Nel Laribinto - Il mio viaggio nella dislessia

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Antonella Amodio

NEL LARIBINTO Il mio viaggio nella dislessia



NEL LARIBINTO

Il mio viaggio nella dislessia

Autore: Antonella Amodio Grafica e Impaginazione: Stefano Iasilli - IASILLI GRAPHICS Illustrazione di Copertina: KARTA 47 Realizzato per

ristampa 2013 - Nel Laribinto Š



A tutti coloro le cui prestazioni non ricadono nella norma, non per volere ma per sorte... A Giagiù perchè se dovesse essere dislessica sia certa che farò in modo che ciò rappresenti una ricchezza e giammai un problema... A mia figlia Laura, dislessica come me, con tanto amore da mamma Farfuglia.



Non a torto il disagio, qualsivoglia disagio è avvertito da più di un secolo come lente di ingrandimento :una possibilità d’osservazione dei fenomeni psichici altrimenti impossibile. E il punto di vista non è solo quello del terapeuta, ma anche quello di chi ne soffre, nei casi in cui il disagio raggiunga la soglia della consapevolezza. Consapevolezza che è divenuta lungo tutto il corso del Novecento la risorsa fondamentale del racconto autobiografico, tant’è vero che gli studi di psicologia riguardanti generalmente le anomalie sono non per nulla i livres de chèvet dei narratori dell’io. Se si escludono i memorialisti di guerra, evento eccezionale, di follia collettiva, quando-è stato detto- “nulla resta immutato fuorché le nuvole e ,sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo”; se si escludono dunque i memorialisti intenti ad elaborare da singoli il lutto di massa, non c’è infatti autobiografia che non prenda le mosse da qualche disturbo consapevole della percezione. Gran parte del racconto autobiografico consiste


così nell’itinerario di chi dice ‘io’ verso la presa di coscienza dove entreranno direttamente in gioco, se non proprio il terapeuta come nel caso di Svevo, almeno i sondaggi degli psicologi per cui vediamo Pirandello, ad esempio, curvo su Les altèrations de la personnalitè di Binet o Proust su Matier et mèmoire di Bergson. Lasciando da parte il fatto che in questo modo gli autobiografi fondano il nuovo mito della coincidenza fra diagnosi e guarigione, bisogna constatare che il disturbo, invece che una limitazione, si traduce in una risorsa produttiva della pagina letteraria. Ciò che sostiene senza mezzi termini Antonella Amodio nel suo Laribinto, specie quando insiste sul ‘deficit’ come ‘dono’. Poiché si tratta di una forma di dislessia ( di cui esistono declinazione diverse e diversissime),il disturbo si ribalta in vantaggio: ‘nulla per me va in automatico, nulla è mai scontato’. Mentre ci racconta vittoriosa il suo ‘viaggio al centro ’ della propria anomalia, la riconosce in quanto privilegiata opportunità di perenne straniamento (‘ogni mattina è per me la prima’) e cioè di perenne condizione magico. mitica


o poetica che dir si voglia. Del resto, leggendo il libro di poesia ( di autobiografia come poesia) che l’Amodio ci offre, non potevo non riandare al massimo poeta della civiltà occidentale, anzi, di tutta la cristianità e ai ‘deficit’ linguistici di cui è punteggiata la sua opera maggiore. Quante volte Dante nella Commedia ci presenta casi di parola impedita, di pronuncia difficile tra colpi di glottide che la trattengono al di qua dell’articolazione? La memoria della bellezza del mondo e della vita non è cantata in un rantolo da chi sta sommerso nel fango? Spetta a Virgilio il compito di tradurre per l’allievo d’eccezione l’inno incomprensibile degli iracondi: Fitti nel limo dicon: ‘tristi fummo nell’aer dolce che dal sol s’allegra,/ portando dentro accidioso fummo:/ or ci attristiamo nella belletta negra’. Quest’inno si gorgoglian nella strozza, che dir nol posson con parola integra’. E proprio dal disturbo linguistico il poeta trae gli esiti poetici più alti, come accade con Pier della Vigna, dove si ha il caso paradossale dell’ uomopianta che geme e cigola dolorosamente: ’si dalla scheggia rotta usciva insieme/ parole e sangue’. Annamaria Andreoli


Ringraziamenti I miei ringraziamenti vanno a tutti coloro che compaiono in questo libro, ai miei affetti più cari e a. Giovanna Valente, preziosissima collaboratrice nel trascrivere al computer il mio manoscritto. - Lorenza Colicigno, poetessa e scrittrice, per aver messo a mia disposizione la sua grande competenza, - Michele Scanniello e Arturo Marsico.. maghi del computer e loro sanno perché, - Carlo Perretti, caro amico, per i suoi suggerimenti, - Mariangela Schettino per le centinaia di bellissime foto che mi ha scattato per usarne poi solo poche.. - Stefano Iasilli, promettente grafico, per aver curato l’impaginazione del testo, - Annamaria Androli , docente universitaria, scrittrice, direttore del Vittoriale, per aver apprezzato il mio testo tanto da acconsentire a presentarlo, - Mariella Dimita, architetto, presidente dell’Associazione IL LARIBINTO – PROGETTI


DISLESSIA ONLUS e presidente della “FIDA” Federazione Italiana Dislessia Apprendimento, per l’entusiasmo con cui ha accolto questo lavoro ed il suo impegno perché fosse pubblicato, - Gjlla Giani, architetto, editore, per la grande sensibilità mostrata nei confronti della problematica trattata ed il suo personale sostegno alla divulgazione del testo, - Marcella Santoro, fondatrice e presidente della sezione AID di Potenza dal 2002, per il sostegno che ha dato a questo mio progetto ma soprattutto per il lavoro che da anni svolge nella nostra, Ai molti maestri che ho avuto nel corso della vita ma, primo fra tutti, al mio insostituibile compagno immaginario



INDICE Capitolo I ..................................... pag. 25 Capitolo II .................................... pag. 43 Capitolo III ................................... pag. 63 Capitolo IV ................................... pag. 93 Capitolo V .................................... pag. 101 Capitolo VI ................................... pag. 117 Capitolo VII ................................... pag. 127 Capitolo VIII .................................. pag. 149 Capitolo IX Conclusione..................... pag. 157 Appendice .................................... pag. 163 Capitolo X - Ristampa 2013................. pag. 171



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Introduzione Questo non è un libro sulla dislessia, ma la storia stessa della mia vita, per molti versi intessuta di dislessia, è una testimonianza per tutti i dislessici, per tutti i genitori di dislessici: la dislessia non è una malattia è solo un modo diverso di interpretare i dati, è fantastica come un sogno anche se a volte può diventare un incubo. Spesso si afferma che il dislessico è un bimbo dotato di una grande fantasia, un po’ come quando si dice di una conoscente bruttina che è tanto simpatica! La mamma di una mia amica mi raccontava che questa, alla nascita, era cosparsa ovunque di una nera peluria che, ogni volta che le faceva il bagnetto, riempiva galleggiando l’acqua ( e così per fortuna man mano è sparita) e che mentre stringeva al petto quella che le sembrava una scimmietta, doveva ascoltare quanti le andavano a far visita dire: “Ma che belle manine (le uniche senza peli) che ha questa bimba!” Nella stessa maniera spesso di un bambino


18 dislessico si dice che ha tanta fantasia, sottintendendo che non capisce un tubo, che non è affatto portato per gli affari dell’intelletto e che sarebbe meglio indirizzarlo verso qualcosa di più fantasioso, creativo, che so, la sarta, l’artigiano... Senza nulla togliere a questi mestieri, (il made in Italy per anni ha detenuto lo scettro in buona parte del mondo)vorrei solo dire che forse, invece di essere etichettati questi bambini andrebbero aiutati a capire il loro modo di processare i dati così da poterlo utilizzare sistematicamente per scoprire e sfruttare appieno le proprie potenzialità, quali esse siano. Ogni bambino dislessico, infatti, come qualsiasi altro bambino, è un individuo a sé con le sue inclinazioni, le sue aspirazioni, i suoi sogni nel cassetto, la sua storia personale, la sua sensibilità, il suo quoziente intellettivo... Già poiché, se un bambino dislessico ha un quoziente intellettivo di sicuro nella norma, ciò nondimeno questo può variare anche di molto da soggetto a soggetto, così come la severità del


19 suo disturbo. Bambini con DSA dotati di un QI estremamente elevato, possono tranquillamente trovare da soli strategie alternative così come dimostrato dai grandi dislessici della storia. Come però esistono bambini normodotati in grado di imparare autonomamente e precocemente la lettura e la scrittura senza che questo esima dall’insegnamento di queste abilità secondo precisi protocolli e metodologie didattiche, così abbiamo il dovere di mettere in atto strategie mirate per quei bambini che hanno un modo diverso di organizzare i dati ma che, è stato dimostrato, possono, con i giusti interventi spesso impadronirsi di queste tecniche come gli altri o, laddove ciò non avvenisse, ottenere gli stessi risultati con l’ausilio di tecnologie oggi ormai largamente diffuse. Certo è più semplice etichettare il diverso di patologia, ciò demanda i nostri fallimenti ad un’impossibilità oggettiva che non mette in dubbio il nostro operato, le nostre conoscenze ma che sancisce definitivamente l’impossibilità dell’altro: noi ce l’abbiamo messa tutta, ma è


20 malato, più di tanto non può fare, meglio che si dedichi ad altro... Così gli Istituti d’arte si riempiono di dislessici che forse l’arte non ce l’hanno proprio nel sangue, gli alberghieri di persone che magari odiano la cucina e che di certo non sono portati per le lingue straniere e così via. Non mi sono meravigliata affatto, al Congresso Nazionale AID del 2006 ad Assisi, nell’apprendere che le statistiche riferiscono che nelle scuole superiori la presenza dei ragazzi dislessici (quelli sopravvissuti alle medie inferiori) si concentra soprattutto negli istituti professionali, mentre in nessun modo si parla di dislessici ai Licei: una mano te la diamo, ma solo per fare ciò che noi diciamo! Tornando alla fantasia dei dislessici, il dislessico è davvero un bambino dotato di gran fantasia? Prima dovremmo forse intenderci sull’accezione che diamo al termine fantasia, fantasia è dunque quella ‘facoltà dello spirito di riprodurre o inventare immagini mentali in rappresentazioni complesse in molto o in tutto diverse dalla realtà? Oh, bene, ci spostiamo su di un terreno minato: per realtà, intendiamo allora


21 quella fenomenologica così come cade sotto i nostri cinque sensi? Forse che oggi non c’è stata tutta una branca della psicologia che ha mostrato quanto fallaci siano i nostri sensi? Quella che definiamo realtà corrisponde forse allora a quella lettura degli accadimenti che cade nella norma, la massima frequenza di un fenomeno che per ciò stesso diviene normale, definendo al tempo stesso ciò che se ne discosta come anormale o, se non ci disturba più di tanto, fantasioso? Leonardo da Vinci era fantasioso? Di certo lo sarà stato non poco per i suoi contemporanei, oggi il suo è definito genio creativo, ma cosa s’intende per creatività? Nell’accezione più comune, poiché solo Dio crea dal nulla, la creatività dell’uomo, la sua inventiva, si manifesta nell’assemblare quanto già esistente in maniera originale, nell’utilizzare in maniera fuori dalla norma cose di per sé già presenti, nello scorgere cose che i più non vedono, nessi nascosti...I nessi, questi sì che forse si creano, o meglio sono dedotti da ricorsività che sfuggono alla maggior parte, potrebbe allora trattarsi di una questione relativa alla ricezione degli input


22 in ingresso, un modo diverso di guardare le cose, di porre l’accento su fenomeni esistenti cui però nessuno bada, considerandoli scontati, dati di fatto incontrovertibili. Chiaramente potremo andare avanti per ore senza per altro giungere ad una conclusione comune. L’idea che mi sono fatta è che in generale definiamo creativo quel processo mentale che alla fine darà vita a qualcosa di comune utilità e, maggiore ne sarà l’utilità, più grande sarà decretato il genio creativo di chi l’ha elaborato, fantasioso quello che fornirà prodotti non utili, ma piacevoli, bizzarro per ciò che ci metterà in discussione in modo un po’ scomodo, folle, malato tutto ciò che minerà le nostre certezze, tutto ciò che non potremo capire, catalogare, selezionare e che per ciò stesso ci manderà in un’ansia tale da spingerci a relegarlo nella categoria del folle. Poco male se alcuni fenomeni definiti folli in un’epoca in epoche successive divengono opere di massimo ingegno... Si sa, i geni spesso non sono compresi dai contemporanei! Ma cosa significa? Mi rimanda ad un aneddoto che mia madre ricorda


23 sempre ridendo. Ero piccolina e lei, la sera, mi faceva pregare, fra l’altro, per i disoccupati, pare che dopo tre o quattro sere che le ubbidivo senza commentare, vuoi perché non coglievo il prefisso dis-, vuoi perché forse non mi pareva un problema non essere occupati (quando mio padre lo era aveva finalmente tempo per me) la quinta sera sbottai: “Ma chi cavolo sono questi occupati? Occupati una sera, occupati due, occupati tre, ma che cosa fanno tutti i giorni”? Così uguale, contemporanei nel Trecento, contemporanei nel Quattrocento, Cinquecento, Seicento e così via, ma chi sono ‘sti contemporanei? Fossimo noi?



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Capitolo I E così comincia la storia della mia vita, la storia di una bambina diciamo confusa e che ha sempre cercato di non darlo a vedere, che ha sempre cercato di mostrare agli altri d’aver capito tutto, quando spesso le sfuggiva persino cosa c’era da capire! Ricordo ancora il viso di mio padre a cinque centimetri dal mio, posso ancora vedere la sua bocca muoversi, i suoi denti, la sua lingua, mentre, nello sforzo di farmi capire, enfatizzava i movimenti del suo cavo orale sillabando: “CON - TA - DI - NO. CON - DA - DI - NO. Senti la differenza?”. Vedendo il mio sguardo allibito continuava ad avvicinarsi, a sillabare, mentre il suo volto si contorceva sempre più nel vano tentativo di farmi cogliere una differenza che per me non esisteva: io continuavo a sentire la stessa, identica cosa! Forse non era pur sempre qualcuno che lavorava i campi? Un po’ come Pierino: “Sono caduto o ho caduto, sempre a terra ho andato”. Mentre mi interrogavo stupita su quel suo strano comportamento e su cosa diavolo volesse da me, quei suoni perdevano


26 ai miei occhi qualsiasi senso compiuto, divenivano sillabe danzanti in ordine sparso, mentre i tratti di quel volto a me così caro mi apparivano grotteschi e, quando in un lampo avvertivo che di fronte a quella che doveva apparirgli una mia cocciutaggine mio padre cominciava a spazientirsi, se non ad infuriarsi, socchiudevo i miei occhioni sgranati (forse è per questo mio continuo non capire che i miei occhi erano così grandi) e, abbassando il capo, annuivo: avevo capito! Balle! Non avevo capito un accidenti, neanche che cosa ci fosse da intendere in quel ripetere di suoni, ma una cosa mi era chiara, per la mia incolumità era molto meglio far finta d’aver capito. Purtroppo col passare del tempo a nulla valse fingere di capire, carta canta e le carte che riempivo di parole incomprensibili cantavano: non una volta che azzeccassi una t o una d, una b o una p! Fu così che un caro amico medico (e qui dico “caro” sul serio perché gli ho sempre voluto tanto bene e sempre gliene vorrò) ipotizzò che ciò dipendesse dallo stato delle mie adenoidi, invero un po’ gonfie. I miei si convinsero a sottopormi ad


27 un bel taglio delle suddette e, visto che c’eravamo, anche delle tonsille! Solo en passant vorrei ricordarvi che questo tipo d’intervento all’epoca veniva eseguito a crudo ed è proprio il caso di dire a crudo! Ricordo ancora bene quelle lunghe pinze-forbici che dalla mia bocca, bloccata da un divaricatore, mentre non so quante infermiere mi immobilizzavano, salivano su per la gola fino ad arrivare dietro al naso per strappare finalmente quella che avevano creduto essere la causa del mio disturbo: quelle rotonde escrescenze carnose che ho visto al fine rotolare in quello che a me parve addirittura un bacile pieno del mio sangue. Non voglio indulgere in descrizioni truculente, vorrei solo che immaginaste il mio sgomento, quando, a guarigione avvenuta, nulla era cambiato, v/f - b/p - t/d continuavano amenamente a confondersi nella mia testa come in un carosello. Le mie difficoltà a capire alcune cose erano iniziate prima dell’età scolare, ma fu allora che si rese evidente la gran confusione che facevo tra consonanti, vocali, sillabe, doppie, accenti, mutine e così via.


28 In verità io un po’ confusa lo ero sempre stata, forse aveva inciso lo stato di semi-coma da avvelenamento che mi capitò fortuitamente (almeno spero, non posso pensare che qualcuno volesse farmi fuori intenzionalmente) all’età di quattro anni, forse invece c’ero nata. Mia madre ha sempre detto che fino a due anni (prima del coma dunque) ero così buona da sembrare scema, guardavo tutto intorno con i miei grandi occhi un po’ vacui, immersa in chissà quali pensieri. Forse cercavo semplicemente di capire dove mai fossi capitata, di orientarmi in quello che credo, all’inizio, a tutti i nuovi arrivati sembra un caos e se c’è chi s’inserisce ben presto, io ci ho messo un paio d’anni. Forse per dirla con Bion1, c’era qualche intoppo nella reverie, quel processo attraverso il quale la mamma restituisce, elaborati in elementi alfa, quella marea di input in entrata che, pari ad un caos primordiale, sommergono il neonato e che egli esperisce in elementi beta o meglio sarebbe dire in un indistinto magma, dove gli elementi alfa faticano a distinguersi, ad individuarsi. 1

Wilfred R. Bion Apprender dall’esperienza Armando Editore 1990


29 Per cominciare avevo qualche confusione sul mio genere sessuale e non avevo tutti i torti, anni dopo trovai una bomboniera del mio Battesimo e sul bigliettino lessi scritto:“Mamma mi voleva maschietto, papà femminuccia, in cielo tirarono a sorte ed eccomi qui”... Qui cosa?! Chi aveva vinto, mamma o papà o nessuno dei due? Intanto mi fu imposto il nome del nonno paterno, il nome dei maschi della famiglia Amodio, e fui così Francesca. Un giorno al mare ad Acciaroli (SA), lo ricordo bene, potevo avere quattro anni (prima dell’avvelenamento che avvenne proprio in quest’amena località marina), ero con Anna, la nostra tata del momento. A casa nostra infatti c’è sempre stato qualcuno che viveva in famiglia per accudire noi piccoli e sbrigare le faccende domestiche. Mentre mangiavamo un gelato, si avvicina una sua amica e, parlando del più e del meno, le chiede se fossi un maschietto. Alla secca smentita di Anna, l’amica dà un’occhiata divertita sotto il tavolo e, rialzando lo sguardo su di me, asserisce ridendo di aver ragione:


30 ero proprio un maschietto! Invano chiesi ad Anna cosa avesse dato tanta sicurezza sul mio sesso a quella tizia, che fossi stata davvero un maschio come ardentemente avrei voluto e nessuno se n’era accorto? All’epoca non si spiegava molto sul sesso ai bambini, non le tate, mia madre, forse, m’avrebbe detto che quella lì aveva guardato nei miei pantaloni e che probabilmente aveva scambiato la mia ciccia per un membro maschile, ma di certo Anna si vide bene dal fornirmi alcuna spiegazione e per me per anni rimase un mistero. In realtà avrei tanto voluto essere un maschietto, ma procediamo con calma e vi spiegherò il perché. Nasce mia sorella, prima figlia, bellissima (davvero), due album di foto testimoniano il suo primo rutto, il primo boccolo, il primo passo, eccetera eccetera, poi, dopo neanche due anni, quindi non proprio programmata, arrivo io che, oltre a non essere un maschio (unica cosa che avrebbe potuto cancellare l’inopportunità di quest’arrivo) ero brutta “neanche i cani”. Dopo quattro anni, con un tempismo perfetto, arriva mio fratello.


31 Maschio, momento opportuno, bello come il sole, si prende anche il mio nome – da allora, infatti, io divenni Antonella e lui Francesco – fregata! I miei, poveretti, cercavano di non farmi pesare la mia bruttezza, papà mi comprava bellissimi abitini che, appena indossati, fermandosi sul mio pancione, perdevano qualsiasi linea. L’evidenza era schiacciante. Un giorno, ero a passeggio con mia madre per il corso principale della nostra città, una voce ci raggiunse squillante:-Signora Amodio, Signora Amodio!-. Era un noto ingegnere del posto, intelligenza brillante ma personalità invero un po’ bizzarra, dopo averci chiamate da lontano, si affrettò a raggiungerci per chiedere a mia madre: - Signora Amodio, buongiorno! Ma questa è una sua figliola? - Sì, è Antonella, la secondogenita -. E’ brutta assai! Come mai così brutta, quando gli altri due invece sono così belli? -. Se solo avessi potuto, gli avrei risposto che m’aveva fatto con il fornaio! So che molti non ci crederanno, ma andò proprio così, con mia madre che cercava di bofonchiare qualcosa all’ingegnere ed io che


32 vedevo verbalizzata e quindi definitivamente sancita la mia bruttezza, bene, non mi restava che ridere! Se i miei fratelli erano belli, tanto che mia sorella poteva permettersi di essere a volte addirittura scontrosa, io divenni simpaticissima. Imparai a ridere cominciando, appunto, ridendo di me. Tutti mi cercavano per la mia battuta sempre pronta, per la mia capacità di cogliere l’aspetto comico di ogni situazione, divenni un giullare, disposta a divertire pur di esserci. Finalmente, crescendo, divenni abbastanza bella da potermi permettere di divenire taciturna, ma la vis comica rimase per sempre nel mio cuore, nascosta ai più, condivisa solo con gli intimi, ma presente e viva soprattutto a me stessa. Così ancora oggi posso scoppiare a ridere nel bel mezzo di un furibondo litigio o di un pianto a dirotto, se solo mi sposto un pochino più su e mi guardo dal di fuori. L’umorismo, già. Anche l’attuale Dalai Lama, Tenzin Gyatso, a dire di Howard C. Cutler2, sostiene che l’umorismo e la capacità di ridere di sé siano armi importanti. C. Cutler, L’arte della felicità - Dalai Lama con Howard C. Cutler Mondadori 2000 2


33 È una tecnica che ho sempre utilizzato molto, spontaneamente, so che spesso è stata una difesa, ridere per non piangere, ma anche dopo anni resto del parere che fra le due cose sia preferibile la prima. Per raccontarvi della mia dislessia queste pagine sono state sciacquate invece che nell’Arno, o sarebbe meglio dire nel mar di Sicilia, vera culla del volgare erudito (consentitemi un po’ di campanilismo), nello humor. Non per difendermi da contenuti penosi e non elaborati ma per difendervi, le cose vanno dette piano, con garbo e leggerezza, mai attaccare le difese: l’urlo porta istintivamente a chiudere le orecchie, il riso a spalancarle. Per parlare al cuore devi parlare parole d’amore ed io al cuore mi rivolgo. E’ il gran rispetto che nutro per l’animo umano che mi ha spinto a scherzare, a spezzare con parole gergali momenti di alta tensione emotiva, a stemperare nei motti di spirito ferite profonde, a narrarvi in un linguaggio quotidiano e colloquiale di antichi dolori. Invero io ho pianto scrivendo queste righe e ancora piango rileggendole.


