I luoghi dell'identità a Oristano

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A.D. MDLXII

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D EG LI S TU DI D I S ASS A RI D IPARTIMENTO DI S TORIA , S CIENZE DELL ’U OMO E DELLA F ORMAZIONE ___________________________

CORSO

DI

LAUREA

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A N T R O P OL O GI A C UL T U RAL E

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E T N OL O GI A

LUOGHI DELL’IDENTITÀ A ORISTANO

Relatrice:

PROF.SSA MARIA MARGHERITA SATTA

Correlatore:

PROF. MARIO ATZORI

Tesi di Laurea di:

FABIO LODDI

ANNO ACCADEMICO 2012/2013



Indice

INTRODUZIONE

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1: CULTURA TRA LOCALE E GLOBALE

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2: MEMORIA E IDENTITÀ NEGLI STUDI ANTROPOLOGICI 2.1. PRIMI STUDI 2.2. MEMORIA, IDENTITÀ E CULTURE CONTEMPORANEE CAPITOLO 3: IDENTITÀ E TERRITORIO 3.1. LA DIMENSIONE SIMBOLICA 3.2. IDENTITÀ, MEMORIA E TERRITORIO 3.3. IL FATTORE LOCALE IN RAPPORTO AL GLOBALE

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4: LUOGHI DELL'IDENTITÀ AD ORISTANO

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3.1. LA CITTÀ COME AREA DI STUDIO 3.2. CENNI STORICI SU ORISTANO 3.3. INDIVIDUAZIONE DEI LUOGHI

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5: LA RICERCA SUL CAMPO

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5.1. LA PIAZZA COME LUOGO DI STUDIO: PIAZZA ROMA E PIAZZA ELEONORA 5.2. LE RAMBLAS 5.3. VIA DRITTA 5.4. LA CATTEDRALE 5.5. VIA VITTORIO EMANUELE E VIA MAZZINI 5.6. CRESIA DE SANTU GIUANNI DE FRORIS

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6: DETERITTORIALIZZAZIONE E TRASFORMAZIONI IDENTITARIE 6.1. TOPONIMI E TERRITORIALIZZAZIONE 6.2. RITERRITORIALIZZAZIONE 6.3. DETERRITORIALIZZAZIONE

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CONCLUSIONI

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BIBLIOGRAFIA

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Introduzione Il presente lavoro di tesi si propone di analizzare il ruolo che determinati luoghi fisici possono assumere nel processo di costruzione identitaria individuale e collettiva, ovvero di indagare se, e se sì come, il territorio in quanto luogo antropico, umanizzato, possa assumere un ruolo attivo nelle configurazioni identitarie relative ai soggetti che lo abitano. Particolare attenzione è stata dedicata alle cause soggiacenti e ad eventuali trasformazioni identitarie emerse nell'epoca presente. Si è dunque voluto indagare sulla rilevanza simbolica del territorio nelle dinamiche che fanno da sfondo ai processi di appropriazione dello spazio vissuto; se nelle pratiche inerenti a questi processi risultassero presenti o meno i connotati simbolici connessi alla costruzione culturale dello spazio preso in esame. In altre parole, si è voluto osservare il rapporto che lega, per via del percorso storico in comune, l'insediamento ai suoi abitanti. Per comprendere la vitalità di questo legame o le sue eventuali trasformazioni, si è prestata attenzione da una parte, ad alcuni dei luoghi che simbolicamente potessero ricondurre a momenti significativi del rapporto stesso, e dall'altra al senso che attualmente assumono questi stessi luoghi in quanto spazi vissuti. Come territorio antropizzato oggetto di studio è stato scelto il centro abitato di Oristano e, più precisamente, dei luoghi al suo interno che in differenti maniere potessero ricondurre alle tematiche inerenti all'analisi. Per prima cosa ci si è chiesti, visto lo spazio territoriale preciso preso in esame, se esso potesse coincidere con una cultura specifica ed una conseguente identità collettiva unitaria. Se così fosse, la popolazione verrebbe concepita come una totalità finita contraddistinta da tratti comuni e analizzabile nel suo rapporto con il territorio omogeneamente, essendo specchio di un medesimo sentire comune. Per comprendere se la situazione che ci si trovava di fronte potesse

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considerarsi come sopra descritto, si è ritenuto opportuno, nel primo capitolo, osservare l'evolversi storico del concetto di cultura fino ai giorni nostri, richiamando i contributi dei vari autori che hanno segnato le diverse tappe di tale evoluzione. Inoltre si è voluto percorrere lo sviluppo concettuale del termine, da un lato per prendere consapevolezza dei limiti che volta per volta hanno alimentato la sua riformulazione semantica, e dall'altro per donare un'intelaiatura storica alla concezione della cultura che si sarebbe assunta nel proseguimento del lavoro. Nel secondo capitolo, considerato che il rapporto tra insediamento e collettività è una relazione che si protrae nel tempo, si è analizzato il legame tra la memoria e la collettività, e il ruolo che essa svolge nel processo di costruzione identitario. In altre parole, dal momento che si tratta di un rapporto legato all'avvicendarsi storico, si è considerato come di importanza primaria, ai fini dell'analisi, la presenza o meno di una memoria condivisa da cui dipenderebbe la trasmissione generazionale dei saperi legati alla collettività e al territorio. In questo senso ci si è chiesti, per comprendere meglio il quadro della situazione attuale che si sarebbe riscontrata, quale fosse l'influenza delle dinamiche culturali tipiche della contemporaneità e dell'ordine politico instauratosi in seno alla modernità. Nel terzo capitolo si è voluto indagare le strategie di appropriazione del territorio da parte dell'essere umano, il modo in cui lo spazio diviene luogo e si trasforma in seguito all'uso che di esso se ne vuole fare. Lo si è fatto per comprendere se fosse possibile riscontrare nel territorio dei significati inerenti alla collettività e alla sua presenza nel tempo, e se quindi l'insediamento fosse da ritenersi uno spazio neutro oppure un prodotto culturale. In seguito, tenendo conto del processo di globalizzazione, ci si è chiesti quale ruolo assumesse il fattore locale, fondamentalmente per comprendere il senso che attualmente ricopre nell'esistenza di chi lo vive. In questo senso ci si è domandati: in un contesto sempre più connesso al fattore globale, in cui gli stili di vita ad esso collegabili predominano, ha ancora senso parlare di particolarità locale? Se si 4


bevono le stesse bevande, se si indossano i medesimi abiti, se si adottano le stesse acconciature, se si condivide il medesimo intrattenimento, e via dicendo, non si è forse di fronte ad un quadro della situazione omogeneo? Nel quarto capitolo si è ritenuto necessario trattare alcuni indirizzi che hanno avuto come proprio oggetto di studio la città in quanto realtà culturale. Principalmente per inquadrare il meglio possibile l'oggetto di studio preso in esame e successivamente per comprendere se la città in quanto spazio vissuto particolare generasse dinamiche culturali di cui tener conto al fine della ricerca. Una volta acquisiti gli strumenti interpretativi idonei all'individuazione dei luoghi, si è ritenuto altrettanto necessario tracciare i principali cenni storici del territorio antropico in esame. Dal momento che il legame che connette il territorio e la sua popolazione è un rapporto che si fonda sul vissuto, si è voluto, in altre parole, individuare i luoghi in cui potesse riscontrarsi un rinvio simbolico ai principali momenti significativi di questo rapporto storico. Il quinto capitolo, riguardante la ricerca sul campo, si propone anzitutto di esplicare le ragioni della metodologia adottata nell'indagine concreta dei luoghi. La domanda principale che ci si pone nello svolgimento della ricerca e che segna il filo conduttore di tutte le indagini compiute nei luoghi oggetto d'analisi, riguarda la connessione tra luoghi, in quanto simbolicamente rinvianti a significati collettivi, e pratiche di appropriazione del contesto. In altre parole ci si è chiesti se tra i significanti inerenti al processo di appropriazione dei luoghi, comparissero, risultassero presenti e in definitiva giocassero un ruolo funzionale, i significati riguardanti un particolare momento di vissuto collettivo connesso implicitamente ai luoghi in questione. Il sesto capitolo infine, avendo riscontrato nei capitoli precedenti un ruolo fondamentale del processo di simbolizzazione nell'appropriazione dello spazio da parte dell'uomo, tratta delle eventuali trasformazioni identitarie connesse ad una risimbolizzazione del territorio. In questo senso ci si chiede quale sia l'effettiva importanza dei toponimi e quali conseguenze abbia potuto portare, sulla collettività insediata sul territorio, una loro eventuale modifica. Inoltre nel portare 5


avanti l'attenzione verso le dinamiche contemporanee ci si è chiesti se queste ultime avessero modificato la concezione dello spazio e del tempo nella collettività , e quali conseguenze avessero generato nel rapporto tra i luoghi vissuti e gli abitanti.

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1. Cultura tra locale e globale Il concetto di cultura non ha conservato per le scienze sociali il medesimo significato nelle diverse epoche. L'evoluzione semantica del concetto di cultura ha interessato soprattutto all'antropologia, che di esso ne ha fatto, principalmente agli albori, il concetto cardine grazie al quale poter definire l'oggetto specifico dei propri studi, e su cui poter rivendicare in questo modo l'autonomia della disciplina stessa e il conseguente riconoscimento scientifico. Fino al 1871, anno di pubblicazione dell'opera Primitive Culture dell'antropologo inglese Edward Burnett Tylor, il concetto di cultura non era stato elaborato in modo sistematico e veniva ancora concepito per lo più come di esclusiva pertinenza della sfera soggettiva individuale. Difatti, dall'antichità greca e romana al Medioevo cristiano fino all'epoca dei Lumi, il termine, seppur con diverse sfumature semantiche, si riferì sempre al processo di crescita interiore determinato dalla accumulazione di saperi frutto di una accurata educazione e formazione. Nonostante il concetto conservi fondamentalmente sempre il medesimo significato, si assiste ad un suo ampliamento in età illuminista. Nelle epoche precedenti infatti, la nozione era contrassegnata da un'impronta aristocratica, dal momento che veniva esclusa dal suo ambito qualsiasi conoscenza derivata da un lavoro manuale; di norma riservato agli strati inferiori della società e agli schiavi. Implicitamente dunque, la cultura era un possesso riservato esclusivamente a coloro che avevano la possibilità di disporre del proprio tempo ed erano dunque liberi dallo svolgere qualsiasi attività che comportasse un impegno manuale, dedicandosi alle discipline teoretiche e contemplative. Il possesso della cultura smise di essere d'uso esclusivo di pochi solamente in seguito al programma 7


illuministico che fece dell'educazione uno dei suoi punti saldi. Dal momento che la razionalità era il denominatore in comune dell'umanità, chiunque poteva acquisire delle conoscenze e qualsiasi sapere poteva essere trasmesso. La creazione dell'enciclopedia porterà con sé l'implicito nuovo significato di cultura, il quale comprenderà, oltre alle note discipline erudite, pure le scienze della natura e le arti meccaniche portatrici del progresso tecnico; in questo senso sapere umanistico e sapere scientifico convergono in un'unica nozione. Quest'ultima nella sua nuova veste ingloberà quindi qualsiasi conoscenza acquisita dall'umanità in quanto tale e ne risulterà come conseguenza logica il fatto che chiunque potrà entrarne in possesso qualora lo volesse, in quanto essere umano e in quanto dunque dotato di ragione. La cultura diventa un patrimonio universale, anziché una condizione nobile dell'animo riservata ai dotti. Il termine in quest'accezione smette di designare soltanto un processo, ed inizia a indicare anche un oggetto, o meglio un corpus di dottrine, conoscenze, valori, usanze che costituiscono il prodotto del processo di educazione. Il concetto di cultura viene in questo modo a coincidere con quello di civiltà e si teorizza una repubblica delle scienze e delle lettere caratterizzata dai valori di ordine universale, spogliata dai costumi culturali e delle consuetudini locali e contraddistinta dall'uso della ragione. Lo sviluppo del concetto che conduce alla nota formulazione di Tylor passa attraverso il pensiero dei filosofi e linguisti tedeschi del XVIII secolo, i quali vedevano nella concezione illuminista di cultura-civiltà una “francesizzazione” dei valori comuni dominanti e un implicito impoverimento dell'identità tedesca. Considerarono, in risposta a questo timore, la cultura come un processo di formazione che risulta determinato in base al patrimonio intellettuale di un popolo o di una nazione. Così Herder, nelle Idee per la filosofia della storia dell'umanità, concepisce la cultura come un processo che coinvolge l'intero genere umano, il quale però non si esaurisce nei valori dell'Europa colta, ma si realizza in maniera specifica e singolare in ogni popolo. Sorge la consapevolezza della pluralità irriducibile delle forme di vita che l'umanità può assumere, e 8


quindi l'impossibilità di assumere come modello universale la cultura intesa come comunità di dotti. Anche gli abitanti della California e della Terra del Fuoco hanno imparato a fare e usare archi e frecce; hanno linguaggio e concetti, esercizi e arti che hanno imparato come li abbiamo imparati noi, e pertanto anch'essi sono veramente inculturati e illuminati, sia pure in misura minima. (Herder 1971: 215)

Questo modo di intendere la cultura fu recepito da Tylor il quale, seguendo in parte il pensiero di Herder, elabora per la prima volta una definizione organica di cultura sostenendo che: La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società. (Tylor 1920: 1)

Ciò implica che non esistano popoli senza cultura e che quest'ultima dunque, si possa trovare ovunque. Inoltre allarga il concetto affiancandolo sia a quello di civiltà in senso plurale, nel senso che al suo interno non risultano soltanto le conoscenze intellettuali, tecnologiche e scientifiche ma pure il resto dei valori e delle attività umane, e sia quello di società, nel senso che la cultura viene acquisita da ogni membro per il fatto stesso di far parte del gruppo sociale. Ne consegue che la cultura è un insieme complesso costituito da una serie di elementi riscontrabili ovunque, e questi possono essere comparati in base alla loro somiglianza con gli elementi a loro equivalenti in differenti culture. Questo perché per Tylor i diversi popoli condividono un identico processo evolutivo caratteristico di tutta l'umanità; e quindi dal momento che qualunque popolo passa per i medesimi stadi di sviluppo i vari elementi che compongono le diverse culture possono essere affiancati per dedurne il percorso evolutivo. Si evince dunque che Tylor pur ampliando la sfera semantica del concetto di cultura, conserva le dinamiche relative al progresso e alla crescita tipiche dell'uso precedente della nozione. Ogni cultura si evolve accumulando tecniche e conoscenze, e le differenze riscontrabili sono dovute al trovarsi in stadi di evoluzione differenti riconducibili a contesti storici, geografici e sociali diversi. 9


Nel caso delle popolazioni “primitive” le differenze sono dovute al loro essere rimaste ancorate a degli stadi di sviluppo inferiori, implicitamente considerati peggiori dato che si prevede, nel loro futuro, l'attraversamento dei vari stadi fino al raggiungimento dei gradi più alti. Successivamente, si deve a Franz Boas un ulteriore sviluppo nella concezione del termine, con il rifiuto della nozione evolutiva di cultura e la spiegazione delle differenze in base al grado di sviluppo raggiunto, per affermare l'esistenza di una pluralità di culture, ciascuna legittima espressione dello spirito umano e risultante di un particolare processo storico. Abbattendo qualsiasi presunta validità riguardante le generalizzazioni evoluzioniste, sottolinea l'importanza di studiare i singoli tratti culturali nel contesto specifico della cultura d'appartenenza, dando vita al concetto di relativismo culturale. La cultura è vista come la totalità delle attività intellettuali e fisiche di una determinata comunità, comprendendo anche i prodotti di queste ultime e i compiti che esse assolvono. Essa non si trasmette per via genetica ma in quanto oggetto di apprendimento, socialmente; natura e cultura dunque son due cose ben distinte e i fenomeni di quest'ultima non possono essere spiegati tramite fattori extra culturali. Ed è su quest'ultimo punto che Kroeber, allievo di Boas, insiste formulando la propria nozione di cultura. La concezione da lui elaborata mira a giustificare una volta per tutte l'impossibilità di ricondurre la cultura a fattori extraculturali. La cultura è un superorganico, cioè una dimensione che opera indipendentemente dall'ordine dei fenomeni biologici e psicologici e non dipende dunque da nessuna proprietà innata della mente umana. Se gli animali per adattarsi all'ambiente ricorrono a soluzioni organiche, come la crescita del pelo in risposta al freddo per esempio, l'uomo ricorre a soluzioni culturali, coprendosi con delle pellicce, lasciando inalterato il proprio corpo. Le soluzioni culturali non sono iscritte nell'organismo ma vengono acquisite in seguito alla vita in società. Nel caso in cui un neonato venisse trasferito dall'altra parte del mondo subito dopo la nascita, la cultura che apprenderà non sarà quella degli avi ma quella della popolazione 10


che lo accoglie. L'esteriorità ed autonomia della cultura, nel pensiero di Kroeber viene estesa fino a comprendere pure la dimensione sociale, escludendo in questo modo qualsiasi possibilità d'influenza nei suoi confronti da parte dell'agire degli individui e del loro operato storico. Queste due idee, la negazione della natura umana e l'autonomia della cultura dalle menti individuali, furono formulate anche dal fondatore della sociologia, Émile Durkheim, che aveva anticipato in qualche modo la dottrina della cultura sovraorganica di Kroeber con l'elaborazione del concetto di coscienza collettiva, la quale era autonoma dai singoli, obbediva a leggi proprie ed era presente in tutte le società. La cultura è una produzione collettiva che, come spiega bene Franco Crespi nel suo "Manuale di sociologia della cultura", ha il compito di: fondare la coesione e il consenso sociale, stabilendo un sistema di controllo, sostenuto da sanzioni e ricompense, che orienterà l'agire degli individui, limitando i loro desideri e indicando le finalità concrete che essi devono perseguire. (Crespi 1997: 80)

Con Durkheim si diffonde l'idea che la cultura ha una propria funzione, che aiuta l'individuo a muoversi nella società. In ogni società è presente una coscienza collettiva fatta di rappresentazioni collettive, ossia di ideali, di valori e sentimenti comuni a tutti gli individui che la compongono e l'individuo risulta subordinato ad essa. In questo senso la cultura funge da bussola per il giusto orientamento degli individui, poiché crea quei concetti e quegli stereotipi che aiutano l'individuo a orientarsi in ogni situazione. Grazie alle prime ipotesi di Durkheim nasce quel filone di studio definito come funzionalismo, che sottolinea l'interdipendenza tra cultura e società. Quest'ultima, che è un prodotto della cultura, è considerata al pari di un organismo biologico, nel quale ogni elemento ha una sua funzione. Dunque la cultura, giunti a questo punto, è considerata come un tutto integrato determinato dalla propria specifica storia, non riconducibile a discorsi genetici razziali e quindi non innata ma acquisita da ogni membro della società in quanto facente parte di essa, dove ogni suo elemento costitutivo assume una sua funzione per il 11


mantenimento del tutto. Esistono due sviluppi piuttosto diversi di questa scuola di pensiero: il primo è riconducibile al nome di Bronislaw Malinowski e il secondo a quello di Arthur Reginald Radcliffe-Brown. Da Malinowski, il quale concentrò per lungo tempo la sua ricerca sul campo nelle isole Trobriand, la cultura è intesa in una prima fase del suo pensiero, denominato funzionalismo ristretto, come un "insieme di pratiche e di comportamenti tra loro integrati tendenti al mantenimento dell'equilibrio della società e del funzionamento di essa" (Fabietti 2001: 106). Successivamente Malinowski giunge a concepire un funzionalismo allargato considerando la cultura come un vasto apparato artificiale, creato dall'uomo in risposta alle necessità imposte dall'adattamento esterno e per soddisfare i bisogni essenziali per la sopravvivenza, come l'esigenza di nutrirsi e di difendersi. Dalle risposte a questi bisogni sorgeranno ulteriori bisogni: vengono definiti come secondari quelli relativi alla sussistenza, all'economia, alla famiglia e all'istruzione, e invece come simbolici, quelli che vengono soddisfatti dalla magia, dalla mitologia, dall'arte e dalla religione. Con il pensiero di Radcliffe-Brown, il quale fondò la sua esperienza di lavoro soprattutto tra le popolazioni aborigene australiane, il funzionalismo si arrichisce dell'idea di struttura. Diversamente da Malinowski infatti, riteneva che i vari aspetti della cultura servissero a conservare la struttura sociale, piuttosto che a soddisfare i bisogni individuali e collettivi. Con l'espressione struttura sociale, che preferiva al termine cultura, intendeva difatti l'intera rete di relazioni sociali che lega gli individui di ciascuna società (attraverso obblighi giuridici, morali, precetti religiosi, norme di comportamento tra parenti e via dicendo) e ne consente in questo modo il funzionamento e la stabilità. Se il funzionalismo sottolinea il fatto che i vari elementi costitutivi di una cultura stanno nel contesto a cui appartengono in un rapporto vivente, avendo determinate funzioni, la scuola

di pensiero che prese il nome di

"configurazionismo" si concentra su come questi elementi si inquadrano nelle 12


diverse culture generando le specifiche configurazioni che danno forma e significato ai costumi. Nello specifico, le "configurazioni" rappresentano dei modelli di comportamento che il gruppo assume come validi, che la comunità propone ed impone ai propri membri. Con Ruth Benedict, che focalizzò le proprie ricerche sul campo principalmente tra gli Indiani del Nordamerica, la cultura oltre a non essere una semplice somma dei suoi elementi costitutivi, diventa un fattore plasmante per la personalità degli individui che ne fanno parte: a ogni cultura corrisponderebbe un tipo particolare di personalità che si può riscontrare nel carattere e nel comportamento sociale dell'individuo. Ogni società esprime una propria modellizzazione che serve per integrare i più svariati tratti che la rende unica ed incomparabile. In questo senso, il significato di un tratto culturale (un rito, un'istituzione, una relazione sociale, ecc.) è dato dal modo in cui si collega agli altri facenti parte della stessa configurazione. La cultura in definitiva non va considerata come un semplice insieme delle parti ma come una configurazione al cui interno i singoli tratti interagiscono l'uno con l'altro producendo modelli significativi. Le culture non sono semplicemente la somma dei loro elementi costitutivi. Possiamo saper tutto sulle forme di matrimonio, danze rituali, riti della pubertà di una tribù, e tuttavia non capire nulla di quella cultura come un tutto che ha usato quegli elementi ai propri scopi. In vista di questi scopi una cultura sceglie, fra gli elementi offerti dalle civiltà delle regioni circostanti, quelli che può usare, scarta quelli di cui non può far uso, mentre altri ne riplasma secondo le proprie necessità. (Benedict 1960: 53)

Un'altra concezione della cultura che si rifà a queste appena riportate, è riconducibile a quell'orientamento di ricerca che prese il nome di Scuola di Manchester. Max Gluckman che ne fu il fondatore, condusse tutta la propria attività di ricerca in Sudafrica e in Zambia ed analizzò i cambiamenti culturali dovuti al processo di migrazione dalle campagne alle città. A seguito delle sue analisi criticò il concepire la cultura come un qualcosa di integrato che sta in un equilibrio perfetto, dove ogni elemento dell'ingranaggio risulta inserito ed adattato perfettamente con i restanti. L'equilibrio è qualcosa di precario perchè gli elementi costitutivi che compongono la struttura non sono in un rapporto di 13


interdipendenza ma in un rapporto conflittuale. Ne risulta un'instabilità di fondo che viene superata solamente in periodiche condizioni di equilibrio dovute alla risoluzione temporanea delle contraddizioni. La cultura è concepita dunque come un tutto integrato capace di autoregolarsi costituito da forze contrapposte. L'importanza data all'aspetto conflittuale, in seguito all'interesse per le società complesse caratterizzate dalla interconnessione tra istanze tradizionali e spinte generatrici di mutamento, apre le porte per ad una concezione della cultura dinamica, anche se in questa prospettiva si continua a riflettere sul problema della conservazione della struttura tralasciando quello della sua trasformazione. La concezione della cultura di Lévi Strauss, padre dello strutturalismo antropologico, non nasce dal chiedersi in che modo gli elementi di una società funzionano come un sistema, ma piuttosto dal domandarsi qual'è l'origine dei sistemi stessi. Egli vede la cultura, così come essa si esprime attraverso l'arte, il rituale, e i modelli della vita quotidiana, come la rappresentazione di superficie di una struttura soggiacente alla mente umana. Le diverse culture sono dunque realizzazioni differenti di identiche proprietà logiche astratte del pensiero, comuni a tutti gli esseri umani. Forme identiche con contenuti diversi. Sebbene Lévi Strauss non indentifichi mai esplicitamente la cultura con la lingua, egli vede in quest'ultima una produzione dello spirito umano nella quale è leggibile in maniera chiara una struttura di relazioni logiche a cui è riconducibile pure la cultura. Questo perché lingua e cultura pur differenziandosi nelle loro manifestazioni empiriche sono frutto dei medesimi processi inconsci del pensiero. L'analogia formale con la lingua, dovuta all'influenza della linguistica strutturale, fa sì che la culture vengano concepite come un sistema di segni dove ogni elemento assume significato in un duplice rapporto: orizzontalmente nella relazione con gli altri segni e verticalmente venendo ricondotto, nel suo essere in relazione, alla struttura inconscia. Ogni prodotto culturale (parentela, cucina ed economia per esempio), costituisce dunque un sistema integrato di segni, e questi sono legati da una logica binaria oppositiva, identica a quella che collega i fonemi dando vita ai suoni significativi di un codice linguistico; in questo modo 14


ad un sistema di coppie differenti di suoni si affianca un sistema di coppie differenti di idee. Le culture come le lingue sono un fenomeno comunicativo per Lévi Strauss, ed è in questo senso che le regole della parentela e del matrimonio servono ad assicurare la comunicazione delle donne tra i gruppi, e le regole economiche servono ad assicurare la comunicazione dei beni e dei servizi per esempio. In polemica con una concezione della cultura astratta sorse la corrente del "materialismo culturale", di cui Marvin Harris fu il più noto esponente. Se lo strutturalismo si concentra sulle strutture di relazioni profonde della mente umana, basandosi sulla convinzione che i processi mentali definiscono il contesto entro cui operano le dinamiche materiali, per questa nuova prospettiva di studi sono queste ultime, e le costrizioni ad esse collegate, a condizionare i vari aspetti mentali e spirituali della vita umana. In polemica con Lévi Strauss, il quale aveva sostenuto, a sua volta in polemica con Malinowski, che animali e i vegetali erano fatti oggetto d'attenzione rituale o simbolica perché buoni da pensare, Harris ritiene che occorre abbandonare le spiegazioni di livello simbolico e guardare all'ambiente naturale e alle condizioni materiali di vita dei popoli presi in esame. La proibizione induista di mangiare carne bovina, per esempio, viene spiegata nel saggio Buono da mangiare, facendo riferimento al fatto che ad un certo punto della storia il sovrappopolamento dell'India rese impossibile allevare un numero sufficiente di bovini per essere utilizzato sia come fonte di carne che come principale forza di trazione dell'aratro. Dietro un tabù religioso si nasconde quindi una strategia di sopravvivenza e di stabilità sociale. La cultura in definitiva viene considerata come il prodotto di dinamiche produttive, demografiche ed ecologiche. In alternativa alla prospettiva nomotetica del materialismo culturale, fondata su una concezione dell'antropologia come scienza naturale della società, sorse l'antropologia interpretativa di Clifford Geertz, che si rifaceva all'impostazione particolaristica di Franz Boas e Ruth Benedict. La cultura è un aspetto comune dell'umanità, ma essa viene vissuta dalla gente esclusivamente 15


nella sua concretezza, perciò non la si può studiare in astratto ma esclusivamente nelle sue forme particolari. Inoltre se con l'illuminismo, alla cultura si giungeva con un salto dai costumi alla ragione e con le varie teorie antropologiche trattate fino ad ora si giungeva tramite un salto dalla natura alla cultura, per Clifford Geertz, alla cultura si giunge senza nessun salto poiché essa è vista come parte integrante ed essenziale dell'essere umano, elemento necessario per la sopravvivenza biologica, psicologica e sociale della specie umana. In Interpretazione di culture sostiene questo concetto affermando che: non esiste una cosa come una natura umana indipendente dalla cultura. Gli uomini senza cultura [...] sarebbero inguaribili mostruosità con pochissimi istinti utili, ancor meno sentimenti riconoscibili, e nessun intelletto: casi mentali disperati. (Geertz 1987: 93)

