Roma, una città, un impero - n.4

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Editoriale

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pre questo numero un articolo dedicato ai tre colombari scoperti tra il 1840 e il 1852 nell’area della vigna Codini, situata all’interno delle mura Aureliane, tra la via Appia Antica e la via Latina. L’interesse di questi sepolcri collettivi è legato soprattutto al ricco corredo epigrafico in essi rinvenuto, composto prevalentemente di iscrizioni incise su lastrine affisse sotto i loculi che contenevano le olle cinerarie. I testi restituiscono i nomi, i dati biometrici, i rapporti di parentela e i mestieri svolti da defunti e dedicanti, talvolta sottolineando anche i rapporti di dipendenza (schiavi) o patronato (liberti) che li legavano a membri della casa imperiale o di altre famiglie dell’aristocrazia romana. Per quanto riguarda il secondo colombario Codini, un contributo di Daniele Manacorda ha evidenziato, in particolare, un possibile rapporto di questo monumento con il mondo del teatro e della musica. Il programma decorativo, imperniato sul tema della musica, e soprattutto i mestieri ricordati in alcune iscrizioni, sembrano infatti suggerire che la nascita e lo sviluppo del sepolcro possano ricondursi all’iniziativa di un gruppo di personaggi legati alla sfera ludica e gravitanti intorno a membri della famiglia imperiale. Il primo documento epigrafico è la lastra che commemora la cerimonia ufficiale di inaugurazione del sepolcro ad opera del collegio funeratizio responsabile della sua costruzione, inaugurazione che sappiamo celebrata nel 10 d.C. (datazione consolare) con una distribuzione di olle cinerarie e con la relativa incisione dei nomi dei destinatari sulle lastrine ad esse pertinenti (CIL, VI 4418): [S]er(vio) Lentul(o) Malug(inense) Q(uinto) Iunio co(n)s(ulibus). / [- Oct]avio Silanioni, quinquennal(i), / [C. I]ulio Orpheo Pyladis l(iberto), cu(atori) iter(um), / ollae distributae / [et] inscriptae ex d(ecurionum) [d(ecreto)]. Il curatore del collegio, C. Iulius Orpheus, noto anche da un’altra iscrizione del colombario (CIL, VI 4418), è un liberto di Philades, il famoso attore di età augustea cui si deve nel 22 a.C. l’introduzione della pantomima, e il suo cognome, Orpheus, potrebbe essere un “nome d’arte” collegato al ruolo di musico o cantante che egli aveva svolto al fianco del proprio patrono. E ancora. La lastrina CIL, VI 4649 ricorda un archimimus (archimimo), forse liberto di Scribonia, prima moglie di Augusto, mentre la sepolcrale CIL, VI 4472 il symphoniacus (musico) Syneros, servo vicario di Pamphilus, a sua volta schiavo dell’imperatore Tiberio. Il mestiere di Syneros permette inoltre di attribuire al colombario anche la lastra posta dal collegium symphoniacorum (collegio dei musici) che accompagnava le cerimonie sacre pubbliche (CIL, VI 4416). A questo documento si aggiunge la lastrina sepolcrale di Ti. Claudius Corinthus (CIL, VI 4454), liberto di Claudio o Nerone, che fu membro dell’orchestra (musicarius) di Paris, un famoso pantomino vissuto durante il principato di Nerone, e forse la sepolcrale di Ti. Claudius Eros, di professione fistularius, da intendere - secondo Manacorda - come suonatore di tromba piuttosto che come artigiano specializzato nella realizzazione di tubazioni (CIL, VI 4444). Un’ultima connessione tra il colombario e il mondo teatrale è infine offerta dall’iscrizione pavimentale che ricorda i curatori del collegio funeratizio che, in occasione della loro riconferma in carica, realizzarono a proprie spese il pavimento del colombario (CIL, VI 4416). Uno dei due curatori, Eros, si qualifica come schiavo di Sesto Pompeo, forse da identificare nel console ordinario del 14 d.C., amico del poeta Ovidio, che apparteneva alla discendenza di Sesto Pompeo, zio paterno di quel Pompeo Magno cui si deve la costruzione in Campo Marzio del primo teatro stabile di Roma. Ancora ai rinvenimenti archeologici della capitale è dedicato l’articolo che illustra l’architettura e gli arredi del mitreo scoperto nel 1931 presso il Circo Massimo, nei sotterranei del palazzo già sede del pastificio Pantanella, mentre all’Italia romana sono riservati i due contributi che descrivono la sontuosa villa ereditata da Augusto sul promontorio di Pausilypon in Campania e gli imponenti resti archeologici dell’antica città di Urbs Salvia nella regione Marche. Chiudono questo numero un approfondimento sulle diverse interpretazioni della scena scolpita sul monumentale sarcofago a vasca rinvenuto ad Acilia nel 1950 e conservato nella sala XIV del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, e la presentazione della mostra temporanea Gladiatores, allestita nella suggestiva cornice dell’Anfiteatro Flavio, che illustra per la prima volta al grande pubblico il tema della gladiatura nel mondo romano attraverso ricostruzioni moderne delle armature che connotavano le diverse classi gladiatorie. GIOVANNA DI GIACOMO (redazione)


