Dentro il welfare locale. L'inserimento di donne immigrate nel lavoro domestico e di cura

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A.D. MDLXII

U NIVERSITÀ DEGLI S TUDI DI S ASSARI F ACOLTÀ

DI

L ETTERE

E

F ILOSOFIA

___________________________

CORSO

DI

LAUREA

IN

SERVIZIO SOCIALE

A

INDIRIZZO EUROPEO

DENTRO IL WELFARE LOCALE. L’INSERIMENTO DI DONNE IMMIGRATE NEL LAVORO DOMESTICO E DI CURA

Relatore: PROF.SSA MARIA ANTONIETTA COCCO

Tesi di Laurea di: C ATERINA B ARRA

ANNO ACCADEMICO 2010/2011


Indice Introduzione

Capitolo 1 1.1

3

Bisogni dei soggetti non autosufficienti e lavoro di cura

5

I cambiamenti demografici in Italia: una popolazione che invecchia

5

1.2 Nuovi modelli familiari

7

1.3 Il lavoro femminile e la doppia presenza

11

1.4

Il lavoro di cura e il caregiver familiare

14

Il welfare e le risposte istituzionali al bisogno di cura

18

2.1

Le origini e i modelli di welfare state

18

2.2

La crisi del welfare state

22

2.3

I servizi e le politiche socio-sanitarie a favore delle persone non

Capitolo 2

autosufficienti: la situazione italiana

23

Donne migranti

36

3.1

Il fenomeno migratorio e le sue fasi

36

3.2

La presenza degli stranieri in Italia: un quadro generale

41

3.3

Soggiornanti stranieri regolari in Italia negli ultimi anni

45

3.4

L’immigrazione femminile

51

Immigrazione femminile e lavoro di cura in Italia

58

4.1

Il protagonismo femminile nel fenomeno migratorio

58

4.2

Famiglie transnazionali

63

4.3

“Badanti� o assistenti familiari?

65

4.4

Le assistenti familiari: chi sono e da dove provengono

66

4.5

Il rapporto di lavoro: contenuti, caratteristiche e aspetti critici

73

Capitolo 3

Capitolo 4

1


Conclusioni

85

Bibliografia delle opere citate e consultate

87

Sitografia

90

Allegati

91

2


INTRODUZIONE Il prolungamento della speranza di vita che caratterizza la popolazione italiana in questi ultimi anni, ha implicato l’insorgere di problematiche tra gli anziani, legate a malattie croniche e alla non autosufficienza. Di fronte all’aumento dei bisogni di assistenza, le famiglie, cui compete principalmente la responsabilità di cura, hanno trovato una soluzione attraverso l’assunzione di assistenti familiari straniere che convivono giorno e/o notte con gli anziani che accudiscono. Si è affermato così un sistema di welfare privato basato sul ricorso alle assistenti familiari straniere, risorsa sempre più essenziale per le famiglie, ma fragile, poiché impiegata in un settore scarsamente tutelato e con un’irregolarità diffusa a livello contrattuale. Infatti, la presenza rilevante di donne immigrate nel contesto italiano si è intrecciata con le esigenze delle famiglie degli anziani non autosufficienti, delineando una relazione che si configura come “un incontro tra persone fragili”, espressione che si riferisce alle difficoltà vissute dai differenti soggetti coinvolti, ovvero: donne straniere discriminate e poco tutelate, anziani in condizioni di debolezza e dipendenza, famiglie in cui le donne spesso sono le uniche ad assumersi le responsabilità di cura. Il presente lavoro, articolato in quattro capitoli, riporta un quadro generale del fenomeno migratorio ed in particolare quello femminile, ormai protagonista assoluto del mercato di cura italiano. Il primo aspetto esaminato è stato l’approfondimento delle ragioni, che spingono sempre più le famiglie italiane, a ricorrere al supporto delle assistenti familiari. Motivazioni, relative, in particolare, al fenomeno dell’invecchiamento della popolazione, alla nascita di nuovi modelli familiari, ma soprattutto al nuovo ruolo della donna all’interno della famiglia, moglie e madre sempre più divisa tra lavoro e impegni familiari. Si definiscono poi le risposte istituzionali al bisogno di cura, attraverso un excursus storico, che offre una visione generale dell’evoluzione del welfare state in Italia, analizzandone i vari modelli, la crisi, sino ad arrivare alla definizione delle varie politiche socio-sanitarie, a favore delle persone non autosufficienti, fornite oggi dal welfare state italiano. Si approfondisce, in seguito, il tema essenziale del lavoro, ovvero le migrazioni al femminile, definendone la nascita, le fasi e le motivazioni che portano le donne ad emigrare dal proprio paese, quantificandone poi la presenza, tramite stime messe a disposizione da importanti istituti statistici italiani. Il lavoro si conclude con un’analisi più dettagliata e approfondita del protagonismo femminile rispetto al fenomeno migratorio, sottolineando in particolar modo, il ruolo attivo delle donne migranti nei mercati del lavoro dei paesi riceventi, non più, infatti,

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soggetti passivi, che lasciano il proprio paese a seguito dei mariti, ma donne con grande spirito d’iniziativa, capacità strategica e progettuale. Infine, si esamina, quella che è la peculiare condizione della donna migrante inserita nel settore del lavoro di cura e nello specifico, si descrive come la migrazione per quest’ultima comporti notevoli effetti sia a livello di rapporti familiari, in particolare in relazione al distacco dalla famiglia di origine, sia a livello personale. Inoltre, è risultato assai interessante analizzare anche gli effetti prodotti dall’inserimento della donna straniera nel nuovo contesto di vita all’interno della nuova famiglia dell’anziano o del disabile da accudire, che spesso coincidono con il datore di lavoro, con conseguenti problematiche e aspetti critici che da tale rapporto scaturiscono.

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CAPITOLO 1 BISOGNI DEI SOGGETTI NON AUTOSUFFICIENTI E LAVORO DI CURA 1.1 I cambiamenti demografici in Italia: una popolazione che invecchia Negli ultimi decenni molteplici fattori hanno causato profondi cambiamenti demografici ed in particolare un profondo e rapido allungamento della vita media. L’aumento della popolazione anziana ha richiesto all’opinione pubblica in generale, ai decisori pubblici e agli studiosi in particolare, di stabilire un nuovo approccio nei confronti del tema della vecchiaia, non più da intendersi solo in senso negativo, in altre parole come periodo di decadenza dell’organismo umano, ma anche come fase della vita in cui si esprimono potenzialità individuali che nel periodo precedente il pensionamento non erano potute emergere per mancanza di tempi e spazi adeguati. Infatti, una persona in buona salute oltre i sessantacinque anni può essere una risorsa per i propri familiari e per il contesto in cui vive. L’essere “attivi” ed il sentirsi utili rappresentano condizioni fondamentali al fine di prevenire e promuovere la salute stessa dell’anziano ed evitare stati depressivi che spesso sono causa o accompagnano problemi fisici degenerativi 1. Sebbene dunque le definizioni anagrafiche stabiliscano che anziani sono gli individui che superano la soglia dei sessantacinque anni d’età, le condizioni fisiche, psicologiche, sociali dei soggetti che appartengono a tale categoria sono molto diversificate, inducendo chi si accinge a studiare questa fase della vita a considerare il tempo non solo in termini biologici ma anche sociali. La struttura della popolazione negli ultimi decenni è caratterizzata da una consistente contrazione dei tassi di fecondità e da una speranza media di vita dovuta a sua volta, al miglioramento di condizioni alimentari, culturali, abitative e ai progressi registrati in campo medico. Fra i fattori che hanno favorito il calo della fertilità ve ne sono alcuni che si possono far derivare dall’accresciuto interesse della donna verso la partecipazione al mercato del lavoro, in altre parole il ruolo acquisito dalla donna nella società l’ ha spinta più decisamente verso la ricerca dell’indipendenza, oltre che per motivazioni legate alla necessità di accrescere le fonti di reddito familiare, soprattutto in un contesto recente in cui il posto di lavoro diviene

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M. Anconelli, F. Franzoni, La rete dei servizi alla persona, dalla normativa all’organizzazione, Carocci Faber, Roma, 2003, pp. 97-99.

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sempre più precario. Da qui la necessità di aumentare i livelli d’istruzione e formazione, e quindi il tempo e le energie da dedicare a questo scopo. Di conseguenza l’intreccio di denatalità e aumento della speranza di vita ha causato un aumento della popolazione anziana e, in particolare, di quella molto anziana, soggetta a patologie spesso invalidanti che necessitano di cure sanitarie e assistenziali continuative. Ne deriva da un lato un mutamento del rapporto tra popolazione attiva e passiva e dall’altro crescenti richieste di servizi dal punto di vista del care (sanitario e sociale). È bene sottolineare che la presenza di un elevato numero di anziani, accompagnata ad una parallela diminuzione del tasso di natalità, ha già da oggi e avrà in futuro una grande influenza sulle scelte d’interventi in campo sanitario, assistenziale e, più in generale, sulle politiche del welfare. Infatti, il rapporto tra persone in età lavorativa e anziani, implica, in prospettiva, una progressiva diminuzione della produzione di ricchezza e, conseguentemente del gettito fiscale che si origina appunto dalla popolazione attiva e quindi in definitiva ciò rende disponibili minori risorse per sostenere la spesa pubblica e, in particolare il sistema di welfare2. In Italia si assiste non solo ad una dilatazione della transizione all’età adulta, ma anche ad un conseguente prolungamento dell’età della giovinezza, infatti, le tradizionali “cinque tappe” riconosciute dalla ricerca sociale come marcatori del passaggio all’età adulta (il completamento del ciclo di studi, l’ingresso stabile nel mondo del lavoro, l’acquisizione dell’autonomia abitativa rispetto alla famiglia di origine, la creazione di una propria famiglia di elezione e l’esperienza della maternità o paternità) hanno, infatti, subito un significativo slittamento temporale in avanti, avvenendo sempre più tardi rispetto a quanto accadeva alle generazioni precedenti3. Questo ha comportato numerose ripercussioni anche sulle scelte procreative delle giovani coppie italiane rimandate di frequente oltre i 30 anni e spesso limitate ad un solo figlio per coppia. Da ciò deriva che oggi il numero dei giovani tra i 1524enni in Italia è ormai più basso rispetto al numero dei 65-74enni e le proiezioni per i prossimi 20 anni segnalano come il divario diventerà probabilmente sempre più marcato4. Dai dati più recenti, ricavati da numerosi studi condotti dall’Istat si evince che se da un lato l’Italia è sempre più vecchia (un italiano su cinque è ultrasessantacinquenne), la natalità è in aumento, infatti, la media di bambini per donna è salito dal 1,35 del 2006 al 1,41 del 2009 e questo costituisce il livello più alto registrato nel nostro Paese negli ultimi 15 anni. Anche se vi è stato un aumento della natalità, ciò non basta per ringiovanire l’Italia; infatti nel 2009 la 2

Ibidem. M. Colombo, Cittadini nel welfare locale. Una ricerca su famiglie, giovani e servizi per minori, Franco Angeli, Milano, 2008, p. 57. 4 Ibidem. 3

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percentuale di individui con più di 65 anni ha raggiunto il 20,1%, mentre i minorenni sono scesi al 14,0%. Continuando di questo passo secondo le stime dell’Istat, nel 2050 gli anziani potrebbero arrivare a costituire il 43% della popolazione e i minori scendere al 15,4%. Altro indicatore chiave è rappresentato dalla cosiddetta “speranza di vita”, che dalle stime forniteci sembrerebbe aumentare, ovvero si passa dal 78,4 del 2006 al 78,9 del 2009 per gli uomini e dal 84,0 nel 2006 al 84,2 nel 2009 per le donne. Sempre in questo documento si sottolinea nuovamente come il dato più significativo sia il numero degli anziani5. L’Italia, infatti, è uno dei paesi a più elevato invecchiamento al mondo e questo complica la prospettiva di chi deve affrontare nodi economici, di pensioni, di sanità e di assistenza. Tutte queste trasformazioni hanno profondamente mutato la struttura demografica del nostro Paese in quanto il rapporto tra il numero di giovani e anziani nella popolazione è notevolmente cambiato rispetto al passato. Da suddette ricerche si prospettano per il futuro aumenti importanti per la popolazione ultrasessantacinquenne, con una conseguente crescita dell’indice di dipendenza degli anziani. 1.2 Nuovi modelli familiari Accanto al quadro demografico sopra descritto, occorre porre attenzione anche ai mutamenti, ad esso interponessi, riguardanti la struttura della famiglia contemporanea, che ha subito nel tempo modificazioni importanti e che continua a costituire, almeno nel modello di welfare italiano, il soggetto principale cui è affidato l’onere della cura dei soggetti deboli in essa presenti. La famiglia, infatti, un tempo era la prima forma di solidarietà più immediata, più naturale e ovvia che nelle società tradizionali ha incarnato la sfera di assistenza più prossima per l’anziano. Alla famiglia, infatti, erano delegate le funzioni assistenziali e di cura. Questo modello di Welfare è definito “ mediterraneo”e/o familiare ovvero si regge ancora sull’implicita e mai riconosciuta disponibilità delle famiglie, in particolare delle donne, che devono farsi carico dei bisogni di cura dei componenti del nucleo familiare. Nelle società moderne la famiglia cede parte delle sue competenze e delle sue funzioni assistenziali e le delega ad agenzie extra-familiari6. Oggi le trasformazioni in atto nel sistema demografico cambiano la struttura familiare e la capacità della famiglia di prestare le attività di cura tradizionalmente affidate alla sua responsabilità. Si considerino innanzitutto le 5

www.demo.istat.it. P. Di Nicola, Famiglia: sostantivo plurale, amarsi, crescere e vivere nelle famiglie del terzo millennio, Franco Angeli, Milano, 2008, pp. 113-114.

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modifiche intervenute nella composizione numerica della popolazione in conseguenza delle tendenze demografiche iniziate intorno alla fine degli anni ’60 di questo secolo: l’invecchiamento della popolazione e il calo della fecondità. La riduzione delle nascite è riconducibile a una molteplicità di fattori, ma tra le diverse spiegazioni, quella più comunemente adottata dagli analisti fa riferimento innanzitutto al rapido sviluppo economico italiano degli anni successivi al dopoguerra; sviluppo che è stato accompagnato a cambiamenti nei modelli di consumo e di vita, a trasformazioni comportamentali che hanno inciso sulla formazione delle nuove famiglie e sulle stesse tipologie familiari. Si assiste a una diversa strutturazione temporale dei corsi di vita individuali e di coppia: i giovani adulti tendono a prolungare la loro permanenza in famiglia e a posticipare l’età del matrimonio provocando necessariamente lo slittamento di altre fasi del ciclo di vita familiare, come la scelta di sposarsi e di conseguenza avere un figlio. La riproduzione, anche per la diffusione di nuove tecniche contraccettive, non è più un fatto casuale, ma ragionato e spesso programmato. Nel caso delle giovani coppie la scelta di diventare genitori è rimandata a qualche anno dopo le nozze e l’innalzamento dell’età alla nascita del primo figlio fa diminuire anche la probabilità di averne un secondo o un terzo. Si diffonde quindi un modello familiare centrato su un basso numero di figli che in molti casi risultano essere figli unici e altrettanti casi nei quali per una parte importante di nuovi nuclei familiari la mancanza di prole diventa una scelta definitiva. Gli effetti di un modello riproduttivo di questo tipo, oltre ad avere conseguenze dirette sul tasso di crescita naturale della popolazione, attualmente insufficiente per mantenere l’equilibrio demografico, si riflette sulla famiglia, riducendone le dimensioni. Parallelamente la durata della vita si è allungata fino a valori impensabili, comportando un aumento della popolazione anziana. La famiglia diventa sempre più stretta e lunga, non è più rappresentabile come un albero con molti rami, ma come un bacello: genitori, figli, nipoti. Infatti, sono oggi sempre più rare le coorti di zii, zie, fratelli, sorelle, cugini che popolavano la realtà della vita quotidiana del passato7. Vi sono al contrario più adulti e particolarmente più generazioni (genitori, nonni, bisnonni) contemporaneamente in vita. Essere genitori, così come essere figli è una condizione che tende a durare per un arco della vita molto lungo, senza quell’alternanza tra i due ruoli che in epoche passate era piuttosto la norma che l’eccezione. Si designano così, in modo più o meno conflittuale, nuovi modelli di relazioni familiari: la famiglia per lunghi archi di tempo diviene una comunità di adulti di

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Ivi, pp. 60-66.

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varia età cui sono riconosciuti ampi gradi di autonomia, pur entro rapporti di dipendenza e responsabilità di vario genere. Nello stesso periodo si sono verificati mutamenti relativi alle tipologie familiari, ad aspetti qualitativi, come l’affermarsi di nuovi comportamenti, di nuovi stili di vita, ognuno dei quali ha inciso in modo evidente sulla crescita della domanda di cura da parte di un sempre più elevato numero di soggetti e sull’impossibilità da parte delle nuove generazioni di occuparsene. Se la famiglia per la maggioranza degli italiani resta la coppia coniugata con figli, si affiancano nuovi modi di intenderla: le giovani coppie cominciano a contemplare l’unione di fatto non solo come periodo di prova dell’unione, ma anche e sempre più come forma alternativa al matrimonio. L’insieme di queste famiglie assume un peso sempre più rilevante. Inoltre a ciò occorre segnalare che il processo di nuclearizzazione delle strutture familiari, ossia la frammentazione delle famiglie estese e la costituzione di nuclei autonomi, vede il crescente affermarsi di un'altra forma familiare: quella unipersonale. La costante crescita delle persone sole è una formula familiare tipica delle società a forte invecchiamento. Se, infatti, le famiglie unipersonali rappresentano un universo molto eterogeneo, che si differenzia innanzitutto per età e per le diverse motivazioni che possono condurre gli individui ad optare per questa condizione di vita, in buona parte si tratta di persone anziane e in numero maggiore di vedove. Il loro aumento è dovuto essenzialmente a tre fenomeni: 1. Il venir meno della coabitazione tra generazioni (nella società contemporanea è normale, che nel momento del matrimonio, due giovani seguano una forma di residenza neolocale). 2. Al prolungamento della durata della vita, per cui gli anziani vivono ancora a lungo dopo che i figli sono usciti di casa. 3. L’aumento dei tassi di occupazione femminile. 4. Il fatto che le donne siano più longeve degli uomini, e sommando a questa differenza di mortalità la differenza di età al matrimonio (le donne si sposano circa tre anni prima degli uomini) il risultato è che mediamente le donne sopravvivono 10 anni ai loro mariti o compagni. Ecco perché in tutti i paesi occidentali, le persone sole sono in maggioranza donne anziane e vedove e se in passato la convivenza nel nucleo familiare di elezione permetteva all’anziano di trovare supporto, quando con l’aumento dell’età e la comparsa di malattie invalidanti non poteva più badare a se stesso, oggi è considerata la categoria più vulnerabile. Vivere da soli non significa affatto o necessariamente essere abbandonati o essere privi di relazioni nella 9


parentela più prossima, tuttavia i mutamenti nei modi di formazione della famiglia ed in particolare la riduzione delle nascite e l’instabilità coniugale, fanno sì che una quota crescente di anziani non abbia nella propria rete parentale le risorse necessarie a far fronte sia alla solitudine che ad un’eventuale non autonomia. In alcune situazioni si può verificare una ricoabitazione, ovvero l’accoglimento dell’anziano genitore nella famiglia di un figlio o di una figlia. Questo tipo di soluzione, che avviene quando l’anziano necessita di cure continue e non può condurre più una vita autonoma, può essere onerosa per tutti i soggetti coinvolti, infatti, richiede una complessa riorganizzazione non solo degli spazi, ma anche delle abitudini, dei ritmi di vita e delle relazioni tra familiari. Il lavoro di cura diventa sempre più impegnativo e oneroso, soprattutto per le donne. Infatti, i care giver sono spesso figlie uniche che si ritrovano alla soglia dei sessant’anni di età a dover fronteggiare i problemi degli anziani genitori, dei figli che vivono ancora in casa, dei nipoti e del lavoro ecc.8 Un altro cambiamento importante delle forme di fare famiglia è il progressivo aumento delle famiglie monogenitoriali. La formazione delle famiglie con un solo genitore (situazioni di vedovanza, madri nubili, separazioni, divorzi), riguarda soprattutto la donna, infatti, in molti casi è lei che va a costituire la famiglia monogenitoriale e questo avviene perché nel caso di rottura matrimoniale, soprattutto se i figli sono piccoli, vengono spesso affidati alla madre. Questa forma familiare è soggetta a maggiori rischi di povertà: l’impatto della fine di un matrimonio (o di una convivenza) da un lato espone il membro della coppia economicamente più debole (in genere la donna) ad elevati rischi di svantaggio economico e povertà; dall’altro può avere importanti ricadute sulle condizioni materiali e sociali di vita dei figli9. La famiglia, quindi, non solo può assumere una varietà di forme, ma anche al suo interno non è un’entità omogenea; la convivenza di soggetti che attraversano diversi cicli di vita fa sì che essa diventi il luogo in cui s’intrecciano percorsi, esperienze ed aspettative diverse. Ciascuno dei suoi membri, essendo portatore di proprie esigenze, esprimerà una differente domanda di servizi che risulta condizionata dalle varie tipologie familiari. Di conseguenza la domanda di servizi per le famiglie cresce e si diversifica non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente, richiedendo risposte sempre più specializzate e professionalizzate.

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Ivi, pp. 120-123. Ivi, pp. 81-87.

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1.3 Il lavoro femminile e la doppia presenza La sensibile crescita d’interesse da parte delle donne a svolgere un’attività lavorativa fuori casa, riconducibile a fattori di varia natura (come l’aumento del livello di istruzione o l’ampliamento della domanda nel settore terziario) rappresenta sicuramente uno degli aspetti di maggior novità della società italiana, poiché si tratta di un’esperienza che coinvolge un sempre più consistente numero di donne, anche tra quelle sposate e madri. Questo enorme cambiamento, che da un lato contribuisce all’emancipazione sociale ed economica dell’universo femminile, dall’altro pone in primo piano il problema della conciliazione tra i diversi mondi vitali (dalla famiglia al lavoro, alle diverse agenzie di socializzazione) all’interno dei quali la donna si trova collocata, ognuno con il proprio ritmo, le proprie esigenze e il proprio sistema di valori. Se, infatti, sotto il profilo culturale e legislativo, la parità tra uomo e donna e la legittimità dell’impegno femminile in più sfere sociali, tra cui quella lavorativa, sono valori accettati, ampiamente condivisi ed in parte tutelati, persistono molte discriminazioni e asimmetrie, sia all’interno che all’esterno della famiglia. La realtà, sia a livello familiare che lavorativo, appare ancora decisamente contrassegnata da strutture di genere anche se, certamente, nel corso del tempo i termini di questa diversità si sono modificati. La disuguaglianza è rimasta evidente nella quotidianità, soprattutto per quanto concerne il lavoro familiare. Indipendentemente dalla presenza di un impegno extradomestico, alla donna rimangono ancora essenzialmente attribuite le responsabilità di cura e accudimento. Di conseguenza la conciliazione lavoro-famiglia è assai complessa, anche perché per effetto delle trasformazioni demografiche, sono anche aumentati i soggetti che richiedono attività di cura: oltre ai minori (oggi sempre più spesso figli unici, che provocano un alto investimento in risorse e aspettative da parte dei genitori) si è prolungata la permanenza in famiglia dei giovani adulti. Parallelamente, il progressivo invecchiamento della popolazione e l’allungamento della vita media hanno fatto crescere il numero di persone anziane che vivono sole e inevitabilmente, con l’aumento dell’età, sono soggette a perdere la propria autonomia a causa di handicap che li obbligano a rimanere inseriti per lungo tempo nelle famiglie di origine. Inoltre, l’aggravarsi delle responsabilità familiari, il consistente aumento dell’occupazione femminile, menzionato in precedenza, fa sì che la condizione di un numero crescente di donne sia caratterizzato dall’esperienza del lavoro al di fuori ed all’interno della famiglia. Oggi, infatti, il reddito delle donne è necessario perché molti nuclei familiari siano in grado di mantenere un equilibrio tra risorse e bisogni. Anche per quelle che

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hanno scelto di entrare nel mondo del lavoro, inteso come mezzo per realizzarsi, la conciliazione tra responsabilità professionali e familiari resta una questione problematica. Il termine doppia presenza introdotto da Laura Balbo nel 1978, ripreso poi da altri studiosi e adesso diventato di uso comune, indica questa condizione esistenziale della donna lavoratrice, divisa tra lavoro familiare ed attività professionale. La caratteristica distintiva della doppia presenza è la sequenza di presenze e di assenze che le donne vivono rigidamente scandita, immodificabile individualmente: sono presenti a tempo pieno sul mercato del lavoro per il periodo fino al matrimonio (o alla nascita del primo figlio), per un certo numero di anni, successivamente ne rimangono assenti, per essere invece presenti a tempo pieno nell’organizzazione familiare. Le donne diventano allora delle equilibriste che fanno fatica a destreggiarsi tra famiglia e lavoro. La doppia presenza, infatti, riguarda la partecipazione contemporanea e non solo sequenziale a due organizzazioni temporali forti, con i loro diversi ritmi e le diverse esigenze. Due mondi vitali che hanno pari valore e richiedono pari investimento10. Questa frammentazione pone inevitabilmente problemi psicologici e rischi nella definizione della propria identità, anche perché impone di reinventare continuamente esperienze, rapporti e comportamenti. Un’altra caratteristica della doppia presenza è il fatto che essa venga a costituire l’esperienza più prolungata nella vita della donna adulta. Infatti, la riduzione del numero dei figli e la concentrazione delle nascite in un arco di tempo più breve rispetto al passato, cosa che caratterizza spesso le scelte procreative delle coppie moderne, ha portato ad un aumento degli anni in cui la donna può dedicarsi al lavoro professionale. Sebbene però le donne si trovino oggi ad avere maggiore autonomia rispetto ai ruoli domestici tradizionali e abbiano raggiunto un elevato livello di emancipazione sociale ed economica, subiscono una notevole condizione di stress nel momento in cui devono dividere il proprio tempo tra il lavoro e il ménage familiare (lavori domestici, accudimento dei figli o di componenti anziani, e così via). Infatti, molte donne continuano ad uscire dal mercato del lavoro quando hanno figli piccoli: in Italia negli anni novanta, tra le donne con un figlio, il tasso di attività si abbassa al 57,3% dal 70,9% delle donne senza figli, considerando la fascia d’età dai 20 ai 39 anni, e diventa del 48,6% se il bambino ha meno di 5 anni11. In questo senso, le trasformazioni economiche della società post-moderna, hanno reso maggiormente disponibili occupazioni come quelle svolte nell’ambito del terziario che sono in grado di assicurare una maggiore conciliabilità tra attività lavorativa e famiglia, rompendo, infatti, lo stereotipo del posto 10 11

L. Balbo, La doppia presenza, in “Inchiesta”, n. 32, 1978, pp. 3-11. C. Saraceno, M. Naldini, Sociologia della famiglia, Il Mulino, Bologna, 2001, p. 189.

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regolare caratterizzato dal tempo pieno, settimana lunga e dalla continuità di orario che erano peculiari del settore industriale. Anche alcuni interventi normativi, come la legge n.53/2000 recante “ Disposizioni per il sostegno della maternità e paternità, per il diritto alla cura e alla formazione e per il coordinamento dei tempi delle città”, hanno certamente contribuito a dare più ampie possibilità di conciliazione delle contrapposte esigenze personali e di lavoro delle donne. La legge prevede, oltre a nuove forme di flessibilità per la madre nella fruizione del periodo di astensione obbligatoria, anche l’estensione al padre di diritti precedentemente riconosciuti solo alla donna, come ad esempio il riconoscimento per entrambi i genitori del diritto individuale al congedo parentale per la nascita o l’adozione di un bambino al fine di promuovere una genitorialità piena. In questo modo è favorita la condivisione di responsabilità di cura dei figli tra genitori e il rapido reinserimento della madre lavoratrice nell’ambiente di lavoro. Secondo la legge 53/2000, il tempo del lavoro non può prevaricare gli altri tempi della vita e anche il tempo per la cura dei figli e per la cura familiare ha un valore sociale che deve essere riconosciuto12. In questa direzione va anche la legge n. 328/2000, “Legge Quadro per la realizzazione del Sistema integrato per Enti e Servizi sociali” che cerca di trovare un possibile equilibrio fra persona e famiglia, quest’ultima intesa come qualche cosa entro cui necessariamente la persona vive. La famiglia ha una funzione sia genitoriale che sociale e ha inoltre un ruolo di co-attore del sistema del welfare. In particolare l’art.16 “Sostegno alle responsabilità familiari” sostiene che il sistema integrato di interventi e servizi sociali riconosce e sostiene il ruolo peculiare della famiglia nella cura e nella formazione della persona e ne valorizza i molteplici compiti che la stessa svolge sia nei momenti critici e di disagio sia nello sviluppo della vita quotidiana. Inoltre, la legge introduce politiche di conciliazione tra il tempo di lavoro e il tempo di cura, servizi formativi di sostegno alla genitorialità, erogazione di assegni di cura e altri interventi a sostegno della maternità e della paternità responsabile, prestazioni di aiuto e sostegno domiciliare, servizi di sollievo per affiancare nella responsabilità del lavoro di cura la famiglia, ed in particolare i componenti più impegnati nell’accudimento quotidiano di persone bisognose di cure specifiche, ecc. Si tratta dunque di leggi che hanno dato sicuramente aiuto alle famiglie e alle donne lavoratrici, ma che si rivelano essere ancora insufficienti13.

12 13

M. Anconelli, M. Franzoni, op. cit., p. 120. Ivi, pp. 117-119.

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1.4 Il lavoro di cura ed il caregiver familiare Una funzione fondamentale che viene ancora oggi affidata in larga misura all’istituzione familiare è la cura dei componenti più deboli, quali bambini, anziani, persone portatrici di handicap. Il lavoro di cura e l’assistenza alle persone anziane non autosufficienti che, nonostante la loro disabilità, rimangono a vivere all’interno dell’ambiente familiare (situazione che riguarda la maggior parte degli anziani privi di autonomia in Italia) è sostenuta da una radicata cultura della domiciliarità presente nel nostro paese, da un’elevata avversione da parte dell’anziano nei confronti dell’istituzionalizzazione e della possibilità di un risparmio sui costi di ricovero in RSA (Residenza Sanitaria Assistita), o come in passato in case di riposo le quali costituivano per molte famiglie la risposta più diffusa e ritenuta “quasi naturale”14. Se questo fatto risulta essere positivo per l’anziano che può rimanere a vivere in famiglia, può avere effetti negativi sia sull’organizzazione familiare, sia sulla qualità dell’assistenza, perché va ad inserirsi all’interno di una struttura, quella familiare, già labile e sovraccarica di funzioni, con uno Stato che non sempre sa dare risposte adeguate ai cambiamenti sociali. La perdita dell’autosufficienza per un anziano costituisce un evento critico per sè, per la sua famiglia e per la rete familiare allargata. Una definizione del concetto di cura ci è stata fornita da Knijn e Kremer due studiose le quali affermano: “La cura è il quotidiano sostegno sociale, psicologico, emotivo e l’attenzione fisica alle persone. Essa può essere fornita sotto forma di lavoro remunerato o non remunerato, sulla base di un contratto o in forma libera e volontaria, in modo professionale o sulla base di un’obbligazione morale”15. La cura come attività e come concetto, comprende un grande numero di relazioni e rapporti tra attori, istituzioni ed ambiti di intervento. Infatti, essa può essere una responsabilità pubblica o privata, è informale, quando l’attività e la relazione si svolgono all’interno della famiglia, oppure vengono fornite da parenti, amici e vicini, è formale invece quando un’organizzazione professionale fornisce il servizio, anche se non necessariamente in un luogo diverso dall’abitazione. La cura può essere fornita dal settore pubblico, da quello privato o dal terzo settore16. Di conseguenza è importante sottolineare la figura del caregiver familiare, o informale. Infatti, oggi la “familizzazione” dell’attività di cura costituisce ancora un carattere fondamentale del nostro sistema di welfare, frutto come si è detto di un lavoro 14

Ivi, p. 101. M. Naldini, Le politiche sociali in Europa. Trasformazioni dei bisogni e risposte di policy, Carocci, Roma, 2006, p. 92. 16 Ivi, pp. 92-93. 15

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soprattutto femminile che ha anche la funzione di fare da “cerniera” tra responsabilità pubbliche e responsabilità private nel compito di assistenza e nella fornitura di servizi alla persona e sebbene a livello teorico sia dovere dello Stato tutelare i diritti fondamentali, quale il diritto all’assistenza, in pratica questa funzione viene affidata in misura rilevante alle capacità di self-help privato-familiari, ovvero alla mobilitazione di risorse finanziarie e sociali da parte dei singoli17. Già in passato all’interno delle famiglie che dovevano fronteggiare questo problema era soprattutto dalle donne (mogli, figlie, nuore) che ci si aspettava una risposta. Infatti, le caregivers come si è sottolineato sono soprattutto le donne. Esse oltre alla cura dei figli, che richiede un notevole impegno in termini di tempo ed energie non solo quando questi sono in tenera età, ma anche durante l’adolescenza e l’età giovanile, sono chiamate ad occuparsi anche della famiglia, o meglio dei propri genitori o suoceri, nel caso in cui questi non siano più in grado di badare a se stessi. Nella maggior parte dei casi l’obbligo filiale viene sentito soprattutto dalle figlie, donne adulte che sono investite e delegate a svolgere tale compito dagli altri familiari e dalle aspettative sociali: queste ultime si trovano così impegnate su due fronti della cura dei figli che crescono e dei genitori che invecchiano. Così come nelle prime fasi della vita, la cura è al centro dell’ultimo dialogo tra figli e genitori; le figlie di mezza età e, in particolare una figlia, se ne esiste più d’una, sono chiamate a mutare progressivamente ma sensibilmente il rapporto con i propri genitori, “far conto su di essi” a un “prendersi cura di loro”, così come i genitori anziani sono chiamati al difficile compito di accettare la propria attuale incapacità a restituire l’aiuto. In questo modo si presenta la problematica della gratitudine, ossia il riconoscimento di avere ricevuto o di ricevere aiuto, è un’esperienza che giunge sempre più tardi nel tempo. Se da una parte c’è il problema dell’anziano che subisce deperimento fisico o psichico e deve abituarsi alla nuova condizione di dipendenza, dall’altra c’è quello degli individui di mezzo, la così detta “generazione sandwich”18, che deve conciliare il duplice ruolo di genitori e figli caregivers, oltre che di lavoratori, quando decidano o siano obbligati a rimanere fuori dal mercato per dedicarsi completamente alle cure familiari. Occuparsi a tempo pieno e per diversi anni di un componente familiare non autosufficiente ha delle conseguenze su un possibile rientro del caregivers nel mercato del lavoro, perché il soggetto perde progressivamente competitività rispetto agli altri lavoratori e può ritenere che sia più vantaggioso rimanere a casa percependo l’indennità di accompagnamento o 17

G. Esping Andersen, I fondamenti sociali delle economie postindustriali, Il Mulino, Bologna, 2000, pp. 108113. 18 C. Saraceno, M. Naldini, op. cit., pp. 128-135.