Rese inoltre popolare l'idea che una cultura è come un testo letterario scritto dai nativi, una ragnatela di significati che essi stessi hanno tessuto. Se per Lévi Strauss le varie forme culturali erano dei sistemi di segni collegati tra loro da relazioni logiche da decifrare, per Clifford Geertz esse sono da considerare come un trama di significati creatasi nell'interazione tra i soggetti. Questi significati si esprimono attraverso simboli che permettono all'uomo di relazionarsi con l'ambiente. La cultura viene intesa come Una struttura di significati trasmessa storicamente, incarnati in simboli, un sistema di concezioni ereditate espresse in forme simboliche per mezzo di cui gli uomini comunicano, perpetuano e sviluppano la loro conoscenza e i loro atteggiamenti verso la vita. (Geertz 1987: 41)

La cultura dato che risiede negli attori e nella pratica sociale risulta essere qualcosa di agito. In questo senso non può essere considerata come un sistema immutabile chiuso ma piuttosto come una costruzione sociale frutto di processi dinamici, instabili e suscettibili di influenza esterna. Un'ulteriore concezione si sviluppa in Gran Bretagna grazie a quel filone di studi ribattezzato "cultural studies". Esso si concentrò sulla realtà sociale britannica che all'epoca del post colonialismo vide l'emergere di nuovi processi identitari, non più basati sulla popolazione nel suo complesso, ma rifacentesi a

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differenze etniche, di genere, di colore della pelle e di classe. Influenzati dal pensiero di Gramsci, che teorizzava la cultura come un campo dove si determinano i rapporti di egemonia e di subalternità tra gruppi e classi sociali, la concepirono come "un luogo di incontro-scontro e di disputa-dibattito per l'affermazione di idee e diritti da parte di gruppi diversi, tesi al riconoscimento, da parte dello stato o di altri gruppi analoghi" (Fabietti 2011: 200). La cultura diventa il luogo in cui si confrontano, si scontrano e si riposizionano gli interessi, i valori e i significati dei vari gruppi. Il luogo in cui si generano le relazioni di potere e le differenze (di classe, di genere, culturali, sociali, ecc.). La cultura non è una pratica, né semplicemente la descrizione della somma delle abitudini e dei costumi di una società. Essa passa attraverso tutte le pratiche sociali ed è il risultato delle loro interrelazioni. (Hall 2007: 23) Nella contemporaneità grazie a quest'ultima scuola e agli effetti evidenti della globalizzazione, molti antropologi criticarono il concetto di cultura come un sistema definito distinguibile nettamente da altri. Questa concezione porta ad immaginarsi il mondo come una specie di mosaico culturale dove ogni sua tessera è chiaramente distinguibile dalle altre grazie alle differenze che la contraddistingue. Ne vien fuori una visione del mondo che per molti antropologi non corrisponde all'attualità globale, dove la realtà appare decisamente più fluida e le differenze decisamente più sfumate. Per Ulf Hannerz per esempio, le culture devono essere considerate come "strutture di significato sociale che viaggiano su reti di comunicazione non interamente situate in alcun singolo territorio" (Hannerz 2001: 21). In questa concezione si mette in discussione l'identificazione tra una cultura, un territorio e il suo popolo, che implicitamente rimanderebbe a un pacchetto di significati ben delimitati, e si dà rilevanza alla interconnessione transnazionale. In questo modo le culture "oltre che insieme complessi (Tylor), apparati strumentali (Malinowski), configurazioni (Benedict) e testi (Geertz)", si presentano come strutture di significato che viaggiano grazie ai media, al mercato e ad internet, oltre qualsiasi confine territoriale. Il concetto di cultura così inteso

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si distanzia da quello di comunità, che rivendica un'identità definita, e non tiene conto delle identità frammentate, incerte e in continuo cambiamento che caratterizzano le individualità nell'attualità. All'interno di specifici contesti si collocano identità diverse, le quali posso risultare pure in contraddizione tra loro. L'ampliamento del numero delle cerchie di appartenenza che vedono l'individuo coinvolto intervengono a ridefinire lo spazio della cultura e i termini del rapporto che lega ad essa gli individui. I significati circolano anche senza la gente e dunque i territori non possono essere i contenitori delle culture. Come afferma più chiaramente Hannerz: quando la gente circola con i propri significati, e quando i significati trovano il modo di circolare anche senza la gente, i territori non possono veramente essere i contenitori delle culture. E anche qualora si accetti che la cultura sia qualcosa di socialmente organizzato e acquisito, la conclusione che sia anche omogeneamente distribuita in seno alle collettività diventa problematica, dal momento che salta agli occhi la diversità di esperienze e biografie fra i diversi membri delle collettività stesse. (Hannerz 2001: 10)

É per questo che Hannerz preferisce parlare di habitat di significato per indicare la maggiore permeabilità tra i sistemi di significati: "gli habitat di significato possono espandersi e contrarsi; possono combaciare del tutto, parzialmente o per niente, e quindi possono essere identificati o in singoli individui o in collettività" (Hannerz 2001: 28). Gli habitat di significato non sono una regione dunque, ma uno spazio di azione e di senso che può espandersi, contrarsi e intersecarsi con altri, in cui agiscono individui, gruppi e collettività. Per chiarire la complessità culturale attuale l'autore individua quattro cornici che gli permettono di spiegare il flusso di produzione e circolazione della cultura nel mondo odierno, "quattro cornici organizzative che racchiudono diverse tendenze sulle modalità in cui i significati e le forme significanti sono prodotti e circolano nelle relazioni sociali" (Hannerz 2001: 111). La prima, denominata forma-di-vita, rimanda al campo della quotidianeità dove si sviluppa la ragione pratica e il complesso delle relazioni sociali, dove il soggetto compie le prime esperienze formative . Richiama i rapporti in famiglia, d'amicizia, sui luoghi di lavoro, nel vicinato ma non esclude le interazioni con gli 18


estranei. La seconda cornice è rappresentata dallo stato, inteso come "flusso di significato fra gli apparati e gli individui definiti come soggetti/ cittadini" (Hannerz 2001: 112). Rimanda a tutti quegli enti istituzionali che consolidano l'appartenenza alla comunità statale, come i media, le scuole, i musei e i rituali civici per esempio. La terza invece è il mercato, che come "cornice del processo culturale racchiude la cultura della transazione, quella che lega compratore e venditore" (Hannerz 2001: 112). La quarta infine, è la cornice movimento, la quale rimanda a processi che enfatizzano cambiamenti nei sistemi di significato (ambientalismo, femminismo, pacifismo), non sono centralizzati nella loro gestione del processo culturale rispetto alle cornici di mercato e dello stato, e possiedono minore concentrazione di risorse materiali. I movimenti alimentano un flusso di significati più deliberati ed espliciti, e assumono spesso un atteggiamento missionario. L'importanza analitica di queste quattro cornici, è di riuscire a contenere la quasi totalità delle relazioni sociali, mentre la loro proprietà esplicativa risiede nella diversa gestione con cui ognuna di esse gestisce il potere nei confronti dell'universo culturale. Accentrato e asimmetrico nel mercato e nello stato, policentrico e simmetrico nel caso dei movimenti e delle forme-di-vita. La cultura si manifesta in definitiva come una complessa rete di relazioni tra centro e periferia. Un'altra forma di inquadrare la complessità culturale attuale, caratterizzata dal movimento e dal contatto incessante tra individui e sistemi di significato, l'ha elaborata l'antropologo statunitense di origine indiana Arjun Appadurai, il quale propone cinque dimensioni dei flussi culturali globali: etnorami, mediorami, tecnorami, finanziorami ed ideorami. Tutte e cinque le dimensioni riprendono il termine panorama per richiamare la funzione di sfondo fluido ed irregolare. Questi termini con il comune suffisso -orama indicano anche che non si trarra di relazioni oggettivamente date che sembrano le stesse da qualunque 19


visuale, ma sono invece costrutti profondamente prospettici, declinati dalle contingenze storiche, linguistiche e politiche di diversi tipi di attori: stati nazionali, multinazionali, comunità diasporiche, assieme a raggruppamenti e movimenti subnazionali (religiosi, politici o economici), e pure gruppi basati su rapporti interpersonali faccia a faccia come villaggi, quartieri e famiglie. (Appadurai 2001: 53)

Detto questo l'autore ci tiene a sottolineare che l'attore ultimo di questi flussi resta l'individuo, il quale sperimentando e interpretando ciò che questi panorami gli offrono si colloca in molteplici formazioni non riducendosi a nessuna di esse, configurandosi quindi come il punto di interconnessione dei diversi flussi. Per etnorami si intendono quei flussi di persone in continuo movimento che contraddistingue la contemporaneità: turisti, immigrati, rifugiati, esiliati, lavoratori ospiti e altri gruppi che si muovono costantemente e mai come oggi influenzano le politiche nazionali. Per tecnorami si intendono i flussi della tecnologia e la rapidità con cui si muove quest'ultima attraverso confini sempre meno definibili. Per finanziorami i flussi di denaro in tutte le sue forme; sempre più inafferrabili e indipendenti da logiche statali. Per mediorami invece si intendono i flussi delle immagini veicolate dai mezzi di comunicazione di massa e individuali, "che forniscono ai loro spettatori di tutto il mondo vasti e complicati repertori di immagini, narrazioni ed etnorami in cui si mescolano profondamente il mondo delle merci e quello delle notizie e della politica" (Appadurai 2001: 55). Infine gli ideorami, risultano essere strettamente connessi con i mediorami e rappresentano i flussi delle idee e delle ideologie. Ognuno di questi flussi dunque è un panorama che non si presenta mai uguale da qualsasi punto lo si osservi. Esso, come specifica l'autore nella citazione sopra riportata, è sempre influenzato dalle contingenze storiche, politiche e linguistiche dei diversi attori. Inoltre ogni flusso si muove a velocità relative diverse, verso direzioni diverse, nonostante subisca le influenze degli altri. In questo senso non è possibile stabilire dei rapporti di forza tra i flussi validi ovunque. Il risultato del fatto che il mondo attuale sia percorso da flussi di persone, macchine, soldi, immagini e idee, è il fenomeno della deterritorializzazione che 20


fa si che le configurazioni identitarie individuali e collettive siano disancorate da un territorio specifico. In conclusione, seppure quest'ultimo per l'autore continui a conservare il suo ruolo di punto di riferimento identitario, la coincidenza territorio specifico-cultura specifica, non è piÚ teorizzabile.

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2. Memoria e identità negli studi antropologici “L'identità è una costruzione simbolica che per sussistere deve fondarsi, tra l'altro, sulla memoria. Ciò vale non solo per le identità individuali, ma anche per le identità collettive”. Ugo Fabietti

2.1. Primi studi I termini identità e memoria rappresentano due concetti strettamente connessi sia che si parli di un attore individuale sia che si faccia riferimento ad un attore collettivo. Nelle scienze sociali il primo studioso a riflettere sul duplice rapporto tra identità e memoria e tra memoria individuale e collettiva fu il sociologo francese Maurice Halbwachs, il quale sviluppò il concetto di memoria collettiva e dedicò al tema tre distinti volumi: Les cadres sociaux de la mémoire, del 1925, La topographie légendaire des évangiles en terre sainte (Etude de mémoire collective), del 1941, e La mémoire collective che apparve postumo nel 1950. Nonostante sia riconosciuto come uno dei principali continuatori dell'opera di Émile Durkheim, il suo pensiero fu molto influenzato pure dal filosofo francese Henri Bergson, che fu suo insegnante al liceo e dedicò un'opera al tema della memoria, Matière et mémoire (1986). Bergson riteneva che la memoria fosse un fatto essenzialmente individuale e ne distingueva due forme principali: la memoria-movimento e la memoria-immagine. La prima è formata da un accumulo di saperi, funzionali all'azione, fatti propri dal nostro corpo in seguito all'esperienza passata e tesi a garantire la conservazione dei movimenti 22


abitudinari. La seconda, considerata la vera memoria, è tesa a conservare il ricordo dei fatti ed è formata da immagini presenti nella coscienza in stato latente, che vengono riattualizzate nel presente in vista di una loro utilità al contesto. Detto ciò, nel pensiero di Bergson un eventuale memoria collettiva si potrebbe considerare solamente in quanto somma a posteriori dei contenuti di diverse memorie individuali. Per superare questo soggettivismo e giungere ad una concezione della memoria come fenomeno sociale, gli studi di Halbwachs si baseranno sulla teoria durkheimiana della coscienza collettiva. Quest'ultima da Durkheim viene considerata come “l'insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri di una stessa società” (Durkheim 1972: 92) e rimanda in quanto tale a un livello sociale che va oltre la psiche degli individui e ne risulta indipendente. La funzione della coscienza collettiva è quella di determinare la condotta dell'individuo, ispirarne i comportamenti e mediarne ogni azione in società, rinvigorendo e legittimando in questo modo la coesione sociale. Il primato della società sul singolo viene accolto nei suoi studi da Halbwachs, per il quale non ha senso parlare di memoria del singolo individuo dal momento che la sua formazione è necessariamente riconducibile alla cultura d'appartenenza. La memoria è sociale, in quanto qualsiasi attività del ricordare utilizza schemi mentali comuni a una collettività. Ogni memoria, anche se molto personale, esiste sempre e solamente in relazione ai quadri sociali di riferimento sorti in seno alla società. In questo senso non esiste un'interiorità assoluta poiché qualsiasi ricordo, seppur intimo e rievocato in solitudine, necessità di punti di riferimento, come un determinato luogo, un determinato tempo e il contesto sociale per esempio, che non sono di proprietà esclusiva del singolo ma rimandano al patrimonio in comune di un gruppo sociale. I quadri sociali della memoria possono essere considerati come dei meccanismi di cui si serve ciascun gruppo e quindi ciascun individuo per ricordare. Essi sono delle categorie sociali a priori insite nel linguaggio, nella rappresentazione sociale del tempo, dello spazio e nelle classificazioni della 23


realtà esterna, all'interno delle quali i ricordi possono essere localizzati e potenzialmente rievocati. Il ricordo è plasmato dalle rappresentazioni intersoggettive della società. Inoltre i quadri sociali, che nel loro complesso costituiscono la memoria collettiva, assumono pure una funzione di coesione sociale perché consentono di tramandare i vincoli morali e i valori condivisi della società stessa. Come spiega Franco Ferrarotti: L'insieme di queste categorie costituisce, in altri termini, il quadro sociale della memoria dei singoli in un duplice senso: da un lato, esse, nel loro permanere e trasmettersi, costituiscono una memoria sociale il cui contenuto riguarda essenzialmente i sistemi di norme, credenze e valori di una società; dall'altro, esse forniscono il quadro entro cui i contenuti delle memorie individuali possono essere conservati e resi attuali. (Ferrarotti 2003: 73)

A differenza di Bergson, per il quale la memoria collettiva poteva essere considerata come l'insieme dei contenuti delle diverse memorie individuali, per Halbwachs essa è l'insieme dei quadri che consente il funzionamento stesso della memoria del singolo. Un ulteriore differenza tra i due autori concerne la rievocazione dei ricordi: per Bergson questi ultimi vengono conservati intatti in uno stato inconscio della psiche in attesa di essere richiamati, per Halbwachs il passato non può essere conservato ma solamente ricostruito in funzione del presente. In questo senso ricordare consiste nell'attualizzare la memoria attraverso gli interessi e le prospettive del presente, ricomporre un'immagine del passato con gli attuali pensieri dominanti. “La ricostruzione del passato corrisponde agli interessi, ai modi di pensare e ai bisogni ideali della società presente” (Jedlowski in Halbwachs 1987: 28). La memoria appare dunque come un processo grazie al quale si stabilisce una connessione fra il passato e il presente garantendo così agli individui, quanto ai gruppi, il senso della propria continuità e la riconferma della propria identità. Un'identità che per Halbwachs è per sua essenza relazionale, dal momento che in qualsiasi atto del ricordare non si può evitare di collocarsi in relazione a un'intersoggettività, rispetto ai cui interessi e alle cui norme si organizza il

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richiamo alla memoria. Anche se si ricorda in solitudine di un evento vissuto in assenza di compagnia, l'intersoggettività si colloca sempre alla base del richiamo, poiché l'evento lo si rievoca in quanto potenzialmente comunicabile. Se i ricordi del singolo non venissero inseriti all'interno di quadri di significato collettivi perderebbero senso automaticamente e sarebbero destinati ad essere dimenticati. Il soggetto ad ogni modo non ricopre un ruolo passivo, perché se è vero che l'individuo accede ai ricordi solamente in quanto assume il punto di vista di un gruppo, e anche vero che la memoria di un gruppo si manifesta e si realizza necessariamente nelle memorie individuali. Del resto, se è vero che la memoria collettiva trae la propria forza e la propria durata dal fatto che ha per supporto un insieme di uomini, d'altra parte sono gli individui, in quanto membri di un gruppo, che ricordano. In questa massa di ricordi comuni, che si sorreggono reciprocamente, non saranno gli stessi ricordi ad apparire a ciascuno con la maggiore intensità. (Halbwachs 1987: 61)

In questo stralcio dell'opera di Halbwachs si nota, al di là del ruolo attivo che svolgono gli individui, come l'autore sia consapevole delle differenti memorie presenti all'interno di una società. Fenomeno che egli considera naturale vista l'articolazione della società in gruppi differenti e l'appartenenza dei singoli a più gruppi contemporaneamente (classe, comunità religiose, gruppi professionali, e via dicendo). Per questa ragione il problema della memoria degli individui non è affrontabile se non intendendo la memoria individuale come crocevia di più flussi collettivi di memoria. Ogni società comprende più gruppi, ed ognuno di questi in quanto ambiente collettivo inquadra in maniera specifica la coscienza del singolo che ne fa parte. Alla pluralità dei gruppi (classi, ceti, istituzioni, comunità di credenti, associazioni, famiglie, ecc.) dunque corrispondono altrettante memorie collettive (ricostruzioni del passato proprio e dell'intera società). Inoltre, dato che ogni individuo fa parte di più gruppi in contemporanea, all'interno di uno stesso gruppo vi possono essere differenti sfumature concernenti le ricostruzioni del passato in comune. Da questa pluralità duplice, interna ed esterna al gruppo, si generano conseguentemente processi di conflitto e compromesso miranti a

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imporre una ricostruzione mnemonica sulle restanti. In questa nuova prospettiva adottata da Halbwachs nella sua ultima opera incompiuta, La mémoire collective, “la memoria della società si frantuma in una molteplicità di memorie collettive locali, e la memoria del singolo viene ad esse posta come punto d'intersezione tra memorie collettive diverse”. (Jedlowski 1989: 49) Per fare un esempio banale su quanto detto: è solamente in quanto appassionati di uno sport che due individui possono ricordarsi la squadra vincitrice di un trofeo svoltosi dieci anni prima della loro nascita. Ad ogni modo la rievocazione dell'evento potrebbe avere sfumature semantiche opposte se uno dei due soggetti si sentisse tifoso della squadra vincente e l'altro di quella perdente. Il primo con tutta probabilità rievocando il tutto tenderebbe a tessere le lodi della squadra vittoriosa e magari narrerebbe la gioia tramandatagli da qualche tifoso più anziano, il secondo invece potrebbe far cenno a delle presunte irregolarità e raccontare di una esternazione amara di quel giorno fatta dal padre al riguardo dell'incontro e diventata storica in famiglia. Ciascuna memoria individuale è un punto di vista sulla memoria collettiva; questo punto di vista cambia a seconda del posto che occupa al suo interno e a sua volta questo posto cambia a seconda delle relazioni che io intrattengo con altre cerchie sociali. Non deve stupire dunque che dallo strumento comune ciascuno non tragga lo stesso partito. Tuttavia, quando si cercano di spiegare queste diversità, si torna sempre ad una combinazione di influenze che, tutte, sono di natura sociale. (Halbwachs 1987: 61)

Uno dei principali continuatori del suo pensiero, Gerard Namer, si sofferma sul fatto che nel pensiero di Halbwachs non si comprenda bene quale sia la differenza tra memoria sociale e memoria collettiva. L'autore rileva due fasi fondamentali del pensiero di Halbwachs caratterizzate sostanzialmente da due tesi diverse sulla memoria. Nella prima tesi ogni individuo ricostruisce e mantiene la propria memoria grazie a dei quadri sociali che rappresentano la struttura formale entro cui ogni memoria ha la possibilità di costituirsi; e in questo senso la memoria collettiva è un elemento determinante della coesione sociale poiché mette in ordine ogni ricostruzione del passato in modo coerente con l'organizzazione stessa della società. Nella seconda invece, si pone l'accento 26


sull'interconnessione delle memorie individuali e collettive che si alimentano vicendevolmente mediante il flusso delle correnti di pensiero. In quest'ultima prospettiva la simmetria tra memoria individuale e memoria sociale si scompone per dar spazio a una pluralità di memorie collettive in cui si interseca la memoria del singolo. Namer, rileggendo, Halbwachs giunge a chiarire l'ambiguità suddetta concependo come memoria sociale la totalità degli elementi a disposizione dei membri di una società per la ricostruzione della loro memoria. In altre parole, l'insieme delle fonti possibili a disposizione di tutti i membri della società, dal quale ogni memoria seleziona gli elementi più funzionali alla propria ricostruzione del passato. Namer fa l'esempio della biblioteca come istituzione, nella quale è presente una vasta mole di materiale che è accessibile a chiunque ma che nel suo insieme non può essere ricondotta a nessuna memoria collettiva particolare. Quest'ultima porgerà la propria attenzione solamente a ciò che risulterà produttivo e coerente al fine della propria ricostruzione mnemonica del passato. La memoria collettiva diviene così il luogo di sintesi tra materiali della memoria sociale e gli interessi e i progetti attuali dei gruppi di cui è frutto. Essa rappresenta dunque una delle infinite attualizzazioni possibili della memoria sociale. Ciò che fa propriamente una memoria collettiva non è tanto il carattere comune dei suoi contenuti, quanto il fatto che questi siano elaborati in comune siano cioè il prodotto di una interazione sociale, di una comunicazione, che sia in grado di scegliere nel passato ciò che è rilevante e significativo in relazione agli interessi e all'identità dei membri di un gruppo. (Jedlowski 1999: 24-25)

Ricapitolando si evince che la memoria individuale è sorretta e plasmata da una pluralità di memorie collettive di cui è il punto d'intersezione; ciascuna di esse si riferisce a un gruppo; nel rinvio a una molteplicità di patrimoni memoriali, l'individuale si inserisce nella memoria sociale in cui i diversi gruppi immettono i rispettivi patrimoni di ricordi. In questo senso Namer sostiene che “esiste nell'individuo e nella società una memoria sociale che è al di qua o al di là della

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memoria collettiva” (Namer in Tota 2001: 75), perché da un lato la memoria sociale costituisce lo sfondo delle memorie collettive, l'orizzonte di significato che permette qualsiasi ricostruzione mnemonica; dall'altro invece, il loro fondo di sedimentazione (biblioteche, banche dati, mezzi di comunicazione e via dicendo). Un ulteriore sviluppo del pensiero di Halbwachs viene fatto per mano di Paolo Jedlowski, il quale si sofferma sulla complessità della società e sulla conseguente pluralità di memorie collettive che in essa si costituiscono. La sua attenzione volge soprattutto sul rapporto che s'instaura tra le diverse interpretazioni del passato relative ai vari gruppi sociali. Se è vero che le ricostruzioni del passato in gruppi diversi sono spesso differenti, qualora gli oggetti della memoria dovessero risultare gli stessi, nascerebbe necessariamente una contesa sull'immagine del passato in questione. In questo senso la memoria diventa il luogo di conflitti tra costruzioni diverse del passato dove sono presenti memorie dominanti e memorie soffocate. Il campo della memoria di una società si ridefinisce come un terreno composto di strati diversi, dove ciò che si afferma come la memoria “della società” si svela come una delle memorie possibili, e la sua esistenza è minata dalla persistenza di frammenti diversi di memoria, di tracce occultate, di testimonianze in cui sopravvivono diverse immagini del passato. La memoria di una società appare qui l'esito di processi di istituzionalizzazione e di trasmissione che non sono neutri, e le immagini del passato si svelano come una posta in gioco, il cui valore consiste nella sua capacità di fornire giustificazioni all'ordine di cose presente, legittimità e tradizione a progetti che ambiscono a definire il futuro. (Jedlowski 1989: 62)

Le differenti rappresentazioni del passato relative alle diverse memorie collettive presenti in seno ad una stessa società, rinviano ad una contesa che ha come posta in gioco la legittimazione e la fissazione sociale di una data versione di un certo evento. Conseguenza diretta di tale contesa è la nascita in seno alla società di una memoria ufficiale e dominante e di altre conseguentemente alternative e sotterranee. In questo senso la memoria sociale può considerarsi anche come aspirazione di ogni memoria collettiva di un gruppo che intende porsi come memoria di tutta una società.