DIRETTORE RESPONSABILE MARIA TERESA GARAU DIRETTORE ESECUTIVO ROBERTO LUCIGNANI DIRETTORE SCIENTIFICO BERNARD ANDREAE

COMITATO SCIENTIFICO Paolo Arata Funzionario Sovraintendenza Comune di Roma Alessandra Capodiferro Funzionario Soprintendenza Archeologica di Roma Fiorenzo Catalli Funzionario Soprintendenza Archeologica di Roma Paola Chini Funzionario Sovraintendenza Comune di Roma Vincenzo Fiocchi Nicolai Prof. Archeologia Cristiana Univ. Tor Vergata di Roma Gian Luca Gregori Prof. Ordinario di Antichità Romane, ed Epigrafia Latina, Facoltà Scienze Umanistiche, Univ. Sapienza di Roma Eugenio La Rocca Prof. Ordinario Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana, Univ. Sapienza di Roma Anna Maria Liberati Funzionario Sovraintendenza Comune di Roma Luisa Musso Prof. Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana e Archeologia delle Provincie Romane, Univ. Roma Tre Silvia Orlandi Prof. associato di Epigrafia Latina presso la Facoltà di Scienze Umanistiche, Univ. Sapienza di Roma Rita Paris Direttore Museo di Palazzo Massimo alle Terme Claudio Parisi Presicce Direttore Musei Archeologici e d’Arte Antica Comune di Roma Giandomenico Spinola Responsabile Antichità Classiche e Dipartimento di Archeologia Musei Vaticani Lucrezia Ungaro Funzionario Sovraintendenza Comune di Roma Laura Vendittelli Direttore Museo Crypta Balbi

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I COLOMBARI DI VI

di Gabriele Rom

CAPO REDATTORE ALESSANDRA CLEMENTI REDAZIONE LAURA BUCCINO - ALBERTO DANTI - GIOVANNA DI GIACOMO LUANA RAGOZZINO - GABRIELE ROMANO DOCUMENTAZIONE FOTOGRAFICA ROBERTO LUCIGNANI TRADUZIONE DANIELA WILLIAMS GRAFICA E IMPAGINAZIONE STUDIOEDESIGN - ROMA WEB MASTER – PUBBLICITA’ MARIA TERESA GARAU REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE Via Orazio Antinori, 4 - ROMA

È vietata la riproduzione in alcun modo senza il consenso scritto dell’Associazione Rumon Tiber

IL S


SOMMARIO

IGNA CODINI

mano

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SARCOFAGO DI ACILIA di Sara Zappalà