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l’eventuale assegno di cura che viene fornito per l’assistenza. Si crea così un circolo vizioso che rischia non solo di compromettere la carriera lavorativa della persona che presta assistenza ma anche di isolarla dalla rete sociale, con i disagi psicologici che ne possono conseguire. Inoltre, la questione della cura non è solo una questione di genere, ma è anche una questione di classe e di razza, in particolare là dove sono gli immigrati a svolgere il lavoro di cura, siamo quindi di fronte a nuove filiere di cura, “alla catena globale della cura”, proprio per la complessità ed il numero dei caregivers e di carereceivers coinvolti19. Nel nostro paese l’assenza di vincolo nella spesa e nell’utilizzo di assegni di cura, così come in altri sussidi, più che sostenere il lavoro informale delle caregivers familiari incoraggia il lavoro irregolare. Da molte ricerche emerge che in tutta Europa nel campo della cura per gli anziani prevale un orientamento favorevole al cash for care, cioè l’incoraggiamento della cura privata informale, anche se in alcuni contesti, che non hanno mai conosciuto un vero e proprio sviluppo dei servizi di cura formali, come in Italia, che ha una forte cultura della domiciliarità, ciò ha fortemente incoraggiato il lavoro nero e a basso costo. Questo impedisce la formazione di un mercato sociale, con uno spazio di crescente rilievo che potrebbe dovrebbe avere il terzo settore, e non permette di affrontare seriamente il problema della qualità dei servizi erogati20. Tuttavia, bisogna dire che, sebbene il servizio di cura a persone non autosufficienti praticato a livello informale da familiari e conoscenti sia quantitativamente di grande rilievo nonché indispensabile per la sopravvivenza del nostro sistema di welfare, in quanto permette un grande risparmio in termini economici per la gestione dell’attività del care, esso non è tuttavia sufficiente a garantire con le proprie sole forze un’assistenza adeguata alla persona in stato di bisogno, e soprattutto è un modello che sta subendo forti pressioni sociali a causa dei cambiamenti strutturali che interessano la nostra società ed in particolare la famiglia. Alcuni dati resi noti dal Rapporto Istat 2009 sulle famiglie evidenziano, infatti, che il sostegno rivolto agli anziani proviene da una rete più articolata che in passato e si sostanzia nella condivisione del carico tra più attori (rete informale, operatori pubblici e privati) anche per coprire le aree di necessità più gravi e garantire un supporto continuo e qualificato su più dimensioni. L’intervento che proviene dall’esterno del nucleo familiare interessa maggiormente la famiglia in cui è presente una persona di 80 anni e più: la percentuale passa dal 51,6% del 1998 al 68,9% del 2003. Questa dinamica è proseguita con un incremento più marcato per i servizi offerti dalle istituzioni pubbliche, che oggi coprono un quarto delle

19 20

M. Naldini, op. cit., pp. 118-120. Ibidem.

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famiglie con anziani aiutate, contro il 36% che compete agli aiuti privati e il 66,3% che proviene dalla rete informale21. In definiva però occorre sottolineare che sicuramente l’intervento del servizio pubblico da solo non basta per il mantenimento di una situazione di tutela e di benessere psico-fisico della persona anziana, se non affiancato e sostenuto dal lavoro di cura di un caregiver familiare o professionale e ancora dalla presenza di una rete amicale o di vicinato. “L’insostenibile pesantezza del lavoro di cura” non solo è fattore funzionale alla soddisfazione dei bisogni non standardizzabili e non socializzabili, ma è anche fattore di ancoraggio e stabilizzazione delle identità sociali, di rafforzamento delle relazioni di fiducia, confidenza e affidamento, che sostengono le dinamiche di “identizzazione” e promuovono il senso di appartenenza e quindi la coesione sociale22.

21 22

www.demo.istat.it. P. Di Nicola, op. cit., pp. 122-123.

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CAPITOLO 2 IL WELFARE E LE RISPOSTE ISTITUZIONALI AL BISOGNO DI CURA 2.1 Le origini e i modelli di welfare Il welfare state nasce come risposta ai bisogni legati alla sussistenza. Le sue origini ed il suo sviluppo sono profondamente ancorati alle più ampie trasformazioni economiche, sociali e politiche che investirono l’Europa occidentale verso la fine del XIX secolo. L’evoluzione del welfare può essere suddivisa in tre fasi successive. Una prima ed elementare forma di Stato sociale venne introdotta nel 1601 in Inghilterra con la promulgazione delle leggi sui poveri (Poor Law). Queste leggi prevedevano assistenza per i poveri nel caso in cui le famiglie non fossero in grado di provvedervi e, oltre ad avere in sé un palese contenuto filantropico, prendevano le mosse da considerazioni secondo cui, riducendo il tasso di povertà, si riducevano i fenomeni negativi connessi come la criminalità. Il sistema inglese delle Poor Laws, fu l’esempio più completo di “assistenzialismo” pubblico, di natura repressiva e stigmatizzante, nel periodo antecedente l’introduzione delle assicurazioni sociali. Infatti, la Gran Bretagna istituì con le Poor Laws un sistema semi-carcerario, le ben note workhouses, sottoposte ad una stretta sorveglianza del governo centrale. Queste erano case di accoglienza che si proponevano di combattere la disoccupazione e di tenere, così, basso il costo della manodopera, ma si trasformarono, di fatto, in luoghi di detenzione forzata; la permanenza in questi centri pubblici equivaleva alla perdita dei diritti civili e politici in cambio del ricevimento dell’assistenza governativa23. Nella seconda fase, si assiste ad un vero e proprio decollo del welfare state con la cosiddetta “rottura liberale” del XIX secolo durante il quale furono messe in crisi le idee fino allora prevalenti su protezione sociale e dipendenza, in coincidenza con la diffusione dell’associazionismo privato e la sperimentazione delle prime forme di “assicurazione sociale” che garantivano i lavoratori nei confronti di incidenti sul lavoro, malattie e vecchiaia; in un primo momento queste erano su base volontaria, in seguito però divennero obbligatorie per tutti i lavoratori. Fu nel 1883 che in Germania nacque l’assicurazione sociale introdotta dal cancelliere Otto von Bismark per favorire la riduzione della mortalità e degli infortuni nei luoghi di lavoro e per istituire una prima forma di previdenza sociale. Tuttavia anche in questo caso le forme assistenziali sono da ritenersi individuali e da intendersi rivolte 23

M. Naldini, op. cit., pp. 23-24.

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unicamente agli appartenenti ad una classe svantaggiata (minori, orfani, poveri, ecc). La motivazione principale della svolta in questa fase fu la ricerca della pace sociale che aveva lo scopo di conciliare le rivendicazioni di maggior protezione da parte dei lavoratori proletari e la richiesta di manodopera a minor costo possibile da parte degli industriali24. La terza fase ha inizio nel dopoguerra. Il 1942 fu l’anno in cui, in Inghilterra venne pubblicato il Rapporto sulla povertà redatto da Lord Beveridge (Rapporto Beveridge) con il quale si posero le basi alla moderna concezione di sicurezza sociale e si definirono le linee del cosiddetto welfare state (Stato sociale). L’ambito in cui intervenire si amplia, infatti, il rapporto parla di lotta alla povertà, alla malattia, all’ignoranza, lo squallore e all’ozio. Lord Beveridge denuncia che “la miseria genera odio”, un’affermazione che ancora oggi, a fronte delle tragiche condizioni di povertà del mondo non sviluppato, mantiene tutta la sua importanza. Il rapporto afferma che ad ogni cittadino deve essere garantita una “soglia di sussistenza”, un “minimo di benessere” in tutte le fasi della vita (“dalla culla alla bara”). Perciò i cittadini possono usufruire delle prestazioni di cui hanno bisogno indipendentemente dai contributi versati. Viene introdotto un forte elemento redistributivo del reddito e della ricchezza non solo fra generazioni, ma anche fra classi sociali diverse e le risorse, infatti, vengono raccolte dai redditi delle imprese e da cittadini attraverso un sistema di prelievo fiscale progressivo, perciò fortemente redistributivo25. Viene così introdotto il principio dell’universalismo delle prestazioni. La politica sociale si basa sempre più sulla solidarietà di tutta la collettività ed in particolare attraverso un massiccio intervento dello Stato il quale dovrebbe garantire nei casi in cui venga meno il reddito personale, sicurezza economica a tutti i cittadini. La natura del disegno proposto da Beveridge rimane tuttavia all’interno della tradizione liberale e corregge i “vizi” del capitalismo, ovvero la redistribuzione del reddito e della ricchezza determinata dalle politiche di welfare corregge le grandi differenze di reddito e le sacche di povertà create dall’economia di mercato. I paesi che per primi si avviarono verso la realizzazione di uno Stato di benessere furono i paesi del Nord Europa. In generale si può affermare che lo “Stato di benessere” implica “uno Stato democratico per forma, interventista, che gestisce l’economia capitalista per giungere a uno sviluppo economico costante e per mantenere una piena occupazione26. Fu la Svezia nel 1948 il primo paese ad introdurre la pensione popolare fondata sul diritto di nascita. Il welfare divenne così universale ed eguagliò i diritti civili e politici acquisiti, appunto, alla nascita. Le politiche di welfare si armonizzano molto bene con le politiche 24

Ivi. p.25. Ivi. pp. 28-29. 26 M. Anconelli, F. Franzoni, op. cit., pp. 15-17. 25

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Keynesiane, ovvero politiche di sostegno della domanda per il raggiungimento di una piena occupazione, infatti, anche la spesa pubblica per realizzare queste politiche, sia che si traduca in servizi alla persona e quindi in nuova occupazione, sia che si limiti a distribuire contributi economici, determina comunque un incremento di reddito che si traduce in domanda di beni, che a loro volta provocano un generale effetto espansivo del sistema economico. In generale si può utilizzare una definizione tra le tante proposte dai sociologi: “il welfare state è un insieme di interventi pubblici connessi al processo di modernizzazione, i quali forniscono protezione sotto forma di assistenza, assicurazione e sicurezza sociale, introducendo fra l’altro specifici diritti sociali nel caso di eventi prestabiliti, nonché specifici doveri di contribuzione finanziaria”27. Molti autori hanno tentato di classificare i vari modelli di welfare state. Richard Titmuss fu il primo autore che elaborò una prima classificazione che distingueva tre modelli o funzioni della politica sociale, queste corrispondevano a tre fondamentali orientamenti dello stato sociale: 1. Il modello “residuale”, in cui lo stato si limita ad interventi minimi e temporanei, in risposta ai bisogni individuali, ma solo quando falliscono i canali sociali naturalmente preposti alla soddisfazione dei bisogni essenziali (il mercato e la famiglia); destinatari dei programmi sono individui in stato di effettiva necessità; 2. Il modello del “rendimento industriale” o “remunerativo”, in cui i programmi pubblici di welfare giocano un ruolo importante come “complementi” del sistema economico, fornendo livelli di protezione commisurati ai meriti e ai rendimenti sul lavoro; 3. Il modello “istituzionale redistributivo”, in cui i programmi di welfare costituiscono una delle istituzioni cardine della società e forniscono prestazioni universali a tutti i cittadini, indipendentemente dal mercato e dal reddito, sulla base del “principio del bisogno”28. Differenti sono i tre modelli individuati da Esping-Andersen, il quale individua due concetti chiave attraverso i quali misurare l’impatto delle politiche sociali nei diversi welfare state: il concetto di cittadinanza sociale e quello di stratificazione sociale. Per quanto riguarda il concetto di cittadinanza sociale, l’autore considera i diritti sociali in relazione alla loro capacità di “demercificare” ovvero, di riuscire a sottrarre il cittadino/lavoratore dalla dipendenza del mercato; il secondo concetto, ossia quello di stratificazione sociale, viene utilizzato per misurare il grado in cui le prestazioni sociali tendono a segmentare o integrare la

27 28

Ivi, p. 18. M. Naldini, op. cit., p. 44.

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popolazione. Infatti, le politiche sociali possono contribuire anch’esse alla creazione di disuguaglianze. A partire da queste analisi, l’autore ha elaborato la tipologia di tre diversi regimi di welfare che sono: il regime liberale, quello conservatore-corporativo e quello socialdemocratico. Nel welfare state di tipo liberale, in cui rientrano l’esperienza storica degli Stati Uniti e dell’Inghilterra, il welfare è appena tollerato come strumento residuale di stabilizzazione sociale, utilizzato in un primo tempo per il controllo dei poveri e successivamente per integrare i lavoratori industriali a più basso reddito; in entrambi i casi, le classi medie restano escluse. Si basa prevalentemente sulla prova dei mezzi e si caratterizza per modesti programmi di trasferimento a carattere universale o occupazionale. Il regime conservatorecorporativo che si incarna nell’esperienza storica della Germania bismarckiana invece, si basa su una tradizione statalista, sulla dottrina della Chiesa e sull’articolazione per categorie del corpo sociale. In questo regime il welfare viene utilizzato dalle monarchie autoritarie sul finire del XIX secolo come “antidoto” alla democrazia; fin dagli esordi, oltre ai lavoratori industriali, questo sistema includeva anche le classi medie, ma solo per ristabilire le gerarchie di reddito e di potere sociale minacciato dalla lotta di classe. Infine, il regime socialdemocratico tipico dei paesi scandinavi basato su un’espansione del welfare state imperniato sull’intervento pubblico in sostituzione sia del mercato che della famiglia, atto a promuovere un’eguaglianza degli standard di vita più elevati, per garantire all’intera popolazione l’accesso alle prestazioni di alto livello e qualità29. Un’ultima classificazione viene suggerita da Ferrera che distingue tra modelli occupazionali puri o misti e modelli universalistici puri o misti30. Nei modelli occupazionali la solidarietà pubblica copre quasi tutti, ma resta frammentaria. Infatti, ciascuna categoria di persone è tutelata in quanto lavoratore e in relazione ai contributi che gli sono stati versati nel corso della propria vita lavorativa. I modelli universalistici invece, determinano una complessa redistribuzione tra classi sociali, tra generazioni, tra persone portatrici di bisogni specifici e l’intera popolazione; perciò il peso dei rischi è distribuito sull’intera popolazione. Per Ferrera sono sistemi occupazionali puri: la Francia, il Belgio, la Germania e l’Austria; sono sistemi occupazionali misti: la Svizzera, l’Italia e l’Irlanda; sono sistemi universalistici puri: la Finlandia, la Danimarca, la Norvegia e la Svezia e infine sono sistemi universalistici misti: la Nuova Zelanda, il Canada e la Gran Bretagna31. 29

Ivi, pp. 45-46. M. Ferrera, Modelli di solidarietà. Politica e riforme sociali nelle democrazie, Il Mulino, Bologna, 1993, cit. in M. Anconelli, F. Franzoni, p. 18. 31 M. Anconelli, F. Franzoni, op. cit., p. 19. 30

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2.2 La crisi del welfare Molteplici furono le cause che determinarono la crisi del welfare state. Prima fra tutte fu l’aumento della domanda di servizi e prestazioni dovute al cambiamento di alcuni dati demografici e sociali significativi come, l’invecchiamento della popolazione, che determinò sicuramente un aumento della domanda sia di pensioni sia di servizi sanitari specifici ed altre cause importanti quali: i mutamenti del ruolo della famiglia, soprattutto l’aumento dell’occupazione femminile, che causò la crescita della domanda di servizi per l’infanzia e per il lavoro di cura, ma anche la nascita di nuove emergenze, nuovi bisogni legati anche a fenomeni relativamente recenti come l’immigrazione straniera32. A partire dagli anni 60’ si verificò un forte aumento nel numero e nella dimensione degli apparati pubblici, che essendo dominati da logiche burocratiche e clienterali, si mostrarono al tempo stesso inefficienti e inadeguati. Si assistette inoltre, ad una progressiva diminuzione della produzione di ricchezza, che rese disponibili sempre meno risorse per sostenere la spesa del welfare e questo creò un forte squilibrio poiché, se da una parte vi fu un calo di coloro che producevano ricchezza, dall’altra vi fu un forte aumento di coloro che invece dovevano fruire dei sostegni. A tutto ciò si aggiunga che l’economia dei Paesi cosiddetti “sviluppati” non era più in quella rapida crescita capace di produrre entrate fiscali crescenti da ridistribuire sotto forma di protezione sociale. In particolare sul fronte fiscale vi fu l’esigenza di coprire gli ingenti costi per l’espansione ed il mantenimento del welfare state che portò una continua crescita della pressione tributaria, quindi una diminuzione negli investimenti e nei consumi privati, con evidenti effetti negativi sul fronte occupazionale. Oltretutto, occorre precisare che i maggiori benefici di questo costosissimo apparato, gravante sulle spalle di tutti e quindi anche sui ceti poveri, non andarono per lo più ai veri bisognosi, bensì andarono ad alimentare i redditi della classe media, da cui proviene la burocrazia che gestiva il sistema. Si preparò così un terreno fertile per il fiorire del clientelismo e della corruzione. Il welfare fallì uno degli obiettivi più importanti cioè quello di determinare un’effettiva redistribuzione della ricchezza, perché le politiche sociali finirono per premiare la classe media. La crisi che investì il welfare state, dunque, non solo è legata ad un forte squilibrio tra bisogni e risorse disponibili, ma anche all’incapacità del sistema di adattarsi ai nuovi bisogni emersi. Di fronte a questa situazione si crearono aggiustamenti che tuttavia non avrebbero dovuto mutare gli obiettivi e l’impostazione generale dello stato sociale: ridefinizione di vecchi e 32

Ivi. p. 20.

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nuovi diritti, ritorni sperimentali alla selettività degli utenti, nuovi mix tra copertura pubblica e privata, obbligatoria e volontaria, occupazionale, nazionale, locale ecc., nuovi mix tra servizi pubblici e servizi privati. In particolare, secondo Ferrera33, per quanto riguarda la rete dei servizi alla persona e nello specifico i servizi sociali e sanitari furono tre le linee di tendenza da tenere sotto “monitoraggio”: 1. La crescente collaborazione tra pubblico e privato, in particolare il settore del privato sociale come: il volontariato, l’associazionismo e le cooperative sociali. 2. La “rimobilitazione” della comunità come insieme di risorse e di relazioni tra persone, che consentono agli individui e alle famiglie di costruire autonomamente le risposte ai propri bisogni, tramite scambi ed aiuti reciproci volti a migliorare la qualità della convivenza. 3. Un nuovo equilibrio tra servizi per tutti e selettività intesa come limitazione dell’accesso alle prestazioni in base a specifiche condizioni di bisogno e di reddito. Si assistette perciò ad un evitabile riprogettazione del welfare state che vide in concreto fronteggiarsi due schieramenti: uno che, riservando alla parte pubblica soltanto interventi residuali riguardando soprattutto le povertà estreme e l’emarginazione sociale, propone il ricorso al privato come l’unico luogo in cui possono convivere efficienza ed efficacia; l’altro che interpreta, invece, il ricorso al privato come un ulteriore strumento attivato, monitorato e garantito dalla parte pubblica per salvaguardare il più possibile il raggiungimento degli obiettivi stessi del welfare state, e perciò la scelta universalistica, fortemente redistributiva che essi implicano. Si parla perciò di welfare society, ossia, un assetto di protezione sociale entro cui si incontrano varie organizzazioni e agenzie che sono direttamente finalizzate a obiettivi di benessere, recuperando anche il ruolo della famiglia e delle reti primarie34. 2.3 I servizi e le politiche socio-sanitarie a favore delle persone non autosufficienti. La situazione italiana. Lo Stato, seppur deleghi buona parte del lavoro di cura all’istituzione familiare ed alle risorse umane in essa presenti, è il primo soggetto istituzionale che ha il compito di garantire i diritti dei soggetti più deboli. Il settore pubblico fornisce anche i servizi in natura e sostegni economici all’attività di cura, intervenendo in diversi modi a favore della popolazione anziana non autosufficiente, sia nell’attività di cura privata (svolta per lo più da soggetti privati in 33 34

Ivi. p. 22. Ivi, pp. 22-23.

23


luoghi privati) che in quella pubblica (svolta per lo più da soggetti pubblici in luoghi pubblici)35. In tale contesto la famiglia dovrebbe costituire il partner privilegiato di Stato e mercato nel compito di garantire un’assistenza appropriata all’individuo anziano, con disabilità o malattie croniche. L’entità degli interventi attuati dal settore pubblico è variata nel corso dei decenni in funzione ad eventi storico-sociali, che hanno contribuito a configurare un assetto di welfare sostenuto da un impegno ancora considerevole da parte dell’istituzione familiare e da un ampio coinvolgimento del settore privato nell’attività di care. Il welfare state, come si è già visto nel primo paragrafo, nacque in occidente alla fine del XIX° secolo come insieme strutturato di interventi pubblici legati al processo di modernizzazione che avrebbe dovuto rispondere al diffuso bisogno di protezione sociale da parte della popolazione con l’introduzione, da una parte di precisi diritti di cittadinanza e dall’altra di precisi doveri di contribuzione al benessere comune. Il welfare state entrò in crisi a partire dagli anni ’70 del secolo scorso in seguito a cambiamenti socio-demografici e ad una crisi a livello gestionale ed economica delle politiche pubbliche in generale e del welfare in particolare. Il nostro sistema di welfare ha risposto alla crisi generalizzata offrendo una “protezione pubblica leggera” e creando una “solidarietà circoscritta” fra gli individui, che d’altro canto hanno causato una grande frammentazione corporativa e una minore protezione contro la povertà36. Infatti il calo dei tassi di crescita delle economie occidentali, la trasformazione progressiva delle economie da industriali a economie basate prevalentemente sui servizi, oltre all’aumento della presenza femminile nel mercato del lavoro e al declino della fertilità, hanno portato ad un arretramento del welfare state a causa di un’insostenibilità organizzativa e di costi in favore del settore privato organizzato (profit e non profit)37. Gli anni ’70 per le politiche sociali danno inizio al processo di de-istituzionalizzazione detta welfare mix, caratterizzata da una compenetrazione tra sistema pubblico e le organizzazioni non profit. Attraverso queste nuove collaborazioni tra pubblico e privato si è tentato di risolvere alcuni dei problemi che sono stati alla base della crisi del welfare: abbassare la spesa, creare organizzazioni meno burocratiche, più elastiche, capaci di adattarsi a bisogni sempre diversi, coinvolgere maggiormente i cittadini in processi di auto-aiuto. In questo periodo si venne a creare la consapevolezza, a livello politico, che la condizione di benessere aveva dei costi che limitavano la possibilità di intervento dello Stato e di conseguenza ogni azione di cura e assistenza doveva essere valutata in termini di rapporto costo/risultato, 35

M. Ferrera, op. cit., pp. 24-26. Ivi, pp.27-28. 37 Ibidem. 36

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tenendo sempre presente l’importanza della qualità dei servizi stessi. I concetti tipici dell’ambito economico come costo, beneficio, efficienza, economicità rimandano alla nozione di “mercato” che inizia ad entrare nell’universo dell’assistenza. La produzione di servizi viene effettuata tramite sistemi di finanziamento offerti a fornitori privati da parte dell’ente pubblico. D’altra parte però questa fase è caratterizzata da una difficoltà a definire competenze e doveri amministrativi rispetto alle responsabilità di gestione ritenute proprie dei privati. I primi cambiamenti significativi si sono verificati all’inizio degli anni ’90, grazie soprattutto all’incalzare di alcune incombenze sugli enti locali, come: la necessità di mantenere, se non espandere, l’apparato di servizi da offrire a livello municipale in risposta all’aumento di richieste d’intervento da parte dell’utenza, l’esigenza di tenere sotto controllo il livello di spesa, l’opportunità di adottare criteri trasparenti di distribuzione delle risorse, uniti a una maggiore regolazione dei rapporti con gli enti privati che forniscono i servizi. I tentativi di risolvere questi problemi sono confluiti, negli anni ’90, nella creazione di mercati sociali dei servizi alla persona il cui intento è quello di permettere l’espansione dei servizi di cura senza determinare un eccessivo aggravio di costi per lo Stato, riducendo anzi l’intervento dello stesso e promovendo l’entrata nel settore della cura di fornitori privati di servizi. La strada che si è percorsa e che si sta percorrendo tuttora, è quella di indirizzare la domanda verso l’offerta privata con l’intento di creare un vero e proprio “mercato” che ha però delle caratteristiche particolari rispetto al mercato concorrenziale puro. Come, infatti, sostiene Ranci: “I beni scambiati sono prestazioni ad elevato contenuto relazionale e con finalità solidaristica che giustifica la partecipazione dell’amministrazione pubblica”38. Rispetto a questo è decisiva la riforma dei servizi sociali, che senz’altro costituisce lo snodo decisivo, non solo perché ha riordinato un sistema fortemente “misto”, in cui operano spesso in collaborazione, ma anche con sprechi e sovrapposizioni, sia soggetti pubblici che soggetti privati, ma anche perché ha stabilito alcuni principi generali di tutela assistenziale della popolazione in stato di bisogno, introducendo alcuni elementi innovativi delle politiche sociali, quali: i voucher, gli assegni di cura, che sembrano particolarmente adeguati nel quadro delle politiche specificamente finalizzate a rispondere ai bisogni di cura della popolazione39. Si è passati progressivamente da un sistema fondato sulla predominanza della fornitura pubblica dei servizi, o di una fornitura privata integrata in un sistema di programmazione pubblica, ad un sistema misto. 38 39

C. Ranci, Il mercato dei servizi alla persona, Carocci, Roma, 2001, pp. 32-35. Ivi, pp. 38-40.

25


Il nuovo assetto si propone maggiore competizione e pluralismo tra i fornitori, un più stretto intreccio tra assistenza formale ed assistenza informale, un rafforzamento della posizione dell’utente, chiamato a uscire da una condizione di dipendenza così come ad assumere maggiori responsabilità dirette (sia di compartecipazione al costo quando ne ha la possibilità, sia di selezione dei fornitori e del modello di cura che considera più adeguato alle sue possibilità). La tendenza in atto sembra essere verso la costruzione di un mercato che, a causa della peculiarità dei beni che vi sono scambiati (prestazioni ad elevato contenuto relazionale) e

dalla

finalità

solidaristica

(o

equitativa)

che

giustifica

la

partecipazione

dell’amministrazione pubblica, assume caratteristiche specifiche, ben distinte da quelle di un mercato normale. Si tratta di un mercato sociale, dove questo termine non richiama soltanto l’esigenza di una regolazione pubblica che garantisca le finalità equitative o solidaristiche del sistema, ma anche il fatto che in esso giocano un ruolo rilevante le risorse sociali (quali la solidarietà intergenerazionale, la responsabilità sociale delle agenzie che forniscono servizi, il legame fiduciario che si stabilisce tra chi riceve l’assistenza ed il caregiver) largamente disponibili nel tessuto sociale ma non facilmente integrabili entro un sistema regolativi complesso. Questa impostazione distingue fra la responsabilità del finanziamento, che è totalmente o in parte del soggetto pubblico e quella dell’acquisto che viene generalmente attribuita ai beneficiari. L’idea sottostante perciò è la costituzione di un vero e proprio “quasi mercato” in cui è la domanda finale espressa dai consumatori a determinare in gran parte l’offerta dei servizi, che per altro devono sottostare a standard e requisiti stabiliti dall’amministrazione pubblica. Si tratta di un “quasi mercato” perché concorrenza tra fornitori privati e potere di scelta dei beneficiari finali sono subordinati a linee di indirizzo politico e a forme di controllo pubblico della qualità dei servizi. Aspetti fondamentali della scelta e della valutazione dei servizi vengono infatti regolati dall’autorità pubblica, sia attraverso sistemi di autorizzazione e di accreditamento che selezionano il numero e la qualità professionale e organizzativa dei fornitori, sia tramite la definizione per la via amministrativa dei contenuti dei servizi e la determinazione politica del loro prezzo, sia infine tramite modalità di supporto e di accompagnamento delle scelte degli utenti e l’introduzione di vincoli relativi all’uso dei servizi da parte dei beneficiari40. Questi indirizzi di politica sociale, dato che l’esperienza del mercato sociale non è avvenuta in Italia con un’organica e precisa codifica a livello nazionale, né tanto meno con l’elaborazione di una politica coerente rivolta ad affondare il problema della popolazione anziana non

40

Ivi, pp. 45-49.