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L'egittologo Jan Assmann riprende il concetto di memoria collettiva elaborato da Halbwachs, riscontrando al suo interno due differenti forme di memoria: quella comunicativa e quella culturale. La prima si mantiene viva tramite la comunicazione e comprende i ricordi che si riferiscono al passato recente, ovvero quelli che un essere umano condivide con i suoi contemporanei: è il caso tipico della memoria generazionale. La seconda si ricollega alle origini e si mantiene viva invece, tramite pratiche di memorizzazione istituzionalizzate che rievocano punti fissi del passato, i quali

assumono

importanza per il

significato costituente che riescono a trasmettere. Sono figure di ricordo cariche di senso che vengono celebrate per legittimare e chiarire il presente. La memoria collettiva funziona in maniera bimodale: nel modo del ricordo fondante, che si riconnette alle origini, e in quello del ricordo biologico, che si rifà alle proprie esperienze e alle loro condizioni quadro, ossia al recent past. Il modo del ricordo fondante opera sempre, anche nelle società prive di scrittura, mediante oggettivazioni stabili, sia verbali che non: sotto forma di rituali, di danze, miti, motivi decorativi, abiti, ornamenti, tatuaggi, percorsi, banchetti, paesaggi, ecc., i quali in virtù della loro funzione mnemotecnica (a sostegno sia del ricordo che dell'identità), possono esseri sussunti nel concetto d'insieme di “Memoria”. Il modo del ricordo biografico, invece, si basa sempre, anche nelle società alfabetizzate, sull'interazione sociale. Il ricordo fondante presenta il carattere dell'istituzione più che quello della spontaneità (e in certo qual modo viene integrato artificialmente mediante il suo ancorarsi in forme stabili), mentre nel caso del ricordo biografico le cose stanno esattamente al contrario. La memoria culturale, a differenza di quella comunicativa, è un fatto di mnemotecnica istituzionalizzata. (Assmann 1997: 26)

Quindi la memoria comunicativa rimanda ai ricordi tramandati per via biologica, si basa sulla comunicazione orale quotidiana ed è strettamente connessa ai suoi detentori, mentre quella culturale che si rifà ai ricordi fondanti, rimanda alla tramandazione degli stessi per via cerimoniale o istituzionale, ed ha dunque delle basi decisamente più stabili. La memoria culturale rappresenta il patrimonio di sapere fondativo dell'identità di un gruppo, ciò che viene oggettivato in dispositivi di memoria o in pratiche o forme simboliche. A differenza della memoria comunicativa che sussiste nella quotidianeità, la memoria culturale si esternalizza nell'extra-quotidiano poiché comprende ambiti del sapere che vanno 29


al di là dell'esperienza vissuta e della comunicazione ordinaria. Se un fatto storico giunge alla cosiddetta memoria culturale, il suo ricordo si consolida in una cultura oggettiva, si svincola dai rapporti comunicativi quotidiani e diventa contenuto di commemorazione rituale. Il passaggio dalla memoria comunicativa alla memoria culturale non è sempre fluido. Aleida Assmann, infatti, sostiene che spesso il passaggio comporta una rottura. Se infatti la memoria comunicativa, informale e spontanea,

è

caratterizzata da ricordi vivi sorretti da esperienze dirette, quella culturale si basa sull'estensione dell'orizzonte temporale resa possibile da figure simboliche che sostengono il ricordo collettivo in una prospettiva transgenerazionale. La memoria comunicativa dipende cioè dai membri della comunità di cui è espressione ed è destinata all'oblio nel giro di alcune generazioni, mentre quella culturale si fonda su elementi che garantiscono un supporto duraturo: riti, testi sacri, immagini, monumenti, cerimonie pubbliche, e sul piano materiale musei, biblioteche, archivi e via dicendo. Tutte istituzioni caratterizzate insomma da una vocazione secolare tesa a radicare saldamente il presente nel passato. Quel che risulta chiaro dalle analisi di Jan ed Aleida Assmann è il fatto che la memoria di un gruppo non dispone solo di parole, di storie scritte o trasmesse oralmente, ma anche di artefatti, monumenti, simboli, cerimonie pubbliche e istituzioni attraverso cui la memoria viene costruita, riprodotta, conservata e trasmessa da una generazione a quella successiva. In questo senso l'artificialità insita nella ricostruzione del passato in funzione del proprio presente, individuata da Halbwachs, si radicalizza e diventa sempre più evidente. I fenomeni relativi alla memoria appaiono come frutto di una costante attività sociale consistente nell'assumere determinati elementi caricandoli di un preciso significato simbolico. Appare cioè più evidente l'artificiosità della memoria e il fatto che essa non sia uno scontato dato naturale, ma una vera e propria costruzione culturale tesa di continuo a offrire una rappresentazione dotata di senso del proprio presente.

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2. Memoria, identità e culture contemporanee Aleida Assmann, a conferma di quanto detto, nella sua opera Ricordare; forme e mutamenti della memoria culturale, tratta della trasformazione della memoria feudale in memoria nazionale in Inghilterra. Del modo in cui le memorie dei partiti e delle famiglie antagoniste subiscano un'operazione di rimodellamento e finiscano per confluire in una storia nazionale, in un senso comune patriottico che appiana qualsiasi possibile divergenza. Nel farlo l'autrice evidenzia il ruolo avuto da Shakespeare, il quale nelle sue opere tramuta memoria ed etica feudali in memoria ed etica nazionali rivolgendosi non più ad un pubblico in particolare ma all'Inghilterra nel suo complesso. Questo processo di trasformazione viene espresso chiaramente dall'autrice rimarcando la funzione di collante sociale insita nella ricostruzione mnemonica del passato: Ora anche la nazione, oltre al re, fa il suo ingresso nel mondo della storia in qualità di soggetto e ne diventa referente e fonte. Con questo ampliamento del pubblico si realizza anche un mutamento strutturale della memoria storica che non serve più, come in passato, soltanto all'educazione o alla legittimazione di chi esercita il potere, quanto piuttosto alla formazione dell'identità collettiva. (Assmann A. 2002: 85)

Da questo processo di trasformazione sviluppatosi in seguito ad un cambiamento della realtà politica presente, si evince quanto sia importante mantenere una continuità col passato. Storici come Hobsbawm e Ranger e sociologi come Anderson, esaminando la relazione tra memoria ed identità nazionale, hanno difatti reso evidente più che mai tale importanza coniando i concetti di “invenzione della tradizione” e “comunità immaginate”. Questi studi da una parte sottolineano il carattere inventato e costruito delle memorie collettive sulla quale si son fondate le identità nazionali e dall'altra mostrano quanto sia imprescindibile la continuità, seppur fittizia, col passato. Hobsbawm mostra che tra la fine dell'ottocento e i primi del Novecento fu consapevolmente intrapresa, da parte di stati, autorità politiche e altri gruppi sociali, un'opera di invenzione di 31


tradizioni con lo scopo di dare a contesti sociali nuovi, con i quali non si poteva più ricorrere ai vecchi vincoli di obbedienza e lealtà, nuove forme di coesione e di identità politica. Si trattava dunque per gli stati nazionali europei di legittimare la propria esistenza facendo risalire le proprie radici al passato e di creare dei miti e dei simboli in grado di produrre identificazione e senso di appartenenza. Dello stesso parere è Aleida Assmann la quale legge il fenomeno come effetto di un'epoca in fase di assestamento: “La memoria nazionale è un'invenzione dell'Ottocento, che andava riorganizzandosi in stati nazionali, ed è in questo periodo che in Europa nasce una nuova forma politica della memoria” (Assmann A. 2002: 156). Successivamente a quanto appena riportato l'autrice prosegue il discorso riflettendo sul fatto che la memoria nazionale non si esaurisce necessariamente in una cultura specifica, e dunque, può assumere le sembianze di una memoria ufficiale imposta: La memoria nazionale non si limita solo alla “cultura” e può assumere un valore politico identico a quello della memoria ufficiale, soprattutto quando, come memoria d'opposizione, entra in collisione con essa e ne mette in crisi la legittimazione ottenuta attraverso monumenti di censura e propaganda. (Assmann A. 2002: 156)

A tal proposito Ugo Fabietti chiama in causa, nell'opera scritta in collaborazione con Vincenzo Matera, Memorie e identità; simboli e strategie del ricordo, il sociologo tedesco Fernand Töennies. Per quest'ultimo il progressivo affermarsi dei legami di tipo contrattuale coincide con la consacrazione degli stati moderni in contrapposizione alle comunità preesistenti, le quali erano caratterizzate da una solidarietà e cooperazione tra i membri derivante dall'esistenza di forti e diffuse relazioni parentali e affettive. In questo senso: Costituendosi come vaste unità territoriali, gli stati nazionali devono, proprio perché non lo sono affatto, fondarsi su un'idea di comunità omogenea. Per pensarsi come appartenenti alla comunità nazionale, gli individui devono potersi concepire come in possesso di caratteristiche considerate connotative della nazionalità: lingua, cultura, origini ecc. (di solito “estese” nelle nozioni di razza, popolo, etnia). Ma nella maggior parte dei casi questa comunanza di tratti è frutto di una vera e propria “invenzione”, di una costruzione selettiva fondata su un'immagine della comunità nazionale come di comunità naturale. (Fabietti-Matera 1999: 26) 32


È in questo senso che B. Anderson parla di comunità immaginate riferendosi agli stati nazionali. Dal momento che la memoria di questi ultimi accomuna individui che non si conoscono e non hanno mai interagito direttamente gli uni con gli altri essa non può che fondarsi su una forte rappresentazione immaginativa. È vero che già in passato la memoria culturale non era appannaggio esclusivo della sola comunicazione diretta, esistevano difatti, come ha evidenziato Jan Assmann, ulteriori forme di perpetuazione materiale del ricordo (se non in testi scritti, in riti, oggetti, tradizioni). Ad ogni modo la memoria era riprodotta e fruita principalmente attraverso situazioni di interazione faccia a faccia e incontri rituali di tipo collettivo. Qui sta la differenza: gli apparati statali nazionali propongono modalità di fruizione a distanza che non permettono una diretta e congiunta negoziazione del ricordo da parte della comunità. In questo senso il potere centrale si legittima agli occhi delle comunità localizzate proponendo alternativi comuni percorsi di costruzione dell'appartenenza storica. Al riguardo del tema centralità ed integrazione Jan Assmann sostiene: Quando dei raggruppamenti etnici si fondono in strutture etnopolitiche più grandi oppure quando, in seguito a migrazioni, sovrapposizioni o conquiste, vengono inclusi in un altro raggruppamento etnopolitico, si producono problemi di integrazione o acculturazione: la cultura dominante (la formazione culturale dell'etnia dominante) ottiene ora una validità transetnica e si intensifica diventando una civiltà di livello superiore, che marginalizza le formazioni culturali a cui si sovrappone. (Assmann J. 1997: 113)

Quanto appena detto da Assmann ci riporta alle Osservazioni sul folclore di Antonio Gramsci e alla sua distinzione tra egemonia e subalternità. Per egemonia è da intendersi il dominio ideologico di alcuni gruppi o classi, a seguito della loro supremazia culturale. Leadership che si ottiene senza costrizioni, semplicemente grazie a mezzi in grado di conquistare indirettamente il consenso dei gruppi subordinati (le istituzioni, i sistemi educativi, la chiesa, i musei, la stampa, i meriti sportivi, ecc.). Si tratta di una relazione di dominio che non viene vista e vissuta come tale da chi la subisce. Il riconoscimento di una cultura bassa contrapposta ad una cultura alta 33


capace di ottenere validità e consenso, come spiega bene Alberto M. Cirese, “liquidava in modo definitivo le ibride eredità della nozione romantica del “popolo-anima” o “popolo-nazione”, […], e introduceva una determinazione precisa: quella del “popolo classi subalterne”, inteso ovviamente come variabile storica” (Cirese 1980: 218). Ne consegue che la memoria culturale, e l'identità ad essa connessa, sia caratterizzata da una lotta, seppur impari, tra modelli culturali dominanti, frutto di una tradizione statale che si percepisce come portatrice di valori universali, e modelli subordinati, elaborati da tradizioni culturali allogene. Questa lotta tradizionalmente si è espressa nella divergenza tra i grandi centri, fulcri erogativi dell'ideologia dominante, e i piccoli borghi, sedi per eccellenza delle tradizioni popolari e voci della subalternità. Sorse l'esigenza da parte delle classi dominanti, detentrici del potere economico e politico, di: indurre lo sviluppo della comunità alla società capitalistica, attraverso la progressiva creazione del mercato, che avrebbe agito da razionalizzatore dei rapporti economici e sociali, e la conseguente necessità di rimuovere gli ostacoli allo sviluppo che la cultura e le strutture sociali tradizionali del mondo delle comunità rappresentano. (Fabietti 2000: 62)

Lo sfaldarsi delle comunità tradizionali, a seguito del costituirsi di un nuovo ordine sociale gravitante attorno al capitalismo industriale ha fatto si che gli stili di vita di un tempo venissero abbandonati. La modernizzazione, di cui gli stati nazionali sono stati i portavoce, ha riformato per intero la popolazione ricreando la contrapposizione egemonico-subalterno sotto una nuova veste. Il nuovo apparato culturale contraddistinto dal consumo indistinto dei prodotti materiali e culturali della grande distribuzione non permette più di interpretare la frattura egemonia-subalternità in maniera statica: ovvero stato-modernità da una parte e tradizioni popolari dall'altra. La cultura di massa pur essendo un prodotto egemonico è oramai da considerarsi a pieno diritto pure come campo della subalternità, in quanto oggigiorno si esprime in larga misura appropriandosi dei prodotti dell'industria culturale e del progresso tecnologico. Per di più è da 34


sottolineare anche: ...“la resa ai mass-media”, la cui forza devastante non ha risparmiato alcun angolo della nostra visione del mondo e ha imposto il modello, l'orizzonte culturale con il quale, che piaccia o meno, è necessario confrontarsi nell'impostare qualsiasi analisi culturale. (Fabietti 2000: 54)

In tal senso, la nuova struttura sociale ha portato con sé nuove tecniche per la fissazione, la conservazione e la trasmissione delle tracce del passato nel tempo. Sono infatti libri, giornali, film e programmi televisivi a raccontare la storia delle comunità contemporanee e a delineare alcune delle principali coordinate attraverso le quali costruire il proprio senso di appartenenza al passato. A differenza di quel che accadeva con le pratiche di riproduzione del passato legate alle comunità tradizionali, attraverso i media la memoria si costituisce a distanza e non in seguito ad un incontro collettivo diretto o ad un'interazione faccia a faccia. Si è assistito inoltre ad un aumento della complessità del sistema sociale, grazie alla divisione del lavoro per esempio, che ha comportato un incremento della stratificazione sociale e delle espressioni di potere. In questo senso i cultural studies rileggono la contrapposizione gramsciana egemonico-subalterno come una linea di frattura mobile che si manifesta in una pluralità di contrapposizioni e differenze (culturali, occupazionali, di genere, politiche, sociali, di classe, generazionali, religiose, ecc.). La cultura è vista in tal modo come un qualcosa di complesso e mai definito, costituito da una moltitudine di gruppi che si affiancano e si intersecano dando vita a rapporti di potere. In conclusione questa visione della società contraddistinta da rapporti di potere sembra coniugarsi con quanto sosteneva Halbwachs al riguardo del fatto che ogni ricostruzione del passato, ad opera dalla memoria di una società, tende sempre ad accordarsi ai pensieri e agli interessi dominanti. Jedlowski sviluppando quanto affermato da Halbwachs sostiene in questo senso che la memoria di una società è da intendersi come: la selezione, l’interpretazione e la trasmissione di certe rappresentazioni del passato a partire dal punto di vista di un gruppo sociale determinato. Ma 35


poiché ogni società comprende più gruppi, i cui interessi e i cui valori possono differire tra loro, dovremo aggiungere che la memoria collettiva è sempre intrinsecamente plurale: è il risultato, mai definitivamente acquisito, di conflitti e di compromessi tra volontà di memoria diverse. Il luogo in cui queste volontà si confrontano è la sfera pubblica, l’arena in cui gruppi diversi competono per l’egemonia sui discorsi plausibili e rilevanti all’interno della società nel suo insieme. (Jedlowski 2000: 32)

Così concepita, la memoria appare correlata con la concezione della cultura teorizzata da Hannerz, la quale si configura come una molteplicità di habitat di significato intrecciati e contrapposti.

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3. Identità e territorio Da quanto detto finora, si comprende che l'identità culturale è da considerarsi sempre più come frutto di mutevoli campi di differenze sui quali si snodano le strategie di identificazione di individui e gruppi. Di conseguenza, la memoria e la cultura non possono considerarsi come gabbie coincidenti con confini territoriali precisi che imprigionano in appartenenze indissolubili gli individui. Ciò che le caratterizza al giorno d'oggi è il fatto di essere frammentate e deterritorializzate. Per fare un esempio banale, la coesione generazionale tra due individui compaesani nati in Sardegna, può essere rinsaldata anche dal ricordo dell'aver assistito, dal soggiorno della propria casa, all'edizione dei mondiali di calcio svoltasi venti anni prima negli Stati Uniti. In questo senso il fattore delocalizzazione assume sempre più importanza oggigiorno: sempre più spesso quel che unisce è un evento non accaduto nel luogo in cui ci si ritrova o ritrovava. Quindi, dal momento che l'identità risulta sempre più determinata dall'appartenenza a più universi simbolici delocalizzati, e dato che da ciò ne risulta delegittimata la coincidenza cultura-territorio-identità, appare interessante chiedersi se i luoghi esercitino tuttora un influenza su di essa. Il territorio si configura come sfondo spaziale dell'agire sociale. L'uomo si appropria di esso dando vita alla cosiddetta territorializzazione, ovvero al processo di trasformazione della superficie terrestre in seguito alla sua presenza. Adalberto Vallega al riguardo specifica: Per il semplice fatto di essere presente, la specie umana ha dato luogo alla territorializzazione di parti sempre più estese della superficie terrestre. Ovunque ciò sia avvenuto si è delineato un sistema binario “natura, comunità umana”, che è diventato una realtà progressivamente complicata e articolata. La diffusione di processi territorializzanti ha trasformato la Terra 37


nel Mondo, cioè in una realtà in vario modo controllata dalla cultura (Vallega 2004: 19).

In questo senso il territorio è al tempo stesso un prodotto e una condizione dell'azione umana. Secondo Angelo Turco il processo di territorializzazione si concretizza in tre fasi, che contraddistinguono tre differenti forme di controllo del territorio da parte dell'uomo. La prima avviene tramite la denominazione del luogo ed esprime una forma di controllo simbolico, intellettuale dello spazio. Donando un nome ad un punto della superficie terrestre lo si trasforma in luogo; esso non risulta più una realtà esterna al soggetto ma una parte della sua sfera sprituale ed esistenziale. La prima fase si esprime quindi “attraverso un processo di simbolizzazione, cioè nell'attribuire segni ai singoli luoghi; segni che partendo dalla denominazione, siano capaci di evolversi e di arricchirsi di senso conducendo a significati generati dalla cultura” (Vallega 2004: 19). La seconda fase, denominata reificazione, concerne invece la sfera pratica e consiste nel controllo materiale del territorio. Si concretizza nel modellamento della superficie terrestre ai propri fini, alle proprie esigenze: riguardanti la produzione, la mobilità e l'abitare in generale. Questa fase è quindi il prodotto del determinato modo in cui si sfruttano le risorse, si costruiscono le dimore e ci si insedia in generale sul territorio. Infine gli interventi concreti riconducono alla terza fase che prende il nome di strutturazione. Questa forma di controllo rimanda all'organizzazione della realtà materiale e consiste dunque al modo strategico in cui si suddivide il territorio per dar vita ai vari usi che di esso s'intende fare. Da questo processo di territorializzazione si evince che ogni cultura costruisce il proprio territorio e, allo stesso tempo, se ne serve per costruire sé stessa. Il territorio quindi non è soltanto oggetto della percezioni degli uomini e sfondo delle loro azioni, ma è anche una realtà viva che da tali azioni viene incessantemente modificato, assumendo perciò caratteristiche sempre diverse e sempre nuovi significati. L'insediamento acquista dunque valore antropologico, perché essendo frutto dell'azione incessante della collettività sull'ambiente, è 38


partecipe della stessa natura dei manufatti e delle pratiche sociali.

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3.2. La dimensione simbolica Il primo passo del processo grazie al quale la natura da realtà esterna diventa parte dell'esistenza del gruppo sociale si compie tramite l'attribuzione di un nome a un luogo, ovvero grazie alla denominazione, da cui ne scaturisce il controllo simbolico del territorio. Abbiamo visto in altre parole che il primo momento della territorializzazione consiste nell'immergere in una dimensione esistenziale aspetti naturali del territorio, assegnandoli determinati simboli linguistici. Detto questo c'è da specificare che determinati luoghi a loro volta possono nel tempo diventare essi stessi simboli, magari di qualcosa di particolarmente rilevante per la cultura di riferimento (avvenimenti storici, riti sociali o religiosi, dimore di personalità importanti, monumenti, luoghi storici di ritrovo, ecc.). In questo senso i simboli implicano significati che connotano il territorio ed esprimono allo stesso tempo il rapporto tra la comunità e il luogo. Quest'ultimo assume così le sembianze di prodotto culturale perché si presenta come un corredo di simboli costruiti nel corso della storia, che grazie ai significati a cui rimandano contrassegnano i singoli luoghi. Il geografo E. Turri in tal senso, propone una concezione del paesaggio in chiave semiologica, considerandolo cioè come un insieme di segni interpretabili alla luce di una determinata cultura. Col suo carico di segni umani ogni paesaggio sottintende un insieme di relazioni che legano l'uomo alla natura, all'ambiente, alla società in cui vive. Tali legami si possono valutare soltanto considerando l'uomo come protagonista d'una cultura, intesa questa come espressione complessiva delle forme di organizzazione umana nella natura. (Turri 2008: 138)

Dal momento che gli elementi del paesaggio sono espressione concreta dei processi attraverso i quali una cultura organizza il proprio ambiente di vita essi assumono implicitamente significato culturale. Secondo Turri dunque il paesaggio è da considerarsi come una sorta di testo simbolico, in cui ogni elemento rimanda a funzioni e significati comprensibili alla luce di un certo codice culturale, che rappresenta il modo in cui la popolazione di un certo 40


territorio conferisce senso al proprio mondo. Quanto detto con una leggera forzatura può essere ricondotto alla metafora del testo geertziana e in questo senso il territorio può essere considerato come una descrizione densa, una thick description. Per rimarcare l'importanza che assume il territorio come prodotto culturale, Turri chiama in causa un'esperienza comune: Che il paesaggio esprima le ragioni intrinseche d'una cultura o d'una società che operi secondo una certa cultura, con le sue specifiche necessità e i suoi particolari ambientali, è dimostrato dal disagio psicologico che si prova arrivando in un paese sconosciuto, vedendo campi, strade, forme d'insediamento e aggregati umani ignorati, raccolti secondo loro specifiche ragioni. (Turri 2008: 139)

E a tal proposito, è significativo ricordare una celebre testimonianza di Ernesto de

Martino,

riguardante

l'esperienza

vissuta

da

un

vecchio

pastore

nell'allontanarsi dal proprio abitato: Percorrendo in auto una strada della Calabria, non eravamo sicuri del nostri itinerario e fu per noi di grande sollievo incontrare un vecchio pastore...Gli offrimmo di salire in auto per accompagnarci fino al bivio...poi lo avremmo riportato al punto in cui lo avevamo incontrato. Sali in auto con qualche diffidenza, come se temesse una insidia , e la sua diffisenza si andò via via tramutando in angoscia, perchè ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo estremamente circoscritto spazio domestico. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato....[quando] lo riportammo indietro...secondo l'accordo, [egli] stava con la testa fuori dal finestrino, scrutando l'orizzonte, per vedere riapparire il campanile di Marcellinara: finchè quando finalmente lo vide, il suo volto si distese e il suo vecchio cuore si andò pacificando come per la riconquista di una “patria perduta”. (De Martino 1960-65: 480-481)

Del tema dell'angoscia territoriale De Martino tratta anche in un saggio intitolato Angoscia territoriale e riscatto culturale, dove narra di un'usanza di una popolazione aborigena australiana, gli Achilpa. Questa popolazione di nomadi cacciatori raccoglitori, ogni qual volta giunge e si ferma in un territorio sconosciuto pianta un palo totemico, chiamato kauwa-auwa, il quale simboleggia il centro del mondo. De Martino ci spiega che così facendo gli Achilpa riescono a far fronte all'angoscia territoriale, all'assenza di riferimenti noti a cui li espone la 41


necessità di spostarsi sempre in territori diversi. Il concetto di angoscia territoriale è strettamente connesso al concetto demartiniano di presenza, ossia alla risposta dell'uomo all'angoscia esistenziale che sorge dall'idea della fine, una condizione che non cessa di costruire certezze attorno alla propria identità cosciente, “uno stato etico che l'uomo si sforza di costituire per sfuggire all'idea, insopportabile, di non esserci” (Fabietti 2001: 165). In questo senso l'usanza degli Achilpa è da leggere come stratagemma messo in atto per riscattare la presenza, la quale non è mai data e rischia costantemente di andare perduta. Il kauwa-auwa, assorbe così la funzione di centro spaziale e centro mentale, a partire dal quale orientarsi e percepirsi nel mondo e nello spazio. Per questo motivo gli spostamenti in territori lontani e sconosciuti a cui erano costretti, erano possibili solamente attraverso una ripetizione, mitica e rituale di tale centro. La necessità primaria, di cui si è parlato nel processo di territorializzazione, consistente nell'appropriarsi simbolicamente dello spazio donandoli un nome e facendo si, in questo modo, che esso cessi di essere una realtà a l'uomo estranea, trova un punto di riferimento nell'esigenza di sfuggire dall'angoscia territoriale demartiniana.

