative che gettano deboli sprazzi di luce, ma proprio perché conservate in tale tipologia di fonti, esse non rappresentano automaticamente una descrizione della realtà, quanto magari l’ostentazione dell’autore nel padroneggiare e copiare testi precedenti, o la sua volontà di accrescere i meriti della sua parte politica e della sua città.

Nel corso dell’XI secolo e dei successivi aumentano le attestazioni nelle fonti storiografiche di eserciti urbani, impegnati a combattersi al loro interno (tra “capitanei/milites” e “populus”), pro o contro l’imperatore o i feudatari o i conti di Gorizia o gli stessi Patriarchi, e soprattutto in vere e proprie guerre tra città, come quella lunghissima fra Udine e Cividale del XIV secolo. All’interno delle città medievali friulane la leva militare è generalmente obbligatoria e avviene per censo e su base urbana; tra i richiamati a disposizione dell’ufficiale pubblico una parte (generalmente gli appiedati) rimane in città per la difesa delle mura (“ vigiliae, sculcae, custodia, excubiae ”), una parte (più probabilmente i cavalieri e i balestrieri) segue i comandanti nelle spedizioni esterne e per unirsi all’esercito patriarcale.

L’obbligatorietà del servizio militare urbano, attestata in tutti gli statuti cittadini di età comunale, costituisce la diretta prosecuzione dell’heri -

bannum carolingio, ovvero l’obbligo di servire nell’esercito per quaranta giorni all’anno, indicativamente la medesima durata del servizio militare a cui sono tenuti i cives in età comunale.

I mercenari, invece, erano uomini che vivevano del mestiere della spada, che sulla loro capacità di combattere avevano costruito la loro fortuna e il loro status sociale e che dai redditi della guerra traevano una buona parte delle loro ricchezza. Veri professionisti della guerra, essi erano noti soprattutto per la loro capacità di muoversi in nuclei estremamente compatti sicché, stretti attorno ai loro vessilli a gruppi di venti o trenta, andavano all’assalto senza disperdersi ottenendo un positivo effetto della carica. L’assedio è comunque la circostanza

più temuta e la fondamentale divisione tra combattenti e non combattenti (inermes), centrale dal punto di vista giuridico non meno che sul piano militare, perde di significato, perché di fronte a un assedio a tutti i cittadini viene chiesta una prova di resistenza nei confronti del nemico.

L’unica alternativa alla resistenza delle milizie popolari deriva da un aiuto dal cielo, dal santo o dai santi protettori della città ed è ciò che spesso avviene quando gli assalitori si stancano prima dei difensori e si ritirano.

Naturalmente agli occhi di Dante Alighieri gli eserciti delle città murate del Friuli sarebbero apparsi esigui rispetto a quelli delle città in cui ha passato il suo esilio e anche rispetto alle formazioni cui egli aveva partecipato nella sua Firenze. Solo Udine e Cividale nella loro lunga guerra nel XIV secolo hanno avuto una milizia cittadina consistente, ma in gran parte rafforzata da soldati di mestiere, anticipando quelle che saranno le guerre rinascimentali. Infatti Venezia userà le milizie cittadine e rurali solo come tattica, lasciando il far la guerra alle condotte mercenarie.

GO! 2025: RIFLESSIONI IN FASE DI CHIUSURA

Orietta Alt (Altieri)

Vista la posizione di Gorizia ho sempre considerato naturalmente molto utile una collaborazione transfrontaliera a livello istituzionale, probabilmente perché ho ereditato dalla mia famiglia il concetto di goriziano storico come zona d’origine, corrispondente quindi alla vecchia contea austriaca. Chi è originario di questa zona ha spesso ereditato relazioni familiari o amicali che hanno dovuto adattarsi a un confine imposto dalle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, confine provvisorio dal 1947 e sancito definitivamente dal trattato di Osimo del 1975 che ha “rifinito” la situazione. La nomina di Nova Gorica-Gorizia a prima capitale culturale transfrontaliera d’Europa mi ha quindi fatto molto piacere, anche se, chiarite le motivazioni del conferimento, non ci ho pensato più. Avevo un unico desiderio e cioè che nel resto dell’Italia non mi si chiedesse più come mai parlo così bene l’italiano quando accenno alla mia provenienza. Quest’esperienza che ormai è in fase conclusiva ha portato certamente più turisti in tutta la regione interessata. Ci sono stati innumerevoli eventi di tipologie estremamente varie, sempre in qualche modo legati al concetto di confine. Personalmente ho collaborato ad iniziative interessanti. Sono stata però negativamente e profondamente sorpresa da due slogan pubblicitari: “il muro di Gorizia”, richiamandosi a quello di Berlino, qualche volta addirittura “il muro della vergogna” e “la città delle quattro lingue”. Sono fuorvianti.

