Frances Farmer si vendicherà di Seattle

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Frances Farmer si vendicherà di Seattle indagine su un’icona tra fiction e verità Dario Recla © 2013

Si vendicherà di Seattle, cantava Kurt Cobain in un celebre pezzo dei Nirvana. “Credo che Frances Farmer sia una santa non riconosciuta del ventesimo secolo. Sfidò le autorità del suo tempo. Fu torturata, ma non ritrattò mai. La sua stessa vita è stata straordinaria: racchiude in sé le ossessioni del nostro tempo – l'ateismo, il comunismo, la manipolazione dei media e la psichiatria”, riflette Sally Clark, autrice del dramma teatrale Saint Frances of Hollywood. La controversa attrice hollywoodiana Frances Farmer (1913-1970) è da tempo un’icona celebrata nella cultura popolare. Artisti famosi le hanno dedicato canzoni mentre libri e film biografici – come lo struggente Frances con una straordinaria Jessica Lange – ci hanno raccontato del suo martirio consumato in lunghi anni di internamento per spezzarne l'indomito spirito, concluso con una lobotomia che l'ha trasformata in una sorta di zombie. Ma è proprio tutto vero? Questa indagine, basata su nuovi documenti, ricerche e rivelazioni, cerca di fare luce sulle morbose leggende metropolitane costruite dopo la morte della Farmer per farne un prodotto culturale di sicuro appeal. E i risultati raccontano una storia diversa. Il saggio rielabora una tesi originale, supervisionata dal Prof. Antonio Alizzi, discussa per il conseguimento di una laurea magistrale in Editoria e Giornalismo presso l’Università degli Studi di Verona.


Indice 1. L’ossessione Farmer

pag. 2

2. Frances Farmer: prodotto culturale

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3. Si vendicherĂ di Seattle, cantava Kurt Cobain.

pag. 17

4. Life, or something like it: biografia

pag. 27

5. Il biopic, un genere cinematografico

pag. 48

6. Costruire una leggenda

pag. 59

7. Un po’ di luce sul paese delle ombre

pag. 77

Appendice A. Cronologia essenziale

pag. 90

Appendice B. Filmografia commentata

pag. 92

Bibliografia

pag. 100

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1. L’ossessione Farmer Ricordo la prima volta che vidi il film Frances sulla vita dell’attrice Frances Farmer. Ero adolescente in quella fine anni ’80 e, con l’entusiastica predisposizione tipica di quell’età, rimasi folgorato. Consumai a forza di ripetute visioni il VHS che avevo trovato allegato ad un periodico. Tutto contribuiva a rendere l’esperienza memorabile: la stupefacente recitazione di Jessica Lange nel ruolo della protagonista, la sceneggiatura che racconta di un calvario denso di tensione, conflitti e torture, la musica, sublime, di un ispiratissimo John Barry, ma sopra ogni cosa mi colpì lei, Frances Farmer, la ribelle suprema che ogni adolescente sano di mente sogna un giorno di diventare. Senza compromessi fino alla fine, anche se tragica nel caso di Frances. Benché una scritta, all’inizio del film, lo dichiarasse basato su una storia vera, non mi feci particolari domande al riguardo: per me era tutto più che reale, visto che avevo effettivamente visto Jessica Lange patire sullo schermo senza tradire nessun accenno di finzione. Solo anni dopo mi sarei reso conto che quella performance recitativa era talmente fuoriclasse da non averne da allora mai vista un’altra simile.

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Avrei naturalmente desiderato sapere di più su questa Frances Farmer, ma nell’Italia dell’epoca pre Internet questa era una sfida persa in partenza. Anni dopo, durante una vacanza in Irlanda, mi imbattei per caso, in una rivendita di libri usati, nel tascabile dell’autobiografia di Frances Farmer, mai tradotta in italiano. Divorai quel volume ringraziando di aver avuto, durante il liceo, un’ottima insegnante di inglese. A parte le fotografie – scoprii che la vera Farmer era bellissima e piuttosto somigliante alla Lange – rimasi deluso: trovai il libro sfuocato e privo della carica emotiva che mi aveva trasmesso Jessica Lange nel ruolo della Farmer. Disprezzai la mancanza di quel pathos tragico che trovavo invece esplosivo nel film. Di conseguenza, il mio interesse per il personaggio scemò. Non potevo oltretutto alimentarlo discutendo la Farmer con i miei coetanei, totalmente disinteressati alla questione. Poi, improvvisamente, il mondo intero fu on line. Un bel giorno, verso la fine degli anni ’90, mi bastò digitare “Frances Farmer” in un motore di ricerca – credo si trattasse di Altavista – e cessai come d’incanto di sentirmi isolato nei miei interessi. Dozzine di pagine cariche di 3


informazioni e immagini attendevano di raccontarmi qualcosa sulla Farmer. Due cose mi colpirono particolarmente: artisti celebrati le avevano dedicato canzoni – tra cui gli Everything But The Girl, che adoravo, e i Nirvana, che non erano invece il mio genere – ed esisteva una biografia, Shadowland, inedita in Italia, che prometteva di aver messo nero su bianco tutta la verità sull’attrice. Qualche settimana dopo, quel libro, importato dagli USA, era tra le mie mani. Il giorno dopo l’avevo già terminato. E questa volta non rimasi deluso. Avevo ritrovato la Frances Farmer del film con Jessica Lange, e anche di più. Scoprii perché l’autobiografia dell’attrice non mi era piaciuta: non l’aveva nemmeno scritta lei. A questo punto ero ossessionato. Volevo sapere tutto, ora che Internet sembrava poter rendere reperibile qualsiasi tipo di materiale. Poi un giorno Altavista aggiunse un nuovo risultato alle mie ricerche: il sito Frances Farmer Tribute. Non ero decisamente più solo con la mia ossessione. Frances Farmer conquistò a poco a poco una sua personalità indipendente da quella che fino ad allora avevo associato a Jessica Lange. 4


Acquisii familiarità con la sua immagine attraverso i film che riuscii a procurarmi e lessi veramente tanto sulla sua strana vita, e scrissi pure, riuscendo con orgoglio a piazzare, nel 1999, un mio articolo su di lei nel settimanale Musica, rock & altro, allora inserto del quotidiano La Repubblica1.

Questa la trascrizione del mio articolo Frances Farmer: la stella triste di Seattle gettata nel fango: Si vendicherà di Seattle, cantava Kurt Cobain. “Credo che Frances Farmer sia una santa non riconosciuta del ventesimo secolo. Sfidò le autorità del suo tempo. Fu torturata, ma non ritrattò mai. La sua stessa vita è stata straordinaria: racchiude in sé le ossessioni di questo secolo – l'ateismo, il comunismo, la manipolazione dei media e la psichiatria”, spiega la canadese Sally Clark, autrice del dramma teatrale Saint Frances of Hollywood (1994). L'America dei grandi miti plastificati non ha mai fatto nulla per riabilitare questa figura così inquietante: il bianco dei suoi denti era macchiato da troppi presunti peccati. Anche l'America della cultura l'ha snobbata per lungo tempo, liquidandola come l'ennesima vittima fragile e nevrotica dello starsystem. Ora è tra i protagonisti di un volume fotografico dedicato a Hollywood ed edito dal Los Angeles Times (High Exposure). Nata nel 1913 a Seattle, Washington, Frances Farmer comincia a scuotere le sane fondamenta della società a 16 anni, con un premio letterario vinto per un saggio antireligioso e poi con un viaggio nella Russia sovietica. Bellissima e talentuosa, approda a Hollywood e a Broadway diventando una vera stella, ma il suo ribelle anticonformismo, unito ad un convinto attivismo politico di sinistra, le scava la fossa. Il potere di destra di Seattle prende a pretesto i problemi personali e le “abominevoli” convinzioni politiche dell'attrice e la elimina a 27 anni, con l'aiuto di una madre mostruosa e della compiacenza della potentissima lobby psichiatrica, facendola dichiarare mentalmente inferma. Quasi dieci anni di manicomio e, come suggerisce William Arnold, - l’autore dello sconvolgente Shadowland, biografia definitiva della Farmer - un’operazione di lobotomia, la riducono a poco più di un'ombra di quello che era stata. Stordita dall’alcool, muore nel 1970 a 56 anni, dimenticata da tutti, compresa se stessa. Come attrice - tecnicamente modernissima - non ha avuto la possibilità di esprimere appieno il suo potenziale. La sua unica pellicola di rilievo è Come and Get It, 1936, diretta da Howard Hawks e William Wyler. Nella parte di un’entraîneuse di saloon delusa dalla vita, canta Aura Lee, il motivo popolare che Elvis Presley trasformerà in Love Me Tender. Nel 1982 esce Frances, il più importante dei tre film sulla sua vita. Jessica Lange “vive” sullo schermo la Farmer come “una donna strindberghiana la cui bellezza fa da scudo a una passione che rasenta la pazzia”. Tuttavia, appartiene al mondo della 1

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In quell’articolo diedi ingenuamente per certa la lobotomia praticata sull’attrice, l’apice del suo martirio secondo il film Frances e la letteratura che lo ha ispirato. Ad un certo punto, fui poi fisiologicamente sazio: non mi sembrava ci fosse più carne da spolpare sulle ossa di Frances Farmer. Gli anni passarono inesorabili. Ogni tanto gettavo una nostalgica occhiata sulla mia collezione Farmer, composta da libri, video e foto, rimpiangendo quell’età in cui gli interessi riescono ad essere così passionali e totalizzanti. Ampiamente fuori tempo massimo, arrivai con soddisfazione a completare il percorso per conseguire una laurea magistrale, in editoria e giornalismo presso l’Università di Verona, e, alla ricerca di un soggetto per la mia tesi, accarezzai l’idea di scrivere su Frances Farmer.

musica il merito di aver reso Frances Farmer una figura di culto. Nel ‘93 appare nell'album In Utero dei Nirvana la canzone Frances Farmer Will Have Her Revenge On Seattle (Frances Farmer si vendicherà di Seattle). Diversi altri artisti, tra cui i Culture Club e gli Everything But The Girl, avevano già reso omaggio all’attrice. Il pezzo di Cobain resta il più impressionante. Il cantante, morto suicida, che in parte si immedesimava nell’attrice, predice una sorta di apocalisse nella quale la Farmer ritornerà circondata da fiamme per “bruciare tutti i bugiardi e lasciare un manto di cenere sul terreno”. Nel caso della Farmer, tutte le cose che si supponeva dovessero procurarle felicità – carriera, denaro e fama – la portarono invece alla distruzione e Cobain conclude confessando di sentire la “mancanza del semplice conforto della tristezza”. Oggi Seattle ama definirsi una tra le città più aperte, colte e tolleranti d'America, ma la Seattle che distrusse Frances Farmer è uno stato mentale che continua a distruggere. 6


Il prof. Antonio Alizzi, che ancora ringrazio di cuore, accolse prontamente il progetto fornendomi preziosi suggerimenti sulla chiave di lettura del personaggio come prodotto culturale. Confesso che mi incuriosÏ riesumare la Farmer, alla luce delle nuove rivelazioni sulla sua vita di cui ero stato marginalmente consapevole nel corso degli anni, trattandola con una freddezza analitica inimmaginabile anni or sono, nel tumulto delle passioni adolescenziali. Il risultato, che rielabora la mia tesi originale, è tutto nelle prossime pagine.

Dario Recla

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2. Frances Farmer: prodotto culturale Questo saggio intende occuparsi dell’attrice americana Frances Farmer in quanto prodotto culturale, ovvero come opera dell’ingegno e della creatività di chi ha fatto propria la sua vita e l’ha riscritta secondo i suoi scopi, costruendo percorsi emotivi e passionali per i propri lettori e/o spettatori. La letteratura su Frances Farmer è figlia dei feuilletons ottocenteschi e di una certa idea di giornalismo da essi derivato – avvincente, sensazionale, di consumo – ma anche conscio delle problematiche e della struttura sociale del suo tempo2. Le notizie circa la vita dell’attrice riportano eventi, avvenuti sì nell’ordine del reale – cosa che corrisponde alla prospettiva concettuale di “che cos’è una notizia?”3 – ma concretizzati in opere che, come vedremo, sono solo ispirate alla realtà, visto che le fonti utilizzate, indispensabili per autenticare un resoconto biografico-giornalistico, sono quantomeno scarse e inattendibili, perlomeno in quelle che sono considerate opere biografiche documentate. Fausto Colombo e Ruggero Eugeni, Il prodotto culturale. Teorie, tecniche di analisi, case histories, Carrocci, 2001, p. 52. 3 Ibid, p. 110. 2

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Lo stesso vale per il cinema biografico prodotto sulla vita di Frances Farmer, in cui tutta la questione del punto di vista – dello sguardo cinematografico, del soggetto quindi4 – è manipolata per indurre lo spettatore a credere l’inverosimile. Certo, chi decide di operare con materiali biografici deve accettare di muoversi entro un orizzonte il cui limite ultimo non è il fatto, ma l’esperienza che ne fanno i soggetti5. Per consentire questa esperienza è necessaria un’ “operazione di falsificazione”6 che mira a “disarticolare la biografia mediale in una serie di fasi, raccolte intorno a epifanie, a punti di crisi, che introducono una cesura nella storia e mediano il passaggio da un ciclo di vita ad uno successivo”7. Ricordiamo inoltre che la nostra Frances Farmer, in quanto prodotto culturale, deve in primis vendere8 e la spettacolarizzazione della sua vita è la naturale spinta propulsiva per accrescerne l’efficacia sul mercato. Appureremo, nel caso Frances Farmer, la presenza di una mistificazione tipica del modello economico cosiddetto “performativo” che prevede che la semplice enunciazione crei la verità9.

Ibid, p. 130. Ibid, p. 196. 6 Ibid. 7 Ibid, p. 199. 8 Ibid, p. 325. 4 5

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Le mistificazioni – che prevedono la trasformazione in verità delle menzogne costantemente ripetute – seguono uno schema preciso: si rivolgono a persone dotate di scarso senso critico pronte ad uniformarsi a un modello da più parti accreditato, ma finto. La prova dell’esistenza di una verità si riduce ad una somma di errori ripetuti, che ad un certo punto divengono una verità stabilita. Questo è particolarmente evidente, ad esempio, nelle mistificazioni religiose: le improbabilità circa l’esistenza di un individuo generano nei secoli una mitologia alla quale si piegano comunità ed intere nazioni10. Vedremo come, con la sua “Farmer in versione lobotomizzata”, il più famoso e contestato biografo dell’attrice, il giornalista americano William Arnold, sia riuscito a creare un suo imprescindibile branding con cui è di fatto arrivato a sostituire il personaggio del reale con la sua versione fittizia. Come ha fatto? Differenziando la sua Farmer grazie ad un particolare memorabile11: un’operazione di lobotomia utilizzata come chiave per leggere e riscrivere un’intera esistenza. Grazie a questo ha potuto

Gilberto Borzini, Le quattro «emme» dell'economia contemporanea. Marketing, mercatismo, mistificazioni, monoteismo, UNI Service, 2007, p. 60. 10 Ibid, p. 64. 11 Luigi Centenaro; Tommaso Sorchiotti, Personal branding. L'arte di promuovere e vendere se stessi online, Hoepli, 2010, p. 12. 9

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arrivare ai suoi clienti, i lettori in questo caso, in maniera forte come prevedono le tecniche del branding, emozionandoli e incantandoli12. Il branding, come del resto il marketing, ha l’obiettivo di comunicare efficacemente un messaggio, al fine di aumentare la visibilità e le vendite di un prodotto13, una biografia nel nostro caso, e William Arnold ci è riuscito appieno. Analizzeremo come – in una sorta di operazione di smart marketing – la web community riunita attorno al personaggio Farmer, soprattutto attraverso il sito francesfarmer.com, si sia in seguito organizzata per fare pulizia circa un prodotto dall’alto potenziale commerciale, ma inesorabilmente falso. Perché, dicevamo, operazione di smart marketing? Perché tale approccio prevede proprio di dare voce e opportunità a tutte le persone che hanno passione e energia per una partecipazione attiva14 e mira a sostenere la loro crescita all’interno di un gruppo15: il successo del singolo nel ristabilire, nel caso Farmer, porzioni di verità è infatti il successo di tutti.