34 E’ questo che mi è piaciuto ne “Lo strano caso del cane ucciso a mezza notte” di Mark Haddon3 , ripercorrere quasi per gioco un viaggio iniziatico nei meandri della propria coscienza, lì dove regna il rimosso dolente, con la leggerezza di un bimbo che gioca a Sherlock Holmes e ricompone i pezzi di un puzzle che al fine gli darà una nuova forza per andare avanti. Non credo che l’uomo sia così insensibile come si sostiene, semplicemente si difende alzando grossi muri che lo proteggono dall’essere travolto, ci sarebbe da vomitare tutto il giorno tutti i giorni se davvero vedessimo ciò che guardiamo e ascoltassimo ciò che udiamo. Sentirsi minacciati ottiene l’unico risultato che vengano erette difese ancora più forti, queste si indeboliscono solo quando ci sentiamo accolti e meno spaventati, è in un abbraccio, in una risata che si abbassa la guardia. Così vorrei che con un sorriso poteste compenetrarvi in storie di dolore che so non essere nulla di fronte a dolori ben più grandi ma che pure sono. Sicuramente conoscete l’aneddoto di quel bimbo che, sul bagnasciuga pieno di pesci boccheggianti lasciati lì dalla bassa 3

Mark Haddon – Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte. Einaudi 2003


35 marea, mentre si affanna a ributtarli in mare, risponde al nonno che gli intima di lasciar perdere poiché fra tanti uno più, uno meno, in fondo non vi è differenza:-Nonno, chiedilo a questo qui che ho tra le mani se per lui vi è differenza se lo ributto in acqua! Mia figlia quasi tutte le sere mi viene vicino e mi chiede:“Dai mamma, fammi ridere”. Lo faccio volentieri, ridiamo a lungo di qualsiasi cosa ci passi per la mente, di parole per altri normali, ma che a noi, nel ripeterle, appaiono comiche, si può ridere di tutto. E’ proprio vero, se solo si sa aspettare che l’obiettivo ingrandisca il campo, nel contesto allargato, il singolo particolare assume un significato diverso: evviva l’ingegnere! Il contesto in cui si inseriscono i singoli accadimenti è fondamentale per il senso che questi stessi possono assumere, slegati dall’insieme in cui si compongono gli stessi eventi possono tingersi di tinte pazzesche...Voglio raccontarvene uno. Immaginate per un attimo di essere un testimone di Geova, di essere con un compagno e che entrambi, pii, convinti di dover propagare insegnamenti divini, bussiate alla porta


36 di un appartamento. Siete lì ad attendere con la vostra cartella stretta tra le mani zeppa di depliant e pesante di Bibbia, con la vostra verità e con i vostri santi intenti stretti nel cuore, ed ecco aprirsi la porta...Immaginate che compaia sull’uscio una donna, furente, completamente nuda, alta di suo ma resa ancor più alta dalla sua furia, ergersi completamente su di voi, invero un po’ bassi, ma resi ancor più piccoli dallo sgomento, una massa di ricci capelli scomposti sulla testa a mo’ d’arpia, due occhi di brace alla Caron dimonio, urlare qualcosa d’incomprensibile, fermarsi un attimo a guardarvi in un pesante silenzio e poi il richiudersi della porta alle sue spalle, quasi con garbo, e l’eco di una risata sinistra...Restate impalati lì, di fronte quell’uscio chiuso, increduli senza capire se si è trattato di un demonio o se è stato l’incubo digestivo di un pasto troppo abbondante... In realtà, allargando l’immagine, posso svelarvi il mistero, ero semplicemente io. Maggio, fine anno scolastico, ore 14.45: appena rientrata da Venosa dove allora insegnavo, morta di caldo e stanchezza (ventott’anni, tardi la sera con gli


37 amici, partenza all’alba la mattina) mi spoglio e mi butto sul letto. Entra in stanza mia figlia, la primogenita, per dirmi che va dall’amichetta al piano di sotto, le intimo di portarsi le chiavi di casa e di non cominciare a fare su e giù fra i due appartamenti, come è suo solito. Ore 14.46: bussano alla porta, mi rivesto, apro...mia figlia, non so cosa ha scordato (innanzitutto le chiavi), va nella sua camera, le intimo nuovamente di prendere le chiavi, torno in camera, mi spoglio, mi tuffo sul letto, sento l’uscio richiudersi. Ore 14.49: bussano alla porta, mi alzo, mi rivesto, apro, è mia figlia, ancora... In genere sono molto paziente, lo sono anche in quest’occasione, torno nella mia camera, si ripete la scena come in un film, sento richiudersi l’uscio. Ore 14.50: bussano di nuovo alla porta, sono sicura che sia ancora lei, perdo il mio aplomb, mi alzo furibonda pronta a dirgliene quattro, apro: due testimoni di Geova... Non so cosa dire, realizzo di essere completamente nuda, incrocio i loro sguardi attoniti, non so fare di meglio che chiudere con garbo la porta e scoppiare a ridere! Se mai


38 leggeranno questo libro, sapranno che non si è trattato di un demone né di un’allucinazione, ero soltanto io e colgo l’occasione per scusarmi dell’... accoglienza. Assieme all’umorismo e all’autoironia di quegli anni mi è rimasto il ricordo del mio sentirmi un po’ maschio, di quel desiderio di esserlo un po’, il mio giocare in cortile a pallone, il fare la lotta, le corse in bici, il gusto per la competizione fisica, il mio sentirmi più simile a mio fratello che a mia sorella... Quell’amore per le cose dei maschi infondo è ancora nel mio cuore, così, a Marina di Camerota, in quella che sento essere un po’ anche la mia terra, la prima estate senza mio padre, sul molo di sera. Ero appena giunta, cercavo lei, la lancetta di legno, un gozzo piccino ma ben curato dove tutti i particolari, dal timone di legno intagliato a raffigurare la testa ed il lungo collo di un uccello, alla scaletta, pur essa di legno dai bordi lisci arrotondati, parlano ancora di mio padre, dei suoi silenzi, del suo amore per il mare.


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Eccola dondolare dolcemente tra le altre barche, illuminata dal chiarore della luna, l’ho tirata un po’ per la cima, sino a poterla accarezzare per sussurrarle che il suo capitano non c’è più. Ecco venirmi incontro il custode, lo vedo, mi asciugo in fretta gli occhi, simulo un colpo di tosse per


40 nascondere le mie emozioni: che sciocca, parlo ancora alle cose quasi avessero un’anima, come quando da bimbi si crede che tutto sia dotato di cuore e intelletto. Domani, domani ti porterò in mare aperto, voglio andare alla tonnara, voglio fare il bagno insieme ai quei grossi pesci, lo sai che non ho paura, anzi, a volte mi pare di potermi intendere di più con gli abitanti del mare, come quella volta che baciai quel delfino. Non scorderò mai più il suo sguardo, finalmente un incontro che non conoscerà mai parole in un luogo dove tutto è silenzio. Poi torneremo in porto, cercherò di fare una buona manovra, che tu non abbia ad arrossire per me! Lo sai, non sono brava a districarmi tra le barche, ma ho capito l’abbrivio, il segreto della lentezza, dare la direzione e poi togliere la marcia e lasciare che la spinta ti porti scivolando lentamente sull’acqua così diversa dalla frenesia dei parcheggi sotto casa... Quante cose i maschi mi hanno insegnato, a me che maschio avrei dovuto essere.




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Capitolo II La mia confusione non si fermava certo alle differenze di genere, andava ben oltre. Ricordo ancora così bene quando confondevo pidocchio, finocchio e Pinocchio, come fossero un unico, identico soggetto, seguendo quello che poi ho appreso essere un processo mentale dove la concentrazione è posta sulla verbalizzazione come evento acustico così che per assonanza nomi con caratteristiche sonore comuni finiscono per essere pensati identici. Vi lascio immaginare il mio disgusto inorridito, quando a casa si mangiavano i pidocchi (invero finocchi) al gratin! Per fortuna a casa mia non vigeva la legge all’epoca diffusa nella maggior parte delle famiglie, secondo la quale non ci si poteva alzare da tavola se non quando si fosse consumato tutto il proprio pasto! Mentre rifiutavo quel cibo, cosa insolita, vista la voracità che all’epoca mi distingueva dagli altri ma non da un’idrovora, guardandoli mi chiedevo come mai una volta in testa quegli enormi cosi bianchi potessero mimetizzarsi ed essere in


44 tanti...Mah, era un mistero, ma era pur sempre così! Poi, perché Collodi avesse voluto chiamare proprio “Pidocchio” il simpatico protagonista del suo racconto, quasi non bastassero tutte le sfighe che gli aveva fatto capitare, proprio non lo capivo, forse in fondo l’odiava! Chiaramente non resi mai note a nessuno queste mie elucubrazioni, c’era una parte di me che si rendeva conto di quanto fosse inaccettabile la fusione/confusione dei tre soggetti in causa, mentre ad un’altra parte sembrava sì disgustoso, ma del tutto possibile, d’altronde i miei non mangiavano le lumache o i vermi del formaggio e non ci sono genitori che impongono nomi inauditi ai loro figli? Restava giusto da capire il mistero della loro dimensione: invisibili sulla testa, belli grandi in padella! Per molti anni in me hanno convissuto questi due tipi di pensiero, quello comune e quello che potremmo definire stravagante. Così quando mio padre mi diceva che un giorno o l’altro avrei dimenticato persino la mia testa, io riflettevo seriamente preoccupata su questa eventualità, arrovellandomici sopra senza per altro trovare il


45 coraggio di chiedere a qualcuno se e come quest’ evenienza potesse realmente concretizzarsi, così, come per mille altre cose, per me divenne possibile e uscendo di casa presi ad assicurarmi sempre che la stessa fosse ben piantata sul mio collo! Non parliamo degli asini che volano, mai capito perché ridessero tanto del fatto che mi giravo a guardare per aria dove fossero, o del lato da cui cade l’uovo deposto da un gallo in cima ad una montagna, o del tozza-bancone, per anni ritenuto da me una specialità culinaria della mia città molto simile ai mari-tozzi, mentre è solo un modo per dire che quello che ti si vuole offrire al bar è una tozzata (toccata) di bancone, cioè niente! E non certo perché non sapessi che gli asini non volano o che un gallo maschio non depone le uova, ma semplicemente perché nella mia testa c’era l’eventualità che questo potesse accadere... e se tu mi chiedi di guardar l’asino volare o da che parte è caduto l’uovo, non vuol dire altro che quell’eventualità si è concretizzata. Non posso dirvi la mia felicità alla notizia che dal Giappone ci raggiunse qualche tempo fa, di quel


46 gallo che aveva deposto un uovo, e dai, lo dicevo io, che poteva accadere! Forse è proprio questo modo di pensare che contraddistingue il pensiero scientifico sperimentale. Ad ogni buon conto io sono convinta che se non attraversiamo quel muro è solo perché siamo certi di non poterlo fare. Non è dunque l’incapacità di cogliere i doppi sensi, è piuttosto il lasciare la porta sempre aperta ad ogni possibilità, il non dare mai nulla per scontato, il credere alle parole perché tutto può accadere, perché meravigliarsi di un asino che vola e non del sole che sorge ogni mattina? L’elenco potrebbe continuare all’infinito, le confusioni a volte erano sonore, a volte semantiche, come ad esempio per due paesi della mia regione che ancora confondo sistematicamente: Rionero e Lagonegro, solo col tempo ho capito che nella mia testa si tratta comunque di acqua scura (rio e lago). Potete anche solo avere un’idea di quanto oggi abbia imparato a mantenere alto il mio livello attentivo, quando per esempio tengo una lezione all’Università o una conferenza nelle scuole? Le parole corrono, si deformano, acquistano nuovi significati e io lì,


47 ferma, impassibile, seguo il filo dei miei discorsi come tutti gli altri, non è più per me neanche una fatica, ma quando posso lasciarmi andare, tra le mura domestiche, divento Mamma Farfuglia, non ne azzecco una! Marisa, una mia cara amica, ancora ride quando ricorda della volta in cui io, al bar, urtata e rovesciata una tazzina, rivoltami appunto al suddetto vasellame, ho esclamato con il mio solito à plomb:“ Ops, mi scusi”. Un paio d’anni fa ha avuto il piacere di assistere allo spettacolo di Alessandro Bergonzoni Predisporsi al micidiale, un teatro il suo, definito “prima che comico tellurico, dove l’autore sa conficcare la logica nell’illogico e propaga l’assurdo come fosse il più normale strabismo della mente, dove ogni immagine è frutto di matrimoni verbali contro natura, ogni affermazione partorisce l’enormità. Un talento micidiale”4. Beh, a fine spettacolo avrei voluto gridargli dalla platea:“Tu ne sai qualcosa della dislessia, dì la verità, lo so, lo riconosco dal tuo modo di giocare con le parole, è lo stesso con cui gioco con mia figlia, quando mi chiede di farla ridere un po’, è lo stesso con cui ho combattuto una vita”. 4

(O. Guerrieri, “La Stampa”).


48 Le parole si allungano, si deformano, prendono un’altra via, si animano quasi di una vita indipendente da chi le pronuncia, proprio come il pensiero che fatica a seguirle, che crea affannandosi dietro di loro, questa logica dell’illogico. Non so se Bergonzoni abbia alle spalle una storia di dislessia, ma so per certo che ha una grande sensibilità al modus dislessico di pensare. Quante volte mi sono persa in stravaganti pensieri dietro a sillabe che s’intrecciavano in forme sempre diverse assumendo nuovi significati, sforzandomi di trovare nessi che infine, in qualche modo riuscivo a rinvenire, avendo col tempo e la pratica acquisito l’abilità, qualsiasi fossero i dati in partenza, di trovare comunque ricorsività e quindi norme, di dare comunque un senso a tutto ciò: il senso del nonsenso. In fondo l’uomo è un ricercatore di senso, invero egli con le sue interpretazioni degli accadimenti, per l’appunto attribuzioni di senso, crea la realtà. E’ nella natura dell’uomo dare un senso agli eventi: gli è necessario per muoversi in un mondo dove altrimenti si sentirebbe galleggiare


49 come un astronauta in assenza di gravità, il senso che dà al mondo gli permette di orientarsi: se solo avesse la consapevolezza di quanto in fondo questo processo sia utile, ma arbitrario, sarebbe più pronto a rimettere sempre tutto in discussione capendo meglio l’altro, il diverso da sé, trovando soluzioni sempre nuove e migliori, come in fondo un dislessico ha dovuto imparare a fare scontrandosi puntualmente con attribuzioni di senso molto diverse dalle sue e tra l’altro condivise dai più. Mi piace ricordare Paul Watzlawick in Pragmatica della comunicazione umana5 , quando racconta dell’esperimento eseguito alla Stantford University e diretto dal dottor Balevas, dove il dispositivo sperimentale è costituito da un apparato di bottoni che il soggetto è invitato a premere con la richiesta di capire la particolare sequenza che farà suonare il campanello ad esso collegato. In realtà il campanello viene fatto suonare a caso, aumentando di frequenza sul finale dell’esperimento, senza alcun criterio; tutti i soggetti sperimentati dopo alcuni minuti di prove, hanno fornito una loro spiegazione del nesso tra J. Beavin, D.D. Jackson, P. Watzlawick- Pragmatica della comunicazione umana. Astrolabio 1971 5


50 sequenza/suono, spiegazione che faticavano ad abbandonare, pur se messi al corrente della totale indipendenza e casualità del suono rispetto alla sequenza. Ma dove eravamo? Già, alla dislessia. I lettori, se mai ce ne saranno, scusino il mio divagare e perdermi, mi usino comprensione: ho ben compensato..., ma resto pur sempre una dislessica! Ho imparato a riderci su, ma dislessia, molto spesso, è fatica e dolore, la fatica di acquisire meccanismi automatici per tutti i tuoi compagni, il dolore di non riuscirci nonostante gli sforzi: quanto avrei voluto sapere “a campanella” le tabelline e vedere mio padre contento di me. Ho superato l’esame di statistica, scritto e orale a prima botta, con la determinazione che mi caratterizza, ho preso lezioni da un collega di matematica, ho affrontato per la prima volta, nei miei corsi di studi, fino ad allora classici, numeri seguiti dal punto esclamativo che, guardando sconcertata, m’apparivano come una sorta di morra per iscritto: l’analisi fattoriale! Eppure, lo confesso, le tabelline, quelle ancora non le so...


51 ancora uso le dita delle mani di nascosto, per calcolare il resto della spesa, lo confesso, spesso ho difficoltà nell’uso delle doppie e nel sillabare, ma, siccome scrivo tanto, ho imparato a regolare in automatico la grandezza dei caratteri, così da andare a capo giusto giusto senza dover spezzare le parole! Perché è certo, come tutti ripetono, dalla dislessia non si guarisce, bisogna imparare a convivere con essa! Ritengo che ciò sia ovvio, prima di tutto perché la dislessia non è una malattia, è un po’ come dire a qualcuno che non guarirà dai suoi occhi azzurri o dai suoi capelli ricci ed è altrettanto ovvio che a nessuno verrebbe in mente di voler ‘guarire’ da questi tratti disintivi a meno che col tempo non gli venga insegnato a viverli come mancanti e inadeguati. La dislessia è una disabilità ma ciò non vuole dire molto, vi è chi non è abile ai fornelli, chi non lo è con ago e filo, con la zappa, con i pennelli, con i motori, con gli impianti elettrici, con la contabilità, con la creta e l’argilla, con i colori, con la legislazione o che so io, ognuno è abile in qualcosa, disabile in qualcos’altro: la


52 disabilità diviene un handicap quando impatta con un ambiente ostile. La dislessia è una modalità di pensiero che qualcuno ha definito ‘visuo-spaziale’, distinguendo così i pensatori ‘visivi’ dai più comuni pensatori ‘verbali’. Non che io ne sia mai stata particolarmente cosciente, in quanto, come la maggior parte degli esseri umani, tendevo a dare per scontato, grazie al ‘pensiero egocentrico’, stadio che a me pare, a dispetto di quanto sostenuto da Piaget, perdurare strisciante per tutta la vita, che il mio modo di procedere fosse identico a quello di tutti i miei simili. In realtà, occupandomi specificatamente dell’apprendimento e delle modalità di processare i dati in ingresso, ho potuto constatare che non è così, i canali che utilizzo sono i miei così come è mio il modo di organizzare i dati, di dar loro un senso. Oggi non mi importa se è più o meno comune agli altri, ho capito cosa mi fa bene, cosa mi fa male, cosa impressiona la ‘pellicola’ che scorre incessantemente nella mia testa... È vero, procedo per immagini, ogni dato che inserisco, qualsiasi sia la sua natura, grafica,


53 sonora, visiva, diviene immediatamente immagine, suono, odore, sensazione corporea, emozione. È ancora quella macchina che sfreccia nel buio. Io ho sempre ‘visto’ il volto degli autori che studiavo, quello dei loro personaggi, il loro incedere, la qualità dei loro sguardi, ho sempre ‘percepito’ la sensazione del loro contatto fisico, ‘udito’ l’eloquio che li contraddistingueva, ‘annusato’ l’odore.... Volete sapere l’odore di Dante? di Giordano Bruno? di Narciso e Boccadoro? il colore dei loro denti? la forma delle loro mani? i loro abiti? Io li conosco! Io so il profumo dei giardini dei Licei, il rumore dei passi su quei selciati...io so l’odore di Ettore ‘di polvere cruenta lordo’, io so il rumore della prima scintilla che appicca il rogo, ne conosco il fumo, le fiamme, le carni bruciate, le urla, a volte devo tapparmi le orecchie, ma esse continuano... Da anni ho smesso di guardare il telegiornale, alcune immagini mi perseguitavano per giorni, ‘impressionavano’ la ‘pellicola’ del mio cervello in modo indelebile, ho imparato a cancellarle ma, soprattutto, ad evitarle...Così come ho imparato ad utilizzare questo modo di procedere per non


54 dimenticare. Un esempio, la famosa ‘orazion picciola’ di Ulisse, essa per me è soprattutto luce abbagliante, odore di mare, di libertà, di salsedine, è vento tra i capelli, volti scuri di sole, sguardi fieri, cuori che battono forte, per lo sforzo, per l’ardore, è una sottile vibrazione in tutti i muscoli del corpo, un leggero dilatare di narici ad annusare l’aria, è un’eccitazione che mi fa sentir ‘fuor di pelle ’, o meglio, completamente dentro la pelle, è la scoperta, la conoscenza, pensate che io potrò mai dimenticare quelle parole? A sedici anni, Einstein usò le visioni interiori per un ‘originale ‘ esperimento mentale che gettò le basi per la scissione dell’atomo. È nota una sua affermazione in proposito .’Parole e linguaggi non sembrano avere alcun ruolo nel mio meccanismo di pensiero. Il mio pensiero consiste in immagini6’. Per tornare alla nostra storia, dunque, facevo una certa confusione, ho faticato un po’ a mettere in ordine le mie categorie mentali, raggiungendo risultati a volte perfettamente nelle norma, altre, forse, un po’ troppo fantasiosi e personali. Comunque la possibilità di far 6

Ian Robertson “Intelligenza visiva” Rizzoli 2003 (Pag 16).