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3.2. Identità, memoria e territorio Considerare il territorio come una costruzione culturale, come una rete di simboli che rimanda a dei significati, presuppone che esso sia una fonte d'identità culturale per l'intero complesso della popolazione che abita un certo territorio. Implica che da un lato vi sia l'azione dell'uomo sul territorio e dall'altro vi sia la reazione di questo sull'individuo. Quindi da una parte la costruzione culturale del territorio avviene vivendolo, dall'altra esso in questo modo si fa specchio delle interrelazioni fra la popolazione e il territorio e diventa elemento di identità culturale per coloro che vi abitano. Questa doppia dimensione del paesaggio, come prodotto e come sfondo dell'azione sociale, richiama alla mente la metafora di Turri del paesaggio come teatro, in cui individui e popolazioni sono attori che recitano le loro storie, ma anche spettatori che guardano gli effetti del loro agire, specchiandosi in esso. In tal modo il paesaggio viene univocamente ricondotto alla sua essenza di “riflesso della realtà fenomenica”, di medium del rapporto tra cultura e natura, di referente primo, per l'uomo, del suo agire territoriale. […] È una sorta di scambio interattivo, […], grazie al quale cultura e natura si possono considerare come due sistemi che, venuti a confronto, cercano ognuno di integrare l'altro. (Turri 1998: 28) Seguendo questa prospettiva, della cultura non fanno parte soltanto le particolari pratiche culturali di una collettività, ma anche la scenografia del suo vissuto. “Attraverso il paesaggio infatti riconosciamo una cultura, una società, non meno che attraverso i modi specifici di vestire, di alimentarsi ecc.” (Turri 1998: 40). Detto questo, è necessario comunque sia tener presente che nell'attualità la popolazione di un certo territorio non è più culturalmente omogenea. Turri stesso riconosce che la società attuale non è una società olistica, in cui gli individui sono integrati, formano una sorta di corpo unico che si muove secondo spinte, credenze, ideali collettivi comuni. Siamo in una società nella quale le spinte individualistiche sono fortissime, divergenti gli interessi, le visioni del 43


mondo, le passioni territoriali, i rapporti quotidiani con lo spazio ecc. (Turri 1998: 14) Il territorio non è più considerabile come espressione di una sola cultura, ma piuttosto come punto di interconnessione di flussi culturali diversi. In questo senso il suo valore di ancoraggio identitario collettivo può ritenersi più debole rispetto al passato. Come abbiamo visto in precedenza, nel corso della storia ci sono stati cambiamenti riguardanti la struttura sociale e si sono affermati nuovi sistemi di valori attraverso i quali dare senso alla realtà. La rivoluzione francese e inglese, il sorgere degli stati nazionali, la modernità e la successiva globalizzazione, sono tutti processi che hanno contribuito in questo senso e intaccato la continuità generazionale tra le comunità tradizionali. Non c'è dubbio che il rapporto fra identità e territorio si sia evoluto nel passaggio che ha condotto le società di tipo tradizionale a quelle contemporanee. Da una parte nelle società agricole, per esempio, il radicamento di una popolazione nel proprio luogo di vita è favorito sia dal sistema economicoculturale che spinge ad una vita sedentaria, sia dal basso grado di sviluppo dei mezzi di trasporto che riduce le possibilità stesse di spostamento. Dall'altra fenomeni come la crescente urbanizzazione caratterizzata dall'omogeneità degli stili

architettonici,

l'aumento

crescente

della

mobilità

delle

persone,

l'intensificazione di scambi materiali e di informazioni provenienti da ovunque, il crescente numero di comunità delocalizzate con cui potersi identificare, il ruolo periferico di alcuni territori nello scenario statale e globale, il distacco sempre più frequente tra luogo di vita e luogo di lavoro, ha certamente contribuito ad allentare il legame tra uomo e contesto territoriale. Attualmente i riferimenti identitari non vengono cercati esclusivamente nella dimensione locale, e il territorio, con la storia che lo ha contraddistinto, appare come una delle tante sfere di significato possibili. In riferimento a questo tema Vallega sostiene: La globalizzazione può essere immaginata come un insieme di 44


rappresentazioni, vale a dire di segni e di simboli, in cui esistono luoghi certi di partenza e luoghi potenziali di destinazione all'interno di un gioco di comunicazione simbolica attivato da un regista virtuale. Le strategie di globalizzazione provocano l'innesto di simboli e di significati nuovi, a contenuto universale, in un quadro di simboli e significati consolidati nei singoli luoghi. L'innesto provoca l'interazione tra simboli disseminati attraverso spazi virtuali e simboli che le singole comunità hanno costruito nel corso della loro storia. […] Ha ovviamente rilevanza l'interazione tra simboli consolidati e simboli importati che si riferiscono a luoghi e spazi poiché, se i secondi prevalgono sui primi, mutano i valori attribuiti al territorio. (Vallega 2003: 307)

L'antropologo di origini indiane Arjun Appadurai, cercando di comprendere il ruolo assunto dalle località all'interno dei vasti flussi culturali globali, ha elaborato la distinzione tra località e vicinato. La prima per l'autore è considerata come una proprietà generale della vita sociale, una struttura di sentimento prodotta da determinate attività intenzionali; il vicinato invece, è concepito come la comunità effettiva in cui si realizza in misura variabile la località. Quest'ultima che non è mai data e dunque si configura come frutto intenzionale e costante dei soggetti, è un qualcosa che viene prodotto. In questo senso la località non è lo sfondo dell'agire sociale ma l'immagine che da esso ne vien fuori. Agendo s'incarna la località, e in contemporanea si entra a far parte della comunità. A questo punto Appadurai parla di vicinato come contesto o gruppo di contesti, in quanto fornisce “la cornice entro cui diverse forme di azione (produttiva, riproduttiva, interpretativa e performativa) possono avere inizio ed essere intraprese mantenendo un loro significato” (Appadurai 2001: 239). In questo senso, il vicinato si configura come insieme di contesti dati per certi dai soggetti, in cui è possibile produrre e interpretare azione sociale dotata di significato. Nel momento in cui però, s'impongono nuovi vicinati immaginati, quest'ultimi producono nuovi contesti che trascendono i confini esistenti (materiali e concettuali), generando nuove cornici di senso in cui colare l'azione sociale. L'autore è quindi del parere che al giorno d'oggi produrre località (intesa come struttura di sentimento, proprietà della vita sociale e ideologia della comunità situata) è un compito sempre più arduo. 45


Principalmente per tre ragioni: 1) I tentativi sempre più frequenti da parte del moderno stato nazionale di definire tutti i vicinati secondo le sue definizioni di fedeltà e affiliazione; 2) la crescente disgiuntura tra territorio, soggettività e movimenti sociali collettivi; 3) l'indebolimento costante, dovuto principalmente alla forza e alla forma della mediazione elettronica, del rapporto tra vicinati spaziali e virtuali. E a complicare ulteriormente questo quadro analitico subentra l'interazione tra queste tre dimensioni. (Appadurai 2001: 245)

Per quanto spetta alla memoria, Jan Assmann, in riferimento ad Halbwachs e al lavoro sulla Topografia leggendaria della Terra Santa, sentenziava dicendo: “la memoria ha bisogni di luoghi, tende alla spazializzazione” (Assmann J. 1997: 14). Con quest'opera sulla Palestina Halbwachs ha difatti posto in luce come le identità collettive si strutturino attorno a riferimenti spazio-temporali che rinsaldano la memoria di un passato comune. Effettivamente, non sembra possibile scollegare il vissuto concreto dallo scenario in cui esso è avvenuto e di conseguenza pare altrettanto impossibile che quest'ultimo non concorra al senso di tale vissuto. Sul piano temporale la memoria rievoca eventi che essa stessa colloca in qualche punto dello spazio, “luoghi di memoria” su cui l'identità proietta, e da cui trae, la propria storia, le vicissitudini che le appartengono. I luoghi di memoria sono, come ha precisato Pierre Nora (1989) “siti” in cui si condensano le immagini di un passato carico di significati. (Fabietti-Matera 1999: 35)

Questi luoghi significativi, dunque, narrano della storia della collettività sul territorio e si rifanno principalmente alle vicende che l'hanno formata o hanno contribuito al suo consolidamento. Il rispetto per il passato, in questo senso, risulta essere un elemento fondamentale per garantire la propria continuità nel tempo. Il nesso concettuale “memoria dei luoghi”, come ha specificato Aleida Assmann, rimanda a due possibili concezioni. Può infatti trattarsi di “un genitivo oggettivo – una memoria che ha come oggetto il luogo – oppure di un genitivo soggettivo – se si tratti quindi di una memoria che è essa stessa localizzata nei luoghi” (Assmann A. 2002: 331). Quindi, da un lato, i luoghi possono essere oggetti del ricordo in quanto rimandano a memorie che non sono racchiuse 46


esclusivamente in essi (una rappresentazione pubblica dell'identitĂ ); dall'altra invece, possono esserne i soggetti in quanto scenari e punti precisi del ricordo significativo.

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3.4. Il fattore locale in rapporto al globale Nonostante il processo della globalizzazione tocchi tutto il mondo (circolazione più veloce di merci e persone, apertura dei mercati finanziari, diffusione globale di immagini provenienti da qualsiasi parte del mondo, nuove possibilità di comunicare in modo sempre più veloce, ecc.), i suoi effetti, secondo diversi studiosi, non sono uguali ovunque. Hannerz è uno degli antropologi che la pensa in questo modo. Secondo l'autore la globalizzazione ha dato vita a nuove forme, nuove modalità di differenziazione culturale ed è per questo motivo da escludere un quadro omologante della situazione. Anche se il successo dei modelli occidentali non può esser messo oggigiorno in discussione, “ciò non significa che le idee nelle loro sfumature e le forme simboliche, ossia il contenuto culturale, che si sviluppano debbano essere le stesse” (Hannerz 1998: 9). Hannerz descrive la cultura nel mondo odierno facendo uso di una metafora. Le culture al giorno d'oggi per l'autore si comportano come le lingue creole, le quali hanno un'origine mista e rappresentano il convergere di correnti di origine storicamente diversa. Queste ultime interagiscono generando un rapporto centro-periferia, nel quale accade che le spinte provenienti dal centro si mescolino con quelle provenienti dalla periferia dando origine a nuove combinazioni. In questo senso la cultura non viene vista come un qualcosa di uniforme ma come un intersecarsi di forme e prospettive sempre diverse, in un processo di scambio che non si esaurisce mai. Anche se da una parte l'autore sottolinea la necessità di considerare il locale come luogo d'incontro-scontro tra influenze di vario genere, dall'altra evidenzia il ruolo funzionale del quotidiano e dell'interazione faccia a faccia come parti della vita locale. In questo senso non è favorevole a considerare i media come principale mezzo di produzione e di distribuzione culturale. Ciò che è locale tende anche a essere “faccia a faccia”, vale a dire che si svolge perlopiù in situazioni focalizzate e in rapporti duraturi largamenti 48


inclusivi. Le persone sono a stretto contatto e si sorvegliano a vicenda: la reciproca comprensione viene approfondita nel continuo flusso di parole e gesti, mentre le deviazioni possono essere punite in modo informale ma efficace, e i cambiamenti devono essere negoziati. […] Inoltre è nei contesti faccia a faccia, e in tutto ciò che è la quotidianeità, che gli esseri umani generalmente fanno le loro prime esperienze. Se siamo d'accordo sul fatto che gli esseri umani crescono in una sorta di continua elaborazione culturale, i materiali a disposizione fin dall'inizio, quali che siano, avranno qualche influenza su ciò che sarà assimilato poi. (Hannerz 2001: 35)

In altre parole, il fattore locale non può essere messo da parte, poiché è il luogo dove avviene la comprensione tra gli individui e le pratiche che ne derivano. La dimensione locale quindi, pur in ambito di interconnessioni globali, mantiene la sua importanza in quanto la maggior parte di ciò che si fa accade localmente. Per cultura globale dunque non si può intendere “una replica uniforme di modelli unici, bensì un'organizzazione della diversità, un'interconnessione crescente di culture locali differenti, così come lo sviluppo di culture senza un netto ancoraggio sul territorio” (Hannerz 2001: 129). Anche l'antropologo messicano Néstor García Canclini non ritiene che la modernità sia da considerare come un processo unidirezionale, che investe omogeneizzando qualsiasi particolare realtà culturale incontri nel suo percorso. Piuttosto, essa è da considerare come il prodotto continuo del mescolamento tra il tradizionale e il nuovo, come qualcosa di ibrido. L'autore è del parere che lo sviluppo moderno non sopprima le culture popolari tradizionali, anzi: “molti studi rivelano che negli ultimi due decenni le culture tradizionali si sono sviluppate trasformandosi” (Canclini 1998: 157). Questa crescita secondo Canclini è dovuta principalmente a quattro ragioni: all'impossibilità di acquisire tutta la popolazione nella produzione industriale urbana; all'esigenza da parte del mercato di acquisire i prodotti tradizionali nei circuiti di massa per raggiungere così facendo anche i settori sociali popolari meno inseriti nella modernità; all'interesse nutrito verso il folklore da parte dei sistemi politici per estendere la loro egemonia e legittmità; e infine all'ininterrotta produzione culturale dei settori popolari. Dello stesso parere sono le etnologhe Bredeinbach e Zukrigl, le quali 49


sostengono che la globalizzazione non abbia prodotto una semplice omologazione, ma abbia piuttosto portato a mescolamenti e alla convivenza di diversi modelli culturali. Vedere le differenti culture come unità chiuse e delimitate, come tessere di un mosaico culturale che comporrebbe il mondo, è fuorviante, in quanto non darebbe conto delle

mescolanze e delle

interconnessioni che rappresentano il mondo attuale. In un loro interessante saggio intitolato La dinamica della globalizzazione culturale, le due studiose sostengono che Vista da una prospettiva culturale la globalizzazione si presenta […], come un processo profondamente dialettico. Omogeneizzazione e differenziazione, conflitto e creolizzazione, globalizzazione e localizzazione, non indicano sviluppi opposti, ma sviluppi che si condizionano reciprocamente. (Bredeinbach – Zukrigl 2000: 7)

Anche per Appadurai l'eterogeneizzazione non è a rischio anche se esistono una vasta serie di ragioni per costruire tesi a favore dell'omogeneizzazione. L'autore sottolinea inoltre che il timore dell'omogeneizzazione spesso diviene a torto sinonimo di americanizzazione o di mercificazione, e non si tiene conto che il processo contribuisce alla nascita di una serie di molteplici timori alternativi, come per esempio quello dei coreani di fronte alla giapponesizzazione, o quello degli abitanti dello Sri Lanka di fronte alla indianizzazione e via dicendo. A parere dell'autore Quello che tali questioni mancano di considerare è che le forze provenienti da diverse metropoli sono portate in nuove società tanto rapidamente quanto tendono in un modo o nell'altro ad essere indigenizzate: questo vale tanto per la musica e gli stili architettonici, quanto per la scienza e il terrorismo, gli spettacoli e le costituzioni. (Appadurai in Featherstone 1996: 25)

Un esempio di indigenizzazione, a cui Appadurai dedica un capitolo nel suo testo Modernità in polvere, è quello del cricket in India. L'autore narra l'evoluzione storica di questo sport, di come si sia trasformato da strumento utile ed efficace per trasmettere i valori vittoriani alla colonia, a sport nazionale portavoce dell'abilità, della forza e del coraggio indiano. Dei vecchi modelli vittoriani non c'è più traccia. 50


Un esempio più banale ma altrettanto esemplificativo di indigenizzazione, può essere osservato in alcuni campi coltivati dell'oristanese, dove come rimedio ai frequenti attacchi all'impianto di irrigazione e al raccolto da parte de is carrogas, le cornacchie in sardo, è stato elaborato da parte di alcuni contadini uno stratagemma che prevede l'utilizzo dei compact disc. Questi ultimi vengono fissati con uno spago a delle canne conficcate sul terreno, in modo tale che siano liberi nel movimento e possano riflettere in modo casuale i raggi solari, spaventando e tenendo alla larga in questo modo i pennuti. Un altro parere in disaccordo all'ipotesi dell'omogenizzazione culturale è quella del sociologo inglese Mike Featherstone. L'autore nonostante ritenga che l'intensità con la quale si sviluppano i flussi dell'attuale cultura globale diano la sensazione che il mondo sia un luogo unificato, giunge alla conclusione che l'eterogenizzazione non può essere messa in dubbio: “la varietà di reazioni al processo di globalizzazione suggerisce che vi sono poche prospettive di un'unica cultura globale unificata, mentre esistono piuttosto culture globali al plurale” (Featherstone 1996: 19). Il pensiero di Featherstone è che per cultura globale non si debba intendere un qualcosa di simile alla cultura dello stato-nazione estesa a livello mondiale, e nemmeno una cultura più ampia tesa ad omologare quelle già esistenti. Per essa piuttosto si deve intendere un infinito processo di interrelazioni sociali che incessantemente coniuga culture particolari e tendenze globali. Quindi, seppur in differenti forme rispetto al passato, la differenziazione del locale appare preservata. Se da una parte ciò che porta a pensare ad un appianamento delle differenze è il trasformarsi dei valori e significati locali in rapporto a ciò che giunge dall'esterno e interessa indistintamente qualsiasi locale, dall'altra, ciò che viene assunto smette di essere esterno venendo riformulato sotto l'universo di significati propri, tramite un negoziamento col preesistente che riformula i significati dando vita a nuove sintesi. In questo senso il globale va visto, come afferma Ugo Fabietti: come un vasto scenario al cui interno le varie tradizioni culturali recepiscono logiche globali che, pur avendo origine altrove, sono 51


suscettibili, una volta che siano assimilate, di riformulare altre logiche a livello locale, in un processo virtualmente infinito. (Fabietti 2000: 169)

Il ruolo che viene riconosciuto al locale, non come elemento che subisce passivamente la produzione industriale e la distribuzione di massa, ma come contesto socioculturale specifico in cui

le novità, e i significati che esse

traggono, subiscono un processo di negoziazione generando nuove sintesi, chiama in causa, come ulteriore strumento esplicativo, il modello codificazionedecodificazione elaborato dal gruppo di studiosi del centre for contemporany cultural studies di Birmingham. Il saggio scritto da Stuart Hall negli anni Ottanta del secolo scorso è una critica alle teorie deterministiche della comunicazione, sulle quali si basavano fino ad allora le ricerche relative ai mass-media. Questi ultimi erano considerati come apparati ideologici, produttori di messaggi tesi a consolidare e legittimare i rapporti di dominio e gli assetti sociali esistenti. In questo senso, le masse consumatrici assumevano un ruolo periferico e passivo che assorbivano i significati codificati dai produttori. Sotto questa prospettiva il significato dei messaggi dei media era considerato immutabile in tutto il processo comunicativo. Questa concezione in altre parole muoveva “in modo lineare dal “mittente” attraverso il “messaggio” fino al “ricevente”. […] Il mittente crea il messaggio e ne fissa il significato, che viene poi comunicato direttamente e in modo trasparente al ricevente” (Procter 2007: 64). La nuova teoria della comunicazione elaborata nel modello codificazionedecodificazione pone invece l'accento sui lettori, concepiti come attivi produttori di significato e di interpretazioni potenzialmente divergenti. In questo senso il significato dei messaggi diventa dipendente, non più esclusivamente dal significato insito nel testo, ma anche dall'insieme di significati elaborati altrove e portati nel testo dallo spettatore. In altre parole il ricevente legge il messaggio e gli dona significato utilizzando i propri quadri di riferimento interpretativi. Quel che assume rilevanza rispetto al passato è dunque il ruolo attivo del consumatore, il lavoro simbolico della codificazione, l'interazione creativa con il 52


testo nella misura in cui si fa uso produttivo delle risorse simboliche di cui si dispone. Elaborando un parallelismo tra la coppia mittente-ricevente e quella globale-locale, assume ulteriormente senso il ruolo non passivo del locale, il quale plasma ciò che riceve attraverso una negoziazione con ciò che possiede. […] Questo “traffico” di beni, simboli, idee, valori ecc. che caratterizza il mondo contemporaneo non si risolve in una serie di “prestiti” e “acquisti”, ma comporta invece una loro continua riformulazione, o “riposizionamento significante” in base al contesto in cui questi beni, idee ecc. vengono acquisiti o ceduti. (Fabietti 2000: 167)

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4. Luoghi dell'identità ad Oristano La ricerca fino ad ora condotta è servita per comprendere quale fosse la maniera migliore di accostarsi al nostro oggetto di studio. Prima di individuare quali fossero i luoghi dell'identità culturale della città di Oristano, si è ritenuto opportuno uno studio dell'evoluzione storica del concetto di cultura, uno sguardo panoramico sui diversi contributi riguardanti lo studio della memoria collettiva, e per ultimo un'analisi del ruolo assunto dal territorio e dal locale all'interno della sfera culturale. L'esito di tali ricerche ha reso chiaro: a) l'impossibilità di considerare la cultura come un qualcosa di delimitato all'interno di determinati confini territoriali, che al contempo racchiude al suo interno una collettività in tutto e per tutto ininfluente da ciò che proviene dall'esterno; b) il fatto che le comunità tradizionali di un tempo si sono disciolte sotto le politiche omologanti dello stato-nazione e in seguito all'accoglimento delle logiche del “progresso”; c) il fatto che i flussi culturali attuali (di beni, di idee, di persone, di denaro ecc.) vanno oltre i confini statali e la globalizzazione non è concepibile come un dialogo di culture statali; d) il fatto che l'identità risulta sempre più determinata dall'appartenenza a più universi simbolici delocalizzati e di conseguenza ne risulti mutato il rapporto con il territorio; e) il fatto che la memoria collettiva sia frammentata in una pluralità di memorie collettive e ciò che si afferma come memoria di una società è l'esito di una contesa; 54


f) il fatto che il territorio sia un prodotto culturale protratto nella storia, un condensato di luoghi di forte carica simbolica e lo scenario dove si manifesta il carattere routinizzato della vita sociale; g) il fatto che l'elemento locale di fronte al processo di globalizzazione giochi un ruolo attivo. Di conseguenza, la città di Oristano non può essere considerata come un contenitore culturale omogeneo nel quale si preserva una memoria collettiva compatta. Essa è piuttosto da considerare come un contesto socioculturale preciso in cui si intersecano incessantemente molteplici habitat di significato, molteplici flussi culturali provenienti da ogni dove. Nonostante comunque non sia possibile sostenere la coincidenza tra cultura e territorio, ovvero che in quest'ultimo sia presente una cultura come da Tylor venne concepita, il territorio si conserva e si presenta come una costruzione culturale portata avanti nell'avvicendarsi storico dalla popolazione che lo ha abitato. Il territorio quindi, in quanto ambiente antropizzato, si presenta come l'esito del modellamento culturale che il nucleo originario di insediamento ha subito nelle diverse epoche. Risulta fondamentale dunque conoscere il percorso storico che ha caratterizzato il territorio di riferimento; in questo senso la fondazione, l'affermazione sul territorio, le epoche di splendore e di transizione, le rivoluzioni, gli sconvolgimenti politici e sociali, le diverse economie succedutesi, e via dicendo, sono temi che vanno trattati necessariamente per comprendere come le popolazioni nelle diverse epoche abbiano adattato e sviluppato, secondo le logiche e le esigenze dei momenti storici, il proprio centro abitato. Quest'ultimo come oggi si presenta è quindi l'esito dell'incessante lavorío umano transgenerazionale, il prodotto artificiale dell'evolversi storico, e in quanto tale può essere considerato come il filo di continuità che lega le diverse generazioni succedutesi; una fonte d'identità culturale. Detto questo, si è giunti ad un circolo vizioso, poiché qualsiasi continuità temporale ruota attorno al perno della memoria. In altre parole, per far sì che il territorio venga riconosciuto come il filo di continuità generazionale e che si 55


configuri come sorgente d'identità culturale, è necessario che vi sia una memoria collettiva che alimenti il legame storico, che salvaguardi la continuità della vicenda umana all'interno del territorio stesso. In questo senso, bisognerà in seguito constatare sul piano pratico ciò che sul piano teorico è già stato affermato: l'inesistenza di una memoria collettiva che operi all'unisono all'interno della collettività. Assume rilevante importanza, seppur secondaria ai fini della ricerca, la coincidenza o meno della memoria storica del territorio con ciò che si erge come memoria della società. In conclusione si prospetta, facendo riferimento ai contributi chiamati in causa sulla dialettica locale-globale, una situazione in cui lo spazio vissuto in quanto dimensione locale, continui a conservare una propria specificità culturale, (dal momento che da una parte si configura come luogo specifico di sintesi e dall'altra come luogo nel quale avvengono le fasi di formazione dell'individuo e dove si modella la quotidianeità sociale), ma questa non dipenda più necessariamente dal filo di continuità col passato storico di cui è testimonianza il territorio.