Qui di seguito le motivazioni. Certamente fino al 1954 la situazione è stata molto pesante sotto ogni aspetto, ma l’istituzione del lasciapassare, di

poco seguente, ha consentito di riprendere lentamente i contatti reciproci di qualsiasi tipo in un territorio che non era mai stato diviso.

Sono cresciuta quindi in una Gorizia che aveva già ripreso i collegamenti politico-culturali dapprima con la zona limitrofa, ampliandoli poi con due importanti manifestazioni internazionali, il concorso di canto corale “Cesare Augusto Seghizzi”, punto d’incontro di innumerevoli cori provenienti dai paesi dell’allora patto di Varsavia, e l’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei che ha portato a Gorizia fino agli anni Novanta innumerevoli studiosi dell’Europa centro -orientale. Al concorso Seghizzi, cui ho dato una mano nei miei anni di università e in quelli immediatamente seguenti, devo non solo la pratica di lingue straniere, ma anche il contatto con miei coetanei “d’oltre cortina” che mi ha fatto viaggiare negli anni Ottanta in quei paesi non troppo lontani, ma che mi davano

allora l’impressione di vivere in un film degli anni Cinquanta. Al convegno mitteleuropeo del 1982 ho conosciuto uno studioso dell’Università di Vienna che sarebbe poi diventato il mio “tutor” (ho mancato l’Erasmus per un filo) nella revisione della mia tesi di laurea prima della pubblicazione. Ma ricordo anche gli incontri dei vecchi partigiani del IX. Korpus della stara e della nova Gorica che facevano rivivere quelle storie così lontane.

Sì, certo c’era un muretto, simile a quello di un giardino, che impediva di raggiungere la stazione Transalpina, situata sull’altro lato della piazza, e bisognava quindi attraversare il confine dal valico secondario più vicino, ma non creava disagi particolari. I miei genitori non avevano il passaporto, ma quando ero bambina siamo riusciti a raggiungere i parenti a nord di Lubiana per un funerale. Ho fatto appena in tempo a sperimentare il muro di Berlino, borsista del Goethe – Institut nelle estati 1987-89, un periodo di controlli molto meno severi che in passato, come mi era stato raccontato, ma non ho mai visto a Gorizia (sono nata nel 1958) cecchini pronti a sparare dal tetto come nella stazione della Friedrichstrasse, i tre controlli di polizia molto accurati e il “palazzo delle lacrime”, al cui esterno salutavo amici di Berlino Est che non potevano assolutamente avvicinarsi alla zona vera e propria del confine. Nova Gorica è sorta lentamente (in quell’area, oltre alla stazione Montesanto erano diventate jugoslave solo le poche case presenti e il convento della Castagnavizza), con il lavoro di tanti giovani di tutte le repubbliche socialiste, perché si voleva dare un moderno capoluogo amministrativo

ed economico a tutta la parte della vecchia provincia di Gorizia diventata Jugoslavia. Tanti giovani di allora si sono fermati e i loro discendenti vivono assieme agli sloveni della zona che hanno deciso di vivere in quella nuova città.

Linguisticamente parlando la storia di Gorizia è molto interessante. Austriaca fino al 1918 convergevano lì tutte le parlate del vicinato: friulano, veneto (la lingua franca dell’Adriatico orientale), sloveno. Se necessario quindi ci si arrangiava senza porsi problemi linguistici. Io stessa, un paio di estati fa, ho trattato l’acquisto di cibo al mercato di Zara, di fatto completamente croata, usando il mio sloveno sgrammaticato, circondata dall’ammirazione delle venete che erano con me.