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URBISAGLIA

PAUSILYPON

di Enrico Proietti

di Noemi Rea

60 GLADIATORES di Alessandra Clementi




L’ANTICA AREA CIMITERIALE

A destra: Veduta della parte emergente del primo colombario Nella pagina accanto, in alto: Nella fotografia d’epoca un particolare dell’interno del secondo colombario

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l settore compreso tra i tratti urbani della via Appia e della via Latina aveva nell’antichità funzione prevalentemente funeraria. Testimonianze in questo proposito furono trovate già a partire dalla metà del XV sec., quando si scoprì un colombario di I sec. a.C. appartenente ai liberti di Nerone Druso, fratello dell’imperatore Tiberio, che doveva contenere almeno un centinaio di urne cinerarie e altrettante iscrizioni che vennero subito disperse tra le varie collezioni private del tempo. Di queste iscrizioni rimane un piccolo gruppo, circa 12, nei Musei Vaticani. Altri colombari vennero scoperti nella zona tra il 1559 e il 1566 e testimonianze della loro struttura ne abbiamo grazie a Pirro Ligorio che ne disegnò uno appartenuto ai liberti della gens Pompeia. Esempio della sorte di queste sepolture può

I COLOMBARI DI VIGNA CODINI

ricavarsi dal resoconto di Flaminio Vacca, che nella seconda metà del XVI sec. ricorda la scoperta e l’istantanea distruzione di un sepolcro, ad opera del cardinale Prospero Santacroce, e di alcuni sarcofagi con iscrizioni scoperti presso Porta Latina e subito acquistati dallo stesso cardinale. Per avere ancora di più la giusta impressione riguardo alla ricchezza archeologica di questa zona è la testimonianza di altri vari scavatori ed eruditi, come il Bartoli, che ricorda cimiteri pagani e cristiani scoperti presso la biforcazione della via Latina e della via Appia, più precisamente all’interno della vigna Orlandi, il cui proprietario riuscì a raccogliere ingenti quantità di cammei, pietre incise, statuette fittili e di bronzo, urne cinerarie di metallo, vetro, terracotta e marmo e altri oggetti mirabili. Per quantificare meglio questi


ritrovamenti basti pensare che l’intera raccolta fu acquistata dalla famosa Donna Olimpia Pamphili, cognata del papa Innocenzo X, e portata nel Palazzo Pamphili di Piazza Navona su quattro carri. Ancora negli anni 1726-1733 furono scavati altri colombari all’interno della vigna Sassi, la stessa proprietà in cui fu trovato il sepolcro degli Scipioni, e nella vigna Codini, nelle quali furono scoperte una quantità di sepolture e di oggetti vari che all’epoca fu definita “prodigiosa”. Nella seconda metà dell’Ottocento, grazie ad altre esplorazioni in questa zona archeologicamente ricchissima compresa tra i tratti urbani della via Appia e della via Latina, in prossimità delle Mura Aureliane, vennero scoperti i tre colombari all’interno della vigna di proprietà della famiglia

Codini. Situati poco oltre il Sepolcro degli Scipioni, questi edifici funerari furono scavati nel 1840 e nel 1847, uno dopo l’altro, da Pietro Campana, mentre l’ultimo fu individuato nel 1852 da Pietro Codini, proprietario del terreno. Questi tre colom-

bari, insieme a quello di Pomponio Hylas e a quello scoperto vicino il sepolcro degli Scipioni, sono gli unici superstiti della vasta necropoli che occupava tutto questo settore. Il primo colombario di vigna Codini fu trovato da Pietro