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4.1. La città come area di studio “La città come totalità, come civitas, come urbs è persa irrimediabilmente e con essa anche la città come ethos, come unità culturale”. Alberto M. Sobrero È utile, prima di soffermarsi sulla storia del territorio, prendere in considerazione alcuni indirizzi di studio che si sono concentrati sulla città come realtà culturale. I primi antropologi che si interessarono dell'ambiente urbano come oggetto di studio furono gli etnografi di Chicago, che tra gli anni Venti e gli anni Quaranta del Novecento condussero diverse indagini nella loro stessa città. Una delle ragioni principali che attirò l'attenzione degli antropologi, fu il sorgere dei problemi sociali in seguito all'immigrazione sempre più frequente verso i grandi centri urbani americani. Le prime caratteristiche della città che vennero individuate furono la suddivisione in quartieri quasi sempre coincidenti con specifiche etnie o classi sociali, e la crescente divisione del lavoro che avrebbe contribuito a trasformare il vecchio tipo di organizzazione tradizionale nelle nuove forme di relazione umana e ai conseguenti nuovi ruoli sociali. Robert Park, uno dei principali esponenti della scuola, scrive: La commessa, il poliziotto, lo spacciatore di droga, il tassista, il guardiano notturno, l'indovino, l'artista di varietà, il medico ciarlatano, il barista, il capo reparto, il crumiro, l'agitatore sindacale, l'insegnante, il cronista, l'agente di cambio, il prestatore su pegno: tutti questi personaggi sono caratteristici delle condizioni della vita urbana; ciascuno, con la sua esperienza particolare, con le proprie conoscenze e da un punto di vista autonomo, determina la specificità del gruppo professionale e della città nel suo insieme. (Park 1952: 24-25)

Successivamente la scuola si interessò all'organizzazione morale delle relazioni sociali. Anche se si era consapevoli della divisione della popolazione in gruppi sociali, nei quali al loro interno i legami erano perlopiù stretti e stabili, venne individuato come elemento fondante degli scambi e delle relazioni il denaro, il quale generava rapporti di natura principalmente superficiale. 57


Gli studiosi della Scuola di Chicago, inoltre, elaborarono una prospettiva analitica che prendeva come riferimento la biologia evoluzionista per spiegare il modo in cui le società umane si adattavano all'ambiente. In tal senso le città, come accadeva negli ecosistemi, erano caratterizzate per esempio dalla lotta per la sopravvivenza. Lotta che si concretizzava nella contesa tra i diversi gruppi sociali per l'accapparramento delle risorse e dello spazio urbano. Per tanto la città sotto questa prospettiva era da considerarsi come una realtà biologica, come un sistema che integrava secondo leggi naturali tutto ciò che si trovava al suo interno. Un'ulteriore contributo allo studio delle realtà urbane si ha nell'attività di ricerca della cosiddetta Scuola di Manchester. Essa s'interessò tra gli anni quaranta e sessanta delle trasformazioni sociali in atto nell'Africa Centrale, concentrandosi in particolare nelle città minerarie della Copperbelt sorte in seguito all'espansione del sistema coloniale britannico. Lo studio delle dinamiche di

trasformazione

delle

società

africane

contemporanee,

comportava

necessariamente un'attenta considerazione delle città e in particolare del tipo di relazioni sociali che si producevano all'interno di essa. Le città risultarono caratterizzate dai problemi connessi allo sfaldamento dei sistemi politici tradizionali e dal nuovo sistema di relazioni basato sull'industria, sul mercato e sul lavoro salariato. Le tensioni provocate da quest'incontro spinsero gli studiosi a focalizzarsi sulle tematiche del mutamento e sugli aspetti dinamici e conflittuali. In questo senso Max Gluckman, il fondatore della Scuola, ritenne che l'equilibrio sociale non dovesse essere ricercato nell'ordinata integrazione di gruppi e norme, ma piuttosto nell'incessante processo conflittuale generante tensioni e aggiustamenti. Per comprendere meglio la città venne elaborato un complesso quadro concettuale chiamato network analisys. Il suo scopo era quello di identificare le reti di relazioni tra gli individui dotate di una certa continuità, le caratteristiche di queste reti e i fattori che le influenzano; la tesi funzionalista che riteneva il comportamento dell'individuo soggetto all'insieme delle norme e degli obblighi 58


sociali gravanti sul suo ruolo non era più ammissibile. La network analisys ha messo in luce come gli individui entrano in relazione tra loro e combinano i loro diversi ruoli inventandosi nuove strategie di comportamento e manipolando le norme ai propri obbiettivi. Un ulteriore indirizzo sorse negli anni Settanta ad opera dell'antropologo Anthony Leeds che concentrò i propri studi sulle favelas in Rio de janeiro, il cosiddetto Interactional approach. Leeds criticò l'impostazione dell'antropologia classica, la quale ha sempre considerato come propria unità d'analisi una specifica comunità (il piccolo paese, il villaggio, la tribù), con la convinzione intrinseca di poterla cogliere nella sua totalità di microcosmo. Ciò ha fatto sì che con lo studio delle società complesse si credesse di poter inquadrare l'ambito urbano nella sua totalità grazie alla semplice equazione microcomo uguale macrocosmo Per svincolare l'antropologia dal concetto chiuso di comunità, l'autore propone quello di località inteso come luogo contraddistinto dalla presenza umana. In questo senso il concetto poteva comprendere sia un quartiere o un piccolo paese, come una fattoria o una città. Inoltre con località, in maniera più astratta, poteva intendersi anche un luogo dell'interazione qualsiasi, e in questo senso entrano a far parte del concetto realtà come la famiglia, una riunione di condominio, gli studenti di un corso universitario e via dicendo. Secondo questa prospettiva, ne discende che non esiste una sola località esaustiva, ma ci si ritrova piuttosto al cospetto di una gerarchia di luoghi dell'interazione: “una famiglia è una località interna a un condominio e il condominio è parte del quartiere e il quartiere della città e così via, non diversamente da come il clan è parte della tribù e quest'ultima è parte dell'etnia” (Sobrero 1993: 186). La città dunque risulta connessa alla struttura sociale in quanto località minore rispetto ad essa. Ciò comporta che per comprenderne la sua origine e la sua funzione bisognerà innanzitutto analizzare le caratteristiche della società nel suo complesso: l'organizzazione delle istituzioni economiche che condizionano 59


l'organizzazione sociale, la centralizzazione del potere e via dicendo. La città in questo senso non viene più considerata come una totalità, come l'insieme delle microrealtà sociali, ma come qualcosa che trascende i propri confini e va considerata in relazione alle dinamiche della società. Manuel Castells fu uno dei primi che mise in relazione la formazione delle città con i movimenti più ampli del capitalismo industriale. Le tesi esposte nella sua opera principale, La question urbaine, vennero elaborate in gran parte nella sua ricerca sul campo in Santiago de Chile nei primi anni settanta. Gran parte dello sforzo teorico dell'autore è dedicato a smontare le ipotesi che consideravano l'urbanesimo come forma di vita o come prodotto dell'evoluzione folk-urbano. La struttura urbana, dal momento che non è un'entità autonoma isolata è considerabile solo in quanto parte di un più vasto sistema socio-produttivo. Servendosi dello strutturalismo althusseriano considerò la nozione cultura urbana come un mito per mascherare i conflitti strutturali che attraversavano la società classista. In questo senso il conflitto principale si traduceva nell'opposizione fra paese marginale e città integrata nel sistema economico. La città per l'autore assumeva il ruolo di anello del sistema Stato-modernizzazione-progresso e in quanto tale, sfruttando il suo ruolo di supremazia, espandeva le reti dell'egemonia interna. Per Castells, la questione urbana è in definitiva una questione di potere. Concentrandosi sul ruolo ricoperto dalle istituzioni burocratiche, giunge alla conclusione che queste ultime abbiano ricoperto nella vita urbana, il posto che nell'ambito delle società elementari veniva rivestito dalle relazioni di parentela. In conclusione, al giorno d'oggi per comprendere appieno le problematiche e le caratteristiche relative alla città, non si può tener conto del fenomeno della globalizzazione. La forte crescità dei mezzi di comunicazione e dei mezzi di trasporto ha accorciato le distanze fisiche e ampliato le pluriappartenenze immaginarie. Inoltre definendola non si può non tener conto di fenomeni sociali come l'emigrazione, l'immigrazione, il turismo e il mondo dell'occupazione, che fanno sì che la città non sia mai un'entità statica. Come unica soluzione di studio della città si prospetta un'approccio che si 60


occupi dell'interconnessione tra dinamiche interne ed esterne, che consideri la città nella sua particolarità ma al contempo non la consideri come una realtà isolata. In tal senso assume rilevanza la dialettica locale-globale, e quanto sostenuto al riguardo dagli autori chiamati in causa. La globalizzazione non conduce ad un azzeramento delle differenze, ad un omogenizzazione culturale mondiale, ma piuttosto ad una nuova differenziazione. Questa eterogenizzazione è dovuta al ruolo attivo che ricopre il locale, che non acquisisce mai passivamente ciò che proviene dall'esterno, ma sempre in seguito ad una negoziazione con i propri orizzonti simbolici. In questa prospettiva la città può essere considerata come un elemento locale produttore di particolarità, ovvero che esistano buone ragioni perché l'antropologia urbana parta dall'idea che la vita in un particolare spazio delimitato abbia caratteristiche diverse da quelle che si manifestano altrove, e faccia uso di questo principio nelle sue osservazioni e interpretazioni. (Hannerz 1992: 205)

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4.2. Cenni storici di Oristano Nel corso dell'VIII e IX secolo la vita dei paesi del Mediterraneo fu sconvolta dall'espansione degli Arabi. La Sardegna perse i contatti commerciali e politici con Bisanzio, rimanendo isolata e subendo gli attacchi dei musulmani, i quali depredavano continuamente i centri costieri e ne catturavano gli abitanti per venderli come schiavi. Si pensa che sia questa la ragione per cui nel 1070, il Giudice Orzocco I de LaconZori, decise di trasferire la popolazione di Tharros ad Oristano. L'avvenimento viene ricordato con l'espressione “portant de Tharros sa perda a carros” (portano da Tharros la pietra coi carri), poiché il trasferimento comportò anche il trasporto di gran parte di materiale costruttivo per le nuove abitazioni, per lo più blocchi di arenaria. Il toponimo Aristanis, Oristano in sardo, viene fatto risalire dall'archeologo Raimondo Zucca al nome latino Aristius, il nome di un patrizio romano appartenente alla gens aristia che fondò nel territorio un punto di ristoro per i viaggiatori col nome di mansio aristiana. Lo storico Francesco Cesare Casula al riguardo precisa che “nel Medioevo, perduto il primitivo collegamento con Aristius, si sia creata la provenienza da aureum Stagnum, il vicino stagno di Santa Giusta che di Oristano fu porto” (Casula 2006: 2402).

In seguito alla conquista saracena della Sicilia e della Tunisia, Bisanzio trovò bloccate le vie d'accesso che la congiungevano alla Sardegna, e questa di fronte alla minaccia araba, iniziò a riorganizzare la politica del proprio territorio. Il potere, che in precedenza era stato affidato nelle mani del Dux e del Preside, venne attribuito ad un’unica autorità, la quale a sua volta proclamò quattro magistrati che amministravano il territorio loro affidato. Questi quattro territori, col tempo, acquistarono autonomia politica e amministrativa e vennero chiamati Giudicati: di Cagliari, di Torres, d’Arborea, e di Gallura. Ciascun Giudicato, chiamato anche “Rennu” (regno) o “Logu” (territorio) era governato da un Giudice, il quale risiedeva in un palazzo da cui esercitava il suo ufficio, e veniva chiamato re dai suoi sudditi. Il Giudicato era diviso in curatorie costituite da un insieme di ville (villaggi) amministrate ciascuna da un “Majore de Villa” (amministratore del villaggio) e il potere del Giudice era 62


ereditario e poteva essere trasmesso anche in linea femminile. Inoltre esisteva una sorta di assemblea parlamentare definita corona de Logu composta dal Giudice, dai suoi funzionari e dai rappresentanti del popolo; questi ultimi però avevano solo funzione consultiva. Le Repubbliche marinare di Pisa e Genova dopo essere riuscite a sconfiggere gli Arabi combattendo al fianco dei Giudici sardi, si sentirono autorizzate ad esigere concessioni di vario genere. Ebbe così inizio, in Sardegna, una graduale infiltrazione pisano-genovese con l’arrivo di molti rappresentanti di famiglie aristocratiche: i Visconti a Cagliari, i Malaspina a Bosa, il conte Ugolino di Pisa ad Iglesias. L'insediamento di questi nobili coincise anche con l'arrivo di mercanti e affaristi, che diedero impulso all’espansione del commercio in tutta l’Isola. I Giudicati finirono col dipendere sempre più da Pisa e da Genova, sia sul piano economico sia su quello politico. Questa condizione provocò però una progressiva perdita della loro indipendenza. Il primo Giudicato a cadere fu quello di Cagliari. Successivamente cadde il giudicato di Torres che, in parte, venne controllato da famiglie genovesi e in parte venne annesso al Giudicato di Arborea. Nel 1296 anche il Giudicato di Gallura, occupato da Pisa, cessò di esistere. Soltanto il Giudicato di Arborea, per più di un secolo, riuscì a salvarsi e a mantenere la propria autonomia. Nel 1297, il papa Bonifacio VIII istituì il Regno di Sardegna e Corsica, affidandolo al re d'Aragona Giacomo II con l’obiettivo di risolvere i contrasti, per il possesso della Sicilia, tra gli Angiò e gli Aragona. Venticinque anni dopo questa concessione il re aragonese iniziò l'occupazione militare della Sardegna. Gli unici che lo contrastarono furono gli Arborea che, nella seconda metà del secolo, prima sotto il Giudice Mariano e poi sotto la Giudicessa Eleonora, abbandonarono la politica dei loro predecessori e cominciarono una dura lotta per contrastare gli Aragonesi e allargare il loro dominio su tutta l’isola. L'Arborea, che comprendeva i terreni più fertili di tutta l'isola, buoni porti e una buona amministrazione interna, conservava la sua autonomia ed era più ricca 63


e forte di un tempo, era divisa in tredici curatorie o partes, ognuna formata da un insieme di villae, comuni agricoli di varie dimensioni. Comprendeva tre diocesi e un arcidiocesi, la sua capitale era la ricca città di Oristano, protetta da mura e torri e circondata da una fertile pianura. La reggia giudicale, al tempo denominata sa majoria, si trovava nell'attuale Piazza Manno dove ora sorge il carcere penitenziario. Eleonora d'Arborea è indubbiamente la figura più nota della storia sarda, sia perché donna, sia perché raffigura il simbolo di un'antica libertà perduta e dell’opposizione al dominio straniero. Alla sua figura è legata la stesura della Carta de Logu, un codice di leggi in lingua sarda iniziato dal padre Mariano. Il codice pur con qualche modifica, fu un punto di riferimento per la società sarda sino ai primi decenni del XIX secolo. Il giudicato d'Arborea con Eleonora al comando, riuscì a conquistare il controllo di quasi tutta la Sardegna, ad eccezione di Cagliari ed Alghero. Nel 1403 la Giudicessa morì di peste e pochi anni dopo, nel 1409, nella battaglia di Sanluri, le truppe arborensi furono sconfitte dall'esercito aragonese guidato da Martino il Giovane, figlio del re d'Aragona. Il trattato di pace firmato a Oristano nella Chiesa di San Martino il 29 marzo del 1410 segnò la fine del Giudicato d'Arborea, ultimo fortilizio dell'autonomia dei Sardi rispetto al potere straniero, che fu tramutato nel 1420 in Marchesato di Oristano. In seguito Leonardo Alagon, ultimo marchese di Oristano, tentò di rivendicare i fasti di un tempo sottraendo i territori del marchesato al Viceré, ma nel 1478 a Macomer il suo esercitò subì una pesantissima sconfitta, Oristano venne messa a ferro e a fuoco e il marchesato fu definitivamente annesso all'Aragona e confiscato dalla Corona. La stessa classe dirigente dell’Isola fu rapidamente sostituita dai feudatari legati alla corona aragonese. Da quel momento Oristano seguì la sorte dell'intera Sardegna rimanendo in mano aragonese fino al 1479, anno in cui fu elevata al rango di città regia. In quell'anno l'unione in matrimonio di Ferdinando II con Isabella di Castiglia, segnò l'unione della corona di Castiglia con quella di 64


Aragona e la conseguente nascita della corona di Spagna. I secoli XVI e XVII furono caratterizzati dalla miseria causata dalla rarità dei commerci, dalla pessima amministrazione, dallo sfruttamento dei feudatari e dalle incursioni berbere. “L'oristanese fu attaccato nel 1515, nel 1524, nel 1527, nel 1538, nel 1544, nel 1560 e nel 1563” (Casula 2006: 2407). Le truppe regie inviate a presidiare la città nel 1565 non migliorarono la situazione, ma la peggiorarono con i continui soprusi verso la popolazione. Un avvenimento storico importante per Oristano avvenne nel febbraio del 1637, quando ci fu il sacco della città da parte dei francesi. Gli Ugonotti, al tempo impegnati nella guerra franco-spagnola, passata alla storia come Guerra dei trentanni, decisero di saccheggiare le coste sarde. Sbarcarono a Torregrande la mattina del 21 febbraio con una flotta di quarantasette navi da guerra e dopo aver assalito Cabras, il giorno seguente venne la volta di Oristano, la quale non oppose resistenza visto il cattivo stato delle mura. La maggior parte della popolazione decise di abbandonare la città e le truppe francesi agirono indisturbate, dandosi al saccheggio e al vandalismo. Cinque giorni dopo, il 26 febbraio, le milizie sarde, oramai organizzate, costrinsero i francesi alla fuga, che negli scontri sulla via del ritorno si videro scippare otto stendardi ugonotti; quattro dei quali tuttora campeggiano in bella mostra nella parete dell'ingresso principale della Cattedrale di Oristano. Franco Cuccu al riguardo, autore dell'opera La Città dei Giudici, narra che fino a non tanto tempo fa, il 26 febbraio di ogni anno si svolgeva presso la cattedrale una processione per ricordare l'anniversario della liberazione della città dall'invasione francese. In seguito la situazione della cttà descritta nel Parlamento del 1641, parla di un centro abitato in completa decadenza: alle stradi, ai ponti e alle mura in rovina, ai diversi edifici pericolanti, si aggiungevano varie carestie, la piaga della malaria e diverse invasioni di cavallette che devastarono i raccolti. Il periodo di dominio castigliano nell'isola, contraddistinto dalla povertà e dalle troppe imposte, si concluse con la guerra di successione spagnola e il passaggio della Sardegna agli Asburgo d'Austria tra l'indifferenza degli isolani. 65


Le vicende storiche successive consegnano nel 1720 la Sardegna intera, e perciò anche Oristano, nelle mani dei piemontesi Savoia che amplieranno il Regno di Sardegna con il Principato del Piemonte, il Ducato di Savoia e altri territori minori. Nell'agosto del 1767 Oristano e i suoi Campidani sono consegnati in feudo al ricco commerciante Damiano Nurra Conca, che prende il titolo di Marchese d'Arcais. Il nuovo dominio non sollevò il morale della popolazione, ma malgrado ciò, nel 1793 quando le flotte francesi tentarono di conquistare l'isola sottraendola al dominio piemontese, un esercito di volontari sardi respinse con successo l'attacco. Il buon esito degli avvenimenti creò l'illusione che il governo sabaudo potesse concedere alle classi dirigenti sarde una gestione più indipendente della Sardegna. L'inaspettato rifiuto regio delle richieste dei sei rappresentanti degli Stamenti Sardi, diede vita a una ribellione che ebbe il suo apice il 28 aprile del 1794 con la cacciata dei funzionari piemontesi dalla città di Cagliari. Ricordata attualmente come Sa die de sa Sardigna. La ribellione ebbe seguito anche ad Oristano, visto i rancori verso il capo dell'annona che non forniva il grano necessario per il fabbisogno della popolazione, ma la rivolta in città fu sedata dal ministro di giustizia che giunse con le sue truppe. Nel 1847 venne sancita la fusione perfetta della Sardegna con tutti i possedimenti della Casa Savoia, producendo come effetto l'estensione anche all'isola dello statuto Albertino e l'abbandono della Carta de Logu. Lo Stato unitario evolverà poi, quattordici anni dopo nel 1861, nel Regno d'Italia. La fase monarchica si concluderà nel 1946 con la proclamazione della Repubblica. Nel 1881 si inaugura il monumento dedicato alla giudicessa Eleonora d'Arborea; opera dovuta allo scultore Ulisse Ciampi e l'architetto Mariano Falcini. Il 16 giugno del 1974 staccandosi col suo circondario dalla provincia di Cagliari, divenne capoluogo della neonata Provincia di Oristano. Del periodo di splendore giudicale oggi rimane ben poco, da una parte per 66


via dei vari domini stranieri nel tempo, che desiderosi di far dimenticare agli oristanesi le glorie passate non ebbero cura della preservazione, dall'altra la neglicenza degli oristanesi stessi che in epoche recenti non si posero il problema nell'abbattimento di ciò che la storia aveva preservato in nome della tanto agognata modernizzazione. Già nel 1845 il canonico Vittorio Angius, nel Dizionario degli Stati del Re di Sardegna, scriveva in merito: Che resta del gran palagio dei re d'Arborea? Alcune mura interne e le fondamenta che ti danno un'idea della robustezza e magnificenza del medesimo. Che resta delle antiche edificazioni religiose? La metropolitana dell'arcivescovo tarrense, opera di insigni architettori pisani, è stata atterrata per elevare sopra la medesima la attuale cattedrale, non so se in stile miglior di quello che era adoperato nel medio evo, e lo spirito vandalico di quei pretesi rimodernatori ha annichilato le tavole operate da insigni pennelli, e gli altri oggetti che sono ancora ammirati nelle chiese piÚ antiche; anzi i sacrileghi hanno forse profanato e distrutto le tombe di quei principi che sostennero la nazionalità sarda contro gli stranieri, che si voleano imporre, o erano imposti, padroni alla nazione. (Angius 1845: 246)

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4.3. Individuazione dei luoghi Le ricerche condotte fino a questo punto sono servite per acquisire gli strumenti interpretativi idonei e necessari per individuare e analizzare i luoghi dell'identità ad Oristano. Dal momento che, come è emerso dalle ricerche, non è possibile al giorno d'oggi riscontrare una rete di significati valida al medesimo modo per tutti gli abitanti, e coincidente inoltre con il territorio della città, avrebbe poco senso ricercare dei luoghi specifici in cui è cristallizzata un'omogenea e standardizzata identità. In altre parole non è possibile associare in forma deterministica un'identità definita e bloccata nel tempo ad un contesto urbano definito; la città è una realtà plurale. Nel processo di costruzione delle identità culturali che si costituiscono localmente, svolgono un ruolo fondamentale, tralasciando per il momento il ruolo della memoria e della storia del territorio, il cui ruolo andrà in seguito indagato, le pratiche urbane sviluppate nella vita quotidiana. Esse, ed in particolare le diverse forme di appropriazione materiale e simbolica degli spazi, sono fattori costitutivi e costruttivi dell’identità. Non si può dunque, nell'individuazione dei luoghi, non tener conto delle pratiche con le quali si dà forma alla città come realtà vissuta. Si opterà dunque, visto quanto detto e vista la suddetta frammentarietà culturale, per dei luoghi che contribuiscano, seppur in maniera diversa, alla costruzione di specifici sensi di appartenza alla città. In questo senso assumerà rilevanza il luogo in quanto spazio vissuto, costantemente, periodicamente o unicamente in una determinata data dell'anno. Un ulteriore criterio di individuazione, che si va ad aggiungere a quello appena espresso, è legato alle riflessioni svolte sul territorio. Dato che quest'ultimo è da considerarsi come uno spazio antropizzato, costruito culturalmente, frutto dell'avvicendarsi delle generazioni, si opterà per dei luoghi che oltre ad essere vissuti, possano simbolicamente rinviare, direttamente o 68


indirettamente, ad un preciso trascorso storico carico di rilevanza per il territorio. Tutto questo non perché si ritenga che il luogo sia un elemento monosemico, che debba necessariamente rimandare a un preciso significato, o perché si voglia dare un'impronta

storicistica

al

concetto

d'identità.

La

finalità

intrinseca

nell'accostamento storia-luogo-identità, è esclusivamente quella di analizzare se, e se si in che modo, la storia del territorio partecipi al processo di costruzione del senso di appartenenza. In altre parole si analizzerà il processo di appropriazione di alcuni luoghi della città da parte di determinate cerchie della popolazione, e nel farlo, si indagherà sul concorrere o meno, dei significati storici inerenti ai luoghi stessi. Ad ogni modo questo interesse verrà portato avanti nelle indagini, nei limiti della relativa importanza antropologica dei dati raccolti. “L'antropologo che ha e che deve avere degli interessi storici non per questo è uno storico strictu sensu” (Augé 1996: 15). Servendoci del concetto di luogo antropologico elaborato dall'antropologo francese Marc Augé, risulterà più chiara la metodologia d'indagine che si intende perseguire. Il luogo antropologico viene considerato come una “costruzione concreta e simbolica dello spazio [...] alla quale si riferiscono tutti coloro ai quali essa assegna un posto, per quanto umile o modesto questo possa essere” (Augé 1996: 51). Proseguendo l'analisi del concetto l'autore sottolinea che questi luoghi hanno tre caratteristiche comuni: vengono considerati dagli individui che lo abitano come identitari, relazionali e storici. Identitario perchè gli individui riconoscono al suo interno uno spazio che gli è proprio, relazionale perché si configurano come spazi in cui le relazioni sono sollecitate e sono parte integrante del vissuto, e storico infine, perché rappresenta il succedersi esperienziale che contribuisce al senso del luogo stesso.

In questo senso si indagherà sulla presenza di riferimenti storici, non in quanto astrazioni, ovvero in quanto conoscenze apprese dalla storia come disciplina scientifica, ma su di essi in quanto significati vivi impiegati nel 69


processo di investitura e di conferimento di senso al luogo. Nell'analisi si darà peso: a) al processo di simbolizzazione, ovvero al modo in cui il luogo cessa di essere una realtà esterna al soggetto ed entra a far parte della propria sfera esistenziale attraverso il controllo intellettuale; b) al processo di reificazione, ovvero alla maniera in cui il luogo viene agito e casomai modificato concretamente generando un controllo materiale, fisico dello stesso; c) al processo di strutturazione, ovvero se esista una suddivisione funzionale del luogo, una sua organizzazione. Infine anche se si è perfettamente consapevoli della non coincidenza fra cultura-territorio-individuo, ovvero dell'impossibilità di identificare la collettività con lo spazio cui essa nel tempo ha dato forma, non si rinuncerà ad indagare sui degli eventuali luoghi simbolo della città. Questa operazione non pretende di avere validità assoluta, ma piuttosto di stimolare possibili riflessioni nel qual caso si riscontrasse nelle indagini una concordanza significativa.

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5. La ricerca sul campo Partendo dal fatto che bisognasse analizzare l'esperienza urbana di determinate cerchie sociali e il loro vincolo con gli spazi soggetti a un processo di appropriazione, la ricerca sul campo è consistita principalmente nell'osservazione e nella partecipazione dei luoghi prescelti per un periodo prolungato di tempo, facendo particolare attenzione alle interazioni sociali e alla correlazione esistente tra di esse e lo spazio vissuto. Utilizzando la tecnica dell'intervista libera si son scelti, con differenti criteri a seconda della situazione, i vari informatori, utilizzando per la gran parte delle situazioni l'osservazione dichiarata, spiegando cioè volta per volta il mio ruolo e gli scopi della ricerca. Questa strategia non sempre si è rilevata utile perché ha comportato spesso la difficoltà, da parte degli intervistati, di comprendere fino in fondo il senso della ricerca, e soprattutto l'utilità di essa per la loro e la mia vita. Per questo motivo quando le situazioni lo hanno permesso, si è optato anche per l'osservazione non dichiarata, ovvero presentandomi con una falsa identità, ricoprendo un ruolo più facilmente accettabile dagli intervistati di quello del ricercatore. La focalizzazione su precisi gruppi non ha precluso comunque l'interesse sul resto della popolazione che vivendo il luogo contribuisce a darle senso. Diversi soggetti sono stati intervistati su determinati quesiti che, senza nessuna pretesa di esaustività, hanno mirato a far emergere un quadro indicativo dei loro rapporti con la storia del territorio. In questo modo si è voluto dare importanza e prestare attenzione anche alla dimensione collettiva dello spazio. Si sono cercati luoghi caratteristici dei processi storici che hanno contribuito a formare Oristano nella sua storia e che tuttora ne delineano la fisionomia: Piazza Roma, Piazza Eleonora, la Cattedrale, alcune vie del centro storico e in riferimento alla Sartiglia, le vie del percorso e la chiesetta di San

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Giovanni Battista . Detto questo si è consapevoli che la situazione locale, oggetto di studio diretto, è sempre parte di una realtà più ampia, progressivamente regionale, statale, planetaria. Inoltre si è consapevoli che lo spazio urbano non può essere compreso appieno se non vengono tenuti in considerazione le forze sociali ed economiche che continuamente influenzano i vari attori coinvolti nella costruzione del proprio senso di appartenenza. Per questo motivo, dato che i vari luoghi che verrano presi in considerazione saranno sempre da ritenersi zone d'interferenza e mai come degli ambienti artificialmente isolati da tutto il resto, si è consapevoli dell'impossibilità di cogliere per intero le dinamiche che si riverberano sui vari processi di appropriazione.