Allora lingua di prestigio (quella dell’alta borghesia che guardava all’Italia) era l’italiano e lingua ufficiale il tedesco. La nobiltà, fin dai primi anni di vita, veniva abituata a usarle tutte, volendo relazionare al meglio con qualsiasi strato della popolazione. L’insegnamento elementare era impartito in italiano o in sloveno, solo l’istruzione superiore, riservata alle classi sociali più abbienti o ai poveri molto meritevoli, era in tedesco. Verso la fine dell’Ottocento il tedesco registra persino un boom a livello di scuole elementari private (prima si orecchia una lingua meglio è!).

Il censimento del 1900 registra a Gorizia l’uso dell’italiano o del ladino (=friulano) come lingua colloquiale utilizzata da 16.112 individui, 4754 sono coloro che utilizzano lo sloveno, 2760 il tedesco, 77 il serbo-croato, 54 ceco o slovacco, 6 polacco, una persona parla l’ucraino e una il rumeno.

L’annessione all’Italia (1921) e il violentissimo giro di vite operato dal Fascismo alla fine degli anni Venti hanno sconvolto completamente questa situazione.

Attualmente le scuole slovene di Gorizia hanno aperto ormai da molti anni anche ai bambini di famiglie italiane e i genitori cercano di accompagnare i figli in questo passo. Nella Slovenia contermine l’italiano ha un ruolo molto importante nell’offerta turistica e l’apprendimento è stato notevolmente favorito anche dalla televisione italiana che trasmetteva cartoni animati molto più attraenti di quelli della tv slovena. Da entrambe le parti però la famiglia è determinante, assieme ovviamente alla capacità

naturale di usare codici di espressione che ben poco hanno in comune. L’uso colloquiale del tedesco è limitato a qualche famiglia che ha congiunti o amici stretti di lingua tedesca. Per quanto mi riguarda il friulano e il mio sloveno minimo sono parte del mio lessico familiare, assieme ovviamente all’italiano che fa la parte da leone. Il mio tedesco, imparato lentamente da ospite della famiglia di un ex marconista della Wehrmacht di stanza a Spessa di Capriva, sede di quel comando supremo dall’autunno 1943 all’aprile del 1945, rimasto legato agli amici caprivesi fino alla morte, perché profondamente toccato dall’accoglienza così umana che aveva trovato lì dopo l’orrore della Russia, è stato sistemato grammaticalmente dall’intelletto brillante di suor Clara Schöneberger delle suore di Nostra Signora, attualmente quasi estinte. Il suo ordine, nel momento in cui Hitler aveva chiuso tutte le scuole confessionali, l’aveva mandata giovanissima a Gorizia assieme ad altre. Mi sono laureata in lingue (con una tesi sulla storia di Gorizia!) e quindi il mio inglese è sempre allenato. Parte della mia famiglia paterna è emigrata in Francia e in Argentina negli anni Venti e i discendenti sono passati regolarmente da noi per conoscere il paese dei nonni, da parte nostra qualcuno è stato in Francia o in Argentina, orecchiando quindi queste lingue. Il fratello minore di mia nonna materna, volendo rimanere fedele alle idee del socialismo, conosciuto durante la prigionia in Russia da soldato dell’imperatore, è emigrato in Australia alla fine degli anni Venti. I figli e i nipoti sono venuti a farci visita, ma qui la reciprocità è stata minima!

Litorale austriaco 1866-1918 - Fonte it.wikipedia.org/wiki/Gorizia

RECUPERATA UN’ANFORA DEL I SEC. D.C. RESTITUITA AL

MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI AQUILEIA

Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale

Il 21 gennaio 2025, ad Aquileia (UD), i Carabinieri del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale di Udine hanno consegnato al Museo Archeologico Nazionale un’anfora romana in terracotta, risalente al I sec. d.C., prelevata illecitamente nel 1961 e individuata nell’abitazione di un privato cittadino residente a Trento.

L’anfora, alta circa 65 cm e classificata nel tipo “DRESSEL 25”, segnalata nel 2023 ai militari TPC, è stata trovata integra e in ottime condizioni conservative. Il manufatto, curiosamente, era munito di una piastrina in metallo incisa che ne attestava la provenienza e la data esatta di rinvenimento “in Aquileia il 20-11-1961”.

