Il doppio volto di Virginia Woolf

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ALMA MATER STUDIORUM - UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA FACOLTÀ DI LINGUE E LETTERATURE STRANIERE

Corso di Laurea in Lingue e Letterature Straniere Piano didattico: Esperto linguistico d’area per l’economia

IL DOPPIO VOLTO DI VIRGINIA WOOLF Prova finale in Letteratura Inglese

Relatore Prof. GINO SCATASTA

Presentata da CHIARA FIORI

Correlatore Prof. FEDERICO BERTONI

Sessione III Anno accademico 2010-11



INDICE

Introduzione

p. 1

Capitolo 1 Il Modernismo 1.1 Primo Novecento: un periodo di rivolgimenti

p. 3

1.2 I movimenti culturali: Modernismo, Avanguardie e il Vorticismo inglese

p. 4

1.3 Nuove forme di scrittura: il romanzo moderno

p. 7

1.4 Il flusso di coscienza o stream of consciousness

p. 9

Capitolo 2 Il Doppio 2.1 Il Doppio: origini

p. 12

2.2 Il Doppio e la cultura romantica

p. 14

2.3 Il Doppio nella cultura moderna

p. 19

Capitolo 3 Virginia Woolf 3.1 “La vita nella scrittura”

p. 25

3.2 L’alter ego di Virginia Woolf: la malattia

p. 31

3.3 Mrs Dalloway: Clarissa & Septimus come alter ego di V. Woolf

p. 37

Bibliografia

p. 46



Introduzione

Quando si parla di Virginia Woolf non si può fare a meno di citare la sua malattia, e di come questa abbia costituito un importante ruolo durante tutta la sua esistenza. La doppia identità della scrittrice è incentrata proprio qui: nella lotta interna fra sanità e follia, fra ciò che la rende complice di questo mondo e ciò che desta in lei ribellione e la fa spaziare in luoghi a cui solo ai malati è permesso inoltrarsi. E’ soprattutto nelle proprie opere che lei trasferisce questa doppia immagine di sé, poiché la scrittura rispecchia l’identità dell’essere umano e offre, talvolta, una realtà che risulta spesso sconosciuta. In tal modo scrivere aiuta a scoprire il proprio vero volto. In particolare, è con il romanzo Mrs Dalloway (1925) che l’autrice intraprende questo viaggio introspettivo. Qui parla di sé attraverso un doppio filtro, quello della persona sana rappresentato da Clarissa, e quello della persona malata, impersonificato da Septimus Warren Smith. Nel presente lavoro si esaminerà la questione sul doppio volto di Virginia Woolf a partire dall’analisi della sua vita, in particolare sul modo in cui la malattia ha influito sulla sua esistenza, e specialmente sulla sua letteratura. L’argomento, inoltre, ha introdotto ulteriori riflessioni. Nello specifico si è tracciato un quadro generale relativo al periodo storico e al contesto culturale in cui la scrittrice si è formata. Un’epoca, questa, che ricopre importanti avvenimenti, quali il decadimento degli ideali del vittorianesimo, i successivi sviluppi del Modernismo e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Come verrà spiegato nel primo capitolo, lo sviluppo del Modernismo ha apportato decisivi cambiamenti sul piano culturale, in particolare nella letteratura. Infatti, è proprio agli inizi del Novecento che si sperimenta un tipo di romanzo basato su nuove tecniche narrative, come il flusso di coscienza, il quale introduce una visione della realtà più soggettiva. Il tutto nasce da una diversa concezione della realtà che appare più frammentaria, così come l’identità dell’individuo che, scosso dall’esperienza bellica, cercherà di ricomporre i resti della propria esistenza. E’ soprattutto in circostanze di simile fragilità che la letteratura si interessa a temi come quello del Doppio, come si specificherà nel secondo capitolo. Tracciando il prospetto storico proposto da Massimo Fusillo si è giunti alla conclusione che tale motivo ricorre specialmente nelle opere pubblicate in epoche di precaria stabilità. Infatti, la perdita di certezze

provocherebbe un senso di alienazione nell’individuo rispetto alla realtà che lo

circonda. 1


In particolare, a partire dall’Ottocento si fa sempre più vivo l’interesse per le zone buie della psiche e la letteratura, di riflesso, affronta la questione attraverso storie che parlano di doppie identità, di alter ego che perseguitano l’Io “originale”. In tal modo la figura del Doppio, nella sua inquietudine e ambiguità, esprime la crisi della coscienza umana. Se nel XIX secolo questo tema è trattato soprattutto dalla narrativa fantastica, agli inizi del Novecento verrà affrontato da un punto di vista più introspettivo. Infatti, nella letteratura moderna, il Doppio si configura come veicolo di analisi psicologica e consiste, pertanto, nella fedele riproduzione dei processi mentali. Partendo dall’osservazione di Otto Rank, secondo cui molti di questi autori sarebbero accomunati da particolari patologie, si prenderà come modello di analisi la figura della scrittrice inglese Virginia Woolf. Come già detto precedentemente, nel terzo capitolo si analizzerà la vita della scrittrice cominciando dalla scrittura, perché è proprio qui che lei parla di sé. In seguito, si discuterà della sua malattia, attraverso la quale Virginia Woolf si ritrova di fronte una diversa immagine di sé. Infine, procedendo in questo verso, si esaminerà in che modo la doppia immagine di sé abbia influito nell’opera Mrs Dalloway.

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1. Il Modernismo

1.1 Primo Novecento: un periodo di rivolgimenti Il primo Novecento fu per l’Inghilterra un periodo ricco di importanti trasformazioni che coinvolsero non solo la sfera politica, ma anche e soprattutto quella sociale e culturale. Si trattò di una fase della storia del Paese in cui ogni certezza acquisita dal passato crollava, e la società inglese si apprestava ad assumere un nuovo volto. Come affermò la scrittrice Virginia Woolf nel dicembre 1910, questo fu il momento in cui “the human nature changed”1. La causa che contribuì maggiormente al cambiamento va ricercata negli eventi storici. La morte della regina Vittoria nel 1901 incise in modo definitivo sul lento declino della grande potenza imperiale inglese, messa sotto pressione dalle proprie colonie, le quali rivendicavano la propria indipendenza. Fu grazie all’azione politica di Edoardo VII, suo successore, che il Paese si riappropriò, almeno apparentemente, del primato economico, industriale e militare da sempre appartenutogli. Infatti, con la trasformazione dell’Impero in un insieme di nazioni indipendenti, associate nel Commonwealth, il sovrano riuscì a garantire il mantenimento dei legami economici e istituzionali fra la Gran Bretagna e le sue ex colonie, in particolare l’India. In questo clima di rivendicazione del potere imperiale, “la trionfante borghesia inglese […] poteva comprensibilmente pensarsi come eterna, protagonista di un mondo che aveva trovato i suoi perfetti equilibri. La prima guerra mondiale li spazzò via per sempre”.2 Infatti, l’avvento della Grande guerra ridimensionò il volto della società, fino ad allora, ritenuta perfetta e invincibile. Con la dissoluzione degli ideali del vittorianesimo e l’evento bellico, l’individuo veniva spogliato di tutte quelle certezze e di quei solidi punti di riferimento che lo avevano rassicurato e protetto fino ad allora. Furono anni di importanti rivolgimenti in cui la tradizionale società borghese “was undergoing a major transformation toward a qualitatevely new stage of modernity” 3 . Il sentimento di sconcerto, di alienazione e di confusione si tradusse presto in un nuovo modo di affrontare la realtà, e questo cambiamento si rifletté nelle opere di numerosi autori dell’epoca, i quali diedero vita alla fioritura letteraria degli anni Venti. E’ di questi anni la nascita del prestigioso circolo londinese del Bloomsbury Group, il quale esercitò una grande influenza sulla cultura modernista: dal campo dell’economia a quello della

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V. Woolf, Mr Bennet and Mrs Brown [1924], in A Woman’s Essays, Harmondsworth, Penguin, 1992, p. 70 P. Bertinetti, Breve storia della letteratura inglese, Torino, Einaudi, 2004, p. 241 3 A. Husseyn, After the Great Divide, Basingstoke, Macmillan, 1988, p. 164 2

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letteratura, giungendo all’elaborazione di teorie rivoluzionarie rispetto a quelle del secolo precedente. Bloomsbury fu essenzialmente la testimonianza che qualcosa nell’aria stava ormai cambiando, “fu l’invenzione di una nuova vita.” 4

1.2 I movimenti culturali: Modernismo, Avanguardie e il Vorticismo inglese Il nuovo modo di percepire la realtà aveva dato vita a nuove correnti culturali, a nuovi movimenti letterari e a nuove forme di pensiero non solo in Gran Bretagna, ma anche in tutta Europa. E’ il periodo in cui dilaga il fenomeno delle avanguardie artistiche e letterarie, il cui obiettivo comune è il rinnovamento generale delle forme. Sebbene l’esigenza di modernità fosse già stata avvertita nei decenni precedenti da personalità eccezionali quali Rimbaud con l’affermazione “Bisogna essere assolutamente moderni”, essa troverà ampia adesione nel primo Novecento. Nello specifico, sono state individuate due fasi della stagione modernista, divise tra loro dall’avvento della Prima Guerra Mondiale. La prima, prebellica, coincide con la fondazione della “Image school” di T. E Hulme (1907) e con i suoi sviluppi nell’Imagismo di E. Pound (1909-13), passando allo stadio più rivoluzionario espresso dal movimento vorticista. Si tratta di una fase sperimnetale in cui sono state elaborate le premesse per il grande rinnovamento operando, prima di tutto, una necessaria distruzione delle logore convenzioni del passato per poi partire da queste per la definizione di una nuova identità. La seconda fase, invece, rimanda al periodo postbellico, in particolare alla pubblicazione delle opere di T. S Eliot The Waste Land (1922) e di Joyce Ulysses (1922) per poi proseguire fino agli anni Trenta. Abbandonati i toni accesi e il carattere rivoluzionario che avevano accompagnato il primo periodo della stagione modernista, il secondo tempo è dedicato al consolidamento dei risultati ottenuti. Sin dal primo momento il Modernismo non ha mai interrotto i contatti con la tradizione, diversamente da quel che accade per le Avanguardie europee. Infatti, sebbene entrambi i movimenti professino il rifiuto dei valori della cultura borghese, ed esprimano la crisi e il disagio dell’uomo moderno, il Modernismo e l’Avanguardia manifestano atteggiamenti differenti rispetto al contesto in cui si sviluppano. Una certa confusione può nascere dal fatto che il Modernismo occupò in Gran Bretagna una posizione centrale nella cultura inglese, la stessa che in altre nazioni fu ricoperta dai movimenti d’Avanguardia. 4

Nadia Fusini, Possiedo la mia anima: il segreto di Virginia Woolf, Milano, Mondadori, 2006, p. 51

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Per quanto concerne l’ideologia modernista, questa intende “il nuovo in quanto sostituzione di ciò che è passato”5, non inteso come rottura completa da esso, ma come il prodotto di un regolare mutamento della storia; in altre parole, esiste un rapporto di continuità col passato e di rinascita da esso. E’ proprio attraverso il recupero del patrimonio storico6 che l’innovazione modernista prende corpo e si sviluppa nell’ ambito culturale, realizzando un vero e proprio rinnovamento. Nuovo vuol dire rendere nuovo “make it new” . E’ questo il motto usato da Ezra Pound per celebrare quegli anni di fermento sociale, culturale soprattutto in ambito artistico e letterario. Diversamente, il programma del movimento avanguardistico non parte dalla memoria storica, ma crea da zero. Per questo motivo esso rappresenta una vera e propria rivoluzione socio-culturale, in quanto il nuovo è inteso come rottura dal passato e quindi totale estraniazione da esso. Sentimento di opposizione e antagonismo, tendenza alla negazione e al nichilismo, sono questi gli elementi che caratterizzano l’Avanguardia del primo ventennio del XX secolo. E’ in questo periodo che si sono susseguiti vari fenomeni artistici i quali, attraverso i propri manifesti, proponevano nuove forme pittoriche in sintonia con il mutare dei tempi, distinguendosi dalle forme artistiche convenzionali. Nell’intento di uscire dai vecchi modelli, l'Avanguardia si propone come un’istituzione alternativa e aperta al lavoro collettivo, che è di per sé una sfida all'idea romantica del singolo individuo geniale. I movimenti d’Avanguardia erano formati da gruppi spesso in polemica tra loro, ma dalla critica e dal contrasto scaturiva una grande spinta creativa. Che si chiamassero cubisti, futuristi, espressionisti, surrealisti, dadaisti, gli artisti di questa generazione volevano cambiare tutto e le loro battaglie artistiche diedero una nuova impronta a tutta l'arte del Novecento. Dunque, come conseguenza del diverso modo di teorizzare il “nuovo”, i modernisti e gli avanguardisti avevano anche dato vita a espressioni artistiche differenti. Tra i due movimenti cambia, cioè, il concetto di arte. Infatti, se i modernisti insistono “sulla purezza della high art, sulla irrevocabile separazione tra arte e vita e sulla incolmabile distanza tra arte e politica”7, gli avanguardisti agiscono nella maniera del tutto opposta. Questi ultimi ribaltano il ruolo dell’arte all’interno della società borghese, rappresentando la realtà non in modo realistico, ma concependo ogni raffigurazione come una rivolta contro i convenzionali e, ormai vecchi, modelli artistici.

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Roberto Baronti Marchiò, Avanguardia e Modernismo: il vorticismo inglese. In Valerio Magrelli. Lezioni di Dottorato 2005, Santa Maria Capua Vetere, edizioni Spartaco, 2006, p. 164 6 Qui si fa riferimento al patrimonio culturale europeo ereditato da autori come Omero e Dante Alighieri, e non dai romantici. 7 Ibidem p. 168

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L’arrivo delle avanguardie, dal Futurismo al Post-impressionismo, diede un grande impulso al rinnovamento della cultura inglese, dove prese corpo il movimento vorticista fondato nel 1914 dal pittore Wyndham Lewis e dal poeta americano Ezra Pound con la pubblicazione della rivista Blast. La data di svolta potrebbe essere il 1908, ossia il momento in cui E. Pound arriva a Londra con l’intenzione di conquistare quell’ambiente letterario, e in cui T. E Hulme tiene le sue prime conferenze al club dei poeti di Londra, che lancerà “la scuola delle Immagini”. L’apporto di culture esterne al mondo anglosassone fu fondamentale per lo sviluppo del Modernismo. Esso non avrebbe preso forma senza il contributo offerto da Hulme, al quale si deve la diffusione delle idee di Bergson, di Sorel e di Worringer che incontrò a Berlino, ma anche quello offerto da Henry James e J. Conrad che si erano stabiliti a Londra prima del volgere del secolo, e ancora di Yeats arrivato da Dublino. Senza il fascino che H. James e Yeats avrebbero esercitato su giovani talenti come Pound, giunto da Filadelfia, passando per Venezia, o Eliot, venuto da St. Louis attraverso Harvard e la Germania, il rinnovamento non sarebbe stato possibile. In altre parole, fu l’influenza che la grande cultura europea esercitò su questi personaggi a determinare tutto questo. Infatti, a colmare il grande vuoto letterario e artistico che caratterizzava Londra in quel periodo, in contrapposizione alla propria ricchezza economica, fu piuttosto l’influenza tedesca, austriaca, francese e italiana8. Il Vorticismo, grazie alla raffigurazione di forme a vortice, intendeva esprimere il concetto di energia, forza e dinamismo; allo stesso tempo esso comunicava attraverso un nuovo linguaggio una miriade di emozioni. La sua forza era allegoria di un movimento artistico che cercava di prendere corpo durevolmente, implicava un lavoro di scavo nel mondo del passato e di ricostruzione da esso. La vera importanza ricoperta dal movimento vorticista, nato dall’incontro tra il Futurismo e la cultura inglese, sta nell’aver posto le basi per l’avvento del Modernismo il quale “prediligerà gli aspetti neoclassici a quelli dinamico-avanguardistici pur continuando ad usare tecniche e tematiche di origine vortico-futurista”.9

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H. Stuart Hughes affermò nell’opera “Consciousness and society”: “It was the Germans and Austrians and French and Italians- rather the Englishmen or Americans or Russians- who in general provided the fund of ideas that seem characteristic of our own time” 9 R. Baronti Marchiò, Avanguardia e modernismo: il vorticismo inglese, p. 201