26


autosufficiente, presentano, accanto a elementi positivi, aspetti fortemente discussi e discutibili. Il primo da considerare è che nei servizi familiari la crescita della professionalizzazione dei fornitori ha fatto aumentare i costi, senza che per questo siano aumentati la qualità dei servizi e la loro migliore adeguatezza alle esigenze degli utenti. Nei fatti, non sembrano essere diventati maggiori i limiti alla discrezionalità e al potere di definizione dei servizi da parte dei fornitori, specie quelli organizzati del mercato privato. Il mercato sociale e sanitario è generalmente valutato come strutturalmente squilibrato; l’offerta risulta dominante rispetto a una domanda debole sul piano delle conoscenze tecniche, fragile per condizione psicologica e relazionale ed esposta quindi a condizionamenti e manipolazioni. Il potere di scelta è affermato attraverso una regolazione che prevede formalmente la possibilità per i beneficiari di contestare le prestazioni assistenziali ricevute e di rivolgersi ad altri fornitori. Ma questo potere, nei fatti, appare quasi sempre solo formale: la contestabilità di una fornitura di servizi di cura costituisce più una garanzia giuridica che una possibilità di azione effettivamente praticata. Ed è proprio per tutelare il cittadino utente che lo Stato vede crescere i propri doveri: Gori infatti afferma che “con l’affermarsi dei mercati sociali queste responsabilità aumentano ulteriormente, nella direzione, nella direzione della verifica, del controllo, della garanzia di standard minimi di qualità, della tutela nei confronti di un’utenza che è spesso debole, (dal punto di vista informativo e delle capacità di scelta tra alternative diverse)”41. Non dovrebbe avvenire, in altre parole, un arretramento dello Stato in questo senso, ma un diverso impiego delle sue risorse nel farsi “arbitro” e “controllore”, oltre che finanziatore, in parte, di attività di cura, per fare in modo che i diritti dei più deboli siano garantiti e che la concorrenza tra i fornitori sia leale e a vantaggio dell’utente. Ranci individua i principi che configurano il mercato sociale nella netta distinzione tra le funzioni di finanziamento, acquisto, fornitura di servizi, nella promozione e regolarizzazione dell’offerta privata dei servizi, nell’introduzione di meccanismi regolativi di mercato, nel riconoscimento della libertà di scelta dei fornitori da parte dei beneficiari e nel sostegno alle attività di cura svolte dalle famiglie e dalle reti informali. Se quindi le politiche di welfare in Italia si sono orientate alla costruzione di un mercato sociale come nuova forma di organizzazione del sistema assistenziale, che ha le caratteristiche di imporre regole concorrenziali tra finanziatori pubblici e privati e dare maggiori sostegni alla capacità di auto-

41

C. Gori, Le politiche per gli anziani non autosufficienti. Analisi e proposte, Angeli, Milano, 2001, pp.183-184.

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organizzarsi dei cittadini, occorrerebbe trovare una giusta collocazione e dignità anche al lavoro di cura informale. Il ricorso a badanti straniere per accudire anziani non autosufficienti è fortemente utilizzato dalle famiglie italiane, ma da parte dei servizi pubblici esistono ancora poche forme di sostegno e regolazione a questa forma di assistenza. L’Italia infatti, assieme agli altri paesi del welfare mediterraneo, ha trovato nello sviluppo dei mercati sociali una risposta ai nuovi bisogni assistenziali dovuti al progressivo aumento della popolazione anziana, rimanendo però all’interno di un’ottica di tipo “familistico” e sviluppando interventi che privilegiano i trasferimenti monetari alle famiglie. Lo Stato fornisce assistenza ai soggetti più deboli soltanto in via secondaria rispetto all’impegno espresso dalle reti informali, che rivela la persistenza di una cultura in cui il ricorso “all’esternalizzazione della cura avviene soltanto quando emergono “soglie di bisogno” più elevate di quanto si verificherebbe in una cultura in cui sia più legittima la delega di alcune funzioni di cura42. Si è visto spesso che questo sistema di rapporti di lavoro di tipo privato è in grande misura irregolare e svolto sulla base di prestazioni improprie, scarsamente qualificate, offerte nell’ambito di una semplice collaborazione domestica, spesso unica strategia permessa alle famiglie con basso reddito. In Italia, la tendenza a contare su aiuti di singoli lavoratori, comunque in atto anche in altri sistemi assistenziali europei, considerati più evoluti del nostro, è favorita da molti fattori, fra i quali la prevalenza dell’erogazione monetaria per l’assistenza, non vincolata a condizioni specifiche inerenti al bisogno concreto di assistenza, ma eminentemente a criteri molto generali legati al reddito oppure inerenti al grado di invalidità dei soggetti43. Le prime misure attuate a livello regionale e locale, hanno espresso un’altra prospettiva, ovvero, puntare su percorsi individualizzati di emersione sia per i lavoratori sia per i datori di lavoro, dalla diffusione di informazioni in merito alla possibilità di accedere al mercato regolare, alla definizione di procedure di formazione, di assistenza e di accompagnamento. Hanno così cercato di dare alcune prime risposte all’estrema frammentazione di questo mercato del lavoro, nel quale, per varie ragioni, è debole la presenza e la possibilità di mediazione dei sindacati e degli stessi enti pubblici territoriali e dove è molto alta l’accettazione sociale del lavoro sommerso, anche in relazione al luogo in cui si realizza laassistenza, ovvero la casa. Le politiche locali cercano di favorire sia la regolarizzazione delle ancora numerosissime assistenti familiari clandestine, sia di mantenere nel mercato dell’assistenza, nel medio e 42

C. Ranci op. cit., pp. 45. C. Gori, Il welfare nascosto. Il mercato privato dell’assistenza in Italia e in Europa, Carocci, Roma, 2002, pp. 131-133.

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lungo periodo, le lavoratrici “regolari”. Inoltre, tentano di confrontarsi con le modalità e i tempi del reclutamento, che ora avvengono informalmente e riguardano sempre più la breve durata, in quanto è essenziale rispondere alle emergenze e ai tempi brevi. Realizzare un ricambio regolare di manodopera, è cruciale in questo settore. Gli enti locali hanno pertanto il compito di agevolare la possibilità che le famiglie e gli anziani entrino rapidamente in rapporto diretto con le assistenti regolari. Riassumendo, le principali linee di indirizzo in merito alle politiche per gli anziani sono le seguenti: •

Deistituzionalizzazione degli interventi, o almeno una limitazione del ricorso a strutture residenziali a vantaggio del mantenimento dell’anziano all’interno del proprio contesto di vita familiare e sociale.

Costruzione di una rete di servizi che preveda diversificate possibilità di intervento, per assicurare una migliore personalizzazione dello stesso sulla base delle esigenze del singolo utente nell’ottica di un’integrazione sociosanitaria.

Attenzione alla qualità delle prestazioni ed alla capacità di scelta di personalizzazione di autonomia dell’utente. La seguente tabella proposta da Gori44 riassume la configurazione complessiva delle

politiche

socio-assistenziali

per

i

soggetti

non

autosufficienti

considerando il ruolo dei vari attori sociali e seguendone la linea di sviluppo storico45. Tab. 1 Politiche socio-assistenziali per i soggetti non autosufficienti (anni 60’-90’) Periodo storico Tipo di politica

Fine anni 60’/anni 70’

Anni 80’/metà anni Seconda metà anni 90’

90’/oggi

Politiche di innovazione

Politiche di welfare

Politiche per il

istituzionale

mix

lavoro nel care privato

Contenuti

Deistituzionalizzazione e Coinvolgimento

Coinvolgimento

inclusione sociale

utenti e famiglie più

terzo settore

attori a scopo di lucro Fonte: C. Gori, Il welfare nascosto. Il mercato privato dell’assistenza in Italia e in Europa, Carocci, Roma, 2002. 44 45

C. Gori, op. cit., p. 141. Ivi, p. 142.

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Ecco come si configura, secondo i principi sopra esposti, il sistema a sostegno delle persone non autosufficienti anziane in Italia. Esso comprende: 1. Servizi domiciliari: consistono nell’assistenza domiciliare integrata, ovvero nell’insieme combinato di prestazioni di carattere socio-assistenziale e sanitario erogate a domicilio ad anziani non autosufficienti, di norma a sostegno dell’impegno familiare, sulla base dei programmi assistenziali personalizzati dall’UVG (Unità di valutazione geriatrica). Il relativo servizio deve garantire, sulla base di una valutazione multidimensionale, prestazioni con caratteristiche di globalità, adeguatezza e continuità. Vi è poi l’assistenza domiciliare, ovvero l’intervento socio-assistenziale svolto a domicilio dell’anziano autosufficiente o parzialmente non autosufficiente che consiste nella cura della persona, igiene personale, somministrazione dei pasti ecc. Vi è poi l’Indennità di accompagnamento, la forma più diffusa di assegno di cura, presente in Italia dal 1980 quando fu introdotta dalla relativa legge n. 18/1980 “Indennità di accompagnamento agli invalidi civili totalmente inabili”46. Essa, infatti, viene data a tutti quei cittadini di qualsiasi età ai quali sia stata riconosciuta un’invalidità totale o permanente e che si trovino inoltre nella impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore o non siano in grado di compiere gli atti quotidiani della vita ed abbiano bisogno di assistenza continua. Questo servizio va a favore delle famiglie disponibili a mantenere l’anziano non autosufficiente nel proprio contesto ed è la Regione a prevedere un’idonea contribuzione per le attività socio-assistenziali domiciliari di rilievo sanitario, previste dal programma sanitario personalizzato, non erogate dal servizio pubblico, ma garantite direttamente dalla famiglia stessa o da persone anche non appartenenti al nucleo familiare. Infatti, il contributo, viene dato direttamente all’interessato che può utilizzarlo per acquistare assistenza professionale o darlo direttamente al proprio caregiver. In alcune situazioni però è stato dimostrato un uso improprio dell’indennità di accompagnamento; infatti si verificano molti casi in cui il trasferimento monetario serve per arginare situazioni di povertà, o per integrare il basso reddito familiare. Un altro uso dell’indennità che può essere definito improprio è riscontrabile nei casi di elevato bisogno assistenziale, per i quali sarebbe più opportuno l’uso di servizi alla persona o il ricovero in una struttura specializzata47. 46 47

M. Anconelli, F. Franzoni, op. cit., pp. 105-106. Ivi, p. 107.

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2. Servizi residenziali: consistono nell’inserimento dell’anziano in determinate strutture come ad esempio le case protette, ovvero strutture assistenziali residenziali a rilevanza sanitaria destinata prevalentemente ad anziani in condizioni di non autosufficienza fisica o psichica (nelle varie Regioni tale servizio può assumere diverse denominazioni). Vi sono poi le Residenze Sanitario Assistenziali (RSA), che riguardano la fascia degli anziani non autosufficienti, non assistibili a domicilio, affetti da patologie croniche e degenerative a tendenza invalidante per cui non sono necessarie specifiche prestazioni erogate in ambiente ospedaliero. Infine esistono altre soluzioni residenziali, infatti per gli anziani parzialmente o non autosufficienti vi sono anche “appartamenti (o case alloggio) protetti”, “casa albergo”, “residenza protetta”, country hospital ecc. 3. Servizi semiresidenziali: sono centri socio-riabilitativi diurni, ovvero strutture semiresidenziali socio-sanitarie che assistono, a sostegno delle famiglie, anziani sia parzialmente che totalmente non autosufficienti, attuando programmi di riabilitazione e di socializzazione. Possono essere organizzati presso case protette o residenze sanitarie assistenziali48. Nel nostro sistema di welfare esistono, tuttavia, diversi meccanismi di regolazione con i quali l’Ente pubblico struttura gli interventi precedentemente descritti. Per quanto riguarda i servizi residenziali, i principali meccanismi di regolazione degli interventi da parte dell’ente pubblico sono la convenzione e il pagamento delle rette per i soggetti che vengono ospitati dall’ente privato. Per quanto riguarda i servizi territoriali si sono succeduti vari meccanismi soprattutto a sostegno della domanda di cura. Le gare d’appalto Nella prima parte degli anni 90’ si assiste ad una predominanza di meccanismi competitivi tra organizzazioni private che forniscono servizi: era il periodo delle cosiddette “gare d’appalto al massimo ribasso” che venivano incontro all’esigenza di contenere le spese e di assicurare la trasparenza nella scelta. Da alcuni anni, seguendo anche le direttive Cee, per la gestione di servizi alla persona, in particolare servizi sociali, si segue il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, attraverso una procedura che tiene conto del progetto di gestione del servizio, considerando indicatori di qualità l’esperienza della ditta, la

48

M. Anconelli, F. Franzoni, op. cit., pp. 108-109.

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professionalità del personale utilizzato, la validità del metodo applicato e l’uso di eventuali strumenti innovativi adottati. Non si considera più unicamente il prezzo applicato a ribasso sulla base d’asta49. Il convenzionamento Nella seconda fase che riguarda la parte centrale degli anni 90’ si diffonde il modello del contracting out (convenzionamento), che tenta di conciliare l’aspetto economico con quello relativo alla qualità del servizio offerto. Esso è caratterizzato dalla presenza del soggetto pubblico che finanzia, seleziona e controlla la produzione dei servizi da parte dei privati. A partire dalla seconda metà degli anni 90’ si delinea una terza fase in cui il modello di convenzionamento viene criticato, perché sostanzialmente assegna un ruolo passivo all’utente, con la conseguenza che il servizio offerto può non essere adatto alle esigenze dell’anziano che necessita di cure. Di qui l’esigenza di assicurare al fruitore maggiore potere decisionale nella scelta e nella valutazione delle prestazioni e dei fornitori, di aumentare la competizione tra fornitori e dare più rilievo alla qualità. Gli strumenti che sembrano maggiormente soddisfare queste esigenze sono l’accreditamento, il voucher e l’assegno di cura, che per primi, tra gli interventi assistenziali, vengono esplicitamente disciplinati per via normativa dallo Stato italiano. Tutti e tre gli strumenti auspicano, accanto alla maggiore importanza che viene attribuita alla scelta dell’utente, un arretramento dello Stato, che si dovrebbe limitare al ruolo di finanziatore assicurandosi che il beneficiario del servizio abbia effettiva libertà di scelta50. Ecco in cosa consistono. L’accreditamento Nel sistema di accreditamento, creato principalmente per garantire un livello minimo di qualità e professionalità nei servizi di cura, l’ente pubblico fissa standard strutturali, qualitativi, e di budget per ogni tipo di intervento; i soggetti pubblici e privati che in un dato territorio dimostrano di offrire un servizio con i requisiti minimi richiesti, vengono accreditati come fornitori. Condizione indispensabile è che i fornitori siano accreditati per operare con l’ente pubblico. Il ruolo dell’ente pubblico è quello di pre-selezionare i possibili fornitori tra i quali l’utente ha piena libertà di scegliere quello che più si confà alle sue esigenze. Oltre a svolgere l’azione di monitoraggio, è possibile che l’amministrazione pubblica accompagni il fruitore nella scelta attraverso suoi funzionari pubblici (case managers). Il tentativo di porre al centro del sistema l’utente, offrendogli un servizio flessibile e vario nella gamma, vuole

49

C. Ranci, L’assistenza agli anziani in Italia e in Europa, verso la costruzione di un mercato sociale dei servizi, Franco Angeli, Milano, 2001, p. 196. 50 Ivi, p. 197.

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essere anche un incentivo all’emersione del mercato sommerso della cura51. Il sistema di accreditamento viene disciplinato dall’articolo 11 della legge n. 328/2000, “legge quadro per la realizzazione di un sistema integrato di interventi e servizi sociali”, nel quale si ribadisce che per l’accreditamento l’autorizzazione viene rilasciata in conformità ai requisiti stabiliti dalla legge regionale, che recepisce e integra, in relazione alle esigenze locali, i requisiti minimi nazionali (comma 1); i Comuni si occupano dei compiti di autorizzazione, accreditamento e vigilanza dei servizi sociali e delle strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale a gestione pubblica o dei soggetti privati (art. 6, comma 2, lettera c), e corrispondono ai soggetti accreditati tariffe per le prestazioni erogate nell’ambito della programmazione regionale e locale (art. 11, comma 3); le Regioni hanno invece la funzione di determinare dei criteri per la definizione delle tariffe che i Comuni sono tenuti a corrispondere ai soggetti accreditati (art. 8, comma 3, lettera n)52. I trasferimenti monetari Gori fa notare che, nonostante in questo ultimo periodo vi sia stato un aumento dei servizi domiciliari, gli anziani che ne usufruiscono sono ancora pochi, ed inoltre il numero di ore giornaliere che ricoprono sono piuttosto limitate. D’altra parte l’offerta di servizi pubblici è ancora scarsa. In questo senso lo Stato interviene a favore dei soggetti non autosufficienti per mezzo di trasferimenti monetari che possono andare a beneficio degli anziani o dei loro caregivers a seconda dell’uso che il nucleo familiare decide di farne. Negli ultimi anni il volume dei trasferimenti di denaro verso le famiglie è aumentato notevolmente rispetto ai servizi offerti, in quanto risultano essere più facilmente gestibili e implicano un minor intervento dello Stato con un notevole risparmio di risorse53. Ecco quali sono le principali misure adottate in Italia in questa direzione: Il voucher Il voucher o “buono servizio” è il “titolo per l’acquisto di servizi sociali”, che consiste in un documento dato all’utente da parte dell’ente pubblico, del valore corrispondente ad una determinata quota di servizi da acquistare sul mercato dei soggetti accreditati. Quando l’utente richiede uno specifico servizio consegna un buono al fornitore, il quale lo utilizza per chiedere allo Stato il rimborso del servizio reso. In questo modo lo Stato è certo che l’utente utilizza il denaro dato per acquistare servizi di cura54.

51

Ivi, p. 198. www.parlamento.it 53 C. Gori, Il mercato dell’assistenza privata in Italia e in Europa, cit., p. 86. 54 C. Ranci, op. cit., p. 203. 52

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L’articolo 17 della legge 328/2000 prevede “la concessione, su richiesta dell’interessato, di titoli validi per l’acquisto di servizi sociali dai soggetti accreditati del sistema integrato di interventi ovvero come sostitutivi delle prestazioni economiche diverse da quelle correlate al minimo vitale, nonché dalle pensioni sociali” (comma 1); stabilisce inoltre che “le Regioni disciplinino i criteri e le modalità per la concessione dei titoli di cui al comma1 nell’ambito di un percorso assistenziale attivo per l’integrazione o la reintegrazione dei soggetti beneficiari, sulla base degli indirizzi del Piano nazionale degli interventi e dei servizi sociali” (comma 2)55. L’assegno di cura In Italia, uno strumento assai più diffuso del voucher è l’assegno di cura, di cui si è trattato nel precedente paragrafo. Come già detto anch’ esso è un contributo economico dato dai Comuni o dall’Asl all’anziano (o ai suoi familiari), ma in questo caso serve per finanziare l’assistenza, viene cioè usato per acquistare assistenza privata o dato ai caregivers familiari come compenso per l’attività di cura svolta. Tuttavia accade sempre più spesso che l’assegno di cura venga usato dalla famiglia per pagare assistenza più o meno professionale nel “mercato nero”. La diffusione degli assegni di cura è un fenomeno recente in quanto nella quasi totalità dei casi è stato introdotto a metà degli anni 90’ ed ha già assunto caratteristiche specifiche nelle diverse aree geografiche del paese. Esso è più diffuso nei Comuni del centro-nord (64%) rispetto a quelli del sud (12%) e soprattutto nei Comuni di medio-grandi dimensioni. La ridotta presenza al sud è dovuta all’uso improprio dell’indennità di accompagnamento. Una caratteristica comune a tutte le realtà in cui sono stati introdotti gli assegni di cura è che questi dovrebbero svolgere la funzione di ritardare o addirittura evitare il fenomeno dell’istituzionalizzazione in un contesto di risorse e disponibilità di strutture pubbliche scarse. L’assegno di cura è indirizzato ai casi di non autosufficienza grave e di forte bisogno assistenziale, ed inoltre il reddito familiare deve collocarsi al di sotto di una soglia stabilita. Il cosiddetto “modello italiano” di assegno di cura (così definito da Gori) prevede: la valutazione del caso, di cui vengono analizzati, come specificato prima, il bisogno assistenziale, le condizioni economiche e la verifica della presenza di un caregiver disposto a seguire l’anziano. L’introduzione dell’assegno di cura, critica Gori, non è stato sostanzialmente accompagnato da un ‘efficace politica volta alla promozione di un mercato privato del care o allo sviluppo di occupazione: infatti l’assegno di cura non dà tutele previdenziali al caregiver ed inoltre quest’ultimo (nella maggioranza dei casi, si è visto, è una donna della famiglia) è incentivato ad assumere un impegno di cura a tempo pieno che rende 55

www.parlamento.it

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più difficile un suo possibile rientro successivo nel mondo del lavoro. Nel nostro Paese questa forte tendenza a mantenere l’assegno di cura all’interno del nucleo familiare è legata alla tradizione culturale che affida quasi totalmente il compito di cura dei soggetti più deboli alla famiglia56. In Italia, ribadisce Ranci, “ è ancora diffusa una certa resistenza a doversi rivolgere al mercato privato per la fruizione dei servizi i cui contenuti professionali non vengono considerati granché elevati e tutto sommato, facilmente compensabili dal lavoro dei familiari oppure, possiamo aggiungere, dalle cosiddette badanti”57.

56 57

C. Gori, Il mercato dell’assistenza privata in Italia e in Europa, cit., pp. 87-89. C. Ranci, op. cit., p. 204.

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CAPITOLO 3 DONNE MIGRANTI 3.1 Il fenomeno migratorio e le sue fasi Le migrazioni sono un fenomeno plurisecolare. In tutte le epoche storiche uomini e donne hanno manifestato la loro inclinazione alla mobilità geografica, al fine non solo di garantirsi la sopravvivenza, ma anche per avere la possibilità di poter esercitare una serie di professioni e attività58. Uno dei maggiori esperti delle migrazioni, D. S. Massey, sostiene che “gli uomini sono una specie migratoria”59 e che la “mobilità è un evento soprattutto sociale”, poiché gli appellativi con i quali definiamo i migranti scaturiscono in base all’idea di distanza sociale e in base alle aspettative di ruolo nei loro confronti. Lo studioso, inoltre, afferma che sono le società di destinazione che decidono come classificare il migrante, stabilendo chi può essere considerato tale e cosa debba intendersi per migrazione e ciò si evince dal fatto che oggi le tipologie con le quali viene definito e organizzato il fenomeno migratorio, non riflettono tanto la natura obbiettiva dello stesso, ma ne rispecchiano gli interessi e le aspettative delle società di accoglienza60. Numerosi studi hanno evidenziato varie tipologie di migrazioni. Vi sono migrazioni interne e migrazioni esterne. Le migrazioni interne derivano dalla cosiddetta mobilità interna, ovvero da quei movimenti che si realizzano all’interno del territorio dello Stato; le migrazioni esterne invece, derivano da una mobilità internazionale, ossia oltre i confini dello Stato. Tra le due tipologie di migrazioni vi sono numerose differenze; prima fra tutte è che le migrazioni interne sono generalmente libere, invece le migrazioni internazionali sono vincolate da limiti derivanti da tutta una serie di regolamentazioni, ossia le politiche migratorie, tramite le quali vengono definiti sia il diritto all’immigrazione, sia il diritto all’emigrazione per i cittadini. Inoltre le migrazioni internazionali sono generalmente più traumatiche rispetto alle migrazioni interne, poiché, innanzitutto, colui che emigra si trova straniero in un paese straniero, dove è assai più difficile inserirsi all’interno della società a causa di molteplici fattori tra i quali, molto spesso, una scarsa dimestichezza con la lingua, la diversità della propria cultura, ecc. Ancora oggi non è facile definire con certezza il numero dei migranti internazionali e questo

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L. Zanfrini, Sociologia delle migrazioni, Editori Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 39. D. Massey cit. in M. Ambrosini, Sociologia delle migrazioni, Il Mulino, Bologna, 2005, p.15. 60 Ivi. p. 23. 59

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soprattutto perché una gran parte di essi entra e risiede negli altri paesi irregolarmente o clandestinamente e quindi sfugge a qualsiasi tipo di statistica61. Ulteriori tipologie di migrazioni sono le migrazioni regolari ed irregolari. I migranti regolari sono coloro che hanno l’autorizzazione da parte dell’ordinamento giuridico di entrare in un determinato paese, di potervi risiedere a anche lavorare; al contrario i migranti irregolari sono coloro che entrano, risiedono e lavorano in un altro paese senza alcuna autorizzazione. Si parla a tal proposito di migrazioni clandestine e cioè migrazioni messe in atto da coloro che riescono ad entrare in un paese straniero eludendo qualsiasi controllo alla frontiera. All’interno della categoria dei migranti regolari però, è possibile operare ulteriori distinzioni. Vi sono i free migrants, ossia stranieri che sono in possesso di determinate nazionalità di paesi con i quali il lo Stato in cui risiedono ha sottoscritto accordi di libera circolazione; vi sono i residenti a titolo permanente, ossia coloro che sono in possesso di un determinato titolo di soggiorno con il quale usufruiscono del diritto di risiedere in un determinato paese per un tempo illimitato e infine i migranti temporanei, ovvero coloro che dispongono del diritto di soggiorno di durata limitata62. Esistono anche le migrazioni volontarie e quelle forzate. Le migrazioni volontarie sono da attribuire a coloro che lasciano il proprio paese volontariamente, mentre le migrazioni forzate vengono attribuite a coloro che sono costretti a lasciare il proprio paese a causa di guerre, persecuzioni, catastrofi naturali o progetti di sviluppo che sconvolgono in tale modo il proprio ambiente di vita tanto da privarli dei loro mezzi di sussistenza. Si deve però tenere ben distinta la differenza tra migrante forzato e rifugiato. Quest’ultimo ai sensi della “Convenzione di Ginevra del 1951”, è colui che risiede al di fuori del suo paese d’origine e che non può o non vuole ritornare in patria, a causa di un fondato timore di essere perseguitato a causa della sua razza, della sua religione, della sua nazionalità, della sua appartenenza ad un determinato gruppo sociale o opinione politica. Diversa dal rifugiato è la figura del richiedente asilo, cioè di colui che fa domanda di rifugio politico ad un altro Stato. Un ultimo esempio di migrazione forzata sono le migrazioni coatte, ossia gli spostamenti di coloro che vengono obbligati a lasciare il proprio paese con la forza e contro la loro volontà; l’esempio più eclatante è quello, in passato, della tratta degli schiavi per esempio63. Infine esistono le migrazioni temporanee e permanenti o definitive. In realtà operare una netta distinzione fra i due tipi di migrazioni è difficile, poiché, le migrazioni temporanee, ovvero quelle messe in atto dal migrante che sceglie di andare a risiedere per un determinato arco di 61

L. Zanfrini, op. cit., pp.24-26. A questo proposito cfr. inoltre: M. Ambrosini, S. Molina. Ivi, pp. 27-30. 63 Ivi, pp. 31-33. 62

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tempo in un altro Stato, possono in molti casi e per svariati motivi diventare migrazioni permanenti. Come d’altra parte può accadere, e ciò avviene spesso, che le migrazioni permanenti si interrompano bruscamente e diventino ritorni inattesi in patria, anche a distanza di generazioni. Da ciò quindi si deduce che la durata prevista e preventivata dell’esperienza migratoria, molto spesso nei fatti, non coincide affatto con quella effettiva e reale. Inoltre è opportuno precisare che le migrazioni che poi diventano definitive tendono a trasformarsi in immigrazioni da popolamento, dando vita alla nascita di minoranze etniche, ovvero le cosiddette seconde generazioni. G. Rosoli e R. Cavallaro offrono un quadro più dettagliato delle seconde generazioni distinguendole in: seconde generazioni native o primarie, seconde generazioni improprie e seconde generazioni spurie. Fanno parte delle seconde generazioni native o primarie coloro che nascono nel paese di immigrazione e perciò fin dalla loro nascita hanno sviluppato i loro rapporti con la realtà del paese d’immigrazione; fanno parte delle seconde generazioni, dette improprie, coloro che hanno emigrato dal loro paese d’origine in un’età compresa tra gli uno e i sei anni e perciò hanno iniziato il ciclo scolare nel paese d’immigrazione; infine fanno parte delle seconde generazioni, dette spurie, coloro che emigrano dal loro paese in un età compresa tra gli undici e i quindici anni, avendo portato già a termine il ciclo di studi o avendolo anche interrotto e quindi entrano in un altro paese quando ormai i loro meccanismi fondamentali di socializzazione hanno avuto modo di svilupparsi in un contesto sociale e culturale diverso64. Infine è utile precisare che esistono anche le migrazioni di ritorno e che anch’esse possono essere temporanee o definitive e volontarie o forzate. Si distinguono almeno quattro tipologie di migrazioni di ritorno e sono: i ritorni occasionali (di breve durata, generalmente utilizzati per far visita ai parenti, o per partecipare ad eventi familiari importanti), i ritorni stagionali (dettati dal tipo di attività svolta), i ritorni temporanei che possono poi diventare definitivi, perché può accadere che nel paese nel quale si è immigrato non si sia trovato lavoro o perché magari sia fallito il progetto di avviare un impresa ecc. ed infine i ritorni definitivi che prevedono, generalmente, il reinserimento nel proprio paese e a tempo indeterminato di colui che aveva emigrato all’estero65. Al XV secolo, l’epoca delle grandi esplorazioni geografiche, gli studiosi fanno risalire l’inizio delle migrazioni dell’età moderna. Numerosi studi sul fenomeno hanno indicato vari periodi, o meglio varie fasi, del processo migratorio. La prima fase, detta “mercantilistica e della

64 65

G. Rosoli, R. Cavallaro, cit. in L. Zanfrini, op. cit., p. 35. Ivi, pag. 36.

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colonizzazione del Nuovo Mondo66”, viene cronologicamente collocata tra il 1500 e il 1800, periodo in cui l’immigrazione, non solo era libera, ma era anche incoraggiata. Grazie alle conquiste geografiche di quest’epoca, che spinsero gran parte delle persone a compiere migrazioni transoceaniche, vi furono due grandi movimenti di popolazione che si andarono riversare nelle Americhe, in Australia, nel Sud Africa e in Nuova Zelanda. Il primo fu quello degli europei, che per motivi, quali: esercizio di attività commerciali, predicazione missionaria , controllo politico e militare delle terre occupate ecc. si riversarono in migliaia nelle terre conquistate. Il secondo movimento fu quello degli schiavi, che venivano portati via in modo coatto dalla loro terra, l’Africa, per essere deportati nelle Americhe. “Lo schiavismo rappresentò, secondo diversi studiosi, una sorta di predecessore dei moderni dispositivi di reclutamento di forza lavoro immigrata da impiegare per lo svolgimento delle mansioni più gravose”67. Nel XIX secolo, con l’abolizione della schiavitù, nacquero nuovi sistemi di reclutamento di forza lavoro da destinare alle piantagioni, alle miniere e alle grandi opere edili. Tali sistemi, si stima, siano arrivati a coinvolgere tra i 12 e i 37 milioni di lavoratori, che però venivano sottoposti a condizioni di lavoro e condizioni retributive assai svantaggiose. La seconda fase delle migrazioni è quella “liberale” che risale al periodo compreso tra il 1840 e la Prima guerra mondiale. Periodo in cui si assiste ad una libera circolazione, poiché gli Stati eliminarono ogni divieto precedentemente imposto. Sono gli anni della rivoluzione industriale ed è in questo periodo storico che si registrano i più alti livelli di emigrazione: oltre 48 milioni di europei lasciarono il proprio paese per ricostruirsi una vita in America ed in particolar modo negli Stati Uniti; i primi ad emigrare furono gli inglesi seguiti in un secondo momento dai tedeschi. In queste terre il lavoro degli immigrati era considerato indispensabile per la crescita dell’economia del paese tanto che l’immigrazione era non solo libera, ma veniva incentivata da campagne di reclutamento che venivano fatte dalle compagnie navali. Tanto fu imponente il volume dei movimenti migratori di questo periodo, che questa fase è anche detta della “Grande Emigrazione” ed ebbe un fortissimo impatto dal punto di vista demografico, economico e culturale. Con lo scoppio della prima guerra mondiale l’immigrazione non sarà più libera, ma sarà soggetta a una serie di limitazioni a causa dell’introduzione di numerosi controlli dei movimenti sia in ingresso che in uscita, attuati per rispettare le quote annuali di immigrati previste per ciascun paese d’origine, in base

66 67

L. Zanfrini, op. cit., p. 40. L. Zanfrini, op. cit., p. 41.

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ad una selezione che prendeva in considerazione le qualifiche professionali possedute dai candidati. La terza fase è detta “fordista o neo-liberale68”. Fordista perché coincise con il consolidamento in Europa di un modello produttivo basato sulla grande impresa, con il ricorso al reclutamento di un enorme quantità di manodopera a bassa qualificazione composta soprattutto da immigrati e neo-liberale perché, vi era la ferma convinzione, che non si potesse arrestare la crescita economica di un paese a causa della mancanza di manodopera. In questo periodo quasi tutti i paesi europei industrializzati fecero, infatti, ricorso a manodopera importata sia di persone giunte nel loro paese spontaneamente oppure tramite programmi di lavoro temporaneo. Le aree di reclutamento erano costituite in particolare da nazioni dell’Europa meridionale quali: l’Italia, l’Irlanda e la Finlandia, ma anche da paesi del bacino del mediterraneo e soprattutto del Nord Africa. Il reclutamento si basava generalmente su schemi appositi e stabiliti con i paesi d’origine e prevedevano una permanenza temporanea, il rilascio di un permesso di soggiorno collegato al lavoro e un accesso limitato ai diritti civili e sociali. Perciò prevalse l’ideologia che non favoriva l’insediamento permanente, ma che invece, si basava su una concezione prettamente funzionalistica dell’immigrazione, legata soprattutto ai fabbisogni congiunturali di manodopera e dando vita alla figura ideal tipica di questa fase che è il “gastarbeiter” ovvero lavoratore ospite. L’ultima fase delle migrazioni è quella “post-industriale”69 che si evolve tra gli anni 60’ e i primi anni 70’. In questi anni i paesi europei posero fine alle politiche di reclutamento attive e le migrazioni d’ora in poi verranno viste come emergenze dalle quali difendersi e gli immigrati assumeranno il carattere di presenze non volute, tollerate o respinte a seconda dei casi e sempre meno legittimate da considerazioni economiche. Inoltre i flussi migratori diventeranno sempre più indipendenti da qualsiasi politica di programmazione dei paesi di destinazione. Si parla a tal proposito di migrazioni spontanee le quali sono molto spesso il frutto delle profonde trasformazioni delle politiche migratorie, che divengono estremamente restrittive e stimolano così l’ immigrazione clandestina e il ricorso sempre più spesso a dispositivi diversi da quelli delle immigrazioni per lavoro, come per esempio l’uso strumentale della richiesta d’asilo politico. In questa fase delle migrazioni vi è dunque il dominio di politiche restrittive e flussi spontanei che trasformano i paesi dell’Europa meridionale, Italia per prima, in aree di destinazione di flussi eterogenei che giungono al di fuori di qualsiasi politica di reclutamento attivo e spesso senza alcun legame col passato 68 69

Ivi, pp. 44-50. Ivi, pp. 50-52.