55 coesistere principi diametralmente opposti, le cui caratteristiche si escludono a vicenda, senza cercare a tutti i costi un accordo tra le dissonanze cognitive, senza aggiustarle per forza secondo i criteri della buona forma (Gestalt)7 , la capacità di contenere l’assurdo con una certa non chalance mi è rimasta, sì da non scandalizzarmi di fronte ai Koan dello Zen (studiati proprio per suscitare una particolare attitudine del pensiero) del tipo: “Ascolta il battito di una mano sola”, o di fronte a concetti quali l’azione nell’inazione, per giungere a comprendere, da dentro, la famosa coniuctio oppositorum, o conciliare questioni del tipo peccato originale/libero arbitrio, e via dicendo. Non vado oltre, perché la strada di ciò che i più chiamano spiritualità, sistemando (emarginando) nella categoria del trascendente o soprannaturale tutto ciò che non si sa spiegare, sembra lastricata di binomi autoescludentisi. Qui, per molti, dovrebbe entrare in gioco la fede e qui, per quanto mi riguarda, casca l’asino. Io non escludo nulla, ma neanche credo in ciò di cui non mi faccio una ragione, perciò lascio i nodi lì dove sono, senza 7

M. Wertheimer- Principi di organizzazione percettiva 1925


56 pronunciarmi, aspettando che il tempo faccia il suo corso. Spesso funziona, se non ti circondi di certezze, di assiomi inconfutabili, prima o poi le risposte arrivano, il tempo vissuto serve proprio a questo, ma bisogna essere pazienti e soprattutto non lasciarsi prendere dall’ansia di chiudere la partita, certo non è facile contenere l’incerto, l’enigma... Ciò fa sì che i capitoli che tali paradossi contengono non vengano mai archiviati, restino sempre aperti a verifiche ed aggiustamenti, nulla diviene mai definitivo ed è proprio l’equilibrio precario, il continuo oscillare tra poli opposti che crea il movimento, il disordine e così la vita (caro principio dell’entropia!). So di essere stata avvantaggiata: è facile accettare il diverso quando si è costretti a constatare che anche la propria testa lo è un po’. Il pensiero divergente, quello che uscendo dalla norma consente di abbattere le barriere del consueto, la capacità di superare la fissità funzionale per cui una sbarra della gabbia che costringe in cattività lo scimmione all’improvviso può divenire un prolungamento dei


57 suoi arti, consentendogli di arrivare al casco di banane e quindi, in qualche modo, di uscire dalla stessa gabbia, invece di costringervelo dentro, la serendipity e via dicendo; ah, quanto mi è piaciuto ritrovare sistematizzati nei libri questi concetti! Già, un’altra cosa che mi ha sempre distinto è la necessità di trovare continuamente nei libri conferme ai pensieri che affollano la mia testa, è per questo che ho tanto studiato e letto, è per questo che continuo a leggere i libri più disparati, ho bisogno di conferme: non esporrei mai un pensiero mio che non abbia trovato conforto in un libro. Così questi oggetti, quasi magici per me, vanno custoditi con la massima cura, poiché ai miei occhi la parola scritta e stampata fa sì che un concetto assurga carismaticamente allo status di pensabile, o meglio di esprimibile. C’è chi mi ha tacciato di parlare come un libro scritto, di non avere contenuti miei, è vero il contrario, esprimo sempre pensieri miei, è solo che prima devono trovare conferma, ma sono i miei, da sempre, e tanti altri rimangono nella categoria


58 del non pensabile, non che io non li pensi, ma non ufficialmente, fintanto che la parola scritta non li rende esprimibili. “Forse manca un po’ di autostima, un po’ di coraggio d’esporsi “ penseranno alcuni, ma sfido chiunque abbia pensato che pidocchio, finocchio e Pinocchio fossero un identico soggetto ad esprimersi liberamente, senza tema d’esser preso per pazzo. Ad ogni buon conto, credo che questo sia normale per chi spesso si perde tra le nuvole, per chi non ha chiari i confini tra il reale e l’irreale, o almeno ciò che nella norma è ritenuto tale. Devo, inoltre, riconoscere in me l’insana tendenza a confondere sistematicamente e volontariamente tali confini, così, ad esempio, continuavo a leggere a mia figlia ancora piccolina libri come C’è nessuno? 8 , dove Jostein Gaarder dice ai più piccini che nulla al mondo è normale e che tutto ciò che esiste altro non è se non un frammento del grande enigma, dove l’essere umano stesso rappresenta l’enigma che nessuno risolve. Le idee ai bambini bisogna confonderle da subito, altrimenti si incorre nel rischio che abbiano delle 8

J. Gaarder – C’è nessuno?. Salani 1997


59 certezze! Mmm... arriviamo ad un’altra delle mie grandi passioni, la filosofia! Nessuno ha mai dovuto spiegarmela, quando studio il pensiero di un autore, ne vengo completamente assorbita in una sorta di attenzione fluttuante dove le conclusioni cui perviene chi scrive, automaticamente divengono le mie, poiché i suoi processi mentali divengono, al momento, i miei, ed è ovvio arrivare a quei risultati partendo da quei presupposti. E’ questo, forse, l’unico modo di studiare, per chi fatica a ricordare e ad automatizzare alcuni meccanismi: ripercorrere la strada percorsa da chi sta parlando. Non so se è chiaro, so solo che mi intriga da morire, è quasi come affondare il cucchiaino nella crema di marroni (che preferisco alla nutella). La filosofia, il pensiero che pensa se stesso, mmm... che goduria! All’età di dodici anni decisi che il tempo trascorso a dormire era davvero troppo e sciupato, così per due notti cercai di restare sveglia sul balcone della mia stanza, bevendo caffè e respirando l’aria fredda della notte. Ovviamente il terzo giorno il mio livello di vigilanza risultò notevolmente modificato e,


60 mentre le prime allucinazioni facevano la loro comparsa, decisi che il tempo dedicato al sonno non era poi così perso, arrendendomi all’evidenza della necessità di questa attività comune, anche se con tempi diversi, a tutto il regno animale. Anni dopo ho scoperto che la deprivazione del sonno, del cibo, quella sensoriale (tra cui potrebbero rientrare le lunghe permanenze in ambienti molto ristretti, come le cellette dei monaci, per intenderci, o i famosi quaranta giorni nel deserto, eccetera), le danze eseguite a ritmi particolari, l’assunzione di alcune sostanze psicotrope e così via, portano ovviamente a stati di coscienza alterata e che molte di queste tecniche sono state usate da sempre in rituali magici e in percorsi mistici, al fine di sperimentare stati di estasi e di beatitudine. Per una persona che non ama scoprirsi, che si pronuncia solo quando, come dicevo prima, trova conforto alle sue tesi, al suo sentire, in testi scritti da altri, scrivere questo libro è sicuramente un azzardo, ma ho sentito che era importante che lo facessi..., e se non amo farmi avanti, di certo non mi tiro indietro; è vero sono restia ad espormi,


61 ma non c’è stato un solo giorno della mia vita in cui abbia smesso di interrogarmi sul senso ultimo delle cose. E’ stato detto che la strada che porta alla verità è la strada degli eroi, una strada senza scorciatoie e senza sconti sui prezzi da pagare ed io, più Don Chisciotte che Achille ma abbastanza Ulisse, in qualche modo mi sono sentita sempre pronta a percorrerla. E già, Ulisse o Dante e il loro poc’anzi citato “fatti non foste a viver come bruti”... mi hanno sempre perseguitato; sono perfettamente d’accordo: a che serve la testa, se non la si utilizza per pensare, per conoscere? Sono un essere umano ed il pensiero, croce e delizia, è ciò che mi caratterizza. A cosa serve conquistare l’astrazione, sganciarsi dagli oggetti, se poi non si sa sognare? Ovviamente il passo successivo diventa saper dominare tutto ciò; una bella incongruenza, in fondo fare tanta fatica per imparare a pensare e poi imparare a fermare il proprio pensiero! Non so se si intuisce, ma quando non mi incarto, trovo tutto ciò molto divertente.



63

Capitolo III Credo sia d’obbligo, a questo punto, chiarire il mio rapporto con Dio. Si fa per dire chiarire, visto che non è mai stato chiaro neanche per me! Iniziamo dal principio: io AMODIO, già tanto per cambiare un gioco di parole, un cognome che è un’asserzione, anche di quelle pesanti. Tu ti presenti ed è già come se confidassi all’altro, appena conosciuto, una parte tanto intima di te, è come se uno si presentasse dicendo: ”Ciao, io sono Mario AMOLAMOGLIEDELMIOAMICO, o, che so, Giovanni ODIOILPAPA, così io, Antonella AMODIO. Una sera di qualche anno fa a Roma con amici decidemmo di andare a cena dagli Hari Krishna. Arrivati da “Govinda” in Santa Maria del Pianto, - il nome della via mi appare in tema – una giovane arancione ci chiese di tesserarci. Non appena le dissi il mio cognome, sgranò i suoi dolci occhioni, accompagnando con un “Oh!” il mio Francesca Antonella AMO-DIO. - E già - le risposi - un nome, una garanzia -. E così ancora a Roma, quella monaca spagnola seduta dietro il


64 banco della casa-pensione Santa Maria dei monti delle suore catechiste di S. Anna, la residenza che avrebbe dovuto ospitarmi per quella notte, attendere con grazia che smettessi di ripetere quella che evidentemente doveva sembrarle una mia professione di fede, quasi non sapessi che in fondo, per dormire lì, bastava pagare, mentre io non facevo che dirle il mio cognome affinché trovasse la mia prenotazione. AMO-DIO, ricordo una volta in farmacia al mare, dovevo ritirare le medicine ordinate da mio padre: - Com’è il nome? - . - AMO-DIO -. - Oh, anch’io! -. - Si? -. - Beh, è un cognome diffuso nel napoletano -. - No, che ha capito, anche io AMO-DIO! -. Ah! Era una battuta, chiaramente non c’ero arrivata, che simpaticone! Un continuo, da piccola tutti mi ripetevano in coro: - E la Madonna, no? -. Il cognome è un marchio che ti porti appresso, ma a me il mio è sempre piaciuto, chissà se, come il nome, è un augurio per la vita… Dio, intanto, è, da che ho memoria, il mio interlocutore preferito, forse per non parlare da sola: in fondo il pensiero è la prima forma


65 di linguaggio, una sorta di dialogo interiore. Per questo Chomksy9 sostiene che il linguaggio è così importante per lo sviluppo dell’intelletto ed io sono una chiacchierona interiore, ho preso a parlare con questo Lui non meglio identificato. Una sorta di compagno immaginario, scelto in una botta di delirio d’onnipotenza narcisistica. Pare che più grande è la ferita narcisistica, maggiore ne sia la compensazione; comunque sia, il mio era un compagno veramente speciale, il migliore sul mercato, anche se non sempre il nostro rapporto è stato facile, a volte siamo arrivati addirittura ai ferri corti.... Ricordo ancora quella notte al ritorno da Napoli dove andavo tutte le settimane per l’analisi di gruppo, mi piaceva e poi era obbligatoria nel mio percorso di psicoterapeuta. Era tardi, come al solito, il gruppo cominciava dopo le diciannove, quando tutti avevano finito di lavorare, tanto erano a casa loro... Io mi avviavo da Potenza un paio d’ore prima, poi, dopo le 22.30 inutile pensare ad un mezzo pubblico, a gruppo finito, infatti, non ve n’era nessuno che portasse alla mia città. Questo scotto 9

Chomsky – Nuovi orizzonti nello studio del linguaggio. Il saggiatore 2005


66 continuiamo a pagarlo. “Ti interessa qualcosa? Vuoi seguire qualcosa? Mettiti in macchina e vai”, noi terroni, gli eterni transumanti. So che nel mio petto batte un cuore dislessico, ma anche nomade, prendo e parto all’istante così come sono, pur di andare; sono famosa per la ristrettezza del mio bagaglio - venti giorni in India con il solo bagaglio a mano –, ma questa è un’altra storia. Erano dunque le 23.00 e mi accingevo a rientrare nella mia città, indossavo un bel taierino primaverile, gonna corta, davvero inusuale per me che indosso quasi sempre tute, ma avevo avuto un incontro di lavoro prima. Radio accesa, finestrino abbassato, via nella notte, adoro viaggiare di notte. Mio padre ci ha abituato sin da piccoli a lunghi viaggi nel buio, soprattutto nel periodo natalizio percorrevamo mezza Italia per recarci dagli zii di Rimini, che magia! Chi può scordarsi la fontana della piazza di Roccaraso completamente avvolta da un velo d’acqua gelata, brillare sotto il riflesso dei lampioni, o i giardini delle abitazioni scintillanti di alberi di Natale allestiti all’aperto, potevo sentire nel mio cuore il profumo di quella


67 che è la mia festa preferita, ascoltarne i canti, le risate mentre tutt’intorno sfilavano le luci della cittĂ . CosĂŹ ogni volta che viaggio di notte ho preso a fare questo gioco, passando vicino ai centri abitati, osservo gli interni delle abitazioni, gli ambienti, i colori e ne immagino gli odori, i


68 rumori ed una storia da consumare subito, finché la stanza resta alla mia vista. Sono abilissima, le luci si susseguono, le immagini pure e con loro le storie, tutto ad una velocità pazzesca, finché la città scompare e le luci e i suoni, e resta solo la notte e il silenzio, che trip! In realtà credo che davvero possa accadere di tutto, che mentre percorro la strada, in quelle case possano realmente consumarsi i drammi più cupi o le gioie più intense sicuri che il mondo sia tutto lì, si apra davanti a noi o ci crolli sulla testa mentre in realtà non siamo che un puntino luminoso, un attimo che subito la velocità inghiottirà nel buio. Comunque, ero in viaggio sulla Caserta - Reggio Calabria e ad un tratto mi trovo al casello di non so quale paesino dell’interland napoletano, certa di essere uscita lì per sbaglio, guidando in automatico, faccio un’inversione e rientro sull’autostrada: sono piuttosto abile come pilota, molto meno come navigatore, anzi non lo sono affatto. Credo sia legato al mio modus dislessico, non mi oriento per nulla, mi sono persa in tutte le città d’Italia, anche nella mia - chi la conosce sa quanto sia


69 difficile - quindi, in città, ai bivi ecc. devo stare all’erta, per me nulla va in automatico, anche una strada fatta milioni di volte va pensata e poi, i miei riferimenti non sono certo i nomi delle vie, i numeri civici, ma piuttosto i colori dei palazzi, i loro fregi artistici. Quante volte ho sperato che il palazzo con i soli, a Napoli, non cambiasse facciata, come avrei mai più ritrovato la mia traversa? Ma non è mai bastato certo questo a fermarmi, anzi, un po’ per scelta, un po’ per fato, sempre in giro da sola. Così, quella notte, cominciava a farsi veramente tardi e di nuovo sulla SA-RC, questa volta con la massima attenzione, mi resi conto che l’uscita era obbligata, l’autostrada era stata chiusa per lavori, lo facevano da un po’ di giorni tutte le notti, mi dissero poi. Ok! Esco, al casello chiedo informazioni al custode e poi via, nell’interland napoletano, che incubo! Segnaletica pessima, solo nomi di paesi senza l’indicazione della direzione Salerno o Napoli, le uniche città di cui sapevo l’ubicazione rispetto alla mia e che mi sarebbero servite per orientarmi: Nola. Che diamine ne so io, se da qui, non so neanche dov’è, procedendo


70 verso Nola vado di nuovo verso Napoli o da questa mi allontano avvicinandomi a Salerno? Non so se è chiaro… Dovevo fermarmi di continuo, chiedere informazioni ai pochi passanti ancora in giro, ormai era passata la mezzanotte, tutti rigorosamente maschi, tutti rigorosamente ammiccanti alla vista delle mie gambe scoperte (maledetto tailleur, io che sono sempre in pantaloni)! Già vedevo i titoli in prima pagina a caratteri cubitali Cadavere di giovane donna rinvenuto nella campagna napoletana e poi i commenti soprattutto quelli della mia città: “ Chissà che ci faceva a quell’ora di notte, da sola, in minigonna in un posto così, dai che se l’è voluta! “. Oltre al danno, la beffa… Finalmente il casello per riprendere l’autostrada, ore 01.00, e dai, ce l’ho fatta! M’appiccico col custode, rigorosamente ammiccante, cercando di fargli capire che la segnaletica va sistemata meglio, se il percorso notturno resterà quello: - Ho avuto grosse difficoltà - gli dico, e, alle sue insistenze sul fatto che invece tutto andava bene, gli auguro capiti a sua moglie o a sua figlia di perdersi all’una di notte in quel posto. Probabilmente avrà pensato


71 con aria di sufficienza che ciò non sarebbe mai stato possibile, le sue donne, a quell’ora, non sarebbero certo state giammai in giro da sole. Ok, chi se ne frega, si torna a casa… Troppo presto, Pontecagnano, si esce di nuovo, non ne posso più, una crisi isterica, fermo la macchina e comincio a gridare con Lui: - Va bene, dimmelo, dimmelo che vuoi che stia spezzata di gambe a casa! Dimmelo che ce l’hai con me, lo sai che ci muoio ma non mi fermo, Tu, tu m’hai messo nel cuore questo daimon, come vuoi che io non lo segua? -. E così di seguito per buoni cinque minuti, al termine dei quali, detto quanto dovevo, potei riprendere le mie ricerche della via da seguire e finalmente giungere a casa. Ma non abbiamo mai litigato realmente, neanche quando mi ha spezzato il cuore portandosi via mio fratello. Già, gli eventi della mia vita si sono sempre susseguiti a velocità supersonica, come quella macchina che sfreccia nel buio: due nomi, due, tre lauree, due, tre occupazioni, due mariti, due figlie, due famiglie, due lutti importanti, Francesco e poi Ettore, compagno di tanti percorsi, spesso guida, sparito


72 come mio fratello, da un momento all’altro, senza il tempo di chiedersi perché, il tutto durante una vita frenetica, fatta di lavoro, affetti, studi, viaggi, ricerche. Quanto ho pianto, ma quanto ho riso. A volte a Roma, nel mio periodo romano, ho riso tanto da sentirmi male. Così come alla morte di mio fratello, ho provato un dolore talmente forte che le lacrime non potevano alleviare, era come aver perso un pezzo di me, un dolore lancinante nella carne, da levarti il fiato, un’amputazione a crudo. In realtà io avevo perso realmente un pezzo di me. Quando nelle relazioni proiettiamo pezzi di noi sull’altro, questi, andandosene, se li porta via, o meglio, sono quei pezzi di noi che vanno persi, e noi ne restiamo monchi. Non ci può essere l’elaborazione di un lutto, se non ci riappropriamo delle nostre parti scisse, altrimenti, chi elabora cosa? Ricordo ancora, durante la celebrazione della Messa per il Trigesimo, mentre il prete continuava a ripetere il nome di Francesco definendolo ‘nostro fratello’ in quella chiesa gremita di gente, il mio cuore gridare: - Eri mio fratello Francesco, mio, mio


73 fratello, è a me che manca il tuo odore, il suono della tua voce, il tuo abbraccio poderoso, il tuo respiro, è a me che non risponderai mai più, io… ”io pronuncio il tuo nome in questa notte oscura e il tuo nome mi suona più lontano che mai, più lontano di tutte le stelle…”10. In queste situazioni chi ti è vicino piange il tuo dolore, ma in fondo tocca le note profonde del suo, piange i suoi lutti, piange se stesso che morrà, piange l’essere umano, questo impasto di terra e di cielo, di gelo e calore, di grano, di fango, di sangue e sudore… La pietas di Virgilio, la compassione per la condizione umana, per la sua finitezza, eppure, se gli dei immortali dell’Olimpo non ci sono più, se Zeus, Giunone, Afrodite, Mercurio sono spariti nel nulla, l’uomo, mortale, è sopravvissuto loro. L’uomo con le sue passioni che aveva rappresentato negli dei, è ancora qui, è dunque il Dio che ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, o è l’uomo che nella sua rappresentazione del divino rappresenta se stesso? “Quanto diverso è stato separarmi da te, papà, quanta strada, in fondo, ho percorso, mi manchi tanto, ogni cosa 10

Garcia Lorca- Io pronuncio il tuo nome.


74 parla ancora di te, ma i miei pezzi, quelli sono tutti con me, grazie per avermi dato il tempo di riappropriarmene.” Il tempo. Qualcuno ha detto che il tempo è il più gran regalo che si possa fare ad un bambino dislessico, è vero, e, secondo me, non solo più tempo nel compitare, ma proprio più tempo in termine di anni: per quanto riguarda la mia storia personale, ho raggiunto le prestazioni scolastiche dei miei compagni solo in quinta ginnasiale, mia figlia in terzo liceo scientifico, ma li abbiamo raggiunti…E poi, a pensarci bene, il tempo non è forse uno dei regali più grandi che si possa fare ad un essere umano? La vita stessa non è forse il tempo tra la nascita e la morte? Quando chiediamo a qualcuno di aspettarci, in fondo gli stiamo chiedendo un po’ della sua vita, ed è per questo che entrambi dovremmo avere la consapevolezza che non può essere sprecato, forse l’ho già detto, ma per me il tempo in cui non apprendiamo niente è tempo perso e, lo mutuo dalla didattica, un apprendimento può essere definito tale, solo se comporta una modificazione del comportamento. Il che, tradotto per me, vuol


75 dire, solo se diamo una risposta diversa da quella di sempre a quel determinato input in entrata, solo se usciamo da un solco già segnato. In realtà trovo sia difficile che il tempo passi senza che in noi nulla accada, è solo una questione di quantità, a volte ce ne vuole tanto e non ci sono sconti, perché qualcosa maturi, giunga a compimento, ci vuole proprio il tempo che le è necessario, può essere un solo istante o una vita intera. Io, ad esempio, ho impiegato più di vent’anni per mettere a fuoco la data della morte di mio fratello che per scherzo del destino - il mio - mia madre non ha voluto fosse scritta sulla sua lapide e pensate che è proprio a ridosso di una nostra festa nazionale! Mi piace, partendo da questa riflessione, far sperimentare ai miei alunni, quanto sia soggettiva la percezione del tempo, come vi sia un tempo vissuto affettivamente che si dilata o si restringe a seconda della colorazione emotiva che assume, diverso dalla semplice scansione in istanti obiettivamente misurabile. Far loro prestare attenzione al corpo, alla cadenza del proprio battito cardiaco, della propria frequenza


76 respiratoria; educarli a sentire come tutto può divenire veloce, velocissimo o lento e come ognuno abbia il suo ritmo personale, una sorta d’orologio interno che scandisce i propri ritmi, in base al quale ci ritroviamo distribuiti lungo un continuum che va dall’ansioso/stressante al flemmatico/ esasperante. E’ importante riconoscere ed accettare la diversità dei ritmi e capire quanto sia necessario, pur nel rispetto delle diversità, trovare un accordo con l’altro da noi, un accordo tra i propri ritmi e quelli del mondo. E’ difficile, però, rispettare i tempi degli altri, è difficile anche solo capirli, io sono diventata veloce, velocissima, sono quella macchina che sfreccia nel buio, pur percorrendo mille strade; credo che i dislessici che hanno imparato a compensare siano tutti velocissimi, provano mille soluzioni e, per esclusione, scelgono quella che appare loro la più adeguata e spesso lo fanno nello stesso tempo in cui gli altri accedono all’unica conclusione, a loro già nota. In questo non vi è nessun giudizio di valore, veloce non è meglio di lento o viceversa, è semplicemente un ritmo, ed ognuno deve


77 imparare a riconoscere il proprio e quello degli altri per poterli accordare, solo questo consentirà un’armonia. Un esempio banale: Gerarda da anni viene ad aiutarmi nelle faccende domestiche al mare, da anni 6 Euro all’ora, il più delle volte sono sette ore. Ogni volta le chiedo quant’è. Ogni volta mi dice che non lo sa. Ogni volta le ripeto: “Neanch’io, sono una frana in matematica!”. Prendo il cellulare, funzione calcolatrice, e voilà il conto è fatto. Per lei nessuna meraviglia, si può non sapere le tabelline, lei non le sa! Per me, l’onore di sentirmi simile a lei. Mi piace molto Gerarda, tenace e forte come una roccia, una vita di fatica, tanti risultati raggiunti… Ma ogni volta dietro il mio dire “Neanch’io”, c’è: “Sei per sette oh, sì, fa quarantadue, c’è anche la canzone, quarantaquattro gatti, già ma allora fa quarantaquattro, ma no, c’è il resto di due, fa quarantadue, sei per sette quarantadue più due quarantaquattro, sicuro? Non è che freghi Gerarda? Ok, prendi il cellulare, funzione calcolatrice, e voilà..” . Laura sa che come lei, fatico a ricordare


78 le tabelline e un giorno, per aiutarmi, m’ha svelato il suo segreto per quella del nove: 9 x 6 (il 6 per arrivare a 10 ne vuole 4, quindi scrivo 4, al nove togli 4 resta 5 = 54. L’ho provato: funziona! 9x6 ↓ ↓ 5 4 9x7 ↓ ↓ 6 3 9x8 ↓ ↓ 7 2 E se questo per qualcuno è solo un trucchetto, io so che è il faticoso giro di una mente che non ha accesso ad alcuni automatismi. Quanto sarebbe più facile semplicemente 9 x 6 = 54, accedendo ad un automatismo, ad una sorta di riflesso