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5.1. La piazza come luogo di studio: Piazza Roma e Piazza Eleonora Il cuore di Oristano può essere individuato in due piazze situate nel centro storico, collegate da due vie quasi parallele che vengono percorse frequentemente nelle passeggiate. Una di queste due piazze è Piazza Roma, nel cui centro si erge la torre di Mariano, chiamata anche di San Cristoforo e un tempo Porta a Ponti o Porta Manna. La torre era una delle principali porte d'ingresso dell'antica cinta muraria della città, ha un'altezza di diciannove metri e venne eretta nel 1290 dal giudice arborense Mariano II. L'attuale conformazione della piazza è da far risalire al Secondo Dopoguerra, quando venne completamente trasformata abbattendo una piccola chiesa dedicata a Santa Caterina, in prossimità della torre, e l'antico mercato cittadino. Al loro posto venne eretto il palazzo So.Ti.Co di stampo modernista. Sul quale, l'archeologo e intellettuale Giuseppe Pau, fondatore dell'Antiquarium Arborense, si esprimeva dicendo: E io propongo ai miei concittadini la disamina di quel che fu Piazza Roma e di quel che è. Certo potevano scomparire le botteghe dei milesi sul lato nord della piazza. Ma le loggette dei macellai e perfino la tettoia in ferro e lamiera destinata al mercato del pesce e delle verdure potevano restare, pur con idonee modifiche. La piazza, così vasta per un paesone di poche piazze come quasi tutti i paesi dell'Isola, aveva un suo fascino orientale. […] L'orizzontalità di questa piazza è stata distrutta, il suo carattere di vecchia contrada scempiato, la violenza triviale di una pseudo architettura moderna ha distrutto il fascino di quella piazza che sorse quando crollarono le mura. (Pau 1983: 16-18)

La piazza dunque è stata per lungo tempo il centro nevralgico della cittadina, luogo d'incontro e di contrattazioni di diverse frangie sociali, punto principale del commercio. Il cambio spaziale ha implicato un cambio d'uso: la funzione di mercato produceva una mescolanza di usi che attribuiva alla piazza un carattere del tutto differente. Rimodellandola, si è trasformato uno spazio di uso pubblico quotidiano in uno spazio pubblico di non uso specifico. Attualmente difatti conserva il suo carattere nevralgico, vitale, ma si caratterizza fondamentalmente per essere un luogo di transito e di circolazione. La si attraversa per arrivare ai 73


luoghi di lavoro, di riunione, di svago o di consumo. La piazza difficilmente si lascia vivere con coinvolgimento, in quanto è sostanzialmente fatta per essere vissuta passando. Le presenze che stazionano più tempo oggigiorno nella piazza sono gli anziani, i commercianti e gli avventori dei bar, che siedono nei tavolini disposti sulla piazza. In tutto questo, si erge la torre di Mariano, che viene vista pure quando non viene osservata, dato che la sua centralità obbliga il passante, e chi s'incontra per recarsi altrove, a prenderla in considerazione come punto di riferimento spaziale all'interno della piazza. Detto questo, gli anziani, i commercianti e tutti coloro che la transitano, partecipano attivamente nella costruzione culturale di questa piazza, definendola e attribuendogli una certa identità in funzione dell'uso specifico che ne fanno e costruendo al contempo anche il proprio senso di appartenenza al suo interno. Ai fini della ricerca ci si chiede se la torre di Mariano giochi, in questo processo di costruzione identitario, un ruolo esclusivamente di riferimento spaziale o invece anche come simbolo storico. In definitiva ci si chiede se i significati storici siano vivi e giochino un ruolo attivo nel processo di appropriazione del luogo, oppure siano presenti in quanto conoscenza scolastica, se non del tutto assenti. Per questo motivo, tenendo conto che si era interessati al riscontro di saperi orali vivi, in questo caso si è optato come informatori per un gruppo anziani, che tra tutti sono i più delegati alla trasmissione del passato. Tra il gruppo di anziani si son scelte le due persone con maggiori attitudini alla conversazione. Tra la comunità di anziani che si ritrova la mattina sulla piazza ho potuto riscontrare una lettura del luogo che fa perno fondamentalmente sul come era la piazza prima del rimodellamento del Secondo Dopoguerra. In questa piazza c'era il mercato, c'erano le bancarelle. In sardo la chiamavamo Sa Porta, La Porta in italiano. Unu tempus naraiaus andaus a sa porta... Ce n'era anche una simile dove ora c'è il carcere e quella la chiamavamo Porta a mari. Questa torre invece si chiama di San Cristoforo ma non so dirle il perché. Da ragazzino ho conosciuto il mercato qui, questo palazzo non c'era. Prima la piazza era un'altra cosa, era più viva. Ora ci sono banche, negozi... prima negozi... c'erano bottegucce. Adesso la chiamiamo 74


Piazza Roma, perché più o meno tutti parlano l'italiano, invece prima in sardo non naraiaus in Pratza Roma, anche perché non la conoscevamo come Piazza Roma. Gli dicevamo Sa Porta e basta, o a su mercau.

Così l'altro signore: Custa fut una pratza bellissima, cun su mercau innantis dda fadiant innoi e beniat genti de onnia de Arborea ma immoi sa genti at perdiu totu, sa conotaus de sa Sardigna ddus eus perdius totus e peus est. 1

donnia dì. Sa Fiera a logu...Custa est sa turri memoria, sa limba... Is prus andat a innantis e

Un altro punto di coesione degli anziani, è stato il totale accordo sul considerare il palazzo So.Ti.Co come un qualcosa che ha rovinato lo scenario di un tempo, come sottolinea il secondo signore quando dice: Custu palatziu no ddui fut insandus... Po sa festa de santa rughe prima fadiant sa fiera. Prima dda fadiant innoi no dda fadiant a Casteddu... Bestiamine ndi beniat de onnia logu... A bendi bois, cuaddus, de totu... Commo custas cosas non esistin pius... Donni cosa depet bennere a sa fine... Donni cosa depet bennere a sa fine e su chi no passat solu est su machine. 2

Per il resto della popolazione intervistata, i temi che sono venuti fuori più spesso quando il dialogo è giunto sui riferimenti storici inerenti al luogo sono stati: una generale sorpresa, consigli sui libri in cui trovare le informazioni e suggerimenti sugli enti a cui chiedere. Ti consiglio di passare all'archivio storico del comune di Oristano, oppure dovresti trovare qualcosa anche negli archivi della cattedrale.

Dello stesso avviso un signore più adulto: Dovresti passare al museo, io non ho studiato molto nella mia vita. Adesso che ci penso, se passi lì in piazza Eleonora c'è un ufficio dove danno molte informazioni, danno anche dei dépliants. 1

Trad. it. Questa era una piazza bellissima, con il mercato ogni giorno. La Fiera prima la facevano qui e veniva gente da ovunque.... Questa è la torre di Arborea ma ora la gente ha perso tutto, la memoria, la lingua... I connotati della Sardegna li abbiamo persi tutti, e più va avanti e peggio è... 2 Trad. it. Questo palazzo non c'era prima... Per la festa di Santa Croce prima facevano la fiera. Prima la facevano qui non la facevano a Cagliari... Il bestiame veniva da ovunque... Si vendevano buoi, cavalli, di tutto... Ora queste cose non esistono più... Che ci vuoi fare? Ogni cosa deve giungere alla fine... Ogni cosa deve giungere alla fine e quel che non passa mai è solo la pazzia. 75


Un altro signore a tratti dispiaciuto invece: Questa torre ha una storia che io non so raccontare, ma ha una storia. Quel che risulta interessante da queste e altre interviste simili, è la percezione della storia del territorio come materia di non appartenenza, come campo di studi degli storici e di chi “di dovere”, come tema di pertinenza dell'amministrazione comunale. La tutela e la gestione della memoria, quindi non è appannaggio di tutti, ma è uno specifico compito delegato ad altri, uno sforzo o fardello di cui potersi liberare. Per quanto riguarda la torre di Mariano poi, e i riferimenti storici ad essa connessi, ne vien fuori a tratti un forte legame e a tratti una risoluta indifferenza. Per esempio, mentre una ragazza di venticinque anni mi ha sinceramente confessato di non sapere cosa rappresentasse la torre, una signora di settantacinque anni, una volta che il dialogo si è indirizzato verso la storia di Oristano e si è fatto riferimento alla torre in mezzo alla piazza ha affermato che: Questa è la torre di Mariano. Questa è la storia di Oristano. Rappresenta tutto, è un simbolo per Oristano.

In conclusione, la partecipazione cittadina nel luogo preso in considerazione si caratterizza per la sua polisemicità, e per le molteplici interpretazioni. Gli anziani, che fruiscono della piazza come punto di ritrovo, semplicemente sedendosi all'ombra del poco amato palazzo So.Ti.Co., hanno a tratti mostrato un legame al territorio e alla sua storia molto stretto, anche se non sono mancati i casi in cui alcuni anziani mi rispondessero allo stesso modo dei più giovani. Per quanto riguarda l'altra piazza in questione, Piazza Eleonora, può considerarsi come la piazza più rappresentativa di Oristano, ed è collocata anch'essa nel cuore del centro storico. Ha mantenuto l'impronta classicista conferitale nella prima metà dell'Ottocento e su di essa si affacciano alcuni dei più significativi edifici della città: sul lato nord il complesso architettonico degli Scolopi (oggi adibito a Palazzo Civico), all'angolo del corso Umberto I il palazzo Corrias-Carta e l'ex palazzo Comunale (oggi adibito ad ufficio tecnico), al lato 76


opposto invece il settecentesco palazzo Mameli. Al centro della piazza è collocato il monumento ad Eleonora d'Arborea, opera accademica e celebrativa dovuta a due fiorentini: lo scultore Ulisse Campi e l'architetto Mariano Falcini, inaugurata il 22 maggio 1881. Nei bassorilievi in bronzo ai piedi della statua sono scolpite la messa in rotta del campo aragonese nel Castello di Sanluri e la promulgazione della Carta de Logu. La giudicessa d'Arborea (nata nel 1345 o 1347 e morta probabilmente di peste intorno al 14031404) visse durante il periodo più glorioso e travagliato della storia di Oristano. Per la costruzione del monumento il comune istituì nel 1863 anche un comitato destinato alla raccolta dei fondi: Il comitato che a nome del minicipio d'Oristano s'onora d'indirizzarvi queste poche parole, porta opinione che come in voi non mai si spense lo spirito degli antichi vostri padri, così vogliate onorare la memoria nel culto di quell'unica Donna che in se raccolse tutte le virtù, tutto il valore, tutto quell'amor patrio, onde fu spesso doma ed infranta la superba cervice dei nostri conquistatori; ed ha ferma fiducia che per la vostra operazione sorgerà in questa sua terra natale un monumento, il quale sia simbolo di gloria nazionale, centro dei comuni desideri, illustre testimonianza del passato, eccitamento di generosi sensi all'avvenire. (Murtas 1981: 50) Prima dell'innalzamento della statua la piazza era conosciuta come pratza de tzitadi e il luogo in cui sorge risultava un tempo interno alla cinta muraria medievale. La piazza oggiggiorno è vissuta fondamentalmente come luogo di passaggio, di transito, ma anche di ritrovo. La maggior parte delle persone utilizzano lo spazio con diversi fini, ma chi vi staziona ne fruisce anzitutto come luogo di distrazione, dove passare una porzione di tempo libero: gli avventori dei bar, gli anziani, le madri che accompagnano i propri figli a giocarci, i giovani che ci si incontrano e ulteriori comparse occasionali. In questo senso la piazza riveste la funzione di spazio della socialità, dell'incontro. Può essere considerato il salotto aperto della città e simbolo della stessa in quanto ritenuta dagli abitanti la piazza principale.

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Anche se varie testimonianze ci abbiano accertato dello stato immutato nel tempo della piazza, come vien fuori da questo spezzone d'intervista: È sempre stato un luogo di ritrovo. Così come la vedi adesso... Passeggiano, chiacchierano, siedono, si riposano, pettegolano... altro non c'è da fare. Questo è un paese grande, non è una città.

Altre interviste ci hanno fatto riflettere su una trasformazione di carattere qualitativo, come se l'odierno modo di stare in piazza si distinguesse dal passato per la forma che contrassegna il relazionarsi: È tutto cambiato, non lo vedi che ognuno è per conto suo. Non c'è più quella fratellanza, quell'amicizia di una volta... Poi siamo tutti falsi, l'uomo è diventato individualista. Non ci si interessa più di nessuno... È dovuto alla mentalità, è il progresso che fa queste cose. Il progresso è, progresso e regresso. Prima c'era l'amicizia, la fratellanza, la famiglia... adesso non c'è più.

In queste e altre interviste si è potuto riscontrare, in alcuni anziani, la considerazione di un cambio di forma, di atteggiamento nella collettività. Un cambiamento che nella sostanza non muta il modo di vivere la piazza, ma lo muta nella sua essenza, in quanto l'interagire rappresenta la pratica di appropriazione spaziale per eccellenza del luogo. Detto questo la piazza comunque, pur essendo presente nell'immaginario comune, risulta uno spazio plurale che ospita al suo interno molteplici discorsi e si definisce volta per volta nel momento in cui un singolo, un gruppo, più gruppi, si appropriano di essa attraverso una determinata pratica sociale. Inoltre la piazza è uno spazio plurale, dinamico, poiché muta a seconda delle fasce orarie, delle stagione e delle epoche storiche. Per queste ragioni si è scelto di concentrarsi su un determinato modo di vivere la piazza, su uno dei modi di essere presenti e produttori della realtà culturale del luogo. Come gruppo sociale di riferimento per questa indagine ci si è indirizzati verso le madri che accompagnano i propri figli a giocare la sera sulla piazza. Questo per via della loro fascia d'età e del loro ruolo sociale che implica delle responsabilità che vanno oltre a ciò che è inquadrabile come gioventù e a ciò che rimanda all'anzianità in quanto tale. Questa decisione più che voler rimandare a 78


delle rigide categorie sociali dove far confluire determinate fasce d'età, mira, in vista dell'analisi sul rapporto luogo-identità, a portare un contributo generazionale differente da quelli riportati finora alla ricerca. Dalle interviste condotte è risultata evidente la finalità relazionale della frequentazione di questo spazio: Vengo qua con mio figlio perché mi piace venire in centro in questa stagione, con le belle giornate si sta bene... e poi vedi un po' di gente. Poi il bambino si diverte, incontra i suoi amichetti e io scambio due chiacchere con le altre mamme.

Finalità relazionale, che in questo caso sembra andare oltre l'interazione diretta allo scopo di alimentarsi anche della semplice presenza altrui, dell'indiretta condivisione dello stesso spazio vissuto. Per quanto riguarda i riferimenti storici, si è potuto riscontrare nei vari gruppi sociali una pluralità di interpretazioni, come è accaduto al riguardo degli altri luoghi analizzati. L'informatrice della cerchia sociale da noi presa in analisi, quando l'intervista ha preso di riferimento il monumento di Eleonora d'Arborea per ciò che pertiene alla storia del luogo stesso, non ha mostrato un'estraneità verso il passato: Si conosco la donna nella statua, è Eleonora d'Arborea, la donna più importante della città nel Medioevo. Mi sembra che fosse la regina della città o qualcosa del genere... Mio nonno mi raccontava sempre che suo babbo era presente quando avevano montato la statua... Prima mi sa che c'era un'inferriata attorno, non era così.

In questo caso, che non può essere generalizzato all'intera collettività, la costruzione di senso del luogo risulta essere il prodotto del rapporto tra la struttura significante, che soggiace alla configurazione spaziale della piazza, e la struttura di significato, implicita nella pratica sociale di appropriazione dello spazio. In definitiva le due piazze in esame mostrano il loro ruolo di centralità simbolica. Sia per via delle varie attività pubbliche che in essa si svolgono (luogo di concerti, di iniziative, di comizi, ecc.), e sia dal fatto che in termini concettuali e pratici sono il luogo più importante per gli incontri sociali. La piazza può 79


considerarsi in effetti il centro di quasi tutti i momenti della vita pubblica ed è, nel caso di Piazza Eleonora, strettamente connessa all'autorità locale, in rapporto soprattutto al palazzo comunale che qui si trova. Alla piazza viene attribuito un insieme di valori particolari che sono evidenti anche nel modo di vestirsi e di comportarsi. Per andare in piazza la gente si sente di vestirsi bene, secondo un determinato criterio che corrisponde a ciò che si ritiene più opportuno in vista di una situazione in cui si è visibili a chiunque, e allo stesso modo anche il comportamento è più controllato, rispetto ad una situazione periferica. In un certo senso frequentare la piazza il più delle volte equivale a mettersi in mostra. La piazza è anche il punto di contatto tra le diverse espressioni identitarie interne ed esterne (turisti, gente dei paesi limitrofi, uomini d'affari), alla collettività. È il centro di espressione principale della globalità locale. Per fare un esempio estremo, all'interno della piazza si possono incrociare, o sedersi sulla medesima panchina, signore anziane, magari vestite in abito sardo con sul capo il tradizionale muncadoreddu, e giovani ragazze, magari con i capelli rasati lateralmente e un tatuaggio in bella vista.

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5.2. Le ramblas Che significa movida? Secondo il vocabolario Treccani è uno spagnolismo diffuso in Italia come denominazione per lo più scherzosa della vita serale e notturna di una città, con riferimento specifico a quella delle città spagnole, note per la loro animazione nelle ore tarde. Ciò che distingue questo tipo di azione collettiva giovanile da alcune forme di associazionismo culturale per esempio, è il suo carattere informale e non strutturato. In altre parole può considerarsi come una particolare esperienza di vissuto collettivo prodotta da una coesione e concordanza mai chiaramente esplicitata in un'assemblea organizzativa. Il presente luogo che ci prestiamo ad analizzare è uno degli spazi di partecipazione ed espressione giovanile più significativi di Oristano: è un vicolo lungo meno di cinquanta metri, che si dirama da Piazza Roma verso il centro storico. Come il termine movida, la denominazione ramblas riprende il mito delle notti spagnole e anch'esso risulta scherzoso; è chiara l'autoironia vista l'estensione e l'ampiezza che caratterizza il famoso viale di Barcellona e gli spazi stretti del vicolo in questione. Il vicoletto è caratterizzato da due bar che risultano distanti l'uno dall'altro una decina di metri e sono posizionati l'uno nel lato opposto all'atro, e di un altro posizionato ad angolo alla fine del vicolo. Dal momento che la gente che vi affluisce supera decisamente la capienza dei bar in questione, ne risulta che lo spazio vissuto per eccellenza diventa il vicolo in sé e per sé. Fondamentalmente questo spazio vissuto rimanda a un congiunto di interazioni che si sviluppano individualmente o collettivamente, che però rimandano sempre ad un grado di vicinanza, confidenza o amicizia. Uno degli elementi collanti che fa congiungere la moltitudine di giovani in questo spazio è la dimensione estetica, la quale è strettamente connessa al fattore visibilità e alla volontà di esprimere ciò che si ritiene di essere. Il determinato modo di tenere i capelli, di segnare e rendere visibile il proprio corpo con dei tatuaggi, di indossare specifici stili di abbigliamento, di utilizzare particolari dispositivi tecnologici o meno, sono tutti atteggiamenti riconducibili ad un gioco 81


di specchi dove nella consapevolezza di essere visti ci si riconosce nello sguardo altrui. Lo stare uniti in questo spazio rende visibili differenti discorsi identitari che cercano, in diverso modo, di ottenere un riconoscimento sociale. In definitiva le differenti modalità di espressione si sommano, formando una realtà complessa e dinamica, e riflettono, oltre che l'inevitabile influenza del mercato e della mass-mediatizzazione della vita quotidiana, un processo di riterritorializzazione dello spazio e dei pochi metri quadrati che lo compongono. In altre parole la denominazione dello spazio vissuto, da parte dei suoi stessi attori, implica quella fase di simbolizzazione che nei capitoli precedenti abbiamo visto essere la prima tappa del processo di appropriazione del territorio. Solamente attribuendogli un simbolo, in questo caso linguistico, lo spazio cessa di essere una realtà esterna ed entra a far parte della propria sfera esistenziale, della propria interiorità, innescando il controllo intellettuale che permetterà in seguito quello materiale. In questo caso si parla di riterritorializzazione perché la denominazione del luogo si va a sovrapporre al toponimo ufficiale Vico Parpaglia, che a sua volta si era sovrapposto al toponimo originale Su Cundutu, come testimonia questo spezzone di intervista ad un signore anziano: Questa viuzza si chiamava su cunduttu. Su cunduttu perchè conduceva non mi ricordo dove... c'era qualcosa in via Parpaglia che ora non mi ricordo. C'era una bettola prima, e dicevamo: ajò a su cundutu a bufai granacia.3 Inoltre nella riflessione sul processo di appropriazione del luogo c'è da tener conto anche il fatto che esso sia registrato ufficialmente in una pagina facebook. Lo spazio fisico cessa di essere una realtà esterna ed estranea all'uomo una volta che esso viene inserito nei propri quadri di riferimento simbolici. L'organizzazione spaziale del luogo è da considerarsi funzionale, in quanto le sue piccole dimensioni amplificano la presenza effettiva, la sua piccola capienza genera immediatamente una sensazione di luogo gremito, affollato. In questo senso gli elementi fisici del territorio vengono ridimensionati dal peso 3

Trad. it. Dai che andiamo a su cundutu a berci una vernaccia.

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della massa che vi si affolla. Questo fattore è sicuramente da considerarsi come un elemento importante del suo successo. Il formicolare di gruppi e gruppetti di individui che occupano sostando e transitando a rilento questo vicolo, genera un processo di costruzione identitario condiviso, dove ognuno impegnandosi nel costruire la propria identità, da una parte contribuisce a formare l'identità culturale del luogo, e dall'altra se ne sente parte integrante. Per quanto riguarda la raccolta dei dati ci si è basati, oltre che sull'osservazio partecipante, sulla competenza specifica dell'informatore al riguardo del tema trattato. È stata fatta un'intervista a una PR organizzatrice di eventi, profonda conoscitrice della realtà notturna oristanese. Di solito ho potuto constatare che il vicolo viene affollato dai giovani il venerdì e il sabato, ma ad ogni modo ciò che agevola la sua frequentazione non è il fine settimana in quanto tale ma la prefestività della serata. Per quanto riguarda le abitudini di affluenza: Di solito si va alle undici e mezza, anche se il picco di afflusso è verso l'una circa. È un luogo di passaggio, il giusto posto dove passare il preserata in attesa dello spostamento in discoteca... Anche se capita di sostare con il drink in mano anche svariate ore. Il permanere nel vicolo è agevolato dalla musica dance che i bar di proposito alzano di volume, in modo tale che chiunque decida di sostare nel vicolo possa sentirla come sfondo del suo interagire. Per quel che riguarda la strutturazione del luogo: Ci sono tre locali: l'Antico Caffè che comunemente chiamiamo Antico, per esempio “Oh, ajò che andiamo a berci una storia all'antico”; poi c'è l'Ele Caffè che si abbrevia “Oh, ajò a berci una storia all'Ele” e poi c'è il Duke. L'Ele prima era considerato il più fashion ma ora si sta perdendo questa convinzione... Risulta interessante, ai fini della riflessione sulle trasformazioni identitarie, lo spezzone di intervista riportata sopra, nella quale l'anziano parlava della bettola un tempo in attività nella viuzza. È rilevante poiché mostra la differenza tra il

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modo in cui prima si proponeva da bere e il modo in cui si propone oggiggiorno, il cambiamento di codice che ha investito la popolazione: ajò ca andaus a su cundutu a bufai granacia si è evoluto in ajò che andiamo a berci una storia all'antico. In conclusione per ciò che pertiene ai riferimenti storici: Guarda non ho assolutamente consapevolezza dei riferimenti storici della città. Ma penso che anche tutti i miei coetanei non ne abbiano. Anzi ne sono quasi sicura, almeno per tutte le persone che conosco io... Solamente ora qualcuno sta iniziando a interessarsi grazie alle iniziative di carattere culturale che ci sono in città. In questa e altre interviste fatte si è potuto riscontrare che nella costruzione dell'identità sia individuale che collettiva il rapporto con la negoziazione con gli altri ha assunto un ruolo predominante e risulta indipendente dal rapporto con i luoghi fisici in cui si vive. Il luogo assume rilevanza in quanto punto spaziale in cui poter concretizzare determinate pratiche sociali.

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5.3. Via Dritta La Via Dritta che conduce da Piazza Roma a Piazza Eleonora è uno spazio dotato di simbolismo particolare per la città di Oristano. Al suo interno è presente il Palazzo

Arcais,

oggi

sede

di

rappresentanza

e

di

alcuni

uffici

dell’amministrazione provinciale di Oristano, un tempo dimora del nobile Don Damiano Nurra Conca, Marchese d’Arcais e feudatario dei terreni dell'oristanese. La via è sempre stata luogo di passaggio per eccellenza, tanto che si è dato un nome addirittura alla passeggiata che tradizionalmente viene fatta. In questo caso oltre ad esserci una ridenominazione del luogo, c'è anche una denominazione del particolare modo di appropiarsi del luogo. La passeggiata per le solite vie, ritualizzandosi ha assunto una precisa forma, che di per sé rimanda ad un azione ma interiormente nella collettività richiama ad un fatto compiuto che si rinnova costantemente. In passato e tuttoggi si contraddistingue inoltre come luogo del commercio, anche se rispetto al passato le vetrine ora espongono altre merci legate a nuove forme culturali ed estetiche. Questa qui è sa ruga deretta, Via Dritta in italiano. Che però è corso Umberto. Via Dritta poi che non è dritta perchè è incurvata. Prima era tutto ciottolame, era più caratteristica. Via Dritta prima era sempre pieno pieno di gente, era proibito passare con le biciclette. Barbieri ce n'erano sei, tre sartorie, negozi di scarpe... era pieno pieno. Era la passeggiata... naraiaus andaus a fai una vasca.