L’immediato sequestro operato dai militari di Udine, motivato dall’assenza di certificazione che ne attestasse il legittimo possesso o di altra indicazione utile a spiegare il motivo per cui l’anfora, mai denunciata alle competenti Autorità, si trovasse a oltre 250 Km di distanza dal luogo di origine, ha permesso di cristallizzare la situazione ed evitare la sua dispersione o danneggiamento.

La perizia, redatta all’atto del sequestro con l’ausilio di un funzionario dell’Ufficio Beni Archeologici della Soprintendenza per i beni culturali della Provincia Autonoma di Trento, ha confermato la compatibilità di quel bene con analogo materiale archeologico rinvenuto proprio ad Aquileia, cittadina della provincia di Udine la quale vanta antichissimi natali, a lungo la seconda città dell’Impero Romano per importanza commerciale ed estensione e dichiarata UNESCO World Heritage Site nel 1998 a tutela dell’enorme valore storico culturale delle proprie vestigia archeologiche.

Si rammenta che già nel 1961, il patrimonio culturale italiano risultava tutelato dalla L.1089/39 (sostituito successivamente dal D.Lgs 42/2004, meglio noto come Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio), motivo per il quale l’antica anfora non poteva essere detenuta da un privato cittadino né estratta dal sottosuolo al di fuori di una regolare campagna di scavo scientifico autorizzata dalla Soprintendenza competente per quel territorio. Condivisa la notizia con la Procura della Repubblica di Trento, all’esito delle indagini il procedimento si è recentemente definito con l’emissione, da parte del Tribunale di Trento, di un provvedimento di confisca del bene con il suo reintegro al patrimonio culturale dello Stato Italiano. In ossequio ai principi di valorizzazione e ricontestualizzazione di un “bene culturale” (sanciti anche dalla Costituzione italiana), l’anfora è stata formalmente consegnato al competente Museo

Archeologico Nazionale di Aquileia, recentemente rinnovato, riunendo la propria storia con quella del territorio dal quale proviene o, semplicemente, sancendo il proprio ritorno “a casa” dopo più di 63 anni.

Il recupero e la consegna dell’anfora, operato dai Carabinieri TPC nei confronti del Museo aquileiese, testimonia ancora una volta il costante impegno di questa specialità dell’Arma dei Carabinieri in materia di salvaguardia dei beni archeologici, di proprietà dello Stato e quindi della collettività, difendendo l’identità di un territorio in quanto testimonianza del passato, quella stessa identità che è sinonimo di “cultura”.

Per ulteriori approfondimenti: Nucleo dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale di Udine Tel.: 0432 504904

E-mail: tpcudnu@carabinieri.it

PROGETTO COSMESI 2025: LA DIDATTICA DIVENTA

IMPEGNO

Sara Vuano - I.S.I.S. Arturo Malignani

Studenti, studentesse e aziende sostengono l’Associazione ZeroSuTre nella lotta alla violenza di genere

Le classi 5^ della Sezione di Chimica, Materiali e Biotecnologie, in collaborazione con Biofarma, Scatolificio Udinese e Rabachin Group, hanno donato 2.030 € all’Associazione ZeroSuTre, ricavato della distribuzione dei prodotti cosmetici avvenuta a giugno scorso con l’esposizione dei prodotti che le studentesse e gli studenti hanno realizzato sotto la guida e con la collaborazione delle aziende sopraindicate. Di seguito i prodotti realizzati: Mauve - mousse detergente viso a base di glicerina vegetale ed estratto di malva BIO; AloXera - gel lenitivo al 10% di Aloe vera BIO; AVO & NUTS - crema viso a base di olio e burro di avocado e olio di nocciolo.

Il progetto, nato nell'anno scolastico 2024/2025 e articolato in più fasi, ha preso inizio con la formazione degli esperti di Biofarma, momento in cui le studentesse e gli studenti hanno appreso i fondamenti delle tecniche di formulazione e analisi dei prodotti cosmetici, con focus sugli aspetti chimici e microbiologici dei processi di produzione e formulazione cosmetica.

Successivamente le classi hanno scelto alcune sostanze funzionali e ipotizzato la formulazione di nove prodotti fra gel, emulsioni e detergenti. Le proposte sono state valutate dai tecnici per verificarne la fattibilità, giungendo alla definizione dei tre prodotti finali.