79 condizionato, invece di ricercare ricorsività, così da farne una norma da applicare. Se all’inizio si è lenti, col tempo, se viene concesso, s’impara a fare tutto ciò nel medesimo istante in cui un altro semplicemente accede ad una risposta condizionata. Tornando ai miei ritmi, in genere sono molto veloce, lì dove le mie risposte sono dirette, per me è questione di frazione di secondi, poi, devo aspettare il mio interlocutore, cerco di tenere a bada la mia frenesia, respiro, mi rilasso, penso, so che devo dargli quel tempo che pure da bimba a me non è stato mai concesso, per questo pratico da anni il Tai-Chi, proprio per scoprire la forza e la consapevolezza del muoversi lentamente. L’ultimo giorno dell’anno, il 31 dicembre del 2005, è morto mio padre. In realtà lui era stato in fin di vita già agli inizi di quello stesso anno, poi, quasi per miracolo si era riavuto, tornando ad una vita piuttosto normale, tanto da guidare di nuovo persino la macchina. Quando era in fin di vita, in uno stato di coscienza simile ad un lungo sogno, lo sentivo ripetere: - Mi bastava un po’ di tempo


80 in più, solo un po’-. Quando tornava in sé, gli chiedevo per che cosa avrebbe avuto bisogno di più tempo, ma lui non ne aveva nessuna memoria, o per lo meno era quello che mi ripeteva. Non aveva faccende di ordine materiale da sbrigare, nella sua grande generosità e in quello che in fondo era il suo distacco dalle cose, non aveva intestato mai alcun bene a se stesso, così non era per sbrigare questo genere di obblighi che voleva un po’ di tempo… Dio solo sa a che cosa gli serviva, so solo che ne ha fatto buon uso poiché, trascorso quasi un anno, dopo uno splendido Natale passato tutti insieme, si è ammalato e nel giro di cinque sei giorni è andato via per sempre, senza affanni, semplicemente è scivolato via in silenzio. Quel venerdì notte mi ha detto, di nuovo in quello stato simile ad un lungo sogno: “ Figlia mia, sabato finisce la recita “. Questa volta avevo capito benissimo cosa stesse dicendo, non chiedeva più tempo, ora era pronto, ma gli ho chiesto comunque di che recita parlasse: “La recita, la recita finisce sabato “. Un bacio struggente alle mani di mia madre,


81 la sua compagna di una vita, un grazie detto dal profondo del cuore, un bacio e la buonanotte a me e poi, qualche ora più tardi, nelle prime ore del sabato è andato via, passando silenziosamente dal sonno alla morte e di nuovo la macchina sfrecciava veloce, medici, preti, pompe funebri, gente, tanta e alla sera, rientrando a casa dal suo funerale, quello strano senso di compiutezza: tutto era concluso, in un solo lungo giorno, quel sabato in cui lui sapeva che la recita sarebbe finita. Voglia il cielo che sia concesso anche a me di avere il tempo di andare via a recita conclusa, senza debiti né debitori… Così penso che il tempo resti un gran regalo per tutti, non certo solo per un dislessico. Ma torniamo a Dio, in qualche modo anche l’esperienza che ho del divino resta legata alla mia dislessia, alla capacità di vivere i paradossi, mi piace come l’ha messa giù Watzlawich: “E’ evidente che molte delle più nobili attività e conquiste della mente umana sono intimamente legate con la capacità che ha l’uomo di vivere l’esperienza del paradosso. La fantasia, il gioco,


82 lo humour, il simbolismo, l’esperienza religiosa nel senso più esteso del termine (dal rituale al misticismo) e soprattutto la creatività, sia nelle arti che nelle scienze sembrano essere sostanzialmente paradossali”11. Ma Dio, per me, non è certo solo il mio interlocutore preferito, è un pensiero, è il mio ideale, il mio sogno nel cassetto, la mia tensione all’infinito, l’amore della mia vita. Quanti testi sacri ho letto, i Santi, i Maestri, mi piacciono tutti, Gesù, Buddha, Krishna, San Kabir e talmente tanti altri, una sfilza infinita di illuminati che mi hanno illuminato il cuore, se non la mente. Anche Socrate, per me, rientra in questa schiera, così non è difficile capire perché all’Università, all’esame di filosofia su Kierkegaard, che ne riprende la maieutica, ho preso trenta, lode e la calorosa stretta di mano della docente, una monaca che, entusiasta, fece il giro della cattedra per avvicinarsi a me; io non ci ho mai visto alcuna particolare bravura, era stato un piacere leggere i libri di Kierkegaard, che li condividessi o meno non era importante, non era il cosa ad affascinarmi ma il come, il procedere 11

Op.Cit. pag. 15


83 della mente di fronte al famoso enigma, tuttavia l’aver espresso concetti come questo mi è costato il concorso a cattedra per D. S. e sì, il dirigente scolastico…Mi sarebbe piaciuto, un bell’istituto comprensivo, non sto qui a spiegare in base a quali leggi e quali numeri oggi alcune scuole vengono accorpate sotto un’unica dirigenza dalla materna alle superiori. Non posso dirvi la fatica che ci ho messo per imparare leggi, numeri, riforme, ma io so come fare, come piegare la mia mente dislessica a questi compiti, l’ho imparato sul campo, in anni di studio, ha a che fare con i solchi tracciati, con il deuteroapprendimento di Bateson12, con nuovi circuiti neuronali che si creano. Quando studio è come se dovessi superare qualcosa simile alla barriera del suono, poi tutto accade, c’è un limite che devo faticare per raggiungere, a volte mi verrebbe da vomitare su quei dati, ma poi pof, tutto accade, la barriera svanisce e davanti a me solo un’ampia distesa, dove la vista spazia senza intoppi. Per notti e notti, dopo la prova scritta ho continuato a sognare e ad approfondire nel sonno ciò che avevo imparato da sveglia. Ora voglio solo 12

Gregory Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi editore


84 resettare quei dati, non mi servono più, solo la consapevolezza deve restare, in fondo i dati è facile ritrovarli, basta sapere che ci sono, dove leggerli quando servono, perché mai tenerli in mente? C’è ben altro che in mente voglio avere. Ma tornando all’istituto comprensivo, già immaginavo le ricerche che avrei potuto fare potendo studiare longitudinalmente i processi di apprendimento dei singoli, capite che opportunità? Seguirne l’evoluzione dai tre ai diciotto anni! Io sono certa che apprendere sia un piacere insito nella natura umana e, laddove ciò non accade, è perché ci sono stati degli intoppi, capire quali, rimuoverli, studiare le procedure, questo dovrebbe essere sicuramente uno dei compiti di una persona di scuola. Ecco perché è più importante il come, non si tratta solo di una vecchia e sterile diatriba tra la forma che informa il contenuto o il contenuto che forma la forma (adoro i giochi di parole). Proprio oggi dove i contenuti di ieri, soprattutto nel campo scientifico, domani sono già obsoleti, dovrebbe essere chiaro, perlomeno a quelli del mestiere, la strada da seguire…


85 Ok, il concorso è andato, ma la macchina sfreccia nella notte ed io sono già proiettata sul prossimo sogno. A proposito dei solchi segnati, sono per me in tutto simili a quelli che un tempo, se ti si formavano incautamente su un vinile (i famosi 33 o 45 giri di quando ero ragazzina), avevi perso il disco per sempre, perché la puntina incrociandoli nel suo giro, non poteva fare a meno di scorrerci su, arrivando direttamente alla fine del brano, o di bloccarcisi, ripetendo all’infinito la stessa strofa. E’ nel tempo che ho elaborato la mia teoria (applicata alla psicoterapia mi ha dato ottimi frutti) partendo da un flash, ero nella Feltrinelli di Roma, dinanzi alla copertina di un libro riposto nel settore Architettura, settore che di certo parrebbe aver poco a che fare con i miei interessi. Ma quel libro mi chiamava e così lo comprai, Labirinti13, bellissimo… E’ così, quando sono in una libreria, posto dove adoro recarmi, mentre mi aggiro tra i libri dei vari settori in una sorta di attenzione fluttuante, questi mi chiamano, vengo rapita da alcuni di 13

Patrick Conty – Labirinti – Piemme 1997


86 essi, non so bene da cosa, a volte la forma, il colore, alcune immagini, poche righe che leggo sfogliandoli. Capite benissimo che non è magia o chissà quale fenomeno paranormale, potrebbe solo trattarsi, ancora una volta, di una questione di selezione degli input in ingresso, senza capire bene su quali la mia mente dislessica si focalizzi, oppure semplicemente di quel fenomeno, evidenziatosi nel già citato esperimento di Balevas14, per cui quali che siano gli input in ingresso, noi costruiamo comunque nessi logici, logici per noi ovviamente. E’ un po’ l’idea base per cui l’osservatore, per il fatto stesso che osserva, contamina il campo, ed ancora volendo, si può trovare un collegamento anche con il famigerato effetto Pigmalione, un po’ come dire che si finisce sempre per trovare quello che si cerca, quello che si è convinti si debba trovare, o meglio, si finisce sempre col creare ciò che si è convinti di dover trovare, o ancora, qualsiasi cosa troviamo, riusciamo ad utilizzarla per confermare le nostre ipotesi; non mi pare si sia poi molto lontani dal concetto buddista per il quale è l’uomo che crea la realtà che lo circonda. 14

Cit. Pag 15


87 Scusatemi, amo divagare, è che i cassetti mi si aprono così, non intenzionalmente e le cose combaciano in una sorta di caleidoscopio gigante, mentre resto a guardare a bocca aperta, come per ore facevo da piccola, quelle forme cangianti di mille colori che prendono vita sotto i miei occhi, che meraviglia! Comunque, quale che sia la spiegazione, i libri mi chiamano; così un giorno, volendo regalare un libro ad una piccola amica del mio palazzo, in occasione della sua prima comunione, chiesi al libraio di consigliarmene uno che fosse adatto all’evento. Inutile dire che non seppe aiutarmi, a volte faccio richieste assurde, lo so, quasi pretenda che un libraio abbia letto e ricordi tutti i libri che vende. Presi a girovagare tra gli scaffali ed eccolo, un piccolo libro blu attirò la mia attenzione, ne lessi un po’ la storia, non so se vera, non l’avevo mai sentita prima. Raccontava le vicende di un quarto re magio. Il libraio mi disse che forse aveva a che fare più con il Natale, non mi importava, lo presi ugualmente. A casa lo lessi velocemente, volevo trovare una frase che fosse indicata per una dedica, mi piacciono le dediche


88 sui libri, è un po’ come dire che lo si è scelto proprio pensando a chi lo si dona e, pensate un po’, si narrava di questo quarto re magio che arrivò sempre tardi ai suoi appuntamenti con Gesù che infatti non riuscì mai ad incontrare. Il libro si chiude con il racconto dell’ultima volta in cui questi giunse in ritardo, era per l’Ultima Cena, arrivò che i convitati erano appena andati via e stanco ed affamato prese dal tavolo il pane spezzato e lo mangiò e bevve il vino rimasto nel calice: lui che era arrivato sempre tardi ebbe così la prima Eucarestia. Pensate, il libro terminava così, niente male da regalare per una prima comunione15! Un caso? Probabile, ma, siccome me ne capitano continuamente scegliendo i libri, ho imparato a fidarmi di me. Torniamo a Dio (sono tante le vie che conducono al discorso principale), a Lui mi rivolgevo da ragazzina, quando, in quella che poi ho studiato essere la fase ipnagogica dell’addormentamento, avevo quella strana sensazione di sdoppiamento: il mio corpo in stato catatonico sul letto, incapace di rispondere ai miei 15

M. Tournier – I re magi. Salani 2004


89 comandi, mentre nella testa era tutto una festa di suoni, spirali, colori… ero terrorizzata, lo pregavo di far smettere quel casino, di farmi tornare in quello stupido corpo che mi faceva questi strani scherzi. Ne parlo solo perché, dopo aver studiato a fondo questo fenomeno che mi accompagna ormai da una vita e che non solo non mi terrorizza più, ma che ho imparato a gestire, ho trovato qualcun altro che l’ha studiato, sperimentando centinaia di soggetti cui capita proprio lo stesso: Groff16. Questo psicologo americano ha scritto addirittura un libro sul tema. Chiaramente questo mi ha tranquillizzato, altrimenti non avrei mai osato dire ad alcuno di questi miei viaggi in cui spesso, quando ancora non sapevo gestirli, ho temuto davvero di azzeccarci le punte. Ricordo una sera sul letto, appena chiusi gli occhi, ecco che comincia il casino. La stanza girava vorticosamente intorno a me e, prima di scollarmi dal mio corpo – come a me pareva succedesse – ebbi il tempo di pensare: - Stronza! Lo sai che la sera non devi bere -. Al mattino, però, ricordandomene, pensai che la sera prima non avevo bevuto assolutamente 16

Grof - Psicologia del futuro. Red edizioni 2001


90 nulla. Quante volte ripensandoci, da adulta, ho benedetto il fatto che fossi ancora molto giovane e che a quei tempi non avessi le famose otto ore di autonomia dai miei per calarmi un trip! Ci sarebbe mancato solo quello, beh erano gli anni postsessantotto, queste cose si sperimentavano con la leggerezza dell’incoscienza, ma, pur non essendo una bacchettona, questo mi sento di dirlo ai ragazzi di oggi: - Andateci piano, nessuno sa quale sia realmente il proprio confine, ed io di gente che ci ha azzeccato le punte sul serio, ne ho conosciuta tanta. - Tornando a me, continuavo ad avere allucinazioni da legittima, figuriamoci cosa sarebbe successo con l’aiuto di sostanze psicotrope. Qualche anno fa, poi, vidi al cinema Vanilla Sky, con i suoi sogni lucidi, la storia in sé forse un po’ banale, ma quei sogni, sapevo bene cosa volessero dire, finalmente qualcuno che ci aveva fatto addirittura un film (non so quante volte l’ho visto, certamente più di una).




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Capitolo IV Questo è un libro in divenire, nel senso che mentre lo scrivo la mia vita continua a scorrere e quella macchina a sfrecciare, di certo non potevo fermarmi a fare solo questo e, visto che il tempo non si può arrestare, tanto vale cavalcarlo. Così qualche giorno fa, ad un seminario di analisi bioenergetica sul sogno, ho avuto l’occasione di parlare di queste mie esperienze oniriche con il relatore, lo psicologo francese Guy Tonella. Voglio riportarvi le sue parole, perché vi ho trovato un riscontro profondo con il mio vissuto interiore. Mi ha detto che se solo gliene avessi parlato qualche anno prima, avrebbe interpretato questi fenomeni come espressioni di uno stato di scissione dell’io, ma che ora, dopo tante esperienze sui sogni, sapeva bene che questo tipo di vissuti onirici è molto più comune (e quindi normale) di quanto possa apparire e che nei suoi studi condotti in Brasile ne aveva riscontrati numerosi casi, mentre lui stesso ne aveva fatto esperienza in prima persona. Che sollievo! Ciò che però più è


94 risuonato dentro di me, è quello che ha aggiunto: - La paura di impazzire è legata all’impossibilità di comunicare agli altri le proprie esperienze -. Quanto ho sentito vero questo messaggio, è infatti nella solitudine, nell’impossibilità di un confronto, nella paura di un giudizio, nel chiudersi nel proprio universo senza finestre sul mondo che le ombre possono divenire minacciose, i suoni riecheggiare sinistri, l’aria divenire rarefatta. A volte basta aprire quelle finestre e scoprire nell’incontro con l’altro che non si è poi così diversi, che non si è i soli cui capitano certi fenomeni, e che lì fuori c’è un posto anche per noi. Ora so che quel terrore del diavolo, quella presenza oscura che sentivo inseguirmi nel lungo corridoio che portava alle varie stanze da letto della mia casa paterna, così che, terrorizzata, andavo a distendermi a fianco a mio fratello ancora piccino che dormiva beato, certa che m’avrebbe protetta dal maligno, che non avrebbe osato avvicinarsi ad un anima ancora tanto pura, altro non era che il mio odio per lui. Certo l’avrò odiato non poco, s’era preso il mio posto e persino il mio nome, l’unico rifugio alla


95 mia rabbia omicida era lo stesso grande amore che nutrivo per lui, così, l’essere vicino a quel piccolo corpo tanto caro al mio cuore, era la sola cosa che mi impediva di strozzarlo! Credo che questo possa essere un buon esempio di ciò che si intende per relazione ambivalente, questa mia esperienza mi ha consentito di dire ad una mia paziente, sconvolta d’aver sognato di far l’amore col diavolo: - Bene, finalmente, fai la pace con le tue parti oscure, riconoscile, reintroiettale, fosse anche dai genitali, riconosci che sono proiezioni all’esterno di sentimenti che tu stessa nutri e nel contempo ritieni inaccettabili -. Sono sentimenti di un odio antico, di un risentimento profondo che tanti anni prima, da bambino, non si è saputo elaborare con nessuno, così da esserne sopraffatti e spinti a proiettarli fuori di sé, per esserne poi perseguitati dall’esterno; cacciati dalla finestra, ora bussano prepotentemente alla porta! Quel piccolo bambino è ancora lì, ancora vuole che quei sentimenti gli siano riconosciuti: sì, ha ragione a sentirsi arrabbiato, è normale, ha subito un torto, vuole sentirsi compreso e


96 consolato, vuole aprire quelle finestre per non sentirsi più solo ad affrontare qualcosa che non sa gestire. Bene, divenuti adulti possiamo farlo noi, capire e rassicurare quella parte di noi ancora così spaventata, in modo che i granelli smettano d’esser macigni e le ombre tornino ad essere una semplice mancanza di luce. E’ così, la confusione nasce dalla solitudine, dal dover affrontare da soli cose più grandi di noi e, purtroppo, si può essere molto soli pur essendo in compagnia. Mi tornano in mente le parole di una vecchia canzone di Mina che dice così: - Una donna è più sola, quando l’uomo che ha vicino non riesce a leggere nei suoi pensieri... -. E’ chiaro che questa non è una richiesta da adulti, non è certo il mago di Oz che vorremmo per compagno, è piuttosto quell’antico canto di sirene, il rimpianto per quel paradiso perduto, dove non c’erano ancora parole ma solo gesti, suoni, pianti, sorrisi e gorgoglii che qualcuno avrebbe dovuto interpretare e soddisfare... Credo che anche i dislessici, per i più svariati motivi, abbiano avuto la percezione d’essere soli a dover organizzare il proprio mondo e a farlo il meglio


97 possibile. Forse è questo che ha rafforzato una loro predisposizione genetica conclamandone il disturbo, forse, invece, si sono isolati come conseguenza del disturbo conclamato, così che quest’isolamento l’ha rafforzato sempre più, certo si è che vanno creduti, capiti e non sanzionati, le loro strategie comprese e interpretate, non derise o ignorate. So che quanto dico indignerà non poco chi vuol parlare soltanto di disturbo a base neurobiologica, ma è così strano che oggi, dove non si parla d’altro che di complessità, si possa ancora andare dietro all’idea di un rapporto di linearità tra causa ed effetto; é probabile che vi sia una predisposizione genetica, ma di certo solo tutta una serie di altri fattori concomitanti daranno a questa la possibilità di esprimersi e ne indirizzeranno modi e intensità. Purtroppo siamo sempre tutti così giudicanti e spaventati, pronti a sentirci in colpa e a difenderci, a cercare un colpevole lontano da noi: non c’è colpa, tra l’input del trasmittente e quello recepito dal ricevente c’è tutto un mondo fatto di relazioni (amicali, scolastiche, affettive, fortuite,


98 telematiche ecc.), di storia personale, di base neurobiologica...Non c’è colpa, colpevoli lo si diventa quando si teme il mettersi in discussione, ma anche questa è una colpa relativa, è solo la paura ad impedircelo ed ancora una volta non posso che provare simpatia per questo povero essere umano così spaventato e per me stessa che umana sono. Io sono dislessica, la mia infanzia è stata affettivamente ricca e serena, ho cercato di fare in modo che anche quella delle mie figlie lo fosse ed una di loro è dislessica, sono certa che un gap relazionale da qualche parte ci sia stato, una mia defaiance, poco male, succede, ma se ci è dato di interpretare male, ci è dato anche di vedere e di correggere, se le cause sono, invece, sempre spostate lontano da noi a nulla varranno i nostri sforzi, saremo poveri esseri che si dibattono tra mille avversità piovute dal cielo, povere foglie mosse dal vento. Tutto ciò ovviamente non rimane circoscritto alla sola dislessia, chi non ha dentro qualche zona d’ombra? Chi non si è mai sentito solo o incompreso rispetto a qualcuna delle sue aree esperienziali che ha dovuto per ciò stesso


99 aggiustarsi autonomamente, creando forse un pò di confusione? Se solo imparassimo a temerci un po’ di meno e ad amarci un po’ di più, noi stessi e gli altri, capendo d’esser parti di un unico sistema (come si possono dormire sonni tranquilli sapendo che da qualche parte c’è chi muore di stenti, di fame e di dolore?), a concederci delle chances, puntando sul fatto che quest’impasto di terra e di cielo può farcela, ce la farà.