Ibid, p. 30-31. Ibid, p. 37. 14 Gianfranco Conte, Smart marketing. Il marketing passa dalla parte delle persone, Fausto Lupetti Editore, 2012, p. 62. 15 Ibid, p. 95. 12 13

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Scopo della community è quello di proporre al pubblico un prodotto Farmer possibilmente più genuino, comunque alternativo a quello finora proposto. La Frances Farmer recentemente riveduta e corretta è quindi un prodotto, possiamo affermare, di un contesto “social” che prevede, nell’attuale scenario mediatico, fruitori di cultura particolarmente attivi16, più propensi quindi a dubitare di prodotti confezionati in modo poco attendibile. Propongo infine, prima di addentrarci nel caso Farmer nei prossimi capitoli, l’analisi di due casi simili del passato, tra i tanti, che miravano alla medesima creazione di biografie alternative, fruibili per il marketing, utilizzando come fondamento la vita di personalità contemporanee per imbastire fiction biografiche vendute tuttavia come saggistica. Il primo caso risale al diciannovesimo secolo e riguarda la vita della scrittrice inglese Charlotte Brontë (1816-1855), celebre soprattutto per il best seller Jane Eyre, ricostruita dalla collega e amica Elizabeth Gaskell nella sua The Life of Charlotte Brontë del 1857. Commissionata alla scrittrice dal padre della Brontë, la biografia scritta dalla Gaskell, di 16

Ibid, p. 175. 12


enorme impatto commerciale e influenza, ha un’agenda ben precisa: salvare la memoria di Charlotte Brontë dalle accuse di volgarità e irreligiosità mosse dai suoi detrattori a causa delle sue opere così poco allineate alla morale dell’epoca17. Per raggiungere il suo scopo, la Gaskell ritrae la geniale Charlotte come una vittima suprema, una santa asessuata, un relitto gotico immerso in un mondo di bare, merletti, tubercolosi e pittoresche brughiere. È irrilevante, per la Gaskell, che Charlotte sia stata invece, figlia di un pastore anglicano dagli scarsi mezzi, una donna coraggiosa e volitiva trionfante nella sua sfida alla misogina società vittoriana e capace di trascendere il suo background per divenire una romanziera affermata. Come è riuscita la Gaskell ad attuare il suo romantico “atto di carità”18? Con una sapiente opera di censura. La Gaskell elimina consapevolmente, dai materiali originali che cita, qualsivoglia riferimento alla Charlotte Brontë passionale, ossessionata – dagli amori non corrisposti, dall’ambizione, dalla rabbia di vivere in un mondo maschilista – e crea così una Brontë alternativa, scollegata dalla realtà biografica, ma

Christine Alexander e Margaret Smith, The Oxford Companion to the Brontës, 2006, Oxford University Press, p. 43. 18 Tanya Gold, “Reader, I shagged him”, The Guardian, 25.03.2005. 17

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pienamente in linea con l’ideale femminile dell’epoca: una donna sottomessa, biologicamente predisposta a soffrire con nobiltà d’animo. La Charlotte Brontë creata da Elizabeth Gaskell perdura incontestata fino agli anni ‘30 del novecento, quando nuovi studi rintroducono, dapprima timidamente, i materiali soppressi dalla Gaskell dando ufficialmente inizio al recupero della Brontë dalla sua mai richiesta canonizzazione. L’altro caso che propongo, del ventesimo secolo, è invece quello della celebre The Autobiography of Malcolm X pubblicata nel 1965 da Grove Press. L’autore del libro non è il famoso leader assassinato nel 1965, ma il romanziere e giornalista Alex Haley. Haley, autore del romanzo considerato una pietra miliare del black pride,

Roots,

ovvero

Radici, è il

ghostwriter

che imbastisce

l’autobiografia a partire da una serie di interviste condotte con Malcolm X tra il 1963 e l’anno della sua morte. Benché la collaborazione tra i due sia esplicitata nel capitolo conclusivo del libro – per correttezza nei confronti del pubblico di lettori – i critici moderni attribuiscono a Haley la mitizzazione del leader attraverso procedimenti narrativi, che mirano a costruire suspense e drammaticità nella narrazione, e attraverso pesanti omissioni – il polemico 14


abbandono dell’islamismo, certi sentimenti antisemiti – privilegiando la discrezione sul contenuto e rendendo così Malcolm X accettabile per il più vasto pubblico possibile. Alcuni critici hanno evidenziato come il Malcolm X di Haley sia vittima della sua stessa iconicità: le maschere create per renderlo non particolarmente islamista, non particolarmente nazionalista, non particolarmente umanista finiscono per nascondere il suo carattere più che mostrarlo. Naturalmente la lista dei titoli di (non) fiction biografica è sterminato. Non vale nemmeno la pena soffermarsi sulla miriade di instant book pseudo biografici – “firmati” da calciatori e soubrette di dubbio spessore – che intasano il mercato editoriale, anche e soprattutto italiano. Per tornare a Frances Farmer, vedremo come la sua vicenda rappresenti un ottimo esempio di cold case risolto, di un caso cioè nato, sedimentato e apparentemente concluso in un’era pienamente pre Internet, per essere poi riaperto e rivoluzionato ai giorni nostri, proprio grazie alle comunità operanti all’interno della rete. Il caso Farmer rappresenta

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quindi un’eccezione a quella neutralizzazione tra fiction e informazione sempre piÚ insita nel sistema mediatico, soprattutto virtuale19. Questa volta il World Wide Web viene identificato come canale di controinformazione capace di limitare i danni provocati dalla degenerazione dei vecchi media, e non come quella fucina di bufale costruite ad arte e utilizzate come strumenti di disinformazione e manipolazione.

Walter Molino; Stefano Porro, Disinformation Technology: dai falsi di Internet alle bufale di Bush, Milano, Apogeo, 2003, p. XI. 19

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3. Si vendicherà di Seattle, cantava Kurt Cobain. Frances Farmer è un’attrice americana degli anni ’30 e ’40 del Novecento, l’età dell’oro del cinema hollywoodiano. Una dea tra le dee quindi, ma con una carriera relativamente breve, interrotta a causa di gravi problemi personali. Tra il 1936 ed il 1942 interpreta quattordici film – più un ultimo, trascurabile, nel 1958 – recitando, nei migliori tra questi, con star del calibro di Cary Grant, Bing Crosby, Tyrone Power e John Garfield. Come attrice – tecnicamente modernissima20 – non ha avuto quindi la possibilità di esprimere appieno il suo potenziale. Potenziale che può rivelarsi dirompente: in una scena indimenticabile della sua pellicola di maggior pregio, Come and Get It del 193621, diretta da luminari della regia cinematografica come Howard Hawks e William Wyler, Frances, nella parte di un’entraîneuse da saloon delusa dalla vita, canta con struggente intensità Aura Lee, il motivo popolare che Elvis Presley trasformerà nella celeberrima Love Me Tender.

Frances Farmer è una delle prime attrici hollywoodiane ad aderire al metodo Stanislavskij, che prevede una sorta di mimesi, soprattutto psicologica, con il personaggio. 21 La pellicola è uscita sugli schermi italiani con il titolo Ambizione. Una filmografia commentata dell’attrice è disponibile in appendice. 20

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Ma Frances Farmer non è solo un personaggio dragato a forza da un’epoca ormai remota di fotogrammi in bianco e nero. Una canzone le ha assicurato l’ingresso nella cultura popolare del ventunesimo secolo: Frances Farmer Will Have Her Revenge on Seattle nel disco In Utero dei Nirvana presenta un testo così drammatico22 – con tanto di vendette consumate tra fiamme e cenere – da costringere a chiedersi: cosa è successo a Frances Farmer? Secondo la versione standard è successo questo: nata nel 1913 a Seattle, Stato di Washington, Frances Farmer comincia da adolescente a scuotere le sane fondamenta della società, con un premio letterario vinto per un saggio antireligioso e poi con un viaggio nella Russia sovietica. Bellissima e talentuosa, approda a Hollywood e a Broadway diventando una vera stella, ma il suo atteggiamento indipendente, liberale e anticonformista, insofferente ai rituali dello star system – un must senza significato e senza particolari conseguenze per molte stelle menefreghiste di oggi, in varie declinazioni del trash, à la Lindsay

Questo è il testo integrale della canzone di Cobain: “It's so relieving to know that you're leaving as soon as you get paid; It's so relaxing to hear that you're asking wherever you get your way; It's so soothing to know that you'll sue me, this is starting to sound the same; I miss the comfort in being sad. In her false witness, we hope you're still with us, to see if they float or drown; Our favorite patient, a display of patience, disease-covered Puget Sound; She'll come back as fire, to burn all the liars, and leave a blanket of ash on the ground; I miss the comfort in being sad.” 22

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Lohan23 – unito ad un convinto attivismo politico di sinistra, le scava la fossa. Il potere di destra di Seattle prende a pretesto i problemi personali e le “abominevoli” convinzioni politiche dell'attrice e la elimina a ventisette anni, con l'aiuto di una madre mostruosa e della compiacenza della potentissima lobby psichiatrica, facendola dichiarare mentalmente inferma. Lunghi anni di manicomio, che ne fanno la prigioniera di una sorta di gulag americano, e, come per primo ha affermato William Arnold, – l’autore della sconvolgente Shadowland, contestata

biografia

della

Farmer

che

contribuisce

in

modo

determinante alla sua mitologia24 – un’operazione di lobotomia, la riducono a una sorta di zombie, un'ombra dell’artista vibrante che era stata. Dopo un patetico tentativo di ritorno sulle scene, stordita dall’alcol, muore nel 1970 a cinquantasei anni, dimenticata da tutti, compresa se stessa. Nel 1972 appare postuma la sua autobiografia. Alla sua canonizzazione come moderna martire ha provveduto dapprima l’enfant terrible Kenneth Anger con il fiammeggiante capitolo

Andrew Nicastro, “Lindsay Lohan: The Next Frances Farmer?”, Examiner.com, 23.02.2011 24 William Arnold, Shadowland, New York, McGraw-Hill, 1978. 23

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“La figlia della furia”25 a lei dedicato nel suo Hollywood Babilonia, libro culto del 1975 sulle miserie hollywoodiane. Capitolo che chiosa come segue: “E noi nominiamo Santa protettrice di tutte le Maddalene di Hollywood che hanno bevuto al pozzo della follia Frances Farmer, una martire.26” La santificazione di Frances Farmer non si è fermata qui. “Saint Frances of

Hollywood”,

spiega

la

drammaturga

canadese

Sally

Clark

nell’introdurre il suo omonimo pezzo per il teatro, “non è un titolo ironico. Al giorno d'oggi, pensiamo ai santi come ad anime gentili, una condizione che implica una serenità di per sé miracolosa. Ma esiste una tradizione più antica di santi come agitatori di folle ribelli e determinati, che si battono contro l'autorità per servire la loro causa. Questi santi venivano puniti per la loro insubordinazione. Venivano torturati a morte. Bruciati sul rogo. Fino alla fine non tradivano le loro convinzioni. Credo che Frances Farmer sia una santa non riconosciuta del ventesimo secolo. Sfidò le autorità del suo tempo. Anche lei fu torturata, ma non ritrattò mai. La sua stessa vita è stata straordinaria per come racchiude in sé le ossessioni principali di questo secolo: l'ateismo, il comunismo, la Il titolo del capitolo richiama ironicamente quello della pellicola Son of Fury (distribuita in Italia come Il figlio della furia) del 1942, in cui la Farmer recita accanto a Tyrone Power. 26 Kenneth Anger, Hollywood Babilonia, Adelphi, 1996, p. 228. 25

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manipolazione dei media e la psichiatria. Frances Farmer era una leggenda al manicomio di Steilacoom. Organizzò i pazienti del suo reparto e li condusse alla ribellione contro le autorità. Le infermiere dell'istituto parlavano dello strano potere che emanava. Ho un lontano ricordo del talk show televisivo This Is Your Life27 con Frances Farmer ospite della puntata. Rammento di essermi spaventata guardando questa donna confusa ma recalcitrante, che non riusciva a ricordare la sua vita e, per di più, non voleva nemmeno farlo. Perfino da lobotomizzata, Frances Farmer riusciva ad essere sovversiva. Da allora non ho più guardato al mezzo televisivo nello stesso modo.”28 Le riflessioni della Clark sul personaggio Farmer, basate sulla versione standard della sua vita immaginata da William Arnold29, condensano forse al meglio la percezione mediatica di questa attrice maledetta che vanta uno status cult pressoché inespugnabile. Ma cosa ha consentito l’espansione di questo culto, malgrado l'America dei grandi miti plastificati abbia fatto pressoché nulla per riabilitare This Is Your Life è un programma della televisione statunitense condotto da Ralph Edwards e andato originariamente in onda dal 1952 al 1961. Nello show, Edwards sorprende la celebrità ospite della puntata accompagnandola attraverso un racconto della sua vita davanti ad un pubblico composto principalmente da amici e familiari. 28 Sally Clark, Saint Frances of Hollywood, Talon Books, 1996, p. 6. 29 In una lettera all’autore di questo saggio, la Clark afferma di non aver intrapreso alcuna ulteriore ricerca personale sulla vita della Farmer, basando interamente la sua pièce biografica sul libro di William Arnold. 27

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questa figura così inquietante, essendo il bianco dei suoi denti macchiato da troppi presunti peccati? Nel 1982 esce Frances, il più importante dei tre film biografici dedicati alla Farmer30, realizzato dal medesimo team produttivo e di sceneggiatori responsabile del tematicamente affine The Elephant Man di David Lynch31, che amplifica per il grande pubblico la versione standard – piratata, come vedremo, dal libro di William Arnold – della vita dell’attrice, scolpendola nell’immaginario collettivo. D’ora in avanti, Frances Farmer sarà per tutti l’indomita incarnazione che ne fa Jessica Lange. Nella parte dell’attrice, la Lange “vive” sullo schermo Frances Farmer con una bravura straordinaria ed è “talmente nella parte da rubare la scena alla Farmer e trasformare il film in un documentario su se stessa”32. Il prodotto culturale Frances Farmer è stato sfruttato anche in diverse opere di pura fiction letteraria. Ricordiamo qui il thriller ambientato

È del 1983 il film per la televisione Will There Really Be a Morning? (passato anche sui teleschermi italiani con il titolo Credere per vivere), basato sull'autobiografia dell'attrice e diretto da Fielder Cook, con Susan Blakely nel ruolo della Farmer. Nel 1984 esce invece Committed (inedito in Italia), un film indipendente a basso costo, diretto e interpretato dall’inglese Sheila McLaughlin. 31 Questa pellicola del 1980 è ispirata alla vera storia di Joseph Merrick, celebre nella Londra vittoriana per le sue eclatanti deformità fisiche: la vita di un altro reietto quindi. 32 Paolo Mereghetti, Il Mereghetti - Dizionario dei Film 2006, Delai Editore, p. 1035. 30

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negli anni del maccartismo The Canvas Prison di Gordon DeMarco (Germinal Press, 1982), nel quale l’internamento dell’attrice ricalca gli standard imposti da William Arnold, e il romanzo del canadese Patrick Roscoe, edito da Viking nel 1991, God’s Peculiar Care – dal titolo di un romanzo autobiografico incompiuto scritto dalla Farmer, il cui manoscritto è andato perduto e del quale qui si immagina il ritrovamento – nel quale i protagonisti, un gruppo di emarginati sociali, sono guidati e ossessionati dall'indomito spirito dell'attrice morta. Nel romanzo di Roscoe, la Farmer assurge a filosofia di vita, quasi una religione alternativa. Gli scrittori si sono sbizzarriti anche fuori dai confini nordamericani. In Las fotografías de Frances Farmer, il peruviano Iván Thays propone nel 1992 una serie di racconti in cui il fantasma della Farmer funge da filo conduttore tra le storie. L’attrice è inoltre tra i protagonisti del romanzo 54, edito da Einaudi nel 2002, dei Wu Ming – nome d’arte di un collettivo tutto italiano di narratori –, una spy story ambientata negli anni della guerra fredda. Anche in questo caso la versione di Arnold incide, tanto che nei “Titoli di coda” del romanzo, in cui gli autori includono cenni biografici sui protagonisti della storia, l’anno di nascita

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dell’attrice è quello errato, come contenuto nella biografia scritta dal giornalista americano33. Anche il mondo del teatro, che la Farmer prediligeva di gran lunga alla superficialità dell’industria cinematografica, le rende omaggio diverse volte nel corso degli anni con diverse pièce a lei dedicate: oltre alla già citata commedia di Sally Clark, Saint Frances of Hollywood, ricordiamo qui The Frances Farmer Story di Sebastian Stuart e Golden Girl di Peter Occhiogrosso, entrambe produzioni off Broadway degli anni ’80 del Novecento. Tuttavia, appartiene al mondo della musica il tributo a Frances Farmer di maggior successo nella cultura popolare. Nel 1993 appare, nell'album In Utero della grunge band Nirvana capitanata da Kurt Cobain, la canzone, citata all’inizio del capitolo, Frances Farmer Will Have Her Revenge on Seattle, ovvero Frances Farmer si vendicherà di Seattle. Diversi altri artisti, tra cui i Culture Club e gli Everything But The Girl, avevano già reso omaggio all’attrice34. Il pezzo di Cobain resta tuttavia il

Wu Ming, 54, Einaudi, Torino, 2008, p. 661. La canzone dei Culture Club dedicata a Frances Farmer, The Medal Song, è del 1984 mentre gli Everything But The Girl inseriscono nell'album Love Not Money del 1985 un pezzo in memoria dell'attrice, Ugly Little Dreams. Il cantante americano Patterson Hood ha incluso la canzone Frances Farmer nel suo album del 2004 Killers and Stars e la canadese Mylène Farmer ha scelto il suo nome d’arte come omaggio 33

34

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più impressionante. Il cantante, morto suicida nel 1994, che in parte si immedesimava nell’attrice a causa dei feroci attacchi dei benpensanti al suo stile di vita anticonformista, predice una sorta di apocalisse nella quale la Farmer ritornerà circondata da fiamme per “bruciare tutti i bugiardi e lasciare una coltre di cenere sul terreno”. Nel caso della Farmer, tutte le cose che si suppone dovessero procurarle felicità – carriera, denaro e fama – la portano invece alla distruzione e Cobain conclude confessando di sentire la “mancanza del semplice conforto della tristezza”. Cobain cerca di mettersi in contatto con William Arnold, l’autore di Shadowland. Arnold ha intenzione di rispondergli, ma Cobain muore prima che il giornalista abbia modo di farlo. Arnold, dal canto suo, afferma che la Farmer rappresenta per lui “un'ossessione”. Il suo libro racconta “la storia di un giornalista – Arnold stesso – che si innamora di una donna morta, che cerca e trova le prove del suo martirio, ma alla fine si rende conto che la ‘verità’ sulla vita di lei è probabilmente inconoscibile”. Arnold e Cobain non sono stati i soli a cercare di venire a patti con le circostanze drammatiche che hanno segnato la vita della Farmer. Molte altre persone, riporta Arnold, alcune

all’attrice. Non si contano artisti e gruppi indipendenti in qualche modo ispirati a Frances Farmer. 25


delle quali psicologicamente disturbate, vedrebbero nella storia dell'attrice una qualche “giustificazione per la convinzione di essere, a loro volta, perseguitati a causa delle loro grandi doti”35. La versione di Frances Farmer che – vedremo – “fictionalizzata” da William Arnold ed in seguito amplificata dalle opere ispirate al lavoro del giornalista, assurge quindi ad archetipo del reato contro la personalità in un clima repressivo e agghiacciante, diviene un prodotto culturale che, prima di essere analizzato attentamente, necessita di un contesto storico-biografico quanto più possibilmente affidabile.