La fase del test di produzione è iniziata nei laboratori del Malignani dove è

stata messa a punto la preparazione del gel di posa. Sotto la guida degli esperti di Biofarma, gli allievi e le allieve hanno potuto realizzare in autonomia una delle preparazioni formulate seguendo l’iter di produzione di un laboratorio di ricerca e sviluppo.

Alla formulazione e preparazione del gel, sono seguite le analisi chimiche con la misura della densità e della viscosità e le analisi microbiologiche per verificare l’assenza di microrganismi

Sopra - Consegna della donazione all'associazione ZeroSuTre

Sotto - Momenti degli Incontro-laboratorio con l'Associazione ZeroSuTre

e testare l’efficacia dei conservanti previsti dalla formulazione. Negli stabilimenti di Biofarma è avvenuta la produzione vera e propria, permettendo agli studenti e studentesse di inserirsi in un contesto lavorativo moderno e stimolante, producendo i bulk e confezionando i prodotti.

Contemporaneamente in classe sono state ideate le grafiche necessarie per le etichette e il packaging, la cui realizzazione è stata supportata ed seguita da Scatolificio Udinese e Rabachin Group Graphic Solutions, aziende che hanno ospitato gli studenti aiutandoli a realizzare e valorizzare il loro prodotto e utilizzando programmi di grafica dedicata, con la supervisione di Biofarma per garantire il rispetto della normativa.

Per ultimo è stata scelta l’associazione di promozione sociale Zero/Tre quale beneficiaria delle donazioni provenienti dalla distribuzione dei prodotti.

L’associazione combatte la violenza sulle donne e collabora da tempo con il nostro Istituto all’interno del progetto “Prove Tecniche di Volontariato”.

Inizialmente pensato per la formazione professionale delle nostre studentesse e dei nostri studenti, il “Progetto Cosmesi 2025” si è concluso allargando lo sguardo sulla loro crescita personale e investendo sul loro futuro di persone consapevoli e propositive.

L’Associazione ZeroSuTre, ha organizzato un incontro-laboratorio dove gli studenti e le studentesse hanno potuto confrontarsi e riflettere sul tema della violenza di genere, dei meccanismi che ne sono alla base e sull’idea che abbiamo di “maschile” e di “femminile”, con l’aiuto di una pedagogista e una operatrice antiviolenza.

“Dall’incontro con l’Associazione ZeroSuTre, abbiamo capito che tutti siamo danneggiati e condizionati dalle gabbie culturali della nostra società, a prescindere dal fatto di essere

maschi o femmine. Lo stereotipo del “maschio, bianco, ricco e aggressivo” che così spesso ci viene proposto, limita la libertà di esprimere la nostra vera natura e di scegliere chi vogliamo essere e diventare veramente”.

Manuel, Rei, Andy classe 5CBAA

Un ringraziamento di cuore e non certo in ordine di importanza a tutti coloro che hanno collaborato al progetto la cui valenza formativa è stata ancora una volta confermata dall’entu -

Sopra - Distribuzione dei prodotti cosmetici avvenuta a giugno

Sotto - Particolare dei prodotti confezionati ed esposti

siasmo, soddisfazione e orgoglio dei nostri ragazzi e ragazze, motivo che ci sostiene e sprona a continuare su un percorso già tracciato, ma che si arricchisce ogni anno di nuove idee e ispirazioni.

GIOVANNA DURÌ, OVVERO DELL’ILLUSTRAZIONE

Giuliana Valentinis

Guardare al di là, capire cosa c’è dietro alle pieghe nascoste  delle immagini e delle storie, capire dal profondo il linguaggio dei di-segni per comprendere da quali pensieri o emozioni sono nati, e spesso farle capire anche a chi le osserva. Forse è questo il trait d’union che collega tra di loro  le tappe del curriculum, lungo e articolato, di Giovanna Durì, tutte legate alle più svariate applicazioni del disegno: grafica editoriale e pubblicitaria, progettazione, curatela di mostre e illustrazione.

Seguendo le sue inclinazioni sin dall’inizio, sceglie la sezione metalli dell’Istituto d’arte Sello, per poi approdare alla grafica, seguendo quelle che scherzosamente ha definito ‘le cattive compagnie’.