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Capitolo V Non è certo questo il contesto in cui dissertare su Dio, si dice infatti scherza con i fanti ma lascia stare i Santi; vorrei solo esprimere un paio di concetti che per me sono un faro in questa cultura del post-moderno caratterizzata dal relativismo contestuale, dove non esistono metacriteri che possono fissare il vero in sé, il bello per tutti e via dicendo, dove tutti i criteri divengono contestuali, mentre il relativismo dei decostruttivisti mostra l’intrinseca aporeticità dei concetti supposti assoluti e universali, dove regna il pensiero debole. Il primo concetto è semplice, di facile applicazione, se solo se ne ha la volontà: comunque stiano le cose, qualunque sia il contesto, non fare ad alcuno quello che non vorresti fosse fatto a te. Il secondo, un po’ più complesso, richiama il concetto di dharma che qui esemplificherò quale dovere; ovviamente ciascuno si è creato il suo con gli impegni che ha assunto in questo mondo – di famiglia, di lavoro, di amicizia, di cittadino, o che so io - e, pur essendo tutto


102 Maya (illusione ), ciò nondimeno non vi può essere felicità eludendo il proprio dharma. Non sapete quante volte mi sono detta: - Dovevi pensarci prima, hai voluto la bicicletta? Pedala! -. Beh, come dire, non vi è felicità senza assunzione di responsabilità. Qui le cose per me, si complicano un po’, si è responsabili di ciò che si compie senza averne realmente coscienza? A questo punto non posso sottacere, perché mi affascina, la concezione che ha elaborato Bateson17 circa il mondo in cui viviamo: un mondo di strutture circuitali nel quale il corpo umano vivente diviene un sistema complesso ciberneticamente integrato, dove i pensieri del suo processo primario e le comunicazioni di tali pensieri agli altri sono, in senso evoluzionistico, più arcaici delle più coscienti attività di linguaggio, potendo così concludere con Butler che “Ciò che conosciamo meglio è ciò di cui siamo meno consci”, e cioè che il processo di formazione delle abitudini, è una discesa verso livelli meno consci e più arcaici. L’inconscio, così, non è più solo il contenitore delle faccende penose che la coscienza non sa 17

Op. Cit. pag 27


103 elaborare, ma anche di molte faccende che ci sono tanto familiari che non abbiamo bisogno di considerare; l’abitudine, quindi, rappresenta una cospicua economia di pensiero cosciente. L’economia del sistema spinge, infatti, gli organismi a calare nell’inconscio quei tratti generali che restano sempre veri e a mantenere nella coscienza la prassi dei casi particolari, ma, benché il calare nell’inconscio sia economico, ha come prezzo l’inaccessibilità. Siamo perfettamente in tema, dunque, perché i dislessici hanno qualche problema proprio nell’automatizzazione, il che potrebbe spiegare la loro maggior lentezza nel processare i dati, e ciò non perché non vedono, ma perché vedono troppo. Non voglio addentrarmi nei recenti studi di microanalisi (Downing Università di Parigi) in cui vengono analizzate le prime microprassie nell’interazione madrelattante, ma è più che provato che già da lì si forma la modalità che contrassegnerà il nostro modo di selezionare gli stimoli in entrata, le lenti attraverso cui osserveremo il mondo, oserei dire. “La tesi che sto sostenendo in questo articolo è


104 la dimostrazione di un fatto innegabile: la pura razionalità finalizzata, senza l’aiuto di fenomeni come l’arte, la religione, il sogno e simili, è di necessità patogena e distruttrice di vita; e la sua virulenza scaturisce specificamente dalla circostanza che la vita dipenda da circuiti di contingenze interconnesse, mentre la coscienza può vedere solo quei brevi archi di tali circuiti sui quali il finalismo umano può intervenire… la coscienza priva di aiuto deve sempre tendere all’odio: non solo perché sterminare il prossimo è norma di buonsenso, ma per le ragioni più profonde che vedendo solo archi di circuito, l’individuo è continuamente sorpreso e necessariamente irritato quando le sue cocciute tattiche si rivoltano a mordere l’inventore.”18 Diviene, quindi, fondamentale la presa di coscienza dei propri meccanismi, la necessità di creare nuovi circuiti che possano perlomeno affiancarsi a quelli più antichi, così che l’individuo, sottoposto a situazioni di stress (fisico, emotivo), possa avere almeno un’alternativa alle sue risposte automatiche, possa avere una scelta, perché lo 18

Op. Cit. pag 27


105 scegliere che oserei qui assimilare, in qualche modo, al libero arbitrio, è ciò che ci consente di esserci, di vivere pienamente, affrancandoci da automatismi arcaici che, se all’alba della nostra storia ci hanno consentito la sopravvivenza, ora condizionano pesantemente la nostra evoluzione. Creare nuovi circuiti significa sfatare il fato, far sì che l’individuo esca da un solco tracciato in tempi non sospetti, che pur condiziona la sua visione della realtà, portandolo, inevitabilmente, a delle conclusioni segnate in partenza, fornendogli sempre lo stesso tipo di risposta (vedi disco in vinile!19) compromettendo la possibilità di un pensiero divergente, creativo, scevro dal fenomeno della fissità funzionale. Possibilità di scelta, quindi, come possibilità di assunzione di responsabilità: si è responsabili solo delle scelte consapevolmente effettuate e solo l’essere responsabili delle proprie azioni ci consente di essere soggetti attivi nel mondo e non gli oggetti passivi di occulte pulsioni. In fondo credo che il livello di coscienza, così caro alla New Age, sia proprio questo, l’essere realmente consapevoli 17

Op. cit. pag 28


106 delle spinte che sottendono il nostro agire, che fatica! A proposito di solchi tracciati, credo che l’accento posto da tante correnti religiose sulla quotidianità e metodicità delle pratiche, qualsiasi esse siano, meditazioni, preghiere, mantra, rosari e altro, avesse proprio questo scopo: tracciare un altro solco. Così come m’appare lampante il collegamento con i labirinti tanto ricorrenti in miti e leggende di tutte le civiltà storiche che ne presentano, ognuna, versioni differenti: l’entrata dell’Ade per il mondo classico, la fortificazione nella battaglia di Kurukshetra nel Mahabharata, il castello inespugnabile del demone Ravana nel Ramayana, il passaggio nel mondo degli antenati per gli Indiani d’America, una matrice che riflette la struttura dell’universo per gli Egizi, custode e in qualche modo specchio del più antico testo buddista per i coreani, un collegamento con la struttura del tempo per gli abitanti di Tiahuanaco o per quelli di Cnosso. Così come appare facile collegare la mappa dei labirinti classici a quella dei nostri due emisferi cerebrali. In ogni caso, il disegno del labirinto si fa segno, diviene filo


107 conduttore, matrice geometrica che indica l’uscita stessa dal dedalo. Ancora un paradosso, il percorso che conduce all’uscita del labirinto è anche quello che, al contrario, conduce al centro, dove il centro finisce per simboleggiare l’unità assoluta…O ancora il collegamento con i mandala, entrambe tecniche che ho utilizzato, tra l’altro con bambini dislessici ottenendo ottimi risultati.


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Il viaggio di Teseo a Creta Maestro di Cassone Campana

Labirinto Cretese a sette circuiti


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A sinistra mandala tibetano; a destra mandala eseguito dai bambini della scuola “Madre Teresa di Calcutta� Belpasso (CT); sotto una bambina mentre realizza un mandala gigante.

Forse che le tecniche di meditazione per controllare la mente, suggerite dalle pratiche buddiste, quale il fermarsi a guardare i pensieri,


110 senza combatterli, ma semplicemente osservando da dove e come nascono, come evolvono e poi si dissolvono, non siano poi così mistiche o trascendentali, ma mirino, appunto, a renderci più coscienti dei nostri meccanismi, delle nostre procedure utilizzate in automatico? Quanto mi è piaciuto, a questo proposito, ritrovare tra le pagine del già citato Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon20 l’attenta analisi delle procedure, dei percorsi mentali utilizzati dal piccolo protagonista. Ogni comportamento segue regole ben precise, bisogna solo capire quali e così, come una porta s’apre senza sforzo con la chiave giusta, il labirinto si svela e si fa segno consentendoci di entrare. C’è ancora un’altra tecnica che utilizzo per rendermi conto dei nodi dell’animo mio o, per dirla con Bateson, degli archi nascosti, ogni volta che mi sento punta nel vivo, che reagisco con veemenza a qualcosa o qualcuno, una veemenza che a freddo, appare spropositata all’evento, che ruba tanto tempo prezioso all’essere presente a me stessa, mi fermo - quando ci riesco - e penso: - Touché, cosa mai è 20

Op. cit. pag 9


111 stato toccato dentro di me? -. E’ forse a questo che ci si riferisce, dicendo che il tuo peggior nemico è il tuo miglior maestro? Credo proprio di sì, io in questi ultimi dieci anni ho avuto una maestra eccezionale, me ne ha fatti fare di pianti! Anzi colgo qui l’occasione per dirle che non ce l’ho con lei e soprattutto di non sentirsi in debito con me! Non so se è vera o meno la storia della reincarnazione, ma ve lo immaginate se alla fine dovessi tornare una nuova volta per la pretesa che lei saldi i debiti contratti con me ora? Non voglio debitori, non ho mai capito bene cosa si intenda per rimettere i propri debiti ai propri debitori, so solo che in questa vita non voglio debitori (né creditori, ovviamente). Lo stesso vale per quella cara coppia di amici che ha derubato la mia famiglia, quanto indigente deve essere un uomo per scegliere di togliere un pezzo di terra (che poi non è mai veramente di nessuno) ad un amico e perderlo? Con quale moneta dovrebbe mai pagare un simile povero? Ad ogni buon conto rimetto a loro i loro debiti... Scherzi a parte, sono state entrambe grandi occasioni per guardarmi allo


112 specchio, in qualche modo sono loro grata e poi… la macchina sfreccia ancora nella notte, di certo la mia liberazione, sia essa dalla ruota delle rinascite o dai solchi della mia mente, non vale una resa del conti... Già, la ruota della morte e della rinascita, la reincarnazione, bel capitolo questo, un altro che non ho mai chiuso, quante ipotesi ho vagliato per spiegarmi tutta una serie di fenomeni come il dejavu: potrebbero essere legati a sensazioni della vita prenatale, a tutti quei fenomeni che occorrono nella fase intrauterina che pare, per l’eccezionalità dei processi biologici che in essa si susseguono, sia paragonabile a centocinquanta anni di vita o giù di lì, o a vite realmente vissute in precedenza o, ancora, appartenere ad una memoria collettiva geneticamente trasmessa, scritta dunque nel nostro DNA? Il DNA, questo miracolo di perfezione, lo sapevate che il DNA di una cellula umana pesa circa sei trilionesimi di grammo per una lunghezza di due metri? Che una molecola di DNA lunga quanto l’intero equatore peserebbe meno di un granello di sabbia contro i 275 kg di peso che raggiungerebbe invece un filo di


113 cotone di simile estensione? Se solo raccogliessimo il vapor acqueo emesso nel pronunciare tutte le parole necessarie a trasmettere le informazioni contenute in una molecola tanto lunga, esso peserebbe molto di più. Quanto pesa un pensiero e quanto dista realmente questa molecola da esso? Ma torniamo a noi. Se a volte anche a costo di impiegarci molto tempo, ho imparato a vedere e quindi a cercare di sciogliere questi nodi, ve ne sono alcuni per me davvero stretti e invisibili che mi portano a scorrere in solchi profondi, in una sorta di antico motivo, archi nascosti, questa volta di violini, intonano un’armonia ineffabile sulle note di una nostalgia sottile e profonda. Un’eco lontana di sirene che, evocando paradisi perduti, ti spinge inesorabilmente tra i flutti in tempesta, pari al suono di quel piffero che ti ammalia senza che tu possa evitare di seguirlo fin giù dalla scogliera… Che questo abbia a che fare con le prime relazioni affettive?! Nostalgia o saudage? Saudage, mi spiegava un giorno una mia amica brasiliana, non si può tradurre con nostalgia, è qualcosa di più, che ti attanaglia il cuore quando da troppo


114 tempo sei lontano dal Brasile, quando sai che non lo rivedrai mai più, di saudage si può morire, sta a nostalgia come melanconia sta a malinconia, non è solo una A per una E. Così dislessia, non è solo scambiare vocali, consonanti…è una ricerca continua di relazioni dirette tra l’universo dei significanti e l’universo che si vuole significare, perché la lingua, separata dal cosmo e dal mondo dell’anima, diviene un dedalo senza uscita che riconduce solo a se stessa. Oh, se ho seguito quel pifferaio che, mutando ogni volta abilmente costume, ha fatto di me ciò che voleva…Condotte di dipendenza? Coazione a ripetere? Tutto sommato potrebbe essere relativamente facile abbattere un mostro, ma quanto più difficile diviene fare a meno di qualcosa che, pur contro ogni ragionevole indizio, è caro al tuo cuore! Potrebbe essere un po’ come la differenza fra i sintomi egodistonici per ciò stesso fastidiosi e limitanti, di cui quindi ci si vuole liberare - e quelli egosintonici - il male che tu stesso nutri, inconsapevole di quanto ti consumi - ma spesso è molto di più, è qualcosa che sai ti distrugge e a cui, ciò nondimeno, non


115 puoi rinunciare. La strada della consapevolezza, della liberazione passa purtroppo da qui, è un canto che, per poter decifrare, devi ascoltare senza per altro seguire, caro Ulisse, già solo per questo mio eroe! A volte comprare un altro vinile può sembrare la soluzione migliore ma, per quella che è la mia esperienza, devi per forza imparare ad aggiustarli, pare siano tutti così, un difetto di fabbricazione.



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Capitolo VI All’inizio di questa riflessione mi è piaciuto citare Watzlavich e l’importanza che quest’autore dà all’essere capaci di vivere il paradosso, ma il linguaggio del sogno non è forse tutto un paradosso? Non accade forse nei sogni d’essere presenti in più posti contemporaneamente? Che qualcuno sia nello stesso tempo se stesso e qualcun altro? Che gli stessi luoghi siano quelli conosciuti e nel contempo fantastici? Il paradosso, dunque, ha a che fare con il linguaggio dell’inconscio, un linguaggio per molti versi per noi enigmatico eppure così potente, molto più di qualsiasi parola. Le immagini, i suoni, i profumi hanno certo a che fare con esso, così le metafore, le similitudini, le allitterazioni, la rima, le varie figure retoriche, i simboli, gli archetipi ma vi è molto di più. Vi è qualcosa di ineffabile, legato al pensiero, un passaggio silente di questo senza che per altro ve ne sia coscienza alcuna, forse per questo è stato intimato di “non peccare in pensieri, parole, ed opere”. In pensieri, dunque, prima di


118 ogni cosa ma difficilmente capiamo quanto essi siano realmente potenti, quanto possano muovere dell’universo e quanto i comandi inconsci abbiano a che fare con essi, già i comandi inconsci, quelli che a volte segnano una vita intera. Quanto poco sappiamo di questo fenomeno e quanto, ignorandolo, ci muoviamo spesso come elefanti in una cristalliera. So che tutta la mia esperienza del divino è legata a questo, una ricerca continua di maggior consapevolezza, a 360°, dal capire al sentire, dall’apprendere all’intuire, dalla comprensione all’illuminazione. Ogni cosa diviene per me motivo di riflessione, non so se sono riuscita a darvi un’idea di come funziona una testa dislessica: pensa, avanti e indietro, avanti e indietro e poi passa all’azione. Tempo fa mi sono intrippata con la cartapesta, volevo fare un Buddha, l’ho pensato per mesi, davvero mesi, sin nei più piccoli particolari, come fare la struttura, come realizzarlo (non avevo mai lavorato con questo materiale, né mai avevo visto qualcuno farlo) poi un giorno l’ho fatto, in ventiquattro ore, senza staccarmi mai dal tavolo


119 di lavoro, finché all’alba del giorno dopo, il mio Buddha era lì, terminato. La mia testa funziona così, salta avanti, torna indietro, ricompone il quadro con i nuovi elementi, và di nuovo avanti, torna indietro, ricompone di nuovo il quadro e così via, tesse e ritesse, si perde e si ritrova, ricompone sempre nuovi ordini sicché è sempre in disordine, come le pagine che ho scritto, anche se in fine per me, un senso c’è sempre. In questo continuo andare avanti e quindi tornare indietro a ricomporre l’immagine c’è tutta la complessità del procedere dislessico, i nuovi dati non vanno semplicemente a sommarsi al già noto, lo sovvertono e ancora una volta, come in quel caleidoscopio a me tanto caro, danno vita a nuove forme. Così ieri, proprio mentre scrivo su questo tema, mi è capitato di andare ad una personale d’arte contemporanea, in ritardo come al mio solito, un vantaggio, in effetti, perché ho potuto gustare da sola le immagini poste al pianterreno…Un unico identico soggetto ripreso da più prospettive, a diverse distanze sì da insistere su di un particolare per volta così che, ad ogni


120 nuovo elemento aggiunto, il campo si deformasse, mutasse aspetto e consistenza e con esso emozioni, sensazioni e nuove storie da raccontare. Non so bene come dire, è un sentire profondo, è l’incontro di affinità elettive, di procedure mentali, di cervelli, proprio come in Brain, una delle opere esposte, una mente che ne riconosce un’altra, è di più, è una mente che si riconosce in un’altra. Quel titolo, poi, Deframmentazione… Non avevo bisogno di leggere altro che pure ho letto in un fiato:” Il mio mondo interiore si crea davanti ai miei occhi giorno dopo giorno e si materializza in fotografie della mente che pian piano formano l’ immagine infinita che è dentro di me. Compongo innumerevoli frammenti di una realtà riprodotta (fotografie digitali) creando paesaggi impossibili, con luci e ombre che si proiettano nel reale da mille angolazioni diverse”.


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123 Era come vedere fermato in immagini il procedere del mio stesso intelletto, quell’artista giocava con musica, forme e colori come io gioco con parole e pensieri, un insight, un pensiero, un colore, un sapore, una melodia: dislessia! Ho parlato con lei, Elisa, l’autrice è dislessica, alla mia domanda fors’anche troppo diretta ha risposto:” Sì, solo io so cosa vuol dire, io sola so cosa ho passato”. Oh, non solo tu, io lo so, mia figlia anche, così Ale, Giulietta, Fabrizio, Manuele, Andrea e molti altri ancora, tutti cari al mio cuore, tutti in fondo piuttosto provati ma tutti vincitori e non certo perché divenuti qualcuno ma piuttosto perché hanno imparato a conoscersi un po’ e a star bene nei propri panni, non perché abbiano appreso le procedure dei più, che pure è accaduto, ma soprattutto perché hanno imparato ad utilizzare le proprie. Una sera, parlando con mia sorella, mentre cercavo di spiegarle il mio modo di interpretare i dati, cosa insolita fra noi, (chissà perché sono sempre molto restia a farlo con i miei familiari) mi ha guardato attonita esclamando: - Ma tu


124 hai tutte queste scatole cinesi in testa”?! -. Io, altrettanto attonita, avrei voluto chiederle se davvero lei non le avesse. Si, spesso mi capita di vederle le mie scatole cinesi, il paradosso eleatico, storie dentro storie, porte dentro porte, dentro porte, all’infinito, a volte mi ci perdo ma mi ritrovo sempre. E’ questa la mappa di un cervello dislessico? Un labirinto, una serie di circonvallazioni come nel disegno creato per la nostra Associazione Italiana Dislessia da Roberto Mangosi? Eppure in un poema Zen qualcuno ha detto: - In un solo istante ottantamila porte sono state create, in un solo istante il tempo eterno è compiuto -. Io so che è vero, può bastare un attimo e voilà, in una percezione d’insieme il nodo gordiano si scioglie. E’ facile confondere una testa così, basta mentirle, la menzogna non fa quadrare più i suoi conti, si perde cercando un senso, il perché dei conti che non tornano senza capire il più banale degli inghippi: le parole possono ingannare! Il dislessico, o meglio io sicuramente, subisce il fascino delle parole, nel senso vero e proprio di fascinazione, una sorta di attenzione


125 fluttuante dove esse conducono l’una alle altre in uno stato paragonabile a quello delle libere associazioni, tecnica scoperta e tanto utilizzata da Freud. Ogni cosa ha sempre due facce, se ne impari i meccanismi diviene risorsa, mi è facile ad esempio nel mio lavoro di terapeuta vedere archi nascosti, sensi altri che chi si racconta non può vedere e condurre i miei clienti in questa condizione di sottile ipnosi, sì da poter parlare con l’inconscio, è il mio terreno… Ad ogni buon conto per carità, non mentite mai con un dislessico, fosse anche per quello che ritenete essere il suo bene, il suo sentire interiore andrà in conflitto con le parole che ascolta con il rischio di perdere il segno, il filo, il telos, quel logos inseparabile dal kosmos, sì da perdersi nelle sue scatole cinesi, nelle sue ottantamila porte…



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Capitolo VII Così, ora, vorrei passare senza tediarvi oltre alla mia esperienza di mamma di una bambina dislessica. E’ stato per me, sicuramente, molto più duro che viverlo sulla mia stessa pelle, forse per questo ho affilato le armi, pronta a far strage di chi osasse toccare il mio tesoro. La mia bambina, bella come il sole, bella come ogni scarafaggio lo è per la sua mamma! I primi segnali li ho colti subito, tutto troppo noto per me, noto da dentro e così osservavo il suo eloquio, a dire il vero corretto e spedito rispetto al mio da bambina (ricordo mi chiamavano mezza lingua), ma poi ogni tanto quelle inversioni: tevelisione/ televisione, ticarra/chitarra… e, più d’ogni altra cosa, quel suo essere sempre rapita in chissà quali fantasticherie. Beh, a tre, quattro anni può essere normale, poi quella gita con la scuola materna e lei, trionfante al ritorno, che mi sbandierava quest’immaginetta di un santo, quello della chiesa che, tra le altre cose, avevano visitato: - Mamma, vedi questo signore? Ha mangiato tante mentine,


128 vedi ha buttato ai suoi piedi tutte le scatolette svuotate (erano gli ex voto posti lì dai fedeli per grazia ricevuta, credo) e ora ha l’alito così profumato che gli escono i fiori dalla bocca (i fiori posti tutt’intorno alla teca che lo conteneva). -. Un tuffo al cuore… sssss non dire queste cose, avrei voluto gridare, le feci invece un sorriso, annuendo. Lo so, non v’è nulla di strano per un bimbo di cinque anni, ma in me risuonava tutto troppo noto. Poi le prime difficoltà a sillabare nei giochi di prelettura e prescrittura alla scuola materna. Ma no, mi rassicuravano le sue maestre, non v’è alcun problema, d’altronde era troppo bella, affettuosa e socievole, acuta nelle osservazioni, quando non sognava ad occhi aperti, troppo disarmante il suo sorriso sempre pronto. E poi, la prima classe delle elementari: - Cosa hai fatto oggi a scuola, tesoro? -. - Oh, la maestra diceva delle cose, poi è venuto Pegaso (un cavallo alato) e mi ha portato via con sé…-. Dio mio, Pegaso! Laura mia, amore mio ad ognuno di questi racconti tremavo, dove sei, dove sei piccola mia? Poi mi chiamò una delle maestre. - Signora, Laura


129 è sempre distratta e poi ieri, l’ho ripresa, le ho chiesto cosa stesse facendo invece di prestare attenzione e sapete cosa mi ha risposto, sapete cosa mi ha detto? -. Per qualche istante temetti il peggio, Laura era sempre stata un tesoro di bambina, mai una risposta poco garbata, ma sua sorella si divertiva spesso con lei. Undici anni più grande, le aveva da sempre fatto lezioni di rutti e di cattive parole. Pensai che qualcuna di quelle lezioni avesse funzionato, che avesse risposto a quella domanda in modo poco appropriato e poi sentii la maestra continuare: - Mi ha detto sto giocando, sto giocando, capite? -. Una cattiva parola a quel punto avrei voluto dirgliela io, potevo immaginarmela, sei anni, quel visetto tondo, una testa di boccoli biondi, due grandi occhi verdi dallo sguardo un po’ sognante, la rossa bocca carnosa un po’ dischiusa, cosa mai avrebbe dovuto rispondere se non candidamente la verità? Questo di lei mi preoccupava sopra ogni cosa, dopo tre mesi di scuola avevo già dovuto rifarle tutto il necessario di colori, matite, gomme e quant’altro almeno tre o quattro volte, finché


130 contrassegnai ogni suo oggetto con le iniziali ed anche così continuava a farsi sottrarre le sue cose, ma almeno le mamme provvedevano a fargliele riavere. Io da piccola, invece, ero furba, ricordo questo aggettivo con quanta perfidia mi fu detto dal mio professore di inglese delle scuole medie: - Tu sei solo una furba, non sei intelligente né ti applichi, è probabile anche che nella vita riuscirai ma solo perché sei furba! -. Furbo è uno che frega, che non è intelligente ma scaltro, cos’altro potevo fare se non cercare di arrampicarmi, in inglese poi, dov’è risaputo che un dislessico incontra le sue maggiori difficoltà?! E già, perché utilizzare strategie diverse sfruttando quelle che sono le proprie risorse invece di quelle canoniche che ti vengono insegnate ma che a te non è dato di automatizzare, spesso non è visto come un atto adattivo di intelligenza, ma piuttosto come un usare trucchi e stratagemmi da furbi! Quante volte ho pensato: - Datemi i dati di partenza, vedrete che una soluzione adeguata io la trovo! -. Dietro ogni comportamento c’è sempre una logica ma difficilmente ci prendiamo la briga di