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1.3 Nuove forme di scrittura: il romanzo moderno Il Modernismo creò un forte legame tra le varie espressioni artistiche; a Londra fu la pittura a guidare la rivoluzione delle forme. Le prime mostre di pittura misero in evidenza il carattere rivoluzionario dei pittori d’Avanguardia, in particolare, l’evento di maggior successo fu registrato dalla mostra londinese organizzata da Roger Fry, “Manet and the Post- Impressionists”, nel novembre del 1910- gennaio 1911, cui ne seguì una seconda nel 1912-13. La pittura, attraverso l’immagine, conferiva nell’immediato il distacco dai modelli convenzionali impiegati nella rappresentazione della realtà, più che della parola. Alle figure statiche si sostituiscono immagini dinamiche, con forme libere, deformate, frammentarie, riflesso di una società in crisi, disordinata in cerca di nuovi punti di riferimento. Dal canto suo anche la letteratura compie grandi passi verso l’innovazione delle proprie forme espressive. Come la pittura aveva abbandonato l’unicità dei punti di vista, così la linearità temporale del romanzo scompare per lasciare spazio a nuove tecniche narrative. Gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento sono stati per il romanzo un periodo cruciale per quanto concerne la sua evoluzione. In questi anni tutto cambia: il modo in cui i narratori concepiscono i propri personaggi, la frammentazione delle idee tradizionali di tempo e di luogo, l’uso di un linguaggio complesso, l’abbandono della trama tradizionale. In altre parole, vengono abbandonate le ormai antiche convenzioni letterarie di stampo vittoriano. Fu soprattutto il romanziere Henry James, rifacendosi alle lezioni di Flaubert e Maupassant, a negare le antiche strutture letterarie per narrare i fatti. Preso atto dell’esistenza di una nuova e più complessa realtà, il narratore moderno non potrà più servirsi dell’intreccio tradizionale e tanto meno affiderà il racconto al narratore onnisciente. Ora, la narrazione viene affidata al personaggio e alla sua visione del nuovo universo; in questo modo il racconto sarà il risultato dei suoi punti di vista, e non più quello unico del narratore tradizionale. Ci troviamo, dunque, di fronte ad una forma aperta di romanzo, e non più chiusa in una rigida struttura. Per quanto concerne il concetto di tempo, questo assume una nuova valenza in ambito letterario. Probabilmente il più grande cambiamento nelle forme di narrativa tradizionali riguardò la rottura delle divisioni temporali. Henri Bergson10, il pensatore più influente riguardo questa teoria, descrive il tempo come un flusso continuo in cui si innesta il pensiero individuale. In particolare, il tempo non conta nella sua misura assoluta, ma dipende dal modo in cui viene percepito nella nostra mente.

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Henri Bergson (1895-1941). Le teorie sul tempo da lui introdotte sono alla base dei romanzi di V. Woolf e J. Joyce.

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Le radici di questa rivoluzione letteraria affondano nella Russia di fine Ottocento; infatti, il grande romanzo classico russo servirà da modello nello sviluppo di una nuova linea di scrittura narrativa: nella Russia zarista si pongono le premesse per la realizzazione di una nuova tipologia di personaggio e di un nuovo rapporto con il tempo e con la storia, che si esprimeranno in maniera definitiva nelle opere narrative del Novecento. Invece, per quanto riguarda il concetto di luogo, nel romanzo moderno diviene centrale il ruolo della città come principale setting della storia. Già sfondo della vita borghese all’epoca della nascita del romanzo europeo, essa diviene parte integrante del testo. In questo scenario, i personaggi della storia sono i testimoni e i veri reporter che riprendono il paesaggio urbano in ogni suo aspetto, comunicandolo al lettore attraverso le proprie riflessioni e sensazioni; essi si muovono, così, all’interno della turbolenta città, ormai centro delle trasformazioni moderniste. Il nuovo tipo di romanzo che V. Woolf11 aveva in mente si basava proprio sulla rappresentazione dell’esperienza interiore del soggetto e della sua vita non secondo una trama ordinata di eventi, ma secondo la miriade di impressioni, pensieri e idee che si susseguono nella coscienza di una persona qualsiasi nel corso di una qualsiasi giornata. I pensieri che si rincorrono nella mente di un individuo non sono sempre pienamente formati e a volte possono essere contraddittori, incoerenti, irrazionali. Tuttavia la Woolf riteneva che anche questo aspetto fosse una componente intrinseca dell’essere umano, al pari della parte razionale. Aprire le porte della letteratura alla psicanalisi è stato l’esperimento adottato da numerosi scrittori nella prima metà del XX secolo, permettendo di allargare i confini della mente umana ad un mondo prima di allora del tutto inesplorato. Infatti, la possibilità di esplorare e analizzare i meccanismi della psiche e le zone buie del sub-conscio si rivelò un’interessante e stimolante alternativa al tanto disprezzato realismo. In questo periodo, la letteratura e la psicanalisi si sono mosse sullo stesso terreno, indagando aspetti riguardanti l’analisi della natura umana e le sue manifestazioni. Cosi come la letteratura e la critica letteraria hanno avvertito la necessità di ricorrere sempre più agli studi di Freud— come nel caso del surrealismo e degli scrittori del flusso di coscienza — allo stesso modo la psicanalisi si è rivolta all'opera di narratori e poeti per trovare conferma alle proprie teorie, con la consapevolezza, già 11

V.Woolf nel suo saggio Modern Fiction respingeva con decisione la corrente naturalistica di molti romanzieri inglesi suoi contemporanei tra cui J. Galsworthy, H.G. Wells e A. Bennett. La scrittrice riteneva, infatti, che essi si limitassero a dare una descrizione puramente esteriore dei propri personaggi, tralasciandone il lato interiore, fondamentale per cogliere la loro essenza. Così la scrittrice scriveva nel suo saggio dei tre autori: “If we tried to formulate our meaning in one word we should say that these three writers are materialists. It is because they are concerned not with the spirit but with the body that they have disappointed us, and left us with the feeling that the sooner English fiction turns its back upon them, as politely as may be, and marches, if only into the desert, the better for its soul.”

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espressa da Freud all'inizio del secolo, che essi siano alleati preziosi nella descrizione della vita interiore dell'uomo. L’influenza di Freud fu molto importante nel Modernismo. Da una parte egli condivideva la percezione degli scrittori che la mente dell’uomo fosse complessa; dall’altra, la consapevolezza di strati nascosti della coscienza e modelli ricorrenti dava alla vita un qualche significato. Le arti, in genere, sembrano essere strettamente legate all’inconscio. Ogni opera manifesta le pulsioni più profonde dell’autore, i suoi pensieri, seppure distorti, e gli stati d’animo più misteriosi che solo l’arte può portare alla luce, senza che questi vengano condannati in forma patologica, cioè in quanto malattie mentali. L’inconscio, così, non è più considerato una minaccia per la salute psichica, ma viene accettato e condiviso da tutti gli artisti in quanto fonte artistica e fonte di piacere per il pubblico. In un primo momento, gli psicanalisti hanno indagato sul rapporto conscio/inconscio applicandolo alla vita dello scrittore, cioè considerando l’opera in quanto rivelazione della psiche dell’autore, quindi dei suoi problemi, dei suoi stati mentali e delle sue paure. Analizzare un’opera partendo da questa prospettiva è sicuramente un atto imprescindibile per quanto riguarda la critica letteraria di impostazione psicanalitica, tuttavia non risulta il metodo migliore. Solo in un secondo momento, infatti, è stato propriamente valutato il contributo che i metodi di analisi retorica e di critica letteraria hanno offerto allo studio della letteratura. Secondo quanto appena affermato, l’inconscio produrrebbe nei testi effetti e meccanismi linguistici, o più specificatamente retorici e stilistici (es. metafore). In questo modo, l’inconscio che, servendosi di uno specifico linguaggio ci parla di testi letterari, non coincide solo con quello dello scrittore, ma prima di tutto con quello del lettore coinvolto nello stesso gioco di profonde pulsioni che l’autore inscena nella sua opera. La letteratura, così, diviene il mezzo per riscoprire il proprio mondo interiore e fare i conti con la parte repressa del proprio io.

1.4 Il flusso di coscienza o stream of consciousness Il romanzo moderno è caratterizzato essenzialmente da un procedimento che sovverte il predominio del discorso indiretto, sino ad allora principale strumento narrativo nella tradizione romanzesca attraverso il monologo interiore e il flusso di coscienza o stream of consciousness12. 12

Il flusso di coscienza o stream of consciousness è un’espressione coniata dallo psicologo statunitense William James, fratello del romanziere Henry, nel suo saggio del 1890 Principles of Psychology per definire il continuo scorrere di pensieri e sensazioni nella mente umana.

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Nonostante entrambe le tecniche narrative venissero utilizzate per mettere il lettore a contatto con la coscienza del personaggio da un punto di vista interno alla narrazione, esiste in realtà una differenza fondamentale tra le due. Il monologo interiore, inteso essenzialmente come autoanalisi del personaggio, si basa sull'associazione più o meno consapevole delle idee, mentre il flusso di coscienza o stream of consciousness vede la coscienza dell’individuo come un aggregato articolato e contraddittorio, dal quale emergono in modo incontrollato gli strati più profondi della psiche, con la continua associazione di parole, immagini e pensieri. Verso la fine del secolo la realtà fu sempre più localizzata nella coscienza privata e soggettiva dei vari io individuali, incapaci di comunicare agli altri la pienezza della propria esperienza. “The basis of the knowledge of every individual is his own current of consciousness, which is transformed into knowledge by reflection [...] Each man's experience is fragmentary, discontinuous, and narrow. We can only know of the feelings of others through our sensations. Each of us is an absolute unit, cut off by an impassable abyss from a direct knowledge of other consciousness. But we weave the whole universe out of the senses, which somehow indicate the various relations of bodies, and, through them, of other conscious being to ourselves. Time and space are the whorp and woof upon which is embroidered all the shifting scenary of consciousness. By means of it signals are thrown to us from other centres: our isolation ceases and our very thoughts are built up by the action and reaction of other mind.”13 La scrittura dei primi romanzi è legata a queste ossessioni , “una scrittura della vita caratterizzata da un' impressionante tessitura narrativa e autobiografica che letteralmente si tuffa nelle caverne della mente per misurare la consistenza evanescente di io e la conseguente precarietà del cosiddetto solid world”14. Da un punto vista filosofico, il romanzo basato sul flusso di coscienza è l’espressione letteraria del solipsismo, la dottrina filosofica che sostiene che nulla è con certezza reale eccetto la propria esistenza; tutto quello che l'individuo percepisce viene creato dalla propria coscienza. Di conseguenza, tutte le azioni e tutto quello che fa l'individuo è parte di una morale prestabilita dal proprio io, ubbidendo pertanto solamente a quello che quest'ultimo dice, al di là delle leggi prestabilite dal mondo esterno, quindi da altre soggettività. Contrariamente alle altre credenze, che hanno leggi e regole stabilite secoli addietro, il solipsismo si distingue in quanto le leggi da rispettare provengono direttamente dagli stati più interni dell'individuo, e pertanto hanno una credenza e una validità molto più veritiera di tutte quelle regole che altri individui avrebbero 13

Cit. in R. Bonadei, Disarticolando “IO”, V. Woolf e le stanze della scrittura in La tipografia nel salotto, Saggi su V.Woolf, a cura di O.Palusci, Torino, Tirrenia Stampatori, 1999 14

Ibidem.

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stabilito per conto nostro. In altre parole, tutti gli io hanno diversi modi d'approccio alla realtà, soggettiva e caratterizzata da diversi punti di vista. Questo relativismo, che caratterizza la cultura del Novecento a partire dall'età del Decadentismo, è il fondamento di una destrutturazione della conoscenza oggettiva del reale in tutti i campi; per esempio nel campo artistico questo comporta l’emergere della visione soggettiva del rappresentabile ed una riflessione sugli aspetti contrastanti, o comunque diversi, delle singole personalità. Pertanto, se nel Romanticismo la rappresentazione dell'individuo avveniva seguendo un modello, quello classico, che è razionale e basato su valori morali universali e su categorie assolute, la sua visione novecentesca frantuma definitivamente l'intima costruzione dell'identità personale. Tra i temi che si impongono in questa nuova visione della realtà si evidenzia quello del doppio, entità perturbante e inquietante al tempo stesso, che mostra un uomo fragile in un’incessante lotta con il proprio spaventoso alter ego, raffigurante la sua vera natura e i suoi istinti.

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2. Il Doppio

2.1 Il Doppio: origini I Doppi, i sosia, gli alter ego sono figure che hanno fatto sempre parte dell’immaginario collettivo. Essi sono gli ospiti indesiderati che dimorano nell’Inconscio umano e che si manifestano continuamente e spesso minacciosamente nella vita dell’uomo, perciò definiti come la controparte dell’Io. Per una definizione più appropriata, il termine Doppio “designa una vasta area tematica che ruota attorno alla messa in crisi di un personaggio attraverso l’incontro con un altro identico a sé.”1 Infatti, tale fenomeno abbraccia un panorama culturale molto vasto. Fonte di ispirazione in ambito letterario, e oggetto di studio in quello psicologico, il motivo del Doppio ricorre in numerose antologie che testimoniano la sua esistenza a partire dall’antichità. Come ha affermato Romana Rutelli:“se lo si considera da un punto di vista antropologico, il tema del Doppio è già presente nelle più antiche simbolizzazioni dell’anima, nei miti della natura gemellare, nei tabù dell’ombra e del riflesso: la sua origine si perde nella preistoria della speculazione sul mistero dell’uomo”2. Nel corso della storia la sua immagine ha attraversato diversi passaggi, divenendo un prodotto culturale ricco di implicazioni antropologiche e psicanalitiche. Seguendo l’analisi proposta da Fusillo3, si individuano essenzialmente tre fasi della storia di questo motivo, corrispondenti a tre diverse situazioni culturali o momenti narrativi. La prima fase coincide con la cultura classica, in cui la figura del Doppio è costellata da valenze magico- sacrali. Qui lo sdoppiamento avviene a causa di forze esterne, identificabili con gli dèi, che con violenza si appropriano dell’identità del soggetto. Come suggerisce Jean Pierre Vernant, l’immagine del Doppio proposta nella civiltà antica non è frutto di illusioni mentali, ma è un’entità presente, la quale sostituisce quella reale in un rapporto di similarità e di contiguità. Similarità perché la figura sdoppiata viene riprodotta fedelmente nell’aspetto, e di contiguità perché essa non viene percepita come semplice copia, ma come presenza effettiva. Lo stesso Vernant sostiene che il termine che più si avvicina all’idea di Doppio, inteso come sdoppiamento della stessa persona, è Eidolon che compare per la prima volta nel V libro dell’Iliade (secc. IX- VIII a. C) di Omero. In questo passo, Apollo, per mettere in salvo Enea dagli attacchi di 1

AA.VV, Dizionario dei temi letterari, Torino, UTET, 2006, p. 668 R. Rutelli, Il Desiderio del diverso, Napoli, Liguori, 1984, p. 11. 3 M. Fusillo, L’altro e lo stesso: teoria e storia del Doppio, Scandicci, La nuova Italia, 1998, pp. 22-23. 2