Dave Thompson, Never Fade Away: The Kurt Cobain Story, St. Martin's Press, 1994, pp. 55-57. 35

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4. Life, or something like it: biografia La vita di Frances Farmer è eclissata dalla mitologia. Quello che segue è un resoconto biografico che tenta – incrociando le varie fonti ed evitando di commentare gli episodi di controversa veridicità, che verranno approfonditi nei capitoli a seguire – di tracciare le tappe della vita di una donna che ha assunto un ruolo “larger than life” quale protagonista di una sorta di fiaba nera ammonitoria.

Nata il 19 settembre 1913 a Seattle, Stato di Washington, Frances Elena Farmer è la terza figlia di Lillian Van Ornum e Ernest Melvin Farmer. Ernest è un avvocato, stabilitosi a Seattle nel 1900, mentre Lillian, membro di una famiglia di pionieri dell’Oregon, gestisce la pensione dove per qualche tempo soggiorna l’uomo che diventerà suo marito. Ha divorziato di recente ed ha già una figlia, Rita. Unita in matrimonio nel 1906, la coppia acquista casa nel quartiere residenziale di Capitol Hill ed ha due bambini, Wesley e Edith, prima della nascita di Frances. Ernest Farmer viene universalmente descritto come un uomo gentile, ma insicuro. Lillian, al contrario, è volitiva, forte e ambiziosa, oltreché bizzarra. Durante la Prima Guerra Mondiale, fa notizia il suo tentativo di 27


ottenere, tramite incrocio, un pennuto bianco, rosso e blu da sostituire all’aquila quale emblema nazionale. Dopo la guerra, si lancia in campagne contro i panifici di Seattle, colpevoli a suo parere di vendere prodotti dallo scarso valore nutritivo. Si fa inoltre portavoce di numerose

cause

femministe

per

diventare

poi

una

fervente

anticomunista. La moderazione non è quindi una sua caratteristica, un tratto che Frances erediterà e che condurrà le due donne a conflitti spesso incontrollabili. Nei primi anni ’20, la famiglia si sposta in una casa modesta nell’altrettanto modesto quartiere di West Seattle. L’attività di legale di Ernest non prospera e, con le fortune di famiglia in declino, la relazione dei coniugi Farmer si deteriora. Ernest lascia la casa di famiglia quando Frances è ancora adolescente, per ritornare poi in visita nei fine settimana. La coppia infine divorzia. Frances cresce come una ragazzina solitaria, amante della lettura e della scrittura. Dimostra anche un talento precoce nell’esibirsi in pubblico, passione incoraggiata dalla madre con lezioni di musica e canto. Come brillante studentessa della West Seattle High School, Frances si distingue nel dibattito e nella scrittura, contribuendo con racconti e poesie alle pagine del giornalino scolastico. 28


Durante l’ultimo anno delle scuole superiori, nel 1931, Frances fa per la prima volta notizia a livello nazionale: vince un premio di cento dollari in un concorso letterario sponsorizzato da una rivista per studenti. Il suo saggio ateista, provocativamente intitolato “Dio muore”36, fa

Questo è il testo integrale del saggio God Dies pubblicato nella rivista The Scholastic il 02.05.1931, la traduzione è dell’autore di questo saggio: Nessuno mi ha mai detto “sei una sciocca, non esiste un qualcosa come Dio. Ti hanno solo riempito la testa”. Non è stato un assassinio, Dio è semplicemente morto di vecchiaia e, quando mi resi conto che non c'era più, non ne fui molto scossa. Mi sembrò naturale e giusto. Forse è perché non fui mai molto colpita da una religione in particolare. A scuola mi piacevano le teorie su Gesù Cristo e sulla cometa di Natale. Erano belle, ma non ci credevo. La religione era troppo magra, ma Dio era un'altra cosa. Era qualcosa di reale, qualcosa che potevo sentire. Ma solo certe volte riuscivo a sentirlo. Avevo l'abitudine di mettermi a letto, la sera, tra le lenzuola fresche, dopo essermi fatta il bagno e dopo essermi strofinata le unghie e i denti e parlavo così a Dio: “Adesso sono pulita e non sarò mai più pulita di così”. E, in qualche modo, questo per me era Dio. Ma non ero sicura che lo fosse. Era qualcosa di fresco, di pulito. Ma questa non era religione. Era una cosa troppo fisica. Dopo un po', persino di notte, la sensazione di Dio mi abbandonò. Cominciai a chiedermi cosa volesse dire il pastore quando predicava “Dio nostro padre vede persino cadere il più piccolo passero, Dio veglia su tutti i suoi figli”. Questo mi confondeva le idee, se Dio era un padre e noi i suoi figli, allora quel senso di pulizia che avevo provato non era Dio. Così la sera, quando andavo a letto, pensavo “sono pulita, ho sonno” e mi addormentavo. Questo non mi impedì di godermi la mia pulizia, sapevo solo che Dio non esisteva. Talvolta mi faceva comodo ricorrere a lui, specie quando non riuscivo a trovare qualcosa. Dopo aver girato tutta la casa, sbattendo porte, cercando agitata dappertutto, allora mi fermavo nel mezzo della stanza e chiudevo gli occhi: “Per favore Dio, fammi trovare il cappello rosso con i nastrini blu.” Di solito funzionava. Questo mi bastò sino a quando cominciai a pensare che se Dio amava tutti i suoi figli nello stesso modo, perché doveva preoccuparsi del mio cappello rosso e permettere che altre persone perdessero il padre e la madre per sempre. Cominciai a capire che Dio non centrava molto con le persone che morivano, con i cappelli o cose del genere. Tutto accadeva lo stesso che lui lo volesse o no. E se ne stava in cielo facendo finta di non accorgersi di nulla. Mi sono domandata perché Dio fosse un cosa così inutile. E se era così, che necessità c'era che ci fosse? Ero piuttosto orgogliosa al pensiero di aver scoperto la verità da sola, senza l'aiuto di nessuno. Mi sorprende che anche altri non l'abbiano scoperta. Dio se n'era andato, perché non riuscivano a capire? La cosa mi stupisce ancora. 36

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sensazione. I quotidiani di Seattle riportano la notizia in prima pagina con titoli come “Ragazza di Seattle rinnega Dio e vince un premio”37. La storia fa il giro del paese. A Seattle, i ministri di culto additano la ragazza e la sua insegnate di letteratura, Belle McKenzie, quali prove del “rampante ateismo” nella scuola pubblica38. Anni dopo, Frances commenterà questo episodio come cruciale per la sua vita. “Fu molto triste,” affermerà, “perché per la prima volta mi resi conto di quanto stupide possano essere le persone. Mi fecero sentire sola al mondo. Più la gente mi additava con disprezzo, più io mi intestardivo ad incarnare la ragazzaccia che pensavano fossi.39” Nel settembre del 1931, Frances si immatricola alla University of Washington, facoltà di giornalismo, ma opta presto per la facoltà di arti drammatiche. Si mantiene agli studi con una serie di lavori, tra cui la maschera in un cinema del centro e la cameriera. Sotto la tutela della sua insegnante di recitazione, Sophie Rosenstein, diviene presto una stella delle produzioni studentesche, conquistandosi anche i favori della critica che la ritiene degna dei palcoscenici newyorkesi.

“Frances Farmer Gets First Award In Essay Contest”, West Seattle Chinook, 14.04.1931, p. 1. 38 William Arnold, op. cit., p. 31. 39 Kyle Crichton, “I Dress As I Like”, Collier's, 08.05.1937, p. 21. 37

30


Il problema è arrivare nella Grande Mela. A causa dei problemi economici

della

famiglia

nell’America

devastata

dalla

Grande

Depressione, Frances non ha denaro per raggiungere New York. Una soluzione si presenta nel marzo del 1935, quando Frances vince un viaggio in Unione Sovietica vendendo abbonamenti per il The Voice of Action, il quotidiano comunista di Seattle. Il premio consiste in un biglietto di andata e ritorno Seattle–New York e, dalla metropoli, nel passaggio in nave fino a Mosca. La notizia fa nuovamente di Frances Farmer un caso di controversia nazionale. Lillian, zelante nella sua lotta al comunismo, dichiara che la figlia è stata corrotta da insegnanti radicali. Frances insiste, anche con la stampa, che il viaggio è solo un modo per studiare il teatro dell’arte russo e raggiungere New York. Frances lascia Seattle il 30 marzo del 1935. A New York, attraverso contatti procuratile dall’insegnante Rosenstein, incontra alcuni membri del Group Theatre40, la prestigiosa e politicizzata compagnia teatrale, tra cui un giovane drammaturgo di nome Clifford Odets41. Sbarcata nuovamente a New York al rientro da Mosca, Frances affitta una stanza

Influente compagnia teatrale fondata a New York nel 1931 e ispirata al metodo recitativo del russo Stanislavskij. I suoi membri sarebbero poi convogliati nell’altrettanto prestigioso Actors Studio nel 1947. 41 Drammaturgo, sceneggiatore per il cinema e regista di grande successo e prestigio. Ottiene i primi consensi con le commedie scritte per il Group Theatre negli anni ‘30. 40

31


a Manhattan ed inizia a fare il giro degli uffici di casting. Nell’arco di qualche settimana riesce ad ottenere un provino cinematografico ed una proposta di contratto dalla Paramount Pictures, incuriosita dal clamore generato dal viaggio della ragazza in Russia. A Los Angeles, Frances si cala a fatica nella routine hollywoodiana dell’attrice a contratto. È grata del generoso salario di cento dollari a settimana, ma è anche determinata a fare del cinema una semplice tappa del cammino verso i palcoscenici teatrali. Ciononostante, si adegua con diligenza alle richieste dello studio circa le modifiche al suo aspetto, al lavoro su voce e movimenti, alle interminabili sessioni di foto promozionali. Rifiuta tuttavia di assumere un nome d’arte42 e di vestire secondo i canoni del glamour hollywoodiano. All’inizio del 1936, sposa impulsivamente Wycliffe Anderson, un giovane attore sotto contratto alla Paramount, che cambierà più volte il suo nome fino ad approdare a Leif Erickson. Il matrimonio si rivela presto fallimentare e la coppia si separa un anno dopo. La carriera di Frances si mette nel frattempo in moto: per la fine dell’anno, ha già interpretato quattro film. L’ultimo tra questi, Come and Get It, è

Un nome che in italiano suonerebbe come ”Francesca Contadino” non deve sembrare particolarmente esotico per un orecchio anglofono. 42

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considerato il migliore della sua carriera. Basato sul romanzo di Edna Ferber e diretto in tandem da Howard Hawks e William Wyler, vede Frances nel doppio ruolo di una disincantata prostituta e della verginale figlia di quest’ultima. Per le riviste specializzate la performance di Frances è brillante, tanto che alcuni la acclamano come la nuova Greta Garbo43. La première di Come and Get It ha luogo a Seattle, nello stesso cinema dove Frances ha lavorato come maschera. Frances fa ritorno nella sua città natale in pompa magna, come una vera star, dopo averla lasciata, poco più di un anno prima, come una sorta di reietta in viaggio per l’Unione Sovietica. Tale argomento non verrà naturalmente sfiorato dalle omaggianti autorità cittadine. In California, oltre al lavoro, Frances presta tempo e nome per una serie di organizzazioni umanitarie e si attiva per raccogliere fondi a sostegno dei lealisti nella guerra civile spagnola. Con la fama, Frances acquisisce la reputazione di essere un’attrice dal temperamento difficile. Si fa oltremodo esplicita, se intervistata, nelle sue critiche a Hollywood. Continua tuttavia ad essere un’interprete richiesta, completando tre film nei primi sei mesi del 1937. Nessuno tra 43

Kenneth Anger, op. cit., p. 222. 33


questi eguaglia il successo di Come and Get It e c’è chi, nell’industria del cinema, comincia a chiedersi se Frances sarà in grado di ripetere l’exploit di quella pellicola44. Frustrata da Hollywood e desiderosa di realizzare il suo sogno di diventare una vera attrice di teatro, riesce ad ottenere dalla Paramount un congedo dal suo contratto per apparire in alcune produzioni teatrali sulla East Coast. Harold Clurman, il direttore del Group Theatre, le offre presto di unirsi al leggendario ensemble quale protagonista femminile della nuova commedia di Clifford Odets Golden Boy. Con duecentocinquanta repliche a Broadway ed un tour attraverso il paese, la commedia diviene il più grande successo commerciale della compagnia e la critica è generalmente favorevole a Frances. A ventiquattro anni, Frances Farmer ha raggiunto quanto si era prefissata lasciando Seattle. Ma la sua vita privata comincia a scricchiolare. Frances ha imbastito un’appassionata e tempestosa relazione sentimentale con Odets, che la devasta quando lui la lascia per scrupoli nei confronti della moglie. Frances inizia a bere assiduamente. Ha inoltre problemi con l’agente che le ha procurato il primo provino con la Paramount e che ora la cita in giudizio per mancati pagamenti. 44

Edward Churchill, “The Future of Frances Farmer”, Movie Mirror, 1938. 34


Quando Golden Boy è in procinto di sbarcare a Londra, il Group decide di sbarazzarsi di Frances Farmer, che è ormai prossima ad un crollo nervoso. Frances è costretta dagli obblighi contrattuali a rientrare a Hollywood, ma la sua carriera non riacquista slancio. L’industria comincia ad impiegarla in produzioni di serie B o a relegarla in ruoli di comprimaria, come in Son of Fury, girato nel 1941 accanto a Tyrone Power. Si conosce molto poco della vita di Frances nei primi sei mesi del 1942. La sua presunta autobiografia è di scarso supporto. Il libro afferma che l’attrice vive appartata in quel periodo, tentando un’autoanalisi tramite uno scritto autobiografico45. Frances beve sempre eccessivamente e sviluppa una dipendenza dalle anfetamine. Commercializzate come integratori dimagranti, solo negli anni ’70 sarebbe stato appurato che gli effetti secondari delle anfetamine sono imprevedibili e possono addirittura riprodurre i sintomi della schizofrenia. Il colpo di grazia alla precaria stabilità di Frances viene sferrato il 19 ottobre del 1942, quando un agente della polizia stradale la ferma a Santa Monica per aver guidato con i fari accesi in una zona soggetta ad 45

Frances Farmer, Will There Really Be a Morning?, New York, Putnam, 1972, p. 234. 35


oscuramento per via della guerra in corso. Scoppia un violento alterco con il poliziotto che la arresta per guida in stato di ebbrezza, senza patente di guida nonché per il mancato rispetto delle restrizioni circa l’oscuramento. Viene multata con 250 dollari e 180 giorni di reclusione, pena sospesa. Corrisposta metà sanzione, Frances si reca in Messico per girare una produzione indipendente. Abbandona il set dopo due settimane e, rientrata in California, trova la sua casa in affitto deserta: i suoi parenti, preoccupati dall’instabilità, anche finanziaria, dell’attrice, hanno trasferito i suoi averi in un hotel di Hollywood. Nel gennaio del 1943, ormai scaricata dalla Paramount, Frances viene ingaggiata dallo scadente studio Monogram per un melodramma a basso costo, ironicamente intitolato No Escape. Il primo giorno di riprese colpisce in seguito ad un litigio una parrucchiera del set, dislocandole la mandibola. La donna si rivolge alla polizia che, sulla base della denuncia e della multa per stato di ebbrezza non ancora saldata, arresta quello stesso giorno l’attrice con accuse di aggressione e violazione della libertà vigilata. Le fotografie di una Frances Farmer scarmigliata e con gli occhi iniettati di sangue fanno il giro del paese. L’attrice è estremamente sprezzante e 36


sarcastica con le autorità ed il giudice incaricato del suo caso, tanto che la sentenza la condanna a scontare i 180 giorni originariamente previsti. Degli agenti sono costretti a trascinarla fuori dall’aula di tribunale mentre Frances grida e scalcia con violenza dopo che il permesso di contattare un avvocato le è stato negato. Di nuovo è sulle prime pagine dei giornali. A Seattle, sua madre afferma che l’arresto è un semplice espediente pubblicitario escogitato per prepararla ad un prossimo ruolo cinematografico. In seguito, Lillian Farmer avrebbe dichiarato in un’intervista che l’esaurimento della figlia era da imputare all’influenza esercitata dai comunisti46. Dopo una breve permanenza in carcere, Frances viene trasferita nel reparto psichiatrico del Los Angeles General Hospital a seguito dell’intervento di un medico contattato dalla famiglia. La diagnosi ufficiale è di psicosi maniaco-depressiva. Qualche giorno dopo, Frances viene ricoverata presso la clinica privata La Crescenta nella San Fernando Valley. Contemporaneamente, viene annunciata la sua sostituzione sul set di No Escape.