131 verificarla: si fa così e basta e se sbagli è perché non lo stai facendo, usando nel dire questo come unico indiscutibile parametro i nostri stessi processi mentali. Ecco tornare l’accento sul come, sulle procedure, capire quelle che ciascuno utilizza e far sì che ognuno ne diventi cosciente, così da poterle utilizzare consapevolmente e, laddove vi sia un errore, individuare e lavorare sulle premesse che lo creano e non sul procedimento. Non so come dire meglio, è un po’ come riporre delle cose in ordine, ognuno segue dei propri criteri e se spesso sono i medesimi, a volte non lo sono affatto e, per ritrovare quella data cosa/informazione, ognuno cerca lì dove l’avrebbe riposta. Credo sia capitato a tutti, dovendo cercare oggetti riposti da altri, pensare : - Se fossi in lui, dove la metterei? -. Non possiamo cercare lì dove l’avremmo riposta noi, ma dobbiamo sforzarci di pensare dove l’avrebbe messa chi l’ha conservata. Facciamo dunque chiarezza sulle cose da riporre, e poi che ognuno lo faccia come ritiene più opportuno, ma in modo tale da poterle ripescare velocemente, che ognuno


132 sia cosciente dei propri criteri adottati sì da poterli utilizzare. E’ difficile, lo so, è così naturale dare per scontato le premesse, a chi verrebbe in mente che qualcuno per finocchi al gratin intende parassiti al forno?21 A chi verrebbe in mente, quando parliamo ad esempio dell’area del triangolo che chi ci è di fronte potrebbe non associare affatto quel nome a quella figura? Si dà sempre per scontato che dietro l’uso di termini comuni vi siano significati comuni ma non è così: questa è la babele del linguaggio. Nel dislessico questo fenomeno a volte è portato all’estremo, persino i significati più banali possono non essere quelli di uso comune, ma quando passiamo a termini di livello d’astrazione superiore quali verità, libertà, amore, giustizia ecc., le cose si complicano per tutti. Si utilizzano gli stessi termini certi di riferirsi alla medesima cosa e invece si fa riferimento ad esperienze ben diverse, è risaputo che la percezione è una sorta di ricostruzione che si basa sulle conoscenze pregresse e quindi legate alla storia personale di ciascuno, è questo che porta a paradossi del tipo: - Dottore, mio marito 18

Cit. pag 12


133 non mi ama più, è un mese che non mi picchia! - o al paradosso contrario: - Per favore amami di meno, anzi, fammi una cortesia, non amarmi affatto. – detto da chi invece ha capito che per l’altro, a causa dei suoi vissuti, amore vuol dire possesso, controllo e forse anche uso di violenza fisica e/o psicologica. Ad ogni buon conto io ero soltanto una furba, poco male, anzi a dire il vero, tanto male nel cuore, tant’è che ricordo ancora bene quelle parole, ma io ero tosta, almeno in apparenza, pensate che il giudizio con cui sono uscita dalla scuola elementare diceva tra l’altro così: - Bambina ribelle che non ha paura di niente e di nessuno. -. Lei, Laura, invece no, tenera, affabile, di un’ingenuità disarmante, come difenderla da tutto questo? Col tempo le sue difficoltà scolastiche diventavano sempre più evidenti, perlomeno a me, non faceva i compiti a casa con me, ma con una cugina più grande di lei di una ventina d’anni, una santa, l’ha seguita con amore e pazienza, tutti i giorni, fino al primo liceo (negli ultimi anni Laura se ne vergognava e, pur non volendo fare a meno di lei, la teneva nascosta


134 agli amici), ma io da lontano seguivo attentamente i suoi progressi e non ce n’erano. Imparava a memoria i brevi brani che le davano da leggere, così che per un po’ le maestre non s’accorsero delle sue difficoltà e poi un giorno, forse dopo le vacanze di Natale del suo primo anno di scuola, tornata a casa mi disse che le avevano fatto leggere in classe qualcosa che non aveva già letto a casa: - Non mi riusciva, mamma, ho cominciato a sudare sotto il naso…-. Non avevo bisogno di altro, la sua ansia di riuscire e la sua frustrazione davanti alla difficoltà per me parlavano chiaro. Amava i libri, almeno quanto me, gliene ho sempre regalato di bellissimi quand’era piccolina, ogni volta che tornavo da Roma gliene portavo di tutti i tipi, di stoffa, interattivi e così via, sempre con una dedica per lei, amava glieli leggessi e ogni sera lo facevo, non solo quelli di Gardner, ovviamente, e adesso, giunta in prima, cominciava a non cercarli, anche se amava ancora tanto che la sera glieli leggessi. Anche se era presto per una diagnosi, la mandai a fare musicoterapia così che apprendesse il ritmo, imparasse a sillabare e a


135 scandire le parole mentre personalmente cominciai ad occuparmi della sua lettura, partendo dal presupposto che il pensiero faticasse ancora a sganciarsi dalla sua matrice esperienziale, corporea, presi a tradurle le pagine in quello che da piccola chiamavo, giocando con le amiche l’alfabeto muto (solo da grande ho capito che i non udenti non utilizzavano certo questo per comunicare). Quei segni fatti con le mani, sentiti nel corpo, facevano effetto. Imparò a leggerli e per me fu una conquista, non erano segni su un foglio, è vero, ma era comunque un codice convenzionale e lei aveva imparato a tradurlo! Potete immaginare il tempo che impiegavamo per leggere una paginetta ma per noi era un gioco che facevamo a parte, i compiti continuava a farli con Teresa. Cercai di dirlo alle maestre, ricordo ancora quella dell’area antropologica rispondermi con affetto e in totale buona fede: - Ma che dici? Laura è così intelligente! -. Punta sul vivo le risposi che non stavo certo dicendo che mia figlia fosse scema, solo dislessica! Ma dieci anni fa la dislessia era ancora un fenomeno poco conosciuto nel mondo


136 della scuola, lacuna ancora oggi purtroppo molto diffusa, per questo faccio parte dell’AID e per questo curo corsi di formazione nelle scuole: per tutti quelli come me, per tutti quelli come mia figlia, che però non hanno la fortuna di avere una mamma dislessica e psicologa. Col passare del tempo le sue difficoltà sono diventate evidenti anche nella scrittura, Laura era anche disortografica, i suoi quaderni un caos, come si può vedere dalle immagini che seguono. Cominciammo pazientemente a scrivere mandala, musica di sottofondo, grande attenzione alla respirazione, ma la strada era in salita, il disturbo di Laura era piuttosto severo, alla fine della seconda elementare le somministrai la batteria diagnostica standard e, seppure ci lavoravo già da un paio di anni, le sue prestazioni nella lettoscrittura erano sconfortanti. Non mi sono mai persa d’animo, lei ci sarebbe riuscita come c’ero riuscita io, non ne ho mai avuto dubbi ma le difficoltà che incontrava mi stringevano il cuore. Un giorno, tornata da scuola, mi piantò i suoi grandi occhi in faccia chiedendomi: - Mamma,


137 perché non ho una testa come gli altri? -. Le lacrime le velavano lo sguardo. - La tua è più bella, amore mio, devi solo imparare come usarla. -. Le lacrime mi velavano lo sguardo. Potete immaginare cosa prova una madre nel sentire queste parole? Io provavo di più, il suo dolore toccava le note profonde del mio, quello ingoiato tante volte dietro un atteggiamento di sfida, quello che non ho osato condividere mai con nessuno. E già, io da piccola piangevo poco o nulla, mia madre ricorda sempre con una punta di non so bene cosa, forse orgoglio, lei, una roccia, solida, volitiva, efficiente ed efficace (per citare due termini oggi tanto in voga) non poteva in fondo che approvare il mio atteggiamento di sfida, il mio non lamentarmi mai, il mio dire, quando proprio non riuscivo a ricacciare indietro le lacrime mentre a volte le buscavo:“Tanto avevo voglia di piangere”! Grazie a Dio a nessuno è venuto in mente di piegarmi in quella sorta di braccio di ferro che molti adulti, si fa per dire, spesso ingaggiano con i ragazzini che mostrano un atteggiamento oppositivo sotto l’egida del famoso


138 “mi spezzo ma non mi piego”, perché io, dentro, spezzata lo ero già. Ad un occhio esperto forse non sarebbe sfuggito, la mia prolungata enuresi notturna, il mio succhiare il pollice sino a dover ricorrere al gesso, le mie episodiche crisi d’asma in fondo ne erano la prova. Così, non ho consentito per lungo tempo alle mie figlie di piangere davanti a me, io con loro sempre così paziente, amorevole, io che non le ho mai picchiate (mai neanche uno scappellotto) io che ho sempre evitato che piangessero con un atteggiamento di solerte cura e comprensione, tenendole sempre in braccio da piccole eccetera, in realtà non avrei saputo contenere le loro lacrime. L’ho capito negli anni, io che se proprio dovevano piangere, capita sempre nella vita, le allontanavo nelle loro stanze, in realtà non potevo contattare quel pianto, s’incontrava con il mio, ingoiato negli anni non riconosciuto ma ben vivo e presente dentro, da qualche parte. Nel lungo percorso per divenire terapeuta l’ho incontrato, l’ho cacciato fuori, mi sono consentita di esprimerlo ed ora finalmente posso consentire agli altri di fare la


139 stessa cosa davanti a me, ora posso confrontarmi con l’altrui dolore senza piombare nel mio. Si creò una sorta di complicità tra dislessici, cominciai a spiegarle cos’era, quanto io lo fossi o lo fossi stata, non so, proprio come lei, come insieme ne saremmo uscite. Cominciai a scrivere articoli sui giornali, a dire ai quattro venti che ero dislessica senza temere alcun giudizio, quello che non avevo mai avuto il coraggio di fare per me, l’ho fatto per lei. Era fiera di me, lo sentivo. Credo che questo l’abbia aiutata più d’ogni altra cosa, la consapevolezza che la dislessia non è qualcosa di cui vergognarsi ma solo un modo diverso di guardare le cose ma sul serio, non detto solo così, in modo consolatorio, tanto per dire che belle manine... Sentendo realmente che dietro c’è un mondo, vivendolo in tutta la sua bellezza e contraddittorietà, nutrendosi di esso senza abdicarlo mai pur nello sforzo di adeguarsi alla norma, di arricchirsi anche di essa perché, sia ben chiaro, a questa dobbiamo molto di ciò che abbiamo raggiunto: la parola scritta ci ha aperto un universo ed i libri sono fra le cose che io amo


140 di più. Resta essenziale che la dislessia venga individuata precocemente così da poter operare strategie mirate, tese ad aiutare quei bambini che hanno un diverso modo di organizzare gli input in ingresso, a poter, in un’età in cui il cervello è estremamente plastico, utilizzare codici convenzionali, socialmente condivisi, quali la scrittura e quindi la lettura, perché è chiaro, che sebbene quei segni sul foglio, quelle sequenze di suoni non hanno oggettivamente molto a che fare con gli oggetti che connotano (sfido chiunque a sfamarsi con una grossa scritta PANINO), restano pur sempre sistemi convenzionali codificati per comunicare, indispensabili in un mondo costruito intorno ad essi. La strada è stata lunga e difficile, ogni colloquio con i docenti una mortificazione, quasi sempre un muro di fronte, un non capire, uno scambiare per indolenza e scarso interesse le sue difficoltà e, per omertosa complicità, il mio sostenere che ce la metteva tutta, che studiava tanto, che le piaceva, proprio come ritengo sia nella natura di tutti i bambini. Come far capire loro


141 che, come sostiene Goleman nel suo Intelligenza emotiva22:“La corteccia prefrontale è la regione del cervello in cui ha sede la memoria di lavoro e, poiché vi sono circuiti che la connettono al sistema limbico o dell’emotività, i segnali di forti emozioni possono creare rumori di sottofondo tali da sabotare la capacità del lobo prefrontale di conservare la memoria di lavoro.” Come far capire loro quindi che una continua sofferenza psicologica, alla quale spesso gli alunni vengono sottoposti dagli stessi insegnanti, come non bastasse quella che la storia personale riserva purtroppo a tutti, chi più chi meno, può causare delle carenze nelle capacità intellettive dei bambini compromettendone l’apprendimento? Come poterlo dire se, l’aver scritto cose come queste, utilizzando un linguaggio un po’ più tecnico (pensavo di interloquire con gente del mestiere) mi è costato un bel “riflessioni non pertinenti su argomenti medici”, frase estrapolata testualmente dal giudizio negativo espresso sul mio saggio della prova scritta per dirigenti scolastici, la cui traccia, per altro, esordiva affermando: “I temi 18

D. Goleman Intelligenza emotiva. Rizzoli 1996


142 posti dall’azione di insegnamento e da quella di apprendimento sollevano numerose questioni interpretative”… Ciò che più ho temuto è che la scuola facesse disamorare per sempre mia figlia allo studio, al conoscere, ragione prima della mia vita e non solo certo della mia. Oggi frequenta il terzo anno dell’altro liceo scientifico, la sua lettura ad alta voce è forse ancora un po’ aprosodica ma non più di quella di tanti suoi compagni, di contro quella silenziosa è divenuta spedita e veloce, scrive solo in stampato maiuscolo ma con caratteri chiari ed ordinati e soprattutto, cosa di cui vado fiera, legge in media tre libri al mese! Non so bene come sia successo ma è successo. Le avevo regalato la trilogia de Il Signore degli anelli, come al solito tornando da Roma, come al solito con una dedica, come al solito ancora spesso ero io la sera a leggere per lei. Quel libro era speciale per noi, gliene avevo parlato tante volte, lo avevo letto da ragazzina, tutto d’un fiato. Tornato alla ribalta dopo tanti anni, ne avevano fatto un film, tre episodi che ci siamo


143 viste insieme e poi ha incominciato a leggerlo da sola. Io la spiavo trattenendo il respiro, la notte, la luce fino a tardi nella sua stanza, di certo non le dicevo di spegnerla, che importava se il giorno dopo avrebbe dormito tra i banchi?! E cosÏ il pomeriggio, in bagno, ovunque, non mi importava se trascurava il resto, non mi importava piÚ nulla, lei leggeva! So che su questa parte sono andata un po’ veloce ma capite, tutto il resto appartiene alla nostra storia, una storia d’amore che come tale va custodita solo nei nostri cuori.

fig. 1


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fig. 2

fig. 3


145

fig. 4


146 Credo che queste immagini parlino da sole, la prima (fig.1) è un disegno di mia figlia all’età di sette anni, quando lo vidi, il suo isolamento dietro le sbarre di un’impossibilità di utilizzare un codice di comunicazione comune e la sua richiesta di aiuto mi strinsero il cuore ma non scappai anche se avrei voluto... la seconda (fig. 2), una pagina del suo quaderno della terza elementare, mentre quelle a seguire (fig. 3 e 4) sono un disegno da lei eseguito in terza media ed il commento del L’infinito di Giacomo Leopardi eseguito in seconda liceo, così, solo perchè vediate cosa può voler dire, da dove siamo partite e dove oggi siamo arrivate...




149

Capitolo VIII Così ora vorrei passare alla mia esperienza della dislessia come terapeuta, ho avuto molti casi di bambini e adulti dislessici e non voglio certo tediarvi citandoli tutti, ho pensato pertanto di riportarvene solo un paio: la registrazione fedele di una seduta con una paziente adulta,una pittrice dislessica in analisi non certo per questo e la trascrizione di un primo colloquio con una bimba accompagnata invece al mio studio dalla mamma proprio perchè dislessica. Primo caso, paziente adulta: “Dio mio, il mio corpo, ti prego, non darmi fastidio, non intralciare il mio percorso sin che non saremo giunti”. “Giunti dove”? “Non so, finché non saremo stanchi e allora, insieme decideremo di andarcene.” “Andarcene chi”? “Io e il mio corpo”. “Forse che tu non sei il tuo corpo”? “Non so, sinora lui mi ha ubbidito, la mia schiena,


150 a dire degli ortopedici è a pezzi, è un miracolo che mi sostenga, ma mi sostiene e alla grande. Come potrei rinunciare a nuotare, a fare il delfino, ad ergere il busto sui flutti, grazie allo scatto dei reni e alla potenza delle braccia mentre il capo già si immerge di nuovo in quelle acque a me così care e bianchi spruzzi si alzano al cielo? Lo sai che senza il mare morirei, quando arriva Aprile e, come quest’anno, ancora la neve cade inesorabile, cade da un cielo bianco carico d’altra neve, che nasconde all’anima prima ancora che allo sguardo il sole, vorrei gridare! Se accolgo con piacere i primi freddi ad Ottobre, se il mio cuore è disposto a lasciarsi cullare dalla malinconia delle piogge autunnali, se sa rallegrarsi delle nevi invernali, in primavera ha bisogno del sole, del vento tiepido che porta con sé l’odore del mare....” “Dunque il tuo corpo deve obbedirti.....” “Si, come gli occhi, i miei occhi, ancora alla mia età leggo senza occhiali”. Un caso su un milione ha detto l’oculista, come potevo spiegargli che non possono tradirmi? Quando il mio sguardo converge sulla tela fatico un pò più di prima, ma


151 poi va, va per ore mentre golosa mi nutro dei miei adorati colori. Non so bene se guardo solo con gli occhi, non sono sicura, so che ti sembrerà folle, ma a volte mi pare di vedere con tutta me stessa, a volte vedo così lontano, particolari così minuti che so non essere possibile ad occhio nudo, eppure li vedo, eppure più volte, decisa a verificare, ho raggiunto quel punto lontano ed era proprio come mi appariva a centinaia di metri di distanza. Tu pensi davvero che gli amanuensi con le loro miniature vedessero solo con gli occhi e non fosse invece il loro un esercizio definito spirituale che metteva in gioco ben altre doti di concentrazione, di focalizzazione? Non sai a quante visite ho sottoposto la mia vista per capire se quel bagliore che vedevo al tramonto, tutt’intorno ai pini marini, fosse lo scherzo di qualche disturbo visivo e, al solito responso- 11/decimi- mi convincevo che era stanchezza, così quella sera, quando potevo vedere sul palco quello stesso bagliore sprigionarsi dal pianista e dal suo piano ad ogni suo tocco sulla tastiera...stanchezza, fantasia, ad ogni buon conto i miei occhi non devono tradirmi,


152 non sopporterei di correggere con lenti ciò che vedo, perché, ormai ne sono certa, non si vede solo con gli occhi ma questo che dico qui, su questo lettino, non l’ho detto e non lo dirò mai a nessuno, lo negherò agli altri come per anni l’ho negato a me stessa. Non ho più bisogno di conferme,vedo ciò che vedo. Quando al fine saremo stanchi, tutt’insieme smetteremo di vedere, di sentire e chiuderemo gli occhi a questo mondo”. Secondo caso, bambina con DSA: “Tutti insieme chi”? “Io, tutti i pezzi di me”. Se tutto ciò un giorno dovesse sfociare nella scoperta che so io, di un nuovo sistema di recupero della capacità visiva, le esperienze su esposte sarebbero sicuramente opera di genialità, ora solo bizzarre fantasie, in realtà nessuno ne verrà mai a conoscenza perchè l’autrice si vedrà bene dal condividerle con alcuno. Arriva questa bimbetta al mio studio, accompagnata dalla mamma, spaurita almeno quanto lei, la storia: otto anni, dislessica, con una familiarità al disturbo (anche la cuginetta lo


153 è) riferiscono inoltre un problema di intolleranza alimentare piuttosto severo che la costringe ad una dieta particolare. Mentre mi parlano, socchiudo un attimo gli occhi “Ehi, lassù, nient’altro? Non volevamo dargliene qualche altra a questa qui?” Già, capite cosa vuol dire a quell’età? Provate ad immaginare cosa comporti l’avere difficoltà scolastiche per le quali tutti i tuoi compagni ti prendono in giro, sentirsi isolata, leggere la noia e l’impazienza nei loro occhi quando tocca a te e, come se non bastasse, anche l’impossibilità di dividere con loro la convivialità, il momento della pausa, delle brioches, di pizze e panini! Diversa, sempre e comunque, leggere il disappunto, lo sconforto e l’impotenza negli occhi dei tuoi cari che ami e che ti amano: ecco quelle finestre chiudersi sul mondo, lo sguardo volgersi dentro in quell’universo fantastico, in quel mondo alla rovescia che si allontana sempre più dall’altro, il mondo delle relazioni, di quel confronto così doloroso per noi. “Il bambino dislessico ha una grande fantasia, il suo mondo interiore è ricco e complesso”: bella


154 forza, è l’unico in cui può rifugiarsi! Continua il racconto, chiedo alla bimba se ha degli amici nella sua classe, mi risponde di si, tutti lo sono. Tutti? Ecco delinearsi sempre più chiaramente quello slittamento tra la realtà oggettiva e quella percepita o meglio, desiderata. Bene, siamo all’inizio delle vacanze estive e visto che mi hanno riportato (mamma e bambina continuano a parlare insieme) che frequenterà il centro estivo, le chiedo se vi andrà con le sue amiche di scuola. Secca la risposta della mamma mi giunge come un pugno nello stomaco: “Mi ha costretto a cercarne uno molto distante dove non vi fosse nessuno dei suoi compagni. “Dio mio, come dirle, come farle capire che gli amici sono quelli con cui si desidera stare e non certo quelli da cui si vuole fuggire?! Non è più solo una a per una e, non è solo saltare una sillaba, qui si tratta di nemici per amici, una confusione che potrebbe colorare tutte le sue relazioni future, non so se riesco ad essere chiara... Forte il desiderio di stringerla al petto, di dirle: “Lascia che il tuo respiro divenga più profondo,


155 lascia che scenda giù, fin nella pancia, lo so che c’è lì ma non temere si incontrerà con il mio e respireremo insieme come un’onda del mare, io sarò lì quando incontreremo il tuo dolore. Abbandonati tra le mie braccia, lasciati finalmente andare, qui sei al sicuro, so dove sei, so dove sei, piccola mia, è un posto che ho già visitato…Lascia andare quel pianto che ti si strozza in gola, urla quel perché, perché proprio a me? che ogni giorno ingoi amaramente fingendo un sorriso, fingendo di capire, fingendo che tutto vada bene, fingendo che ti siano amici quelli da cui scappi, fingendo proprio come per anni ho fatto anch’io. Apri le tue finestre, insieme cercheremo di mettere un pò d’ordine lì dentro e chissà, con un pò di fortuna, gli amici li troveremo fuori, quelli veri, quelli cui aprire il nostro cuore senza doverceli aggiustare dentro per prenderci poi dei pali così sonori che ci spingeranno sempre più dentro.