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Diomede, costruisce un Doppio simile all’eroe troiano che continua la battaglia al posto suo. Seppur lontano dalla concezione tipica della cultura otto- novecentesca, questa rappresentazione si avvicina molto alla poetica barocca. Infatti, in comune con quest’ultima c’è la contrapposizione tra due mondi: uno reale, l’altro ingannevole. Qui il Doppio è un inganno creato dagli dèi che riflette perfettamente il mondo reale. Oltre Omero, anche Euripide riprende l’idea di un Eidolon creato dall’inganno degli dèi. Nella sua opera Elena (412 a. C), l’autore si rifà ad una variante del mito che risale al poeta lirico Stesicoro (sec. VI a. C) secondo cui a Troia non si sarebbe recata la vera Elena, ma un suo fantasma, capace persino di ingannare Paride. Il risultato è quello di un dramma basato sul contrasto fra apparenza e realtà, sullo sdoppiamento dell’eroina fra la propria fama d’adultera e la propria natura monogamica. Prende avvio, così, una costante che accompagnerà il motivo del Doppio per tutto l’arco della sua lunga storia: il conflitto fra modelli comportamentali opposti, accettati o rifiutati dal codice morale dominante. Se in tutte queste storie il personaggio reale non ha mai incontrato il suo Doppio, nell’Anfitrione di Plauto (av. 184 a. C) si riscontra questo nuovo elemento. Invaghitosi della mortale Alcmena, Giove scende sulla Terra accompagnato da Mercurio; per ottenere lo scopo essi assumono le sembianze rispettivamente del marito Anfitrione e del suo schiavo Sosia. Lo spettatore conosce sin dall’inizio l’inganno, non manca, comunque, l’effetto perturbante del Doppio. Inoltre, soprattutto nella scena iniziale fra Mercurio e Sosia si trovano già alcuni caratteri tipici della successiva tradizione del Doppio: crisi d’identità, perdita della razionalità associata a follia, ubriachezza, sogno, frammentazione del corpo e motivo dello specchio. L’Anfitrione ha conosciuto una vasta fortuna moderna, restando per secoli il testo per eccellenza del Doppio. Per quanto riguarda la seconda fase della storia del doppio, essa si colloca nella cultura barocca. In questa situazione narrativa sono presenti due personaggi diversi, ma identici nell’aspetto: è il caso della “somiglianza perturbante”4. Il Seicento è un’epoca caratterizzata da confusione, metamorfosi e alterità della propria identità , in cui la letteratura barocca stravolge la teoria filosofica del Cogito pronunciata da Cartesio, e in cui i confini tra realtà e finzione diventano labili. In una situazione culturale dominata dalla logica dell’instabilità, dall’inganno dell’apparenza e dall’ambiguità delle passioni, il tema del Doppio sembra trovare terreno fertile su cui svilupparsi. A differenza della prima situazione, questa volta il rapporto fra le due metà è diverso. Infatti, mentre nell’antichità classica l’identità del soggetto viene usurpata con violenza da forze esterne,

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Ibidem p. 22

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implicando così una netta contrapposizione fra protagonista e antagonista; nella cultura barocca le due metà sono poste sullo stesso piano. In letteratura, i generi più diffusi sono il teatro e il romanzo. Per quanto riguarda quest’ultimo genere, l’opera che riscosse maggior successo fu il Calloandro fedele (1653) di Giovanni Ambrosio Marini. Qui, il caso di somiglianza riguarda una coppia di amanti (Calloandro e Leonilda) continuamente confusi l’uno con l’altra per via dell’armatura cavalleresca; allo stesso tempo, inoltre, vengono sviluppati temi paralleli come l’androginia, il narcisismo, il ritratto, il travestimento. La somiglianza dei due personaggi è marcata, inoltre, dalla stessa data e ora di nascita, accompagnata dallo stesso prodigio atmosferico. Nel romanzo di Marini, così come nelle opere contemporanee, tutto è incentrato sul trionfo della coppia, ma soprattutto sul fatto che essa sia costituita da due amanti sosia: idea che stravolge in partenza il topico sentimentalismo eterosessuale, introducendo un’inedita esaltazione del narcisismo5. La terza situazione narrativa che cita Fusillo, relativamente al tema del Doppio, riguarda la duplicazione dell’io. In questo caso ci si trova di fronte allo sdoppiamento di un’unica identità, in altre parole, si tratta della presenza di due personaggi che incarnano la stessa persona. Questa tipologia di Doppio è tipica della cultura romantica e moderna e del rispettivo interesse verso ogni forma di patologia mentale, attenzione, questa, suscitata dal crescente peso esercitato dalla psichiatria sulla società.

2.2 Il Doppio e la cultura romantica Sin dalla fine del Settecento, la nascita della scienza psichiatrica aveva contribuito all’approfondimento del tema sul doppio, specialmente nel campo della narrativa fantastica. E’ in epoche come questa, in cui lo sviluppo scientifico e tecnologico6 ribaltano la realtà sociale, che tra 5

Si veda M. Fusillo, L’altro e lo stesso: teoria e storia del Doppio, Scandicci, La nuova Italia, 1998. Il fenomeno del doppio è legato all’assetto narcisistico primario del soggetto. La letteratura sul doppio mostra come ogni forma di rapporto sia caratterizzato da una profonda ambivalenza, e implichi sempre una proiezione di parti del sé: quella confusione espressa fra altro e stesso che è stata espressa per la prima volta nel mito di Narciso. Nel mito di Narciso ciò che emerge è soprattutto l’illusione provocata dalla superficie specchiante dell’acqua: per gli antichi lo specchio era luogo di proiezione simbolica, che poteva deformare l’identità riproducendone i lati rimossi. Il desiderio di Narciso è prodotto dall’inganno dell’apparenza. Si distingue tra Narcisismo primario, insito in ogni essere umano come un naturale attaccamento all’esistenza, e narcisismo secondario e patologico, fonte di diverse nevrosi. 6

Si veda M. Bradbury, The social context of Modern English literature, Oxford, Basil Blackwell, 1971. L’avvento della rivoluzione industriale aveva segnato un’importante svolta storica, provocando allo stesso tempo un certo malessere sociale. Da una parte l’industrializzazione aveva aumentato la ricchezza della società con la creazione

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gli individui si avverte un profondo senso di alienazione e di smarrimento, da cui deriva una crisi della soggettività. In altre parole, cambia il rapporto tra soggetto e realtà percepita, una realtà complessa, articolata e in continua evoluzione. Sulla base di tali premesse si registra una vera e propria attrazione nei confronti del soprannaturale e di tutto ciò che suscita mistero, ma soprattutto verso tutto ciò che prima ci si era rifiutati di indagine: le zone buie della psiche umana. A partire dal Romanticismo, la scienza ha aperto molte strade nello studio e nell’analisi del comportamento dell’essere umano con i primi studi di ipnosi e di “psicologia”, considerati un’arma potente per indagare i recessi della mente. In questo contesto, in cui la rivoluzione industriale viene vista come una forza esterna che provoca una perdita d’identità nell’individuo e di conseguenza il suo sdoppiamento, lo stato selvaggio dell’Inconscio viene associato a quello di malvagio a causa della minaccia sollevata dai valori del razionalismo, degli ideali di progresso e della perfezione umana. L’ossessione romantica dell’irrazionale ha trovato la sua resa simbolica nell’idea di fato: i protagonisti coinvolti negli scritti dei romantici, che spesso sono l’incarnazione di forze oscure insite nelle loro stesse nature, attribuiscono la loro possessione alla misteriosa opera del destino, con cui non sono in grado di competere. Il grande progresso esercitato dalla scienza in quegli anni ha permesso di contenere e ordinare l’emergere di stravaganti fantasie e immaginazioni, fornendo spiegazioni a proposito dei meccanismi della mente umana in maniera realistica e razionale. Queste osservazioni non rimasero confinate alla parte razionale, alla parte cosciente della psiche, ma finirono, con Mesmer, per riguardare anche la parte nascosta della mente umana. Inoltre, nell’Ottocento il tema del Doppio è strettamente connesso con il conflitto morale, con il problema del male e del libero arbitrio. Se Agostino aveva parlato di due differenti volontà che si contendono l’unica e indivisibile anima, Hoffmann parla di una forza che prende possesso dell’uomo, assumendone l’aspetto: la forza oscura è la nostra immagine riflessa, una sorta di fantasma che si appropria della nostra identità7. L’interesse per questo tipo di Doppio è motivato dal moralismo che caratterizza il XIX secolo, che mira a reprimere tutto ciò che è immorale. In campo letterario, è

lo scrittore Jean Paul Richter a introdurre il tema del doppio nel

Romanticismo. Figura di passaggio tra ‘700 e ‘800, egli fu il pioniere di questo motivo letterario in di nuovi impieghi di lavoro, comportando un accrescimento della popolazione nei pressi delle industrie. Il risultato fu la nascita di metropoli. Dall’altra parte, però, tutto questo ebbe un grosso peso sulle persone. Infatti, sebbene il progresso tecnologico avesse dovuto dare maggiore sicurezza agli individui, al contrario, si manifestò in alcuni di essi un senso di alienazione e di incertezza. L’uomo trova difficile definire la propria natura, in quanto la sua identità appare complessa come lo è la realtà che lo circonda. 7 Quest’idea deriva da Mesmer e dal suo magnetismo animale.

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Germania. Col termine Doppelgänger Jean Paul designava un secondo individuo o alter ego che si presenta come un essere distinto e separato, percepibile ai sensi fisici, ma legato da una forte relazione con l’originale. Spesso, ma non sempre, i due sono fisicamente identici8. Il potere psicologico di questa figura è da cercarsi nella sua ambiguità, più specificatamente, nel fatto che egli proietti su di sé la soggettività dell’individuo originale e che, a volte, riesca persino a dominarlo. In realtà, l’immagine del Doppelgänger può manifestarsi sotto diversi aspetti. In alcuni casi esso è rappresentabile come una coppia di individui che insieme formano un’unità, ma che individualmente appaiono come una metà, l’una dipendente dall’altra; in altri, invece, si parla di “quasi- doppio”, cioè di un personaggio che ha una propria vita autonoma dall’originale, ma che spesso riflette aspetti interiori dell’originale in maniera più marcata. Quest’ultimo può essere opposto, complementare o, più spesso, si tratta di personaggi le cui differenze riflettono ostilità e conflitto e, allo stesso tempo, mutua dipendenza e destini interconnessi9. E’ in Germania, col dramma romantico e con le sensazioni di terrore del Schauerroman che il Doppio, nella sua accezione soprannaturale, affonda le proprie radici. Tutte le principali figure della cultura tedesca fra Settecento e Ottocento affrontano questo tema. Che si tratti di un sosia in carne e ossa o di un’immagine autonoma che si sdoppia dall’Io (ombra, riflesso, ritratto), in ogni caso si tratta di due forme legate fra loro dalla medesima sfera psichica, contrapposte sul piano figurativo. La figura del sosia, in quanto strumento narrativo, è presente nel mito prima ancora che nella letteratura. Agli occhi del protagonista, la visione di un Altro simile a lui nell’aspetto genera, nella maggior parte dei casi, terrore e inquietudine; in altri, la storia assume una piega comica. Come spiega E. Funari: “Il sosia manifesta funzioni narrative differenti: di alleato (l’angelo custode), di oggetto d’amore (Narciso), di rivale, oppositore o comunque persecutore (Giove che si tramuta in Anfitrione; voce del rimprovero personificata in William Wilson di E.A Poe) nei riguardi del protagonista stesso” 10. Inoltre, egli ammette che: “Entro l’istituzione letteraria, il fenomeno del sosia è apparso come una delle più antiche e inquietanti manifestazioni della pazzia. In epoca di medicalizzazione della follia, essenzialmente nel secolo scorso, gli psichiatri descrissero soprattutto due distinti fenomeni che rappresentano una sorta di equivalente 8

Cfr. J. Herdman, The Double in Nineteenth- Century Fiction, Basingstoke, Macmillan, 1990, p.14 Il Doppio può esprimere contrasto o opposizione, ma anche somiglianza. Sia Freud che Rank ammettono l’avvento di una trasformazione nella figura del Doppio. Prima della sua accezione negativa, tipicamente romantica e moderna, tale immagine aveva una funzione protettiva, in seguito divenuta persecutoria. La svolta sarebbe avvenuta in epoca romantica, anche se la sua funzione protettiva non scompare totalmente nella letteratura moderna. Il caso più rilevante è forse quello del Doppio conradiano in The Secret sharer, dove il sosia, un misterioso individuo emerso dalle tenebre, si fa tutore dell’eroe di questa storia, il giovane capitano. Agendo in qualità di modello positivo, il suo alter ego lo aiuta nell’affrontare le sue incertezze e a giungere al più forte dominio di sé. 10 E. Funari, Il Doppio: tra patologia e necessità, Milano, Raffaello Cortina, 1986, p. 65 9

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psicopatologico delle situazioni narrative sopra indicate. Come autoscopia venne designata la possibilità di allucinare o immaginare il proprio corpo duplicato nel mondo esterno. Come personalità alternante venne invece considerata la metamorfosi subita da certi soggetti, che sembrano cambiare temporaneamente e accessualmente il loro carattere e la loro personalità. Potremmo dire che Goljadkin (ne “Il Sosia” di Dostoevskij) o “William Wilson” di Poe presentavano il fenomeno dell’autoscopia; il dottor Jekyll sarebbe più vicino alla personalità alternante”11.

Un ulteriore contributo alla descrizione della figura del sosia è offerta da O. Rank: “Ci imbattiamo sempre in un’immagine che somiglia minuziosamente al protagonista: nel nome, nella voce, nell’abito, e che, “quasi rubata da uno specchio” (Hoffmann), nella maggioranza dei casi si fa avanti proprio attraverso lo specchio. Il Doppio si contrappone di continuo all’Io. La situazione precipita di solito nel rapporto con la donna, ha una svolta con l’uccisione del persecutore, si conclude con il suicidio. In alcuni casi viene complicata dall’insorgere del delirio di persecuzione; in altri ancora il delirio è al centro del racconto e si evolve in una vera e propria follia paranoica” 12.

Tra i vari autori che affrontano il topos del Doppio nell’Ottocento, il più famoso è sicuramente E.T.A Hoffmann, la cui opera più importante è Gli elisir del diavolo (1815-16) in cui un caso di eccezionale somiglianza tra due personaggi provoca una certa confusione. Il monaco Medardo e il conte Vittorino sono figli dello stesso padre, senza saperlo. Come lui, entrambi soffrono di gravi disturbi psichici, ed è proprio il problema psicologico l’elemento principale del romanzo. A seguito di una grave caduta Vittorino crede di essere Medardo, e la sua convinzione è talmente forte al punto da esprimere con chiarezza gli stessi pensieri del fratello. A sua volta, quest’ultimo crede di sentire parlare se stesso e di percepire il suo pensiero più profondo come una voce proveniente dall’esterno. Inoltre, la presenza di un frate cappuccino pazzo rafforza la convinzione in Medardo di avere un sosia malato. Il tema affrontato da Hoffmann in questo romanzo è stato poi rielaborato da Dostoevskij nell’opera Il Sosia che è stato sviluppato in relazione con quello della rivalità per la donna amata. Il grande contributo offerto da Hoffmann sta nell’aver portato a maturazione l’idea di un secondo sé avanzata da Jean Paul Richter nella sua formulazione di Doppio, in altre parole, nell’aver saputo trasferire la componente ostile presente in ogni individuo in un’altra figura fisica, che può essere reale o immaginaria. Un altro autore che affronta questo motivo è E.A Poe nel racconto William Wilson (1839). William Wilson, il protagonista di questa storia, negli anni della sua fanciullezza incontra a scuola un suo 11 12

Ibidem p. 66 O. Rank, Il Doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, Milano, Sugarco, 1979, p. 49