Robert A. Barr, “Reds Had Hold Over Actress Since High School, Says Parent”, The Seattle Times, 20.10.1947 46

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Frances Farmer trascorre i sette anni successivi in istituti di igiene mentale, iniziando dai sette mesi e mezzo presso la clinica La Crescenta, per la cura di qualcosa che sarebbe stato variamente diagnosticato come psicosi maniaco-depressiva, personalità scissa, schizofrenia e semplice depressione. Le cure praticate a Frances includono lo shock insulinico, una terapia sviluppata dallo psichiatra viennese Manfred Sakel nel 1927. Viene iniettata ai pazienti un’overdose di insulina per indurre convulsioni e coma, con la convinzione che un simile trauma possa riportare alla normalità un cervello disfunzionante. La cura è ritenuta oggi inefficace e pericolosa, ma nel 1943 è un’accettata procedura psichiatrica. Il corpo di Frances reagisce con nausea e dolore alle cure, tanto che la madre si organizza affinché Frances venga dimessa dal La Crescenta. Le due donne rientrano a Seattle nel settembre del 1943, ma la loro relazione è estremamente tesa. Dopo circa sei mesi di disastrosa convivenza, Lillian si rivolge al tribunale per ottenere la dichiarazione di infermità mentale nei confronti della figlia e per farla ricoverare per osservazione e cure. Nel corso di un’udienza tenutasi il 23 marzo del 1944, due psichiatri determinano l’infermità mentale di Frances Farmer, come si evince da 38


segni di agitazione, depressione e paranoia. Ritengono che le difficoltà matrimoniali possano aver scatenato tale infermità47. Il giudice ordina l’internamento dell’attrice presso l’ospedale psichiatrico di Steilacoom, circa trentacinque miglia a sud di Seattle. Allo Steilacoom, la terapia standard prescritta ai pazienti è lo shock elettroconvulsivo, considerato più sicuro di quello insulinico. Il trattamento, ancora oggi in uso anche se poco comune, prevede il passaggio di corrente elettrica a basso voltaggio, per uno o due secondi, attraverso il cervello. Come per altre forme di terapie shock, gli effetti collaterali includono disorientamento e perdita di memoria. Frances, non appena ricoverata, viene sottoposta ad un ciclo standard di shock elettroconvulsivo, ovvero due o tre trattamenti alla settimana per tre mesi. I risultati convincono i medici che la loro celebre paziente è completamente guarita e la rimettono alla custodia della madre. A Seattle, Donald Nicholson – uno dei due psichiatri che ha certificato l’infermità di Frances – dichiara: “Credo che questo caso dimostri il successo con cui possono essere corretti i comportamenti antisociali. Tre mesi fa questa donna non rispondeva ai trattamenti, oggi la restituiamo alla sua famiglia completamente guarita. Questa è una 47

“Miss Farmer Put In Asylum”, The Seattle Times, 24.03.1944 39


vittoria significativa per il programma di igiene mentale condotto nello Stato di Washington”48. Intervistata a casa della madre il giorno dopo il suo rilascio, Frances descrive la sua esperienza come un “terribile incubo” ed esprime la speranza di ritornare presto al lavoro dopo un periodo di riposo presso il ranch di una zia in Nevada49. In realtà, trascorreranno quindici anni prima che Frances torni a recitare. Meno di un mese dopo il suo rilascio, Frances viene arrestata per vagabondaggio nei pressi di Antioch, in California. Non ha denaro ed è alla ricerca di lavoro come raccoglitrice di frutta. Una fotografia scattata al momento dell’arresto la mostra fumare accigliata in una logora tuta da lavoro. Dopo una notte in cella, si dichiara colpevole, viene multata di dieci dollari e restituita alla custodia dei genitori. Ma l’interludio è tutt’altro che piacevole. Per il maggio del 1945 è internata di nuovo allo Steilacoom, su richiesta della madre, che ritiene la figlia ricaduta nella malattia mentale e pericolosa per se stessa e per gli altri. Frances non lascerà il manicomio per i successivi cinque anni. William Arnold, op. cit., p. 187. Robert A. Barr, “Frances Farmer, Home Again, Plans Comeback in Pictures”, The Seattle Times, 03.07.1944 48 49

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L’ospedale psichiatrico di Steilacoom, negli anni ’40, versa in condizioni deplorevoli sotto ogni punto di vista. Più di duemilasettecento pazienti – cinquecento in più rispetto alla capacità ufficiale della struttura – sono stipati in corsie antiquate. Nel 1949, un’inchiesta condotta dal quotidiano Seattle Post-Intelligencer riporta che solo quindici infermiere diplomate sono presenti nello staff, assistite da ventitré tirocinanti, quando gli standard del settore prevedono oltre cento professioniste. Gli inservienti sono circa la metà di quelli realmente necessari e solo quattordici medici, dei venti necessari, sono attivi. Stipendi inadeguati complicano le assunzioni. Molti pazienti sono sistemati in edifici decrepiti di inizio secolo, uno dei quali viene distrutto da un incendio, che uccide due pazienti, nel 1947. Dopo l’incendio, viene eretta una corsia provvisoria, parzialmente esposta alle intemperie, che la cronista del Post-Intelligencer trova ancora in uso due anni dopo, all’epoca dell’inchiesta. Le ristrettezze nello staff costringono le infermiere a mettere a letto i pazienti alle quattro del pomeriggio, dove restano per dodici ore. William Keller, sovrintendente dell’istituto, afferma che i finanziamenti pubblici sono insufficienti per consentire il buon funzionamento della struttura. “Sembra che le persone siano più interessate a quanto poco 41


possono spendere per curare i loro cari malati piuttosto che a garantire loro condizioni più favorevoli,” commenta Keller50. Considerata la penosa situazione, l’amministrazione ospedaliera non può che approvare un nuovo tipo di chirurgia che promette di aiutare psicologicamente i mentalmente infermi a lasciare l’istituto per condurre vite proficue: la lobotomia transorbitale. La procedura, alquanto approssimativa, prevede l’inserimento di un leucotoma, un sottile strumento simile ad un rompighiaccio, sotto la palpebra del paziente fino a raggiungere i lobi frontali del cervello, dove recide i nervi ritenuti responsabili dei disturbi emotivi. Il padre della lobotomia transorbitale è il dottor Walter Freeman51, neurologo e psichiatra, il cui motto è “la lobotomia li riporta a casa”52. Freeman offre una dimostrazione della sua tecnica ai medici dello Steilacoom il 19 agosto del 1947, operando tredici pazienti. Vi fa ritorno

Lucille Cohen, “Drastic Overcrowding at State Hospital Bared”, Seattle PostIntelligencer, 18.02.1949 51 Secondo il giornalista Jack El-Hai, l’americano Walter Freeman (1895–1972) è stato, a parte il nazista Joseph Mengele, “il medico più disprezzato del ventesimo secolo”. Nella sua biografia The Lobotomist (2005), El-Hai descrive ascesa e caduta di Freeman e della tecnica chirurgica di cui è stato paladino. Circa settant’anni fa, Freeman mette a punto la lobotomia transorbitale quale cura per diverse patologie psichiatriche, promuovendola attraverso continui spostamenti tra gli istituti degli Stati Uniti. Freeman ha tenuto traccia delle 3.439 operazioni di lobotomia – procedura oggi condannata dalla comunità medica come inutile, crudele se non addirittura criminale – da lui stesso effettuate durante la sua carriera. 52 Jack El-Hai, “The Lobotomist”, The Washington Post Magazine, 04.02.2001 50

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il 7 luglio del 1949, eseguendo ulteriori lobotomie per introdurre altri chirurghi alla procedura. Un fotografo del quotidiano Seattle PostIntelligencer ottiene in quest’occasione lo scatto che diviene la più celebre immagine di un’operazione di lobotomia. La fotografia immortala Freeman mentre opera col leucotoma una donna comatosa. Prima della sua morte nel 1972, Freeman avrebbe rivelato al figlio Frank che la donna nello scatto, il cui volto è scarsamente visibile, è Frances Farmer. La presunta lobotomia su Frances Farmer è oggetto di dibattito in questo saggio. Basti dire qui che la stessa Frances – in un’intervista registrata su nastro nel 1968 rilasciata alla scrittrice Lois Kibbee, che collabora ad una prima versione della sua autobiografia – afferma di aver udito donne nel suo reparto supplicare di venire lobotomizzate, perché “erano convinte di venire così liberate dal senso di oppressione”. E ribadisce alla Kibbee e ad altri conoscenti di non essere mai stata operata in tal senso. Nel suo libro di memorie del 1978, la sorella di Frances, Edith, afferma che le autorità ospedaliere avrebbero richiesto il permesso dei suoi genitori per operare l’attrice. Edith riporta l’orrore espresso dal padre

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alla richiesta e le minacce di azioni legali “se avessero fatto di Frances una cavia da laboratorio”53. Intervistate dopo l’uscita del film Frances, tre infermiere in servizio allo Steilacoom negli anni ’40 avrebbero anch’esse negato la lobotomia su Frances Farmer. “Ho sempre lavorato nel reparto dei pazienti lobotomizzati e Frances Farmer non ci è mai arrivata,” dichiara Beverly Tibbetts54. Frances viene dimessa dallo Steilacoom ed affidata alla custodia legale della madre il 23 marzo del 1950. Alcune fonti imputano il suo rilascio al fatto che gli anziani genitori necessitano di aiuto domestico. Lillian ha anche subito un infarto e la salute di Ernest è in rapido declino. I pieni diritti civili vengono restituiti a Frances Farmer solo nel 1953 quando presenta una petizione per invalidare la custodia legale della madre. Ristabiliti i suoi diritti, Frances cerca immediatamente un lavoro. Ottiene un impiego presso la lavanderia dell’Olympic Hotel di Seattle, lo stesso che aveva ospitato il fastoso ricevimento per la prima del suo film Come and Get It nel 1936.

53 54

Edith Farmer Elliot, Look Back in Love, Portland, Gemaia Press, 1978, p. 153. “Frances' Inaccurate, Say Former Nurses”, Seattle Post-Intelligencer, 26.01.1983 44


Nell’aprile del 1954, Frances si risposa, con l’ingegnere Alfred Lobley. Sei mesi dopo, abbandona senza alcun preavviso neomarito e genitori, sale su un autobus e sceglie la destinazione più lontana da Seattle che i pochi dollari in suo possesso le consentono, la cittadina di Eureka in California. Frances Farmer trascorre i tre anni successivi in un tranquillo anonimato, lavorando come segretaria sotto il nome di Frances Anderson. Non cerca alcun contatto con i genitori, che muoiono entrambi nel 1955-56. Vende la casa a Seattle che la madre le ha lasciato in eredità e continua la sua vita ad Eureka. Nella primavera del 1957, Frances conosce Leland Mikesell, un consulente televisivo di Indianapolis, che la convince a tentare un ritorno sulle scene. Mikesell la trasferisce a San Francisco, dove inscena la “riscoperta” dell’ex stella di Hollywood che lavora ora come receptionist alberghiera. Frances racconta ai giornalisti che ha abbandonato l’alcol e trovato Dio. “Non incolpo nessuno per la mia caduta,” dichiara Frances aggiungendo “penso di aver vinto la battaglia per il controllo di me stessa”55.

Ed DeBlasio, “The Seven Christmases of Frances Farmer”, Modern Screen, dicembre 1957, p. 57. 55

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La pubblicità generata procura a Frances alcuni ingaggi televisivi, tra cui un’imbarazzante ospitata nel talk show This Is Your Life, nonché teatrali. Ritorna anche al suo vecchio studio, la Paramount, per girare il suo quindicesimo ed ultimo film, un mediocre B-movie dal titolo The Party Crashers. Ottiene nel frattempo il divorzio dal secondo marito e sposa, per un’unione di breve durata, il terzo, lo stesso Mikesell. Il clamore attorno al suo ritorno scema presto e gli ingaggi iniziano a latitare. Frances accetta quindi, senza riserve, di condurre un programma TV introduttivo al film del pomeriggio offertole da un’emittente locale di Indianapolis, dove Frances si trasferisce per il resto della sua esistenza. La vita a Indianapolis trascorre apparentemente fluida. Il programma Frances Farmer Presents diviene un successo locale che assicura a Frances un reddito adeguato ed un posto di rilevo nella comunità cittadina. Oltre ad introdurre pellicole, Frances intervista celebrità in visita. Appare anche in produzioni teatrali inscenate dalla facoltà di arti drammatiche del locale ateneo. Poi tutto sembra deteriorarsi. Il comportamento di Frances si fa via via bizzarro, con esplosioni di ira incontenibili e ogni tanto si presenta al

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lavoro in televisione ubriaca. Nell’aprile del 1964 viene licenziata, riassunta due mesi dopo e infine di nuovo licenziata alla fine dell’estate. Frances si improvvisa allora imprenditrice, ma fallisce. Di nuovo viene multata per guida in stato di ebbrezza e le viene ritirata la patente per un anno. Nel 1968 riprende il lavoro sulla sua biografia, ma il libro è incompleto

quando

Frances,

sei

settimane

prima

del

suo

cinquantasettesimo compleanno, muore il primo giorno d’agosto del 1970 per un cancro all’esofago, lasciando molte domande senza risposta sulla triste traiettoria della sua vita. Frances Farmer viene sepolta a Indianapolis. Il libro pubblicato sotto il suo nome, Will There Really Be a Morning?, appare nel 1972.

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5. Il biopic, un genere cinematografico Considerato l’enorme impatto del film biografico Frances sulla nostra indagine circa Frances Farmer, come appureremo diffusamente nel prossimo capitolo, conviene delineare il profilo di questa tipologia di pellicole, prodotti culturali peculiari e sostanzialmente ambigui, che esistono fin dagli albori dell’industria cinematografica, hollywoodiana in primis. Innanzitutto cos’è esattamente quello che, abbreviando l’espressione inglese “biographical motion picture”, si definisce un biopic? È un film che drammatizza la vita, o almeno gli anni più caratterizzanti, di persone reali. Proprio perché i protagonisti sono persone realmente vissute, le cui azioni e caratteristiche sono solitamente note, i biopic sono considerati i più ardui da interpretare per attori e attrici, ma anche i più ambiti, visto che l’Oscar li ha spesso nominati e premiati. Il casting per un biopic può quindi rivelarsi controverso, dato che occorre mantenere non solo un equilibrio nell’aspetto fisco tra l’attore e il personaggio reale, ma anche considerare l’abilità dell’attore nel riprodurne le caratteristiche.