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coloniale. Queste caratteristiche peculiari ed in particolar modo le irregolarità dal punto di vista delle presenze e del lavoro, fa si che si delinei un modello particolare di immigrazione definito da molti autori: “modello d’immigrazione mediterraneo”70. 3.2 La presenza degli stranieri in Italia: un quadro generale Affinché le persone straniere entrino nel nostro Paese per lavoro, vi devono essere alcune condizioni favorevoli, prima fra tutte è che il mercato del lavoro italiano necessiti di manodopera in settori specifici. Compito delle istituzioni, sia nazionali che sopranazionali, è quello di gestire e regolare i flussi di stranieri dentro e fuori i confini dello Stati. A tal proposito Sciortino afferma che: “le strategie di controllo degli Stati interagiscono con quelle dei migranti in modo non banale,”71 : infatti, la moderna sociologia delle migrazioni, ha sviluppato negli anni più recenti studi scientifici sul fenomeno migratorio, in quanto le politiche migratorie di un Paese non possono essere considerate effetti necessari della situazione demografica e lavorativa contingente. I risultati delle politiche migratorie non possono essere quindi ricondotti alla semplice somma di una serie di eventi indipendenti, ma sono il frutto di scelte mirate ed eventi concatenati in molteplici sfere della vita pubblica. Come dire che dietro alle singole decisioni esiste un intelligence che programma le politiche pubbliche convogliando forze dagli interessi opposti: attori privati, centri di potere, partiti politici, rapporti tra Stati, andamenti economici e demografici, ecc. L’interazione di questi ed altri fattori a livello nazionale e sovranazionale contribuisce a stabilire differenti flussi di persone, oltre che di merci, a seconda del momento storico e del Paese che viene preso in considerazione. L’Italia è interessata da flussi migratori da oltre due decenni, anche se, Scidà sostiene che “il nostro Paese presenta ancora quote di stranieri, in relazione agli autoctoni, assai più basse di quelle dei nostri partner europei, che hanno conosciuto il fenomeno dell’immigrazione già dal secondo dopoguerra”72. Nelle politiche migratorie italiane, secondo Scidà, esiste un problema: il fenomeno è sempre stato trattato in modo frammentario e scoordinato, considerando ogni evento a sé, senza la lungimiranza di inquadrarlo in un piano di programmazione e gestione dei flussi più ampio. La conseguenza è che i politici sono costretti a trattare ogni evento in questo ambito come

70

R. King, cit. in L. Zanfrini, op. cit. p. 51. G. Sciortino, Cosa sappiamo delle politiche migratorie? Una rassegna dei problemi aperti e alcune proposte, in “Sociologia e politiche sociali, multiculturalismo e politiche migratorie”, curato da G. Scidà, riv. quadrimestrale, n. 3, 2000, pp. 83-105. 72 G. Scidà, Visioni disincantate della società multietnica e multiculturale, in G. Sciortino, op. cit., pp. 9-33. 71

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“emergenza” e si ricorre sistematicamente all’uso di strumenti, come per esempio le sanatorie, che dovrebbero invece costituire interventi eccezionali73. Il D. L.vo n. 286/1998: “Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, è il primo vero tentativo fatto dal legislatore italiano al fine di sistemare in un corpo organico quanto stabilito in materia di immigrazione fino a quel momento. La successiva legge n. 189/2002: “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”, ne ha modificato alcuni articoli introducendo delle novità che sostanzialmente sottintendono una regolazione dei flussi migratori e della posizione dell’immigrato rispetto allo Stato italiano in funzione delle esigenze del mercato del lavoro interno. La concessione dei diritti è dunque legata al tempo di permanenza in Italia: tale legge stabilisce, infatti, uno stretto legame tra soggiorno in Italia e condizione lavorativa, in quanto viene introdotto un nuovo documento, il contatto di soggiorno, che funge da contratto di lavoro, obbligatorio per ottenere il permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato. Viene sancito inoltre per il datore di lavoro l’onere di garantire all’immigrato un alloggio e il pagamento delle spese per il rimpatrio. Il permesso di soggiorno, concesso a chi ha già un contratto di lavoro, ha la durata di due anni per chi ha un contratto di lavoro subordinato, un anno in meno rispetto a quanto previsto dalla precedente normativa, ed è rinnovabile per una durata non superiore a quella stabilita col rilascio iniziale. Per quanto riguarda il collegamento domanda-offerta di lavoro, la soppressione della figura dello Sponsor nel caso specifico dei lavori di assistenza agli anziani e di collaborazione domestica crea qualche difficoltà, a cui si aggiunge il fatto che la famiglia, e d’altra parte la “badante”, non sanno a priori se il rapporto sarà soddisfacente per entrambe le parti74. Se da un lato la legge n. 189/2002, più nota come “Bossi-Fini”, di “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo” ha voluto riconoscere l’importanza dei lavoratori stranieri per l’economia italiana, in considerazione anche delle pressioni giunte da vari gruppi d’interesse affinché il numero di stranieri che possono entrare nel nostro Paese per lavoro fosse aumentato, dall’altro ha limitato la concessione di diritti a quelle stesse persone che sono chiamate in Italia a lavorare, abbreviando la durata del permesso di soggiorno ed associandolo all’attività lavorativa. Non vi è alcun dubbio che l’intanto di stabilire restrizioni rigide sia stato posto anche in vista di una lotta alla clandestinità e alla criminalità organizzata, ma probabilmente i mezzi scelti non sono i più appropriati per tale scopo, quanto piuttosto per una propaganda politica che faccia breccia sull’opinione pubblica. Dalla 73 74

Ivi, pp. 35-39. Ivi, pp. 38-43.

42


coniugazione di interessi economici e politici talvolta contrapposti è scaturito nel nostro Paese un modello migratorio a integrazione limitata, vincolata alla posizione lavorativa e alle politiche attuate a livello locale75. La relazione che si instaura tra immigrato e comunità autoctona è per molti aspetti ambivalente. Questo è ciò che sostiene Alessandrini quando parla addirittura di “schizofrenia” tra l’apprezzamento dell’attività lavorativa che gli stranieri svolgono nel nostro Paese e l’ostilità diffusa nei confronti del fenomeno immigratorio. Infatti, al riconoscere l’importanza del lavoro svolto dagli stranieri si contrappone un forte freno della concessione di diritti che permettono un’integrazione politica e sociale: sostanzialmente l’immigrato “è buono solo se è bravo e ubbidiente lavoratore”76. La difficoltà esistita per lungo tempo a riconoscere l’Italia come Paese destinatario di flussi migratori, ha creato nel nostro Paese, secondo quanto sostengono Pollini e Scidà, “un modello implicito per l’integrazione degli immigrati”77. Secondo questo modello, l’immigrazione è concepita come se ufficialmente non fosse necessaria, ma in realtà utilizzata sia in forme regolari che irregolari; da questa concezione più generale, si evincono quella della cittadinanza, l’ottenimento della quale risulta essere arduo, quella del rapporto popolazione locale e immigrati, ambivalente tra accoglienza e intolleranza, quella delle politiche del lavoro, che prevedono la parità del salario nel lavoro regolare, pur accettando ampiamente il lavoro irregolare, e la presenza di attività promozionali attuate in modo frammentario e a livello locale; infine quella delle politiche sociali che risultano essere poco sviluppate, con carattere volontaristico e in gran parte lasciate all’iniziativa di enti locali e terzo settore. In questo quadro nulla sembra essere definito, ma tutto basato su rapporti di precarietà e su normative transitorie78. Risulta perciò difficile in primo luogo per il soggetto nuovo arrivato programmare la propria vita nel nuovo ambiente e poi per la comunità che lo accoglie porsi in relazione con un individuo ritenuto sempre un “ospite” o “di passaggio”. Ambrosini riconosce l’esistenza di altri tre modelli di integrazione degli immigrati (non in tutti i casi si tratta di piena integrazione, ma di parziale o a tempo determinato) che divide già la stessa Unione Europea in aree molto differenti tra loro: il modello dell’”immigrazione temporanea”, che ritroviamo in Germania, in cui per lungo tempo l’immigrato è stato considerato ospite temporaneo 75

G. D’Imperio, Le nuove norme sull’immigrazione: commento organico alla legge n. 189/2002 e al D. L. n. 195/2002, Esselibri, Napoli, 2002, pp.11-15. 76 G. Alessandrini, cit. in G. Baronio, A. Carbone, Il lavoro degli immigrati: programmazione dei flussi e politiche di inserimento, Franco Angeli, Milano, 2002, p. 26. 77 G. Pollini, G. Scidà, Sociologia delle migrazioni, Franco Angeli, Milano, 1998, p. 11. 78 Ivi, pp. 12-14.

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chiamato per a lavorare per rispondere a certe esigenze del mercato del lavoro per poi tornare a casa; il modello “assimilativo”, che ritroviamo in Francia, in cui è forte la spinta all’assimilazione anche culturale degli immigrati, che in questo modo perdono però i contatti con le proprie origini; infine il modello della “società multiculturale”, presente in misure diverse negli Stati Uniti, in Olanda, Svezia e per certi versi anche in Gran Bretagna, dove i gruppi etnici e le associazioni di immigrati sono sostenuti dalla comunità locale79. Nell’ultimo ventennio il mercato del lavoro locale ha assorbito a ritmi sempre crescenti forza lavoro straniera che è andata ad inserirsi in specifici settori produttivi. Le porte degli Stati europei si sono aperte agli stranieri nel momento in cui il mercato del lavoro interno non è più riuscito a soddisfare i bisogni di produzione, per una carenza, o indisponibilità dei cittadini autoctoni a svolgere determinati lavori. Questo significa che i posti di lavoro rimasti vuoti (job vacancies) vengono ricoperti da immigrati che giungono da noi per migliorare le proprie condizioni economiche e sono disposti, almeno nel breve periodo, a svolgere le mansioni che, sono rifiutate dai nostri connazionali, perché troppo umili, troppo faticose, troppo poco pagate80. Non esiste dunque, come spesso ricordano alcuni slogan razzisti, una “concorrenza” tra lavoratori italiani e stranieri per il posto di lavoro, quanto piuttosto una sorta di “parallelismo” nelle mansioni svolte, poiché all’interno del mercato del lavoro i lavoratori stranieri svolgono generalmente attività molto differenti rispetto a quelle dei lavoratori italiani, quasi esistessero due diversi mercati del lavoro. Si comprende quindi che l’area del mercato del lavoro in cui si inseriscono gli stranieri ha inevitabilmente una struttura e una serie di prospettive di mobilità distinte rispetto a quello degli autoctoni. Ecco dunque che gli immigrati vengono inseriti, come ricordato in precedenza, in specifici settori produttivi a grande richiesta di personale con bassa qualifica e grande flessibilità, come in particolare i lavori di cura alla persona, svolti per lo più dalle donne. I servizi domestici e di cura rispecchiano una divisione dei ruoli tradizionale in quanto, con la presenza di circa il 90% di donne, sono le mansioni del terziario più “femminilizzate”81. Le donne, sostiene Reyneri, “sono una componente importante dell’immigrazione straniera in Italia e rappresentano una quota significativa del fenomeno, anche se concentrata soprattutto nei grandi centri abitati. Qui infatti, sono maggiori che altrove le richieste di collaborazioni domestiche e assistenza personale rivolte a lavoratori stranieri”82. 79

M. Ambrosini, La fatica di integrarsi. Immigrazione e lavoro in Italia, Il Mulino, Bologna, 2001, pp. 33-35. E. Reyneri, cit. in G. Baronio e A. Carbone, op. cit. p. 83. 81 www.eurostat.it 82 E. Reyneri cit. in G. Baronio e A. Carbone, op. cit. p. 83. 80

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Secondo due autrici, Ehrenreich e Hochshild: “gli stili di vita del Primo Mondo sono resi possibili da un trasferimento su scala globale delle funzioni associate al ruolo tradizionale della moglie -vale a dire cura dei figli, gestione della casa e sessualità di coppia- dai paesi poveri a quelli ricchi. In termini generici e forse semplicistici, nella prima fase dell’imperialismo i paesi del Nord del mondo hanno attinto alle risorse naturali e ai prodotti agricoli, per esempio gomma, metalli e zucchero, delle terre che conquistavano e colonizzavano. Oggi, ancora dipendenti dai paesi del Terzo Mondo per la manodopera agricola e industriale, i paesi ricchi cercano di attingere anche a qualcosa di più difficile da misurare e qualificare, qualcosa che può sembrare assai prossimo all’amore”83. 3.3 Soggiornanti stranieri regolari presenti in Italia negli ultimi anni Le statistiche sui cittadini stranieri soggiornanti in Italia sono disponibili solo a partire dal 1970. Alla fine di quell’anno gli stranieri sono 143.838, e solo nel 1979 vengono superate le 200.000 unità. Tra il 1979 e il 1980 si ha un forte aumento, quando si passa da 205.749 con un incremento del 45,4%. In realtà in quel periodo non si verificano avvenimenti particolari, ma solamente si modifica il sistema di registrazione dei permessi di soggiorno. Fino al 1970, infatti, le statistiche riguardano gli stranieri presenti in Italia con un permesso di soggiorno superiore a tre mesi, mentre dal 1980 in poi vengono presi in considerazione i permessi di soggiorno con durata superiore ad un mese: peraltro, solo a partire da questo periodo si può parlare di immigrazione vera e propria. Negli anni 80’ seguono aumenti annuali contenuti che, benché inferiori al 10%, consentono di superare la soglia dei 400.000 soggiornati nel 1984. Un altro forte aumento, questa volta effettivo, si ha nel 1987, quando da 450.277 si arriva a 572.103 soggiornanti (+ 27,1%). Questa variazione è dovuta alla prima regolarizzazione della serie disposta dal legislatore e protrattasi per circa due anni (1986-1988). Superato il mezzo milione di unità, la gestione amministrativa dei permessi di soggiorno diventa più complessa e i confronti meno attendibili. Da 645.423 permessi nel 1988 si scenderebbe inspiegabilmente a 490.388 nel 1989, con una diminuzione più alta rispetto al numero dei regolarizzati nell’ipotesi, non realistica, che a tutti loro non fosse stato rinnovato il permesso di soggiorno84. Nel 1990 interverrebbe un aumento eccezionale con 781.138, ai quali non si arriverebbe neppure conteggiando i 220.000 regolarizzati di quell’anno. Questi numeri, quindi, non 83 84

B. Ehrenreich e A. R. Hochschild, Donne globali. Tate, colf e badanti, Feltrinelli, Milano, 2004, pp. 108-117. www.fondazionemigrantes.it

45


offrono la base per confronti pertinenti. Le incongruenze dell’archivio dei permessi di soggiorno si spiegano, sia per la mancata soppressione dei permessi doppi o scaduti, sia che per i casi di omonimia. Solo dal 1998 il Ministero dell’Interno ha adottato a regime un programma efficace per la ripulitura di questi dati. Ciò nonostante, resta vero che l’Istat, a seguito di ulteriori accertamenti sui dati del Ministero effettuati a distanza di circa sei mesi da ogni fine d’anno, è il riferimento ultimo in grado di fornire il numero effettivo dei soggiornanti, aggiungendo anche i permessi che, inizialmente soppressi per cessata validità, nel frattempo sono stati rinnovati. Per questo motivo la riflessione sulla serie storica dei soggiornanti diventa più proficua dal 1991 in poi. Negli anni 90’ si assiste al raddoppio dei soggiornanti, che passano da 649.000 a fine 1991 a 1.341.000 nel 2000, e ciò aiuta a prendere coscienza che il fenomeno è diventato di massa. Sempre in questo periodo si registra l’ingresso di persone provenienti dalla penisola balcanica, dove sono scoppiati i conflitti legati all’assestamento della ex Repubblica federale Jugoslava e al suo frazionamento in diversi stati. Successivamente gli immigrati vengono anche dagli altri paesi dell’Est Europa, che diventano i grandi protagonisti sullo scenario migratorio italiano e così, al consistente aumento degli albanesi, fa riscontro in un secondo momento quello dei romeni, dei polacchi, degli ucraini e di altre nazionalità. La seguente tabella tratta dal Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes85, dati Ministero dell’Interno/Istat, offre un quadro dettagliato della presenza dei soggiornanti stranieri in Italia negli anni 1991-2000: Tab. 1. Soggiornanti stranieri regolari in Italia negli anni 1991-2000 Anno

Soggiornanti regolari

Variazione

(v.a.)

85

1991

649.000

- 60.000

1992

589.000

60.000

1993

649.000

29.000

1994

678.000

51.000

1995

729.000

257.000

1996

986.000

37.000

1997

1.023.000

68.000

1998

1.091.000

250.000

Caritas Migrantes, Dossier Statistico Immigrazione, 2000.

46


1999

1.341.000

39.000

2000

1.380.000

68.000

Fonte: Dossier Statistico Immigrazione

Ad influire maggiormente sull’incremento della presenza immigrata in Italia sono tre fattori strettamente collegati: la collocazione geografica, con confini molto estesi, in un’area a forte pressione migratoria, alla confluenza con il continente africano e di quello asiatico e alle porte dell’Est Europa; una programmazione dei flussi quantitativamente debole e operativamente inefficace; il realistico recupero, attraverso le regolarizzazioni, degli immigrati sprovvisti di permesso di soggiorno, ma già inseriti nell’area del lavoro nero. Per capire l’effettivo dinamismo migratorio in Italia, bisogna riconoscere che la regolarizzazione è stata la parola chiave a fronte di una programmazione di scarso impatto. All’inizio degli anni 90’ un terzo dei soggiornanti (su un totale di 649.000 a fine 1991) è costituito da una parte delle 220.000 persone che hanno beneficiato della regolarizzazione dell’anno precedente., che coinvolge in prevalenza africani ed asiatici e pone come condizione la semplice dimostrazione della presenza in Italia a prescindere da effettivi legami col mercato del lavoro. Il 1992 è l’anno di una consistente diminuzione dei permessi, perché molti regolarizzati non riescono a trovare un lavoro, quanto meno ufficialmente dichiarato, e non sono quindi in grado di attestare il possesso di quel reddito minimo richiesto per poter rinnovare il permesso di soggiorno inizialmente concesso per una durata biennale. Il recupero di questa diminuzione e i successivi aumenti avvengono per effetto delle quote programmate (scarse e inclusive anche degli interessi per lavoro stagionale) e dei ricongiungimenti familiari (sia di coniugi che dei minori a carico). Questi aumenti sono solitamente contenuti e raggiungono al massimo le 60.000 unità annue, con un’incidenza percentuale sul totale dei precedenti soggiornanti che è del 10% nei primi anni 90’ e poi si dimezza a metà decade; negli anni di regolarizzazione, invece, gli aumenti sono molto consistenti. Il 1997 è l’anno fatidico, in cui viene superato il milione di unità, livello sfiorato nell’anno precedente in cui vengono registrati 246.000 regolarizzati; poi, con la regolarizzazione del 1998 (215.00 lavoratori), si va abbondantemente oltre il milione. A differenza di quanto avvenuto in precedenza, i permessi rilasciati ai regolarizzati del 1995 e del 1998 dimostrano una maggiore tenuta quanto alla durata del soggiorno e, poiché sussistono le condizioni richieste, vengono rinnovati anche al termine della loro validità biennale dal loro primo rilascio: e questa può essere la prova che il mercato occupazionale ha bisogno in maniera stabile di forze lavoro aggiuntive. Per il primo decennio del 2000 si può fare riferimento per 47


ora solo ai primi quattro anni in quanto i dati relativi ai permessi di soggiorno in vigore a fine 2003 non sono stati ancora verificati dall’Istat e quelli relativi al 2004 sono frutto di una stima del “Dossier Statistico Immigrazione” basata sui visti, rilasciati dal Ministero degli Affari Esteri per immigrazione di inserimento, pari a 130.000 così ripartiti: 88.000 per ricongiungimento familiare o familiare a seguito, 29.000 per lavoro stabile, 7.000 per motivi religiosi, 5.000 per studio, 1.000 per residenza elettiva. La seguente tabella tratta dal Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes,

86

dati

Ministero dell’Interno/Istat, offre una stima del numero di soggiornanti stranieri in Italia negli anni 2001-2004: Tab. 2. Soggiornanti stranieri regolari in Italia negli anni 2001-2004 Anno

Archivio Ministeriale Interno

Revisione Istat

2001

1.360.049

1.448.392

2002

1.512.324

1.503.286

2003

2.193.999

n.d.

2004

2.319.000

n.d.

Fonte: Ministero dell’Interno/Istat

Anche per l’ultimo decennio vale la netta differenza tra gli anni normali e quelli di regolarizzazione: in questi l’aumento è molto consistente. Nel 2003 vengono ampiamente superati i due milioni di presenze: è questo l’effetto della regolarizzazione disposta nell’anno precedente dalla legge Bossi-Fini, che totalizza ben 700.000 domande. Fin qui però, si è fatto riferimento a immigrati adulti, che però non esauriscono l’intera presenza straniera. L’archivio del Ministero dell’Interno non registra autonomamente i minori se non in minima parte, quando hanno compiuto il quattordicesimo anno d’età o quando si ricongiungono successivamente ai genitori già residenti in Italia. Inoltre vi sono annualmente diverse decine di migliaia di nuovi nati in Italia, anch’essi destinati ad avere una loro evidenza statistica, seppure non sistematicamente, solo dopo i quattordici anni. Da quando il numero dei minori è diventato alto è fuorviante limitarsi ai pochi infradiciottenni registrati dal Ministero dell’Interno e prescindere dal loro numero complessivo: una stima dell’effettiva

86

www.fondazionemigrantes.it, Dossier Statistico Immigrazione 2005.

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presenza straniera regolare in Italia comporta che, partendo dal numero dei permessi di soggiorno, si ipotizzi il numero complessivo delle presenze regolari. Bisogna inoltre tenere presente, che la presenza regolare, include due categorie di cittadini stranieri: quella dei residenti, iscritti cioè nelle anagrafi dei comuni, e quella dei soggiornanti, cioè di coloro che pur autorizzati a restare in Italia, o non sono interessati a registrarsi, perché venuti per brevi periodi, o sono impossibilitati a farlo, perché in situazione precaria quanto all’alloggio. Il Dossier Caritas Migrantes è su quest’ultima categoria che opera la stima. Nel 2006 i risultati della stima operata dal Dossier Statistico 2007 Caritas Migrantes87, fa registrare una presenza di cittadini stranieri pari a 3.690.000 (comunitari e non comunitari). L’Italia si colloca con la Spagna, subito dopo la Germania tra i più grandi paesi d’immigrazione dell’Unione Europea e per quanto riguarda l’incremento annuale, i due paesi mediterranei non anno uguali in Europa, superando in proporzione gli stessi Stati Uniti. Le persone coinvolte nelle quote annuali unitamente alle altre venute in Italia, specialmente per il ricongiungimento familiare, hanno portato la popolazione ad aumentare di 1/6 (più di mezzo milione di unità) alla fine del 2006. Anche nello scenario di crisi economica e occupazionale che si è delineato alla fine del 2008 e rafforzata poi nel corso del 2009, l’immigrazione non ha arrestato la sua crescita. Infatti secondo i dati del Dossier Statistico 2009 Caritas Migrantes88, vi è stato un aumento annuo di 250 mila unità. I cittadini stranieri residenti erano 2.670.514 nel 2005 e diventano poi 3.891.295 alla fine del 2008, ma si arriva a circa 4.330.000 se si includono anche le presenze regolari non ancora registrate in anagrafe. Il 2008 è stato il primo anno in cui l’Italia, si è collocata al di sopra della media europea, per l’incidenza degli stranieri residenti sul totale della popolazione, pur rimanendo ancora lontana dalla Germania e soprattutto dalla Spagna. Continua a prevalere la presenza di immigrati di origine europea (il 53,6% da Paesi comunitari). Agli inizi del 2010 l’Istat ha registrato 4 milioni e 235mila residenti stranieri, ma secondo i dati forniti dal “Dossier Statistico Caritas Migrantes”, se si dovessero includere tutte le persone regolarmente soggiornanti, seppur non ancora iscritte all’anagrafe, si arriva a 4 milioni e 919mila presenze. Da ciò si deduce che la presenza straniera si è triplicata di quasi un milione negli ultimi due anni. La Lombardia è la regione che accoglie il numero più alto dei residenti stranieri, praticamente un quinto del totale (982.225, 23,2%); poco più di un decimo vive nel Lazio (497.940, 11,8%); segue poi il Veneto (480.16, 11,33%), l’Emilia 87 88

www.fondazionemigrantes.it, Dossier Statistico 2007. www.fondazionemigrantes.it , Dossier Statistico 2009.

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Romagna (461.321, 10,9); il Piemonte si colloca un po’ più al di sotto (3.77.241 e 8,9%), la Toscana (338.746 e 8,09%). Roma perde ormai il primato di provincia col più alto numero di immigrati e prende il suo posto Milano con

405.657 di stranieri rispetto ai 407.191.

L’incidenza media sulla popolazione residente è del 7%, ma in Emilia Romagna, Lombardia e Umbria si va oltre il 10% e in alcune province si arriva oltre il 12%. Le donne incidono mediamente per il 51,3%, fino ad arrivare al massimo di 58,3% in Campania e del 63,5% a Oristano e quella più bassa in Lombardia (48,7%) e a Ragusa (41,5%). I nuovi nati da entrambi i genitori stranieri nel corso del 2009 sono oltre 77.000 (21mila in Lombardia, 10mila nel Veneto e Emilia Romagna, 7mila in Piemonte e nel Lazio, 6mila in Toscana, almeno mille in tutte le altre regioni italiane, con l’eccezione del Molise, della Basilicata, della Calabria e della Sardegna. A queste nuove nascite, che incidono per il 13% su tutte le nuove nascite, vanno sommate altri 17.000 nuovi nati da madre straniera e padre italiano, qua l’incidenza sul totale dei nati arriva al 16,5%. Il numero sarebbe ancora più alto se si contassero anche i figli nati da padre straniero e madre italiana, anche se tra le coppie miste a prevalgono quelle in cui ad essere immigrata è la donna. In Italia, infatti, nel 2008 i figli nati da coppie miste erano 23.970, di cui 8 su 10 da padri italiani e madri straniere. Assai diversificata è anche l’incidenza dei minori, che sono in tutto quasi un milione (932.675), la percentuale più alta si registra in Lombardia (24,5), segue poi il Veneto (24,3%), mentre i valori più bassi vengono registrati nelle regioni centro-meridionali quali: Lazio e Campania (17,4%) e Sardegna (17%). Oltre un ottavo dei residenti stranieri (572.720), 13%), è di seconda generazione. Si tratta soprattutto di bambini e ragazzi ai quali l’aggettivo straniero poco si addice, in quanto nascono, risiedono, parlano la stessa lingua e hanno uguale sistema formativo degli italiani. I figli degli immigrati iscritti a scuola sono 673.592 e incidono per il 7,5% sulla popolazione scolastica. Da alcuni dati si evince che gli studenti stranieri hanno un ritardo scolastico tre volte più elevato rispetto agli studenti italiani, da qui l’occorrenza di utilizzare più risorse per il loro inserimento, in particolar modo quando essi arrivano nel nostro Paese per ricongiungimento familiare. Nel 2009 si è registrato un numero pari a 6.587 di minori non accompagnati, dei quali 533 richiedenti asilo, provenienti da 77 paesi (Marocco 15%, Egitto 14%, Albania 11%, Afghanistan 11%). Circa il 90% sono maschi di età compresa tra i 15 e i 17 anni, tra questi non vengono più inclusi i romeni, poiché in quanto comunitari sono presi in carico dai servizi comunali. Però non sempre, al raggiungimento del 18° anno d’età, le condizioni attualmente previste, ovvero 3 anni di

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permanenza e 2 anni di inserimento in un percorso formativo, consentono loro di poter ottenere un permesso di soggiorno. Tab. 3. Popolazione straniera residente in Italia per regione. (31.12.2009) Regione Piemonte Valle d’Aosta

v.a. 377.241 8.207

% vert. Regione

v.a.

8,9 Lazio

497.940

0,2 Campania

147.057

Liguria

114.347

Lombardia

982.225

23,2 Molise

8.111

85.200

2,0 Puglia

84.320

Trentino A. A.

2,7 Abruzzo

75.708

Veneto

480.616

11,3 Basilicata

12.992

Friuli V. G.

100.850

2,4 Calabria

65.867

Emilia Romagna

461.321

Marche

140.457

3,3 Sardegna

Toscana

338.746

8,0

Umbria

93.243

10,9 Sicilia

2,2 Totale

% vert.

127.310 33.301 4.235.059

100,0

Fonte: Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes, 2009. Elaborazione su dati Istat89

3.4 L’immigrazione femminile Negli ultimi anni l’attenzione verso le migrazioni femminili è fortemente cresciuta e ciò sembra dovuto all’aumentato del numero di donne che oggi emigrano, e sempre più spesso da sole, per cercare lavoro, al pari degli uomini, in un altro paese. Oggi sono loro che molto spesso assumono la responsabilità di breadwinner, procurando le risorse economiche per provvedere alle necessità della propria famiglia, acquisita o ascritta, e talvolta di entrambe. Sono donne che danno vita a catene migratorie al femminile e sempre più spesso anche ai ricongiungimenti familiari rovesciati, in cui sono i mariti a raggiungerle all’estero. Esse sono impegnate in la lavori che, sebbene siano modesti e svalutati, si inseriscono in processi determinanti per la vita quotidiana e il funzionamento delle società che le ospitano. Oggi le donne rappresentano circa il 48% dei migranti internazionali, si parla infatti di una crescente “femminilizzazione delle migrazioni”, proprio per indicare la crescita del numero

89

www.fondazionemigrantes.it, Dossier Statistico Immigrazione 2009.