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sosia. Con lui non ha in comune solo il nome e la data di nascita, ma anche l’aspetto fisico e il modo di comportarsi, tanto che i due sembrano gemelli. L’unico elemento che li distingue è la voce che non può superare il bisbiglio, ma che è comunque identica alla sua per tono e accento. In questa incredibile somiglianza col protagonista, il suo sosia diventa il suo più fedele amico, ma anche il suo più temuto rivale. In particolare, ciò che più manda in collera Wilson è il fatto di condividere il suo stesso nome con un’altra persona. Inoltre, nel tentativo di fuggire da scuola, cercare di scampare alla presenza del suo omonimo pare alquanto impossibile. A Roma, durante un ballo il maschera, avviene l’incontro finale tra i due personaggi. Nella maschera vestita esattamente come lui, Wilson riconosce il suo Doppio, lo trascina in una stanza e lo sfida a duello. Dopo una breve lotta il suo sosia muore con una spada infilzata nel cuore. In quell’attimo la situazione cambia totalmente. Infatti, la figura da lui colpita non era nient’altro che il suo riflesso, la sua immagine che lentamente periva: colpendo il suo rivale, Wilson aveva ucciso se stesso. Il dialogo tra i due termina così: “Tu hai vinto, e io cedo. Tuttavia, da questo momento anche tu sei morto, morto al mondo, al cielo, alla speranza!Tu esistevi in me e, nella mia morte, lo puoi vedere da questa immagine che è la tua, tu hai per sempre assassinato te stesso”13. Queste ultime parole pronunciate dal sosia confermano la presenza di una parte rivale nel vero William Wilson, che si è sdoppiata ed è diventata autonoma, ma soprattutto una vera e propria persecuzione. Se in quest’opera “[...] le alterazioni mentali del narratore protagonista fanno emergere più volte la logica simmetrica dell’Inconscio, eliminando i confini tra altro e stesso”14 ne Il Sosia (1846) di F. Dostoevskij tale operazione è molto simile, ma coinvolge tutto il testo. Come nota Fusillo: “In Dostoevskij abbiamo un narratore che si presenta come estensore della veridica storia del suo protagonista, ma che assume a tal punto il linguaggio, il pensiero, le emozioni, da produrre un racconto in cui la linearità e la limpidità dell’enunciazione sono totalmente compromesse: un racconto nervoso, franto e frammentato come la psiche del suo eroe”15. L’opera gode di un’eccezionale introspezione psicologica nel modo in cui l’autore descrive l’irrompere di una grave malattia psichica in un uomo che ne è consapevole e che vive tutte le sue dolorose esperienze in modo paranoico, attribuendone la responsabilità alla persecuzione dei nemici. Il protagonista del romanzo è il consigliere titolare Jakov Petrovich Goljadkin, che lentamente scivola nella follia più totale. Goljadkin è innamorato della figlia del proprio superiore, Klara Olsufevna e, dopo essere stato vergognosamente cacciato da una festa presso il palazzo di lei, 13

Ibidem p. 42 M. Fusillo, L’altro e lo stesso:teoria e storia del Doppio, p. 282 15 Ibidem p. 282 14

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incontra una curiosa figura che non solo gli somiglia fisicamente, ma porta anche il suo stesso nome, oltre ad aver vissuto la sua stessa storia e provenire dal suo stesso paese. Questa lo segue dovunque, ed è presente specialmente nelle situazioni più goffe e imbarazzanti, sempre pronto a umiliare ulteriormente il protagonista della storia. Questo Goljadkin-junior, come lo chiama l'autore, si rivelerà infatti un vero e proprio antagonista di Goljadkin-senior: lo metterà in ridicolo davanti a tutti i colleghi e otterrà la fiducia delle persone più autorevoli della società pietroburghese a discapito del vero protagonista, che nel tentativo di salvaguardare la propria dignità e mettere in cattiva luce il suo nemico, perderà ogni briciolo di considerazione da parte di tutti. Il racconto termina allorché Jakov Petrovich è attirato con l'inganno ad una festa, dove in realtà lo attende il medico Rutenspitz per portarlo in un istituto d'igiene mentale: il sosia del signor Goljadkin si rivela essere una mera proiezione di determinati aspetti della coscienza di questi. In quest’opera l’idea della persecuzione produce un rapporto di causa- effetto con l’irrompere della pazzia. Infatti, la continua presenza del Doppio nella vita di Goljadkin scombina e altera la sua identità, la sua immagine, e questo conduce il protagonista alla follia. D’altronde, come nota O. Rank nel suo saggio, “l’emergere improvviso di una figura di sosia è, dal punto di vista psicoanalitico, un’invasione d’inconscio”16. Tale invasione non può che causare turbamento, terrore e appunto, come in questo caso, pazzia. Da ciò che emerge dai romanzi sopra citati, i motivi che ricorrono in questo genere di opere sono “[...] la comparsa di personaggi che, avendo uguale aspetto, debbono venire considerati identici; l'accentuazione di questo rapporto mediante il salto di processi mentali dall'una all'altra di queste persone, così che l'uno è compartecipe del sapere, del sentire e delle esperienze dell'altro; l'identificazione con un'altra persona sì da dubitare del proprio Io o da sostituire al proprio Io quello estraneo, e quindi un raddoppiamento dell'Io, una suddivisione dell'Io, uno scambio dell'Io; [...] il costante ritorno dell'uguale, la ripetizione degli stessi tratti del volto, degli stessi caratteri, degli stessi destini, delle stesse azioni delittuose, e perfino dei nomi attraverso parecchie generazioni successive.”17

2.3 Il Doppio nella cultura moderna Verso la metà del XIX sec. il motivo del Doppio perde di importanza, soprattutto a causa della graduale mancanza di credibilità a proposito delle teorie pronunciate dagli psicologi romantici Mesmer e Schubert.

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O. Rank, Il Doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, p. 12 S. Freud, Il perturbante, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, vol.1, Torino, Boringhieri, 1979, p. 286

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Nell’ultimo quarto di secolo, una nuova spinta verso questo interesse proviene dagli studi di nuovi psicologi francesi, influenzati a loro volta dal lavoro svolto dai propri predecessori in età romantica. Le ricerche sulla psiche a partire dalla fine dell’Ottocento rivelarono l’esistenza di una seconda personalità incessantemente in lotta con la prima. Uno fra gli studiosi che si occupò della questione fu C. G. Jung, il quale ipotizzò l’esistenza di un’entità costantemente presente all’interno di ogni individuo, coincidente con l’Inconscio18. Diversamente dai romantici, gli studiosi di fine secolo cessarono di formulare giudizi morali sui propri pazienti, idea ritenuta impensabile nella tradizione del doppio soprannaturale, in quanto strumento fondamentale per la cosiddetta “psicologia morale”. La differenza tra i primi e questi ultimi sta essenzialmente nella separazione fra morale e personalità, da cui deriva una duplice tendenza nell’interpretazione di questa figura. Così, alla fine del secolo, si ha un duplice modo di interpretare questa figura: da una parte la visione allegorica; dall’altra la visione clinica. Sulla scia degli studi condotti dalla nuova scuola di psicologi, gli scrittori di fine Ottocento e inizio Novecento sperimentano nuove strade. Rispetto all’eredità romantica, una marcia in più proviene proprio dall’introduzione della psicanalisi, che offre un profilo antropologico della figura del Doppio basato su studi scientifici. Ne consegue l’impiego di un nuovo tipo di comunicazione: il metalinguaggio, unica strada possibile, imboccata da Freud e dal suo allievo Rank nella stesura dei rispettivi saggi. L’analisi psicanalitica come la letteratura istruiscono, attraverso favole e romanzi, casi che si possono definire clinici; il primo protagonista coinvolto è l’uomo, coprotagonista il suo alter ego.19 Per quanto concerne il Doppio in letteratura, più in generale i temi del fantastico nella letteratura novecentesca, questi subiscono importanti trasformazioni, “diventando materiale da riuso, quasi citazione di secondo grado.”20 Se i componimenti di fine Ottocento sono caratterizzati dal riemergere dell’elemento gotico, e con esso le ossessioni legate all’identità, nei primi decenni del Novecento il romanzo affronta il tema del Doppio attraverso una diversa chiave di lettura, più introspettiva e volta ad indagare i moti interiori dell’animo umano, da cui emergono doppie personalità e scissioni. “During the Eighties and Nineties of the last century duality underwent a revival [...] a hunger for pseudonyms, masks,

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Karl Miller afferma che: “The old psychiatry had cultivated the idea of an unconscious mind, and an incidence of sub personalities within the individual: Freudianism did this too [...]. Both psychiatries assigned autonomy to personality parts. [...] Like the psychiatry which preceded it, with its infusions of romance, psychoanalisys sought the misterious secret, the forgotten grief which might be restored to consciousness at a time of crisis.”(Karl Miller, Doubles: studies in literary history, Oxford ; New York : Oxford University Press, 1987, p. 331) 19 Cfr. A. Riem, Il seme e l’urna:il Doppio nella letteratura inglese, Ravenna, Longo editore, p. 24 20 M. Fusillo, L’altro e lo stesso:teoria e storia del Doppio, p. 316

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new identities, new conceptions of human nature, declared itself. Men became women. Women became men. Gender and country were put in doubt [...].”21 L’opera che segna il passaggio tra i vecchi romanzi di inizio ‘800, caratterizzati da casi di sdoppiamento della coscienza, e i nuovi di fine secolo è Le Horla (1887) di Maupassant. Qui l’autore interiorizza e rende implicito lo sdoppiamento. Il protagonista della vicenda narra, attraverso il suo diario, la propria insofferenza causata da angosce notturne che lo perseguitano nei sogni e resistono ad ogni rimedio. In particolare, egli si convince dell’esistenza di uno spirito misterioso, l’Horla, che vive dentro e accanto a lui. Nel tentativo di liberarsi da questa persecuzione decide di rinchiudere a casa l’Horla con porte e finestre di ferro e, infine, di dare fuoco all’abitazione. Purtroppo, non convinto di essersi liberato definitivamente dello spirito, l’unica soluzione gli appare il suicidio. Ancora una volta la morte, destinata al Doppio, ricade sul protagonista, il quale è sempre più convinto della scissione della propria personalità. Nel racconto di R.L. Stevenson Dr. Jekyll and Mr. Hyde (1886), invece, lo sdoppiamento è contaminato col tema della metamorfosi, mentre ricompare il motivo della dissociazione di personalità. Congiuntamente al romanzo di O. Wilde The picture of Dorian Gray (1890), entrambe le opere stabiliscono un contatto particolare con la realtà. In particolare, si denota in modo drammatico la perdita di fiducia nei confronti dell’epoca vittoriana22. L’instabilità, provocata dal contesto storico-sociale si riflette attraverso le opere degli artisti che, servendosi dei propri personaggi, manifestano il proprio disagio. La perdita di ogni certezza equivale alla perdita della propria identità. Inoltre, il pessimismo che domina nel Dr. Jekyll and Mr. Hyde sembra anticipare la visione più moderna e meno rassicurante in cui “l’evoluzione cede il passo alla devoluzione.”23 Il racconto di Stevenson è incentrato sulla presenza di una figura scissa, quella del Dr Jekyll che, in seguito ad un esperimento scientifico, ha creato un altro sé, Mr Hyde. In questo caso, l’atto di divisione è avvenuto coscientemente e volontariamente da parte del Dr Jekyll, ma sarà impossibile per lui poter ricongiungere il mostro da lui creato, Hyde, raffigurante la sua controparte. Come nel romanzo di O. Wilde, The picture of Dorian Gray, la riunificazione sarà possibile esclusivamente tramite il suicidio del protagonista, dunque la morte è l’unica “chiave di salvezza” per potersi liberare della parte “scomoda” dell’Io.

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K. Miller, Doubles: studies in literary history, Oxford ; New York : Oxford University press, 1987, p. 209 Vedi cap. 1 23 A. Calanchi, Quattro studi in rosso : i confini del privato maschile nella narrativa vittoriana, Cesena : Il ponte vecchio, 1997, p. 119 22

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L’uccisione del proprio Doppio rappresenta per l’individuo una sorta di protezione dalla persecuzione del proprio io, ma in realtà si tratta di suicidio, reso indolore dal pensiero che sia un altro a morire. Come è stato notato in questo paragrafo, il tema del doppio è allegoria di un mondo in lento declino, una società che vive un momento di disagio esistenziale, manifestato nei romanzi, ma anche in poesia, dagli artisti del momento. In seguito a questa osservazione, si deduce che il continuo riemergere di questo topos in ambito letterario coincida con momenti di crisi della società, vissuti in periodi storici ambigui. In particolare, Fusillo indica alcune costanti che affiorano nella letteratura del Doppio, tra cui: “la crisi della lettura razionale del reale e dello spaziotempo, che produce l’incrocio con temi paralleli come la follia, il sogno, l’allucinazione e la droga [...]; il conflitto tra istanze psichiche opposte e la scomposizione dell’identità [...]; la dissonanza tra io e mondo, tra il protagonista e l’universo sociale[...]; e infine una netta predilezione per i generi ibridi e riflessivi (quindi in fondo sdoppiati), come la tragicommedia e il metaromanzo, e per le tecniche soggettive come la focalizzazione ristretta [...].”24 E’ attraverso la scrittura che gli autori rivelano le proprie ansie, paure e incertezze legate a questa condizione di instabilità. In tale contesto, l’immagine che si fa portavoce della fragilità di ciascun individuo è quella del Doppio: figura intrisa di inquietudine e di ambiguità, che attraverso la scissione dell’identità umana, esprime la crisi della coscienza umana. Nello scenario culturale di inizio Novecento si avverte un certo senso di alienazione e di metamorfosi dovuta, in particolar modo, a un mondo che si allontanava dai vecchi modelli culturali di impostazione vittoriana e che si affacciava ad una visione della società più moderna. La multiformità e la poliedricità che caratterizzano la “nuova” società trovano ora espressione nell’apporto di diversi stimoli culturali al clima dell’epoca, tra cui la scoperta della psicoanalisi e la nascita delle Avanguardie europee. Attraverso i nuovi manifesti culturali l’artista palesa il desiderio di uscire da un isolamento, che invece pare non avere sbocchi. Inoltre, l’avvento della Grande Guerra aveva contribuito ad aumentare il senso di instabilità, di fragilità che ormai aveva spogliato l’uomo di ogni certezza, abbandonandolo alla propria solitudine. In un panorama segnato dal terrore e da una profonda lacerazione interiore, l’artista affronta l’inquietudine della guerra manifestando il proprio disagio in una figura che rappresenta il lato del rimosso. Infatti, gli scrittori di questa epoca tendono a trasferire frammenti di sé nei propri personaggi, oggettivando il proprio Io come doppio. I protagonisti delle loro opere s’imbattono in un alter ego 24

M. Fusillo, L’altro e lo stesso:teoria e storia del Doppio, p. 25

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che incarna pulsioni nascoste, dolori e traumi che fanno parte dell’individuo, ma che allo stesso tempo, egli percepisce lontane da sé, come un rifiuto. Con l’avvento del Modernismo cambia l’idea di individuo, la sua visione assume una diversa prospettiva: non viene più percepito come unico, ma scisso in più io discordanti, e per questo definito come homo duplex o multiplex.25 Come afferma Karl Miller: “Psychic duplication and division, on the one hand, and the open mind, on the other, are conceptions which [...] come together in writings of the later nineteenth century. These are conceptions which were to yield a conception of art: an author may be thought to lead a double life, or to achieve a second self, an alter ego, in the art he creates, and he may also be thought to lose himself there. They are conceptions which predict, and participate in, the young idea of the following century- the Modernist view of art’s impersonality, of the artist’s need to be absent from his creations.”26

Nella letteratura moderna, il Doppio, in quanto veicolo di analisi psicologica, coincide con l’affacciarsi del realismo soggettivo di inizio secolo, che consiste nella fedele riproduzione dei processi mentali. In questo senso gli impulsi del nostro subconscio ricevono le stesse attenzioni che i pre-romantici avevano dato alla parte conscia della nostra mente, finendo, talvolta per dominarla. In riferimento ai recenti studi sulla psiche, il dualismo psicologico mostra la complessità della natura umana, la disarmonia dell’universo interiore. A prescindere dal contesto storico-culturale, tale ambivalenza è spesso legata allo stato psichico dello scrittore. Nella sua analisi, O. Rank nota, nel modo un po’ generico che è tipico della sua generazione di pionieri della psicanalisi, come gli autori della letteratura sul Doppio fossero accomunati da particolari patologie. In merito, egli scrive: “Salta all’occhio innanzi tutto che questi scrittori, come altri simili a loro, hanno avuto una personalità nettamente patologica e hanno superato, per diversi aspetti, il limite della nevrosi riscontrabile in genere negli artisti. Tutti soffrivano di chiari disturbi psichici o di vere e proprie malattie nervose e mentali; il loro comportamento quotidiano, manifestamente eccentrico, si distingueva per l’eccesso nel bere, nell’uso di oppiacei, nella vita sessuale, soprattutto nei suoi aspetti anomali.”27

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V. Roda, Il tema del Doppio nella letteratura moderna, Bologna, Bononia University press, 2008, p. 12 K. Miller, Doubles: studies in literary history, p. 22 27 O. Rank, Il Doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, p. 53 26

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Inoltre, Rank sostiene che tale predisposizione “favorisce la scissione della personalità, accentuando in particolare il complesso dell’io: ne consegue un enorme interesse per se stessi, per i propri stati d’animo e per la propria sorte.”28 Le alterazioni psichiche, ivi compresi gli stati depressivi di cui soffrono gli autori, vengono in effetti filtrati spesso attraverso i propri personaggi; figure che incarnano la scissione tra l’Io “malato” e l’Io “sano”. In questo senso si può parlare di lotta tra bene e male, tra giusto e sbagliato. In generale, il Doppio può essere quindi considerato un espediente letterario che serve a liberarsi dall’immagine “sbagliata” di se stessi, le cui azioni sono incontrollabili da parte della parte cosciente dell’uomo. In merito a queste considerazioni, è chiaramente deducibile che le opere degli autori di inizio Novecento si prestino come delle vere e proprie autobiografie, in cui di solito la figura del protagonista coincide con quella dello scrittore, mentre quella del doppio con il suo alter ego, altrimenti interpretato come la propria malattia.