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Tra i, finora rari, studiosi della materia, vanno annoverati gli accademici americani George F. Custen e Dennis P. Bingham. Custen, nel suo studio del 1992 Bio/Pics: How Hollywood Constructed Public History, riflette su come l’industria hollywoodiana del cinema abbia spesso utilizzato il biopic per riscrivere intere porzioni di storia, mentre Bingham, nel suo saggio del 2010 Whose Lives Are They Anyway? The Biopic as Contemporary Film Genre, teorizza una distinzione dei film biografici a seconda del sesso del protagonista: il genere maschile tratta solitamente di grandi imprese, mentre quello femminile, proprio come vedremo nel caso di Frances, si occupa soprattutto della vittimizzazione della donna. I biopic non sono un fenomeno recente, esistono sin dai tempi del cinema muto e raggiungono un primo apice di popolarità tra gli anni ’20 e ’30 del novecento con film dedicati a grande figure di inventori e scienziati come Edison, Bell e Pasteur. Vite di cui il pubblico era molto curioso, perché le gesta dei loro protagonisti hanno sortito benefici effetti pratici sul quotidiano. I biopic conoscono un nuovo picco di popolarità negli anni ’80-’90: continuano a riempire le sale cinematografiche e ad accumulare premi. A quale livello questo genere di film opera sul pubblico, che paga il 49


biglietto per il cinema o noleggia il DVD? Qual è il segreto del suo fascino? Da una parte i biopic rappresentano una forma accettabile di moderno voyerismo, fanno leva cioè sull’ossessione per la celebrità e regalano quindi al pubblico una sensazione di vicinanza, affinità, accessibilità nei confronti del personaggio famoso. Benché romanzati e manipolati, i biopic riescono a coinvolgere particolarmente il pubblico, indotto a ritenerli basati sulla realtà e, quindi, degni di credito. Dennis Bingham teorizza invece che, più che dall’ossessione per la celebrità, il pubblico sia intrigato dalla necessità, tutta umana, di trovare fonti di ispirazione e educazione, senza rinunciare all’intrattenimento. Gli esempi, in questo caso, sono Ghandi di Richard Attenborough, Schindler’s List di Steven Spielberg, Milk di Gus Van Sant e il recente The Lady di Luc Besson, film capaci di guardare oltre le motivazioni dell’industria e di assurgere a fenomeni educativi di massa. Certo, il rischio dell’agiografia è sempre elevato, ma il risultato, illuminante, è pienamente raggiunto. Il focus di Bingham sui biopic dedicati a soggetti femminili attesta chiaramente che la donna rappresentata come vittima costituisce una prodotto infinitamente più spendibile della donna ritratta come 50


sopravvissuta e/o dominante, percepita in genere dal pubblico come una minaccia56. Inoltre, nei biopic dedicati a personaggi maschili, la donna è diffusamente relegata al ruolo di moglie o compagna, accessoria all’uomo, un mero supporto del maschio sulla strada verso il successo57 . Ancora secondo Bingham, la funzione del biopic non può mai assurgere alla precisione storica: si tratta in concreto di opere di finzione puramente illustrative del motivo dell’appeal sul pubblico di un determinato personaggio famoso, e assolvono, come tutta la rappresentazione filmica, all’espressione di una prospettiva sempre e solo soggettiva. La tesi di George Custen è che Hollywood abbia fabbricato una visione pressoché monocromatica della storia, distorcendola sistematicamente per quanto concerne razza, genere, nazionalità e professioni. Analizzando oltre un centinaio di film della lunga stagione degli studios (1927-1960), l’accademico giunge alla conclusione che il biopic ha costruito una sorta di codice hollywoodiano della storia, scaturito dalle convinzioni e visioni degli onnipotenti produttori circa ciò che costituiva una grande ed esemplare vita. Una storia alternativa quindi, Dennis Bingham, Whose Lives Are They Anyway? The Biopic as Contemporary Film Genre, Piscataway, Rutgers University Press, 2010, p. 217. 56

57

Ibid, p. 61. 51


adattata a schemi di sceneggiatura collaudati per altri generi cinematografici, avulsa da quella vera e documentata. Entrambi gli studiosi individuano nel biopic caratteristiche definite. Occorre innanzitutto ribadire che non si tratta di documentari, ma di opere di finzione in cui è lecita una licenza poetica che mira ad infondere, nella storia del personaggio, significato e morale, di norma assenti nelle vite reali, in cui molto resta indefinito, inspiegabile e governato dal caos. Quindi una certa quantità di fabbricazione è concessa, almeno per ridurre il rischio di azioni legali in caso di personaggi ancora in vita e coinvolti in situazioni potenzialmente imbarazzanti, ma chi scrive un biopic spesso altera gli eventi per adattarli alle necessità della sceneggiatura. Gli eventi vengono così rappresentati, di norma, in modo più sensazionalistico di come sono realmente avvenuti, il tempo viene condensato per consentire a tutti i fatti importanti di trovare il loro spazio nella trama, singoli personaggi possono inglobare ciò che nella realtà era formato da più persone. Benché critici e spettatori siano inclini a perdonare simili fabbricazioni che, soprattutto in un film hollywoodiano, salvaguardano il valore

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supremo, quello dell’intrattenimento, alcuni biopic vengono criticati per essere inattendibili se non addirittura ingannevoli. E veniamo ora all’analisi di alcuni recenti biopic per meglio comprendere quanto teorizzato finora. A Beautiful Mind è un biopic del 2001, diretto da Ron Howard, che narra la vita del matematico, premio Nobel, John Nash. Il film, che ha riscosso un enorme successo di cassetta, ha portato all’Oscar il protagonista Russell Crowe nel ruolo di Nash. Benché la critica abbia lodato l’indubbia efficacia emotiva e spettacolare del film, le accuse di scarsa aderenza ai fatti reali della vita dello scienziato sono piovute sulla produzione. A parte le imprecisioni sui sintomi della schizofrenia che affliggevano il matematico – che per esigenze cinematografiche, divengono allucinazioni visive, meglio riproducibili in un film, e non più uditive – e le semplificazioni circa il manifestarsi del suo genio scientifico, i peccati sono in questo caso soprattutto di omissione. La pellicola di Howard è un biopic che, Bingham docet, rientra nei canoni del genere biografico prettamente maschile e non può quindi che fare di Nash un eterosessuale tout court. Per Hollywood, che in A Beautiful Mind sfoggia un convenzionale e patinato accademismo, le comprovate tendenze omosessuali del matematico – che portarono 53


addirittura ad un suo arresto per atti osceni e che sono peraltro ampiamente documentate nel libro biografico di Sylvia Nasar utilizzato come fonte per la sceneggiatura – sono di intralcio all’esaltazione di un eroe all american che non può in nessun caso deviare da uno standard machista – virilmente incanalato dall’attore Russell Crowe – e devoto a sani family values, visto che persino il figlio dello scienziato, frutto di una relazione extraconiugale, non trova spazio nella sceneggiatura. Il geniale e controverso Nash, spogliato di ogni ambiguità, è così confezionato, semplificato e reso digeribile per un pubblico generalista. The Iron Lady, benché tecnicamente inglese di produzione, gode di production values tipicamente hollywoodiani, a cominciare dalla pressoché mimetica, anche fisicamente, interpretazione dell’antidiva americana Meryl Streep, puntualmente premiata con l’Oscar, nel ruolo della premier britannica Margaret Thatcher. Il film del 2011, diretto dalla regista Phyllida Law, sembra impossessarsi, nel ritrarre la controversa politica, delle regole, individuate da Bingham, attribuibili ai biopic dedicati a personaggi maschili. Le gesta della Thatcher vengono infatti narrate con piglio trionfale, proprio come si trattasse di un uomo. Persino il coprotagonista maschile, l’attore Jim Broadbent nel ruolo del marito dell’eroina, riproduce le qualità marginali in cui sono 54


solitamente relegate le attrici nei biopic maschili, un mero supporto alla scalata al successo del partner. Ma questa deviazione è illusoria: il pubblico rischia di sentirsi minacciato da questa donna indomita e castrante, che va quindi punita e vittimizzata sfruttando il devastante Alzheimer che l’ha colpita in vecchiaia. La malattia, che trova ampio spazio nella narrazione, serve a ridimensionare il personaggio Thatcher e renderlo pressoché inoffensivo. Oltre a numerose semplificazioni dei fatti reali, che abbiamo imparato a considerare normali nei biopic il cui obiettivo primo è risultare almeno sufficientemente accurati, The Iron Lady è stato ampiamente criticato da John Campbell, l’autore del libro biografico da cui è stato tratto il film. In un articolo apparso sul quotidiano The Guardian del 16 dicembre 2011, Campbell,

controcorrente,

attacca

principalmente

l’osannata

interpretazione della Streep, che avrebbe fatto della Thatcher una caricatura. L’attrice americana, secondo il biografo, rappresenta una Thatcher inedita e falsa: isterica, iperemotiva, teatrale. Il personaggio di un film e non una donna vera. Chiudono questa breve carrellata di esempi due film che si fanno invece letteralmente gioco delle regole del genere.

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Benché tecnicamente un biopic, Ed Wood, diretto nel 1994 dal geniale e poco allineato Tim Burton, racconta la vita del “peggior regista di tutti i tempi” Edward Davis Wood – re dei film di serie Z negli anni ’50 la cui sfortunata carriera è precipitata nell’alcol e nel porno – non come si è effettivamente svolta, ma come il protagonista, lo stesso Wood, interpretato da Johnny Depp, avrebbe desiderato si svolgesse. Ogni pretesa di realismo viene quindi abbandonata per adottare una prospettiva che più soggettiva non si può, filtrata esclusivamente attraverso gli occhi del protagonista, tanto che l’altrimenti ridicolizzato Wood ottiene nella versione di Burton i riconoscimenti che mai gli furono tributati nonché addirittura la benedizione di Orson Welles. L’altro film beffardamente spacciato per biopic è Marie Antoinette (2006) della talentuosa regista americana Sofia Coppola. Visivamente appagante, saturo di sgargianti colori pastello e canzoni pop contemporanee, il film è programmaticamente sospeso in una dimensione ambigua che oscilla tra l’astorico e l’anacronistico, sembra un revival settecentesco in costume inscenato nei profondi anni ’80 del secolo scorso. La Maria Antonietta della Coppola, interpretata dalla giovane Kirsten Dunst, benché si muova tra fatti storici più o meno documentati, non è la vituperata regina di Francia, ma un’adolescente 56


dei nostri giorni alle prese con noia e fatue ribellioni, che serve alla regista come capitolo conclusivo della sua trilogia sulle turbe e solitudini delle giovani donne, inaugurata con The Virgin Suicides e proseguita nell’acclamato Lost In Translation. La Coppola si permette addirittura di omettere, in spregio degli standard del genere, il fatto più conosciuto della vita di Maria Antonietta, la morte per ghigliottina. Concludiamo osservando come il biopic Frances, “based on the true life story

of

Frances

Farmer”

secondo

la

produzione,

risponda

sostanzialmente alle regole del genere biografico. È sufficientemente accurato da essere percepito come la storia di una persona realmente esistita, la Farmer appunto, condensa i tempi per contenere i fatti ritenuti rilevanti, fabbrica personaggi e situazioni secondo le esigenze di sceneggiatura e fa di Frances Farmer, potenzialmente minacciosa in quanto femmina indomabile in anticipo sui tempi, una vittima suprema come richiesto nei biopic dedicati alle donne: vittima della madre, dell’industria cinematografica, delle lobby di potere e mediche. Il film ha inoltre quasi portato all’Oscar l’attrice protagonista Jessica Lange, nonché la non protagonista Kim Stanley, quasi un must per questo genere di pellicole. 57


Il peccato, nel caso di Frances, è di eccessiva fabbricazione, tanto da risultare un versione pressoché alternativa della vita dell’attrice. Non è un caso che, in merito all’accuratezza di quanto narrato, il regista del film, Graeme Clifford, dichiari candidamente nel commento audio registrato per l’edizione in DVD della pellicola: “Non volevamo sovraccaricare fino alla noia il pubblico con i fatti.” Nel prossimo capitolo vedremo come ci sia perfettamente riuscito.

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6. Costruire una leggenda l libri biografici che ricostruiscono, o più precisamente, costruiscono la vita di Frances Farmer sono tre. Il primo, uscito nel 1972, è la sua presunta autobiografia. Gli altri due, apparsi entrambi nel 1978, sono la biografia sensazionalistica del giornalista William Arnold ed il libro di memorie della sorella dell’attrice, Edith Farmer Elliot. Negli ultimi anni della sua vita, Frances lavora alle sue memorie assistita dalla ghostwriter professionista Lois Kibbee58. L’attrice registra su nastro i suoi ricordi e li invia a New York alla Kibbee che provvede a trascriverli e a collegarli tra loro in una prima stesura. Dopo la morte di Frances, la Kibbee abbandona il progetto, prontamente riesumato da Jeanira Ratcliffe, amica intima dell’attrice nei suoi anni a Indianapolis, che richiede alla Kibbee la restituzione dei materiali59.

Molto apprezzato è il lavoro di ghostwriting della Kibbee sull’autobiografia del 1967 di Christine Jorgensen, famosa per essere stata una delle prime persone al mondo ad essersi sottoposta al cambio di sesso. 59 Lois Kibbee fornirà parte di questi materiali all’autore Patrick Agan che li utilizzerà per il capitolo dedicato a Frances Farmer nel suo libro del 1979 The Decline and Fall of the Love Goddesses. 58

59


L’ambiziosa Ratcliffe60, che già fiuta l’adattamento cinematografico che puntualmente si materializzerà61, trasforma l’amica nell’eroina di un’odissea che ricalca quella vissuta dal protagonista del romanzo One Flew Over the Cuckoo's Nest, ovvero Qualcuno volò sul nido del cuculo. Il libro di Ken Kesey, uscito nel 1962, è ambientato tra gli orrori di un ospedale psichiatrico dell'Oregon ed è stato un best seller con annessa riduzione cinematografica da Oscar a cura di Miloš Forman. Sulla scia del successo di quel romanzo e per facilitare la vendita dei diritti di sfruttamento, la Ratcliffe, novella Thomas Grimm62, trasforma la sobria prosa di Kibbee/Farmer in una serie di scene sensazionalistiche, con stucchevoli e morbosi episodi di sesso, anche saffico, tra pazienti e crudeli infermiere lesbiche chiaramente ispirate all’infame Miss Ratched del romanzo di Kesey, incluso il citatissimo incipit in cui il narratore in prima persona, che si presume Frances Farmer, declama la sua Jeanira Ratcliffe sarà anche il ghostwriter di The Kennedy Case (Putnam, 1973), memoir di Rita Dallas sui suoi anni come infermiera a fianco del padre del presidente Kennedy. 61 Jeanira Ratcliffe tenta addirittura di piazzare una propria sceneggiatura tratta dal libro, che desta l’interesse della regista Ida Lupino per un adattamento filmico con Glenda Jackson nel ruolo della Farmer. Il progetto tuttavia non si concretizza e Will There Really Be a Morning? verrà adattato come film per la televisione nel 1983 con una sceneggiatura di Dalene Young per il network CBS e la regia di Fielder Cook. 62 Pseudonimo collettivo sotto il Secondo Impero francese, dietro il quale si sono celati numerosi scrittori e scrittrici dell’epoca: George Sand, Théophile Gautier, Eugène Sue eccetera. Erano incaricati di fornire ai racconti dei più diversi fatti di cronaca un taglio più drammatico e sensazionale, se non addirittura romanzesco, cosa che contribuì all’enorme successo di quotidiani popolari come il Petit Journal. 60

60


sopravvivenza a stupri, abusi, ratti e altri orrori tra le pareti del manicomio. Sensazionalismi a parte, il libro è infarcito di errori: nelle pagine della Ratcliffe appaiono regolarmente nomi errati di parenti, di film, di pezzi teatrali e di colleghi di lavoro, errori che Frances non avrebbe mai commesso. La Ratcliffe non perde inoltre l’occasione di glorificare il suo personaggio di amica fedele nei capitoli conclusivi e, come curioso tocco finale, dedica il libro a se stessa. Mutua infine il titolo del libro dall’incipit della poesia Verrà davvero il mattino? di Emily Dickinson, poetessa prediletta dall’amica, e Will There Really Be a Morning? - An Autobiography by Frances Farmer è pronto per essere edito dai tipi di Putnam nel 1972. La pubblicazione avviene sotto il copyright di Farmcliffe Enterprises, un amalgama dei cognomi Farmer e Ratcliffe. Secondo la giornalista Rita Rose, che per il quotidiano The Indianapolis Star segue da vicino le vicende legate al post mortem della celebrità cittadina Frances Farmer, l’imprimatur alla morbosa versione della Ratcliffe sarebbe stato dato da John Dodds, editor della casa editrice Putnam responsabile del progetto originale del libro sulla vita dell’attrice, che avrebbe ritenuto la prima versione dell’autobiografia 61


scritta da Lois Kibbee troppo blanda considerato il fatto che sarebbe poi stato impossibile contare sulla presenza della protagonista, l’ormai defunta Farmer, per la campagna promozionale. Occorreva quindi spettacolarizzare la vicenda63. Tuttavia, forse in un moto di coscienza della casa editrice, la copertina dell’edizione tascabile Dell del 1979 riporta in copertina che l’autobiografia non è più by bensì of Frances Farmer. La differenza in lingua inglese è significativa: of designa il mero possesso, mentre by implica la paternità autoriale di un’opera. Il libro di Jeanira Ratcliffe, estremamente critico nei confronti dei famigliari di Frances, soprattutto verso Lillian – che diviene nel libro l’archetipo della madre castrante, la nemesi di Frances Farmer – scatena alla sua uscita le ire di Edith, sorella di Frances, che vede la sua famiglia vilipesa. Nel 1974, in una lettera pubblicata sul quotidiano The Indianapolis News, Edith denuncia Will There Really Be a Morning? come “fiction lesbo-pornografica zeppa di sporche bugie, scritta per incassare qualche dollaro”64. Rita Rose, “True Frances Farmer story remains elusive”, The Indianapolis Star, 23.01.1983. 64 Ibid. 63