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Campana nel 1840 e presenta una pianta rettangolare (5,08 x 7,06 m). Costruito in opera laterizia, è caratterizzato da un pilastro centrale, di forma rettangolare (3,58 x 1,68 m), che sorregge la volta. La parte dei muri del sepolcro che emerge dal terreno è di restauro, con vari frammenti di oggetti e iscrizioni trovati qui intorno che vi sono stati applicati dopo lo scavo e la sistemazione dell’area. Si accede al colombario semi-ipogeo tramite una rampa di scale, costituita da 20 gradini originali, che scende fino a 6 metri di profondità rispetto al piano attuale. I loculi semicircolari, contenenti due olle cinerarie ciascuno, sono disposti su tutte le pareti dell’edificio su nove e undici file sovrapposte, ed anche sui quattro lati del pilastro centrale e nel sottoscala. Sopra ogni loculo, si trova una targhetta dipinta che doveva ospitare, dipinto o graffito, il nome del defunto (ritrovati circa 60 graffiti); in molti casi, sopra queste targhette dipinte, furono applicate lastrine marmoree, di cui si conservano più di duecento esemplari. Altri oggetti qui ritrovati, tra cui urne e cippi marmorei, furono portati al Museo Nazionale Romano. Tra le varie iscrizioni sepolcrali si ricorda quella relativa a un buffone muto della corte di Tiberio; quella di un viaggiatore che nella sua ultima dimora volle ricordare il viaggio di 80 miglia affrontato ai confini dell’Impero, tra la frontiera di Cilicia e Cesarea di Cappadocia; quella di un cassiere del fisco della provincia di Lione e, infine, l’epitaffio dedicato da Senzio Felicissimo per la figlioletta morta all’età di quattro anni, undici mesi e otto giorni. Le pareti del colombario, che si conservano per un’altezza di più di 6 metri, erano originariamente decorate con pitture rappresentanti motivi vegetali, uccelli e

altri animali. I banconi in opera reticolata lungo le pareti furono costruiti in un secondo momento per accogliere ulteriori urne cinerarie e implementare il numero delle deposizioni, che può stimarsi quindi intorno ad un totale di cinquecento. Nella parte superiore dei lati minori del pilastro sono conservati parti delle pitture decorative, suddivi-

Nella pagina accanto: Particolare dell’interno del primo colombario Sopra: Un lato del pilastro centrale del primo colombario

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se in riquadri con scene di soggetto dionisiaco. Alcuni loculi presenti nel pilastro centrale sono più grandi degli altri perché dovevano contenere urne marmoree più grandi, che probabilmente erano destinate a personaggi più importanti e più ricchi. Dal punto di vista strutturale, per facilitare l’accesso alle urne cinerarie poste più in alto, il colombario aveva dei ballatoi di legno sostenuti da travi, la cui presenza è testimoniata dai buchi quadrati sulle pareti tra la quarta e la quinta fila di loculi.

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Questo monumento, in base allo stile delle decorazioni e alle testimonianze epigrafiche trovate al suo interno, può datarsi intorno alla tarda età tiberiana. Al suo interno, inoltre, si trova un rilievo marmoreo più tardo, realizzato in età antonina (cioè di un periodo in cui probabilmente il colombario non svolgeva più la sua attività) con scena di dextrarum iunctio tra due coniugi, la cui presenza qui non può spiegarsi facilmente. In sostanza si tratta di un sepolcro collettivo destinato prevalentemente a

schiavi e liberti, anche imperiali, appartenenti a diverse famiglie, come si ricava dall’analisi onomastica dei loro epitaffi. Il secondo colombario, costruito in opera reticolata e scavato sempre da Pietro Campana nel 1847, è ipogeo e presenta una pianta quasi quadrata (5,90 x 5,20 m). Il pavimento, realizzato in cocciopesto con qualche piastrella marmorea nella parte centrale, si trova a 7 m di profondità. Anche qui i loculi ad arco con doppia deposizione sono disposti su tutte le