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Ibidem p. 65

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3. VIRGINIA WOOLF

3.1 “La vita nella scrittura”1 L’intera esistenza della scrittrice inglese Virginia Woolf è incentrata sulla scrittura, anzi, come sostiene Liliana Rampello, “la sua vita è nella scrittura”: nei diari, nelle lettere, nei saggi e nei romanzi che redige. “Dar voce alla vita: questo è il problema [...]. Per questo alla sua vita è necessaria la scrittura, come ciò che sempre risponde nel linguaggio ciò che al linguaggio sfugge, se appunto non accade come parola. Per questo a Virginia la vita non basta, e sempre deve innestare su di essa come un’altra trama.”2 Nata a Londra il 25 gennaio 1882 Adeline Virginia Woolf è considerata come “il pilastro del mondo culturale inglese del suo tempo”3, posizione ricoperta grazie alle sue grandi qualità artisticoletterarie ereditate, in parte, dalla tradizione culturale dell’alta borghesia vittoriana 4 e, in parte, dalle influenze artistiche del suo tempo. In tutto questo gioca un ruolo determinante l’ambiente culturale in cui cresce e si forma. L’infanzia di V. Woolf fu di stampo vittoriano, fatta di lezioni casalinghe, rispetto delle convenzioni, benessere e la sensazione costante che tutta la vita della casa ruotasse intorno alla madre, da lei considerata come “la cattedrale dell’infanzia”.5 L’amore per la scrittura nasce in lei sin da bambina quando, all’età di sei anni, inizia a scrivere per il giornalino della casa assieme ai fratelli. E’ già da questa tenera età che la piccola Virginia scopre questa grande passione, che verrà alimentata sotto l’influenza del padre, lo scrittore Sir Leslie Stephen. Infatti, nonostante V. Woolf non avesse avuto l’opportunità di studiare all’università come i fratelli, l’accesso alla libreria paterna la introdusse nel mondo della letteratura, quell’universo che col tempo le avrebbe giovato la fama di illustre letterato del suo tempo. Acuta osservatrice della realtà, l’autrice dipinge attraverso la parola luoghi reali, immagini impresse nella propria mente sulla tela del proprio romanzo o della propria pagina di diario. E’ questa la qualità eccezionale di tutta la sua letteratura: dare voce alla scrittura, che è lo specchio dell’Io della

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cit. L. Rampello, Il canto del mondo reale: Virginia Woolf. La vita nella scrittura, Milano, il Saggiatore, 2005 N. Fusini, Nomi: dieci scritture femminili, Roma, Donzelli, 1996, pp. 59-61 3 V. Sanna, Il romanzo di Virginia Woolf, Firenze, Marzocco, 1951, p. 17 4 Cfr. T.S Eliot, V. Woolf, Horizon, 1941. Nella sua opera l’autore affermò che: “Virginia Woolf era il centro non solo di una ristretta cerchia di individui, ma della stessa vita culturale di Londra. La sua posizione era dovuta al concorrere di un insieme di qualità e circostanze [...]. Essa teneva viva la tradizione ammirevole e tutta la dignità della cultura dell’alta borghesia vittoriana. Una posizione in cui l’artista non era né il servo di un illustre patrono, né il parassita di un plutocrate, e nemmeno colui che intrattiene la folla; una posizione in cui il produttore e il consumatore dell’arte erano sul piede di perfetta uguaglianza, né troppo in alto, né troppo in basso. Con la morte di V. Woolf viene distrutto un intero modello di cultura.” 5 N. Fusini, Possiedo la mia anima:il segreto di Virginia Woolf, Milano, Mondadori, 2006, p. 16 2

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coscienza umana. Se, infatti, la scrittura rappresenta la vita, allora è l’Io a parlare, cioè “life itself”6 che secondo la poetica della scrittrice deve potersi esprimere liberamente, senza convenzioni, per poter sprigionare tutta la sua vitalità. V. Woolf dà luogo a questa grande operazione attraverso i diari che inizia a tenere regolarmente a partire dal 1915 fino al 1941, qualche giorno prima della sua morte. La sua composizione si sviluppa essenzialmente in un doppio ordine di riflessione: per parlare di sé in quanto donna immersa nel quotidiano, e in quanto scrittrice, artista. Qui annotava fatti personali, impressioni, riflessioni riguardo ai libri che componeva e non solo, esternava i propri stati d’animo, i momenti di fragilità fisica e mentale, mostrando anche lo spirito pungente, a tratti comico quando si trattava di commentare qualche personaggio, o alcune opere. Ciò che emerge da questo quadro complessivo è una personalità poliedrica, complessa, vivace e malinconica, un ritratto di sé che la stessa autrice va scoprendo pagina per pagina. Per questo motivo, quella dei diari non può essere considerata la propria autobiografia, piuttosto la storia di una donna in cerca di se stessa che attraverso i frammenti quotidiani ricostruisce la propria identità: è l’immagine che si coglie dai propri pensieri, dalle proprie paure e ossessioni che vengono buttate giù sulla carta. Come afferma lei stessa: “[...] se io mi fermassi a pensarci sopra, non verrebbe mai scritto; e il vantaggio di questo metodo è di cogliere al volo accidentalmente materiali diversi e dispersi, che scarterei se esitassi, ma che sono diamanti tra la spazzatura.”7 Il valore dei diari è chiaramente espresso in una pagina scritta l’8 aprile 1921: “Questo diario è una specie di vecchia confidente dal volto gentile e inespressivo.”8Inoltre, qualche anno addietro scriveva: “[...]Quel che più conta è la mia convinzione che l’abitudine di scrivere così, solo per il mio occhio, è un buon esercizio. Scioglie le giunture. [...]A questa velocità devo sparare al mio argomento i colpi più diretti e fulminei,e così devo mettere mano alle parole e scegliere e lanciarle, senza maggior indugio di quanto me ne occorra a tuffare la penna nel calamaio.[...]Che tipo di diario vorrei fosse il mio? Un tessuto a maglie lente, ma non sciatto; tanto elastico da contenere ovunque cosa mi venisse in mente, solenne, lieve o bellissima. Vorrei che somigliasse a una scrivania vecchia e profonda o a un ripostiglio spazioso, in cui si butta un cumulo di oggetti disparati senza nemmeno guardarli bene. Mi piacerebbe tornare indietro, dopo un anno o due, e trovare che quel guazzabuglio si è selezionato e raffinato da sé, coagulandosi, come fanno misteriosamente i depositi di questo genere, in una forma; abbastanza trasparente da riflettere la luce della nostra vita, eppure ferma, un tranquillo composto che abbia il distacco di un’opera d’arte. Il requisito

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cit in R. Bonadei, Disarticolando “IO”: V. Woolf e le stanze della scrittura V. Woolf, Diario di una scrittrice, a cura di Giuliana De Carlo, Roma, Minimum fax, 2005, p. 30 8 Ibidem p. 59 7

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principale (ho pensato rileggendo i miei vecchi diari) non è fare la parte del censore, ma scrivere come detta l’umore, e di qualunque cosa.” Domenica di Pasqua, 20 Aprile 1919

In un certo senso la scrittura dei diari ha di per sé valore terapeutico. E’ un’occasione per proiettare se stessi, gli umori del momento, immaginando di conversare con un altro o ideale Io. Attraverso questa forma di scrittura privata si crea una sorta di sdoppiamento tra l’Io che elabora, per questo detto “attivo”, e l’Io che sente e quindi subisce, detto “passivo”9. Proprio perché si tratta di un processo interno, che riflette due parti di un’unica persona, non si può parlare di autoanalisi in quanto quest’ultimo metodo implica la presenza di un destinatario reale ed esterno. Nel diario, infatti, si comunica con se stessi, in altre parole, con un interlocutore privilegiato. Prima ancora della comunicazione, però, l’atto di scrivere materializza il bisogno di espressione di ciascun individuo. In questo caso esprimersi significa esternare la propria psichicità, oggettivare il proprio sé attraverso una pagina di diario o di un libro, in cui si può cogliere l’essenza del proprio pensiero, ma soprattutto si ha l’occasione di inventare un altro sé. Come sostiene S. Ferrari: “[...] la scrittura costituisce il prolungamento, la duplicazione della psichicità che è in noi, la mimesi del nostro cervello che pensa e che lavora.”10 Il bisogno che ha l’uomo nel convertire in forme e immagini la complessa realtà del suo mondo interno corrisponde, per usare un concetto di T.S Eliot, all’esigenza di trovare dei “correlativi oggettivi” in grado di rappresentare all’esterno le pulsioni più profonde di quello stesso mondo, agendo quindi da ponte tra soggetto e oggetto, tra inconscio e conscio.11 In tal senso si può facilmente dedurre che l’opera di un autore sia l’espressione più o meno indiretta della propria soggettività, dunque, il riflesso del proprio inner world. Spesso accade che egli si mascheri dietro i suoi personaggi in modo da esprimere ciò che non riesce a comunicare nella vita reale. La scrittura può essere quindi intesa come rifugio, come appagamento dei propri desideri. “I contenuti delle opere sembrano essere delle vere e proprie occasioni, strumenti attraverso cui esprimere l’interiorità dello scrittore, secondo Freud ‘metafore del desiderio e dell’angoscia’, in quanto, come avviene nel sogno, devono trasferire all’esterno l’equivalente psichico-emotivo di qualcosa che abbiamo dentro attraverso figure: sia in senso proprio, come avviene nel linguaggio onirico, nel disegno, nella pittura, sia nel senso di una trascrizione verbale, che può assumere o meno carattere narrativo.”12

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Cfr p.105, S. Ferrari, Scrittura come riparazione: saggio su letteratura e psicoanalisi, Roma, Laterza, 1994 Ibidem p. 11 11 Cfr. Ibidem. p. 21 12 Ibidem p. 19 10

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Attraverso le sue storie e i suoi personaggi l’autore proietta e, così facendo, rivela una realtà che si cela nell’oscurità del proprio mondo e che emerge nell’atto di scrivere. In questo modo la storia narrata diventa il teatro della propria esistenza, in cui vengono messi in scena desideri, pulsioni nascoste, passioni e paure: un concentrato di sentimenti che ricostruiscono attraverso i protagonisti la poliedrica identità dell’artista. La scrittura di V. Woolf è la dimostrazione più lampante di quanto appena affermato. Infatti, nei suoi diari e nella sua letteratura in generale è lei che parla, è l’Io dell’inner world che prende corpo nelle pagine; quello che rimane sempre nella penombra e che non compare mai se non nelle “stanza della scrittura.”13 Nel caso specifico dei diari, è qui che V. Woolf si lascia andare, squarcia i veli dell’invisibilità, mostra la propria creatura nuda e cruda, oggettiva la propria esistenza senza indugi. E’ qui che la scrittrice entra in contatto col mondo: qui nasce, cresce, vive respirando attraverso la scrittura, si sfoga, si isola, si purifica dei propri “peccati” e poi rinasce. E’ essenzialmente tra queste pagine che si coglie la sua natura emblematica, “un insolito quadro psicologico della creazione artistica vista dall’interno.”14 Per V. Woolf la scrittura costituirebbe una sorta di piacere fisiologico, l’appagamento del proprio piacere fisico e mentale in quanto da una parte “oggettiva e testimonia il funzionamento psichico del nostro corpo”15; dall’altra dona “tutta una serie di quei piaceri senza acme [...] tipici del gioco dell’attività intellettuale e dell’arte.”16 Quanto appena affermato è testimoniato da lei stessa in una pagina di diario, è il 13 dicembre 1924: “ora posso scrivere, scrivere e scrivere. Il più felice sentimento del mondo.”17 L’impressione che si ha leggendo i propri frammenti è quella di notare come sia forte il legame che si crea tra la scrittura e il proprio corpo. E’ come se questo fosse totalmente coinvolto durante l’elaborazione dei suoi componimenti. Il piacere fisico dell’atto di scrivere coincide con il piacere mentale, ma non solo. Da quanto emerso dalle pagine di diario, pare che ogni volta che V. Woolf era immersa nella creazione delle proprie opere fosse soggetta a numerosi stress mentali e fisici che, di solito al momento della stesura definitiva, sfociavano in un crollo completo della sua persona. La cosa sorprendente è che generalmente la scrittrice trova l’ispirazione ai propri romanzi esattamente in questi momenti di salute precaria. 13

Nel saggio di V. Woolf, Modern Fiction, la scrittura viene presentata come il luogo che mette in comunicazione le stanze dell’Io alle specifiche stanze della scrittura, ovvero i generi in cui lo sguardo si costituisce in grammatica o metodo della visione: “It is possible to press a little further and wonder whether we may not refer our sense of being in a bright yet narrow room, confined and shut in, rather than enlarged and set free, to some limitation imposed by the method as well by the mind.” 14 V. Woolf, Diario di una scrittrice, p. 15 15 S. Ferrari, Scrittura come riparazione: saggio su letteratura e psicoanalisi, p.10 16 Ibidem p. 11 17 V. Woolf, Diario di una scrittrice, p. 106

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E’ come se la malattia/gestazione producesse nella mente/utero della scrittrice un nuovo capolavoro/figlio, portato alla luce attraverso la scrittura/parto.18 Questa continua alternanza fra arte e vita si estende anche ad un altro tipo di considerazione, che riguarda più propriamente il carattere androgino della narrativa di V. Woolf. La figura dell’androgino è molto diffusa nelle sue opere, soprattutto nei suoi romanzi. Basti pensare ai numerosi personaggi che popolano i suoi racconti: “Orlando/maschio e Orlando/donna; Bernard somma di io maschili e femminili; Septimus cui è ‘richiesto’ di essere uomo e che, come una donna, è sconvolto dall’orrore della guerra; Lily donna che si rifiuta, come un uomo, di farsi specchio; Rose che, in The Years, s’impegna nel politico e va in prigione come un uomo; e così via.”19 Si nota come in ogni sua creatura narrativa si manifesti un continuo oscillare fra i due sessi, un po’ maschio e un po’ donna, a tal punto da credere che siano solo gli abiti a conservare l’apparenza, mentre il sesso è esattamente l’opposto di quanto appare visibile all’esterno.20 Giocando sulla dicotomia uomo/donna V. Woolf da una parte anticipa essenzialmente quella che deve essere, dal suo punto di vista, la caratteristica preminente degli scrittori moderni: possedere una “mente androgina”21. Dall’altra parte, invece, sembra che voglia svelare la sua doppia identità sessuale. Si pensi al romanzo Orlando (1928). Il protagonista della storia è ispirato a Vita22 e allo stesso tempo coincide con il ritratto di Virginia in tutto e per tutto. “E’ il racconto di un individuo ‘nato due volte’: la prima volta bambino maschio, la seconda femmina adulta”, osserva attentamente N. Fusini; “non è forse quello che è accaduto a Virginia, che sino a quando non ha incontrato Vita era un bambino, il figlio maschio che la madre Julia avrebbe voluto al suo posto [...] ?”23 Attraverso il personaggio da lei inventato, Orlando, il suo corpo si sdoppia e vive “prima circonfuso di un’aura androgina, puro oggetto del desiderio materno, finché non gli è data la possibilità radicale e vertiginosa di scoprire l’altra natura, che nel caso di Virginia sarebbe la propria, cioè, quella femminile e Orlando diventa donna senza traumi, né rimpianti.”24 In un certo senso, l’incontro con Vita fu decisivo per “conoscere se stessa”, per confermare la propria scelta sessuale.