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delle donne che emigrano e specialmente che emigrano per loro iniziativa e non al seguito dei mariti90. Grazie al contributo di numerose studiose che hanno introdotto una prospettiva di genere negli studi sulle migrazioni, è cambiato lo sguardo dei ricercatori su questo fenomeno ed in particolare i suddetti gender studies hanno denunciato le varie forme di discriminazione e di sfruttamento (anche sessuale) di cui sono vittime le donne migranti ed hanno inoltre esplorato la realtà e le prospettive del loro rapporto con le donne autoctone91. Ma sono i processi discriminatori di cui le donne migranti sono vittime l’aspetto che più ha catalizzato l’attenzione delle studiose. A tal proposito si parla infatti di una doppia, tripla e a volte anche quadrupla discriminazione, poiché le donne migranti sono discriminate non solo in quanto donne, ma anche in quanto immigrate e perciò esse sono svantaggiate da stereotipi di genere che vanno a sommarsi a stereotipi “etnici” che mirano ad etichettare gli immigrati in senso collettivo e svalorizzante. A queste due forme di discriminazione, spesso ne viene aggiunta una terza: la discriminazione di classe, che insieme alle discriminazioni di genere e razza, formano quell’insieme di caratteri che definiscono il ruolo delle donne immigrate nelle società riceventi. Vi è poi un quarto attributo che può aggravare la condizione di una parte delle immigrate ovvero l’essere definite “nere” a causa del colore della propria pelle92. L’intreccio tra condizione di immigrata e genere è assai significativo, perché è proprio a causa degli stereotipi con i quali vengono etichettate le donne immigrate che diminuiscono drasticamente per quest’ultime le possibilità d’impiego e di espressione di sé. Infatti, in Italia come anche negli altri paesi mediterranei, gli ambiti occupazionali accessibili per queste donne non fuoriescono quasi mai dal lavoro domestico-assistenziale, con al massimo qualche estensione verso imprese di pulizie, settore alberghiero, e simili. Tra le altre attività “femminili” rientrano anche l’intrattenimento e la prostituzione, dove la partecipazione da parte delle donne straniere è spesso tutt’altro che volontaria. Per quanto riguarda invece l’uso della categoria “razza”, utilizzata per indicare le condizioni delle donne migranti, è necessario precisare che esiste una “gerarchizzazione” delle donne immigrate nelle società riceventi, ciò fa si che le famiglie autoctone preferiscano come collaboratrici familiari donne originarie di determinati paesi piuttosto che altri. Le donne africane di colore sono generalmente oggetto di discriminazione, ma in Italia ed in altri paesi, riescono tuttavia a trovare lavoro ormai da anni in numerose famiglie, questo perché grazie all’aiuto di congregazioni missionarie e istituzioni religiose capoverdiane, somale, eritree 90

M. Ambrosini, La fatica di integrarsi. Immigrazione e lavoro in Italia, cit., p. 133. L. Zanfrini, op. cit. , pp. 59-60. 92 M. Ambrosini, op., cit. p.134. 91

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ecc., sono riuscite a dare vita a reticoli specializzati nella fornitura di collaboratrici familiari. Nel gradino più alto della gerarchia troviamo le donne asiatiche, in particolar modo filippine, che nel nostro paese così come in altri, riescono a trovare impiego nelle famiglie più agiate percependo inoltre salari migliori. In passato le donne immigrate meno fortunate sono state, per lungo tempo, le donne albanesi, che nonostante bianche ed europee, hanno subito negativamente la cattiva reputazione del gruppo nazionale a cui appartenevano93. Qualche precisazione merita anche la terza causa di discriminazione, ovvero la classe sociale a cui appartengono le donne immigrate, intesa come classe operaia. Innanzitutto è necessario sottolineare che la classe sociale, al contrario del genere e della razza, fa parte, di quelle caratteristiche o meglio “differenze acquisite”, così come le definisce Laura Zanfrini94, che insieme alle differenze ascritte danno vita alla costruzione sociale delle differenze etniche. Secondo la Zanfrini esiste, infatti, un sistema delle differenze all’interno del quale ciascun attore sociale occupa una specifica posizione sociale, in base alla quale può in maniera minore o maggiore avere accesso alle ricompense sociali in termini di ricchezza, prestigio e potere. Le differenze ascritte sono ereditate per nascita, ovvero sono quell’insieme di vantaggi o svantaggi che scaturiscono dall’essere nati maschi o femmine, in un determinato sistema sociale, di far parte di un determinato censo, di essere nati in famiglie appartenenti a determinati strati socio-culturali, ecc. , mentre le differenze acquisite derivano dai comportamenti che ciascun individuo nel corso della sua esistenza mette in atto, in particolare le scelte che compie rispetto al suo percorso formativo e professionale. Nel caso delle donne immigrate sembrerebbe che siano proprio le differenze ascritte a condizionare le loro opportunità di mobilità sociale, rendendo assai difficile la loro fuoriuscita dalle solite occupazioni domestiche, di cura e di collaborazione familiare nelle quali si trovano inserite. Questo anche perché in Europa, il settore delle attività domestiche, di pulizia, di cura ecc. “rappresenta il più importante serbatoio di opportunità occupazionali per le nuove arrivate, in condizione giuridica regolare o irregolare”95. Questo fenomeno che ha assunto ormai dimensioni mondiali, rappresenta perfettamente la tendenza “all’importazione di accudimento e amore da paesi poveri verso quelli ricchi infatti, la tradizionale divisione di ruoli tra uomini e donne tende trasferirsi su scala globale: i paesi ricchi del Primo mondo assumono la posizione di privilegio che spettava un tempo agli uomini, accuditi e serviti dalle donne nella sfera domestica, essendo impegnati nel lavoro nel mercato esterno; gli immigrati

93

Ivi, pp. 135-136. L. Zanfrini, op. cit. , pp.5-6. 95 B. Anderson, 2000; 2002, in M. Ambrosini, op. cit. , pag.137. 94

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e le immigrate dai paesi poveri assumono invece le funzioni femminili, sostituendo le donne nel prodigare servizi domestici, accudimento e cure pazienti alle persone”96. Si è già precisato all’inizio del capitolo che la migrazione è un fatto prettamente sociale e totale che coinvolge l’intera persona e le sue interazioni con il contesto economico, sociale, politico, culturale e religioso, nonché le sue rappresentazioni del mondo. Questo avviene anche per le donne, che si inseriscono in un nuovo ambiente sociale, meta della migrazione, con un bagaglio personale e culturale già sensibilizzato ai modelli di vita occidentale. In particolare se si vuole analizzare il lavoro delle immigrate straniere nel settore di cura, diventa fondamentale cogliere le peculiarità delle donne protagoniste nella migrazione e in particolare il loro inserimento nel settore dei servizi domestici e familiari, tratto caratterizzante delle attuali migrazioni internazionali. La realtà migratoria al femminile è una realtà dunque significativa e importante non solo perché numericamente rilevante, ma in particolar modo per la forma e la modalità che questo fenomeno ha assunto nei vari decenni. Si possono infatti, evidenziare molti percorsi e strategie migratorie che guidano le donne nel loro migrare: esse sono spinte da motivazioni differenti a seconda del periodo storico in cui la partenza avviene, sono fortemente condizionate dalla situazione politico-economica del Paese di partenza e dalle caratteristiche personali, familiari del proprio contesto di vita. Arrivare prima del marito, prima dei figli, arrivare da sole, assume significati diversi in relazione alla provenienza geoculturale, al momento storico e al contesto familiare, come osserva M. Tognetti Bordogna: “Le diverse modalità di arrivo o i diversi motivi che spingono alla partenza o favoriscono la stessa condizionano e plasmano fortemente il modo di articolarsi delle singole donne nel nuovo contesto, pur all’interno di cornici culturali comuni”97. Compiendo un percorso storico attraverso gli studi e le ricerche sulle migrazioni femminili si può notare che la prima svolta avviene negli anni 70’, fino ad allora, infatti, la migrazione da parte delle donne è considerata solo come un movimento di breve raggio, in gran parte interno al paese e con un protagonismo molto marginale rispetto ai processi di mobilità internazionali. Le prime migrazioni degli anni 70’ sollecitano l’ipotesi di una nuova autonomia femminile nei processi migratori, dettata dalla ricerca di una nuova identità lavorativa e sociale. Alcune ricerche e riflessioni di quegli anni, dimostrano che il flusso migratorio al femminile è stato caratterizzato da una duplice invisibilità, in primo luogo agli occhi stessi degli esperti di flussi migratori, i quali hanno prodotto in questi anni poche analisi sul fenomeno e in secondo luogo

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Ehrenreich e Hochschild, 2004, cit. in M. Ambrosini, op. cit. pag. 137. M. Tognetti Bordogna, Le donne della migrazione, in M. Tognetti Bordogna, (a cura di), Ricongiungere la famiglia altrove, Franco Angeli, Milano, 2004, pp. 10-13.

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perché esse si inseriscono in una nicchia segregata del mercato del lavoro domestico che in quanto tale le vede occupate nelle case dei datori di lavoro ad eccezione del giorno libero. Il lavoro di colf infatti, è un’occupazione a tempo pieno, realizzata vivendo presso la famiglia del datore di lavoro e a stretto contatto con tutti i membri della famiglia: si tratta di accudimento della casa, dei bambini, a volte in situazioni di grande sfruttamento e sofferenza. Un’ altra specificità delle migrazioni di questo periodo è infatti connessa alla religione. Arrivano soprattutto donne provenienti da Paesi cattolici, quali: le Filippine, l’Ecuador e altri Paesi dell’America Latina o centrale, Capo Verde ed Eritrea ecc. “Per le caratteristiche dei flussi siamo in presenza di donne che hanno un progetto migratorio attivo, un ruolo economico forte che si sovrappone alla ricerca di libertà e autonomia e che spesso hanno abbandonato il proprio Paese per abbracciare un mondo e modelli culturali nuovi”98. Sono prevalentemente in possesso di permesso di soggiorno, anche se con una presenza non irrilevante di donne irregolari, esse inviano risorse economiche al paese d’origine e vi fanno rientro per un periodo limitato, spesso per le vacanze, anche dopo molti anni dalla partenza. Almeno fino agli anni 80’ svolgono l’attività di colf a tempo pieno e solo in seguito secondo un lento processo di emancipazione, lavorano presso famiglie ad ore. La loro presenza interessa prevalentemente famiglie del ceto medio-alto. Le migrazioni femminili negli anni 80’ sembrano essere dettate, oltre che dal bisogno economico, da fattori di tipo culturale: l’altro elemento che spesso spinge le donne ad emigrare è dato dalla ricerca di libertà e da un bisogno di crescita culturale. Le motivazioni sono molteplici e sono collegate spesso a un conflitto coniugale, unito al desiderio di sfuggire dalla condizione di sottomissione che la cultura e le tradizioni del Paese di origine riservano loro, nei confronti delle figure maschili. Negli anni 80’ l’immigrazione femminile è assai più visibile che in precedenza, caratterizzata dalla presenza di maschi di origine africana e asiatica prima diretti verso paesi come Francia, Inghilterra, Germania, più attraenti dal punto di vista economico, ma che in quegli anni hanno adottato delle politiche di regolazione e retribuzione degli ingressi di immigrati. Sono i cosiddetti “vù cumprà”, ben visibili per le strade e dediti all’attività di vendita. Un altro elemento che rende l’immigrazione femminile più visibile, riguarda il fatto che gradualmente avviene un’emancipazione da quella che è stata la segregazione occupazionale: le donne svolgono non più il lavoro domestico a tempo pieno, ma il lavoro di colf o assistenza a ore. Questo passaggio attiva un processo di autonomia prima di tutto abitativa, di tempi e di gestione del proprio quotidiano. Iniziano ad esserci tempi e spazi per relazionarsi con le società di accoglienza. Nel tempo libero quindi le donne 98

Ivi, pp. 13-18.

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possono passare alcune ore in giro per le città, prendono i mezzi pubblici, accedono ai servizi e soprattutto “cominciano ad aggregarsi fra loro anche per poter permettersi una casa, cominciano a porsi il problema di eventuali figli rimasti al paese d’origine, piuttosto che il marito. Cominciano a tessere quella rete, relazionale e identitaria che rappresenterà una rete a tutti gli effetti di grande protezione dei flussi migratori verso l’Italia. Sono infatti le donne a riprodurre momenti fondamentali del processo migratorio, eventi e feste: momenti salienti della tradizione, della cultura del d’origine99. Occorre aspettare gli anni 90’ per ritrovare una maggiore attenzione culturale, sociale e politica verso la migrazione femminile, che si caratterizza prevalentemente dall’arrivo in Italia di donne di origine araba che raggiungono i mariti, immigrati in precedenza per motivi di lavoro. L’universo femminile acquista nuovamente una centralità, ricca di spunti e riflessioni teoriche, mostra nuovi caratteri eterogenei a seconda dei gruppi di appartenenza. I dati statistici100, mostrano un’incidenza in leggera crescita delle donne immigrate nel decennio 1990-2000, ma soprattutto distinguono la presenza per ricongiungimento al marito (in netta prevalenza negli ultimi anni), dalla presenza di donne emigrate sole dal proprio paese, con un progetto personale e familiare. Sono le donne attive che provengono dall’America Latina, dall’Europa dell’Est e dell’Estremo Oriente e che migrano soprattutto per motivi di lavoro, lasciando il marito e i figli al proprio paese. Le prime che arrivano organizzano una rete di aiuti e di sostegni che prepara l’arrivo e l’accoglienza di altre donne, parenti e amiche. E così in un secondo momento arrivano sorelle, cugine, amiche ecc. che trovano punti di riferimento, a volte sistemi abitativi e opportunità di lavoro. Il progetto che inizialmente poteva caratterizzarsi dalla provvisorietà, sembra poi assumere connotati più definitivi e la tendenza per le donne sposate è di organizzare il ricongiungimento dei mariti, ma soprattutto dei figli. Ciò che le distingue dalle donne immigrate arabe, è fondamentalmente la natura del progetto migratorio. Gli anni 90’ sono anche gli anni della grande visibilità delle donne, della sovraesposizione delle donne straniere nel nostro Paese, della tratta e della prostituzione. Questo fenomeno, sottolinea M. Tognetti Bordogna, “anche se rappresenta un piccolo tassello della realtà migratoria, mette sulla scena pubblica in modo eccessivamente forte le donne e le rende fortemente visibili. Si calcola che siano da 1 a 2 milioni le donne trafficate a fine di prostituzione nel mondo, con un giro d’affari che oscilla da 7 a 13 milioni di dollari. Donne a cui requisiti i documenti, sono segregate, sottoposte a forti violenze, sia fisiche che psicologiche, donne vendute, costrette frequentemente ad 99

Ivi, pp. 18-20. www.istat.it

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abortire”101. Le donne che si inseriscono in modo più o meno cosciente in questo settore provengono in un primo momento, negli anni 89/90, dai pesi dell’Est, nel periodo 91/92 arrivano dalla Nigeria, poi negli ani 93/94 Dall’Albania e ancora dai paesi dell’Est, successivamente dai paesi del Sud America. Sembra che il settore del “sex worker”, in cui oltre alle prostitute si possono affiancare: ballerini e accompagnatrici dei locali notturni, rappresenti una delle poche alternative al lavoro domestico e contribuisce a connotare uno stereotipo della migrazione femminile che corrisponde appunto alla prostituta, alla donna nigeriana, anche se all’interno di questo fenomeno essa ne costituisce solo una piccola parte. In questo modo si ha un immagine che non corrisponde alla realtà dei percorsi migratori al femminile, ma piuttosto la distorce. In questi ultimi anni la segregazione occupazionale si riduce ulteriormente: le donne sono ancora dedite al lavoro di cura, ma accanto si evidenziano piccole iniziative di lavoro autonomo nelle imprese di pulizia, in piccole cooperative, nel commercio al dettaglio o come ambulanti. Oltre che una presenza nel terziario vi è anche un incremento delle avviate nell’industria come operaie generiche, anche se con contratti particolari, a tempo parziale e contratti di formazione lavoro nonché di apprendistato. Ma la novità più interessante di questi anni riguarda la comparsa di un gruppo particolare di donne che svolgono il lavoro di cura: le cosiddette “badanti” o assistenti familiari addette all’assistenza di persone anziane102.

101 102

M. Tognetti Bordogna, op. cit., p. 22. M. Ambrosini, op. cit., p. 138.

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CAPITOLO 4 IMMIGRAZIONE FEMMINILE E LAVORO DI CURA

4.1 Il protagonismo femminile nel fenomeno migratorio Solitamente si pensa che i protagonisti della vicenda migratoria siano all’inizio gli uomini e che solo in un secondo momento essi siano raggiunti dalle loro compagne. In realtà in molti paesi sono spesso le donne le prime ad emigrare e la migrazione femminile caratterizza alcune comunità rispetto alle altre. Secondo Abdelmalek Sayad, sociologo algerino, la “migrazione è l’aspirazione a migliorare la propria esistenza nel sempre rinnovato desiderio di conoscenza e quindi di esplorazione”103. Si intende così la migrazione come un fatto sociale che coinvolge l’intera persona e le sue interazioni con il contesto economico, sociale, politico, culturale e religioso, nonché le sue rappresentazioni del mondo. Anche la migrazione della donna può essere letta secondo l’analisi di Sayad, che considera il carattere “sovversivo” del fenomeno rispetto all’assetto della società di origine e di quello della società di arrivo. La donna si inserisce, infatti, nel contesto sociale meta della migrazione, con un bagaglio personale e culturale spesso già sensibilizzato ai modelli della vita occidentale104. In particolare per analizzare il fenomeno badanti, diventa fondamentale cogliere le peculiarità delle donne protagoniste nella migrazione. Le migrazioni femminili ed il loro inserimento nel settore dei servizi domestici e familiari sono dunque un tratto caratterizzante delle attuali migrazioni internazionali: oggi quasi la metà dei migranti nel mondo sono donne105. Come si è accennato già sopra, l’immigrazione attuale in Italia e in Europa è caratterizzata da una forte presenza femminile e tale presenza ha raggiunto quasi la metà degli immigrati, precisamente il 48,9%. Guardando al fenomeno su scala mondiale emerge che nel periodo 1965-1990, il numero delle donne è passato da 35 a 37 milioni circa con un incremento del 63,18%. Tale aumento è stato di gran lunga superiore a quello registrato nello stesso periodo dall’immigrazione maschile che è passata da 40,2 a 62,2 milioni106.

103

S. Abdelmalek, La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, R. Cortina, Milano, 2002, p. XIII. 104 Ivi, p. XIV. 105 M. Ambrosini, C. Cominelli, (a cura di), Un’assistenza senza confini, Fondazione ISMU-Rapporto 2004, pp. 13-14. 106 M. Bernadotti, G. Mottura, (a cura di), III Rapporto IRES, Ediesse, Roma, 2005, pp. 21-24, www.ires.it.

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La realtà migratoria al femminile è una realtà dunque significativa e importante non solo e non tanto perché numericamente rilevante, ma in particolar modo per la forma e la modalità che ha assunto nei diversi decenni. Particolarità significativa per l’Italia in quanto i primi flussi consistenti verso il nostro paese erano formati da donne. Si possono evidenziare molti percorsi e strategie migratorie che guidano le donne nel loro migrare: esse sono spinte da motivazioni differenti a seconda del periodo storico in cui la partenza avviene, sono fortemente condizionate dalla situazione politico-economica del Paese di partenza e dalle caratteristiche personali, familiari del proprio contesto di vita. Il fatto di arrivare prima del marito, arrivare prima dei figli, arrivare sole, assume significati diversi in relazione alla provenienza geoculturale, al momento storico e al contesto familiare. Le diverse modalità di arrivo o i diversi motivi che spingono alla partenza o la favoriscono, condizionano e plasmano fortemente il modo di articolarsi delle singole donne nel nuovo contesto, pur all’interno di cornici culturali comuni107. Compiendo un excursus storico attraverso gli studi e le ricerche sulle migrazioni femminili, si può notare che la prima svolta avviene negli anni ’70: fino ad allora, infatti, la migrazione delle donne era considerata solo come un movimento di breve raggio, in gran parte interno al paese e con un protagonismo molto marginale rispetto ai processi di mobilità internazionale. La trasformazione delle politiche migratorie in Europa e lo sviluppo degli women’s studies, hanno prodotto una maggiore attenzione rispetto a questo fenomeno e sostenuto la produzione della nuova letteratura su questo argomento. Le prime migrazioni degli anni ’70 avviano l’ipotesi di una autonomia femminile nei processi migratori, dettata dalla ricerca di una nuova identità lavorativa e sociale. Alcune ricerche e riflessioni di quegli anni, dimostrano che il flusso migratorio al femminile è stato caratterizzato da una duplice invisibilità, in primo luogo agli occhi stessi degli esperti di flussi migratori, i quali hanno prodotto in questi anni poche analisi sul fenomeno; in secondo luogo perché si inseriscono in una “nicchia” del mercato del lavoro, quella del lavoro domestico che in quanto tale le vede occupate nelle abitazioni dei datori di lavoro, ad eccezione del giorno libero108. Il lavoro di colf infatti, divenne un’occupazione a tempo pieno, realizzata vivendo presso la famiglia del datore di lavoro e a stretto contatto con tutti i membri della famiglia: si trattava di accudimento della casa e dei bambini, a volte in situazioni di grande sfruttamento e sofferenza. Si trattava di donne, quindi, che difficilmente si potevano incontrare per strada, e 107

M. Tognetti Bordogna, “Le donne della migrazione” in Ricongiungere la famiglia altrove, M. Tognetti Bordogna, (a cura di), Franco Angeli, Milano, 2004, pp. 78-80. 108 G. Favaro, Donne straniere a Milano: tipologie migratorie e uso dei servizi sociosanitari, in G. Cocchi (a cura di), Stranieri in Italia, Misure/Istituto Cattaneo, Bologna, 1980, pp. 481-492.

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in aggiunta non si facevano sentire nemmeno nel sistema dei servizi socio-sanitari, perché si appoggiavano ad un ambito di protezione strettamente collegato alle strutture caritatevoli della chiesa cattolica, che diventavano spesso l’intermediario per il reperimento del lavoro e per l’aiuto concreto in caso di bisogno. Un’altra specificità delle migrazioni di questo periodo è, infatti, connessa alla religione: arrivavano soprattutto donne provenienti da Paesi cattolici, quali: Filippine, Ecuador ed altri Paesi dell’America Latina o centrale, Capo verde ed Eritrea come osserva Tognetti Bordogna. “Per le caratteristiche dei flussi migratori siamo in presenza di donne che hanno un progetto migratorio attivo, un ruolo economico forte che si sovrappone alla ricerca della libertà e autonomia e che spesso hanno abbandonato il proprio paese per abbracciare un mondo e modelli culturali nuovi”109. Esse erano prevalentemente in possesso di permesso di soggiorno, anche se con una presenza non irrilevante di donne irregolari. Secondo l’analisi condotta dalla stessa Tognetti Bordogna, queste donne inviavano risorse economiche al paese di origine e vi rientravano per un periodo limitato, spesso per le vacanze, anche dopo molti anni dalla partenza, mantenendo un legame epistolare, molto spesso solo simbolico, con il loro paese d’origine. Almeno fino agli anni ottanta svolgevano l’attività di colf a tempo pieno e solo in seguito secondo un lento processo di emancipazione, lavorarono presso famiglie ad ore. La loro presenza interessava prevalentemente famiglie del ceto medioalto, in regioni come la Lombardia, il Lazio e la Sicilia; Milano e Roma assorbivano il 40% di queste lavoratrici che in generale si trovavano soprattutto nelle città di grandi o medie dimensioni110. Le migrazioni femminili negli anni ’80, invece, sembrano dettate, oltre che dal bisogno economico, da fattori di tipo culturale; l’altro elemento che spesso spinge le donne ad uscire è dato dalla ricerca di libertà e da un bisogno di crescita culturale. Le motivazioni sono plurime collegate a un conflitto coniugale, unito al desiderio di sfuggire dalla posizione sottomessa che la cultura e la tradizione del Paese di origine riservano loro, nei confronti delle figure maschili. Da alcune ricerche condotte nei paesi europei, infatti, emerge chiaramente come la presenza di donne immigrate separate, divorziate, separate di fatto, sia molto più elevata di quanto non sia l’incidenza di questo fenomeno fra i maschi. Infatti, è utile ricordare che l’immigrazione in Italia negli anni ’80, è in generale molto più visibile che in precedenza, caratterizzata dalla presenza di maschi di origine africana e asiatica prima diretti verso paesi come Francia, Inghilterra, Germania, più attraenti dal punto di vista economico, ma che in quegli anni hanno 109 110

M. Tognetti Bordogna, Le donne della migrazione in “Ricongiungere la famiglia altrove”, cit., pp.81-82. Ivi, p. 83.

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adottato delle politiche di regolazione e restrizione degli ingressi di immigrati. Sono i cosiddetti “vù cumprà” , ben visibili per le strade e dediti all’attività di vendita. Un altro elemento, che rende l’immigrazione femminile più visibile, riguarda il fatto che gradualmente avviene un’emancipazione da quella che è stata la segregazione occupazionale: le donne svolgono non più solo il lavoro domestico a tempo pieno, ma il lavoro di colf o assistenza a ore. Questo passaggio attiva un processo di autonomia prima di tutto abitativa, di tempi e di gestione del proprio quotidiano. Iniziano ad esserci tempi e spazi per relazionarsi con la società di accoglienza. Nel tempo libero quindi le donne passano alcune ore in giro per la città, prendono i mezzi pubblici, accedono ai servizi e soprattutto iniziano ad aggregarsi fra loro anche per poter permettersi una casa e pensare così di poter essere raggiunte dai mariti o eventuali figli rimasti al paese d’origine. Cominciano così a tessere quella rete, relazionale ed identitaria che rappresenterà una rete a tutti gli effetti di grande protezione dei flussi migratori verso l’Italia. Sono, infatti, le donne a riprodurre momenti fondamentali del processo migratorio, eventi e feste: momenti salienti della tradizione, della cultura del paese d’origine. Bisogna aspettare gli anni ’90 per ritrovare una maggiore attenzione culturale, sociale e politica verso la migrazione femminile, che si caratterizza prevalentemente dall’arrivo in Italia di donne di origine araba che raggiungono i mariti, immigrati in precedenza per motivi di lavoro. L’universo femminile acquista nuovamente una centralità, ricca di spunti e riflessioni teoriche e mostra nuovi caratteri eterogenei a seconda dei gruppi di appartenenza. I dati statistici, mostrano un’incidenza in leggera crescita delle donne immigrate nel decennio 190-2000, ma soprattutto distinguono la presenza femminile per ricongiungimento al marito, dalla presenza di donne emigrate sole dal proprio paese, con un progetto personale e familiare. Sono le donne “attive” che provengono dall’America Latina, dall’Europa dell’Est e dall’Estremo Oriente e che migrano soprattutto per motivi di lavoro, lasciando il marito e i figli al proprio paese. Le prime che arrivano organizzano una rete di aiuti e di sostegni che prepara l’arrivo e l’accoglienza di altre donne, parenti e amiche. E così in un secondo tempo arrivano sorelle, cugine, amiche che trovano punti di riferimento, a volte sistemi abitativi e opportunità di lavoro. Il progetto che inizialmente poteva essere caratterizzato dalla provvisorietà, sembra poi assumere connotati più definitivi e la tendenza per le donne sposate è di organizzare il ricongiungimento dei mariti, ma soprattutto dei figli. Ciò che le distingue dalle donne immigrate arabe, è fondamentalmente la natura del progetto migratorio111. Sono anche gli anni della grande visibilità delle donne, della loro sovraesposizione nel nostro paese e sono anche gli stessi anni in cui prendono corpo fenomeni come quelli della tratta e 111

Ivi, pp. 84-86.

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della prostituzione. Questo fenomeno, anche se rappresenta un piccolo tassello della realtà migratoria, mette sulla scena pubblica in modo eccessivamente forte le donne e le rende fortemente visibili. Si calcola che siano da1 a 2 milioni le donne trafficate a fine di prostituzione nel mondo, con un giro d’affari che oscilla da 7 a 13 milioni di dollari112. Donne a cui sono requisiti i documenti, sono segregate, sottoposte a forti violenze, sia fisiche che psicologiche, donne vendute, costrette frequentemente ad abortire. I romeni sono oggi i principali protagonisti di questo forma di sfruttamento, in particolar modo a Milano e in altre zone del Nord Italia. Un punto assai discusso concerne poi le varie sfaccettature del rapporto tra costrizione e consenso delle persone coinvolte. Le ricerche sul campo svolte in Italia tendono però quasi sempre a confermare l’idea della diffusione di gravi fenomeni di coercizione e sfruttamento, anche se è cresciuta la consapevolezza della diversità dei casi e dei complessi intrecci tra scelte individuali e dominazione organizzata113. Inoltre, sembra che il settore del “sex worker” , in cui oltre alle prostitute si possono affiancare le ballerine, le accompagnatrici dei locali notturni, rappresenti una delle poche alternative al lavoro domestico e contribuisce a connotare uno stereotipo della migrazione femminile che corrisponde appunto alla prostituta. In tal modo si ha un’immagine che non corrisponde alla realtà dei percorsi migratori al femminile, ma piuttosto li distorce. Lin Lean Lim, elencava già negli anni ’80 il settore del sex business tra i settori occupazionali la cui domanda contribuisce ad incrementare le componenti femminili dei flussi migratori114. Su questo particolare aspetto si è infatti sviluppato un filone assai ricco di studi specifici. Inoltre appare largamente condivisibile l’affermazione di Campani sul rischio che il nesso tra immigrazione femminile e prostituzione produca stereotipi e rappresentazioni parziali che falsano la variegata realtà dell’immigrazione femminile, non permettendo così di individuare la specificità della fase migratoria attuale115. In questi anni la segregazione occupazionale si riduce ulteriormente: le donne sono ancora dedite al lavoro di cura, ma accanto si evidenziano piccole iniziative di lavoro autonomo nelle imprese di pulizia, in piccole cooperative, nel commercio al dettaglio o come ambulanti. Oltre che una presenza nel terziario vi è anche un incremento delle donne immigrate nel settore dell’industria come operaie generiche, anche se con contratti particolari, a tempo parziale e contratti di formazione lavoro nonché di apprendistato. Ma la novità più interessante di questi 112

www.istat.it. Ivi, pp. 87-91. 114 F. Cossentino, G. Mottura , Domanda di care domiciliare e donne migranti, Indagine sul fenomeno delle badanti in Emilia Romagna, Dossier 110-2005, p. 21. 115 G. Campani, Sex business nel nuovo contesto delle migrazioni internazionali, in F. Carchedi, A. Picciolini, G. Mottura, I colori della notte, Franco Angeli, Milano, 2000, pp.121-124. 113

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anni riguarda la comparsa di un gruppo particolare di donne che svolgono lavoro di cura: le cosiddette “badanti” o assistenti familiari. 4.2 Famiglie transnazionali Parlare di immigrazione femminile e lavoro di cura significa considerare anche gli effetti che si ripercuotono nel Paese e nel sistema di welfare di origine della donna e nonché sulla propria famiglia. Se inizialmente, infatti, erano i mariti ad emigrare da soli, ora si tratta di donne e madri che partono dal paese d’origine per coprire compiti domestici e fabbisogni assistenziali delle società cosiddette “sviluppate”. Ambrosini individua la categoria delle famiglie transnazionali: egli afferma che avviene una vera e propria rottura degli assetti familiari, in quanto “le donne lasciano i loro figli in patria, affidati a padri, nonni o altri parenti o anche ad altre persone salariate, per venire ad occuparsi dei bambini e degli anziani delle società affluenti. Studi effettuati nei Paesi d’origine hanno rivelato che si attivano persino dei processi migratori aggiuntivi, per aiutare le famiglie transnazionali a fronteggiare i compiti di cura. Arrivano donne più povere o più giovani per sostituire le madri che partono per andare all’estero ad accudire altre famiglie. A volte sono migranti internazionali, che arrivano da altri Paesi per guadagnarsi da vivere come aiuti domestici o madri vicarie116. Ma come vivono le donne la distanza con la propria famiglia? La separazione dagli affetti produce nelle donne delle forti ferite emotive, associate a sensi di colpa; queste madri vorrebbero essere vicine ai propri figli, ma non possono perché costrette all’estero a guadagnare il più possibile proprio per loro, per consentirgli un avita dignitosa, pagare gli studi ecc. Dall’altro lato i figli, sentendosi, sentendosi abbandonati, vivono momenti di solitudine, insicurezza e rimprovero alla madre stessa per essere lontana: si verifica quello che Ambrosini riprendendo la Parrenas, definisce un paradosso delle famiglie transnazionali: “il conseguimento della sicurezza finanziaria per amore dei figli va di pari passo con una crescita dell’insicurezza affettiva”117. Per colmare la distanza esse cercano di mantenere il più possibile i rapporti attraverso viaggi frequenti, se la distanza lo consente, oppure ricorrendo ad altri mezzi come il telefono, lettere o e-mail. A ciò si aggiunga un grande flusso di risorse economiche costituito dalle rimesse e dall’invio di regali, capi d’abbigliamento, cibi e oggetti di vario genere; tale fenomeno ha fatto nascere servizi di corrieri organizzati, che viaggiano con frequenza settimanale e si 116 117

M. Ambrosini, M. Cominelli, op. cit., pp. 12-13. R. S. Parrenas (2004), cit. in M. Ambrosini, Ibidem.

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ritrovano, per consuetudine, in luoghi di incontro quali stazioni e piazze delle principali città italiane. Un ultimo aspetto da sottolineare in merito a queste famiglie riguarda il nuovo ruolo ricoperto dalle donne, ovvero, di breadwinner della famiglia: il fatto di procurare risorse indispensabili al sostentamento familiare innalza lo status delle donne migranti e ne aumenta il potere decisionale in seno alle famiglie, rimescolando i rapporti tra generazioni. Le donne migranti diventano il perno delle strategie di mobilità sociale o di difesa dello status familiare, ma in vario modo ne diventano anche consapevoli e possono conquistare nuovi margini di influenza e negoziazione. Rileggendo i dati di alcune ricerche disponibili che hanno trattato questo argomento, si nota che la maggior parte delle badanti corrisponde a questa caratteristica. Ad esempio nella ricerca condotta da Cossentino e Mottura, realizzata nel 2005 in Emilia Romagna, si legge che le testimonianze delle “badanti” confermano il prevalere di un modello migratorio di breve periodo, la cui pratica è finalizzata all’accumulo di quanto più denaro possibile nel minore tempo possibile per tornare a vivere nel proprio paese di origine. Sono donne per la maggior parte mature, emigrate in seguito agli effetti dei problemi sociali, economici, politici generati in patria da eventi che ne hanno rivoluzionato i regimi politici e che “utilizzano i guadagni e i risparmi ottenuti in Italia per aiutare le loro famiglie o per permettere ai propri figli di studiare, di andare all’Università, di avere un futuro migliore, o semplicemente di mantenere lo status sociale che la famiglia aveva prima del “cataclisma”. La tensione che si percepisce in queste donne è sempre rivolta verso il futuro; il presente è difficile, meglio accantonarlo; e poi d’altra parte non ci si fa molte illusioni neppure sul proprio futuro, allora meglio focalizzare l’attenzione su quello dei propri figli”118. Riflessioni analoghe emergono da una ricerca condotta dall’IRS sempre in Emilia Romagna nel 2004, rapporto di ricerca condotto da Da Roit e Castagnaro, in cui si legge che “il progetto migratorio stesso delle “badanti” si configura così come incentrato sul ruolo della donna, il nuovo “capo famiglia”; dato che in gran parte dipende da lei il sostentamento degli altri membri del nucleo familiare. La disponibilità ad emigrare da sola, il ruolo economico svolto, il livello di autonomia raggiunto, i ricongiungimenti familiari dei mariti, il capovolgimento insomma dei caratteri tradizionali che per anni hanno segnato i flussi migratori internazionali di manodopera, sono elementi tutti che rendono per molti versi omogenea l’emigrazione postsovietica con quella di altri gruppi nazionali ( ad esempio i filippini), storicamente antecedenti119. 118 119

F. Cossentino, G. Mottura, op. cit., Dossier 110-2005, pp. 66-68. C. Castegnaro, B. Da Roit , Chi cura gli anziani non autosufficienti?, Franco Angeli, Milano, 2004.