pareti in nove filari sovrapposti; sul bancone costruito lungo i muri perimetrali sono inoltre presenti anche urne cinerarie per un numero totale di oltre trecento deposizioni. Alcuni loculi avevano una decorazione a stucco con piccola edicola timpanata, mentre altri erano ornati da pitture con motivi vegetali. In alcuni settori delle pareti si conserva qualche traccia della pittura decorativa, caratterizzata da tralci vegetali dai quali pendono siringhe, cembali, maschere, corni potori e altri oggetti. A differenza del primo colombario, non ci sono targhette dipinte, ma solo piccole lastre marmoree, alcune delle quali senza nome, che in seguito furono sostituite da lastre marmoree di maggiori dimensioni. Difficile risulta l’attribuzione delle epigrafi a questo colombario poiché nel corso dei restauri ottocenteschi molte iscrizioni provenienti da altri monumenti furono collocate qui arbitrariamente. Se provenissero tutte con certezza da questo edificio funerario, alcune iscrizioni potrebbero ricordarne la storia: il monumento dovrebbe essere stato costruito nel 10 d.C., come testimonia l’iscrizione che ricorda la vendita e la distribuzione di olle cinerarie fatta dai membri di un’associazione funeraria durante il consolato di Servio Lentulo Maluginense e Quinto Nella pagina accanto a sinistra: Nel primo colombario un raro esempio di cinerario con coperchio in marmo di tipo architettonico Sopra: Particolare dell’interno del secondo colombario A destra: Lapide relativa alle urne di un collegio di musici (Sinfoniaci)

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Giunio Bleso; un’altra iscrizione, sicuramente appartenente al colombario, è quella presente sul pavimento che ne ricorda la sistemazione, avvenuta ad opera di due curatores del collegio funerario, uno schiavo di Sesto Pompeo, discendente di Pompeo Magno, e un liberto di Caio Memmio; molte iscrizioni qui conservate appartengono a schiavi e liberti di Marcella Maggiore, moglie di Agrippa e in seguito di Giulio Antonio, e di Marcella Minore, moglie di Paolo Emilio Lepido e poi di Marco Valerio Messalla; altre iscrizioni su cippi permettereb-

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bero di ricostruire una piccola porzione della topografia di questa zona funeraria, caratterizzata dalla vicinanza ai colombari degli ustrina, cioè i forni crematori, che erano anch’essi di proprietà dei collegi funerari che possedevano i singoli sepolcri. Tra le iscrizioni, utile per la possibile datazione dell’edificio, è quella di C. Iulius Eutiches, addetto all’amministrazione privata di Giulia Augusta, la figlia di Augusto. Interessanti anche l’iscrizione di un collegio di symphoniaci (musici), a cui probabilmente va ricondotta la prima proprietà del colombario,


grazie alla presenza nella decorazione parietale di strumenti musicali, e quella posta da un collegio di coronarii (fiorai). Tra gli altri ritrovamenti all’interno del colombario, si segnalano varie urne di poco rilievo e tre busti marmorei, due maschili (uno di età claudia-neroniana e l’altro di età flavia) ed uno femminile (di età neroniana), portati al Museo delle Terme e sostituiti sul posto da copie. Il colombario può datarsi nella tarda età augustea (10 d.C.), ma con alcune modifiche successive, come le pitture alle pareti che risultano di uno stile più tardo, probabil-

Nella pagina accanto in alto: Loculo con decorazione ad edicolette con colore e stucco nel secondo colombario A sinistra: Lapide relativa all’urna di un personaggio del collegio dei musici che suonava i cimbali (piatti), nel secondo colombario Sopra: Loculi relativi a componenti del collegio dei musici