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Cfr l’intero paragrafo in P. Zaccaria, Virginia Woolf: trama e ordito di una scrittura, Bari, Dedalo libri, 1980 Ibidem p. 157 20 V. Sanna, Il romanzo di Virginia Woolf, p. 199 21 P. Zaccaria, Virginia Woolf: trama e ordito di una scrittura, p. 23 22 Vita Sackville-West (1892-1962) moglie di Harold Nicolson, fu poetessa e scrittrice inglese. Al suo ingresso al circolo Bloomsbury ebbe l’occasione di conoscere V. Woolf, con la quale intrattenne una relazione omosessuale. E’ a lei che la scrittrice inglese dedica il romanzo Orlando. Ancora prima di Vita amò Violet Dickinson, Janet Case e sopra ogni altra la sorella Vanessa. 23 N. Fusini, Possiedo la anima: il segreto di Virginia Woolf, p. 172 24 Ibidem p. 172 19

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“Grazie a Vita Virginia partì, se non alla conquista della sessualità lesbica, alla scoperta della propria femminilità interiore [...].L’affettività che riscoprì amando Vita era una dimensione necessaria all’amore vivo. Era un affetto che le consentì le nozze interiori con se stessa, e non a caso nell’incontro con Vita la sua immaginazione dette corpo a un pensiero intimo, segreto, quello dell’androgino. L’amore vivo la trasportò all’intuizione profonda di una fiamma amorosa che si alimentava nella celebrazione delle nozze interiori tra il maschile, il femminile, presenti in ognuno di noi.25”

Invece, per quanto riguarda il discorso relativo allo spirito androgino degli scrittori, questo monito è indirizzato specialmente alla figura della scrittrice donna26. V. Woolf affronta la questione nel saggio A Room of one’s own (1928) in cui esorta la nuova generazione di letterate a prendere le distanze da un tipo di scrittura “parziale”, cioè composta pensando al proprio sesso. “Qualunque cosa scritta sotto la spinta consapevole di quella parzialità è condannata a morire. Non è più fertile.”27Perciò, il presupposto per raggiungere un “nobile” modello di scrittura è possedere una “mente androgina.” “E’ fatale essere un uomo o una donna o un uomo femminile”: secondo V. Woolf l’anima dell’artista dovrebbe essere composta da due forze, una maschile e l’altra femminile. Infatti l’arte non può sopravvivere se retta da una sola di queste due menti, perché entrambe partecipano al gioco della vita; perciò guardare solo attraverso l’occhio dell’uomo o soltanto della donna significherebbe osservare l’universo non nella sua interezza, ma appunto nella sua parzialità. Come scrive l’artista stessa: “ è appunto quando ha luogo questa funzione che la mente diventa pienamente fertile e può fare uso di tutte le sue facoltà.”28 V. Woolf sostiene con decisione questa idea perché possa servire a circoscrivere quel processo di “ghettizzazione” che da sempre investiva la scrittura femminile. Secondo il suo punto di vista, la donna non possiede solo attributi caratteristici del proprio sesso, ma anche maschili. E’ proprio attraverso questa diversa prospettiva che si manifesta l’elemento rivoluzionario del suo stile: “io

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Ibidem pp. 172-173 In questo periodo (inizi ‘900) la figura della donna subisce un’importante trasformazione all’interno della società inglese grazie alla lotta per l’emancipazione. Infatti, se nell’800 il suo ruolo è esclusivamente passivo, di procreatrice e di “custode/prigioniera della casa” , agli inizi del ‘900 la rivendicazione dei propri diritti le permette di raggiungere traguardi fino ad allora ritenuti impensabili. Questo cambiamento si avverte principalmente nel campo della letteratura, in cui l’atteggiamento delle scrittrici non è più di protesta per la condizione di inferiorità in cui prima versavano. Tuttavia, il cammino della scrittura femminile è impervio. Infatti, se prima erano i pregiudizi dell’uomo sulla donna a tenerla lontana dal mondo dell’editoria, ora incombono le questioni di ordine tecnico a ostacolarle la strada. Il suo nuovo obiettivo è quello di scoprire una frase che assuma la forma narrativa del pensiero di una donna , poiché la parola impiegata dall’uomo è troppo “pesante” per essere scritta da lei. Quando una donna scrive un romanzo tende a modificare alcuni punti della scrittura maschile, per esempio: mette in luce quegli elementi che all’uomo sono apparsi insignificanti, e banalizza quelli che per lui sono ritenuti importanti. Le scrittrici della nuova generazione preferiscono indagare sugli aspetti interiori, sugli stati d’animo della donna, diversamente dagli scrittori che la ritraevano nelle sue faccende domestiche e in situazioni simili, conferendo così un’immagine sterile della donna. 27 V. Woolf, A Room of one’s own, London, Panther Books, 1977, p. 99 28 Ibidem p. 94 26

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donna sono dolce, materna, consolatrice, riproduttrice; ma sono anche produttrice, forte, volitiva; in me la forza si sposa al calore; sento di testa, ma anche di stomaco; sono sesso- altro, diverso- e sono corpo. Mi voglio così, tutta intera, non voglio più nascondere niente, non voglio più uccidere parti di me.”29 La stessa Woolf mostra grande capacità di osservare e di descrivere la realtà attraverso un duplice filtro: “Masculine in its bent for abstract and logical thought, feminine in its intuitive grasp of emotional relationships and their mythopoeic and metaphoric equivalents, her mind embraced the duality of the creative mind [...].”30 La tendenza a percepire il mondo intorno a sé da “un’angolatura maschile” potrebbe essere legata alla figura del padre, e in generale all’ambiente in cui la scrittrice nacque e si formò. Da una parte contribuì l’atmosfera culturale di casa Stephen, che esprimeva il carattere razionale del mondo vittoriano; dall’altra, l’esperienza del Bloomsbury Group maturò in Virginia “a sense of masculine competition.”31 Diversamente, l’elemento femminile è in lei e nella figura della madre Julia. Da qui attinge la capacità di introspezione, di guardarsi dentro e catturare e rivelare un’immagine che sappia trasmettere tramite la parola, apparentemente sterile, una forte emozione tale da giungere alla mente.

3.2 L’alter ego di Virginia Woolf: la malattia La presenza di un pubblico pronto a confermare il successo della sua letteratura servì a conferire in lei maggiore autostima e a dimostrare che lei non era “una matta”, ma una scrittrice32. Sin dall’infanzia sembrava che la sorte di Virginia fosse in qualche modo segnata dai nomignoli che i fratelli le attribuivano per via dei suoi atteggiamenti un po’ esuberanti e le idee un po’ bizzarre. La chiamavano “Billy the Goat”e questo servì già a renderla diversa dagli altri, al resto ci pensò la forza dirompente della malattia. La prima volta che V. Woolf mostra i sintomi del male che la tormenterà fino alla fine dei suoi giorni fu nel 1895, alla morte della madre Julia. Aveva soltanto 13 anni quando cadde in depressione. La perdita della figura materna segnò profondamente la vita della scrittrice, è infatti da questo momento che è soggetta a frequenti crisi nervose: a volte si sentiva di essere lei la madre e di essere 29

P. Zaccaria, Virginia Woolf: trama e ordito di una scrittura, p. 162 H. Richter, Virginia Woolf: The Inward Voyage, Princeton, Princeton University press, 1970, p. 18 31 Ibidem p. 19 32 Cfr. N. Fusini, Possiedo la mia anima, p. 183 30

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morta, talvolta le capitava di vederla. Inoltre, alle allucinazioni si accompagnò il rifiuto del cibo, l’insonnia, e man mano la debolezza prendeva il sopravvento. Secondo quanto dichiarato da Q. Bell: “da quel momento in poi, sapeva di essere stata folle e che avrebbe potuto esserlo di nuovo.”33 Tale affermazione annuncia in un certo senso quello che fu l’atteggiamento di Virginia di fronte al ruolo che le era stato assegnato, accettò questa maschera e imparò a giocarci. La stessa interpretazione è condivisa da N. Fusini: “una cosa è certa: s’era avvezzata a recitare la parte del clown, del fool, del matto [...]. Come il fool dei drammi shakespeariani aveva imparato a giocare con le parole. Aveva imparato anche che proprio in quanto escluso, il fool aveva la libertà di non credere alla legge che lo escludeva, di giocarci. Questa lezione non l’avrebbe scordata.”34 Il secondo grave attacco depressivo si manifestò nel 1904, nuovamente in occasione di un lutto familiare; questa volta riguardava la perdita del padre, al quale Virginia era molto legata. Sin dall’infanzia, nella più completa sincerità, aveva espressamente dichiarato di amarlo più della madre: “se ho voluto vivere è stato per emulare mio padre, per diventare forte come lui, scalare montagne, camminare ore e ore, e scrivere.”35 I gravi lutti che colpiscono la famiglia Stephen hanno un effetto devastante su V. Woolf; creano in lei un forte senso di vuoto interiore che riesce a colmare soltanto scrivendo delle storie che le ricordino le persone più care. Dentro di sé sentiva le loro voci, il richiamo dei suoi fantasmi, ma era il peso della sofferenza che la opprimeva. Infatti, nel suo difficile rapporto con il mondo, lei non è capace di sopportare i sentimenti di disperazione che assalgono ogni essere umano di fronte alla perdita degli affetti più cari. Il suo è un atteggiamento di rifiuto, nega il presente per non essere schiacciata dal peso della malinconia, dello smarrimento e della solitudine. Perciò, preferisce far rivivere attraverso i propri personaggi i fantasmi che hanno abitato la sua esistenza (Leslie, Julia, Stella, Thoby). Nella sua mente essi non sono morti, ammetterlo significherebbe non avere più alcun motivo per tenersi a galla nel mare della vita. Inoltre, le ricorderebbe che la morte c’è ed è più forte di qualsiasi cosa, persino della madre Julia, considerata “la cattedrale dell’infanzia”36. Ogni qual volta si presentava la malattia era come se Virginia venisse inghiottita in un’altra dimensione, una realtà mistica che lei visitava nelle sue “visioni” e che lei farà rivivere attraverso la scrittura. Fu questa la chiave del suo successo. Così N. Fusini riassume il rapporto di V. Woolf con la malattia:

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Q. Bell, V. Woolf: A Biography, vol. 1, London, Hogarth Press, 1972, p. 44 N. Fusini, Possiedo la mia anima, p. 184 35 Ibidem p. 42 36 Ibidem p. 16 34

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“A Virginia [...] basta definire mistiche le sue crisi. Non che neghi, anzi, percepisce lucidamente il lento, invalidante incurvamento della propria anima nella crisi depressiva. Osserva nella propria esistenza il ricorrere necessario, inevitabile, di pulsioni primordiali, trame profonde di emozioni, e proverà a scongiurare scrivendo. ‘Tratterà’ così con quella parte selvaggia. Proverà a bonificare, a restringere via via l’area critica, a sorvegliarne i confini. Definirà quello spazio disadorno dentro di sé come un’area sottosviluppata, derelitta del suo mondo.”37

Per poter “domare la bestia” che era in lei veniva spesso sottoposta a visite e cure mediche. In realtà, non c’era un rimedio che potesse debellare in modo definitivo quel male, ma si poteva per lo meno sorvegliarlo, contenerne la forza distruttrice e imparare a conviverci. Così fece Virginia, e soprattutto suo marito Leonard Woolf, il quale si prese cura di lei fino alla fine dei suoi giorni. In un primo momento la scrittrice pensava che il suo matrimonio, e magari anche la presenza di un figlio, avrebbe potuto metterla in salvo dalle visioni e dalle voci; pensava che così avrebbe risolto i suoi “guai”, e lo pensò persino lo psichiatra Savage, ma non fu così. Leonard si mostrò subito un marito molto presente e paziente nel trattare con una donna così delicata, fragile nell’aspetto fisico, ma dal temperamento forte. Sposò Virginia ben sapendo a cosa andava incontro, e la vita con lei non fu certo facile. “Io non avevo nessuna esperienza della malattia nervosa o mentale, e dovette passare parecchio tempo prima che mi rendessi conto della natura e del significato di questa malattia nel caso di Virginia. Essa svolse una parte importante nella sua e nella nostra vita in comune, e fu la causa della su morte.[...]I medici la chiamavano nevrastenia e Virginia ne aveva sofferto per tutta la vita[...].Quando Virginia conduceva una vita vegetativa tranquilla, mangiava bene, andava a letto presto e non si stancava né mentalmente né fisicamente, era in perfetto stato di salute. Ma quando si stancava in un modo qualsiasi, quando era sottoposta a un impegnativo sforzo fisico, mentale o emotivo, immediatamente apparivano i sintomi che in una persona normale sono trascurabili e passeggeri, ma che, in lei, erano segnali di serio pericolo[...]. Per quasi trent’anni ho dovuto studiare la mente di Virginia con la massima attenzione, perché soltanto riconoscendo subito i primi, tenui sintomi di affaticamento mentale potevamo fare in tempo i passi necessari per prevenire un serio crollo, c’era un momento in cui passava da uno stato che possiamo giustamente chiamare salute mentale alla malattia.”38

Era una donna estremamente eccentrica, “frigida” e nel complesso aveva un rapporto particolare col cibo. Di questa personalità complessa Leonard era diventato lo schiavo; tutte le sue attenzioni 37

Ibidem p. 108 L. Woolf, Beginning again: An Autobiography of the Years 1911-1918, New York, Harcourt, Brace & World, 1964, pp. 75-76, 78 38

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ricadevano sulla saluta della moglie e per questo suo comportamento, spesso troppo assillante, finiva col diventare la marionetta di Virginia. Più che un marito, Leonard fu per lei il bastone della vecchiaia, e la stessa scrittrice conferma l’importanza della sua presenza e l’attaccamento nei suoi confronti quando lui è assente: “sono come il cane che rivuole il padrone, ogni sera vado al suo letto, lo trovo vuoto e bacio il cuscino e piango.”39 In realtà, l’atteggiamento di Virginia nei suoi confronti è ambiguo, e ciò dipende soprattutto dal suo stato di salute: quando è sana mostra la sua infinita gratitudine, ama Leonard, lo trova indispensabile, ma l’arrivo della malattia diventa quasi un pretesto per esprimere tutto la sua infelicità, il suo disprezzo, gli si avventa contro e lo odia. La scrittrice è spesso preda di cambiamenti d’umore repentini, e ciò capita soprattutto quando si parla dei suoi romanzi: un momento prima è gioiosa, esaltata dal commento positivo dei critici, ma l’attimo dopo cade nel buio, si sente insicura e vede la propria opera “come il corpo di un gatto morto e l’unica cosa che vorrebbe fare è bruciarlo.”40 La sua personalità era un misto di timidezza ed esuberanza. Fra gli amici del Bloomsbury non mostrava la propria malinconia, al contrario, era una brillante conversatrice, con loro si divertiva e scherzava, ma dentro di sé si sentiva morire. Nonostante tutto, Virginia combatteva contro la malattia, e questo fa di lei un’eroina e non una donna debole, come spesso viene descritta. In particolare, scrivere l’avrebbe aiutata a vincere la lotta interna tra la donna libera, desiderio a cui aspirava, e la donna imprigionata dalle catene del passato, immagine rappresentata dalla malattia. Infatti, “la realtà, per la Woolf, significava una co-esistenza del passato col presente.”41 Anche lo psichiatra Peter Dally ammette l’importanza della scrittura nei momenti di crisi dell’autrice: “Virginia’s need to write was, among other things, to make sense out of mental chaos and gain control of madness. Through her novels she made her inner world less frightening. Writing was often agony but it provided the strongest pleasure she knew.”42 Inoltre, egli ammette, sulla base di ricerche scientifiche, che non ci può essere creatività senza follia. Il rapporto tra genio e follia si fa particolarmente interessante a partire tra la fine dell’Ottocento e inizi Novecento, periodo in cui il malato diventa una specie di eroe, perché in possesso del genio artistico. In questo senso, la malattia assume una valenza positiva, poiché grazie ad essa l’uomo può concepire pensieri che all’essere “sano” sono preclusi.