62


Nel 1978, con l’ulteriore pubblicazione di Shadowland – nel quale la famiglia Farmer è presentata come spettatrice quantomeno passiva della sistematica distruzione di Frances – per Edith il bicchiere è colmo. Nel tentativo di riabilitare il buon nome della sua famiglia e soprattutto di ristabilire la verità come da lei percepita, Edith, quasi settantenne nel 1978, pubblica privatamente – millecinquecento copie con una distribuzione nazionale pressoché inesistente – un suo libro di memorie, Look Back in Love, con lo scopo preciso di pareggiare i conti con la Ratcliffe, responsabile dell’ “infame libello”65, che le ha per di più negato l’accesso a materiali biografici rimasti in suo possesso dopo la morte di Frances. Il fittissimo memoir di Edith Farmer Elliot, che non ha beneficiato dell’intervento di un editor professionista, è infarcito di aneddoti familiari sulla sua infanzia insieme alla celebre sorella e presenta la famiglia Farmer come un nido di calore e comprensione che Frances ha ripudiato perché indottrinata, fin dai tempi dell’università, da insegnanti comunisti, mentre altri comunisti, artisti questa volta, avrebbero sfruttato il talento della sorella nel Group Theatre distruggendone la carriera cinematografica, mandando a pezzi il 65

Edith Farmer Elliot, op. cit., “Acknowledgements”. 63


matrimonio con Leif Erickson e facendola infine impazzire. Questa Frances “vittima dei rossi” non avrebbe avuto scampo, quindi, e la famiglia si sarebbe solo attivata per contenere il disastro. Edith non cita mai il nome di Jeanira Ratcliffe in Look Back in Love, riferendosi a lei come “l’amica scribacchina” di Frances. Circa la lobotomia – praticatale in segreto, secondo William Arnold – Edith nega tassativamente, ribadendo l’impegno del padre nell’impedire ai medici di trasformare la sorella in una cavia da laboratorio. Al termine del suo libro, nel post scriptum intitolato “Of Truth and Freedom”, Edith inserisce interessanti considerazioni sui concetti di verità e libertà di espressione, riconducibili alle versioni della vita di Frances Farmer proposte da Jeanira Ratcliffe e William Arnold, autori che non si sono fatti troppi scrupoli nel distorcere i fatti. Edith lamenta la mancanza di responsabilità morale della stampa nel presentare fatti deformati o sproporzionati nonché la mancanza di rettifiche da parte dei giornalisti colti in fallo e denuncia fretta e superficialità

come

malattie

del

ventesimo

secolo.

“L’analisi

approfondita di una questione”, afferma Edith, “è un anatema per la stampa, che si ferma alle formule più sensazionalistiche, non si proibisce

64


nulla, anche se tutto quello che è fuori moda non troverà la sua strada nei periodici e nei libri.”66 Edith conclude reclamando il diritto del pubblico americano ad avere leggi che gli assicurino “una non fiction priva di fiction”, leggi che pretendano fatti sostanziali e provati nei resoconti giornalistici, “o siamo disposti a barattare la verità con intossicanti fatti inventati?”.67 Peccato che l’attendibilità di Look Back in Love presenti una pecca non indifferente: è un documento sostanzialmente invalidato dal fatto che Edith, durante i lunghi anni del tracollo di Frances, non viveva nemmeno negli Stati Uniti ed il suo ritratto della sorella è quindi il prodotto di filtri familiari con tutto il loro carico di frustrazioni e probabili sensi di colpa. Ma veniamo ora a quello strano impasto di non fiction e fiction che costituisce Shadowland, la biografia che il giornalista William Arnold – critico cinematografico del quotidiano Seattle Post-Intelligencer – dedica alla sua concittadina Farmer nel 1978. È interessante rilevare che la newyorkese McGraw-Hill, casa editrice di Shadowland, era reduce da un clamoroso caso di falso editoriale:

66 67

Edith Farmer Elliot, op. cit., p. 275. Ibid. 65


l’autobiografia dell’eccentrico miliardario Howard Hughes, forgiata dallo scrittore Clifford Irving68. Il libro di William Arnold – il cui suggestivo titolo in italiano suona come “Il paese delle ombre” – è di impatto sin dal primo sguardo. Nelle bandelle si leggono riferimenti a scioperi di lavoratori e alle politiche radicali negli anni trenta. Le fotografie fuori testo sono provocative e inquietanti, poco consone a quelle proposte nelle biografie standard di star del cinema, tutte glamour e sorrisi posticci: mostrano Frances sui palchi teatrali, in arresto, che lotta contro la polizia, oppure sono immagini

di

macabre

procedure

chirurgiche.

L’interesse

è

definitivamente desto. Arnold struttura il suo libro come un’inchiesta giornalistica, mettendo in scena se stesso che si imbarca in un’avvincente indagine investigativa sulle tracce di Frances Farmer. I risultati sono quantomeno inquietanti e sensazionali. La scomoda attrice sarebbe stata la vittima di una vasta Nel 1971, Irving riuscì a vendere alla McGraw-Hill una presunta autobiografia di Hughes, irreperibile per il mondo intero all’epoca dei fatti, arrivando a produrre false lettere scritte imitando la calligrafia del miliardario a sostegno del suo lavoro. L’autenticità del libro venne messa in discussione da vari esperti, ma la McGraw-Hill perseverò nel sostenere Irving avviando una campagna promozionale. L’inganno fu tuttavia infine smascherato per intervento del redivivo Hughes e Irving fu riconosciuto colpevole di frode. La falsa autobiografia del miliardario, sorta di cult editoriale, sarebbe stata in seguito stampata privatamente. L’incredibile vicenda è ricostruita da Clifford Irving nel suo libro del 1977 The Hoax, trasposto al cinema nel 2006 con l’omonimo film di Lasse Hallström interpretato da Richard Gere. 68

66


cospirazione politica di destra nonché una cavia per la lobby psichiatrica, che l’avrebbe definitivamente annientata con una lobotomia transorbitale. È la cronaca agghiacciante di un reato contro la personalità, un viaggio nell’orrore di una scienza psichiatrica con ambizioni di onnipotenza, che agisce indisturbata. Arnold – chiaramente ispirato dagli eccessi di Jeanira Ratcliffe in Will There Really Be a Morning?, testo che tra l’altro liquida come inattendibile perché opera di un ghostwriter – carica inoltre, fino all’inverosimile, gli abusi sessuali di cui la Farmer sarebbe stata oggetto durante l’internamento, arrivando a dichiarare che il manicomio di Steilacoom era il “bordello di Fort Lewis”, una vicina base militare. “Quasi ogni notte dell'anno,” fantastica Arnold, “militari del vicino Fort Lewis venivano fatti sgattaiolare all'interno del manicomio per avere rapporti sessuali con pazienti di sesso femminile. Frances fu fatta oggetto di perversioni oscene, fu violentata da inservienti, amici degli inservienti e da altri pazienti centinaia di volte. Uno dei ricordi più vividi di alcuni reduci dell'istituto sarebbe stato la vista di Frances Farmer

67


trattenuta a terra da alcuni inservienti mentre bande di soldati ubriachi la stupravano.69” Certo, la denuncia di Arnold di determinati abusi medici e psichiatrici è lodevole, peccato che le sue ricerche non siano supportate da alcuna prova: Shadowland non offre un indice, note, documenti, né bibliografia, mentre i testimoni restano senza nome. Per William Arnold l’indagine giornalistica è quindi indissolubilmente legata al concetto di fiction – il latino ci ricorda che “fingo” vuol dire “plasmo, creo, do forma” – come manipolazione e ricostruzione della realtà per restituire senso al quotidiano70. Estremizza ovviamente questa ricomposizione di significati visto che per narrare le sue conclusioni, legittimamente aperte alla soggettività, bara sui reperti, materiali, dettagli raccolti per ricostruire la prospettiva, nel senso che li fabbrica per scrivere una sua ben precisa agenda: ha trovato in Frances Farmer il perfetto manifesto per inscenare la lotta della controversa Chiesa di Scientology contro la psichiatria organizzata. In Shadowland, lo scientologista Arnold ringrazia uno dei guru della setta, Heber Jentzsch, nonché alcuni membri della Citizens Commission on Human William Arnold, op. cit., p. 199. Walter Molino; Stefano Porro, Disinformation Technology: dai falsi di Internet alle bufale di Bush, Milano, Apogeo, 2003, p. 98. 69 70

68


Rights (CCHR)71, un organo affiliato a Scientology, per “essersi adoperati nel corso degli anni per arrivare ad una parvenza di verità nel caso Farmer”72. Scientology è da sempre impegnata in una crociata per screditare la professione psichiatrica, colpevole, secondo le deliranti teorie degli adepti, debordanti nella fantascienza, di interferire con le sue terapie di “clear” – una sorta di costoso resettaggio purificante dell’animo umano – praticate su soggetti disturbati73. Quale migliore occasione, quindi, di utilizzare la triste storia di Frances Farmer, ospite di manicomi e supremo esempio di personalità creativa rovinata dalla psichiatria, per dare eco al suo credo? Tralasciando le connessioni a Scientology, le teorie cospirazioniste di William Arnold applicate alla vita di Frances Farmer sono in ogni caso estremamente attuali e di moda nell’America degli anni ’70, come risulta

Il sito ufficiale del CCHR cita tutt’oggi ampie porzioni del libro di William Arnold nelle sue sezioni dedicate a Frances Farmer. Una pagina del sito riporta inoltre che la “Citizens Commission on Human Rights predispone informazioni aggiornate e studi che supportano autori e sceneggiatori con materiali e fatti sulla psichiatria. Questo include il libro Shadowland, la storia dell’attrice Frances Farmer”. 72 William Arnold, op. cit., p. 259. 73 Conrad Goeringer, “The Frances Farmer Lobotomy Legend”, American Atheist Magazine, 22.09.2004 71

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dalle atmosfere di libri e film come Tutti gli uomini del presidente74 e garantiscono l’impatto commerciale del libro, proposto al pubblico come opera di non fiction, che è tale da farne l’ambito oggetto di adattamenti cinematografici75. È proprio per via della riduzione cinematografica di Shadowland se possediamo la confessione dello stesso Arnold, casomai ce ne fosse bisogno, circa le ampie porzioni di fiction utilizzate nella sua versione della vita di Frances Farmer. La Brooksfilms, casa produttrice del biopic del 1982 Frances, che opera con un budget limitato, adatta spudoratamente la vita dell’attrice come ricreata dal giornalista senza riconoscergli alcun diritto d’autore, affermando di aver interamente basato la sceneggiatura della pellicola su documenti di pubblico dominio, non soggetti quindi a copyright. Arnold cita i produttori in giudizio in quanto il pubblico dominio non sarebbe rilevante, visto che diversi episodi nella vita della Farmer – inclusa la lobotomia! – sono stati da lui “fictionalizzati” – questo il

Film del 1976 diretto da Alan J. Pakula. È ispirato al libro omonimo di Bob Woodward e Carl Bernstein e ripercorre le complicate vicende che hanno portato alle dimissioni del presidente americano Richard Nixon. 75 Tra i vari progetti di biopic sulla Farmer, ne esiste anche uno di Francis Ford Coppola, che non ha poi tuttavia avuto seguito. 74

70


termine utilizzato dallo stesso Arnold nei verbali del processo – e quindi soggetti al diritto d’autore76. Tuttavia, proprio per questo motivo, il giudice si esprime negativamente nei confronti di Arnold “per aver fabbricato porzioni di un libro pubblicizzato e venduto come non fiction senza averne mai fatto menzione prima della controversia con la casa di produzione”77. In sostanza, Arnold perde la causa per aver ingannato il pubblico con una biografia fittizia le cui discrepanze saranno analizzate nel prossimo capitolo. Ed eccoci all’analisi di Frances, il film diretto da Graeme Clifford che rappresenta, per la sua natura mediatica, il picco della trasformazione della vita di Frances Farmer in prodotto culturale. La pellicola – sorretta dalle mesmeriche performance di Jessica Lange78 e Kim Stanley, rispettivamente nei ruoli di Frances Farmer e di sua madre, Lillian, entrambe candidate al premio Oscar per Frances – presenta la Farmer come un’eroina tragica, posizionandola, proprio

Jeffrey Kauffman, “Frances Farmer: Shedding Light on Shadowland”, articolo web: http://jeffreykauffman.net/francesfarmer/sheddinglight.html, 2004 77 Ibid. 78 Jessica Lange torna, nel 2012, alle lugubri atmosfere ospedaliere del suo iconico Frances nella sorprendente serie televisiva American Horror Story – Asylum, ma questa volta, con una certa autoironia, veste i panni di una suora aguzzina, dirigente di un infernale manicomio. 76

71


come ha fatto Arnold, non come pazza, ma come vittima, della madre e dell’ottusa macchina hollywoodiana. Clifford, che dirige la sua opera prima, è lodabile per essere riuscito a contenere gli eccessi, quasi da romanzo gotico, della biografia di William Arnold, soprattutto nelle scene ambientate in manicomio. Il film si apre con un titolo che lo dichiara “basato sulla vera storia di Frances Farmer” anche se, come sappiamo, la sua fonte principale è la biografia-romanzo di Arnold. Nella sua versione della vita dell’attrice, Hollywood decide che la sua inesorabile solitudine è troppo deprimente per lo standard delle sue produzioni:

con

un

escamotage

estremamente

disonesto,

gli

sceneggiatori affiancano alla Farmer un personaggio maschile fittizio – Harry York, interpretato da Sam Shepard – che entra ed esce dalla vita dell’attrice con l’improbabile tempismo di un premuroso angelo custode. L’effetto, come nel caso della prima rocambolesca evasione dalla casa di cura, è addirittura risibile e sembra voler ridurre e banalizzare i problemi dell’attrice ad una cronica incapacità di accettare l’amore dell’uomo perfetto. Questo Harry York, che funziona quindi come un romantico e conveniente espediente di sceneggiatura – un device come direbbero gli inglesi – funge anche da narratore della vita di Frances Farmer. Gli 72


sceneggiatori Eric Bergren, Christopher De Vore e Nicholas Kazan, probabilmente per distanziare la loro versione della vita della Farmer da quella di William Arnold ed evitare conflitti di copyright che invece si materializzeranno, dichiarano di aver creato il personaggio di Harry York sulla base di un fantomatico radicale politico, Stewart Jacobson, che avrebbe seguito come un’ombra Frances Farmer in tutto l’arco della sua esistenza. In realtà, visto che nel film il personaggio è anche un cronista, sembra quasi che l’ispiratore dell’ambigua figura derivi dallo stesso William Arnold, giornalista che si sarebbe davvero messo sulle tracce dell’ormai defunta Farmer. Particolarmente inquietante è la scena che ricrea la presunta lobotomia praticata all’attrice. Un chirurgo impersonato da un attore che sembra il sosia dell’infame Walter Freeman opera Jessica Lange alias Frances Farmer e, da questo momento, vediamo spegnersi la luce negli occhi dell’attrice, un ingegnoso stratagemma utilizzato dal direttore della fotografia Laszlo Kovacs per illuminare lo sguardo della Lange, indomabile fino a qualche istante prima della procedura. Sguardo poi irrimediabilmente spento nella Lange/Farmer versione zombie post lobotomia.

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Vediamo quindi l’attrice lobotomizzata a questo punto protagonista del ricreato talk show televisivo del 1958 This Is Your Life, in cui il presentatore la bersaglia con imbarazzanti domande circa la sua esistenza di pazza alcolista. La poveretta, il cui cervello è ormai danneggiato, nulla può per difendersi, tranne esternare la sua ritrovata fede religiosa. Questo è quello che Frances, piratando Arnold che nel suo libro definisce l’attrice “catatonica” in occasione dell’intervista, vuol far credere allo spettatore. Nella realtà – e le registrazioni della trasmissione originale lo provano – Frances Farmer, chiaramente disturbata dalle domande di Ralph Edwards, è perfettamente padrona di se stessa e ribatte con competenza ed indignata intelligenza per tutta l’intervista. Frances si chiude con un ultimo commovente incontro tra Harry York e Frances Farmer. La scritta che appare sullo schermo in chiusura riporta che Harry, alla morte dell’attrice, “non era con Frances, morta come è vissuta… sola”. Harry non poteva naturalmente essere con lei, visto che non è mai esistito. Molte persone, incluso il sottoscritto, sono state introdotte alla storia di Frances Farmer attraverso il libro di Arnold o il film su di esso basato e

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hanno creduto per molti anni che la sua vita fosse accuratamente rappresentata in queste opere. Emblematico, al riguardo, è un recente caso italiano di ambito accademico. Un articolo del 2003 di Ateneonline, testata giornalistica virtuale dell’Università degli Studi di Palermo, riporta come nel corso di laurea del Dams di nuovo ordinamento le tesi ormai sfruttino le tecnologie multimediali. Viene citato, a titolo esemplificativo, il caso di “Quando il potere è nemico della bellezza”, tesi di laurea della studentessa Caterina Cucinotta che presenta “la figura della Farmer partendo da un film interpretato da Jessica Lange: Frances. Nella pellicola si ricostruiva fedelmente la vita dell’attrice e in particolar modo il suo anticonformismo, poi il rapporto conflittuale con la madre che voleva plasmarla a suo piacere, e infine la permanenza in manicomio, dal ’45 al ’50, dove la Farmer verrà lobotomizzata”79. Alla luce di quanto conosciamo, stona in primis l’attribuzione della “fedele ricostruzione” al film Frances e l’utilizzo dell’indicativo circa la lobotomia praticata all’attrice.