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Capitolo IX Conclusioni Così, quando ascolto divertita Giagiù, Jaya, un nome che è un inno di gioia, un alleluia che in indi vuol dire vittoria, piccola, paffuta e deliziosa che già parlotta aggirandosi per casa a solo un anno e mezzo, mostrando un’intelligenza vivacissima ed una loquela inusuale per la sua piccola età, dire alcune cose invertendo le sillabe (copo per poco, cogio per gioco e così via) non posso fare a


158 meno di pensare chissà?... E’ vero è piccolissima, ma ha una nonna ed una zia dislessiche ed un papà, già anche lui, un filosofo dislessico…Non mi spaventa, mi auguro che non sia dislessica, ma se anche lo fosse il terreno è pronto, è chiaro che già piccolissima saranno predisposti per lei una serie di giochi, una serie di tecniche che, se sono certa possano essere di grande aiuto ad un bambino dislessico, ciò nondimeno lo sarebbero altrettanto per qualunque bambino. Se tutto ciò dovesse evitare che si manifestino particolari difficoltà, ben venga. Non importa certo evidenziare una dislessia per poi essere capaci di compensarla adeguatamente, non è un plauso o un riconoscimento quello a cui si dovrebbe mirare, ma alla serenità e ad una buona qualità della vita dei nostri bambini, tutti, indistintamente. In fondo resta sempre valido l’adagio per cui prevenire è molto meglio che curare, adagio forse poco valido solo per le leggi di mercato ovviamente e questo, purtroppo, non è poco. Se solo si fosse un po’ lungimiranti, se solo si riuscisse a capire che il benessere altrui non può che tradursi nel nostro


159 stesso benessere saremmo ben felici di spendere qualcosa in più per aiutare chi ne ha bisogno. Se si pensa che nel nostro paese la dislessia è un fenomeno in aumento e questo, secondo me, la dice lunga sul metodo di insegnamento in adozione nelle nostre scuole, se si guarda un po’ alle percentuali che parlano di una frequenza molto alta di persone con una storia di dislessia alle spalle (ricostruita più che riconosciuta) fra quelle con un’attuale diagnosi di depressione, se si pensa alle stime fatte in Inghilterra (dove per questioni intrinseche alla lingua stessa la dislessia è molto diffusa) che parlano della presenza di quasi un 50% di dislessici fra i detenuti delle loro carceri, il costo sociale di questo disturbo diviene evidente. Dopo quanto scritto mi pare comprensibile a tutti che una dislessia non riconosciuta è soprattutto non capita nei suoi risvolti più intimi, comporti necessariamente una scarsa stima di sé, un dolore sordo e profondo, una sorta di risentimento che, a seconda della storia personale di chi ne è portatore, facilmente sfocerà in forme di disadattamento, di depressione o in comportamenti oppositivi


160 che possono cronicizzarsi in condotte antisociali. Mi spiace chiudere questo libro con un tono un po’ pesante, così diverso da quello con cui ho iniziato, ma voi capite bene che se si può ridere di sé e delle proprie tragedie, giammai lo si può fare con quelle degli altri. Una cosa voglio però aggiungere, il mio deficit di automatizzazione che tante noie mi ha comportato, dalle tabelline alle strade del mondo, è anche il regalo più bello che mi sia stato fatto. Nulla per me va in automatico, nulla è mai scontato e se devo pensare ogni volta se davvero due per due è uguale a quattro, anche il colore del cielo terso, i campi di grano e papaveri, il piacere del mio letto ogni sera, il calore del sole, il rumore del mare, il sapore del pane appena sfornato, il profumo dei fiori, ogni volta per me sono nuovi, ogni volta mi sorprendono e mi inondano il cuore, non importa quello che è stato ieri, ogni mattina è per me la prima, io non ho mai smesso di sognare....”finché il vento soffia, l’erba cresce, il cielo è blu...”




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Appendice Io Dislessica, Io nuova per il mondo… Innanzi tutto un grazie da parte mia ad Antonella che mi ha letto nel pensiero e mi ha reso per un attimo libera da quella solitudine che mi ha accompagnato dall’infanzia sino all’oggi e che sicuramente è stata alimentata da questa diversità assolutamente incompresa da tutti, tranne che da mia madre… Ricordo quel pomeriggio d’inverno a Potenza, avevo 10 anni, seguivo la prima media, ero in soggiorno in quella casa meravigliosa con un bellissimo giardino che ospitava d’estate e d’inverno possibilità di gioco infinite, dal pattinaggio all’ingegneria tipica dell’Alaska produttrice d’igloo con l’aiuto del mio dolcissimo padre…ma soprattutto ospitava tantissimi amici… non avevo mai voglia di trascorrere il mio tempo da sola e mia sorella così diversa da me, così riflessiva, così autonoma, così capace naturalmente non mi bastava, c’erano Marika, Katia, Giuseppe,


164 Alessandro, Teresa, Davide e Roberto e poi crescendo Andrea, Alessia, Annabella, Cristiano… insomma c’era una festa quel pomeriggio d’inverno, un via vai assurdo, una felicità dalla quale la mia dislessia mi allontanava ogni minuto di più, rendendomi incomprensibile a me stessa… stavo studiando Storia, erano 15 righe da leggere ed imparare, non riuscivo a comprenderle e forse era una delle poche volte che mia madre non era lì con me, aveva deciso che quella volta ce l’avrei fatta da sola a leggere e sintetizzare per giungere ad una comprensione autonoma…Non ricordavo nulla, forse questa tortura sarà durata un’ora, ma per me sono ancora lì…seduta, mentre tutti gli altri giocano…sono ancora lì adesso. Questo è quello che ho vissuto nel mio essere dislessica e che ancora vivo: una percezione del tempo totalmente diversa da quella degli altri, la mia memoria è capace di farmi rivivere cose con un’intensità tale da confondermi, il mio corpo si modifica continuamente, sono in bilico tra l’essere grande e l’essere piccola, ma quello che più mi ha sempre sconvolta è che nel mio passato


165 c’è sempre stato anche il futuro; mi sono sempre guardata dall’esterno e spesso sono stata grande, adulta con quell’assennatezza tipica di una donna con un bagaglio d’esperienza infinita e con una sicurezza capace di rendermi guida per quegli amici allora e per i colleghi adesso… Ancora un aneddoto che mi lega alla memoria di Antonella. La mia maestra delle elementari in quella scuola a tempo pieno, la scuola che ho sempre odiato ma che so essere stata la scelta più giusta per me, un insegnate per ogni materia di studio, discipline dolcissime come il teatro, la musica, le lingue straniere…l’arte, la scienza… sento fortissima la voce di quella donna ignorante, quando, entrata nell’aula un giorno un’altra donna per chiedere la donazione di quelle cose che noi non usavamo più, aveva affermato che tutti avrebbero donato qualcosa tranne me, persona, bambina ingenerosa…Mariangela, grande amica, che ha vissuto con me quelle elementari e poi il Liceo Classico, seguendo così tutta la mia evoluzione, ancora ricorda e conserva i disegni che io facevo per lei…per le ore di Arte…


166 Ingenerosa? Quei colori, che quella donnainsegnante ignorante indicava quando parlava della mia ingenerosità, erano tutto per me, erano il modo per essere uguale agli altri… una ferita inguaribile che mi ha permesso comunque di essere una persona altruista, generosa, quale era la mia natura…ma con dentro ancora più conflitti. Ancora un aneddoto. Quando ormai cominciava diventare chiaro che la mia difficoltà di lettura dipendeva dalla dislessia, mia madre mi portò da un neurologo. Il dottore mi porse una pagina di giornale, ero abbastanza piccola e non ricordo bene l’episodio, forse l’ho rimosso per quello che mi costò in termini di tensione nervosa. Posso raccontarlo attraverso il ricordo di mia madre, tra il preoccupato e il divertito: lessi il passo che il neurologo mi veniva proposto con una disinvoltura che provocò un suo giudizio non proprio lusinghiero nei confronti di mia madre. Lei mi sorrise, capì che ce l’avrei fatta ad uscire dal mio incubo, con la caparbietà e la tenacia che non mi hanno mai abbandonato. Intriso di un’irrefrenabile voglia di diventare


167 sempre più forte e sempre più capace di conoscere e di comunicare con gli “altri”…di entrare dentro gli altri…il mio percorso di studi mi ha portato a diplomarmi presso il Liceo Classico della mia città, poi a studiare a Bologna, prima Giurisprudenza, con il desiderio di rimettere ordine, di farmi giustizia e con l’orgoglio di essere una studentessa capace di regalarsi e di regalare tante soddisfazioni, e poi finalmente L’Accademia di Belle Arti che mi ha restituito la vita, l’autonomia, la felicità…ma sempre identica la tristezza… Chissà perché mentre scrivo, ancora oggi, non so quale lettera è giusta prima della “p”, la “m” o la “n”…difficoltà superabile con una madre come la mia, che mi ha guidato e continua a guidarmi con una discrezione che credo sia stata e sia la mia salvezza. Il mio metodo creativo L’essere mille persone diverse, il vivere sempre nuove identità, voler approfondire la conoscenza di tutto il sistema dell’arte in ogni


168 minimo particolare, assumendone a turno i ruoli, l’interpretazione di questi ruoli sempre diversi, l’idea di giocarci confondendo…. L’essere soddisfatta solo nel momento in cui mi si riconosce come altro da me, l’essere io e gli altri, il desiderio di raccontare la mia storia intima attraverso racconti prima sintetizzati in fotografie, come in ”Memory of evidence”, riflessione sulla memoria intesa come marchio sempre manifesto agli altri; desiderio di essere scoperta o desiderio di sovvertire un mondo in cui è facile giudicare una persona, leggendone solo un’azione e solo una parte, quella più debole; fotografie coadiuvate da audio, dove un dialogo o un breve racconto svelano, avvicinano l’audience al mio intimo: “I trying to remember but memory is frozen… they told me when I woke up what had done….” Poi le performance ed il desiderio di contaminare, come con “Photovirus”, un virus immaginario che avrebbe cancellato la memoria del contagiato ad ogni futuro scatto fotografico, quindi conflitto tra il desiderio tipico dell’uso del mezzo fotografico di contenere un pensiero e l’idea


169 di perderlo… Sempre concentrata sulla tematica identitaria, sullo scambio. Di qui il desiderio, sin dal ‘99, di trasferire il privato nel pubblico e viceversa, come l’ultima installazione dell’Ottobre 2006, “Âme soeur”, Private Conversation II, all’interno della quale il mio vissuto si fonde con quello di altre sette persone, una proiezione su un palazzo, accompagnata da un dialogo intimissimo: ”Sur le seuil de la nouvelle maison, l’idée de vivre ensemble et de mourir ensemble…” Il non sopportare di creare in solitudine, l’avere bisogno di un coinvolgimento forte del pubblico non nella semplice accezione di fruitore, ma di attore, come in “Deframmentazione”, concepita anch’essa come intervento di arte pubblica, in esso c’è la richiesta diretta di percorrere insieme, l’artista e il fruitore, almeno per un attimo quella capacità di comprendere il mondo che è l’atto del guardare, si, Antonella, avanti e indietro, proprio quella capacità di vedere sempre ogni cosa…ogni persona sempre per la prima volta. Elisa Laraia



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Capitolo X Ristampa 2013 Dopo la prima edizione di questo libro, mi è stato chiesto di raccontarmi un po’ di più, di parlare più estesamente dei mie trascorsi scolastici e così mi sono accorta che in realtà non l’ho fatto molto e mi sono resa conto anche del perché. Ho voluto che questo libro avesse un taglio umoristico e i miei studi, almeno sino alla maturità classica, di simpatico, nei miei ricordi, hanno ben poco. Ultimamente ho avuto modo di leggere ‘Diario di scuola ’ di Daniel Pennac, mi pareva parlasse di me, è stato un piacere leggerlo così come mi piacerebbe tanto conoscerne l’autore, da molto l’impressione di qualcuno che in qualche modo è stato ‘baciato dalla dislessia ‘,chissà…? Già, anch’io ero un’asina, ‘non registravo ’ e le lezioni che studiavo la sera, svanivano nella notte ma nessuno doveva accorgersene, io ero ‘furba ‘ e presi a studiare la mattina, prima di andare a scuola.


172 Mi svegliavo alle 4 o alle 5 e studiavo, studiavo, arrivata a scuola ‘vomitavo ‘tutto al prof. di turno e poi potevo allegramente dimenticare sino alla prova successiva, a volte studiavo tutta la notte, pensate che ‘furba ‘! Sapete cosa ancora dice mia madre di me? O Antonella usciva tutto il pomeriggio, non apriva un libro, poi la mattina… se non fosse stato per la sua intelligenza! Pensate davvero che a sedici anni possa essere piacevole alzarsi alle 4 ? Beh, per me non lo era affatto ma facevo di necessità virtù e inoltre doveva pure sembrare un comportamento da ‘scapocchione ‘,il modo di fare cioè di chi mette la scuola dietro a tutti i suoi altri interessi altrimenti c’era il rischio di sembrar scemi, prima di tutto ai propri occhi… A ben pensarci, anche questo mi ha lasciato un regalo, ancora oggi le ore che amo di più per scrivere, sono quelle della notte, quando il mondo dorme e non vi è alcun rumore a traccia dell’umana attività. Sino all’alba, prima che questa riprenda il suo ritmo, quasi in tanto silenzio mi fosse più facile ascoltare le parole del mio cuore o della


173 mia amata testa dys! Il fatto è che, come sostiene Pennac, il cappello di asino si porta più facilmente a posteriori, diviene addirittura un’onorificenza che in società ci si attribuisce spesso, ti permette di distinguerti da coloro il cui unico merito è stato quello di seguire i sentieri tracciati del sapere( Daniel Pennac ‘diario di scuola ’ Feltrinelli editori). Ma i veri asini, continua l’autore, sono quelli in cui egli coglie ancora una lieve eco di sofferenza: la loro infanzia non è stata facile e ricordarla non lo è di più. E’ così, in realtà io non avrei mai più parlato delle mie difficoltà scolastiche di allora, ho collezionato ben tre lauree e varie specializzazioni per convincermi che valevo qualcosa ma nel fondo resta sempre quella sottile sensazione di non essere mai veramente all’altezza. Quel terrore di essere sotto i riflettori e che, come allora succedeva durante le interrogazioni, i concetti possano dissolversi nell’impossibilità di ripescare la traccia mestica che faccia riemergere il ricordo di quanto studiato, che tutto diventi una


174 danza di segni e di suoni. No, io non avrei mai parlato del mio essere stata un’asina, anche dopo aver capito, studiando psicologia, che la mia era una forma di dislessia che oltre tutto avevo eroicamente compensato da sola in un’epoca in cui nessuno in Italia sapeva neppure cosa fosse. Capitolo chiuso e basta. Poi ecco, m’arriva una figlia dislessica, la ferita si riapre ancor più dolorosamente, una ferita che diventa più profonda perché ora consapevole di ciò che avrebbe comportato per lei, di cosa avrebbe dovuto affrontare senza che io potessi farci gran che. Ma qualcosa potevo farlo e l’ho fatto, tra l’altro scrivere questo libro, per lei e per tutti i dislessici come lei, sarebbe stata un’ iniezione di fiducia e di stima di sé così carente nei ragazzi e negli adulti dislessici, perché un esempio, anche se piccolo, a volte vale mille parole e così ho riaperto questo capitolo della mia vita e l’ho messo a disposizione di tutti. Volendo proprio scavare nei miei ricordi di


175 scuola, la nota dominante resta la mia “furbizia”, pare che la prima volta che ne feci uso fu nel dispensare il suggerimento rimasto famoso nella storia della mia famiglia come ‘crethina, shtrappa la pagina!’a mia sorella in lacrime per aver preso,lei, abituata ai ‘brava’ e ‘bravissima’, un ‘sufficiente’ (giudizio a cui peraltro un paio di anni dopo io avrei anelato) che non voleva mio padre vedesse. Avevo appena quattro anni, parlavo con la zeppola in bocca ma già mi era ben chiaro come avrei risolto i problemi scolastici che una parte profonda di me sapeva che avrei incontrato ! Così molta della mia attenzione è sempre stata concentrata su chi mi era di fronte, dovevo necessariamente capire che diavolo volesse nella sua vita in modo da non permettergli che la mia divenisse un vero e proprio incubo a causa sua, non so se è chiaro. Ogni relazione che incominciamo parte con un inconsapevole prendere le misure. Una sorta di danza che nell’innamoramento raggiunge l’apoteosi ma che avviene comunque in qualsiasi


176 relazione. Pesiamo l’altro, lui pesa noi, il nostro incedere, la nostra postura (chiaro riflesso del nostro modo di essere nel mondo), il nostro abbigliamento (chiaro riflesso del nostro status sociale e del nostro modo di pensare) e così via. Poi si passa alle prime interazioni, per saggiare le varie reazioni (come si risponde a cosa) per sondare i bisogni di ciascuno e quindi poter procedere ad un relazione che in fondo già si basa su di un patto implicito (io ti darò x, tu mi darai y). E’ fondamentale in questa prima fase che i nostri bisogni non ci ottenebrino la mente. Un chiaro esempio di questa sorta di ottundimento di cui possiamo essere vittime è per me una storia che mi sa tanto di leggenda metropolitana ma che Enrica, da sempre amica di mia figlia sa per realmente accaduta e come tale ce l’ha riportata. Mi piace qui citare Enrica perché le voglio molto bene, se avessi avuto un’altra figlia, mi sarebbe piaciuto che fosse stata come lei. Si, perché se avessi avuto altri figli, sono certa che sarebbero


177 state comunque femmine. Lo so, io sono una che fa femmine, (so benissimo che pare dipenda dai maschi, ma resto comunque dalla mia idea rispetto a me stessa) un altro motivo per cui, in altri posti del mondo, sarei stata un “vuoto a perdere”. Un altro motivo per cui mi sento fortunata, essere nata nell’opulento occidente. Io posso interrogarmi ogni giorno su cosa valga veramente la pena di fare invece di interrogarmi ogni giorno su cosa mangiare, mentre le mie figlie possono andarsene in giro fiere e forti delle loro radici. Ma tornando al nostro esempio, pare che una ragazza di Napoli avesse questo bel cucciolo di pitone e avesse preso l’abitudine di dormire la sera con lui. Da un po’ di giorni addirittura la mattina, al suo risveglio, il pitone era lungo disteso accanto a lei, quasi ‘umanizzato’ dal loro grande affetto, non dormiva più acciambellato, ma si distendeva al suo fianco. Detto questo casualmente e molto fortunatamente oserei dire, al veterinario, si


178 sentì rispondere che semplicemente l’animale stava “prendendo le misure”. Voleva rendersi cioè conto di quando, cresciuto abbastanza, sarebbe stato finalmente in grado di mangiarsela! La storia ha dell’incredibile ma io la trovo estremamente efficace nel sottolineare come ognuno di noi legga i comportamenti dell’altro in base ai propri bisogni, alle proprie esperienze e quindi alle proprie aspettative senza curarsi minimamente di guardare realmente chi si ha di fronte, quali siano i suoi bisogni, tra cui potrebbe esserci per l’appunto, il nutrirsi di noi! Tornando alla mia storia scolastica, io ho imparato ben presto a capire cosa realmente voleva da me chi era dall’altra parte della cattedra, cosa si aspettava che facessi, cosa voleva che dicessi e come, cosa in una storia fosse realmente importante per lui, quali fossero le sue paure e così via. Se solo fossi stata così brava in quelle che sarebbero state le mie future relazioni amorose a quest’ora sarei stata una regina di cuori invece che


179 una scrittrice, pazienza, non tutte le ciambelle escono col buco! Comunque, se questa era la mia strategia di fondo, le tecniche che utilizzavo cambiavano e si affinavano con l’età ma l’obbiettivo restava immutato, salvare le penne! Capite cosa vuol dire per un bambino andare a scuola e avere per obbiettivo non l’imparare ma il sopravvivere? Ecco questo era lo spirito con cui tutte le mattine io mi recavo in quel posto, ad essere sincera ben presto si affiancò a questo, una sorta di ‘vantaggio secondario ’, qualcosa che a volte rendeva tutto sommato divertente andare a scuola, il sottile piacere di ‘fregarli’. A me pareva che l’obbiettivo primario dei mie maestri prima e dei miei professori poi, fosse in qualche modo fregare me, non mi pareva infatti che fossero poi così interessati a che io apprendessi altrimenti si sarebbero sforzati un po’ di più perché questo avvenisse. In realtà ben presto mi convinsi che il loro piacere era cogliermi in fallo, interrogazioni trabocchetto, scritti a sorpresa ( è da allora che


180 ho imparato a diffidare di questa parola), verifiche improvvise (altrimenti ci sarebbe stato il rischio che tu andassi bene) e così via. Bene, loro volevano fregare me? Io avrei fregato loro! Il primo anno della mia scuola elementare durante le vacanze di Natale mia madre, che per mia fortuna non ha mai avuto il tempo di studiare con me, casualmente si rese conto che nonostante tutti i ‘bravissima’che collezionavo a scuola, io non sapevo ancora neanche sillabare. Vorrei aprire una parentesi più seria, in realtà in questi casi è una fortuna se non è la mamma ad occuparsi dei compiti del proprio figlio. E’ normale che una mamma ( o un papà ovviamente) vogliano che il proprio figlio sia il migliore, come è ovvio che un bimbo vorrebbe esser solo causa di soddisfazione per i propri cari, così, in situazioni come queste, il ciclo di ansia che si viene ad autoalimentare raggiunge ben presto livelli di guardia insostenibili. Pensate una volta una mia cara amica, persona tra l’altro molto competente, il cui


181 figlio ha un lieve D.S.A., mi confidò che questi, un giorno, dopo aver fatto i compiti con lei, ne uscì talmente stressato da non saper rispondere neppure più il suo stesso nome. Tornando alla nostra storia, come era possibile? Messa alle strette confidai a mia madre che la mattina, le provviste di caramelle e cioccolate che portavo a scuola, finivano nelle tasche della mia compagna di banco la quale, avendo fatto la ‘primina ’ era così veloce da fare prima i suoi compiti in classe e poi i miei. Questo comportò nella mia vita uno dei primi incontri fortunati di cui la mia storia scolastica è stata comunque punteggiata : la signorina Alba. Mia madre la contattò perché durante quelle vacanze mi mettesse alla pari con il resto della mia classe. La signorina Alba non mirava a fregarmi, era veramente interessata al mio apprendimento, non ironizzava sui miei errori, non si stancava mai di ripetermi le stesse, identiche cose, all’infinito, sempre con la stessa pazienza, senza che mai mi sentissi scema. Non so da dove fosse spuntata fuori,


182 un regalo del cielo credo, tonda e paffutella, alta un metro ed ho tanta voglia di crescere, non era ne sposata ne tanto meno fidanzata ma, piuttosto che riversare su di me tutto il suo malcontento, riversava tutto il suo amore. Insomma, con il suo aiuto, che ovviamente si protrasse per tutto il ciclo inferiore e con la mia sempre maggior ‘furbizia’, sopravvissi alle elementari. Il più delle volte le cose che dicevano a scuola mi parevano prive di senso, un po’ non ne avevano molto, un po’, quando l’avevano, io non lo afferravo. Ricordo ancora di una poesia che parlava di quanto il vento invernale fosse dispiaciuto di strappare dai rami le ultime foglie degli alberi e di come, per aver detto alla maestra che se fosse stato vero, dopo la prima, strappata magari accidentalmente, non avrebbe continuato a farlo (d’altronde sapevo bene che quando facevo un dispetto a qualcuno, a prescinder da come poi cercassi di giustificarmi, era proprio nelle mie intenzioni farlo), fui cacciata dalla classe. Bene, imparai innanzitutto che ai maestri non


183 piace essere contraddetti, che quando non sanno cosa rispondere, ti puniscono e, soprattutto, a stare zitta, a intervenire il minimo indispensabile. Questa negli anni si dimostrò una tecnica vincente, non farsi notare, ma mi ci volle un po’ di tempo per perfezionarla. In realtà agli inizi della mia carriera non facevo che, per un motivo o per un altro, essere al centro dell’attenzione. In quarta elementare, ad esempio, mentre mia sorella frequentava la prima media, ebbi una sorta di illuminazione: a scuola mia non si faceva uso di alcun libretto delle giustificazioni come invece avveniva da lei , ciò voleva dire che avrei potuto tranquillamente marinare la scuola senza dover dar conto ad alcuno! Dovetti faticare a lungo perché mia sorella afferrasse il concetto ma si sa, lei era una brava, da sempre, una che è nata brava mica un’asina scaltra e imbrogliona come la sottoscritta. Bene, decisi che avrei marinato la scuola, lo feci un giorno che i miei erano fuori per lavoro, a Napoli, lo ricordo ancora benissimo, questo fu


184 infatti la mia fortuna. Munita di dolciumi di ogni genere mi avviai verso scuola e lì confidai il mio piano ad un paio di amiche, queste decisero di associarsi alla mia azione criminosa. Purtroppo Marianna, una di loro, era anche la figlia di un maestro della nostra stessa scuola così gli fu prontamente chiesto cosa mai avesse quella mattina, perché non era in classe, il resto ve lo lascio immaginare. A nessuno venne in mente di guardare nel cortile sotto la scuola dove giocavamo beate, fu allertata la polizia, ci cercarono al fiume (di cui all’epoca ignoravo persino l’esistenza) ecc. Alla mezza qualcuno si accorse di noi, fummo ricondotte a scuola dove c’erano i genitori delle mie amiche, furibondi per la tensione, che le attendevano… Fortunatamente non c’era nessuno ad attendere me, i miei si risparmiarono tutta l’ansia di quei momenti (i cellulari ancora non esistevano) così quando alcuni giorni dopo furono informati dell’accaduto, lo presero proprio per ciò che era stato, un ragazzata.