Con molta determinazione si crea un portfolio con cui si presenta giovanissima in una nota agenzia, dove viene subito assunta; in seguito lavorerà nello studio di Ferruccio Montanari. Quegli anni, i primi Ottanta, segnano il boom della grafica, pubblicitaria e non. Lo studio si occupa di immagini istituzionali della Biennale, collabora con case editrici importanti e ottiene committenze di livello internazionale. Una straordinaria palestra per Giovanna, che lavora con passione in varie direzioni, dedicandosi soprattutto all’editoria. Nell’ambito del suo lavoro stabilisce contatti che le permettono di ampliare i propri orizzonti e che continuerà a intessere anche quando deciderà di aprire, con dei soci, uno studio grafico e in seguito un’attività per conto suo. Fa un po’ di tutto, ma si occupa soprattutto di cataloghi di autori nel campo dell’illustrazione e di mostre d’arte, con una cura che va oltre il confine del lavoro del grafico.

Fra tutte le forme di attività a cui si dedica, predilige il disegno, ma non si definisce artista perché, dice, “è una

Sopra - Il segreto di Leogatto, testi Daniele Varelli, Piazza Editore 2025, pagina finale, pastello su carta

A sinistra - Gatto unico, Giovanna Durì, Nuages 2014, pagina 26, china e grafite su carta

Sotto a sinistra - Vladimir e Kurama, 2022, Giovanna Durì, china su carta

Sotto a destra - Gulasch, Pagina 19 del libro Vecchi cani, Nuages 2013, Giovanna Durì, china su carta

parola fragile e troppo abusata”. Si occupa quindi dei disegni degli altri, per farlo solo dopo tanto tempo dei

propri, pubblicando da ‘attempata esordiente’ quale lei stessa si definisce, alcuni libri, tra cui Vecchi cani e Del gatto Uno e della di lui madre Mati, ambedue editi da Nuages edizioni. I suoi primi due titoli, una volta tanto, vengono pubblicati per il solo piacere di farli: anche qui c’è un prendersi cura dei propri animali e dei cani qualsiasi, così diversi da quelli che vediamo in televisione e sui giornali, sempre sani belli puliti e vaccinati, ma tanto espressivi nei loro sguardi intensi e intelligenti, anche loro degni di visibilità.

Così Giovanna, che comunque ha sempre continuato a disegnare per

conto suo, alternando i momenti dedicati alle pubbliche relazioni con momenti di solitudine in cui concentrarsi sul proprio lavoro, esce allo scoperto, cimentandosi in tecniche diverse (pennello e china, acquerello) comunque volte a creare un tratto veloce e fluido, atto a esprimere movimento oppure a rendere l’immagine appena sfumata.

Poco dopo le vengono richiesti altri lavori di illustrazione, tra cui il reportage illustrato di viaggi pubblicato nel libro Negli immediati dintorni , per l’editore Casagrande. Su questo tema sono incentrati anche alcuni suoi racconti pubblicati dalla rivista

Per brevi tratti, Testi accompagnati dalle immagini, Giovanna Durì. 2016 Doppiozero edizioni, grafite su carta. www.doppiozero.com/giovanna-duri

culturale Doppiozero, con cui da tempo collabora,  e altri libri di gatti, scritti da Daniele Varelli.

Giovanna quindi continua a dedicarsi alla sua attività prediletta e anche a riflettere su questa forma di espressione spesso negletta, a sottolinearne il ruolo e direi quasi a definirne lo statuto. Più tardi scriverà anche articoli sull’argomento, per far capire che illustrare non significa solo mostrare pedissequamente con un’immagine

ciò che è scritto nel testo, ma interpretare, in tutte le sfumature possibili, il nucleo di significato e di suggestione che esso racchiude.

Quest’ultimo aspetto accomuna quest’arte alla traduzione letterariaanch’essa attività spesso sottovalutata e poco retribuita - che, nel passaggio da una lingua all’altra, richiede l’opera non facile di intermediazione del traduttore.