Noemi Brugarino, “Dams, conferite le prime due lauree: e la tesi diventa multimediale”, ateneonline-aol.it, 30.07.2003 – http://www.ateneonlineaol.it/030730nomiAPlet.html 79

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Eppure, nel 2003, con una estesa ricerca sul web era già possibile raccogliere materiale sufficiente per mettere in discussione il film pseudo biografico e la leggenda derivatane. E infine ricredersi. Il racconto di come molte persone si siano ricredute è materia del capitolo conclusivo.

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7. Un po’ di luce sul paese delle ombre Il 9 aprile 1998 viene lanciato il sito web francesfarmer.com, sotto il copyright di David Kortegast. Prima di questa data, la rete non offre nulla di rilevante o di particolarmente informativo circa Frances Farmer. Abbondano i riferimenti al pezzo di Kurt Cobain, leggende metropolitane su stupri e lobotomie, brevi resoconti pseudo biografici ricavati dal libro di William Arnold o imbastiti a partire dalla trama del film Frances. Persino il solitamente scrupoloso Internet Movie Database riporta, alla voce Frances Farmer, una scarna biografia che riproduce l’errato 1914 quale anno di nascita dell’attrice, come indicato da Arnold. Il sito allestito da Kortegast rivoluziona invece la percezione dell’attrice. Tra i contributors, oltre all’autore di queste pagine, figurano un nipote dell’attrice, David Farmer, personaggi entrati in qualche modo in contatto con la Farmer o con Jeanira Ratcliffe negli anni a Indianapolis e l’archivista e storico del cinema Jeffrey Kauffman, da sempre attivo nel cercare di illuminare le zone buie della vita di Frances Farmer. Francesfarmer.com offre una dettagliata cronologia, la trascrizione di articoli dal 1931 ai giorni nostri, una filmografia, memorabilia e clip multimediali. Questa cornucopia di materiali viene accreditata tra le 77


fonti iconografiche utilizzate per il breve documentario A Hollywood Life: Remembering Frances (2001), prodotto come contenuto extra per l’edizione in DVD del film con Jessica Lange. Il sito viene chiuso nell’ottobre 2009 per scarsità di fondi, ma un suo specchio è tuttora disponibile nell’archivio web di oocities.org. Nella sua decennale vita online, il sito diviene una piattaforma che consente agli utenti di scambiarsi materiali e informazioni essenziali sulla Farmer, tanto che la versione di William Arnold viene a poco a poco scalfita. Soprattutto Jeffrey Kauffman, forte dei suoi contatti personali con l’ormai defunta Edith Farmer Elliot – i due avevano intrapreso una corrispondenza epistolare nei primi anni ’80 – e con il nipote dell’attrice, David, è particolarmente attivo nel consultare archivi cinematografici e ospedalieri alla ricerca di documenti utili da opporre alla versione di Arnold80. Il lavoro di ricerca di Kauffman è minuzioso e impressionante, tanto che l’oregoniano viene invitato ad apparire in Paradise Lost, documentario televisivo piuttosto efficace prodotto nel 2000 dal network americano Kauffman si avvale, nel suo lavoro, di accessi a file, anche riservati, ottenuti tramite il FOIA (Freedom of Information Act) che ha aperto a giornalisti e studiosi gli archivi di stato statunitensi, a molti documenti riservati e coperti da segreto di stato, di carattere storico o di attualità. Il provvedimento, del 1966, mira a garantire la trasparenza della pubblica amministrazione nei confronti del cittadino e il diritto di cronaca e la libertà di stampa dei giornalisti. 80

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A&E, dedicato ai misteri del caso Farmer. Se oggi Wikipedia definisce il libro di William Arnold “biographical novel” – romanzo biografico – e non più biografia tout court, il merito è soprattutto suo. Kauffman raccoglie i risultati della sua ventennale ricerca in un articolo pubblicato dapprima su francesfarmer.com con il titolo The William Arnold Discrepancies e in seguito, dopo la chiusura del sito, sulla sua pagina web personale in una versione aggiornata e ampliata, con un nuovo titolo: Shedding Light on Shadowland: The Truth about Frances Farmer. L’archivista introduce il suo lavoro rilevando come molti degli errori commessi da Arnold nel riportare la vita di Frances Farmer “possono sembrare minori, ma denunciano una sciatteria generale in quella ricerca giornalistica indispensabile per realizzare una biografia autenticata”. Certamente, come abbiamo visto, l’intento di Arnold non è mai stato quello di scrivere una vera biografia, ma di utilizzare la vita dell’attrice come manifesto delle sue convinzioni personali e religiose. Ma quali sono le principali incongruenze rilevate da Kauffman? Arnold afferma che Frances Farmer nasce nel 1914. Una semplice scorsa al certificato di nascita prova che l’anno corretto è il 1913. Il fatto che il 1914 sia indicato nella biografia più popolare dell’attrice – spacciata, 79


rammentiamolo, per non fiction – rende tra l’altro arduo, verso la fine degli anni ’90, convincere il sito Internet Movie Database, riferimento per ogni cinefilo, a modificare l’anno di nascita della sua pagina dedicata a Frances Farmer. Documenti alla mano, alla fine Kauffman ci riesce. Il giornalista riporta che, a livello ufficiale, il viaggio in Russia dell’attrice viene “a malapena menzionato” nei press kit e nelle riviste popolari degli anni ’30, quando la stessa biografia predisposta dall’ufficio stampa della Paramount vede “iniziare la scalata al successo di Frances Farmer con un viaggio in Russia”. A causa del suo errore circa l’anno di nascita, Arnold è incapace di fornire una spiegazione adeguata al fallimento di Lillian Farmer nell’impedire il viaggio in Russia della figlia. Semplicemente, ventunenne del 1935, Frances è legalmente maggiorenne e nessuno può quindi fermarla. Le pellicole dei primi film dell’attrice sarebbero poi, secondo Arnold, andate irrimediabilmente distrutte. Una ricerca negli archivi ha consentito di localizzarle invece tutte. Il giornalista decanta il successo e le brillanti recensioni del film che Frances gira accanto a Cary Grant nel 1937, The Toast of New York. In realtà, il film, il più costoso di quell’anno, si rivela un tale flop 80


commerciale da mandare quasi sul lastrico lo studio produttore, la RKO, e scatena critiche feroci, stroncando di fatto l’ascesa hollywoodiana di Frances Farmer e consegnandola ad un rapido declino dalle produzioni di serie A, dopo il grande successo ottenuto con Come and Get It solo un anno prima. Tra le più consistenti inverosimiglianze presenti nel libro di Arnold va naturalmente segnalata la vasta cospirazione di destra che avrebbe contribuito

all’annientamento

di

Frances

Farmer.

Le

teorie

cospirazioniste sono sempre efficaci per vendere un prodotto culturale, quindi perché non individuarne una anche in questo caso, ricorrendo magari alla fantasia se i fatti latitano? Arnold dipinge un ritratto estremamente sinistro del giudice John Frater, il magistrato che firma il primo ordine di internamento dell’attrice. Secondo il giornalista, Frater sarebbe stato uno dei potenti ed influenti leader di un gruppo – una sorta di milizia di estrema destra – chiamato “The American Vigilantes of Washington”, dedito a scongiurare le pericolose infiltrazioni comuniste nei sani principi americani. Le informazioni presenti negli archivi storico-giornalistici circa questi fantomatici vigilanti sono sostanzialmente inesistenti ed eventuali connessioni del gruppo con Frater sono pertanto irrintracciabili. Arnold non presenta alcuna 81


documentazione a supporto delle sue affermazioni che vedono Frater orchestrare il dietro le quinte dell’internamento di Frances Farmer: risulta che il giudice si limitò a svolgere le sue mansioni e a firmare un’ordinanza. Proseguiamo con i presunti stupri di gruppo perpetrati con regolarità ai danni delle pazienti da parte dei soldati di una base militare situata nei pressi del manicomio. Arnold descrive nel suo libro una sorta di servizio di prostituzione organizzata gestito da alcuni inservienti senza scrupoli del manicomio. Inutile dire che Arnold non cita alcuna testimonianza ed è smentito dalle ex infermiere dello Steilacoom, che dopo l’uscita del film Frances, dichiarano che nessuna attività sessuale illecita è stata imposta all’attrice o ad altre pazienti all’interno dell’istituto. Kauffman espone quindi i risultati in merito alle sue ricerche sulle terapie mediche praticate a Frances Farmer. Arnold, in Shadowland, elenca una serie di droghe sperimentali, incluso l’LSD, che sarebbero state somministrate all’attrice nel 1947 allo Steilacoom. Kauffman rileva che il primo utilizzo clinico documentato dell’LSD negli Stati Uniti risale al 1949 presso un istituto di Boston. Un’altra droga, la torazina, sarebbe stata introdotta nei protocolli sperimentali solo nel 1952, due anni dopo il rilascio di Frances Farmer dallo Steilacoom. L’istituto stesso avrebbe 82


ottenuto la sostanza solo nel 1954, quindi ben quattro anni dopo le dimissioni dell’attrice. Kauffman non ha inoltre scoperto l’esistenza di prove circa gli shock idroterapici e insulinici praticati massicciamente sull’attrice e dati per certi nel libro di William Arnold: l’elettroshock è l’unico trattamento ad apparire nei referti analizzati da Kauffman. L’archivista procede quindi a smontare sistematicamente le leggende urbane, alimentate in primis da William Arnold e da lui stesso, ricordiamo, in seguito sconfessate come mere invenzioni, circa la lobotomia praticata a Frances Farmer. Kauffman analizza il celebre scatto, incluso nel libro di Arnold, che ritrae il dottor Walter Freeman mentre opera una paziente dal volto parzialmente coperto, che sarebbe l’attrice. Kauffman, consultando gli archivi giornalistici, è risalito al servizio fotografico originale, di cui quella foto fa parte, dal quale risulta evidente che la donna, ritratta anche in altre immagini, è una persona diversa da Frances Farmer. Ci sono poi altri aspetti, forse più tangenziali, da considerare tuttavia attentamente: Freeman era un uomo assetato di attenzione mediatica e pubblicità, aggressivamente dedito al marketing della sua operazione di lobotomia transorbitale presso gli istituti dell’intera nazione. Per quale 83


motivo avrebbe quindi perso l’occasione di esaltare i benefici ottenuti con la sua procedura su un personaggio mediaticamente assai spendibile come Frances Farmer? Nessun riferimento all’attrice è presente nei documenti pubblici e privati di Freeman – che annotava le migliaia di operazioni effettuate con uno zelo ossessivo – quando invece abbondano le menzioni ad illustri pazienti da lui trattati, peraltro in modo fallimentare, come Rosemary Kennedy81. L’attrice, inoltre, non rientrava tra i pazienti tipo individuati da Freeman come coloro che avrebbero beneficiato maggiormente dalla lobotomia transorbitale, cioè i soggetti affetti da psicosi da meno di un anno dalla comparsa dei primi sintomi. All’epoca della presunta operazione, Frances Farmer sarebbe infatti stata malata da oltre quattro anni, e trattabile quindi eventualmente con una assai più drastica e barbara lobotomia prefrontale82.

Rosemary Kennedy (1918-2005): sorella di John Fitzgerald Kennedy. All'età di ventitré anni fu sottoposta alla lobotomia prefrontale dai chirurghi Walter Freeman e James W. Watts a causa della sua condotta sessuale libera e disinvolta. L'intervento ridusse Rosemary Kennedy ad uno stato vegetativo: divenne incontinente e trascorreva ore a fissare le pareti. Le sue abilità verbali si ridussero a parole senza senso e fu infine confinata sulla sedia a rotelle. 82 Infinitamente più devastante dell’approccio transorbitale, la lobotomia prefrontale consiste nell’asportazione parziale del lobo frontale del cervello. L’operazione provocava gravi perturbamenti nella personalità del paziente. 81

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Ad ulteriore prova, Kauffman cita la lettera, da lui esaminata, inviata nel 1987 all’ordine dei medici della King County dal dottor Charles H. Jones, assistente di Freeman all’epoca dei fatti, in cui il chirurgo nega che una qualsiasi operazione sia stata praticata sull’attrice. Nello scritto, Jones afferma inoltre di aver riportato le stesse dichiarazioni a William Arnold che lo aveva contattato per le ricerche del suo libro, ma le sue affermazioni erano chiaramente di intralcio alle teorie cospirazioniste del giornalista. Arnold ha l’accortezza di affermare nel suo lavoro che la lobotomia potrebbe essere stata praticata all’attrice senza permesso, ma questa sarebbe stata una mossa suicida per la carriera di Freeman ed inoltre poco caratteristica della personalità del medico, che bramava la copertura mediatica. Per quale motivo poi, rileva Kauffman, se Frances, come riportato da Arnold, nel 1948 rispondeva “miracolosamente” alle cure subito dopo la lobotomia, sarebbe rimasta internata per altri due anni, fino al 1950? Kauffman conclude il suo esaustivo articolo confutante la versione di William Arnold dimostrando come Frances Farmer, uno zombie lobotomizzato in balia degli eventi secondo il giornalista, fu invece in grado di operare con relativi successo e vitalità nell’ultima parte della 85


sua vita malgrado la devastante sofferenza provocata dagli anni di internamento. L’attrice, tutt’altro che catatonica, fu infatti capace di continuare a lavorare, recitare in modo credibile – al cinema, a teatro, in televisione – condurre trasmissioni, tenere testa ad intervistatori senza troppi scrupoli – vedi il citato episodio dello spettacolo This Is Your Life –, nonché avere una vita sociale relativamente soddisfacente. Certo, a fatica, spesso in solitudine e con sfoghi di rabbia e frustrazione tipici del suo carattere indomito, ma come biasimarla? Inutile sottolineare che esistono persone, mai sfiorate da problemi mentali, capaci di molto meno. Frances Farmer, che oggi sarebbe stata trattata a livello medico come una persona soggetta a gravi forme depressive probabilmente scatenate da un contesto familiare assai disfunzionale, ha vissuto un’esistenza capace di servire con i semplici fatti il lodabile attacco di William Arnold contro un’era oscurantista di abusi psichiatrici, anche senza tutta la fiction aggiunta per renderla un prodotto culturale di sicuro e spettacolare appeal. I documenti riportano che tra il 1942 ed il 1953, 252 lobotomie furono praticate al manicomio di Steilacoom e la

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sofferenza delle persone coinvolte non è di certo sminuita dal fatto che Frances Farmer non fu una di loro. Le ampie ricerche di Kauffman e l’esperienza accumulata attraverso il sito francesfarmer.com hanno trovato una collocazione editoriale tradizionale quando, nel 2011, il bibliotecario australiano Peter Shelley ha pubblicato il volume Frances Farmer: The Life and Films of a Troubled Star. Oltre all’ampio capitolo biografico, in cui Shelley tenta di fare il punto tra le varie versioni della vita dell’attrice, il libro – nella convinzione che la tormentata esistenza della Farmer abbia eclissato la sua rilevanza come artista – si propone soprattutto di offrire un’analisi approfondita dei singoli film interpretati da Frances Farmer per ristabilire l’importanza del suo status professionale nell’età dell’oro del cinema hollywoodiano. Kauffman, dal canto suo, ha annunciato ormai da tempo sulle pagine del suo sito la prossima pubblicazione di The Frances Labyrinth, il resoconto del suo viaggio personale alla ricerca della “vera” Frances Farmer. Prossimamente è prevista anche una nuova biografia della Farmer firmata dal francese Hugo Bartoli, che oltre ad aver fatto tesoro delle ultime rivelazioni, ha dichiarato di aver ricavato nuove informazioni

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contattando

familiari

di

Jeanira

Ratcliffe

ancora

in

vita

e

presumibilmente in possesso di materiali, anche fotografici, inediti. Più curioso il progetto del giornalista americano Matt Evans, che si propone di realizzare una sorta di edizione filologica di Will There Really Be a Morning? epurata dai sensazionalismi della Ratcliffe e più vicina al fantomatico testo originale della versione Farmer/Kibbee. Per questo motivo è all’assidua ricerca dei quindici file e delle dodici audiocassette – frutto di interviste e corrispondenza con la Farmer – restituite dalla Kibbee alla Ratcliffe nell’autunno del 1971. Per il momento la localizzazione di questi materiali – sorta di Graal per gli appassionati – resta una chimera. Per molti anni, chi si è battuto per dimostrare che la vita di Frances Farmer non è quella che ci hanno raccontato libri e film, è stato costretto a cercare di dimostrare un negativo. Oggi l’evidenza è talmente schiacciante da aver invertito la tendenza. Oggi, infine, possiamo descrivere Frances Farmer come una sopravvissuta, non solo alla sua tragica vita, ma anche a tutta la finzione generata dopo la sua morte per venderla a più pubblici possibile. Quanto esposto in queste pagine mirava a ristabilire un certo equilibrio nella complessa vicenda Farmer, sottraendola, almeno in parte, a quel 88


gabinetto delle curiosità in cui è stata relegata dalla cultura popolare: lo stereotipo della zombie pazza e alcolizzata. Frances Farmer è stata molto di più: un’atea, un’eretica, una femminista, una ribelle politica. In breve una persona, prima che un prodotto creato da un’astuta operazione di marketing.