Per l'analisi di questo luogo si è preferito trovare come informatore qualcuno che potesse conoscere dall'interno la realtà in questione, ma al contempo per diverse ragioni potesse ritenersi anche un osservatore esterno della stessa. Questa figura è stata individuata in un commerciante storico della via: Io ci sono 42 anni in questa via. Sono un po' disgustato di come è la situazione ora... Prima era un'altra cosa, c'era più gente... ma un po' da per tutto. I centri commerciali ci hanno rovinato. Oristano prima, da Milis, da tutte le parti, da Terralba, Urasa da Mogoro, scendevano tutti ad Oristano. Poi per la festa di Santa Croce era una cosa... scendeva tutta la Sardegna. Si faceva in pratza 'e boisi! Come è che la chiamano ora? Piazza Pintus? 85


Questa via prima la chiamavano sa ruga deretta, via dritta in italiano, ma io ho conosciuto sempre il nome ufficiale Viale Umberto. Nelle lettere devi scrivere Viale Umberto ma è capitato che sbagliavano e il postino la portava lo stesso. Oristano è un paesone, e questa come c'è in tutti paesi, è la via della passeggiata. Dove incontrare un amico? In via dritta. I ragazzi facevano vela? In via dritta. La passeggiata storica diciamo... La vasca la chiamiano.

Il fulcro di quest'indagine è stato quello di cercare di individuare se nell'azione che si ripete, la quale rinsalda implicitamente ogni qualvolta il vincolo con il territorio, potessero esserci dei significati storici di quest'ultimo. In altre parole, vista la sostantivizzazione della pratica e il suo nesso inscindibile con il luogo scenario dell'azione, si è considerata la possibilità che nell'appropriazione simbolica di quest'ultimo potesse esercitare un ruolo, seppur defilato, qualche significato storico del territorio che andasse a connettersi con l'origine dello stesso. C'è da sottolineare che la via attualmente non è frequentata esclusivamente dai locali, ma, soprattutto la mattina, contribuiscono a costituire il quadro culturale attuale del luogo anche la comparsata: di mendicanti di varie culture Rom, di venditori ambulanti africani (provenienti dal Ghana, Nigeria, Senegal quelli incontrati personalmente), di gruppetti di turisti prevalentemente Europei. Inoltre le attività commerciali all'interno della via son cambiate. Se prima la manifattura locale contrassegnava il luogo, attualmente son visibili i segni della globalizzazione, con vetrine di diversi marchi internazionali, agenzie immobiliari e anche, ultimo arrivato, una paninoteca kebab. L'indagine ha prodotto una pluralità di impressioni da parte degli intervistati, i quali hanno offerto spiegazioni differenti delle stesse azioni, e spesso è capitato che alcuni affermassero di seguire semplicemente l'usanza. Questi esiti hanno dato ragione alla considerazione del significato come elemento incorporato nell'azione stessa e non scindibile da essa. Per quanto riguarda i riferimenti storici, anche in quest'occasione come accaduto altrove, spesso gli individui rinviano a coloro che ritengono autorità in materia. Quindi come campo di studio e non di vissuto. 86


Guardi io non è che sono molto informato in merito, deve andare nella biblioteca... Guardi è lÏ, deve passare per la piazza e prendere quella via.

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5.4. La Cattedrale La Cattedrale è sorta su una preesistente chiesa di età bizantina intitolata all'Arcangelo Michele e il Duomo della Vergine Assunta presenta oggi parte dell'annessa area funeraria dell'antica chiesa. Il primo documento attestante l'esistenza della chiesa intitolata a Santa Maria datato 20 febbraio 1192. Nell'anno 1195 la Cattedrale e l'intera città furono incendiate e saccheggiate dalle truppe del giudice di Cagliari Guglielmo de Lacon-Massa. Il Duomo fu gravemente danneggiato durante l'occupazione militare della città, e nel 1228 iniziò la ricostruzione. Sono testimoni di quest'opera la costruzione a sesto acuto, documenti scritti e due picchiotti bronzei del portale. Nella prima metà del XIV secolo l'impianto romanico della Cattedrale subì delle modifiche: risalgono a questo periodo la cappella del Rimedio e quella oggi adibita a Battistero, insieme ad altre cappelle. Nel Testamento del re Ugone II d'Arborea, datato 4 aprile 1335, il sovrano menziona il luogo dove voleva essere seppellito: nella chiesa della Beata Maria Vergine di Oristano e precisamente nella cappella di San Bartolomeo, ancora da terminare, che avrebbe dovuto accogliere le sepolture sia dei suoi predecessori che quelle dei suoi successori. Ulteriori ampliamenti sarebbero stati condotti tra il 1336 e il 1349, come induce a credere la tomba del giureconsulto Filippo Mameli, morto nel 1349. Durante un'invasione di milizie francesi, avvenuta il 21 febbraio 1637, la città di Oristano, le chiese e in particolare il Duomo, furono saccheggiate e gravemente danneggiate. Con l'arrivo delle truppe sarde da Cagliari e da Sassari, i soldati francesi decisero di abbandonare la città il 26 febbraio per reimbarcarsi. Inseguiti dai militari sardi, i francesi lasciarono nelle loro mani due pezzi d'artiglieria, undici battelli, trentasei prigionieri e otto stendardi, quattro dei quali sono conservati nella parete dell'ingresso principale della Cattedrale di Oristano. Nel 1729 l'Arcivescovo Antonio Nin, avviò i lavori di rifacimento della 88


cattedrale che comportarono la quasi totale demolizione dell'antica basilica e le tombe presenti al suo interno dei giudici di Arborea. Così Cuccu al riguardo: È storicamente accertato che in questo tempio ebbero sepoltura numerosi Giudici oristanesi e, probabilmente, molti insigni personaggi che furono protagonisti delle vicende di quegli anni; ma la voglia di modernità, che dopo il rancore aragonese fu la più grande iattura per la conservazione della nostra memoria storica, non ha saputo preservare quasi nulla di queste straordinarie testimonianze, cancellando letteralmente il monumento forse più importante e prestigioso della storia del Giudicato d'Arborea. (Cuccu 2000: 105)

Quel su di cui ci si è focalizzati in questa analisi è la presenza storica più visibile all'interno della cattedrale. Si è voluto indagare sulla vitalità degli stendardi francesi come simboli comunicanti di un'esperienza storica che ha segnato nel profondo il territorio. Difatti dopo la devastazione e il saccheggio dei francesi la città ci mise diversi anni per riprendersi e venne celebrata ogni anno una messa accompagnata da una processione per ricordare l'anniversario della liberazione della città. In altre parole puntando sul fatto che l'avvenimento potesse essere oggetto di celebrazione, si è considerata la possibilità che i significati legati a quest'ultimo si fossero tramandati grazie all'aspetto simbolico della ripetizione rituale. Quindi si è considerata l'eventualità che una determinata cerchia sociale praticante, potesse fruire ancora di quel riferimento simbolico nel processo di costruzione del proprio senso di appartenenza all'interno del luogo sacro. Per ultimo non si è scartata la possibilità che la celebrazione pur preservandosi avesse perduto il simbolismo legato all'avvenimento. Come gruppo di riferimento sono state scelte delle fedeli, secondo il criterio della competenza specifica. Si è optato dunque per delle signore di età avanzata che oltre ad essere le più preposte per un ipotetico ricordo vivo dell'avvenimento tramandato oralmente, lo erano pure per l'eventuale ricordo della celebrazione suddetta dell'anniversario, nel qual caso nell'attualità quest'ultimo non si fosse più celebrato. La signora che ho scelto come informatrice mi ha rivelato di non sapere 89


nulla al riguardo della questione: Io vengo da più di cinquant'anni qua. Non so cosa rappresentino questi stendardi. So dirti che prima erano in un'altra posizione, due su quest'ala della chiesa e due dall'altra. Circa da dieci anni sono stai spostati... I parroci che ho conosciuto io, non ne hanno mai parlato in una celebrazione.

In seguito avendo avuto modo di intervistare anche altre signore ho potuto riscontrare in una signora la conoscenza dell'origine di quegli stendardi: Quelli sono gli stendardi della famiglia dei Lorena che saccheggiarono Oristano nel millesettecento e qualcosa... Però di messe e processioni per il giorno della liberazione dai Francesi non ne ho mai visto. Successivamente parlando con il parroco e con il funzionario dell'archivio clericale mi è stato confermato che un tempo la celebrazione si svolgeva poiché vi sono i documenti che lo attestano, ma in compenso non mi si è saputo dire da che periodo all'incirca si era abbandonata l'usanza.

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5.5. Via Vittorio Emanuele e Via Mazzini Via Vittorio Emanuele, conosciuta come Via Duomo, e Via Mazzini, conosciuta un tempo come via di San Sebastiano o sa ruga de santu Bustianu, sono lo scenario in cui l'ultima domenica e martedì di carnevale si corre ad Oristano la Sartiglia. La giostra della domenica è organizzata dal gremio dei Contadini, mentre il gremio dei Falegnami organizza la corsa del martedì grasso. La corsa vede protagonisti i cavalieri che tentano con una spada di infilzare un anello a forma di stella, sospeso ad un nastro teso di fronte alla Cattedrale di Santa Maria Assunta, lungo la prima via oggetto di indagine. Le due corse, identiche nelle fasi salienti, si differenziano in alcuni dettagli: la domenica i nastri che stringono le maniche della camicia e mantengono maschera e cilindro de su Componidori sono rossi, mentre sono rosa e turchesi il martedì; la sua maschera è color terra la domenica, mentre il martedì invece è di color rosa carne; la giubba di pelle, detta coiettu, è allacciata da dietro con stringhe di cuoio per su Componidori del gremio dei Contadini, mentre è legato sul davanti da borchie argentee a forma di cuore per su Componidori dei falegnami; infine, i pantaloni s'indossano dentro gli stivali e sono color miele la domenica, mentre il martedì arrivano sino al ginocchio e fungono da sovrapantaloni. Il corteo è composto da 120 cavalieri in maschera riuniti in gruppi di tre, vestono costumi di foggia sarda e spagnola e montano cavalli bardati con coccarde multicolori. Su Componidori, affiancato dai due compagni di pariglia, su segundu cumponi e su tertzu cumponi, guida il corteo. La corsa si svolge nell'antica città murata, lungo la strada che conduce dalla reggia dei re d'Arborea alla Cattedrale di Santa Maria, fino all'ospedale medievale di Sant'Antonio Abate. Su questa strada apre la corsa su Componidori con il segundu cumponi eseguendo tre incroci di spada sotto la stella appesa ad un nastro verde. Su questa via, su Componidori tenterà d'infilzare la stella con la spada. Successivamente la 91


prova sarà ripetuta dai cavalieri scelti dal capo corsa per tentare la sorte. Al capo corsa, a su segundu e a su tertzu toccherà una seconda prova consistente nel cogliere la stella con su stocu, una lancia di legno dipinta di bianco. Concluse le discese alla stella il capo corsa riceve sa pipia de maju e, giunto davanti a dove un tempo si trovava il castello giudicale, ripercorre il tragitto riverso all'indietro sul cavallo, sa remada, benedicendo la folla. Terminata questa prima fase della manifestazione, il corteo si dirige verso la seconda via oggetto del paragrafo, il cui tracciato costeggiava anticamente le mura della città e dove si eseguiranno le diverse pariglie. L'unica pariglia che non può esibirsi è quella di su Cumponidori, che si dovrà limitare a fare una galoppata mentre i due compagni ai suoi lati gli reggono le redini; infatti, non potendo rischiare di cadere e toccare il suolo, non gli è concesso di tentare acrobazie. Un tempo si pensava che più stelle sarebbero state prese, migliore sarebbe andata l'annata e il raccolto dei campi. Attualmente vista la trasformazione dell'economia, che fa perno soprattutto sul settore terziario, la credenza viene ricordata ma non ha lo stesso potenziale simbolico di un tempo. Le due vie in questione rappresentano lo scenario principale della manifestazione e per una settimana all'anno diventano interdette a qualsiasi altro utilizzo se ne intenda fare. Per il resto dell'anno difatti esse sono vissute in tutt'altro modo e la realtà culturale di questi spazi si ricrea attraverso strategie differenti di appropriazione simbolica degli stessi. Soprattutto per Via Mazzini, l'uso dell'automobile e la fruizione delle attività commerciali, diventano le pratiche spaziali principali con cui ci si appropria dei luoghi in questione. In questo senso i luoghi sono caratterizzati dai significati legati alla realtà urbana e industriale: luogo di parcheggio, di compere, di traffico e di transito. Quel che risulta interessante è come, in occasione della manifestazione, venga riterritorializzato lo spazio a discapito delle consolidate pratiche urbane. Ovvero come la collettività, a partire dalla macchina organizzativa fino ad arrivare al semplice spettatore, s'impossessi dello spazio riterritorializzandolo e 92


svincolandolo dal suo normale uso. In altre parole, come nell'appropriarsi dello spazio attraverso un suo diverso utilizzo, esso possa acquisire dei significati che occultano quelli imperanti nel resto dell'anno. Ai fini della ricerca si è voluto indagare sull'eventualità che questi spazi mantengano, anche nel resto dell'anno, i significati connessi alla settimana di Carnevale. In altre parole si è voluto analizzare se nel processo di appropriazione dello spazio nel suo contesto urbano quotidiano, attraverso pratiche quotidiane che non hanno nulla a che vedere con la manifestazione stessa, giocassero un ruolo anche i significati inerenti alla giostra. Come nelle indagini precedenti dunque, si vuole indagare se nel processo di appropriazione dello spazio legato a uno specifico uso dello stesso, giochino un ruolo dei significati che vanno oltre alla particolare pratica e risultano collegabili al territorio. Come gruppo di riferimento per l'indagine si è optato per i titolari degli esercizi commerciali presenti nelle vie in questione. Questo perché si è considerato il fatto che essi siano spettatori diretti di entrambi i processi di appropriazione, e soprattutto abbiano uno stretto legame con tutto ciò che ha a che vedere con la realtà urbana quotidiana, dato che le proprie attività ne sono vincolate. Dalle interviste compiute ne è venuto fuori un generale riconoscimento dello spazio in questione come luogo della Sartiglia, formando una commistione con i significati legati alla pratiche quotidiane di vivere lo spazio. Qua fanno la Sartiglia. È l'evento dell'anno ad Oristano... Anche gli affari vanno meglio. Anche se è capitato che ci mettessero troppo a smontare tutto e di conseguenza ne risentivano gli affari.

Anche da altre interviste sono emerse le stesse impressioni: Questa via la vivo tutti i giorni come luogo di lavoro, poi va be' fanno la Sartiglia qui. Vedere la sabbia nella strada, le transenne e tutti i preparativi è sempre una cosa speciale, anche se l'ho vista tante volte. C'è anche da dire che le strade son chiuse al traffico e quindi passa meno gente, ma per una volta all'anno...

Risulta rilevante dunque come rimangano vivi e si preservino dei significati

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legati al luogo, pur non essendo in presenza delle pratiche di appropriazione dello spazio inerenti alla loro produzione. Questa analisi del luogo si differenzia da quelle svolte in precedenza per via del fatto che in questo caso, il rimando identitario sia collegabile ad una collettiva appropriazione dello spazio che si rinnova annualmente.

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5.6. Cresia de Santu Giuanni de froris In Oristano, contadini, sarti, falegnami, carreggiatori, scarpai, muratori, ferrai, vasai, bottai, fabbri e armaioli erano riuniti in corporazioni d'arti e mestieri. Tali associazioni, chiamate gremi, erano del tutto simili nella struttura e nell'organizzazione alle corporazioni spagnole. Originariamente menzionati con il nome di maestranza, offici, confraria o germanidad, a partire dal XVII secolo invece si attestò il nome gremio, ancora oggi adoperato, che deriva dall'espressione “in gremio”, ovvero il mettersi “in grembo”, sotto la protezione di uno o più Santi patroni. Lo statuto di ogni gremio dettava norme per la costituzione, l'amministrazione, i doveri religiosi, la disciplina professionale, gli esami per i nuovi soci, le controversie di lavoro, le norme per la conservazione dei libri amministrativi e contabili e la cura delle cose necessarie alle cappelle. Ogni associato era vincolato al rispetto di molteplici doveri religiosi, morali e sociali, poiché il principio di mutualità tra i soci era alla base del gremio. L'associato era obbligato a partecipare a tutte le funzioni liturgiche ufficiali, alla solennità del Santo patrono e ai funerali dei soci. Durante la festa del patrono, il gremio sorteggiava o eleggeva i nuovi amministratori: s'oberaju majore, che ne era il rappresentante (talora erano due), e i probi uomini, sorta di consiglio particolare del maggiorale. L'attività dei gremi documentata fino alla seconda metà del XIX secolo, quando la legge del 29 maggio 1864 li abolì, obbligandoli alla trasformazione in società di mutuo soccorso. Nella città di Oristano risultano operanti i gremi dei Contadini di San Giovanni Battista, dei Falegnami di San Giuseppe e dei Muratori di Santa Lucia. Le prime due corporazioni l'ultima domenica e martedì di Carnevale per antica tradizione organizzano la Sartiglia. La chiesa di San Giovanni Battista, detta anche de Santu Giuanni de froris, è la cappella del gremio dei contadini e si trova a circa un chilometro dalla città. 95


Le origini medievali dell'edificio sono testimoniate da alcuni documenti, tra cui il testamento del sovrano d'Arborea Ugone II del 1335, nonostante l'attuale struttura architettonica sia riconducibile all'epoca spagnola. Il simbolo del gremio è una bandiera, custodita da s'Oberaju Majore (il Presidente maggiore) detto anche Oberaju de Bandera (il Presidente di bandiera): essa è costituita da un'asta in legno cui è appeso un drappo di broccato rosso, alla cui sommità è posta una croce di spighe che racchiude l'effige del Santo Protettore bambino, e dalla quale pendono numerosi nastri colorati con i nomi dei presidenti che si sono susseguiti. Le uscite ufficiali della bandiera sono in occasione della festa della Natività di San Giovanni Battista, per la processione di Corpus Domini, per quella di Sant'Efisio Martire, per la Sartiglia e per accompagnare i funerali de is Oberajus e is Priorissas (mogli de is Oberajus): in questa circostanza i nastri colorati sono sostituiti da un unico nastro nero. Nel mese di giugno, la ricorrenza della Natività di San Giovanni Battista sancisce la fine del mandato dei due Oberaius uscenti e l'inizio per quelli entranti. La sera del 23 giugno i riti cominciano col trasporto della bandiera dalla casa de s'Oberaju Majore, a cui è affidata la custodia durante l'anno, alla chiesa di Santu Giuanni de froris. Alla bandiera si aggiungono due nuovi nastri sotto la corona di spighe di grano, con i nomi de s'Oberaju Majore e de sa Priorissa e l'anno del mandato appena concluso. Viene posta su un antico carro di legno trainato da un giogo di buoi dove trovano posto, oltre allo stesso Oberaju Majore, anche il portabandiera ed il suonatore di launeddas, insieme a sa caxa, la cassa con i beni del sodalizio, sistemata su un antico tappeto di orbace decorato. Gli altri soci seguono la bandiera prendendo posto su un carrello decorato trainato da un trattore, posto immediatamente dietro il carro. Precede la processione un corteo di cavalieri a cavallo. Arrivati di fronte all'ingresso della chiesa di San Giovanni, prima di entrare in chiesa s'Oberaju majore esegue i tre inchini della bandiera come segno di benedizione. La messa è accompagnata dal suono delle launeddas, e si chiude con il canto dei tradizionali Gocius de Santu Giuanni eseguiti dai fedeli. In 96


conclusione si fa un banchetto dove si invitano tutti i presenti. Il 24 giugno, il giorno della festa, si apre con la prima messa all'alba, cui seguono altre celebrazioni per l'intera giornata. La mattina del 25 giugno si celebra l'Eucaristia in suffragio dei soci defunti. In serata il “gremio”, riunito a porte chiuse nei locali attigui alla chiesa, nomina ufficialmente i nuovi Oberajus. Al termine le porte della chiesa si aprono e fa la sua comparsa il nuovo Oberaju de Bandera con lo stendardo in mano. Quest'ultimo sale sul carro trainato dai buoi e viene portato in corteo verso la sua abitazione. Anche in questo caso i convenuti festeggiano con un banchetto offerto de s'Oberaju neo eletto. La chiesa di Santu Giuanni de froris, conosciuta anche come Santu Giuanni de foras, ovvero San Giovanni di fuori, si dice per via del suo posizionamento un tempo esterno alla cinta muraria, è considerabile come un luogo nel quale, e grazie al quale, si consolida uno specifico senso d'appartenenza. La cerimonia che segna l'avvicendamento del vecchio con il nuovo Oberaju Majori, è che ha come luogo fulcro della celebrazione la chiesa in questione, costituisce una specifica pratica sociale di appropriazione dello spazio che genera al contempo un legame d'appartenenza con lo stesso. Nel rinnovarsi la pratica sociale tradizionale di appropiazione del luogo, si consolida il legame tra i membri stessi del gremio, ma allo stesso tempo un duplice rapporto tra di essi e l'istituzione gremio e tra di essi e la città di Oristano. Detto questo, attualmente questa festa, e le pratiche ad essa connesse, principalmente possono considerarsi trasformate dal punto di vista sostanziale più che formale, per via del fatto che l'attività agricola non ricopre più il ruolo di un tempo all'interno del sistema produttivo e all'interno del gremio stesso. In questo senso non è considerabile come un quadro pressoché immutato nel corso del tempo. In altre parole, pur non volendo ricondurre il discorso ad una rigida corrispondenza tra maniere di vivere la festa e attività lavorative, si ritiene rilevante ai fini del vissuto pratico della festa, sia da parte del gremio che da parte dei cittadini, il fatto che l'economia del territorio non sia più fortemente legata ad 97


una realtà contadina. Quanto detto si evince anche dal procedere della sfilata stessa all'interno della città: il corteo di cavalli e il giogo di buoi trainante il carretto con all'interno s'Oberaju Majori, un tempo non generava certamente lo stesso stupore che suscita tra le vie del centro urbano attualmente. Basti pensare che un tempo: Facevano parte del gremio i contadini di Oristano che dovevano avere quali requisiti fondamentali la residenza in città, l'esser sposati con matrimonio cattolico e possedere il carro a buoi. Attualmente l'ingresso nel gremio avviene su invito da parte della giunta e rimangono i requisiti della residenza, del matrimonio cattolico e dell'attinenza con il mondo dell'agricoltura. (Casu – Obino 2010: 39) Tuttavia, anche se non si può portare avanti un discorso generale che riguardi l'intera popolazione di Oristano, nella preservazione delle pratiche tradizionali emerge il forte legame che connette pratiche di appropriazione-luogo-identità.

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6. Deterritorializzazione e trasformazioni identitarie 6.1. Toponimi e territorializzazione Il territorio non è da considerarsi come uno spazio neutro su cui si svolgono gli eventi, ma il frutto delle dinamiche interattive che si svolgono continuamente tra di essi. In questo senso è un soggetto vivente in quanto prodotto dall'interazione di lunga durata tra insediamento umano ed ambiente, periodicamente trasformato dal succedersi delle epoche. Esso rappresenta l'esito di un processo di territorializzazione, ovvero un processo di appropriazione dello spazio fisico da parte della collettività insediata. Il processo attraverso il quale le collettività conferiscono allo spazio naturale un valore antropologico. Questo processo, come si è già affermato nel capitolo riguardante il rapporto tra identità e territorio, prende avvio con il processo di simbolizzazione. Esso consiste nell'attribuire a uno spazio un simbolo linguistico che a sua volta rinvia a un significato condiviso. In questo senso uno spazio simbolizzato diventa luogo. In altre parole la simbolizzazione riguarda il modellamento e l'appropriazione intellettuale del territorio attraverso la produzione di rappresentazioni condivise del territorio. La rappresentazione simbolica, la produzione di significati sul territorio, orientano l'immaginario e lo sensibilizzano verso l'accettazione o il rifiuto di successivi atti di reificazione o di strutturazione. La denominazione, dunque, consistente nell'attribuzione di simboli ai luoghi, non è una semplice attività che rinvia a superficiali finalità di orientamento, piuttosto è da considerarsi come una sintetizzazione di un corpus di significati condivisi e riguardanti quel determinato spazio.

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I toponimi sono quindi il risultato di fenomeni storici e culturali, dal momento che i contenuti che veicolano fanno riferimento a una realtà antropologica nel cui contesto si attribuiscono i diversi nomi. L'insieme di questi ultimi, che come abbiamo detto rinviano ad un corpus di significati, rappresenta dunque il sapere territoriale, la conoscenza dello spazio in cui si è insediati. Da un punto di vista semiologico essi possono essere considerati come insieme di designatori che hanno una valenza cognitiva e al tempo stesso comunicativa. Per un verso, infatti, essi compattano dei saperi sotto forma di descrizioni o di concetti, per un altro verso, i nomi di luogo si propongono come strumenti per trasmettere la conoscenza nelle forme con cui la conoscenza stessa è specificamente prodotta da una determinata collettività . In questo senso in conclusione la denominazione appare come un insieme di procedure tese ad assicurare il controllo intellettuale sul territorio e i toponimi assumono il ruolo di archivio culturale delle collettività da cui sono prodotti.