Il compito di quest’ ultimo, infatti, è quello di mediare non solo tra due lingue che sottendono due differenti visioni del mondo, ma anche tra l’oggettività del testo scritto e la soggettività della propria personale

interpretazione del medesimo. Lo stesso fa chi traduce in segno la parola d’altri: esprime da un lato il proprio modo di interpretare un racconto o un discorso, ma dall’ altro deve rimanere ancorato a uno scritto che gli pone dei vincoli oggettivi. L’autrice stessa ha spiegato in diverse occasioni che illustrazione non significa pittura, ma parola essa stessa legata e non sottomessa al testo. E in questo senso Giovanna non è solo traduttrice, ma si adopera anche, tramite conferenze articoli e presentazioni, per accostare il pubblico a una lettura più corretta delle immagini di questo tipo.

Tutto ciò emerge con chiarezza nei

A sinistra - Fior da fiore, Angela Borghesi, Quodlibet 2021, Betulle, acquerello

Giovanna Durì, pagina 159

A destra - Fior da fiore, Angela Borghesi, Quodlibet 2021, Clematidi, acquerello Giovanna Durì, pagina 233

libri in cui le è stato richiesto di illustrare insetti e fiori in una serie di tavole esposte a Milano e poi Udine, in una mostra monografica del 2021 presso la libreria Tarantola, a cura di artesello.

In ambedue i casi gli autori dei libri (rispettivamente Marco Belpoliti e Angela Borghesi) hanno chiesto dei disegni, non delle tavole entomolo -

giche o botaniche, perché i loro non sono dei trattati scientifici destinati a un pubblico di specialisti. Perciò l’autrice, più che soffermarsi sugli aspetti anatomici atti a identificare un determinato insetto o una pianta, cerca di avvicinarsi all’idea stessa del singolo elemento naturale, concentrando,  in un’immagine fluida, le impressioni fisiche che di quel soggetto l’hanno colpita, il ronzio, la trasparenza delle ali o dei petali, i colori che variano al contatto con la luce etc. e a tradurle in disegno in una forma che definirei, in un certo senso, sinestetica, volta a suggerire più che a mostrare.

Negli ultimi anni Giovanna Durì si dedica alla cura di mostre nazionali e internazionali e, con Alfredo Mardero, anche agli allestimenti; in regione ha curato quella di Lorenzo Mattotti a Passariano, la sezione contemporanea de “l’Offensiva di carta” nel Castello di Udine. Poi a Tolmezzo la mostra di Francesco Altan e, di recente, una collettiva di ben 40 autori di altissimo

livello intitolata “Di tanti volti”. Guardando questa esposizione, il visitatore diventa soggetto e contemporaneamente oggetto di una serie ininterrotta di sguardi, prevalentemente femminili, ma non solo.

Volti di donne di ieri, quelle dei bellissimi ritratti settecenteschi e ottocenteschi del museo Gortani, sono collocate di fronte ad altre donne, quelle di oggi - interpretate da ben 40 illustratori di altissimo livello - di cui l’allestimento stesso invita a indagare atteggiamenti, psicologie e caratteri.

Da Giovanna Di Sopra Tamer, ritratta probabilmente dal pittore Silvestro Noselli nel 1766, a Letizia Battaglia, raffigurata con tecnica digitale da Ivan Canu nel 2021, passa tutta la storia dell’ evoluzione del mondo femminile negli ultimi due o tre secoli. Le prime appaiono rigide nella postura e sicure di sé e del proprio status di padrone di casa (ce li suggeriscono alcuni simboli, come ad esempio le chiavi di casa o i gioielli) e lasciano trasparire

La strategia della farfalla, Marco Belpoliti, Guanda 2016, tavole ed acquerello precedentemente pubblicata sulla rivista Doppiozero.

A sinistra - Blatta

Sopra - Formica

Sotto - Scarafone

personalità e carattere solo dagli sguardi, che fanno appena trapelare pensieri ed emozioni. Più disinvolte le altre, meno simili tra loro nel vestire e negli atteggiamenti, ma non meno enigmatiche. Il confronto, a volte un po’ inquietante, sembra suggerirci che in fondo nello sguardo dell’altro c’è sempre un mistero destinato a rimanere tale.

Collegare fili diversi, per Giovanna, significa spesso ricostruire storie del passato e del presente, sapendosi però fermare in tempo proprio davanti a questo mistero.

Giuliana Valentinis: giuliana.valentinis15@gmail.com

Giovanna Durì: giovanna.duri@gmail.com

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