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N. Fusini, Possiedo la mia anima, p. 101 V. Woolf, Diario di una scrittrice, p. 5 41 M. Merlini, Invito alla lettura di Virginia Woolf, Milano, Mursia, 1991, p. 137 42 P. Dally, The marriage of Heaven and Hell: Manic Depression and the Life of Virginia Woolf, New York, St. Martin’s press, 1999 40

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Lo stesso assunto è confermato da Leonard Woolf nella biografia che redige per la moglie: “Non ho dubbi che il genio fosse strettamente collegato con quella che si presentava come instabilità e come malattia mentale.”43 Pare che il malato sia sottratto agli schemi della normalità, il modo in cui percepisce il mondo è diverso. “La malattia raffina la sensibilità, infonde pensieri inattesi, ti mette in contatto con la natura. Il malato osserva il cielo, un fiore, dà significato a uno scricchiolio, trasfigura la minima esperienza. E’ un essere superiore.”44 E’ proprio nel buio della depressione che V. Woolf scorge un mondo in cui solo ai “folli” è permesso camminare. Nell’oscurità della vita vede i colori con cui dipingerà i propri romanzi: sarà questo il dono del suo second self. Quando la scrittrice descrive la follia avviene una sorta di sdoppiamento interno nella sua mente. L’impressione è che si crei un dialogo tra le due parti: l’Io “sano” parla con l’Io “malato”. Infatti, quando è in preda a forti crisi avverte il male, lo subisce; mentre quando sta bene, ne scrive.45 In una pagina di diario V. Woolf confessa : “Nella mia mente fluttua una nube. Sono troppo cosciente del mio corpo e sbalzata fuori dal solco della vita per tornare al romanzo. Ho sentito un paio di volte quello strano frullio d’ali nella mia testa che capita molto spesso quando sono malata. [...] Credo che nel mio caso queste malattie siano mistiche. Nella mia mente succede qualcosa. Si rifiuta di continuare a registrare impressioni. Si chiude. Diventa crisalide. Sto sdraiata completamente inerte, spesso con acuta sofferenza fisica, come l’anno scorso; questo è soltanto malessere. Poi, d’improvviso, scaturisce qualcosa.” Domenica, 16 Febbraio, 1930

La capacità di descrivere il proprio stato d’animo quando è colta dal malessere fa di lei una grande letterata. “Allo shock fa seguito il desiderio di spiegarlo. Esprimendolo in parole, ne costituisco l’unità. E questa unità ha per me il significato che esso non può più ferirmi.”46 Metaforicamente la malattia è la parte buia dell’essere umano, quella che meno si conosce e che rivela una realtà spesso minacciosa, perché incontrollata. Così la scrittrice concepisce la malattia: “C’è, confessiamocelo ( e la malattia è il gran confessionale), una franchezza infantile nella malattia; si dicono cose, si sputano verità che il guardingo decoro della salute tiene nascoste. [...] Noi non conosciamo la nostra anima, figuriamoci l’anima degli altri. Gli esseri umani non procedono mano nella mano per tutta

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L. Woolf: An Autobiography of the Years 1911-1918, p. 80 V. Woolf, Sulla malattia, Torino, Bollati, Boringhieri, 2006, p. 65 45 Cfr N. Fusini, Possiedo la mia anima, p. 105 46 V. Woolf, Moments of Being, Sussex, The University press, 1976, p. 72 44

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la strada. C’è una foresta vergine in ognuno; un campo innevato dove anche l’impronta di un uccello è sconosciuta. Qui procediamo da soli, e ci piace di più così. Essere sempre compatiti, essere sempre accompagnati, essere sempre compresi sarebbe intollerabile. Ma, nel mondo dei sani, la cortese finzione va mantenuta, e lo sforzo rinnovato- per comunicare, per civilizzare, per condividere, per coltivare il deserto ed educare il selvaggio, per lavorare insieme il giorno e per spassarsela la sera. Nel mondo dei malati questa messinscena si interrompe.”47

Per V. Woolf quello della malattia non è un tema come un altro; la sua intera esistenza è segnata da sofferenze fisiche e psichiche. Forti mal di testa, svenimenti, insonnia, angoscia e depressione erano i mali che più la affliggevano e che si manifestavano con più frequenza nei periodi in cui era intenta a tessere la trama di un nuovo romanzo. A proposito della malattia, la scrittrice compose un saggio in cui affrontò questo argomento in rapporto alla letteratura. N. Gardini lo definisce più propriamente “un esempio di pindarismo saggistico”48 in cui V. Woolf offre un’interpretazione squisitamente letteraria di quella parte di sé da cui ha attinto quando componeva le proprie opere. Qui ne viene riassunto il contenuto: “La malattia è uno spazio inesplorato; la letteratura, infatti, si è sempre occupata più della mente che del corpo. Perché?Per due ragioni principali: primo, perché ci vuole una solida filosofia per parlare del corpo; secondo, perché l’inglese non ha una lingua letteraria per la malattia. L’esperienza dell’inferno non può essere comunicata. Non c’è compassione, se non a parole, per il malato. Ognuno ha pietà solo per i propri mali. La compassione è una messinscena dei sani. I malati, che sono più sinceri, ne fanno a meno. Il malato è un disertore. Lui si occupa di altro. Per esempio osserva il cielo (indifferente) e i fiori (sdegnosi). Il malato arriva alla conclusione che la natura fa quello che vuole e alla fine trionferà su tutto. La poesia è più adatta della prosa alla mente del malato, perché il malato è più sensibile ai suoni che ai significati. La malattia ci permette di leggere Shakespeare senza paura- senza il finto bisogno di filtri critici. Quando si ha la febbre, anche un Augustus Hare può essere una lettura ideale.”49

Col passare degli anni le crisi della scrittrice si accentuano con più forza, a tal punto da non riuscire più a sopportare il peso di quelle voci e della malinconia. Infatti, se in un primo momento la situazione sembrava per lo meno tollerabile, con l’arrivo della vecchiaia e il susseguirsi degli eventi bellici le speranze di poter sopravvivere al male diminuivano irrimediabilmente.

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V. Woolf, Sulla malattia, p. 15 Ibidem p. 44 49 Ibidem pp. 45-46 48

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Il periodo storico compreso fra il 1940 e il 1941 fu di grande tensione, poiché si temeva che la Grande Guerra potesse raggiungere il sud dell’Inghilterra. Il timore di una possibile invasione e delle devastanti conseguenze avrebbero comportato una ferita troppo profonda per la scrittrice, perciò non davano motivo di continuare a lottare contro la malattia. Infatti, alla fine del 1940 la malattia si ripresentò e l’ultimo dottore che la ebbe in cura le prescrisse riposo assoluto, e soprattutto che stesse lontana dalla letteratura. Virginia Woolf aveva iniziato a sentire le voci, così come da giovane sentiva gli uccellini cantare in greco, ma questa volta la forza venne meno. Così, nel silenzio della morte si abbandonò tra le acque del fiume Ouse il 28 Marzo 1941. “ Dearest, I feel certain that I am going mad again. I feel we can't go through another of those terrible times. And I shan't recover this time. I begin to hear voices, and I can't concentrate. So I am doing what seems the best thing to do. You have given me the greatest possible happiness. You have been in every way all that anyone could be. I don't think two people could have been happier 'til this terrible disease came. I can't fight any longer. I know that I am spoiling your life, that without me you could work. And you will I know. You see I can't even write this properly. I can't read. What I want to say is I owe all the happiness of my life to you. You have been entirely patient with me and incredibly good. I want to say that – everybody knows it. If anybody could have saved me it would have been you. Everything has gone from me but the certainty of your goodness. I can't go on spoiling your life any longer. I don't think two people could have been happier than we have been. V”50

3.3 Mrs Dalloway: Clarissa & Septimus come alter ego di V. Woolf Pubblicato nel 1925 a Londra, il romanzo Mrs Dalloway è l’opera che inaugura la fase di maturità letteraria di V. Woolf, in cui la scrittrice scopre la propria voce e mette in atto il proprio particolare metodo letterario, che aveva già iniziato ad ideare a partire da Jacob’s Room (1922). L’idea del romanzo nacque esattamente il 14 ottobre 1922 come è testimoniato nel diario: “La Signora Dalloway si è ramificata in un libro.”51 L’autrice intende dire che il racconto a cui si era precedentemente dedicata, Mrs Dalloway in Bond Street, si era trasformato nella propria mente in un romanzo. Procede, in seguito, presentando il progetto a cui intende dedicarsi: “abbozzo qui uno studio della pazzia e del suicidio; il mondo visto dal sano e dal pazzo, fianco a fianco...o qualcosa di simile”. Continua, poi, la sua riflessione il 19 giugno dell’anno seguente: 50

Questa lettera fu scritta da V. Woolf per suo marito Leonard poco prima di suicidarsi. In tutto scrisse tre lettere: una per sua sorella Vanessa e due per Leonard. 51 V. Woolf, Diario di una scrittrice, p. 85

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“ma io, che cosa sento nei riguardi di questo libro, cioè Le Ore , ammesso che si chiami così? Il lavoro deve nascere da un sentimento profondo, diceva Dostoevskij. E’ il mio caso questo? [...] In questo libro ho anche troppe idee. Voglio dare la vita e la morte, la saggezza e la follia; criticare il sistema sociale e mostrarlo all’opera, nel momento di massima intensità. [...] Prevedo che questa sarà una lotta infernale. Il disegno è così strano e possente.”

Infatti V. Woolf concentra qui gran parte del materiale della sua vita: Londra, il centro della sua esistenza e tutti i personaggi che vengono citati la amano; la malattia, impersonificata da Septimus; la critica indiretta al sistema sociale; l’amore per una donna; la guerra e la morte. Come è testimoniato dal Diario, la scrittrice medita molto su di sé e sul suo trascorso, e tali riflessioni verranno successivamente trasferite nella mente dei personaggi. Per esempio, il 2 gennaio 1923 riflette sulla propria esistenza, in particolare si sofferma sulla delicata questione dei figli; lei, a differenza della sorella Vanessa, non ne aveva mai avuto e forse averli avrebbe riempito quel vuoto che sentiva in lei. Invece lei è sorretta da un’immagine eroica di sé come una creatura che “ si fa strada da sola nella notte, e soffre stoicamente senza dir nulla”52. Subito dopo, però, giunge alla conclusione che non può pretendere che “i figli siano, ad esempio, rimpiazzati da altro. Si devono amare le cose per ciò che sono.” In seguito, questa frase ricorrerà nel romanzo, quando Clarissa confesserà a se stessa di invidiare Richard, suo marito, per la sua semplicità: perché lui ama le cose per quello che sono. Non cerca altri significati. Inoltre, pensa a suo marito Leonard e a come egli sia premuroso con lei, così come Richard lo è nei confronti di Clarissa, la quale come Virginia ha “il cuore malato”53. Un altro pensiero che la travolge è quello della “mezza età” e della sua paura di invecchiare, scrive: “Che sia questo il mio tema. Ho paura di invecchiare. Siamo pieni di cose da fare e diamo tanta importanza alle ore”. Comparirà, inoltre, l’astio provato per Katherine Mansfield, impersonificato nella figura di Miss Kilman, che Clarissa scoprirà di odiare durante il romanzo; così come K. Mansfield, deceduta il 16 gennaio 1923, è stata per Virginia una temuta rivale. Un altro elemento che si rintraccia nelle pagine di diario e contemporaneamente nel libro è la passione per la mondanità. Infatti, scrive il 6 marzo 1923: “le chiacchiere, l’eccitazione [...] voglio che la vita sia sempre più piena.” Emozioni, queste, che emergono nella figura di Clarissa e che rendono nell’insieme un’immagine snob di lei, e che appartiene alla stessa Virginia. In principio, il progetto del romanzo era costituito da una progressione narrativa affidata allo scorrere delle ore nel corso della giornata, e per questo inizialmente il titolo dell’opera doveva 52 53

V. Woolf, I capolavori di Virginia Woolf, introduzione a cura di N. Fusini, Milano, Mondadori, 1994, p. XIV Ibidem p. XIV

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essere Le Ore, come più volte è sottolineato nel diario. Inoltre, al centro del racconto era prevista un’unica figura principale, quella di Clarissa Dalloway54, ambigua e legnosa, non considerando la presenza di Septimus Warren Smith, suo Doppio. Proprio a causa della mancata presenza di quest’ultimo, il quale darà avvio al disegno narrativo, sarebbe stata la donna a commettere il suicidio. Più tardi, V. Woolf baserà la propria storia sul rapporto indiretto che lega i due protagonisti lungo tutto il percorso del romanzo. Il loro cammino s’intreccia sia all’interno della stessa città, Londra, sia durante l’arco di una giornata, “sia nel profondo della coscienza l’uno verso la morte, l’altra verso il sospeso equilibrio della vita”55. Infatti, l’intreccio del romanzo è costituito da una doppia temporalità, quella espressa dai rintocchi del Big Ben (tempo cronologico) e quella che emerge dalle cosiddette “caverne” dei personaggi (tempo interiore) che, come V. Woolf spiega nel diario, sono destinate a connettersi56. Clarissa, la ricca signora di mezza età, si muove per le vie di Londra per comprare dei fiori che le serviranno per la festa che sta organizzando, ma il suo cammino è costantemente interrotto dall’incombere di pensieri e ricordi che invadono la mente e che la fanno sprofondare nel suo passato e nell’analisi di sé. Allo stesso modo procede Septimus, il “visionario”, fra la stanca proiezione verso il futuro che egli rifiuta, e i profondi abissi che si aprono con il ricordo della guerra. Proprio a causa di questo trauma, il suo procedere è molto più tortuoso rispetto a quello di Clarissa, ed è più frammentario man mano che la pazzia invade la sua mente. A complicare i rispettivi percorsi “interni” interferiscono i brevi tragitti narrativi degli altri personaggi. Alla linea di Clarissa s’interseca quella di Peter Walsh, che oscilla fra l’ossessione del rifiuto di Clarissa, il ricordo del fallimento in India e quello della donna a cui si è legato laggiù. Invece, alla linea di Septimus si sovrappone quella della moglie Rezia, a cui è affidato il compito di narrare la vera storia del loro matrimonio, e vive nella vana speranza che il marito guarisca presto dal male che lo affligge57.