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6.2. Riterritorializzazione Dai tempi della fusione perfetta, ma soprattutto in epoca fascista, ci fu un processo di italianizzazione dei toponimi storici. Questi ultimi sono stati tradotti o sostituiti con riferimenti che celebrassero la nuova unità politica. In questo modo si assiste ad un processo di riterritorializzazione che genera una nuova simbolizzazione e una conseguente ulteriore significazione. In altre parole il corpus di significati inerenti ai precedenti toponimi, viene messo in discussione attraverso la cancellazione di questi ultimi e la sovrapposizione di ulteriori significati. Questi a loro volta rinviano ad una condivisione tesa a dar manforte al processo di costruzione nazionale, ovvero di quelle comunità politiche immaginate teorizzate da Anderson nel suo testo Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism. Si assiste a una risemantizzazione del territorio con un conseguente nuovo controllo intellettuale sullo stesso. Qualche esempio è riconducibile a Sa ruga de is Crongioaxus che diventa Via Figoli, Sa ruga Dereta che diventa Corso Umberto, Su Cundutu che diventa Vico Parpaglia, Pratza de sa Porta che diventa Piazza Roma, e così via fino ad arrivare da Aristanis ad Oristano. Un ulteriore esempio lo riporta il già citato Pau nel suo testo Oristano. Viaggio fotografico dal milleottocento ad oggi, in riferimento all'attuale Via Aristana: L'era fascista volle fare cose nuove e decretò che la via dei Balli diventasse Viale delle Rimembranze. Grandi preparativi e grandi festeggiamenti. Furono piantati gli alberi, echeggiarono le note del Piave e di Giovinezza. Gli insegnanti delle Elementari vi accompagnarono gli alunni in reverente pellegrinaggio. Ogni albero ebbe il nome di un Caduto oristanese per la più grande Patria. Molti alberi ebbero la foto dell'Eroe e per qualche tempo sa Ruga de is Ballus divenne la succursale di un cimitero e la sera estiva i ragazzini scalzi non giuocavano più volentieri tra quei morti. Poi tutto scomparve. (Pau 1983: 185)

C'è da sottolineare che il processo di sostituzione dei toponimi è stato accompagnato e legittimato dal processo di sostituzione del codice linguistico. Quindi a un cambio dei toponimi storici rinvianti a particolari significati storicamente condensati nel luogo, si aggiunge un processo di cambio di codice 101


nella collettività, anch'esso inseribile nella costituzione della comunità statale. Dunque nel tempo si afferma la sostituzione del codice attraverso il quale i significati inerenti ai luoghi venivano trasmessi. Detto questo, ne risulta che il sapere territoriale viene delegittimato in due modi: da una parte, grazie all'inserimento di nuovi designatori che non rinviano ai significati condensati nel tempo, dall'altra grazie alla graduale sostituzione del codice linguistico in cui erano stati formulati i significati stessi Le ragioni dell'abbandono sono connesse a molteplici dinamiche politicoculturali, ma il fatto che l'italiano sia la lingua statale adottata massivamente in quest'ultimo secolo evidenzia il legame tra la lingua sarda e la società precapitalistica. La lingua italiana adottata dalla popolazione sarda è stata difatti l’emblema della separazione da quel vecchio mondo agro-pastorale da cui per secoli è dipeso il fabbisogno della popolazione. Essa si è affermata sull’isola di pari passo all’industrializzazione di alcune zone sia centrali che costiere dell’isola (Macomer, Ottana, Portovesme, Sarroch, Porto Torres, ecc.), ai vasti movimenti migratori verso l’estero e, soprattutto in concomitanza della nascita di una nuova ideologia del consumo e di nuove aspirazioni sociali mal conciliabili con i meccanismi di lavoro consuetudinari di un tempo. Ha contribuito inoltre al passaggio graduale di codice la riorganizzazione dell’esercito nazionale e del mondo burocratico, la scolarizzazione, i mass-media, le intense migrazioni interne (a scopi lavorativi) e l'abbandono di un habitat e d'un sistema di lavoro tradizionali. Si può dire che le parlate sarde si siano ritirate in concomitanza col decadere delle dinamiche di soppravvivenza nelle quali erano basate. L'italiano in questo senso è sopravvanzato in contemporanea a questo retrocedere, assumendo il ruolo di codice linguistico che permetteva un inserimento più sicuro e meno traumatico nel mondo del lavoro. Si assiste dunque a un regresso funzionale del codice locale in seguito ad uno sviluppo economico disorganico. Disorganico nel senso che non esprime un 102


lineare sviluppo delle dinamiche economiche preesistenti. In questo senso l'italiano, nel venir meno l'importanza dei valori rurali, è stato sinonimo di modernità, e in quanto tale simbolo di speranza in vista di un tanto agognato riscatto sociale ed economico. Difatti l'isola, all'arrivo della nuova Era economica, era reduce da una situazione di disagio sociale e di estrema povertà protrattasi nei secoli precedenti. In conclusione è rilevante notare che, in certe occasioni, delle ridenominazioni non si siano attestate nell'immaginario comune, il quale ha invece prodotto delle sintesi tra il passato e il presente. Questo per esempio è il caso di Corso Umberto, che non si è mai affermato nell'uso comune come toponimo, a discapito della traduzione italiana di sa Ruga Deretta, ovvero Via Dritta.

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6.3. Deterritorializzazione “Con la deterritorializzazione l'immaginario di individui e gruppi non fa più riferimento a un luogo, a un territorio come punto di ancoraggio della propria esperienza e identità”. Ugo Fabietti Tutto

ciò

che

è

stato

finora

detto

conduce

al

fenomeno

della

deterritorializzazione. Essa può essere considerata come la perdita del ruolo identitario del territorio, nel viverlo come uno spazio indifferenziato, dove si rompe qualsiasi relazione con la storia e la memoria dei luoghi, dove esiste un'amnesia territoriale che conduce all'estraneità del contesto. In altre parole un ignoranza sul rapporto che lega l'insediamento, all'ambiente in cui è sorto e si è sviluppato. Questo processo come abbiamo visto nel paragrafo precedente è collegabile al processo di costituzione delle cosiddette comunità immaginate. Con queste ultime Benedict Anderson si riferisce agli stati-nazionali, intesi come comunità costruite socialmente, ovvero immaginate dalle persone che percepiscono se stesse come parte di esse. Immaginate poiché non succederà mai che tutti i suoi membri si conoscano personalmente; in questo senso il contenuto del loro legame, dato il loro numero e l'estensione territoriale della nazione stessa, è necessariamente immaginato, non prodotto da relazioni concrete, a differenza di quanto si suppone accadere in un modello di società tradizionale, in cui le relazioni faccia a faccia risultano prevalenti. Quindi ci si riferisce a una comunità non fondata su rapporti interpersonali immediati, ma frutto di una creazione culturale. Lo stato nazionale basa la sua legittimazione sull'intensità della sua presenza entro uno spazio continuo di territorio confinato. Funziona quindi attraverso il controllo dei confini, la produzione del popolo, la costruzione dei cittadini, la definizione delle capitali, dei monumenti, delle città, delle acque e dei terreni, e attraverso la costruzione dei luoghi della memoria e della commemorazione, come cimiteri e cenotafi, mausolei e musei. […] 104


Attraverso apparati tra loro diversissimi come musei e dispensari medici, uffici postali e stazioni di polizia, caselli stradali e cabine telefoniche, lo stato nazionale crea una fitta rete di tecniche formali e informali per la nazionalizzazione di tutto lo spazio sottoposto alla sua giurisdizione. (Appadurai 1996: 245-246)

Come detto precedentemente, in questo processo di costituzione delle comunità statali si inseriscono le ridenominazioni dei toponimi storici; se questi ultimi facevano riferimento a dei significati condivisi localmente, le nuove denominazioni invece fanno preciso riferimento alle nuove comunità immaginate, ad un corpus di significati che trascende il locale in quanto spazio vissuto. Secondo Anderson, gli stati nazionali che nacquero alla fine del XVIII secolo, sono frutto dell'interazione di tre fattori: l'affermarsi di un particolare sistema di produzione e di relazioni di produzione, il capitalismo; l'invenzione di una tecnologia della comunicazione, la stampa; il declino della comunità religiosa soprattutto grazie alla caduta in disuso del latino a favore delle lingue volgari. In questo senso gli stati-nazionali possono considerarsi a pieno diritto frutto della modernità e loro principali emanatori. Attualmente però, tenendo conto dei flussi culturali che caratterizzano la globalizzazione, la comunità statale non può essere considerata come l'unica comunità immaginata della contemporaneità; ma d'altronde l'autore stesso ha sostenuto nella sua opera, che tutte le comunità abbastanza grandi da non consentire il contatto diretto faccia a faccia sono da considerarsi immaginate. Infatti in questo senso Appadurai sostiene: Benedict Anderson ha mostrato chiaramente come il capitalismo a stampa può essere un mezzo importante con cui gruppi di persone che non hanno mai interagito faccia a faccia possono cominciare a pensarsi come indonesiani, o indiani, o malesi. Ma altre forme di capitalismo elettronico possono produrre effetti simili o addirittura più forti, dato che non agiscono solo a livello dello stato-nazione. (Appadurai 1996: 23)

La tesi dell'autore si discosta da un approccio che dona rilevanza esclusiva alla comunità statale rispetto alle altre comunità immaginate presenti. Attualmente difatti la molteplicità di flussi culturali che caratterizzano la globalizzazione, 105


generano una varietà di comunità immaginate sempre più svincolate dai confini statali. In questo senso Appadurai ritiene più opportuno parlare di mondi immaginati, di panorami etnici corrispondenti ai diversi flussi mobili e mai definiti che caratterizzano l'attualità. Detto questo si evince il ruolo chiave dell'immaginazione in un mondo sempre più interconnesso e caratterizzato dal flusso di persone, beni, denaro, simboli, immagini e idee. Si evince la molteplicità di comunità possibili, che eccedono lo spazio concretamente vissuto, all'interno delle quali il singolo può immaginare e costruire la propria identità. In questo senso le configurazioni identitarie individuali e collettive risultano sempre più disancorate da un territorio specifico. Così Fabietti: Un aspetto centrale di questa realtà caratterizzata sempre più dalle dimensioni della delocalizzazione e della deterritorializzazione culturale è che l'immaginazione di coloro che vivono in mondi locali tende ad articolarsi in forme via via più complesse all'interno di contesti globali, anche quando il movimento dei soggetti nello spazio è limitato o è addirittura inesistente. (Fabietti 2000: 189)

Attraverso i flussi culturali globali che raggiungono il locale (internet, televisione, tecnologia, eventi internazionali, movimenti mondiali e via dicendo) si producono forme di immaginazione che vanno oltre il contesto locale di riferimento e si basano sul rapporto fra contesti spaziali diversi. È pertanto anche nei mondi "nuovi" creati dall'immaginazione che gli individui riformulano le proprie identità e le proprie culture. Se l'immaginazione consiste nel rappresentarsi realtà che sono esperite non solo personalmente, ma anche da altri, nella pratica quotidiana essa consente di pensarsi in congiunzione ad altri soggetti come soggetti aventi lo stesso tipo di immaginario. Politiche, espressioni collettive, in parole povere identità, nascono da questo contesto come entità nuove, come comunità "immaginate". (Fabietti 2000: 189) Detto questo si comprende meglio la ridenominazione Le Ramblas e la successiva riterritorializzazione attuata dai giovani di Oristano nel caso in analisi nel capitolo precedente. Una simbolizzazione del territorio che esula dal corpus di significati legati al contesto originario e al toponimo storico, ma che non tiene 106


nemmeno conto della ridenominazione statale e dei significati comunitari ad essa connessi. Il locale è dunque il campo in cui si riuniscono espressioni di vario genere frutto di contesti spaziali diversi, dove le identità individuali e collettive si formano attraverso interconnessioni con altri locali. I flussi culturali globali inoltre, giocano un ruolo anche per quanto riguarda la trasformazione ed evoluzione concreta del locale in quanto territorio. Come spiega Castells: Nell'età dell'informazione stiamo assistendo a una crescente tensione e articolazione tra spazio fisico e spazio dei flussi. Lo spazio dei flussi stabilisce un collegamento elettronico tra luoghi fisicamente separati, creando un network interattivo di relazioni tra attività e individui a prescindere dallo specifico contesto di riferimento. Lo spazio fisico, invece, organizza le esperienze nei limiti della collocazione geografica. Le città moderne vengono contemporaneamente strutturate e destrutturate da queste due logiche contrapposte. (Castells 2004: 57)

Si trasforma cioè attraverso un dialogo tra la spazialità concreta e l'interazione extra-locale. Il locale concede sempre più spazio a ciò che è ritenuto elemento caratteristico della globalità, come se quasi fosse testimonianza del proprio non essere fuori dal contesto globale. Sotto questa lente d'ingradimento è da osservare anche il processo graduale di trasformazione delle facciate inerenti alle attività commerciali: un tempo rimarcate dalle insegne degli artigiani locali e attualmente sempre più contraddistinte dalle insegne che fanno riferimento a marchi internazionali o a personaggi del cosiddetto "star-system". Inoltre, facendo riferimento anche alle varie interviste fatte con le generazioni più giovani, si può affermare che la dimensione territoriale è sempre più legata a immaginari globali. Anche lo spazio vissuto assume rilevanza in misura della sua relazionalità con la globalità. Paradossalmente, ciò che è sempre stato considerato come simbolo di decostruzione culturale, ovvero la presenza del McDonalds, di un centro commerciale, di Blockbuster e via dicendo, per molti giovani rappresenta una possibilità di costruzione, la possibilità di rinsaldare la frattura tra spazi immaginati e spazi vissuti. L'internazionalità, o come direbbe Hannerz, la transnazionalità, è un elemento sempre più fondamentale per la 107


valutazione del territorio da parte dei giovani, e in quanto tale, assume importanza il riconoscere nel territorio i segni di quella cultura transnazionale di cui si sentono parte. La modernità, in conclusione, si contraddistingue dal passato per la riduzione dei tempi necessari al trasporto e al movimento di persone, merci, informazioni, idee, denaro, ecc.; ovvero dall'aumento di velocità con cui si può trasportare, viaggiare e comunicare. La riduzione dei tempi ha di conseguenza creato una diversa percezione degli spazi. Il fatto che oggi si possano percorrere distanze enormi in poche ore, e che la comunicazione con persone residenti in altre parti del mondo possa effettuarsi istantaneamente, ha obbligatoriamente modificato la nostra percezione delle dimensioni spazio-temporali rispetto al passato. Soprattutto quest'ultima operazione, secondo il sociologo Anthony Giddens, ha comportato un cambiamento radicale rispetto al passato, dove l'interazione era necessariamente faccia a faccia. In questo senso grazie alla tecnologia, lo spazio in cui avviene l'interazione non coincide più con il contesto in cui si è presenti. Ciò comporta implicitamente una profonda trasformazione della concezione dello spazio, dal momento che esso non può più considerarsi interamente localizzato materialmente. La globalizzazione e le tecnologie che la contraddistinguono, in questo senso hanno contribuito ad accelerare questo processo di separazione tra lo spazio e il luogo, grazie ai flussi di denaro, di merci, di informazioni, di simboli, di suoni, di idee, di immagini e via dicendo. I mezzi di comunicazione hanno impresso una straordinaria accelerazione al processo di trasformazione delle cordinate spazio-temporali dell'esperienza: tra queste lo sganciamento di spazio e tempo (non è più necessario impiegare del tempo per accedere a spazi lontani, la distanziazione spaziale non comporta più quella temporale) e la possibilità di una simultaneità despazializzata, ovvero la capacità, da parte di soggetti dislocati in spazi diversi, di sperimentare contemporaneamente gli stessi eventi, come accade nei cosiddetti media events sportivi, musicali o di altro tipo. In questo caso, come sottolinea Thompson, “il senso del momento presente non è più legato ad alcun luogo particolare” e la simultaneità diventa indipendente dalla compresenza. (Giaccardi – Magatti 2003: 38)

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Tutto ciò provoca, secondo Augé, un eccesso di spazio. Cioè una sorta di rimpicciolimento del mondo, che viene alimentato dalla sensazione di non essere estranei a ciò che accade dall'altra parte del mondo mentre si vive la propria quotidianeità. Questo soprattutto per via dei mass-media che comunicano nell'immediato qualsiasi cosa accada in ogni angolo della terra, trasportando il ricevente nel luogo dell'accaduto e rendendolo così partecipe. Una seconda conseguenza del mondo mediale secondo l'autore è l'eccesso di tempo, dovuto alla sovrabbondanza dei fatti trattati. L'ininterrotta successione di eventi staccati gli uni dagli altri, da una parte rende impossibile tracciare una continuità con ciò che precede e ciò che segue, e dall'altra porta a dare un peso accentuato al presente. L'eccesso di individualismo è l'ultima conseguenza presa in considerazione dall'autore: Nel nostro mondo mediale, ogni individuo è direttamente preso a testimone. Ognuno di noi è l'oggetto esclusivo dello sguardo di colui o di colei che si rivolge a noi dal piccolo schermo. L'accelerazione della storia e il restringimento del pianeta hanno qualche effetto, come si può immaginare, sui rapporti dell'individuo con se stesso. Contribuendo al vacillare dei punti di riferimento collettivi, essi suscitano ciò che si potrebbe chiamare una tendenza all'individualizzazione dei percorsi. (Auge 2000: 116-117)

Individualismo che può ritenersi insieme alla razionalità uno degli aspetti principali della modernità. Come sostiene Jedlowski infatti: L'enfasi sulla nozione di individuo […] ai suoi albori, nel Rinascimento, significò innanzitutto la rivendicazione dell'autorità della coscienza individuale, basata sull'esperienza e sul ragionamento, contro ogni pretesa di autorità fondata sulla tradizione. (Jedlowski in Tota 2001: 57) La modernità e il sistema economico che la caratterizza, immergono in un'esperienza soggettiva l'individuo, che una volta dissolti i vincoli collettivi tradizionali, si sente, nella ricerca continua della propria autoaffermazione, autonomo nel campo dell'etica e della morale. La moltiplicazione e la pluralizzazione dei mondi immaginari nei quali ogni individuo organizza la propria quotidianeità consolida una visione individuale della propria esistenza. 109


In questo senso si comprende come sia mutato il rapporto tra collettivitĂ e territorio nel tempo, anche se il superamento dei vincoli spaziali non vanno interpretati come un annullamento dello spazio locale concreto, ma piuttosto come un'indebolimento della sua rilevanza storica in seguito ad una sua ristrutturazione semantica. In altre parole, il territorio piĂš che scomparire perdendo senso, si trasforma acquisendone del nuovo attraverso l'interazione con dinamiche che lo trascendono.

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Conclusioni “C'è il rischio concreto che il mondo stesso diventi solo un insieme di punti da percorrere saltando da un luogo all'altro. La sola cosa che ci può salvare è la microlocalità, la curiosità e l'interesse per un luogo, la voglia di conoscerne la storia”. Marc Augé L'obiettivo principale del presente lavoro di tesi era quello di analizzare il rapporto tra il territorio in quanto spazio antropizzato, e i processi di costruzione identitaria inerenti agli individui che in esso vi abitano. Ovvero, quello di indagare se il legame tra il territorio e i suoi abitanti potesse andare oltre il mero presente, richiamando particolari significati connessi simbolicamente al vissuto storico e svolgendo così un ruolo attivo nelle diverse pratiche di appropriazione dei luoghi. Lo studio dell'evoluzione del concetto di cultura ci ha mostrato che non è possibile confinare una precisa cultura in un determinato territorio coincidente con una specifica popolazione, e che, inoltre, non è possibile considerarla come un sistema definito distinguibile nettamente da altri. Questo principalmente per via del fatto che il mondo attuale, grazie a Internet, ai media, al mercato e al progresso tecnologico, è percorso da flussi di persone, macchine, soldi, immagini e idee, che generano a loro volta strutture di significato svincolate da qualsiasi confine territoriale. In questo senso i significati circolano anche senza la gente, come ricordato da Hannerz, e sistemi di significato condiviso si possono sviluppare anche tra persone che vivono in luoghi molto diversi e distanti tra loro; per queste ragioni dunque i territori non possono essere considerati i contenitori delle culture. Da ciò ne è derivato che la popolazione di un dato territorio non può essere considerata omogeneamente, ma piuttosto come specchio di una frammentarietà culturale in cui individui e gruppi seguono proprie strategie di identificazione. 111


Lo studio del rapporto tra identità e memoria ha mostrato l'aspetto essenzialmente intersoggettivo della memoria. Vista la complessità della società attuale però, caratterizzata dalla mobilità sociale, dall'apertura ai vari flussi di cui pocanzi si è parlato e dal fatto che un individuo possa risultare contemporaneamente parte di più ambienti collettivi i cui interessi e i cui valori possono differire tra loro, non si può parlare di una memoria collettiva unitaria in seno ad una popolazione. Ne risulta piuttosto che anche la memoria, come la cultura, sia frammentata in molteplici quadri di riferimento. Questi ultimi corrispondenti ad una pluralità di memorie collettive, che possono pure sovrapporsi o scontrarsi, fanno sì che l'individuo sia il crocevia di più flussi collettivi di memoria. In altre parole l'identità individuale tende a basarsi sempre più sulla capacità del soggetto di autoriconoscersi e sempre meno sulla testimonianza della sua continuità fornita dalla collettività in cui vive. Detto questo, comunque sia, le ricerche condotte sul territorio hanno mostrato che esso si configura come un prodotto storico culturale. L'uomo si appropria del territorio in seguito al processo di territorializzazione, ovvero in seguito al suo controllo simbolico culturale e alla progressiva concreta trasformazione organizzativa che ne deriva. In questo senso al suo interno sono identificabili dei significati inerenti alla collettività e alla sua presenza nel tempo. Ciò che indebolisce il potenziale valore di ancoraggio identitario di questi significati è il fatto che il territorio non è considerabile come espressione di una cultura olistica, in cui gli individui sono integrati e formano una sorta di corpo unico che si muove secondo, spinte, credenze, ideali collettivi comuni. In questo senso assume rilevanza il parallelismo con la tesi di Halbwachs al riguardo della memoria collettiva

di un gruppo. Essa in sintesi ritiene la coesione e

l'integrazione di una collettività fondamentale per la reminiscenza comune, poiché, una volta persa l'unione, i singoli individui cancellano dalla memoria quei ricordi che consentivano loro di riconoscersi ed identificarsi in quanto gruppo. Attualmente dunque i riferimenti identitari non vengono cercati 112


esclusivamente nella dimensione locale, e il territorio, con la storia che lo ha contraddistinto, appare come una delle tante sfere di significato possibili. In questo senso il processo di statalizzazione del territorio prima, la globalizzazione poi, hanno provocato l'innesto di simboli e di significati nuovi in un quadro di simboli e significati consolidati nei singoli luoghi. L'interazione tra simboli che le singole collettività hanno costruito nel corso della loro storia e simboli estranei a questo processo, ha contribuito a mutare i valori attribuiti al territorio e collegabili all'originario processo di territorializzazione. Detto questo, l'indebolimento del legame tra uomo e contesto territoriale e l'importanza sempre più rilevante del contesto globale, ci aveva condotto ad un ipotesi di perdità valoriale del locale in favore di una sempre più crescente omologazione ai valori globali. Ci si era chiesti se aveva ancora senso, in un contesto sempre più globalizzato, parlare di locale. Gli esiti delle ricerche condotte e i vari contributi chiamati in causa hanno evidenziato una situazione in cui il fattore locale, più che dissolversi in una presunta omogeneità culturale, continua a conservare la propria particolarità grazie alla sua capacità di sintesi con cui elabora ciò che proviene dall'esterno. In questo senso il locale non subisce passivamente le logiche globali, ma le acquisisce negoziandone il significato in base al proprio contesto, le recepisce riformulandole sotto l'universo di significati propri. Quindi, seppur in differenti forme rispetto al passato, la differenziazione culturale e la specificità dei contesti risulta preservata. Inoltre i vari autori hanno sottolineato la rilevanza, dal punto di vista culturale, che assume il locale in quanto scenario della vita quotidiana e dell'interazione faccia a faccia. Nonostante dunque il locale non si possa considerare come una realtà culturale autonoma e chiusa in se stessa, esso nella sua apertura, continua a conservare la propria specificità e risulta inoltre influente nei processi di costruzione identitaria per via del suo ruolo di spazio vissuto. Dalla trattazione di alcuni indirizzi di studio che si sono concentrati sulla città come realtà culturale si è dedotto che il centro urbano non può essere colto nella sua totalità di microcosmo: da una parte per via delle innumerevoli 113


microrealtà interazionali che si formano al suo interno, dall'altra per via del suo non essere una realtà autonoma isolata ma strettamente connessa alle dinamiche sociali, politiche, culturali ed economiche che la oltrepassano. Per queste ragioni le ricerche condotte nei vari luoghi e gli esiti a cui si è giunti, prendono in considerazione l'impossibilità di cogliere nella loro totalità le dinamiche che contribuiscono a formare culturalmente l'area oggetto di studio. La ricerca sul campo, che mirava a riscontrare in alcune pratiche di appropriazione dei luoghi il ruolo attivo dei significati inerenti al legame collettività-territorio, ha prevalentemente mostrato una percezione della storia del territorio come materia di non appartenenza, come campo di studi degli storici e di chi di dovere. La vitalità del rapporto che lega l'insediamento ai suoi abitanti è parsa non andare oltre il mero presente. Soprattutto nei più giovani questo legame, che è il prodotto del percorso storico di appropriazione dello spazio che ha fatto si che il territorio fosse quel che è ora, risulta spezzato. I luoghi vengono considerati qualcosa di più di semplici punti spaziali nel momento in cui assumono rilevanza per la possibilità che offrono di concretizzare determinate pratiche sociali. In conclusione, comunque sia, l'estraneità di fondo riscontrata, non è da considerarsi come una perdita di senso dello spazio locale concreto. Il territorio in questo senso non si è trasformato in un elemento insignificante. Esso piuttosto assume nuovi significati in seguito all'innesto di simboli e significati altri, che trascendono la sua dimensione spaziale, e che in questo senso acquisendo rilevanza, provocano un indebolimento dei significati inerenti al vissuto storico che legano il territorio alla collettività. Il presente lavoro di tesi potrebbe essere sviluppato e i risultati raggiunti potrebbero essere rafforzati, concentrandosi su una nuova area di studio, approfondendo la ricerca sul campo, chiamando in causa ulteriori autori sulle tematiche sviluppate e avvalendosi del supporto di ulteriori metodologie di indagine.

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BIBLIOGRAFIA Per comodità di consultazione, sono stati uniformati i criteri di riferimento relativi alle citazioni in altri volumi. Generalmente, i numeri di pagina indicati sono riferiti all’edizione italiana dell’opera; in ogni caso viene comunque riportata tra parentesi quadre l'edizione in lingua originale. Se è possibile reperire dell’opera un’edizione elettronica on-line, viene fornito al lettore l’indirizzo http. Anderson, B. 1996 Comunità immaginate, Manifestolibri, Roma [ed. or. Imagined Communities: Reflections on the Origins and the Spread of Nationalism, London, 1983] Appadurai, A. 2001 La modernità in polvere, Meltemi, Roma [ed. or. Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, Minneapolis-london, 1996] Archetti, M. 2002 Lo spazio ritrovato. Antropologia della contemporaneità, Roma: Meltemi Editore Assmann, A. 2002 Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, il Mulino, Bologna [ed. or. Erinnerungsräume. Formen und Wandlungen des kulturellen Gedächtnisses, Munich, 1999] Assmann, J. 1997 La memoria culturale. Scrittura, ricordo e identità politica nelle grandi civiltà antiche, Giulio Einaudi editore, Torino [ed. or. Das kulturelle Gedächtnis: Schrift, Erinnerung und politische Identität in frühen Hochkulturen, Munich, 1992] Augé, M. 1996 Nonluoghi: introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano [ed.or. Non-Lieux, introduction à une anthropologie de la surmodernité, Paris: 1992] 2000 Il senso degli altri. Attualità dell'antropologia, Bollati Boringhieri, Torino [ed. or. Le sens des autres. Actualité de l'anthropologie, Librairie Arthème Fayard, 1994] Bauman, Z. 2005 Globalizzazione e glocalizzazione, Armando Editore, Roma [ed. or. The 115


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