64


4.3 “Badanti” o assistenti familiari? Il termine “badante” è stato inserito nel vocabolario della lingua italiana nel 2002, in passato il suo utilizzo era relativo a quanti si occupavano di animali che richiedevano cure continuative e in seguito, nel 1980, stava ad indicare la persona che accudiva i bambini nelle famiglie benestanti. Si trattava di donne povere, contadine, che andavano a servizio dalle famiglie ricche delle città lasciando a casa un bambino appena nato, erano le cosiddette “balie” che andavano a dare il proprio latte ai figli delle donne più ricche che potevano permettersi di non allattare. Saraceno sostiene che il termine “ha un che di squalificante: “badare” è molto meno che prendersi cura, con tutto ciò che questa attività comporta in termini di attenzione per i bisogni sia materiali che psicologici e relazionali di chi di quella cura ha bisogno”120. Il termine è passato in seguito ad indicare, all’interno delle strutture residenziali per anziani, il personale privato assunto dai parenti dell’anziano non autosufficiente per assisterlo nei momenti in cui non è presente il personale della struttura. Questo tipo di lavoro viene definito da Toniolo Piva “badantato”121. Successivamente la parola ha cominciato ad essere utilizzata da parte degli stessi servizi socio-assistenziali nel suo significato attuale, vale a dire in riferimento alla lavoratrice, di origine straniera, assunta dalle famiglie per prestare assistenza agli anziani o persone non autosufficienti al proprio domicilio. In questo caso, la parola “badante”, viene usata per designare colei che compie l’azione di “badare”, “stare dietro”, “assistere” una o più persone in perdita di autonomia122. Per questo tipo di lavoro l’autrice preferisce usare il concetto di “accudimento” per differenziarlo da quello di “badantato” del caso sopra citato, e di “colferaggio”, cioè di collaborazione domestica. Sebbene sia stata espressa da parte di numerosi studiosi l’opinione che l’uso del termine “badante” sia inadeguato, esso rimane tuttavia il più utilizzato quando si fa riferimento all’azione di “accudimento”. Sono stati proposti vari titoli sostitutivi, ognuno dei quali evidenzia uno specifico aspetto del lavoro di assistenza a soggetti non autosufficienti. Toniolo Piva, propone la sostituzione con l’espressione di “assistente familiare”, per indicare una persona che “come una domestica svolge contemporaneamente sia attività per la casa, pulizia degli ambienti, preparazione dei pasti, lavanderia e altro, sia

120

C. Saraceno, Lavoro d’amore. Il delicato ruolo delle badanti, in “La Stampa”, 21 maggio 2008, pp. 4-10. P. Toniolo Piva, Anziani accuditi da donne straniere, in “Animazione sociale”, n° 5, 2002, pp. 6-37. 122 Ivi, pp. 38-40. 121

65


attività per la persona, sorvegliare il riposo, aiuto nell’alzarsi e nel coricarsi, compagnia fuori casa, pratiche burocratiche, sostegno morale, raccolta di confidenze e così via”123. Castegnaro propone una terminologia diversa, ricordando che la Caritas del Nordest ha pensato di rimpiazzare il termine ottocentesco con l’espressione “aiutante domiciliare”, in cui la parola “aiutante” è volontariamente indeterminata, “come la professionalità che caratterizza queste donne”124. Il passo ulteriore che prospetta l’autore è quello di poter introdurre, in futuro, il termine “assistente personale” per distinguere questo lavoro che potrebbe acquisire specifiche qualifiche dall’azione del semplice “badare”. La lavoratrice che opera all’interno del settore di cura, chiamata in modo diversi: “badante”, “assistente personale”, “aiutante domiciliare”, “assistente domiciliare”, “caregiver a pagamento”, “lavoratrice privata del care”, ricopre un ruolo che va ben oltre il semplice accudimento di una persona che non può badare a se stessa e ha dei compiti all’interno dell’organizzazione familiare assai rilevanti, che molto spesso non spettano nemmeno ai membri familiari, nonostante siano compiti ad alto contenuto relazionale. Non esiste ad oggi una convergenza d’opinioni sull’adozione di un unico termine per designare tale posizione lavorativa, in una situazione di assenza della definizione univoca di un profilo professionale. 4.4 Le assistenti familiari: chi sono e da dove provengono Per definire un profilo generale del fenomeno badanti in Italia è importante sottolineare che, a partire dai primi anni ’90 sono state prodotte numerose ricerche e indagini quali/quantitative, circoscritte tuttavia a livello locale o regionale, accompagnate da saggi e approfondimenti specifici sull’argomento. Anche i dati ufficiali messi a disposizione dall’INPS, non permettono di differenziare in modo esatto tra colf e assistenti familiari, in quanto tali lavoratori vengono tutti censiti come titolari di contratto di lavoro domestico: risulta dunque complesso quantificare il fenomeno con precisione, anche perché si tratta di un’attività in cui il lavoro irregolare è molto diffuso. Inoltre le immigrate iscritte negli archivi INPS sono cresciute nel corso del decennio 1995-2004 di sei volte, passando da 98mila a 647mila laddove gli immigrati nello stesso periodo sono aumentati di oltre quattro volte, passando da 194mila a 890mila. Nel 1994 le donne rappresentavano il33,5% della popolazione lavoratrice

123

Ivi, pp. 40-41. A. Castegnaro, La rivoluzione occulta nell’assistenza agli anziani: le aiutanti domiciliari, in “Politiche e Servizi alle persone”, Rivista bimestrale, fasc. n° 2, Fondazione Zancan, 2002, pp. 8-10.

124

66


immigrata e la loro incidenza è rimasta pressoché costante fino al 2002, quando, in conseguenza dell’operazione di regolarizzazione, hanno raggiunto quota 40,5125. Nella seguente tabella si riportano le presenze dei lavoratori domestici stranieri negli anni 2001-2004126: Tab. 1 Lavoratori domestici stranieri anni 2001-2004 Totale

Stranieri

Anno

femmine

maschi

totale

% donne

% stranieri

2001

267.434

108.558

30.302

138.860

78,2

51,9

2002

511.034

318.526

61.599

380.125

83,8

74,4

2003

438.517

345.388

63.115

408.503

84,5

75,8

2004

493.012

316.874

49.201

366.075

86,6

74,2

Fonte: Elaborazioni su dati INPS a cura del Coordinamento attività connesse al Fenomeno Migratorio

Un’altra importante e più recente ricerca è stata condotta dall’ Ires e promossa dalla FILCAMS (Aprile 2009)

127

. Questo lavoro, utilizzando i dati a disposizione dell’Inps, ha

quantificato in oltre 745.000 il numero complessivo delle donne e degli uomini impiegati nel settore del lavoro domestico e di cura; di questi, circa il 90% è composto da lavoratori e lavoratrici stranieri. I dati evidenziano che le provenienze continentali sono cambiate rispetto al 2002 in cui vi era un continente prevalente, l’Asia con il 42% delle occupate, seguito da altri continenti in sostanziale equilibrio fra loro (Europa 21,5%, America 20,7%, Africa 15,8%). Come detto, dopo la regolarizzazione, la presenza delle lavoratrici dell’Europa centro-orientale si è notevolmente rafforzata ed oggi rappresenta la maggioranza assoluta (57%) distanziando in maniera definitiva le altre provenienze continentali (Asia 17%, America 16%, Africa 10%). Dal punto di vista territoriale gli impiegati nel settore domestico risultano assunti per il 47% al nord, per il 34% al centro e per il 19% al sud. Dal punto di vista regionale la regione Lombardia (94.000) nel 2004, risulta la seconda a livello nazionale in termini di presenza ed è di poco preceduta dalla sola regione Lazio (112.000). Distaccate dalle prime due e con numero di addetti compreso tra le 30.000 e 50.000 troviamo la Campania (48.000), l’Emilia 125

www.inps.it, Osservatorio statistico sui lavoratori domestici dell’INPS, a cura del “Coordinamento e Supporto attività connesse al Fenomeno Migratorio”, pp. 8-9. 126 www.istat.it, ISTAT, Rapporto annuale 2006. 127 Osservatorio Ires sull’Immigrazione, Rapporto Ires-Filcams, Il lavoro domestico e di cura, scenario, condizioni di lavoro e discriminazioni, Aprile 2009, p. 31, www.ires.it.

67


Romagna (40.000), il Piemonte (38.000) ed il Veneto (35.000)128. L’incidenza territoriale degli addetti alla collaborazione domestica e familiare su scala nazionale è dell’ 8,5 per ogni mille abitanti ovvero di 1 addetto per ogni 118 residenti. A livello di macro-aree il centro (15,2 per mille) si attesta sopra la media nazionale seguito dal nord-ovest (9,6 per mille), nord-est (7,8 per mille), sud (5,4 per mille) e le isole (2,3 per mille)129. Il lavoro di ricerca continua esaminando il periodo compreso tra il 2001 ed il 2005, anni in cui, la presenza delle lavoratrici straniere impiegate nel lavoro domestico e di cura, è fortemente maggiore rispetto a quella dei lavoratori maschi: nel 2005 ad esempio il numero delle lavoratrici straniere costituiva l’87,3% dei lavoratori nel complesso. Sempre nell’arco di tempo sopra considerato è interessante notare che, mentre la presenza femminile è aumentata in maniera costante, di circa dieci punti percentuali, la presenza dei lavoratori maschi ha subito un calo di circa ove punti percentuali. ( vedi tabella 2). Tab. 2 Lavoratori domestici nel complesso (maschi e femmine) 2001

2002

2003

2004

2005

Maschi

21,8

17,1

15,5

13,5

12,6

Femmine

78,1

82,8

84,8

86,4

87,3

139.505

409.307

411.425

371.830

342.065

Totale

Fonte: Elaborazione Ires su dati INPS - Osservatorio sui lavori domestici 2007

Entrando nel dettaglio delle classi d’età, quelle più rappresentate sono le cosiddette fasce centrali (31-40 anni). La classe immediatamente successiva (41-50 anni), seconda in termini di presenza, registra un aumento considerevole, così come quella che va dai 51 ai 60 anni. (vedi tabella 3). Tab. 3 I lavoratori domestici nel complesso per classi d’età (m+f, valori %) 2001

2002

2003

2004

2005

1,1

2,4

1,2

0,7

0,7

21-25

7,4

12,21

10,1

7,2

5,3

26-30

16,7

17,7

16,2

14,5

12,5

31-40

39,6

32,2

32,4

32,4

31,9

Fino a 20

128 129

Ivi, p. 31-32. www.inps.it , Rapporto annuale 2006.

68


41-50

25,7

26,7

27,8

30,1

31,6

51-60

8,7

8,9

10,8

13,3

15,8

Oltre i 60

1,0

0,9

1,2

1,5

1,9

139.505

409.307

411.425

371.830

342.065

Totale

Fonte: Elaborazioni Ires su dati INPS – Osservatorio sui lavoratori domestici 2007

Questi andamenti generali riflettono quelli relativi ai dati per classe di età e genere. Anche nel caso delle lavoratrici le fasce più rappresentate sono quelle centrali (31-40 anni), in cui la presenza cresce in maniera costante e considerevole tanto da raddoppiarsi nel corso del quinquennio considerato. (Vedi tabella 4). Tab. 4 Le lavoratrici domestiche per classi d’età (v.a.) 2001

2002

2003

2004

2005

1.271

7.486

3.978

2.106

1.915

21-25

8.617

39.286

33.665

22.702

15.676

26-30

18.861

55.440

54.396

45.650

37.062

31-40

40.953

106.868

109.646

101.363

92.915

41-50

28.112

93.513

100.664

99.052

95.884

51-60

10.015

33.115

40.701

45.247

49.420

1.220

3.510

4.549

5.228

5.943

109.049

339.219

347.599

321.348

298.815

Fino a 20

Oltre i 60 Totale

Fonte: Elaborazioni Ires su dati INPS – Osservatorio sui lavoratori domestici 2007

Dalla ricerca si evince che a lavorare come assistenti familiari sono soprattutto donne adulte di età compresa tra i 40-49 anni. La nazionalità prevalente è quella ucraina (15,4%), a seguire quella ecuadoriana (14,5%) e quella romena (12,9%). Le altre nazionalità, fatta eccezione per quella georgiana (9,5%), croata (6,9%), bulgara (6,1%), albanese e filippina (5,7% entrambe), non superano il 4% del totale. Alla luce dei dati Caritas 2008130 sulla presenza delle nazionalità straniere prevalenti sul territorio italiano, si può notare una parziale corrispondenza con i risultati emersi dall’indagine IRES. Infatti, al 1° gennaio 2008, la maggior parte degli stranieri residenti in Italia provengono dalla Romania (624.000 unità), a seguire dall’Albania (401.900 unità) e dall’Ucraina (365.900 unità). 130

www.caritasmigrantes.it. Dossier Statistico 2008, XVIII Rapporto, Edizioni IDOS.

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Rispetto allo stato civile, secondo l’indagine svolta su un campione di donne immigrate in Italia, prevalgono coloro che sono coniugate (54,5%) e coloro che sono nubili (22,4%). In generale la maggior parte delle lavoratrici straniere possiede un titolo di studio elevato, infatti, il 48,3% ha un diploma di scuola media superiore, il 30% ha concluso la scuola dell’obbligo mentre il 15% ha conseguito il diploma di laurea. Solo il 6% non possiede nessun titolo di studio. Questi dati dimostrano, in parte, come queste lavoratrici, pur possedendo titoli di studio medio-alti non riescono a trovare un lavoro adeguato alle loro competenze e conoscenze. Una delle ragioni della mancata corrispondenza tra formazione professionale e lavoro effettivamente svolto sta nella complessità dei procedimenti con cui in Italia si riconoscono i titoli di studio esteri: sono molto pochi i lavoratori o lavoratrici che decidono di intraprendere questo percorso per vedere il proprio titolo di studio convalidato e riconosciuto131. Sempre secondo lo studio di ricerca condotto dall’Ires, delle donne straniere occupate nel settore domestico e di cura prese ad esame, il 27,8% si trova nel nostro Paese da un periodo compreso tra 3 e 6 anni; il 21,6% ci vive da un periodo compreso tra i 6 e gli 8 anni ed infine il 20,3% vive in Italia da più di 8 anni. Risulta importante sottolineare che nella quasi totalità dei casi in questione, nessuna delle lavoratrici, impegnate nel lavoro domestico e di cura, ha un ‘effettiva esperienza, conoscenza e formazione in questo ambito. Un’ulteriore interessante lavoro è quello condotto da Pavolini132 rispetto alla provenienza geografica delle assistenti familiari in Italia, in cui si avanza l’ipotesi che il lavoro di cura assuma forma diverse a seconda dell’area geografica di provenienza del lavoratore, e che si verifichino meccanismi di stratificazione e discriminazione etnica e razziale, concetto ripreso da J. Andall (2000) e denominato racialisation. Tale assunto trova conferma solo in parte dall’analisi dei dati raccolti dalle interviste, da cui emerge un gruppo predominante di “badanti” ovvero quelle dall’Est Europa, con caratteristiche molto simili: si tratta di donne di mezza età, con un progetto migratorio di breve durata e volto alla massimizzazione dei guadagni. La maggior parte di esse ha lasciato la famiglia, con figli, al proprio Paese ed intende ritornarci nell’arco di pochi anni. Questo gruppo di donne rispetto ad esempio alle donne del Sud America o dell’Africa tende a guadagnare mediamente di più, ma tale effetto non è legato, secondo Pavolini, solo al fenomeno di racialisation: se è pur vero infatti che le 131

M. Mora, “Discriminazioni istituzionali” in “Immigrazione e sindacato. Stesse opportunità, stessi diritti”, IV Rapporto IRES, Ediesse, Roma, 2006 pp. 10-11. 132 E. Pavolini,, Il mercato privato dell’assistenza nelle Marche: caratteristiche e ruolo governativo dell’attore pubblico, Dipartimento di Scienze Sociali, Università Politecnica delle Marche, Rapporto di ricerca, 2006, pp. 72-73.

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famiglie italiane considerano le donne dell’Est culturalmente socialmente più vicine e le preferiscono accanto ai propri anziani, occorre ricordare che sono le donne stesse ad accettare molto più frequentemente forme di lavoro “servile”, caratterizzato da co-residenza, assenza di regolare contratto di lavoro e condizioni di clandestinità. Si tratta quindi di anche di una stratificazione dell’offerta di lavoro. Queste assistenti familiari vivono spesso una situazione di sospensione del proprio percorso esistenziale: il lavoro di cura in Italia viene vissuto, almeno inizialmente, come una parentesi, non piacevole se non dolorosa, di un percorso di vita, che si spera ricomincerà quanto prima a casa propria, dove è stata lasciata la famiglia, una volta che si sono accumulate risorse sufficienti per far studiare i propri figli, acquistare una casa ecc. In conclusione al lavoro di Pavolini, a seguito di un’analisi multivariata delle caratteristiche delle “badanti” provenienti da altri Paesi, si può concludere affermando che il fenomeno della racialisation si verifica in particolare rispetto ad alcuni gruppi, africani e medio orientali e non per gli altri, in quanto Est Europei, Sud Americani ed Asiatici vengono valutati e trattati in una maniera simile, differenziandosi tra loro più per il loro tipo di offerta di lavoro e di cura co-residente (donne dell’est, come detto sopra) o a ore133. Infine risulta interessante l’analisi di M. Ambrosini, che ipotizza quattro idealtipi di “badante”134. Un primo profilo viene definito: esplorativo. Si riferisce a ragazze molto giovani (indicativamente sotto i 25 anni), che arrivano in Italia mosse da spirito di avventura e curiosità che sfruttano per arrivare relazioni di parentela con donne e famiglie già relativamente inserite. Arrivano a fare la “badante” quasi per caso svolgendo mansioni di assistenza, in una specie di scambio con l’ospitalità che ricevono da famiglie italiane benevole. Questo profilo è quello maggiormente esposto ai rischi di sfruttamento e di abusi: è infatti, verso loro che si sviluppano maggiormente sentimenti di protezione e rapporti di patronage, che rischiano di occultare la natura lavorativa ed economica del rapporto. Per queste donne il lavoro di assistenza viene considerato un trampolino per esplorare la società italiana e le opportunità che può offrire. Esse, infatti, pur senza avere inizialmente progetti molto chiari, sviluppano con il tempo un orientamento alla stabilizzazione, favorito dalle sanatorie. Aspirano a migliorare, a volte cambiano lavoro, ma sono vincolate dalla necessità di trovare alloggio. In genere libere da responsabilità familiari, sono le più disponibili a stabilire contatti con coetanei italiani e ad inserirsi nelle loro reti relazionali e nelle medesime modalità di impiego del tempo libero. 133

Ivi, pp. 74-78. M. Ambrosini cit. in I. Mussini (a cura di), Anziano, badante e famiglia: il triangolo dell’assistenza familiare, www.equalfuoriorario.it, p. 9.

134

71


Un secondo profilo è quello dell’utilitarista e individua le donne di età più avanzata (all’incirca dai 45 anni in avanti), spesso vedove, divorziate o separate di fatto, per lo più provenienti dall’Europa dell’Est. Investono le proprie energie nel lavoro di cura per motivi esclusivamente economici: affrontano esperienze migratorie temporanee, scandite dai visti turistici trimestrali, da sistematici andirivieni con i paesi di provenienza, da forme di alternanza tra lavoratrici legate da vincoli familiari o di amicizia. Il loro obbiettivo principale è quello di accumulare risparmi da inviare in patria per provvedere al mantenimento dei figli, contribuire a migliorare le condizioni economiche di quest’ultimi magari a loro volta sposati e con figli. Non hanno interesse al ricongiungimento familiare, progettano un ritorno in patria in tempi brevi o almeno necessari per raccoglier risorse ritenute sufficienti. Il loro attaccamento e affetto si manifestano poi, nell’intenso traffico di merci fatte recapitare attraverso “corrieri” perlopiù informali. Il lavoro di aiutante domiciliare, pertanto, risulta il più adatto a massimizzare le rimesse, per via del risparmio economico sulle spese di vitto e alloggio. Queste donne quindi in genere non coltivano aspirazioni a migliorare la loro condizione occupazionale, indipendentemente dai livelli di istruzione e dalle esperienze professionali precedenti. Si adattano al lavoro di aiutante domiciliare e pensano di svolgerlo soltanto per qualche tempo, fino ad aver raggiunto gli obbiettivi che si prefiggono, concentrati e relativi al benessere di una cerchia familiare plurigenerazionale che viene spesso a dipendere da loro135. Il terzo profilo viene definito da Ambrosini familistar: si adatta a donne di una fascia d’età più giovane (25-45 anni), che hanno figli minori e molte volte anche mariti rimasti in patria. Nel loro caso, il progetto migratorio mosso inizialmente da necessità economiche, ha visto un netto distacco dalla famiglia. In seguito tale progetto si modifica per prevedere una prospettiva di un insediamento definitivo in Italia. Le nazionalità più ricorrenti sono quella peruviana ed ecuadoriana: paesi lontani, che non consentono il pendolarismo o frequenti ritorni in patria. Questa prolungata distanza da casa le conduce non di rado a sviluppare un attaccamento affettivo, spesso ricambiato, con le persone e le famiglie presso cui lavorano, come pure rapporti di vario tipo con i connazionali. Il loro obiettivo non è tanto quello del miglioramento occupazionale, quanto piuttosto quello dell’autonomia abitativa e del passaggio ad un’occupazione che consenta di ricongiungere la famiglia e di occuparsi dei figli, che di solito chiedono insistentemente di poter raggiungere la madre in Italia. Con la conquista di un regolare permesso di soggiorno si sperimentano in altre occupazioni, prevalentemente il lavoro domestico a ore, o nelle imprese di pulizia o all’assistenza presso 135

M. Ambrosini cit. in I. Mussini, op. cit., pp. 9-10.

72


strutture residenziali per anziani. Questa è la tipologia più propensa a frequentare corsi di formazione nel settore dell’assistenza. Hanno una vita sociale caratterizzata da forme organizzate di intrattenimento e di vita associata, condivisa all’interno della propria comunità di appartenenza. Un quarto ed ultimo profilo può essere definito promozionale e si riferisce a donne giovaniadulte (in genere tra i 25 e i 40 anni), istruite, provenienti da professioni qualificate, che si sono ritrovate a svolgere il lavoro di aiutante domiciliare come porta d’ingresso al soggiorno in Italia, oltre che per rispondere a pressanti esigenze di mantenimento, proprio e dei familiari. Per il loro livello culturale e la tipologia di progetto migratorio sono le donne che soffrono maggiormente per la condizione occupazionale di “badante”, in particolare se essa si prolunga oltre i limiti ragionevoli di tempo. Le donne appartenenti a questo profilo hanno intenzione di realizzare un inserimento definitivo, spinte a volte da un desiderio di emancipazione da vincoli patriarcali, passando attraverso il lavoro di cura, perché è quello che si trova più facilmente, per raggiungere poi posizioni più qualificate. Quando hanno responsabilità familiari, le vivono con grande ambivalenza, perché sono da un lato affetti importanti e dall’altro dei fardelli per le loro aspirazioni di mobilità sociale, vincoli che rischiano di tenerle incatenate ad un lavoro dequalificato che tuttavia comporta regolari e cospicui risparmi. Esse tentano quindi di uscire dal settore, non appena acquisiscono un titolo di soggiorno regolare e incontrano, non facilmente, opportunità occupazionali diverse. I corsi di formazione, nel campo delle mediazione culturale in particolare, sono occasioni che non si lasciano scappare, perché visti come possibilità di miglioramento. Anche l’inserimento in reti sociali costituite da italiani favoriscono il miglioramento della posizione di queste donne, sia nei rapporti amicali, sia soprattutto, se si arriva ad un rapporto più forte che porta al matrimonio136. 4.5 Il rapporto di lavoro: contenuti, caratteristiche e aspetti critici L’accudimento di un anziano nella sua casa notte e giorno, svolto da una lavoratrice straniera convivente è la tipologia di lavoro sicuramente più impegnativa legata al lavoro di cura: ad essa si affiancano il lavoro ad ore e il colferaggio (cura della casa). Entrando nel dettaglio della condizione abitativa, da alcune ricerche è emerso che, nel complesso delle donne

136

Ivi, pp. 10-12.

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immigrate straniere presenti nel nostro Paese, sono per lo più le “badanti” o le assistenti familiari (il 68,8%) a vivere presso il proprio datore di lavoro137. Il lavoro di assistenza si complica quando si tratta di accudire anziani totalmente non autosufficienti: i compiti affidati all’assistente familiare sono molteplici, comprendenti anche prestazioni sanitarie. Infatti, ricorda Ambrosini, “ oltre ai normali compiti di cura della casa, che sono di solito l’oggetto principale del contratto esplicito, vengono qui richieste prestazioni di tipo assistenziale e para-sanitario, come quelle di lavare, tenere in ordine, metter a letto e alzare le persone assistite, tenere sotto controllo il loro stato di salute, a volte medicare, somministrare farmaci, prevenire e curare le piaghe da decubito. Ma si richiede anche compagnia e sostegno emotivo, o, in altri termini, una disponibilità allargata a sostituire i familiari assenti nel sollevare il morale e far passare il tempo agli anziani assistiti. Cruciale è poi la domanda di co-residenza, e quindi l’impegno ad accudire le persone anche di notte e possibilmente nei giorni festivi”138. La qualità dell’assistenza, in un quadro così descritto, è influenzata soprattutto dalle condizioni di lavoro in cui viene svolta, in particolar modo quando il datore di lavoro è un anziano fragile, o più spesso di fatto il familiare caregiver, ed il lavoratore è uno straniero convivente, si viene a configurare un’organizzazione del lavoro particolare. P. Toniolo Piva, infatti, sostiene che “per promuovere qualità occorre tenere insieme gli interessi del datore di lavoro e del lavoratore; bisogna ripensare modalità, compiti, autonomia e responsabilità, partendo da una rilettura del rapporto umano che si instaura tra assistito e assistente”139. Al fine di poter instaurare un rapporto positivo per entrambe le parti, occorre considerare alcuni punti critici. In primo luogo bisogna valutare le caratteristiche della lavoratrice. È una donna, straniera, portatrice di valori e abitudini proprie della cultura di appartenenza.Un primo nodo da sciogliere è dunque quello legato alla difficoltà di comunicazione. L’assistente e l’anziano non parlano la stessa lingua, non sono cresciuti nella stessa comunità e nello stesso paese. Devono condividere gesti e spazi della vita quotidiana, partendo da esperienze, usanze, concetti, emozioni vissuti in ambienti molto lontani. L’assistente familiare deve spesso gestire situazioni delicate, imprevedibili, perfino momenti di vera e propria emergenza, come chiamare il pronto soccorso, ricevere e inviare messaggi telefonici importanti, avvisare il medico, un operatore sociale, un familiare, un vicino di casa, leggere il foglio illustrativo di una medicina ecc. La prima competenza che l’assistente familiare deve possedere è, dunque, 137

www.ires.it, Rapporto IRES-FILCAMS, Il lavoro domestico e di cura, scenario, condizioni di lavoro e discriminazioni, Osservatorio sull’Immigrazione, 2009, p. 60. 138 M. Ambrosini, C. Cominelli, op. cit., p. 25. 139 P. Toniolo Piva, op. cit., p. 72-77.

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legata ad una basilare conoscenza della lingua italiana140. Ma nella complessiva gamma e problematica della comunicazione rientrano, oltre alla lingua, altri elementi come le abitudini, i concetti di assistenza e le pratiche di cura del corpo, la cultura delle relazioni e delle emozioni, la cura della casa. L’assistenza e la convivenza esigono inoltre una base comune di codici comunicativi non solo legata alle parole, ma al non-verbale, al gesto, alla manifestazione delle emozioni, alla gestione degli spazi, alla concezione del contatto fisico, decisamente cruciale in questo tipo di lavoro di cura. Avviene il crollo della “frontiera nell’intimità”, così definita da Tognetti Bordogna in quanto “si tratta di un lavoro di cura che necessita anche di contatti fisici con soggetti che, non appartengono alla propria famiglia e spingono verso un’intimità estranea”141. Assistente e anziano devono realizzare un’ adeguata condivisione partendo da esperienze, forme di educazione, usanze, concetti assunti in ambienti lontani, spesso molto diversi. “Capire le parole del quotidiano, funzionali alla vita e ai compiti di tutti i giorni, ma anche acquisire le parole dei “chiaroscuri”, dell’affettività, che permettono la comunicazione con gli altri, l’espressione dei sentimenti e delle emozioni: sono queste le domande e i bisogni più forti espressi da coloro che non conoscono la nostra lingua. In genere, anziano e “badante” arrivano a intendersi, anche in quanto spinti da reciproci motivi di convenienza, ma tutto ciò richiede da entrambi impegno, pazienza, disponibilità a superare continui fraintendimenti e ad imparare il linguaggio dell’altro. La possibilità di una fondamentale capacità di comunicazione è un requisito indispensabile per stabilire ciò che più conta nella relazione: la fiducia. Risulta fondamentale il nesso strettissimo tra la qualità della vita dell’uno e dell’altra; ciascuno deve contribuire a creare benessere, a dare e ricevere fiducia142. Una seconda caratteristica è collegata al progetto migratorio della donna, in quanto, appunto, straniera. In svariati lavori è dimostrato che l’assistente familiare accetta orari lunghi e la stessa convivenza con l’anziano, solo per un periodo a termine. Il lavoratore straniero, definito per questo motivo “lavoratore in transito143” ha l’obbiettivo ben chiaro di costruirsi un avita diversa, altrove. Se il progetto è di tornare in patria, il lavoratore cercherà di accumulare il massimo risparmio nel minor tempo possibile.

140

M. Tognetti Bordogna, Fra le mura domestiche: sfruttamento e crisi del welfare nel lavoro di cura delle badanti, in Immigrazione e sindacato, discriminazione, rappresentanza, III Rapporto Ires a cura di M. A. Bernadotti e G. Mottura, Ediesse, Roma, 2004, pp. 16-18. 141 Ivi, p. 19. 142 G. Favaro, Un luogo di incontro e formazione per le donne immigrate, in “Adultità”, Milano, 2001, pp. 123133. 143 P. Toniolo Piva, op. cit., p. 16.

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Se il progetto, invece, è quello di restare in Italia, appena può il lavoratore si mette in cerca di un alloggio ed un impiego normale, a volte ripiegando sull’assistenza privata ad ore o indirizzandosi, attraverso la formazione, a professioni socio-sanitarie riconosciute; alcune ricerche dimostrano che i tentativi di ricerca di lavoro alternativi, compiuti dal 47% delle assistenti familiari, hanno dato prevalentemente un esito negativo. Infatti, la maggior parte delle badanti continua a lavorare nell’ambito del lavoro di cura più per “rassegnazione” che per reale convinzione. Ma la discontinuità del lavoro viene anche, come si è visto, dalla parte dell’assistito, i cui bisogni, percorsi di salute ed eventi (anche cruciali come la morte), portano molto spesso ad interrompere l’assistenza. Così la precarietà del lavoratore e del datore di lavoro espone entrambi a cambiamenti, numerosi, unilaterali e spesso dolorosi144. Il lavoro di assistenza a domicilio porta spesso ad un vero isolamento sociale della badante. Luogo di lavoro e abitazione coincidono e quindi essa ha poche occasioni per uscire e intrecciare relazioni sociali e il tutto è complicato dal fatto di essere straniera. Questa condizione, fa sì che le assistenti familiari non attivino nessuno scambio culturale rispetto al lavoro di cura, alle pratiche ed alle modalità ad esso connesse. Lo scarso o nullo scambio è determinato anche da rare o nulle occasioni di contatto con il sistema dei servizi. Viene così meno un’occasione di scambio di competenze fra addetta al lavoro di cura e servizi, contatti che potrebbero favorire una migliore gestione dell’anziano. Inoltre mancano a questa lavoratrice adeguati spazi per la rielaborazione dei vissuti, della quotidianità e la condivisione dei problemi con altre figure che svolgono i medesimi compiti. Questa criticità connota fortemente il lavoro della badante ed è esasperata quando la donna si trova in condizioni di clandestinità (ovvero è entrata in Italia in modo irregolare e non ha permesso di soggiorno) o di irregolarità (ovvero lavora senza contratto, “in nero”). Le assistenti familiari in questa situazione sono più ricattabili e hanno scarse tutele sotto ogni profilo. Spesso la cronaca ha raccontato episodi anche estremi, con vissuti di violenza fisica e psicologica, sequestro dei documenti, minacce, assenza del riposo settimanale, insomma vere e proprie condizioni di sfruttamento ad opera di italiani ma anche di connazionali145. Un ultimo aspetto fondamentale riguarda il contratto di lavoro, condizione che influenza fortemente qualsiasi altra caratteristica sopra evidenziata. Nel corso degli ultimi anni i lavoratori stranieri impiegati nel settore domestico e di cura iscritti all’INPS, e che dunque hanno un regolare rapporto di lavoro, sono notevolmente diminuiti. Contribuiscono in questo senso gli elevati costi a carico delle famiglie, anche alla luce dell’attuale crisi economica che 144

D. Mesini, S. Pasquinelli, G. Rusmini, Il lavoro privato di cura in Lombardia, caratteristiche e tendenze in materia di qualificazione e regolarizzazione, IRS, Settembre 2006, p. 38-40, www.irs.it. 145 Ivi. pp. 36-37.