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Secondo quanto suggerisce Q. Bell nella sua autobiografia, il personaggio di Clarissa Dalloway era stato ispirato da Kitty Marxse, un’amica intima della madre di Virginia, che morì improvvisamente nel 1922 cadendo dalle scale. Tale corrispondenza è rintracciabile nel Diario. E’ l’8 ottobre 1922 e la scrittrice parla di lei come “una signora dal fascino delicato, di grazia eterea”. In un certo senso V. Woolf prova una certa antipatia nei confronti della donna e allo stesso tempo la notizia della sua morte le rovina la giornata. D’altronde, la stessa antipatia che Virginia provava per Kitty si riflette nel personaggio di Clarissa. Pochi giorni dopo, il 14 ottobre comunica nel diario: “Ora Kitty è stata seppellita e pianta da metà dei grandi di Londra; e io penso al mio libro. Kitty è caduta molto misteriosamente dalle scale” e prosegue annunciando che “ la Signora Dalloway si è ramificata in un libro”. In questo modo è come che vi sia un legame tra la morte Kitty e la nascita del libro. 55 V. Woolf, La signora Dalloway, a cura di S. Perosa, Milano, Mondadori, 1979, p. XVI 56 Il 30 agosto 1923 V. Woolf scrive: “Avrei molto da dire a proposito delle Ore e della mia scoperta: come io scavi bellissime caverne dietro i miei personaggi; questo mi sembra dia proprio ciò che voglio: umanità, profondità, umorismo. L’idea è che le caverne siano comunicanti e ognuna venga alla luce al momento giusto.” 57 Cfr V. Woolf, La signora Dalloway, a cura di S. Perosa

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Inoltre, lungo tutto il racconto intervengono altri episodi “di contorno”: la colazione di Richard Dalloway presso lady Bruton, la sua sosta dal gioielliere con Hugh, e molti altre vicende che contribuiscono a rendere un quadro critico della società, obiettivo cui è protesa la scrittrice. Il modo in cui i personaggi vengono presentati all’interno della storia, con il loro indagare su presente e passato, viene realizzato attraverso la tecnica del flusso di coscienza che è la novità dell’opera. Come scrive nel Diario, “i personaggi non devono essere altro che punti di vista: bisogna evitare la personalità a qualunque costo. Sono certa che questo me l’ha insegnato la mia avventura con Conrad.”58 Il libero flusso dei pensieri permette di oltrepassare con grande facilità le barriere del tempo; si passa così dal presente al passato e viceversa senza dover giustificare il salto temporale. In questo modo gli attori della scena introducono se stessi attraverso la propria e autentica ricostruzione del passato, poiché solo l’esperienza vissuta, il trascorso può aiutare a comprendere la realtà del presente, in altre parole ciò che l’uomo è oggi. Se Clarissa ama il presente è perché ama il passato; diversamente, in Septimus la memoria lacera il presente e fa a pezzi la vita. I ricordi della prima s’immergono nelle immagini di un giardino dove, anni fa, ancora ragazza le si rivelarono passioni e desideri forti; mentre i ricordi del secondo sprofondano nell’abisso della guerra che gli ha causato la propria instabilità mentale. Il loro è un rapporto caratterizzato da una sorta di reciprocità e dal misterioso legame che la scrittrice tiene unito nella sua mente. Infatti, attraverso la figura di Clarissa e di Septimus, V. Woolf presenta se stessa, in altre parole la sua parte razionale e quella, invece, posseduta dalla “pazzia”. L’obiettivo principale di Mrs Dalloway era proprio questo: raffigurare il mondo visto dal sano e dal pazzo, come lei stessa spiega nel Diario. Perciò, se Clarissa rappresenta la parte luminosa della vita della scrittrice, Septimus è il suo lato oscuro, quello pregno di follia. Leonard Woolf distingueva il doppio volto, quello sano e quello malato, della moglie in relazione al suo rapporto con la vita. Quando Virginia accettava il mondo esterno e dimostrava un comportamento razionale, allora lei stava bene; diversamente, se i suoi atteggiamenti apparivano fuori dagli schemi, dall’ordine imposto dalla società, allora lei era considerata “pazza”. Questa distinzione si riflette esattamente nella figura di Clarissa e in quella di Septimus. Nel romanzo Clarissa Dalloway è il prototipo di una donna che, nonostante celi in sé uno spirito rivoluzionario e un desiderio di indipendenza, alla fine ha accettato la mediocrità della vita. Lo dimostra il suo matrimonio con Richard Dalloway che le avrebbe garantito maggiore tranquillità 58

V. Woolf, Diario di una scrittrice, p. 95

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rispetto a quello con Peter Walsh, semmai un giorno l’avesse sposato. Si ha l’impressione che la scrittrice voglia trasferire in Clarissa tutta la frustrazione di una donna bella e intelligente, tanto più d’alta società, in modo molto sottile. Se Clarissa scende a compromessi, Septimus preferisce mettere fine all’orrore della sua vita piuttosto che soccombere lentamente, giorno per giorno. Septimus Warren Smith è l’antitesi di Clarissa, il suo destino di martire di guerra compare già nel nome War Smitten, lo sconfitto, che è l’ovvio anagramma del suo cognome. Nella storia egli è un reduce di guerra scosso dalle esperienze belliche che lo porteranno al suo graduale rifiuto del mondo e, infine, al suicidio. Egli incarna la malattia esattamente come Virginia la conosce e la subisce; infermità che tende a isolare l’uomo, a renderlo prigioniero della propria solitudine, e a ostacolarlo nel suo tentativo di rendere la vita degna di essere vissuta. Il disturbo mentale dell’ex soldato è dovuto principalmente al senso di colpa che prova per essere riuscito a sopravvivere alla guerra, mentre i propri compagni sono deceduti. In particolare, egli è afflitto per la morte dell’ufficiale Evans a cui era molto legato, e l’immagine della sua uccisione lo perseguita di continuo nelle proprie visioni. La figura di Septimus compare per la prima volta sulla scena del romanzo in seguito al rumore di uno sparo che è invece l’esplosione violenta di una macchina, probabilmente quella del Primo Ministro. Lo scoppio interrompe l’azione di Clarissa e serve a introdurre l’altro personaggio: “Septimus Warren Smith, trent’anni circa, pallido in volto, naso aquilino, scarpe marroni e giacca sdrucita, gli occhi di color nocciola, e nello sguardo un’aria di apprensione, che comunica anche agli estranei.”59 Nella realtà presente egli si sentiva un perfetto estraneo, come un peso, e lo pensa proprio mentre sta attraversando la strada: “sono io che ostruisco la strada”60. Inoltre, la mancanza di affetti reali, di amore da parte della moglie Rezia, la quale prova soltanto molta tenerezza nei suoi confronti, non gli danno motivo di uscire dal suo mutismo e dall’isolamento del triste ricordo. La sua follia è concentrata tutta qui: nel silenzio che riesce a dar voce solo nelle immagini che a lui comunicano una realtà diversa. La distanza fra il mondo della follia e della sanità è espresso proprio nel difficile rapporto con la moglie. I gesti di Rezia, quasi esitanti nel prendersi cura del marito, e le sue parole evidenziano l’incompatibilità dei due coniugi che vivono universi paralleli: Septimus è immerso nel ricordo

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V. Woolf, La Signora Dalloway, a cura di N. Fusini, p. 211 Ibidem p. 212

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della guerra, mentre la moglie percepisce il presente come se fosse “ancorato a un passato che è stato felice e che vorrebbe proiettato identico nel futuro.”61 In realtà, partecipa soprattutto la figura di Sir William a ricalcare i confini fra il mondo del sano e quello pazzo; più precisamente, egli ufficializza la distanza attraverso la posizione che ricopre, quella di “sacerdote della scienza”62. La sua figura incarna indirettamente la considerazione che ha Virginia nei confronti degli psichiatri. “Sir William era padrone delle proprie azioni, mentre il paziente non lo era. I più deboli a questo punto, crollavano; si mettevano a singhiozzare, si arrendevano [...].”63 Come dichiara L. Rampello: “ di fronte a tanto potere la parola di Septimus, sempre in cerca i significati simbolici, criminale, vittima, uomo in fuga, marinaio annegato, poeta dell’ode immortale, va solo ridotta al suo senso, strappata al fraintendimento continuo, rinchiusa assieme al corpo, in una bella e riposante clinica, e il caso è chiuso.”64 “Nudi, indifferenti, gli esausti, i senza amici subivano l’impronta della volontà di Sir William. Egli piombava e divorava. Rinchiudeva la gente. Era quella combinazione di decisione e di umanità che rendeva Sir William tanto caro ai parenti della sua vittima.”65 Paradossalmente V. Woolf non respinse mai seriamente l’interferenza psichiatrica, la psichiatria faceva parte del suo mondo e credeva nella malattia mentale con maggiore convinzione rispetto ai medici che l’avevano in cura.66 La malattia di Septimus è il simbolo dell’alienazione che l’essere umano prova di fronte ad una realtà con la quale non riesce a stabilire un contatto. La propria instabilità lo isola dal resto del mondo, lo fa cittadino di un altro regno che differisce in tutto e per tutto da quello in cui concretamente si trova. Nessuno lo capisce, neppure la moglie: “Ma Rezia non lo capiva. Il dottor Holmes è un uomo così gentile. Era così interessato a Septimus. Voleva solo aiutarli, diceva. Aveva quattro figli piccoli e l’aveva invitata a casa sua per il tè, disse a Septimus. Dunque era abbandonato da tutti. Il mondo intero a gran voce chiedeva: ucciditi, ucciditi, per il nostro bene.”67 L’invito del Dr Holmes a sua moglie Rezia isola Septimus, così come Clarissa si sente sola quando Lady Bruton invita a colazione soltanto suo marito. Entrambi i protagonisti vivono una condizione

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L. Rampello, Il canto del mondo reale: Virginia Woolf. La vita nella scrittura, p. 94 Ibidem p. 94 63 V. Woolf, La Signora Dalloway, a cura di N. Fusini, p. 302 64 L. Rampello, Il canto del mondo reale: Virginia Woolf. La vita nella scrittura, p. 95 65 V. Woolf, La Signora Dalloway, a cura di N. Fusini, pp. 302-303 66 Cfr T. Szasz, La mia follia mia ha salvato: la follia e il matrimonio di Virginia Woolf, Milano, Spirali, 2009, p. 155 Nel 1905 lo psichiatra che aveva in cura V. Woolf, il dott. Savage, affermava: “Ribadirei qui [...] che non esiste affatto la malattia mentale. La malattia mentale, il disordine mentale dipende tanto dall’ambiente quanto dalla condizione fisica dell’individuo”. 67 V. Woolf, La Signora Dalloway, a cura di N. Fusini, p. 292 62

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di abbandono e sono terrorizzati dalla solitudine, ma ognuno di essi ha un diverso modo di affrontare le avversità della vita. Nella coppia Septimus-Rezia e in quella Richard-Clarissa, la scrittrice riflette molto su di sé e sul suo rapporto con Leonard. Septimus è un uomo per il quale “l’amore tra uomo e donna è ripugnante [...] per lui la copulazione era una faccenda sudicia [...] ma Rezia diceva che lei doveva aver figli.”68 Virginia non aveva mai negato di volere dei figli, ma Leonard era contrario alla questione, e pur di non ammettere la sua decisione, preferì attribuire la colpa alla follia di Virginia. “Al tè, Rezia gli disse che la figlia della signora Filmer aspettava un bambino. Lei non poteva diventare vecchia senza avere dei figli!Era molto sola, molto infelice! Pianse per la prima volta da quando erano sposati. Da lontano, lui la udì singhiozzare [...] ma non sentì nulla.”69 Per quanto riguarda la coppia “felice”, quella composta da Richard e Clarissa, anche qui si riscontrano alcuni aspetti che rispecchiano la scelta matrimoniale di Virginia. Innanzitutto, la mancanza di amore; elemento, fra l’altro, che figura anche nella coppia precedente. Infatti, il matrimonio fra Richard e Clarissa non era stato dettato da questioni di cuore, bensì da motivi di altro ordine. Scrive T. Szasz, relativamente al matrimonio di V. Woolf: “avevano molte ragione per sposarsi, ma amarsi non era fra queste. Tanto meno fare sesso o fare figli. Virginia voleva occupare il ruolo sociale di donna sposata; aspirava a quello che le donne americane negli anni successivi alla seconda guerra mondiale erano solite chiamare “la laurea in Signora”. 70 Nel romanzo questo traguardo viene raggiunto dalla stessa Clarissa, il cui matrimonio con il “potente” Richard Dalloway le frutterà una rispettabile posizione sociale. Invece, per quanto riguarda la coppia Septimus- Rezia, la scelta della loro unione era stata dettata principalmente dalla follia di Septimus. Infatti, il timore che la guerra lo avesse reso insensibile a tutto lo spinge a fidanzarsi con Rezia; allo stesso modo Virginia, presa dalla disperazione della malattia, pensa che il matrimonio l’avrebbe potuta salvare dalla “pazzia”. Per tutto il romanzo si riscontra una relazione di affinità e di contrasto fra la capacità di Clarissa di illuminare ogni momento della giornata e l’incapacità di fare altrettanto da parte di Septimus. Spesso egli vede il mondo instabile: “Il mondo vacillava, tremava, minacciava di scoppiare in fiamme”71. Mentre lei trova la luce in “un fiammifero che brucia in un croco”72, lui si sente terrorizzato “dal graduale restringersi di ogni cosa verso un unico centro davanti ai suoi occhi, come se un qualche orrore stesse per giungere infine alla superficie e scoppiare in fiamme.”73

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Ibidem p. 289 Ibidem p. 209 70 T. Szasz, La mia follia mia ha salvato: la follia e il matrimonio di Virginia Woolf , pp. 105-106 71 V. Woolf, La Signora Dalloway, a cura di N. Fusini, p. 212 72 Ibidem p. 230 73 Ibidem p. 212 69

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La diversa visione della vita divide i destini dei due protagonisti: per Clarissa il romanzo si concluderà nell’abbraccio con la vita, per Septimus nell’abbraccio della morte. E’ durante la festa a casa di Clarissa che Lady Bradshaw, la moglie di Sir William, comunica alla padrona di casa la morte di un paziente del marito, avvenuta qualche ora prima. “Con la voce abbassata, attirando la signora Dalloway nel rifugio della comune femminilità, del comune orgoglio che entrambe provavano per le illustri qualità dei loro mariti, e la loro tendenza a lavorare troppo, Lady Bradshaw le sussurrò che proprio mentre stavano per uscire, era stato chiamato al telefono; un caso molto triste. Un giovane uomo (è quello che Sir William sta raccontando al signor Dalloway) si è ucciso. Era stato in guerra. Oh! pensò Clarissa, nel bel mezzo della mia festa, ecco la morte, pensò.”74

Clarissa è vulnerabile alla notizia del decesso di Septimus, non sa perché la notizia della morte di uno sconosciuto l’abbia sconvolta tanto. In effetti, è la paura che lei sentirà a colpirla, non la morte, che invece è toccata a Septimus. Il destino (Virginia Woolf) ha scelto per lei un’altra sorte, non si suiciderà, ma sentirà dentro di sé le stesse sensazioni che il visionario ha provato realmente. “S’era ucciso- ma come?Reagiva sempre così, quando d’improvviso qualcuno le raccontava una disgrazia: il vestito andava in fiamme, il corpo le bruciava. Si era buttato dalla finestra. D’un lampo il suolo era sfrecciato in alto; alla cieca le punte rugginose dell’inferriata l’avevano infilzato, trafitto. Giaceva lì per terra, col cervello che batteva bum, bum, bum e poi un gran nero lo soffocò. Lei lo vide così. Ma perché l’aveva fatto?[...] Lei una volta aveva buttato uno scellino nella Serpetine, niente di più. Ma lui aveva scaraventato via tutto.”75

La scelta della morte di Septimus si risolve in movente di vita e di accettazione per Clarissa: la morte diventa quasi un rito sacrificale, che le permette di continuare a vivere e di sentirne solo i brividi. Libera le proprie paure, il cosiddetto fear no more, accettando se stessa e tutto ciò che la circonda. Accetta il passato tanto quanto il presente, Peter Walsh tanto quanto Richard, la trasformazione di Sally e il delicato rapporto con la figlia Elizabeth, l’odio per Miss Kilman, il Primo Ministro così come l’ospite povera. Diversamente, Septimus è colui che ha il coraggio di guardare fino in fondo la realtà, di andare al fondo dell’abisso che scava in se stesso. Egli non riesce a tollerare la falsità dei rapporti sociali e la cecità dell’uomo di fronte ai veri problemi della vita. La sua pazzia è dovuta proprio al fatto che sia giunto alla conoscenza della verità che, insostenibile, lo conduce all’annullamento se stesso.

74 75

Ibidem p. 388 Ibidem p. 389

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Come l’ex soldato anche Virginia Woolf non riesce a sopportare il peso della sofferenza del ricordo e della realtà. In lui la scrittrice trasferiva le sue paure, l’angoscia e la giusta consapevolezza di vedere nella pazzia più a fondo degli altri. In questo modo Virginia si accosta di più alla figura di Septimus, attraverso la cui fine anticipa quella che sarebbe stata la sua scelta di vita: il suicidio. “All’aspirante suicida è affidato il suo messaggio di salvezza: il comunicare è salute, il comunicare è felicità.”76 Septimus non voleva morire, ma gli sembra l’unica soluzione per sfuggire agli incubi che lo assalgono: “la morte è un tentativo di comunicare: la gente sente l’impossibilità di raggiungere il centro che, misticamente, ci sfugge; [...] Nella morte c’è un abbraccio.”77 Il sentimento di angoscia che pervade la mente di Clarissa per la morte di Septimus conferma fino alla fine l’ambiguo legame che unisce i due protagonisti, per cui ne consegue che l’uno sia l’alter ego dell’altro, non in un senso propriamente mistico, ma nel modo in cui una figura “bilancia” l’altra, sebbene Clarissa e Septimus non abbiano un rapporto diretto nella storia. La complessa mente di Virginia Woolf si snoda attraverso queste due presenze che riflettono molto di sé, come è già stato detto. Entrambe servono a svelare il suo doppio volto che lei riesce a comunicare solo tramite la scrittura. Così le due voci si fondono all’interno di un unico spazio, di quel legame misterioso che li unisce: la mente.

76 77

L. Rampello, Il canto del mondo reale: Virginia Woolf. La vita nella scrittura, p. 47 V. Woolf, La Signora Dalloway, a cura di N. Fusini, p. 389

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