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Appendice A Cronologia essenziale 1913 1931

1935

1936

1937 1942 1943

1945 1950 1954 1957 1958

Frances Farmer nasce il 19 settembre a Seattle, Washington, da Ernest e Lillian Farmer. I fratelli includono Edith, Wesley e la sorellastra Rita. Vince un concorso di scrittura creativa con il saggio God Dies. Le piovono addosso accuse di ateismo. Si immatricola alla University of Washington, si unisce alla facoltà di arte drammatica ed ottiene i primi consensi dalla critica recitando nei drammi Helen of Troy e Alien Corn. Si imbarca per la Russia. Il viaggio è un premio vinto tramite un concorso indetto da un quotidiano. Viene accusata di simpatie comuniste. Al rientro in USA si stabilisce a New York e viene scoperta da un talent scout. Firma il contratto con la Paramount. Sposa l’attore Leif Erickson. Gira il primo film Too Many Parents. Di seguito recita in Rhythm on the Range accanto a Bing Crosby e con Edward Arnold in Come and Get It, pellicola che la consacra star. È la protagonista, a New York, della produzione del Group Theatre Golden Boy, scritta da Clifford Odets. Viene arrestata per guida in stato di ebbrezza in zona sottoposta ad oscuramento. Condannata a 180 giorni, pena sospesa. Nuovamente arrestata per violenze e mancato rispetto delle restrizioni sulla libertà condizionata. Viene dichiarata mentalmente instabile e trasferita in una clinica psichiatrica. La madre viene nominata sua tutrice legale. Internata nell’ospedale psichiatrico di Steilacoom, poi rilasciata. Nuovo internamento allo Steilacoom. Dimessa dall’ospedale psichiatrico, torna a Seattle per occuparsi degli anziani genitori. Sposa Alfred Lobley. “Riscoperta” mentre lavora in un hotel di San Francisco. Appare in trasmissioni televisive, tra cui l’Ed Sullivan Show. È ospite di Ralph Edwards nel TV show This Is Your Life e 90


1968 1970 1972 1978 1982 1993 1998

interpreta il suo ultimo film, The Party Crashers. Sposa il suo manager, Leland Mikesell. A Indianapolis, conduce fino al 1964 il programma televisivo pomeridiano Frances Farmer Presents. Inizia a lavorare alla sua autobiografia assistita da Lois Kibbee. Muore il primo giorno di agosto, a 56 anni, per un cancro all’esofago. Viene pubblicata la sua discussa autobiografia, Will There Really Be a Morning? Appaiono la biografia che le dedica il giornalista William Arnold, Shadowland, e il libro di memorie Look Back in Love di sua sorella Edith Farmer Elliot. Esce il biopic di Graeme Clifford Frances, con Jessica Lange, che viene candidata all’Oscar come miglior attrice protagonista. Kurt Cobain della band Nirvana le dedica la canzone Frances Farmer Will Have Her Revenge On Seattle. Viene lanciato il sito web francesfarmer.com.

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Appendice B Filmografia commentata In una recensione del biopic televisivo Will There Really Be a Morning? apparsa il 22 febbraio 1983 sul New York Times, il critico John J. O’Connor afferma che Frances Farmer non è mai stata un’attrice del calibro di Bette Davis, che può essere considerata una sua contemporanea, anche lei spesso in conflitto con gli studios hollywoodiani. O’Connor definisce la Farmer un’interprete di modesto talento che non ha mai recitato in un film importante, la cui fama è dovuta soprattutto alle tragedie di cui è stata protagonista. Benché un paragone con la Davis sia in effetti improponibile, Frances Farmer ha tuttavia espresso un innegabile talento, se provvista del giusto materiale e di un regista capace. Si può infatti affermare che l’attrice risulti l’elemento più interessante di ogni film in cui è apparsa, valutazione applicabile alla stessa Davis, a Joan Crawford, a Greta Garbo e a Katharine Hepburn. L’autorevole regista Howard Hawks, che l’ha diretta in Come and Get It, commenta così la sua collaborazione con Frances Farmer: “Credo avesse

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più talento di ogni altra attrice con cui abbia lavorato. Possedeva bellezza e capacità, ed era dotata di una forte personalità.”83 Segue la filmografia dell’attrice, con i crediti per ogni pellicola ed un breve commento. Too Many Parents (1936) Paramount Pictures diretto da Robert F. McGowan Il debutto al cinema di Frances Farmer è una commedia a basso budget in cui l’attrice interpreta un ruolo di supporto. Benché le sue battute risultino irrimediabilmente sciocche, William Arnold, in Shadowland, definisce la Farmer “estremamente affascinante” nella sua prima apparizione sullo schermo.

Border Flight (1936) Paramount Pictures diretto da Otho Lovering Un altro B movie, ambientato nel mondo dell’aviazione. Si tratta di un film melodrammatico il cui unico punto di interesse è rappresentato dalle spettacolari sequenze di volo, ma Frances Farmer è per la prima volta protagonista.

Peter Shelley, Frances Farmer: The Life and Films of a Troubled Star, Jefferson, McFarland, 2011, p. 94. 83

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Rhythm on the Range (1936) Paramount Pictures diretto da Norman Taurog Si tratta di una piacevole commedia romantica con inserti musicali. La stella ormai in ascesa Frances Farmer interpreta, in un ruolo piuttosto decorativo, una sofisticata ereditiera. I comprimari Bing Crosby e Martha Raye, rodati performer, sono i veri mattatori della pellicola. Il successo commerciale fu notevole. Come and Get It (1936) Metro Goldwyn Mayer diretto da Howard Hawks e William Wyler distribuito in Italia come Ambizione È il film più prestigioso dell’attrice, un dramma in costume famoso tra gli storici del cinema per essere stato co-diretto da due mostri sacri come Hawks e Wyler. Frances Farmer – in un doppio ruolo per il quale si documentò con scrupolo frequentando il quartiere a luci rosse di Los Angeles per studiare i manierismi delle prostitute – superbamente fotografata dal leggendario Gregg Toland, direttore della fotografia di Quarto Potere di Orson Welles, è memorabile e diviene una stella. Molto apprezzata anche la sua performance canora in una delle scene più suggestive del film. È anche il primo film che Frances Farmer girò per uno studio diverso dalla Paramount, con cui era sotto contratto. I prestiti di attori tra le case di produzione erano molto comuni all’epoca.

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Exclusive (1937) Paramount Pictures diretto da Alexander Hall È una modesta commedia ambientata nel competitivo mondo del giornalismo. La prima parte del film, prima di scadere nel melodramma, offre godibili inserti slapstick. La frenetica interpretazione di Frances Farmer è fortemente influenzata dai manierismi di Carole Lombard, stella indiscussa di questo tipo di commedie. The Toast of New York (1937) RKO Pictures diretto da Rowland V. Lee distribuito in Italia come Alla conquista dei dollari Tronfio drammone in costume ad alto budget, ambientato nel mondo della finanza newyorkese. Frances Farmer è decorosa in un ruolo, basato su un personaggio realmente esistito, di cui lamentò la scarsa aderenza alla verità ed entrò per questo motivo in conflitto con lo studio produttore. L’attrice canta in una scena The First Time I Saw You, che divenne una hit minore. Il film, malgrado la presenza dell’altro divo in ascesa Cary Grant, fu un sonoro flop. Ebb Tide (1937) Paramount Pictures diretto da James Hogan distribuito in Italia come L’isola delle perle L’unica pellicola di Frances Farmer girata in uno sgargiante technicolor, che esalta l’ambientazione esotica nei mari del sud. Malgrado l’utilizzo del colore e una certa spettacolarità, il film è emblematico per come

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esprime l’inconsistenza che d’ora in avanti caratterizzerà, salvo eccezioni, l’intera carriera hollywoodiana di Frances Farmer. Ride a Crooked Mile (1938) Paramount Pictures diretto da Alfred E. Green Un B movie di genere western, in cui il talento dell’attrice, che qui recita per la prima e unica volta accanto al marito Leif Erickson, è nuovamente sprecato. William Arnold, in Shadowland, definisce la pellicola “una punizione per le critiche mosse da Frances Farmer alla macchina hollywoodiana”. South of Pago Pago (1940) United Artists diretto da Alfred E. Green distribuito in Italia come A Sud di Pago Pago Un film avventuroso, di routine, ma piuttosto efficace nel raggiungere il suo solo scopo: intrattenere. Frances Farmer, benché si veda di nuovo assegnare un ruolo inconsistente, cerca di infondere spessore al suo personaggio bidimensionale di esotica isolana. Flowing Gold (1940) Warner Bros. diretto da Alfred E. Green Un dramma ambientato nel mondo del petrolio, con una sceneggiatura melodrammatica piena di cliché. Nel film Frances è inserita una scena che ricrea la lavorazione di questa pellicola, in cui è resa evidente

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l’insofferenza di Frances Farmer verso la routine lavorativa dell’attore hollywoodiano.

World Premiere (1941) Paramount Pictures diretto da Ted Tetzlaff Un riuscito film di pura comicità che mette alla berlina il regime nazista. Frances Farmer è nuovamente relegata al ruolo di comprimaria. L’idea di farle recitare la parte di una svampita e vanesia stella del cinema appare quasi perversa, considerato il suo disprezzo per la falsità di Hollywood. Edith Farmer Elliot, nel suo libro Look Back in Love, scrive che la sorella detestò il carattere caricaturale dell’intera produzione.

Badlands of Dakota (1941) Universal Pictures diretto da Alfred E. Green distribuito in Italia come Odio di sangue Un godibile western in cui Frances Farmer interpreta il ruolo archetipo di Calamity Jane. In abiti mascolini, l’attrice è splendidamente fotografata, fin troppo, tanto che litigò con la produzione per apparire sullo schermo il meno glamour possibile. La critica fu tuttavia insolitamente generosa e lodò la gamma di emozioni espressa dall’attrice.

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Among the Living (1941) Paramount Pictures diretto da Stuart Heisler Una suggestiva e ben diretta miscela di horror psicologico e film noir, quasi un precursore del Psycho di Alfred Hitchcock. Frances Farmer recita in una parte pressoché muta, ma non per questo poco incisiva. Fu l’ultimo film previsto dall’impegno contrattuale dell’attrice con la Paramount. Son of Fury (1942) Twentieth Century Fox diretto da John Cromwell distribuito in Italia come Il figlio della furia L’ultima apparizione di Frances Farmer in un film di serie A prima dei suoi guai con la legge. L’attrice, accanto al divo Tyrone Power, recita in un ruolo negativo e di supporto, ma molto ben scritto. Per ironia della sorte, la protagonista femminile di questo filmone di avventure è l’attrice Gene Tierney, che come la Farmer subirà diversi ricoveri ospedalieri per problemi mentali. In Shadowland, William Arnold, senza citare alcuna fonte, riporta che Frances Farmer ebbe una violenta reazione quando Son of Fury fu proiettato come intrattenimento per i pazienti del manicomio in occasione delle feste di Natale del 1946. No Escape (a.k.a. I Escaped from the Gestapo, 1943) Monogram diretto da Harold Young Il nadir di Frances Farmer nel mondo del cinema. Il film, un thriller spionistico di guerra, è prodotto da uno studio specialista in pellicole dai 98


budget irrisori che impiegano star in declino, quale è appunto Frances Farmer, scaricata dalla Paramount, a questo punto della sua carriera. L’attrice vi appare solo in una sequenza inquadrata da lontano, visto che fu licenziata dopo un solo giorno di riprese a causa dei suoi problemi personali e sostituita da Mary Brian. Nel film Frances, una scena che ricrea la lavorazione di questa pellicola mostra

una

Frances

Farmer

ormai

incapace

di

funzionare

professionalmente nell’industria del cinema.

The Party Crashers (1958) Paramount Pictures diretto da Bernard Girard distribuito in Italia come Gioventù inquieta Il ritorno al cinema di Frances Farmer dopo quindici anni di tragedie personali. Il suo vecchio studio la impiega in un convenzionale dramma sulle

inquietudini

quarantaquattrenne,

adolescenziali, interpreta

la

in

cui

madre

di

l’attrice, uno

dei

ormai giovani

protagonisti. La sua performance, di supporto, è sensibile e a fuoco, benché, secondo William Arnold in Shadowland, questo sia il film post lobotomia in cui l’attrice sarebbe apparsa pressoché catatonica, visibilmente disfatta dall’alcolismo e ormai priva della mistica bellezza che ne aveva fatto una stella del cinema.

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Bibliografia  Agan, Patrick, The Decline and Fall of the Love Goddesses, Los Angeles, Pinnacle Books, 1979  Anger, Kenneth, Hollywood Babylon, San Francisco, Straight Arrow Books, 1975  Arnold, William, Shadowland, New York, McGraw-Hill, 1978  Bingham, Dennis, Whose Lives Are They Anyway? The Biopic as Contemporary Film Genre, Piscataway, Rutgers University Press, 2010  Borzini, Gilberto, Le quattro «emme» dell'economia contemporanea. Marketing, mercatismo, mistificazioni, monoteismo, UNI Service, 2007  Centenaro, Luigi; Sorchiotti, Tommaso, Personal branding. L'arte di promuovere e vendere se stessi online, Hoepli, 2010  Colombo, Fausto; Eugeni, Ruggero, Il prodotto culturale. Teorie, tecniche di analisi, case histories, Carrocci, 2001  Conte, Gianfranco, Smart marketing. Il marketing passa dalla parte delle persone, Fausto Lupetti Editore, 2012  Custen, George Frederick, Bio/Pics: How Hollywood Constructed Public History, New Brunswick, Rutgers University Press, 1992  El-Hai, Jack, The Lobotomist: A Maverick Medical Genius and His Tragic Quest to Rid the World of Mental Illness, New York, Wiley, 2005  Farmer, Frances, Will There Really Be a Morning?, New York, Putnam, 1972  Farmer Elliot, Edith, Look Back in Love, Portland, Gemaia Press, 1978  Molino, Walter; Porro, Stefano, Disinformation Technology: dai falsi di Internet alle bufale di Bush, Milano, Apogeo, 2003  Parish, James Robert; Leonard, William T., Hollywood Players: The Thirties, New Rochelle NY, Arlington House, 1976  Shelley, Peter, Frances Farmer: The Life and Films of a Troubled Star, Jefferson, McFarland, 2011

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Articoli  Evans, Matt, “Burn All The Liars”, The Morning News, 22.02.2012  Goeringer, Conrad, “Searching for Frances Farmer, the lost Atheist”, American Atheist Magazine, 22.09.2004  Goeringer, Conrad, “The Frances Farmer Lobotomy Legend”, American Atheist Magazine, 22.09.2004  Kauffman, Jeffrey, “Frances Farmer: Shedding Light on Shadowland”, articolo web: http://jeffreykauffman.net/francesfarmer/sheddinglight.html, 2004  Recla, Dario, “Frances Farmer, la stella triste di Seattle gettata nel fango” in Musica, rock & altro, inserto del quotidiano La Repubblica, 02.12.1999, p. 21  Waites, Kathleen, “Graeme Clifford's Biopic, Frances”, Film Quarterly, 01.01.2005 Sitografia  Citizens Commission on Human Rights (CCHR): http://www.ccdu.it  Frances Farmer Tribute84: http://www.oocities.org/~themistyone/index2.html  Online Encyclopedia of Washington State History: http://www.historylink.org

Il sito, non più attivo ma ospitato dall’archivio di oocities.org, offre la trascrizione di una consistente selezione di articoli su Frances Farmer, pubblicati in quotidiani e periodici fin dal 1931 e consultati per questo lavoro. 84

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L’autore Dario Recla è nato nel 1974 a Bolzano, dove vive e lavora presso il locale ateneo. È laureato in editoria e giornalismo. Ama leggere e guardare buoni film. Il suo indirizzo email è drecla@hotmail.com.

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