185 Ovviamente questo non fece che peggiorare la mia situazione, io, il vero cervello di quella sorta di attentato, restai per giunta l’unica impunita! Con il passare del tempo però imparai che queste cose si pagano care, che per scappottarmela in quell’ambiente dovevo diventare trasparente, nessuno doveva accorgersi di me. Imparai negli anni a non emergere mai, così giunta finalmente al liceo, ero divenuta veramente perfetta. Una prof. un giorno, nel riprendermi perché avevo chiesto qualcosa ad un compagno, mi disse che non le dava fastidio che io parlassi, tanto la mia voce non era udibile, ma qualcuno era comunque chiamato a rispondermi ed era appunto la voce di questi ad importunarla. La mia calligrafia era divenuta minuscola, così la mia massa corporea, è vero, ero alta, ma il mio peso era irrisorio, non un rumore, non un odore a segnalare la mia presenza, mi si doveva proprio guardare intenzionalmente per capire che c’ero, pensate, anche la mia risata, famosa perché senz’audio, era riconoscibile come tale solo se mi si guardava in faccia.


186 Ricordo ancora della volta in cui mia madre, al ritorno da un udienza per i genitori, gli incontri scuola-famiglia dei mie tempi, mi riportò ciò che il prof. di matematica le aveva detto di me. Pare che in principio avesse faticato un po’ a mettere a fuoco la mia identità,”…Amodio.. Amodio, chi, la spilungona? Come mai è così magra?” e poi subito aveva aggiunto,”è educata”. Capite, per cinque anni io in matematica sono stata educata, bel risultato, vero? Cinque al primo quadrimestre, sei al secondo e via così, per tutto il liceo. A dire il vero io ricordo con grande affetto il prof. Carriero, vero genio matematico, non credo che non mi avesse realmente messo a fuoco, al contrario, semplicemente si era reso conto forse meglio di tutti, dei problemi che incontravo, perlomeno nello studio della sua materia. Il nostro era un implicito accordo, io, chiaramente discalculica, facevo ciò che potevo senza dargli fastidio, lui decise che l’avrebbe apprezzato comunque e che non ne avrebbe dato a me.


187 In realtà non avevo certo deposto le armi, solo mutato la tattica, non dovevo più neppure difendere le mie tesi, che restavano invariabilmente diverse da quelle degli altri, semplicemente bastava che restassi nel mio mondo senza che nessuno si accorgesse di me così come io, ovviamente, non mi accorgevo più di nessuno. Faticavo a ricordare la mia sezione di appartenenza (è vero che in primo grazie alle particolari attenzioni di una delle mie professoresse cambiai classe, ma resta comunque difficile non ricordare la propria sezione), il nome dei docenti del mio corso e, persino, mi dispiace confessarlo, quello della maggior parte dei miei compagni di classe. E’ in quegli anni che la solitudine che in fondo da sempre mi era compagna dietro il mio ridere e fare battute, divenne evidente. Ma la solitudine non è stare da soli, è sentirsi soli. E’ uno stato dell’animo. E’ quando non senti più l’appartenenza a questo mondo, è quando ti senti semplice fruitore di un qualcosa che scorre


188 separato da te ed all’improvviso, di fronte all’ universo, ti accorgi di essere infinitamente piccolo ed hai paura… No, in realtà io non sono mai stata sola così, il mio mondo mi ha sempre confortato, fatto compagnia, il bambino dislessico è un bambino dotato di grande fantasia , il suo mondo interiore è ricco e pieno di incanto… Perlomeno il mio mondo lo era, presi a fare yoga e meditazione molto presto, a soli quattordici anni divenni vegetariana. Forse alla base una sorta di profonda empatia con le vittime e lo stesso identico convincimento, se non nuocerò a nessuno, se non darò fastidio a nessuno, nessuno ne darà a me. Non era proprio così ma non aderire alle logiche di quel sistema, non perseguire gli stessi obbiettivi, non fino in fondo, mi consentì di sentire meno il male che mi facevano. Poi, quasi per magia quell’incubo durato tredici anni, finì. L’università mi apriva finalmente le sue porte, si, a me, proprio a me! Questo lo confesso è stato il periodo dei miei studi che ho amato di più, non importa se ebbi nel frattempo la mia prima figlia, non era certo


189 un ostacolo per una avvezza a ben altri ostacoli. L’università mi piaceva, tanto da farla per ben tre volte di seguito conseguendo tre lauree diverse. Era quasi un gioco per me preparare gli esami, quello era il programma, quella la data, il resto lo decidevi tu, nessuno a metterti sgambetti durante il percorso, la partita si giocava il giorno dell’esame e caspita se ero diventata brava! Studiare per ore era una abitudine per me, capire chi avevo di fronte ormai uno scherzo, così i mie studi divennero una volata, che piacere, che soddisfazione, non ero scema, neanche un po’, anzi, a dirla tutta ero piuttosto portata, io, proprio io, chi l’avrebbe mai detto! In verità anche all’università ogni tanto trovavi qualche prof. ben intenzionato a fregarti, ma non me che ero ormai la regina delle strateghe, devo dire con una certa dose di orgoglio che ogni volta che l’hanno messa giù così con me, negli scontri diretti, io ho sempre avuto la meglio. In realtà stranamente io sono stata sempre innamorata dello studio, ancora oggi sono molto poche le cose che preferisco allo studiare, ma la


190 scuola proprio non era fatta per me. Devo però riconoscere che di prof. in gamba ne ho incontrati tanti e proprio a loro devo il mio successo scolastico, più erano bravi, più erano soddisfatti del loro stato sociale e della loro vita personale, più erano autorevoli, più sapevano trasmetterti il loro amore per la materia che insegnavano e meno rompevano le palle. In primo liceo, quando dovetti cambiare sezione grazie alla prof. di lettere,una delle materie in cui sono sempre andata bene (dalle medie in poi ovviamente), mi ritrovai con Tomasillo, il prof. di greco più tosto del mio liceo. L’insegnante che avevo avuto sino a quel momento in quella materia era ridicola, non solo un’insegnante, ma proprio una persona ridicola, piccola fuori e dentro (non voglio che la mia penna mi prenda la mano, ecco perché mi è difficile dire e ridere di allora, conto fino a cento e …) Riprendiamo. Il mio con lui non fu un incontro, fu un bombardamento ( strofa ripresa da una canzone demenziale degli Squallor, famosi ai miei tempi).


191 In realtà fu un piacersi a prima vista, ormai prossimo alla pensione, nella sua grande esperienza, mi disse che se ero arrivata in secondo senza conoscere la grammatica, non si aspettava di certo che l’imparassi a quel punto, ma la letteratura si, su quella non avrebbe chiuso un occhio! Un invito a nozze, potersi dedicare alla bellezza della letteratura greca senza l’incubo della grammatica che pure continuavo a studiare, che pure continuavo a dimenticare. Beh, non saprei cosa altro dire di quegli anni se non che ritornare ad essere nel mondo mi è costata una gran fatica. Anni di analisi per cercare di far sentire la mia voce, per sentire dentro almeno un poco, di avere come gli altri uno stesso diritto ad esserci, ad esprimermi. Ogni cosa ha sempre due facce, oggi a diversi anni dalla prima edizione di questo libro, sono diventata una relatrice piuttosto conosciuta, centinaia i miei interventi, nelle scuole, nelle università, nei comuni, la dislessia, ciò che per anni mi ha isolato, all’improvviso mi ha gettato


192 nella mischia! Chi mi è vicino lo sa bene, prima di ogni conferenza sono sempre in tilt, eppure sono arrivata a farne anche quattro in una settimana ma se solo leggo il mio nome sui manifesti vado in para, se penso al pubblico che verrà ho paura e comincio a chiedermi ma chi me lo fa fare… poi salgo su quel palco e all’improvviso, dopo aver dichiarato a tutti che sono dys, che ho il cuore in gola, quello torna al suo posto e posso procedere come se per me calcare le scene fosse la cosa più naturale del mondo. In vero ogni volta è una battaglia contro la mia antica paura ma ogni volta la affronto ed ogni volta ne esco vincitrice…chi soccombe alla propria paura muore ogni giorno.. A volte penso che prima o poi mi farò saltare le coronarie ma in fondo sarà solo un cuore che ha molto battuto, non è dunque questo il suo scopo? Che senso avrebbe un cuore che non palpita, degli occhi che non conoscono le lacrime, di gioia o di dolore che siano, delle labbra che non sanno ridere o sorridere? Dopo anni che ho cercato di anestetizzarmi per non sentire il male che subivo ho scelto di esserci, fino in fondo, sapeste quanto


193 mi riempie! Di bambini e ragazzi dislessici ormai ne ho visti a centinaia, tutti la stessa ferita, tutti la stessa paura, questo il motivo della riedizione del libro. Questa lettura vorrei che non fosse più solo per loro, per i loro genitori, vorrei che questa tematica si diffondesse tra gli altri, tra chi dislessico non lo è affatto. E’ il disturbo invisibile, lo so, questo il motivo di così poca sensibilità da parte di chi se lo ritrova davanti, semplicemente non lo si riconosce. Io sono certa che se solo i docenti, i compagni davvero sapessero cosa passa in quel petto, mai e poi mai infierirebbero ma non lo sanno, non possono saperlo, esternamente non si vede nulla! Parlare degli aspetti psicologici dei ragazzi dislessici è forse parlare del più grave degli aspetti di questo disturbo. Infondo i DSA sono un disturbo solo in relazione alle richieste della società. Mi spiego meglio, è solo perché la nostra cultura si basa su di un sistema di trasmissione quale quello della lettoscrittura che i DSA sono un disturbo, se ad esempio i libri fossero cd, il disturbo l’avrebbero


194 quelli, la maggior parte, che prediligono il canale visivo. Nessuno si sognerebbe di sostenere che chi non sa tenere una matita in mano per disegnare ha un disturbo, ma se disegnare fosse considerato indispensabile, allora si che diverrebbe un problema. Con molta probabilità i dys del futuro, saranno tutti quelli che domani risulteranno negati nell’utilizzo della tecnologia.. Dunque potremmo dire che i DSA sono un disturbo socialmente indotto, il dolore è quindi proprio quello di chi in qualche modo si sente escluso o ai margini della sua comunità. L’appartenenza è un bisogno fondamentale dell’essere umano, da sempre per lui , massima punizione è l’allontanamento dal branco. E’ isolato che diviene facile preda, che sperimenta paura, che diviene rabbioso. Purtroppo l’idea che inconsapevolmente ciascuno di noi ha dell’intelligenza, è quella di un’organizzazione verticale dove è impossibile avere competenze superiori se non si è in possesso di quelle di base. Mi spiego meglio, appare impossibile che chi sia capace di competenze più elevate abbia problemi con quelle di base, quelle così elementari per noi,


195 come distinguere una a da una e ecc. Invece è possibile, invero è quello che accade. L’idea che invece finisce per predominare è che non si applichi, che sia distratto, che non voglia.. Il ragazzo con DSA finisce così per essere punito per quello che è invece il suo problema e prende a vivere il dramma dell’ ‘incompreso’. Tacciato d’essere svogliato dai professori, deriso dai compagni, punito dai genitori, la sua vita scolastica diviene un incubo. Rimanere indenne l’obbiettivo con cui ogni mattina si siede tra i banchi, apprendere un lussuoso optional. Non ha certo raggiunto una metacognizione che gli consente di capire come capisce, dà per buone le spiegazioni che gli adulti gli forniscono: lui è un somaro. Inesorabilmente somaro diviene. Cuci un abito per qualcuno e quello prima o poi lo indosserà, questa la base della profezia autoavverantesi. Quale dislessica, conosco quel dolore, mi si è scritto nella carne, indelebilmente. Lo riconosco in ogni ragazzo che viene al mio studio. Di bambini e ragazzi dislessici ormai ne ho visti


196 a centinaia, tutti la stessa ferita, tutti la stessa paura. Per anni questa difficoltà è stata tradotta come asineria, indolenza, svogliatezza così che si è preso ad incolpare la vittima. Non solo tu hai un problema, non solo per te è più difficile ciò che per gli altri non lo è affatto ma nessuno pare se ne renda conto, anzi, te ne sia addossa la colpa! Per tutti tu non hai un problema, semplicemente sei così mulo da non volere e siccome tu sei l’ultimo che può rendersi conto di avere una difficoltà nell’apprendere, perché sei piccolo, perché ovviamente pensi che anche per gli altri vada così, solo che loro ci riescono perché si impegnano, prendi per buona la traduzione che gli adulti fanno di tutto ciò: tu sei un asino, definitivamente, inesorabilmente. La scuola non ti piace, lo studio non è affar tuo. Non c’è colpa, non c’è cattiva volontà, da parte di nessuno, c’è solo disinformazione, c’è solo la difficoltà di capire che per te è un problema quello che per la maggior parte non presenta alcuna difficoltà. Io non ho mai visto un asino tra i banchi, io li ho sempre visti solo nei campi, nelle fattorie. Non ho


197 mai visto bambini con la coda e lunghe orecchie se non nel libro di Collodi, non esistono bambini asini, esistono solo bambini che hanno un problema, quale esso sia. Non si sceglie volontariamente di andare male a scuola, è sempre una grossa ferita non riuscire dove gli altri riescono, tornare a casa con una serie di insuccessi, oggi poi, in un epoca in cui i risultati scolastici rappresentano in una fascia di età che va dai tre ai diciotto anni il più importante, se non l’unico metro di misura delle tue capacità. Per me oggi questo è il mio dolore più grande, riconoscere la sofferenza negli occhi dei bambini che vengono al mio studio e capire che sono la sola a vederla, forse perché in me risuona, forse perché un po’ me la porto dentro. Ecco che una ferita diviene un dono, ci consente di vedere ciò che gli altri non è dato di vedere, ecco che diviene il nostro impegno, mostrare a tutti la strada perché gli stessi errori non si ripetano più. Oggi la scuola è in grossa sofferenza ma io so per certo che ogni mio collega vorrebbe solo trasmettere al meglio saperi e competenze, i risultati che ottiene con i suoi alunni sono le sue


198 uniche soddisfazioni… A diversi anni dall’inizio del mio impegno per la dislessia tante cose sono cambiate nella mia vita personale ma anche nella società. Mia figlia è all’università, riesce bene nei suoi studi, è contenta, la mia regione è stata la prima a munirsi di una legge regionale sui D.S.A. grazie all’impegno di Marcella Santoro ed alla sensibilità di Marcello Pittella ma anche a quella di tutti gli altri che hanno votato all’unanimità il suo emendamento, da poco la nostra nazione ha una legge nazionale su questi disturbi…I tempi sono pronti perché vi sia un reale cambiamento culturale. Nel frattempo ho creato un’associazione al femminile, di cui sono presidente, Yin-sieme, con questa il 27 luglio del 2010 ho realizzato la prima festa degli abbracci della mia città, forse un migliaio le presenze, tanti giovani, tutti disposti a sperimentare in un abbraccio che in mezzo agli altri uomini non saremo mai soli. Questo per me il vero nocciolo di ogni questione, la solidarietà, l’appartenenza alla comunità degli esseri umani, una rete sociale includente ogni diversità, rassicurante e giammai giudicante o


199 stigmatizzante. Ognuno è speciale proprio perché è quello che è, la diversità è la vera ricchezza. E’ stato fatto un film bellissimo sulla dislessia, stelle sulla terra, è indiano ma sta girando il mondo, l’ho portato in tante scuole e in tante lo porterò perché i ragazzi possano capire quali sono realmente le difficoltà che incontrano alcuni dei loro compagni. In questo film viene citata un’antica usanza degli abitanti delle isole di Samoa. Pare che questi, per abbattere gli alberi, quando è necessario, non usino la sega ma si dispongano in cerchio intorno alla pianta e prendano ad insultarla…Pare che in un breve giro di tempo questa avvizzisca e caschi giù da sola... Tutti i dys che incontro patiscono ancora tanto il ludibrio dei compagni e di chiunque gli sia intorno, sino a manifestare vere e proprie fobie scolari, varie forme di disadattamento, io so che non c’è cattiveria, solo non comprensione di questo disturbo. Io so per certo che ognuno, capita la problematica, sarà più che disposto all’accoglienza e in fondo ad un dys basta già questo, esser capito. Sentirsi soli in mezzo a tanta gente che pare non vederti, sentirsi in un modo che


200 pare indifferente al tuo dolore, sentirsi addirittura additato come l’unico colpevole di ciò che patisci, è la più grande ferita, è vero, ma è vero anche il contrario, l’appartenenza sembra infatti essere il più grande fattore di resilienza, quello che tra tutti rende più resistenti alle avversità della vita. Questo è il più grande dono degli esseri umani, potersi stringere intorno al singolo per sostenerlo, in fondo una comunità non è che l’insieme dei singoli... e anche molto di più... Vorrei concludere questa integrazione alla prima edizione, raccontandovi un poco di Jaya, la mia nipotina. Oggi ha otto anni e frequenta la seconda. Si , la seconda della scuola primaria e non la terza ma in questo primo quadrimestre ha riportato la media più alta della classe. In quello che doveva essere il suo ultimo anno di scuola di infanzia Jaya ha cominciato ad evidenziare un certo disagio, io la tenevo sotto stretto controllo ovviamente, avevo scritto già in questo stesso libro alcuni dei miei timori. La piccola, abituata alla scuola dalla tenera infanzia senza alcun problema, anzi mostrando sempre


201 grande capacità relazionale, all’improvviso dava segni di insopportazione. Al rientro dalle sue vacanze di Natale quell’anno mi disse: ’nonna, voglio mettere una bomba sotto la maestra’. Non mi serviva di più per procedere. Decisi in cuor mio che quello non sarebbe stato l’ultimo anno di scuola di infanzia per la piccola, infondo era nata i primi di gennaio, tecnicamente era possibile trattenerla lì un anno in più. Non è stato cosa facile, ho dovuto combattere con moliti ma, grazie al cielo, trattandosi di mia nipote, avevo abbastanza autorità per spuntarla. Fu chiesto a Jaya stessa cosa volesse fare, se andare alle elementari come tutte le amiche del suo ciclo o se cambiare scuola ma per fare ancora un anno di scuola di infanzia. La piccola si espresse per questa seconda opzione e, non ditemi nulla, sono convinta per quella che era già una sua piena consapevolezza, si sentiva in difficoltà rispetto alle altre amichette. E’ quello che ripeto da anni, le difficoltà di un bambino con DSA appaiono ben prima della seconda elementare. In quell’ultimo periodo, cominciate opinabilmente le attività


202 di letto-scrittura, la bambina, abituata da sempre ad emergere per il suo intuito e la sua prontezza, all’improvviso si percepiva inadeguata. All’improvviso era l’ultima, sempre.. Cominciava ad essere distratta, ad andare malvolentieri a scuola, a dimenticare il materiale didattico a casa, ad avere frequenti mal di pancia e via discorrendo. Lei, da sempre amabile e disponibile, cominciava ad essere oppositiva, insofferente alle regole, tanto da guadagnarsi la fama di leader in negativo tra le sue maestre di allora. Decidemmo quindi per un anno in più, cambiò scuola di infanzia, uno perché i suoi compagni storici sarebbero andati tutti via e lei avrebbe vissuto il restare lì come una sorta di bocciatura, due perché le scelte didattiche di quell’istituto non mi convincevano. Optammo quindi per un’altra scuola e.. il miracolo! Riprese ad andare a scuola con gioia ogni mattina, prese ad essere attentissima, mai una volta che dimenticasse a casa il materiale didattico, una metamorfosi da non credere.. I risultati di quel primo quadrimestre parlavano di una bambina


203 esemplare per condotta, rendimento e capacità relazionali.. un vero leader in positivo dicevano le maestre di quel ciclo a soli pochi mesi di distanza dalle altre, quelle che avevano visto in lei un leader negativo. Certo, era più grande quasi di un anno rispetto ai suoi compagni e ripeteva un programma già conosciuto, bella forza fosse la più brava. Il fatto è che questo le consentiva di riguadagnare in autostima, di essere nuovamente motivata nelle attività scolastiche.. L’anno terminò con una pagella da prima della classe, cosi ha continuato ad essere nella scuola primaria, tanto nella prima quanto attualmente in questa parte della seconda. Ad oggi posso presumere che Jaya non presentasse un disturbo severo ma solo dava segnali di una predisposizione, ancora adesso se stanca sbaglia le doppie o scrive a specchio alcune lettere ma non molto di più. Con certezza posso affermare però che se la sua avventura scolastica fosse partita un anno prima, col piede sbagliato, sarebbe stata una disavventura. Avremmo passato perlomeno i primi otto, dieci, tredici anni in salita


204 come vedo purtroppo accadere a tanti. Un solo caso ovviamente non ha alcuna pretesa scientifica e non dimostra un bel nulla, ma io ringrazio il cielo d’aver voluto con tutte le mie forze che quel caso fosse proprio mia nipote..



«Questo non è un libro sulla dislessia, ma la storia stessa della mia vita, per molti versi intessuta di dislessia, è una testimonianza per tutti i dislessici, per tutti i genitori di dislessici: la dislessia non è una malattia, è solo un modo diverso di interpretare i dati, è fantastica come un sogno anche se a volte può diventare un incubo. Spesso si afferma che il dislessico è un bimbo dotato di una grande fantasia, un po’ come quando si dice di una conoscente bruttina che è tanto simpatica!»

(Antonella Amodio)


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