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sta attraversando il nostro Paese ed inoltre un’altra spiegazione all’irregolarità è anche costituita dalla non disponibilità a volte del datore di lavoro alla regolarizzazione146. La seguente tabella ci offre una stima dei lavoratori domestici stranieri iscritti all’INPS nell’anno 2009. Tab. 5 Numero dei lavoratori domestici stranieri iscritti all’INPS (anno 2009) Anno

Lavoratori iscritti

2002

419.808

2003

410.481

2004

371.566

2005

346.898

2006

339.223

Fonte: elaborazione su dati INPS, www.inps.it

Il contratto di lavoro è una condizione indispensabile per ottenere il permesso di soggiorno; secondo la legge in materia di immigrazione n° 189/2002, “Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”, nota anche come “legge Bossi-Fini”, il lavoratore extraUnione europea può essere chiamato a lavorare in Italia da parte di un datore di lavoro disposto a corrispondere una paga non inferiore all’assegno sociale (poco meno di 5.000 euro). Tale permesso da diritto al soggiorno in Italia per un anno, se il lavoro è a tempo determinato, o due anni se è a tempo indeterminato. Se il rapporto di lavoro si interrompe il permesso di soggiorno resta valido per il periodo residuo e comunque per 6 mesi dal momento dell’iscrizione alle liste di collocamento, periodo in cui lo straniero può trovare un’altra collocazione147. Prima della sanatoria del 2002 alcune ricerche stimavano del 43% la percentuale di occupazione straniera irregolare148, altre addirittura del 77%149. La legge 189/2002 ha affrontato la questione della regolarizzazione della posizione lavorativa delle badanti assieme a quella di colf e lavoratori dipendenti extracomunitari, in modo da far emergere dal mercato del sommerso l’elevata quota di lavoro irregolare presente nel mercato del lavoro. All’articolo 33 “dichiarazione di emersione di lavoro irregolare”, il legislatore afferma che “chiunque, nei tre mesi antecedenti la data di entrata in vigore della presente 146

www.inps.it Rapporto di ricerca IRS, Milano, 2006, p. 20, www.irs.it. 148 www.istat.it 149 www.censis.it 147

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legge, ha occupato alle proprie dipendenze personale di origine extracomunitaria, adibendolo ad attività di assistenza a componenti della famiglia, può denunciare, entro due mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, la sussistenza del rapporto di lavoro alla Prefettura/Ufficio territoriale del Governo competente per territorio mediante presentazione della dichiarazione di emersione nelle forme previste dal presente articolo”(comma 1)150. Ogni famiglia può regolarizzare una colf e un numero illimitato di assistenti familiari, purchè vi sia una certificazione della presenza di anziani o disabili in famiglia. Infatti, il decreto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 26 Agosto 2002 specifica, all’articolo 3, che non ci sono limiti nella regolarizzazione delle persone adibite all’assistenza familiare a componenti della famiglia affetti da patologie o da handicap. Il provvedimento è rivolto in pratica a tutti gli extracomunitari clandestini irregolari, cioè a coloro che sono privi di permesso di soggiorno o sono titolari di un permesso di soggiorno che non consente attività lavorativa o un’attività lavorativa limitata, che nei tre mesi precedenti il 10 settembre 2002 (data di entrata in vigore delle legge), hanno svolto lavoro domestico o di assistenza. La sanatoria richiedeva una dichiarazione congiunta di lavoratore e datore di lavoro per far emergere il rapporto di lavoro irregolare. Il datore di lavoro non è sottoposto in questo caso a sanzioni, se non alla corresponsione della contribuzione previdenziale per i tre mesi di lavoro da regolarizzare e alla sottoscrizione di un contratto di lavoro che garantisca una retribuzione minima di 439 euro mensili, oltre al pagamento delle spese di viaggio per il rimpatrio del lavoratore al termine del rapporto di lavoro (il contratto non deve essere inferiore ad un anno) e la garanzia di un alloggio idoneo per il dipendente. Dopo la presentazione della dichiarazione di emersione (dal10 settembre all’11 novembre 2002), il datore di lavoro doveva attendere di essere convocato per la stipula del contratto di lavoro e il rilascio del permesso di soggiorno al lavoratore151. È interessante conoscere come sono andate le domande in quegli anni. Da alcuni dati forniti dal Ministero dell’ Interno relativi al 2002, riportano che il numero totale di domande per la regolarizzazione è stato di 705.224 dichiarate ammissibili per un totale di 634.728 regolarizzazioni. Di esse ammonterebbero a 341.121 quelle relative a colf e “badanti”, pari al 48% del totale152. Questa parte della legge sopra citata ha suscitato tuttavia non poche perplessità tra gli addetti ai lavori: innanzitutto si può notare da quando appena riportato che la regolarizzazione della 150

www.camera.it www.inps.it 152 D. Mesini, Qualche tentativo di stima di un universo di non facile quantificazione, in Prospettive Sociali e Sanitarie, n° 17 del 18 Ottobre 2004, pp. 9-11. 151

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presenza in Italia e la regolarizzazione del rapporto di lavoro sono strettamente legate. Se non avviene, infatti, la regolarizzazione del rapporto di lavoro non si può ottenere il permesso di soggiorno in Italia153. La legge non ha considerato la caratteristica specifica di questo tipo di migrazione, ovvero che, almeno per quanto riguarda le donne che giungono dai Paesi dell’Est, ci sono strategie migratorie di breve periodo, con rapidi avvicendamenti e più in generale, frequenti cambiamenti di famiglie che seguono l’andamento dei decessi degli anziani curati154. Al di là degli specifici casi di disputa sull’interpretazione delle disposizioni dell’art. 33 della legge 189 del 2002, secondo quanto affermato da Mesini, Pasquinelli e Rusmini, rimane un non trascurabile livello di incertezza sul futuro, sia da parte delle assistenti personali che non possono permettersi di far scadere il proprio permesso di soggiorno, sia da parte delle famiglie, che confidano sul fatto che la loro assistente regolarizzata non se ne vada, pena il riproporsi del problema dell’irregolarità del rapporto di lavoro con la successiva lavoratrice. In più suddetta legge, nata con l’idea di governare i flussi di ingresso a partire dalle esigenze del mercato del lavoro locale, tramite un meccanismo do programmazione delle quote annuali, ha di fatto negli anni a venire di molto sottostimato i flussi di ingresso dei lavoratori del mercato domestico155. Si può dunque affermare che il problema della clandestinità e del lavoro irregolare è stato risolto solo in parte da questa legge: le ricerche mostrano ancora una propensione, da parte delle famiglie e delle assistenti familiari stesse, a rapporti di lavoro non regolari, facendo emergere una forte ambivalenza, in quanto se è vero che la “badante” senza contratto di lavoro rinuncia a tutta una serie di tutele e garanzie, dall’altro lato ottiene, pur nell’irregolarità, un compenso maggiore. Se invece si indaga sui motivi che spingono le famiglie a rivolgersi al mercato nero si scopre che il differenziale di costo tra le prestazioni regolari e le irregolari è il primo fattore da considerare, soprattutto se richiedono un numero elevato di ore giornaliere. Un contratto di lavoro regolare obbliga infatti, il datore di lavoro (in questo caso la famiglia), a rispettare limiti di orario, ferie, riposi, ecc. ed inoltre adempiere a tutta una serie di obblighi burocratici e fiscali che possono far diventare il livello di spesa per la cura insostenibile da parte di una famiglia a reddito medio che non riceve sostegni economici dall’ente pubblico, in quanto non soddisfa il criterio di eleggibilità means tested

153

A. Castegnaro, op. cit., pp. 11-34. Ivi, p. 34. 155 D. Mesini, S. Pasquinelli, G. Rusmini, op. cit., p. 14. 154

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Gori sostiene, infatti che, “la fruizione dei servizi privati, è correlata con il reddito familiare: il loro utilizzo cresce all’aumentare delle possibilità economiche”156. Lo stesso autore fa di seguito una classificazione delle famiglie con bisogni assistenziali secondo un criterio di reddito: “quelle con possibilità sufficienti per utilizzare i servizi privati, quelle con minori disponibilità economiche, insufficienti per rivolgersi al mercato privato, ma non troppo elevate per ricevere i servizi pubblici e le famiglie con ancora meno risorse economiche, che rientrano nei criteri per accedere ai servizi pubblici”157. Nel nostro Paese l’alto costo del lavoro, associato alla mancanza di un chiaro quadro che specifici le responsabilità istituzionali in materia di assistenza, all’ampia delega agli enti locali del compito di soddisfare le richieste di cura della popolazione, all’”adagiamento” da parte delle istituzioni e delle famiglie sul sistema dei trasferimenti monetari, al radicato modello culturale che attribuisce il compito primario di cura alla famiglia, oltre alla sostanziale accettazione sociale del lavoro irregolare, ha portato all’affermarsi di un ampio mercato informale e non regolato dall’assistenza che coinvolge un numero crescente di lavoratori stranieri. Se infatti subito dopo la sanatoria vi era quasi una coincidenza tra chi aveva il permesso di soggiorno e chi aveva un regolare contratto di lavoro, con il tempo il sommerso è ricomparso: alcune stime considerano le assistenti familiari straniere clandestine circa 235.500, pari al 38% sul totale e 136.341 (pari al 22%) quelle con permesso di soggiorno, ma senza regolare contratto di lavoro158. Altre criticità in merito al lavoro di cura delle assistenti familiari si possono esaminare considerando il punto di vista del datore di lavoro, costituito come si è già visto dall’anziano e dal caregiver. Per molti anziani il ricorso alla “badante” è una soluzione forzata per cui si creano dinamiche psicologiche negative. Questi vissuti sono in questo caso assai importanti, dato che riguardano le attese, le imposizioni che una persona anziana (spesso non autosufficiente), rivolge al coniuge, ai figli o ai familiari. Non è rara la reazione di frustrazione, di rancore da parte di un genitore che si vede costretto, forzato ad accettare in casa un’estranea, perché la figlia/o non lasciano il proprio lavoro per assisterlo o non vuole metter in secondo piano la sua nuova famiglia. A ciò va aggiunto che molti anziani sono alla prima esperienza di datori di lavoro e non sanno come ci si comporta in questo ruolo. Molti cedono solo in extremis alla soluzione di un lavoratore convivente: accettano di avere un estraneo in casa solo quando si vedono in grandi difficoltà, addirittura in molti casi 156

C. Gori, (a cura di), Il welfare nascosto. Il mercato privato dell’assistenza in Italia e in Europa, Carocci, Roma, 2002, pp.21-25. 157 Ivi, pp. 26-31. 158 www.qualificare.it, stime IRS, 2006.

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cominciano a temere per se stessi. Spetta ai familiari affrontare con sensibilità il problema, agevolando la “badante” ad assumersi un ulteriore carico di difficoltà e di responsabilità, a costruire il proprio ruolo su due fronti: conquistare la fiducia dell’anziano, adattarsi alle sue regole, ridurre il senso di estraneità e nello stesso tempo tranquillizzare il famigliare stesso159. Un altro aspetto connesso al precedente riguarda la possibilità di controllo sull’operato della “badante”. Tale difficoltà emerge nelle interviste ai familiari in diverse ricerche: quando il datore di lavoro è lo stesso anziano privo di autonomia è evidente che non possa dirigere il suo assistente. L’anziano non riesce a insegnargli un gran che e a seguirlo nelle attività e deve perciò fidarsi a “occhi chiusi”. Altrettanto si verifica, se il datore di lavoro è un familiare che vive altrove; anche lui dovrà dirigere il lavoro a distanza, rinunciando alla supervisione quotidiana. Per le attività di coordinamento e controllo, l’anziano e il familiare, che pure pagano e usufruiscono dell’assistenza, si trovano in posizione asimmetrica, devono affidarsi all’assistente. Ancora una volta la fiducia diventa un fattore decisivo, per compensare la debolezza del controllo “a vista”. Elemento destabilizzante per il parente è il meccanismo che Toniolo Piva definisce “scambio di ruolo”. Il familiare si deve scontrare con nuove difficoltà connesse al suo nuovo ruolo di datore di lavoro: procedure di assunzione, calcolo della retribuzione, versamenti INPS sono un aggravio di lavoro e fonte di ansia. Secondo alcuni non è escluso che una parte del sommerso sia dovuta anche alle difficoltà che gravano sulla famiglia che intende “mettere in regola” l’assistente. D’altro canto, chi convive giorno per giorno tutti i momenti della vita dell’anziano non è più il familiare, ma l’assistente stipendiato. Il familiare avverte che il suo posto è preso da un altro, mentre l’assistente si trova di fatto nei panni di un quasi-parente160. La dinamica a triangolo, anziano-familiari-assistente salariato, richiede una accorta gestione emotiva, basata sulla solidarietà, ma anche sulla chiarezza ciascuno del posto proprio161. Tra i compiti connessi a questo nuovo ruolo si trovano ad esempio il mettersi in relazione con le varie figure professionali che ruotano intorno all’anziano: medico di base, infermiere, terapista, assistente sociale, asa del Servizio domiciliare. Queste persone, coordinate dal familiare, trovano più spesso la badante in un confronto quotidiano sulla salute e le necessità dell’anziano. É ancora lei che si deve far carico di chiamare determinati aiuti nell’eventualità di un’emergenza, in assenza del familiare, valutando i malesseri dell’anziano. Chiamare l’aiuto specifico, eseguire le prescrizioni del medico sono attività che la rete socio-sanitaria 159

P. Toniolo Piva, Anziani accuditi da donne straniere, in Animazione Sociale, n° 5, 2002, pp. 72-77. Ivi, p. 75. 161 M. Ambrosini, C. Cominelli, (a cura di), Un’assistenza senza confini, Fondazione ISMU, Rapporto 2004, pp. 24-27. 160

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affida a servizi professionali; la badante diventata vice-figlia e deve accettare queste mansioni per il fatto stesso di convivere notte e giorno. Si tratta di responsabilità allargate che “da un lato espongono la lavoratrice a critiche e tensioni con gli addetti professionali, dall’altro aumentano il senso di insicurezza dovuta alla mancanza di riferimenti in merito ai servizi, alle procedure e alle aspettative che i professionisti hanno nei suoi confronti162. Tale aspetto avvia quello che è stato definito da Ambrosini la familiarizzazione163, ovvero il processo attraverso cui la badante diventa “una di famiglia”; come si è già detto sopra una “vice figlia”, chiamata a colmare il vuoto lasciato dai familiari. In questo modo il lavoro si carica di sottosistemi e ambivalenze164. La richiesta di coinvolgimento affettivo e di partecipazione emotiva può essere per certi aspetti connesso a tutte le professioni di cura, ma nel caso in questione la pressione diventa più forte, principalmente nei casi di coabitazione, giorno e notte con l’anziano. Si ritorna, inoltre, in un certo senso, ad un assetto pre-moderno, in cui “il padrone è anche patrono”165e si fa carico di molti aspetti della vita personale e familiare della lavoratrice. Nello stesso tempo, in molti casi, si tende a chiedere una disponibilità e una dedizione che eccedono i rapporti contrattuali, come la manifestazione di dolcezza e affetto che possono non corrispondere ai reali sentimenti della badante. Quest’ultima dal suo canto può arrivare a pretendere, una “lealtà eccessiva” per cui il rapporto di lavoro straripa dall’alveo strettamente lavorativo per investire la sfera delle relazioni personali e porta l’immigrata a legarsi alla famiglia in maniera sproporzionata, probabilmente per la necessità di trovare punti di riferimento affettivi, essendo lontana dai propri166. Un’ importante novità di questi ultimi anni, sempre in tema di regolarizzazione delle “badanti”e delle lavoratrici domestiche, si ha con la legge 94/2009 “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, con la quale si introduce il reato d’immigrazione clandestina: una norma che punisce l’ingresso e il soggiorno illegale, con conseguenze penali per i datori di lavoro che assumono stranieri irregolari. Successivamente con la legge 102/2009, la cosiddetta “sanatoria per colf e badanti”, si introduce una nuova serie di norme che conferiscono, la possibilità per decine di migliaia di famiglie e di lavoratori, di legalizzare la propria posizione. Sono state 294.774 le domande presentate al Ministero dell’Interno di cui il 38% (circa 114mila domande), ha riguardato le assistenti familiari167.

162

Ivi, pp. 28-29, www.ismu.it. M. Ambrosini cit. in Ilaria Mussini, op. cit. , pp. 28-30. 164 M. Ambrosini, C. Cominelli, op. cit., pp.30-36. 165 Ivi, op. cit., 37-39. 166 A. Bernadotti, G. Mottura, op. cit., pp. 21-28. 167 S. Pasquinelli, G. Rusmini, II Rapporto assistenza anziani non autosufficienti, 2010, 3° cap., Introduzione, “la regolarizzazione delle badanti”, Fondazione ISMU, pp.77-78, www.ismu.it. 163

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Questo risultato, sostengono Rusmini e Pasquinelli, è chiaramente inferiore alle aspettative di molti e soprattutto inferiore alle attese iniziali e alle stime sulle dimensioni del lavoro sommerso. I due autori individuano tre ordini di ragioni che avrebbero portato ad un risultato così modesto e sono rispettivamente legate alla selettività della procedura, ai lavoratori e ai datori di lavoro. Secondo alcuni dati INPS, rielaborati dai due autori sopra citati, le assistenti familiari risultano così essere intorno alle 840mila, di cui il 90% di straniere, e tra queste, circa il 40%, risulta essere sprovvista di documenti di soggiorno, per una cifra intorno alle 300mila unità. A fronte di questa ricerca, si deduce che, le 114mila domande presentate nel 2009 da badanti, rilevano che solo poco più di una su tre ha aderito a questa sanatoria e questo fenomeno risulta essere territorialmente disomogeneo nel nostro Paese168. La seguente tabella mostra il numero di domande presentate ogni mille famiglie nelle varie regioni italiane, che varia da un minimo di 1,9 del Molise ad un massimo del 22,7 della Lombardia Tab. 6 Ranking delle regioni per numero di domande presentate Regione

Numero domande

Numero domande per 1.000

(v.a.)

famiglie residenti (v.p.)

Lombardia

83.460

22,7

Campania

36.671

19,1

Emilia-Romagna

30.124

17,8

Lazio

36.659

16,7

Veneto

23.954

14,1

Toscana

15.863

11,2

Marche

5.983

10,7

Calabria

7.061

9,8

Liguria

6.729

9,3

Piemonte

14.998

8,2

Umbria

2.543

8,0

Sicilia

12.231

6,7

Abruzzo

2.887

6,1

Puglia

8.421

5,9

Trentino Alto Adige

1.929

5,2

168

Ivi, pp. 78-79.

83


Friuli Venezia Giulia

2.246

4,4

Valle d’Aosta

180

3,4

Basilicata

712

3,4

Sardegna

1.852

3,2

Molise

241

1,9

Totale

294.744

13,2

Di cui per assistenti familiari

114.000

5,1

Fonte: elaborazioni su dati ISTAT e Ministero dell’Interno, www.istat.it.

La presenza di lavoratori domestici risulta più diffusa nelle regioni settentrionali, dove le donne sono più occupate. Dalla tabella si nota come alcune regioni, pur avendo un tasso di lavoro regolare relativamente basso, hanno tuttavia un’alta quota di domande presentate (per esempio la Campania). Le ragioni di questo fenomeno sembrano essere diverse. Il modo in cui l’informazione sulla sanatoria è stata diffusa e percepita, la propensione a emergere dall’irregolarità, la tendenza a usare in modo improprio questa sanatoria da parte di persone prive dei requisiti necessari. Dalla ricerca condotta da Rusmini e Pasquinelli si rilevano anche un gran numero di domande di regolarizzazione improprie e queste sono spesso legate anche alla nazionalità dei lavoratori interessati. Ai primi posti troviamo, infatti, i lavoratori provenienti dal Marocco e dalla Cina (21.000 lavoratori corrispondenti al 7,2 dei richiedenti), oltre che dall’Egitto, Senegal e Pakistan. Un ulteriore elemento che sembra confermare un numero non marginale di domande improprie è invece dato dalla nazionalità dei datori di lavoro (8.000 marocchini, 5.000 senegalesi, 3.500 pakistani, 3.000 cinesi). Il sospetto è che in questi casi i cittadini stranieri abbiano impropriamente coinvolto dei connazionali nel procedimento di regolarizzazione, generando quella che è stata definita “autosanatoria”169.

169

Ivi, pp. 80-81.

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Conclusioni Questa tesi ha evidenziato che il lavoro di cura, svolto oggi dalle donne migranti, è un tassello importante e allo stadio attuale insostituibile di un welfare non governato da politiche pubbliche e attraversato da forti contraddizioni. Si tratta di un sistema cresciuto silenziosamente, nell’ombra, attraverso un passaparola comunitario che ha creato velocemente un modello, quello di avere un’assistente familiare, al riparo dallo sguardo e dall’interessamento dei servizi pubblici, entro una sfera privata. L’assistenza agli anziani o ai soggetti fragili è sempre più affidata a questo risvolto della globalizzazione che importa cura, amore, senza che però chi lavora non abbia pienamente riconosciuti i propri diritti e i propri bisogni. I servizi pubblici e privati e il mondo del volontariato, non sono stati in grado, almeno finora, di fronteggiare il bisogno di assistenza degli anziani non autosufficienti: le famiglie si sono perciò organizzate in proprio, attingendo al mercato di cura privato. È con l’affermazione del fenomeno delle assistenti familiari, dalla sua comparsa in Italia negli anni ’90 fino al 2007, anno del riconoscimento contrattuale della figura professionale, si ha la necessità di comprendere il mondo delle lavoratrici della cura; in questi ultimi anni gli studi basati su dati statistici sono risultati complementari rispetto ad una recente e ampia lettura sociologica, che ha studiato attraverso indagini empiriche il modello di cura italiano, privato ed informale, ricostruendo i percorsi di acceso al lavoro, il funzionamento delle reti etniche, la migrazione tra lavoro e famiglia, il punto di vista dei datori di lavoro, gli atteggiamenti nei confronti della formazione ecc. Numerose analisi, utilizzate in questo lavoro, hanno messo in evidenza, inoltre, le specificità dei percorsi migratori al femminile, in quanto il significato che le donne attribuiscono alla migrazione si sono rivelati contradditori, poiché si tratta allo stesso tempo di percorsi di emancipazione da vincoli economici, sociali e familiari, ma anche di conferma delle disuguaglianze di genere proprio, perché l’inserimento avviene in ruoli tradizionalmente assunti dalle donne. In tal senso, è importante sottolineare i pregiudizi e le forti discriminazioni attuate nei confronti di queste donne, per le quali sembra chiaro che gli unici ruoli a cui possano aspirare, indipendentemente dalla loro provenienza, dalle motivazioni e dal capitale culturale a disposizione, nel nostro paese, siano quelli di moglie, domestica, prostituta, dinamica che mette in evidenza il fenomeno dell’etnicizzazione del mercato del lavoro. Anche il termine badante, diffuso ormai ampiamente nel contesto italiano, cristallizza alcuni processi discriminatori e di esclusione subiti dalle donne migranti, segnando una distanza sociale 85


rispetto agli autoctoni, e contribuendo così a costruire e consolidare uno stereotipo riduttivo e svalorizzante della professione di assistenza agli anziani, nonché delle immigrate che svolgono tale lavoro e degli anziani fragili cui la cura si rivolge. Il termine badante, infatti, è un termine riduttivo, poiché l’attività svolta non è un semplice badare, ma una vera e propria forma di assistenza che si consuma all’interno del domicilio della persona non autosufficiente. Le sue mansioni sono molteplici: si passa da forme di assistenza infermieristica e psicologica nei confronti di anziani e disabili, ad attività rivolte alla cura della persona e del suo ambiente. Nodo cruciale del fenomeno è il rapporto che si instaura tra assistente e assistito, in quanto presenta tratti del tutto caratteristici, data la stretta relazione che lega la lavoratrice, l’anziano e i suoi parenti, in cui si fondono inevitabilmente elementi, tempi e spazi di vita e che a volte innesca delle dinamiche più simili a quelle familiari che non a quelle datoriali. È un rapporto che necessita di essere regolamentato, di uscire dal sommerso e di acquistare visibilità nei confronti della rete dei servizi territoriali. L’assistente familiare è una figura nuova che si è ormai diffusa all’interno del nostro paese, ma nonostante la crescente domanda da parte delle famiglie questo mercato si inserisce ancora, in un mercato di cura frammentato e con alti livelli di precarietà. I percorsi delle immigrate necessitano di essere compresi nella loro complessità, considerando anche le ricadute delle migrazioni femminili sui legami familiari, poiché è necessario analizzare i molteplici ruoli, lavorativi e familiari, assunti dalle donne, impegnate in un gioco di equilibri tra presenza e assenza, lontananza e vicinanza rispetto ai familiari rimasti in patria o ricongiunti in Italia, in una difficile conciliazione tra la cura degli altri e la cura e la promozione di sé, dimensione fondamentale per la persona e premessa per una piena integrazione nella società di accoglienza. Infatti, risulta davvero difficile, per le assistenti familiari vivere la loro quotidianità di vita nella situazione di lavoro “tra due famiglie”, quella dell’anziano e la propria rimasta in patria o ricongiunta in Italia. Infine, assai importante è il ruolo della formazione nell’assistenza agli anziani, che andrebbe rivalutata con l’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni del territorio e della società civile, con soluzioni di tipo cooperativistico nell’organizzazione del lavoro e dalla diffusione di forme di tutela per le donne straniere. Infatti, queste donne si trovano spesso in situazioni di sfruttamento e di vulnerabilità del lavoro precario e sottopagato, valorizzato e non garantito, segregato che sconfina nell’area del lavoro nero e coatto.

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Bibliografia delle opere citate e consultate Abdelmalek, S., La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, R.

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Sitografia www.camera.it www.censis.it www.cespi.it www.demoistat.it www.equalfuoriorario.it www.eurostat.it www.fondazionemigrantes.it www.inps.it www.ires.it www.irs.it www.istat.it www.parlamento.it www.qualificare.it

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Allegato Contratto collettivo nazionale del lavoro colf e badanti 2008 Sottoscritto da ARPE (Associazione Romana Proprietà Edilizia) FEDERPROPRIETA’ (Federazione Nazionale della Proprietà Edilizia) UPPI (Unione Piccoli Proprietari Immobiliari) CONFAPPI (Confederazione Piccola Proprietà Immobiliare) FESICA CONFSAL (Federazione Nazionale Sindacati Industria Commercio ed Artigianato) CONFSAL FISALS (Federazione Italiana Sindacati Autonomi Lavoratori Stranieri) CONFSAL (Confederazione Sindacati Autonomi Lavoratori) ADERISCONO: FEDER.CASA CONFSAL (Sindacato inquilini) ANIA (Associazione Nazionale Inquilini ed Assegnatari) UNAI (Unione Nazionale Amministratori d’Immobili) ASSOCASA (Associazione Sindacale Inquilini, assegnatari per la casa, l’ambiente, il territorio) AMICI COMUNITA’ FILIPPINA U.I.I.R. (Unione Imprenditori Italiani in Romania)

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LAVORO DOMESTICO TITOLO I GENERALITA’ E RELAZIONI SINDACALI

Art.1 Sfera di applicazione Il presente contratto collettivo nazionale di lavoro si applica a tutti i lavoratori addetti al funzionamento della vita familiare; è ammessa la contrattazione di 2° livello in sede territoriale. Art.2 Osservatorio nazionale Le parti, nella consapevolezza dell’importanza delle relazioni sindacali ed al fine di individuare scelte tese alla soluzione dei problemi economici, sociali e dell’occupazione, convengono, nel rispetto della reciproca autonomia e responsabilità, di costituire l’Osservatorio nazionale i cui componenti sono le parti stipulati. L’Osservatorio nazionale dovrà: 1. potenziare, verificare e vigilare sulla sicurezza del lavoro; 2. studiare progetti tesi alla valorizzazione professionale delle risorse umane tramite la formazione e riqualificazione del personale; 3. fornire linee di indirizzo per la contrattazione di 2° livello; 4. fornire interpretazioni delle norme contrattuali; 5. fornire pareri sull’applicazione del presente contratto; Art. 3 Ente Bilaterale Entro 2 mesi dalla firma del presente contratto le parti contraenti procederanno alla costituzione dell’Ente bilaterale, denominato EBILCOBA. I compiti dell’Ente sono i seguenti: 1. contrattazione e vertenzialità 2. formazione professionale 3. costituzione dell’Osservatorio di cui all’articolo precedente 4. gestione della cassa per l’assistenza della malattia e prestazione accessorie 5. tutti i compiti che le parti contraenti gli assegneranno con successivi accordi nell’ambito del concetto di bilateralità. L’ente gestirà vari fondi. In via prioritaria si indicano i seguenti: fondo per la sicurezza e la salute sui luoghi di lavoro; fondo per la formazione professionale; fondo integrativo del credito; tutti gli altri fondi che si riterrà opportuno promuovere.

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Ai fini dell’esplicitazione dell’attività dell’ente e dei vari fondi, finalizzati all’erogazione di prestazioni e servizi ai lavoratori e ai datori di lavoro, si concorda che datori di lavoro e lavoratori verseranno all’Ente mensilmente una quota nella misura complessiva dell’1,90% così ripartita: 1. lo 0,30% a carico di tutti i lavoratori, calcolato sulla retribuzione mensile lorda per tredici mensilità; 2. lo 0,30% a carico dei datori di lavoro, calcolato sulla retribuzione mensile lorda per tredici mensilità; 3. l’1,30% a carico dei datori di lavoro calcolato sulla retribuzione mensile lorda per tredici mensilità. I datori di lavoro provvederanno alla trattenuta delle quote a carico dei propri dipendenti; l’importo complessivo potrà essere versato all’INPS secondo le modalità stabilite dall’eventuale convenzione stipulata tra l’EBILCOBA e l’INPS. Art. 4 Trattenute sindacali I datori di lavoro provvederanno alla trattenuta delle quote sindacali nei confronti dei dipendenti che ne effettueranno richiesta scritta. Detta quota sarà commisurata ad un ammontare pari all’1% della retribuzione netta di fatto, salvo diversa comunicazione delle organizzazioni sindacali firmatarie del presente contratto.

TITOLO II CLASSIFICAZIONE DEI LAVORATORI-MANSIONI Art. 5 Categorie del lavoratori I prestatori di lavoro si suddividono in quattro categorie: Prima categoria super – appartengono a questa categoria i lavoratori in possesso di attestati professionali o diplomi specifici riconosciuti. (puericultore diplomato, infermiere diplomato generico, assistente geriatrica diplomato, e istitutore diplomato) con piena autonomia decisionale. Prima categoria Appartengono a questa categoria lavoratori che in piena autonomia presiedono all’andamento della casa o che svolgano mansioni qualificate con elevata competenza (governanti, capo-cuoco, maggiordomo, assistente ai malati, assistente agli anziani, assistente ai portatori di handicap e assistente all’infanzia). Seconda categoria Appartengono a questa categoria i lavoratori che svolgono mansioni inerenti all’andamento della casa con capacità e conoscenze tecniche acquisite (assistente a persone anche non autosufficienti, assistente ai malati, cameriere, cuoco, autista e custode) senza autonomia decisionale.

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Terza categoria Appartengono a questa categoria i lavoratori generici (assistente a persone autosufficienti, bambini ed anziani, addetti alle pulizie, addetti al giardinaggio ordinario, addetto agli animali, ecc.): Art. 6 Mansioni plurime Il lavoratore addetto allo svolgimento di mansioni plurime ha diritto all’inquadramento nel livello corrispondente alla mansione prevalente e dal relativo trattamento retributivo. Art. 7 Passaggio dalla terza alla seconda categoria Il passaggio dalla terza alla terza categoria sarà disciplinato in sede di contrattazione di 2° livello.

TITOLO III COSTITUZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO Art. 8 Costituzione del rapporto di lavoro L’assunzione in servizio deve essere fatta secondo le norme vigenti in materia di collocamento e dovrà risultare da atto scritto contenente le seguenti indicazioni: data di assunzione; durata del periodo di prova; qualifica del lavoratore e anzianità nella qualifica; retribuzione; orario di lavoro, mensile, settimanale e giornaliero; la durata dell’orario di lavoro e la sua distribuzione; la previsione di eventuali temporanei spostamenti per villeggiatura o per altri motivi; i periodi concordati per il godimento delle ferie annuali; l’indicazione dell’adeguato spazio dove il lavoratore abbia diritto di riporre e custodire i propri effetti personali; l’eventuale convivenza, totale o parziale; l’eventuale tenuta di lavoro, posta comunque a carico del datore di lavoro. Art. 9 Periodo do prova Il periodo di prova, regolarmente retribuito, non potrà superare i 45 giorni di lavoro effettivo per la categoria 1° super, i 30 per la 1°, i 15 per la 2° e gli 8 per la 3°. Durante il periodo di prova il contratto può essere risolto da ambo le parti in qualsiasi momento, con preavviso di almeno 5 giorni.

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Per le categorie 1° super e 1° il lavoratore è tenuto a dare, durante il periodo di prova, almeno 8 giorni di preavviso vista la particolarità delle mansioni a lui delegate. Scaduto il periodo di prova, senza che sia stata data disdetta, il lavoratore si intende assunto a tempo indeterminato ed il periodo di prova va computato a tutti gli effetti. Art. 10 Documentazione All’atto dell’assunzione il lavoratore deve consegnare al datore di lavoro i seguenti documenti: a) eventuale attestazione di servizio; b) la tessera sanitaria o altro documento sanitario aggiornato con tutte le attestazioni previste dalle vigenti norme di legge (ove la qualifica lo richieda); c) un documento di riconoscimento non scaduto; d) eventuali diplomi o attesati professionali specifici; e) certificato penale; f) codice fiscale; g) per i lavoratori stranieri la documentazione richiesta dalla legge. In caso di pluralità di rapporti, i documenti di cui sopra saranno trattenuti da uno dei datori di lavoro con conseguente rilascio di ricevuta. Art. 11 Contratti a tempo determinato Ai contratti a tempo determinato si applicano le disposizioni previste dal d. lgs. 6.9.2001 n. 368; l’eventuale disciplina di dettaglio è stabilita in sede di contrattazione di 2° livello. Art. 12 Tutela dei lavoratori adolescenti Nei servizi familiari è ammessa l’assunzione di minori con più di 16 anni. La materia è regolamentata ai sensi della legge 17/10/1967 n. 977 e successive modifiche ed integrazioni. Art. 13 Discontinue prestazioni assistenziali durante l’attesa notturna Al personale non infermieristico espressamente assunto per discontinue prestazioni assistenziali di attesa notturna all’infanzia, ad anziani, a portatori di handicap o ammalati, sarà corrisposta la retribuzione prevista dalla tabella E allegata al presente contratto, qualora la durata della prestazione sia interamente ricompressa tra le ore 20:00 e le ore 8:00, fermo restando l’obbligo di corresponsione della prima colazione, della cena, e di un idonea sistemazione per la notte. Nella lettera di assunzione devono essere indicate l’ora d’inizio e quella di cessazione dell’assistenza ed il suo carattere di prestazione discontinua.

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Art. 14 Prestazioni esclusivamente d’attesa Il lavoratore assunto per garantire la presenza notturna verrà retribuito come previsto dalla tabella F, qualora la durata della presenza stessa sia interamente ricompresa tra le ore 21:00 e le ore 7:00, fermo restando l’obbligo di consentire al lavoratore il completo riposo notturno. Qualora venissero richiesti al lavoratore interventi diversi dalla presenza, questi non saranno considerati lavoro straordinario, bensì retribuiti aggiuntivamente in base alla tabella E allegata al presente contratto, con le eventuali maggiorazioni contrattuali e limitatamente al tempo effettivamente impiegato. Art. 15 Riposo settimanale Il riposo settimanale è di 36 ore: deve essere goduto per 24 ore preferibilmente di domenica (i lavoratori di altra religione possono contrattare un diverso giorno di riposo. In tal caso il lavoro svolto di domenica non dà diritto alla maggiorazione domenicale che verrà però corrisposta nel caso in cui dovesse lavorare nel giorno concordato di riposo) mentre le residue 12 ore possono essere godute in qualsiasi altro giorno della settimana, concordato tra le parti, nel quale il lavoratore presterà la propria attività per un numero di ore non superiore alla metà di quelle che costituiscono la durata normale dell’orario di lavoro giornaliero. Qualora vengano effettuate prestazioni nelle 12 ore di riposo non domenicale, esse saranno retribuite con la retribuzione globale di fatto maggiorata del 40%, a meno che tale riposo non sia goduto in altro giorno della stessa settimana diverso da quello concordato ai sensi del precedente comma. Il riposo settimanale domenicale o concordato in caso di lavoratori di altra religione è irrinunciabile. Qualora fossero richieste prestazioni di lavoro per motivi occasionali ed inderogabili sarà concesso un uguale numero di ore di riposo non retribuito nel corso della giornata immediatamente successiva e le ore lavorate verranno retribuite con la maggiorazione del 60% della retribuzione globale di fatto

TITOLO IV ORARIO DI LAVORO – FESTIVITA’ – FERIE – PERMESSI Art. 16 Orario di lavoro La media totale delle ore lavorative settimanali è stabilita in 48 ore per i lavoratori conviventi. Per i lavoratori non conviventi l’orario di lavoro è stabilito in 40 ore settimanali distribuite in 5 o 6 giorni. Il lavoratore convivente ha diritto ad un riposo di almeno 8 ore consecutive nell’arco della stessa giornata è ad un riposo intermedio retribuito, nelle ore pomeridiane, normalmente non inferiore a 2 ore. È consentito il recupero, consensuale ed a regime normale, di eventuali ore non lavorate, on ragione di non più di 2 ore giornaliere.

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Le cure della persona e delle cose personali saranno effettuate dal lavoratore fuori dell’orario di lavoro. Al lavoratore tenuto all’osservanza di un orario giornaliero pari o superiore alle 6 ore, ove sia concordata la presenza continuativa sul posto di lavoro, spetta la fruizione del pasto, ovvero, in difetto, un’indennità pari al suo valore convenzionale. Il tempo necessario alla fruizione del pasto, in quanto trascorso senza effettuare prestazioni lavorative, non viene computato nell’orario di lavoro. È considerato lavoro ordinario notturno quello prestato dalle ore 22:00 alle ore 6:00 ed è compensato con una maggiorazione del 20% della retribuzione globale di fatto.

Art. 17 Lavoro straordinario Il lavoratore, chiamato a prestare servizio oltre l’orario stabilito, ha diritto al pagamento delle ore straordinarie prestate con le seguenti maggiorazioni: -

del 25% se prestato dalle ore 6:00 alle ore 22:00;

-

del 50% se prestato dalle 22:00 alle ore 6:00;

-

del 60% se prestato di domenica o in una delle festività indicate nel successivo art. 18.

Le ore di lavoro straordinario debbono essere richieste con almeno 48 ore di preavviso, salvo casi di emergenza o particolari impreviste esigenze. In caso di emergenza, le prestazioni effettuate nell’orario di riposo notturno o diurno sono considerate di carattere normale e daranno luogo soltanto al prolungamento del riposo stesso.

Art. 18 Festività Le festività nelle quali i lavoratori usufruiranno del riposo festivo sono le seguenti: 1° gennaio, 6° gennaio, lunedì di Pasqua, 25 aprile, 1° maggio, 2 giugno, 15 agosto, 1° novembre, 8 dicembre, 25 dicembre, 26 dicembre, Santo Patrono. In tali giornate sarà osservato il completo riposo. In caso di coincidenza della festa del S. Patrono con una delle festività sopra elencate, il giorno di riposo è spostato ad altra data. Nel caso che una delle festività coincida con il giorno di riposo settimanale dei lavoratori, essi hanno diritto, in aggiunta al normale trattamento economico, ad un importo pari ad una giornata di retribuzione globale. In luogo di detto trattamento economico aggiuntivo, su richiesta del lavoratore, è consentito il recupero della festività non goduta. Ove sia richiesta la prestazione lavorativa durante le predette giornate è dovuto, oltre alla normale retribuzione giornaliera il pagamento delle ore lavorate con la retribuzione globale di fatto maggiorata del 60%. Per il rapporto di lavoro ad ore le festività di cui al comma 1 sono retribuite in base all’orario che il lavoratore avrebbe normalmente prestato in detta giornata.

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Art. 19 Ferie Il lavoratore ha diritto ad un periodo di ferie annuali pari a 26 giorni. Le ferie non potranno essere divise in più di due periodi l’anno e comunque concordati tra le parti. Durante il periodo di assenza per ferie il lavoratore ha diritto allo stesso trattamento economico che avrebbe percepito se avesse prestato servizio. Il diritto alle ferie è irrinunciabile e generalmente deve essere fruito da giugno a settembre. Le ferie non possono essere godute durante il periodo di preavviso ne durante il periodo di malattia o di infortunio o maternità.

Al lavoratore cui competono vitto e alloggio spetta per il periodo delle ferie il compenso sostitutivo convenzionale. In caso di licenziamento o dimissioni, o se al momento di inizio del periodo di ferie il lavoratore non abbia raggiunto un anno di servizio, spetteranno al lavoratore stesso tanti dodicesimi del periodo di ferie quanti sono i mesi di servizio effettivamente prestato. Ai fini del computo del periodo di maturazione delle ferie, la frazione di anno è calcolata in dodicesimi. Nel calcolo delle ferie non sono comprese quelle concesse dal datore di lavoro a causa di propri impedimenti.

Art. 20 Assenze e permessi Le assenze per motivi di forza maggiore devono essere tempestivamente comunicate al datore di lavoro e comunque non oltre le 24 ore dall’evento ostativo. Le assenze per malattia o infortunio debbono essere comprovate da relativo certificato medico, indicante il periodo di presunto impedimento al lavoro, da spedire al datore di lavoro entro due giorni dall’evento; all’uopo fa fede il timbro postale di partenza. I lavoratori conviventi non sono tenuti all’invio della suddetta documentazione tranne il caso in cui la malattia sopravvenga durante le ferie o comunque al di fuori del posto di lavoro. Le assenze non giustificate entro il terzo giorno, salve le cause di forza maggiore, si interpretano come dimissioni del lavoratore. I lavoratori hanno diritto a permessi individuali retribuiti per un massimo di 16 ore annue. Per i lavoratori con orario settimanale di lavoro ridotto le ore di permesso saranno riproporzionate in ragione delle ore effettivamente prestate. Il lavoratore, del quale sia morto un familiare convivente o un parente entro il secondo grado, ha diritto ad un permesso retribuito pari a tre giorni lavorativi. Al lavoratore uomo spettano due giornate di permesso retribuito in caso di nascita di un figlio. Al lavoratore che, superato il limite di cui al comma 1, ne faccia richiesta potranno essere comunque concessi, per giustificati motivi, permessi di breve durata non retribuiti. In caso di permesso non retribuito non è dovuta l’indennità sostitutiva del vitto e dell’alloggio.

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I lavoratori a tempo pieno e indeterminato, con anzianità di servizio presso il datore di lavoro di almeno 18 mesi, possono usufruire di un monte annuo di 40 ore di permessi retribuiti, per la frequenza di corsi di formazione professionale specifici per lavoratori domestici. Art. 21 Permessi sindacali I componenti degli organi direttivi territoriali e nazionali delle associazioni sindacali firmatarie del presente contratto, secondo quanto attestato dall’associazione sindacale di appartenenza, hanno diritto a permessi retribuiti per la partecipazione documentata alle riunioni degli organi suddetti, nella misura di sei giorni lavorativi nell’anno. I lavoratori che intendano esercitare tale diritto devono darne al datore di lavoro di regola tre giorni prima della riunione, corredando la richiesta di permesso con la convocazione da parte delle organizzazioni predette. Art. 22 Diritto allo studio Senza pregiudizio per la funzionalità delle attività familiari, il datore di lavoro favorisce la frequenza del lavoratore a corsi scolastici per il conseguimento del diploma di scuola dell’obbligo o specifico professionale; un attestato di frequenza deve essere esibito mensilmente al datore di lavoro. Non sono retribuite le ore di lavoro non prestate per tali motivi; le ore relative agli esami annuali, sono retribuite nei limiti di quelle occorrenti agli esami stessi, se ricadenti nell’orario giornaliero. Art. 23 Matrimonio In caso di matrimonio spetta al lavoratore un congedo retribuito di 15 giorni di calendario. Durante detto periodo al lavoratore spetta la stessa retribuzione che avrebbe percepito in normale servizio. Al lavoratore cui competono vitto e alloggio spetta il compenso sostitutivo convenzionale. La retribuzione è corrisposta a presentazione della documentazione comprovante l’avvenuto matrimonio. Art. 24 Banca ore In sede di contrattazione di 2° livello, possono essere individuate le modalità di costituzione e di funzionamento di una banca-ore per ogni lavoratore, nella quale far affluire le ore corrispondenti alle non regolamentate assenze dal lavoro ai fini della compensazione con quelle di lavoro effettivamente svolto eccedenti l’orario giornaliero contrattualmente stabilito, previa traduzione in termini di quantità orarie delle relative maggiorazioni. La compensazione si realizzerà comunque entro 1 anno dall’inizio dell’accumulo delle ore; trascorso tale periodo al lavoratore verrà liquidato l’importo corrispondente alle ore lavorative ancora non compensate. L’applicazione delle modalità di cui sopra è subordinata al recepimento di esse nei contratti individuali.

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Art. 25 Tutela delle lavoratrici madri Si applicano le norme di legge vigente. In particolare è vietato adibire al lavoro le donne: a) durante i due mesi precedenti la data presunta del parto, salvo eventuali anticipi previsti dalla normativa; b) per il periodo eventualmente intercorrente tra tale data e quella effettiva del parto; c) durante i tre mesi dopo il parto. Detti periodi devono essere computati nell’anzianità di servizio a tutti gli effetti, compresi quelli relativi alla tredicesima mensilità e alle ferie. Dall’inizio della gravidanza, purchè intervenuta nel corso del rapporto di lavoro, e fino alla cessazione del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, la lavoratrice non può essere licenziata, salvo che per giusta causa. Dall’inizio della gravidanza e fino alla cessazione del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro non sono ritenute valide le dimissioni rassegnate dalla lavoratrice se non ratificate dalla Direzione Provinciale del Lavoro competente.

TITOLO V TRATTAMENTO DI MALATTIA Art. 26 Malattia Superato il periodo di prova, la conservazione del posto, in caso di malattia, viene garantita fino al quarantacinquesimo giorno di calendario, salva l’eventuale maggiore durata stabilita nel contratto individuale. Il periodo relativo alla conservazione del posto di lavoro è da considerarsi nell’anno civile (1 gen. – 31 dic.). Ai lavoratori assenti per malattia il datore di lavoro corrisponderà le seguenti indennità: 1) per i primi 4 giorni l’importo totale delle retribuzione; 2) per le categorie prima super e prima di cui all’art. 5, il 45% della retribuzione globale di fatto dal 5° al 10° giorno e il 50% dall’11° al 20° giorno; 3) per le categorie seconda e terza di cui all’art. 5, il 45% della retribuzione globale di fatto dal 5° al 20° giorno. Le indennità di cui sopra vengono corrisposte con l’esclusione della giornata di riposo settimanale e l’aggiunta della quota sostitutiva di vitto e alloggio nel caso in cui il lavoratore non sia degente presso il domicilio del datore di lavoro. Per i primi quattro giorni di malattia l’indennità rimane a carico del datore di lavoro, per il restante periodo provvede l’EBILCOBA sempre che i datori di lavoro abbiano versato un anno di contributi ad esso.

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Le assenze per malattia debbono essere giustificate secondo quanto previsto dall’art. 20, comma 2. La malattia avvenuta in periodo di prova o di preavviso ne sospende la decorrenza. Lo stesso vale per la malattia sorta durante il periodo di ferie.

Art. 27 Infortunio In caso di infortunio, al lavoratore che abbia superato il periodo di prova, convivente o non convivente, spetta la conservazione del posto per almeno 45 giorni di calendario. I periodi relativi alla conservazione del posto di lavoro sono da calcolarsi nell’anno civile intendendosi per tale periodo dal 1° gennaio al 31 dicembre di ogni anno. Al lavoratore, nel caso di infortunio sul lavoro, spettano le prestazioni di legge erogate dall’Istituto nazionale infortuni sul lavoro. Il datore di lavoro ha l’obbligo di denunciare gli infortuni nei seguenti termini: -

entro le 24 ore, in caso di morte.

-

entro 2 giorni dall’accertamento per quelli con prognosi superiore a tre giorni.

-

entro 6 giorni per quelli con prognosi inferiore a tre giorni.

La denuncia deve essere redatta sull’apposito modulo distribuito dall’INAIL e corredata dal certificato medico. Altra denuncia deve essere rimessa entro 2 giorni dall’evento all’autorità di pubblica sicurezza. Poiché le prestazioni economiche dell’INAIL hanno inizio dal quarto giorno, il datore di lavoro deve corrispondere la retribuzione globale per i primi quattro giorni, comprensivi di quello in cui l’infortunio è avvenuto. La quote sostitutiva convenzionale di vitto e alloggio è dovuta solo nel caso in cui il lavoratore non sia degente presso il domicilio del datore di lavoro. L’infortunio in periodo di prova o di preavviso li sospende. Art. 28 Gravidanza, puerperio e assistenza ai portatori di handicap Per il trattamento di assistenza in caso di gravidanza e puerperio della lavoratrice si fa richiamo alle norme legislative in materia, così come per i portatori di handicap.

TITOLO VI TRATTAMENTO ECONOMICO Art. 29 Retribuzione prospetto paga Il datore di lavoro contestualmente alla corresponsione periodica della retribuzione, predispone un prospetto paga in duplice coppia, una per il lavoratore, firmata dal datore di lavoro, e l’altra per il datore di lavoro, firmata dal lavoratore.

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La retribuzione del lavoratore è composta dalle seguenti voci: a) retribuzione minima contrattuale; b) eventuali scatti di anzianità; c) eventuale compenso sostitutivo di vitto e alloggio; d) eventuale superminimo. Nel prospetto paga deve altresì risultare se l’eventuale trattamento retributivo di cui alla lett. d sia una condizione di miglior favore “ad personam” non riassorbibile; devono risultare anche le ore straordinarie, i compensi per festività e le trattenute per oneri previdenziali ed assistenziali. Art. 30 Minimi retributivi I minimi retributivi sono fissati nelle tabelle A, B, C, D, E, F allegate al presente contratto e sono rivalutati annualmente. Art. 31 Vitto e alloggio L’ambiente di lavoro non deve recare pregiudizi all’integrità fisica e morale del lavoratore, il vitto dovuto deve assicurargli una nutrizione adeguata per qualità e quantità. Il datore di lavoro deve fornire al lavoratore convivente un alloggio idoneo al fine di salvaguardarne la dignità e la riservatezza. I valori convenzionali del vitto e dell’alloggio sono fissati nella tabella G allegata al presente contratto e sono rivalutati annualmente. Art. 32 Scatti di anzianità Spetta al lavoratore, per ogni biennio di servizio presso lo stesso datore di lavoro, un aumento del 4% sulla retribuzione minima contrattuale. Il numero massimo dei bienni è fissato in 10. Art. 33 Variazione periodica dei minimi retributivi ed ei valori convenzionali del vitto e dell’alloggio Le retribuzioni minime e i valori convenzionali del vitto e dell’alloggio, determinati dal presente contratto, sono variati in misura pari all’80% della variazione del costo della vita per le famiglie di impiegati ed operai rivelate dall’ISTAT per quanto concerne le retribuzioni minime contrattuali ed in misura pari al 100% per i valori convenzionali del vitto e dell’alloggio. Le variazioni determinate ai sensi del comma precedente avranno in ogni caso decorrenza dal 1° gennaio dell’anno successivo.

Art. 34 Tredicesima mensilità Spetta ai lavoratori una mensilità aggiuntiva pari alla retribuzione globale da corrispondere in occasione del Natale.

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Per coloro le cui prestazioni non raggiungessero un anno di servizio saranno corrisposti tanti dodicesimi di detta mensilità quanto sono i mesi del rapporto di lavoro. La tredicesima mensilità matura anche durante le assenze per malattia, infortunio sul lavoro e maternità, nei limiti del periodo di conservazione del posto e per la parte non liquidata dagli enti preposti. Art. 35 Cessazione del rapporto di lavoro Il rapporto di lavoro si estingue con la morte anche di un solo contraente. Ciascuna delle parti può recedere dal contratto di lavoro con l’osservanza del preavviso nei termini seguenti: -

fino a 5 anni di anzianità presso lo stesso datore di lavoro: 15 giorni di lavoro di calendario;

-

oltre i 5 anni di anzianità presso lo stesso datore di lavoro: 30 giorni di calendario.

I suddetti termini saranno ridotti del 50% nel caso di dimissioni da parte del lavoratore. Per il rapporto di lavoro inferiore alle 25 ore settimanali, il preavviso è: -

fino a 2 anni di anzianità: 8 giorni di calendario;

-

oltre i 2 anni di anzianità: 15 giorni di calendario.

Per i custodi di ville ed altri dipendenti che usufruiscano con la famiglia di alloggio indipendente di proprietà del datore di lavoro, o messo a disposizione dal medesimo, il preavviso è di 30 giorni di calendario, sino ad un anno di anzianità, e di 60 giorni di calendario per anzianità superiore; alla scadenza del preavviso, l’alloggio deve essere rilasciato libero da persone o da cose non appartenenti al datore di lavoro. I suddetti termini saranno ridotti al 50% in caso di dimissioni da parte del lavoratore. Nel caso di mancato preavviso, è dovuta dalla parte recedente un’indennità pari ala retribuzione corrispondente al periodo di preavviso non concesso. In caso di morte del datore di lavoro i familiari coabitanti risultanti dallo stesso stato di famiglia sono obbligati in solido per i crediti di lavoro maturati fino al momento del decesso.

TITOLO VIII TRATTAMENTO DI FINE RAPPORTO – PREVIDENZA INTEGRATIVA Art. 36 Trattamento di fine rapporto In ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro, il lavoratore ha diritto ad un trattamento di fine rapporto calcolato a norma di legge sull’ammontare delle retribuzioni percepite nell’anno, comprensive di eventuale indennità di vitto e alloggio: il totale sarà diviso per 13,5. Le quote annue accantonate saranno incrementate a norma dell’art. 1, comma 4, della legge 29 maggio 1982, n. 297, dell’1,5% annuo, mensilmente ricalcolabile, e del 75% dell’aumento del costo della vita, accertato dall’ISTAT, con esclusione della quota maturata nell’anno in corso.

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I datori di lavoro anticipano, a richiesta del lavoratore e per non più di una volta nel corso del rapporto, il trattamento di fine rapporto nella misura massima del 70% di quanto maturato. L’ammontare del t.f.r. maturato annualmente dal 29 maggio 1982 al 31 dicembre 1989 va calcolato in ragione di 20/26 per i lavoratori allora inquadrati nella seconda e nella terza categoria. Per i periodi di servizio antecedenti al 29 maggio 1982 le quote di accantonamento sono determinate in base ai seguenti criteri: A) per il rapporto a servizio intero del lavoratore convivente o non convivente con l’anzianità maturata anteriormente il 1 maggio 1958, 8 giorni per ogni anno di anzianità. Per l’anzianità maturata dopo il 1 maggio 1958, 15 giorni per ogni anno di anzianità. Per l’anzianità maturata dal 22 maggio 1974 al 28 maggio 1982, 20 giorni per ogni anno di anzianità. B) Per il rapporto di lavoro di meno di 24 ore settimanali, l’indennità di anzianità è la seguente: 1)

per l’anzianità maturata anteriormente al 22 maggio 1974, 8 giorni per ogni anno di anzianità;

2)

per l’anzianità maturata dal 22 maggio 1974 al 31 dicembre 1978: 10 giorni per ogni anno di anzianità;

3)

per l’anzianità maturata dal 31 gennaio 1978 al 31 dicembre 1979, 15 giorni per ogni anno di anzianità;

4)

per l’anzianità maturata dal 31 dicembre 1979 al 29 maggio 1982, 20 giorni per ogni anno di anzianità.

Le indennità, calcolate come sopra, maturate fino al 28 maggio 1982 saranno calcolate sulla base dell’ultima retribuzione e accantonate, e subiranno un incremento. Ai fini del computo del t.f.r., come degli altri istituti contrattuali, il valore della giornata lavorativa si ottiene dividendo per 6 l’importo della retribuzione media settimanale o per 26 l’importo della retribuzione media mensile. Per il solo t.f.r. tale importo deve essere maggiorato del rateo della tredicesima mensilità. Art. 37 Morte del lavoratore – Corresponsione dell’indennità In caso di morte del lavoratore, le indennità di preavviso, di anzianità e t.f.r. sono attribuite secondo le norme della successione testamentaria o legittima. Art. 38 Previdenza integrativa Le parti firmatarie del presente CCNL valuteranno l’opportunità di istituire forme di previdenza integrativa che verranno promosse dall’Ente bilaterale, che provvederà a stipulare apposita convenzione con primaria e affidabile compagnia d’assicurazione. La previdenza integrativa potrà riguardare sia i lavoratori a tempo indeterminato sia quelli a tempo determinato, purchè con contratto di durata superiore a 6 mesi, sia quelli a tempo parziale.

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Il fondo all’uopo costituito o da costituire a cura della predetta compagnia sarà basato, per ciascun lavoratore volontariamente iscritto, sui seguenti elementi: a. 0,55% (di cui lo 0,05% costituisce la quota associativa) della retribuzione utile per il calcolo del t.f.r., a carico del lavoratore; b. 0,55% (di cui lo 0,05% costituisce la quota associativa) della retribuzione utile per il calcolo del t.f.r. a carico del datore di lavoro; c. una quota del t.f.r. a partire dal momento d’iscrizione al fondo pari al 50%, salvo per i lavoratori, la cui prima occupazione è iniziata dopo il 28/04/2003, per i quali è prevista l’integrale destinazione del t.f.r.; d. una quota non utile ai fini pensionistici, da corrispondere una sola volta all’atto dell’iscrizione, pari a euro 15,49, di cui euro 11,88 a carico del datore di lavoro ed euro 3,61 a carico del lavoratore.

TITOLO VIII PROVVEDIMENTI DISCIPLINARI E DISPOSIZIONI FINALI Art. 39 Sanzioni disciplinari Le infrazioni disciplinari sono punite, a seconda della gravità, con i provvedimenti seguenti: -

rimprovero verbale;

-

censura scritta;

-

sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per un massimo di gg. 3;

-

licenziamento.

Il rimprovero può essere inflitto nei casi di lieve mancanza ai propri doveri. La censura può essere comminata in caso di recidiva di lievi mancanze. La sospensione può essere inflitta nelle mancanze che hanno comportato danni alle cose o nocumento alle funzionalità delle attività familiari. Il licenziamento può essere comminato per giustificato motivo soggettivo od oggettivo con il rispetto dei termini di preavviso di cui all’art. 35. In caso di mancanze gravi compresa l’ubriachezza in servizio, che pregiudichino la prosecuzione del rapporto fiduciario, il lavoratore è passibile di licenziamento in tronco. Il licenziamento non libera il lavoratore da eventuali responsabilità nelle quali possa essere incorso. Tutti i provvedimenti disciplinari si applicano nel rispetto delle procedure previste dall’art. 7 della legge n. 300/1970.

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Art. 40 Decorrenza e durata Il presente contratto, sostitutivo del precedente in data 19/07/2006, scaduto il 31/12/2007, scadrĂ il 20/05/2010, ferma restando la possibilitĂ di modifiche, a richiesta delle parti a decorrere dal 01/01/20009.

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TABELLE RETRIBUTIVE

A) PRIMA CATEGORIA SUPER EURO 1.200,00 (solo lavoratori in possesso di diplomi specifici) Divisore orario per convivente: 208 = euro 5,77 Divisore orario per non convivente: 173 = euro 6,94 B) PRIMA CATEGORIA EURO 1.150,00 (solo lavoratori con piena autonomia decisionale) Divisore orario per convivente: 208 = euro 5,53 Divisore orario per non convivente: 173 = euro 6,65 C) SECONDA CATEGORIA EURO 850,00 (lavoratori senza autonomia decisionale, senza diploma, ma solo con esperienza lavorativa) Divisore orario per convivente: 208 = euro 4,9 Divisore orario per non convivente: 173 = euro 4,91 D) TERZA CATEGORIA EURO 750,00 (lavoratori senza esperienza lavorativa) Divisore orario per convivente: 208 = euro 3,61 Divisore orario per non convivente: 173 = euro 4,34 E) DISCONTINUE PRESTAZIONI ASSISTENZA NOTTURNA È prevista la maggiorazione pari al 20% rispetto alle tariffe dei livelli di riferimento. F) PRESTAZIONI ESCLUSIVAMENTE D’ATTESA È prevista una categoria unica con la retribuzione di euro 550,00. G) VALORI CONVENZIONALI VITTO E ALLOGGIO Pranzo e/o colazione

euro 1,64 al giorno

Cena

euro 1,64 al giorno

Alloggio

euro 1,42 al giorno

Totale

euro 4,70 al giorno

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ASSUNZIONE CON CCNL COLF E BADANTI FEDERPROPRIETA’ UPPI CONFSAL

GENTILE SIGNORA ……………………… ………………………. Con la presente, Le comunichiamo la Sua assunzione alle mie dipendenze a decorrere dal …….., con la qualifica di ……………………… al livello ………… del vigente CCNL COLF E BADANTI FEDERPROPRIETA’ UPPI CONFSAL per la disciplina del lavoro domestico. Il rapporto di lavoro che si andrà a costituire sarà a tempo …………….. e la Sua prestazione lavorativa viene concordata in ……… ore settimanali. La distribuzione dell’orario contrattale individuale di lavoro è ripartito su …….. giorni lavorativi settimanali per le giornate dal ……….al ………. . La Sua assunzione definitiva è, comunque, subordinata ad un periodo di prova di 15 giorni, durante il quale ciascuna delle parti contraenti, in conformità di quanto previsto dall’art. 9 del predetto contratto di categoria, potrà recedere dal rapporto, in qualsiasi momento, senza obbligo di alcun preavviso né di corresponsione di indennità sostitutiva. Le Sue mansioni, proprie del predetto livello di inquadramento, consisteranno, in particolare nella qualifica ………………………… La Sua retribuzione mensile sarà quella prevista dal citato CCNL COLF E BADANTI FEDERPROPRIETA’ UPPI CONFSAL in relazione alla qualifica attribuita e commisurata alle ore di lavoro effettivamente prestate e, in particolare, al lordo delle ritenute previdenziali e fiscali, risulta così articolata: - Paga base

euro …………………

Resta inteso che il Suo particolare orario di lavoro inciderà, proporzionalmente, sulla determinazione di tutti gli altri elementi o istituti di trattamento economico e giuridico previsto dal CCNL quali ferie, festività, mensilità aggiuntive, permessi. Per quanto riguarda non espressamente dalla presente il Suo rapporto di lavoro sarà regolato dalla vigente regolamentazione collettiva più volte sopra richiamata, e in via suppletiva dalle altre disposizioni legislative in materia di lavoro dipendente. Nell’augurarLe una proficua e fattiva collaborazione, La invito a volermi restituire, debitamente firmata per accettazione dell’intero contenuto, l’allegata copia della presente.

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Per ricevuta ed accettazione ---------------------------------

Roma, ------------------------

N.B. Copia della presente va inviata all’EBILCOBA Via S. Nicola da Tolentino 21 – 00187 ed al Commissariato della Polizia di Stato competente per territorio.

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ADEMPIMENTI CONNESSI CON L’ASSUNZIONE DEI DIPENDENTI 1) Lettera di assunzione È buona norma, anche se non esiste al riguardo alcun obbligo di legge, ufficializzare l’inizio del rapporto di lavoro con una lettera di assunzione redatta secondo lo schema (all. 1). 2) Documenti di lavoro Al momento dell’assunzione il dipendente deve esibire al datore di lavoro alcuni documenti e consegnarne una fotocopia (art. 10 CCNL) Per i lavoratori minorenni in aggiunta ai documenti sopra elencati: -

la dichiarazione rilasciata dai genitori o da chi esercita la patria potestà e vidimata dal Sindacato del comune di residenza, con cui si acconsente che il lavoratore viva presso la famiglia del datore di lavoro;

-

il certificato di idoneità al lavoro rilasciato dall’ufficiale sanitario.

Per i lavoratori stranieri in aggiunta ai documenti richiesti agli altri lavoratori: -

la carta di soggiorno se si tratta di lavoratori comunitari;

-

il permesso di soggiorno se si tratta di lavoratori extracomunitari.

3) Denuncie obbligatorie Dal 1° gennaio 2007, come per tutte le assunzioni, le denuncie devono essere precedenti all’inizio effettivo del lavoro (Finanziaria 2007). Le predette denuncie vanno inviate al Centro per l’impiego, all’INPS ed all’INAIL (art. 14, comma 2, del d. lgs 38/2000). 4) Comunicazioni Questura, Distretto o Commissariato (per i conviventi) legge 18/05/78 n. 181 art.12.

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