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mente di età flavia. Tra le iscrizioni compaiono molti membri della corte imperiale: nel sottoscala si trova l’iscrizione di Hymnus Aurelianus, amministratore del colombario e impiegato presso la biblioteca latina del Portico di Ottavia; nel terzo ordine di loculi, sulla parete opposta, si trova l’epitaffio di un’ostetrica che si faceva chiamare Hygia (come la figlia di Esculapio); poi si legge di un Sinnius, guardia personale dell’imperatore, e ancora di un giardiniere (topiarius) e di un banchiere (argentarius). Il terzo colombario di vigna Codini fu scavato nel 1852 da Pietro Campana, proprietario del terreno. Si tratta del più grande dei tre monumenti, composto da tre corridoi comunicanti intorno ad un cortiletto centrale a giardino, che conferiscono alla struttura una pianta a forma di “U”. L’ingresso avviene grazie ad una scala con due rampe di gradini che permette di giungere al piano pavimentale, da cui si possono osservare le pareti scandite da loculi, più grandi rispetto a quelli trovati negli altri due colombari e di forma rettangolare, che potevano contenere quattro urne ciascuno o urne marmoree più grandi. La maggior ricchezza di questo sepolcro può desumersi, oltre che dalla maggiore dimensione dei loculi, anche dal rivestimento di lastre marmoree degli stessi, con piccole edicole con trabeazioni, dalle paraste con capitelli di marmi colorati che scandiscono le pareti e dalla decorazione pittorica, con motivi vegetali e animali, conservata in gran parte della volta. Tra i loculi, che su alcune pareti sono semicircolari, trovano inoltre posto molte edicole e arcosoli, che testimoniano in modo ulteriore la maggiore disponibilità economica dei defunti qui ospitati rispetto a quelli degli altri due colombari.

Al Museo Nazionale Romano delle Terme sono stati portati molti cippi e urne di notevole pregio provenienti da questo monumento, nonché un sarcofago che ne testimonia un utilizzo per inumazioni in una fase più tarda: si tratta della sepoltura di Aelia Veneria, moglie di un liberto di Adriano, che si trovava all’estremità dell’ultimo corridoio, accanto all’apertura di un piccolo dromos che collega questo colombario con l’ustrinum ad esso pertinente. Sulla sommità delle pareti rimangono le finestre che danno luce ai corridoi e che affacciano su un cortiletto centrale. Lungo le pareti, tra il quarto e il quinto ordine di loculi, si conservano alcune mensole

di travertino che dovevano sostenere il tavolato ligneo del soppalco che serviva per accedere alle urne cinerarie più in alto. Per quanto riguarda il materiale epigrafico, sono state trovate qui circa 150 iscrizioni, poche rispetto alla grandezza del colombario, che testimoniano anche in questo caso la presenza di schiavi e liberti imperiali con i relativi ruoli svolti all’interno della corte dell’imperatore. Ricordiamo tra gli altri Crescens, cubicularius (addetto alle stanze private) dell’imperatore; C. Iulius Andronicus che aveva acquistato, per se e un suo amico, alcune urne cinerarie da C. Iulius Hermes, lasciando anche la raffigurazione della stretta di mano per il raggiungi-

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A pag. 14 e 15: Due fotografie d’epoca relative all’interno del terzo colombario Sopra: Particolare dell’interno del terzo colombario allo stato attuale Nelle due pagine: Loculi ad edicola all’interno del terzo colombario Nella pagina accanto in alto: Grande loculo con rivestimento in marmo a forma di arco relativo al custode del collegio dei bottegai Nella pagina accanto in basso: Particolare di loculi collocati nel sottoscala con uno dei quali avente la chiusura a forma di porta

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mento dell’accordo; Ti. Claudius Chryseros, liberto di Claudio o Nerone, Iulia Theone e Claudia Dorcas, che hanno voluto lasciare testimonianza del loro attaccamento ai valori romani attraverso le raffigurazioni, sulle proprie urne cinerarie, della lupa che allatta i gemelli e dell’aquila, simbolo del potere imperiale; Ti. Iulius Donatus, esattore delle tasse, che aveva acquistato 36 urne cinerarie; e infine Iulius Chrysantus, custode di un colle-

gio di bottegai (tabernarii). La costruzione del colombario risale all’età giulio-claudia, come testimonia anche lo stile della decorazione pittorica riferibile alla fine del I sec. a.C., e la sua attività si protrasse per tutto il II sec. d.C. visto che al suo interno, oltre a liberti degli imperatori della dinastia giulio-claudia e flavia, si trovano anche liberti degli imperatori Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio, le cui spoglie vennero ospitate sul pavimento. Questa sistemazione testimonia un riutilizzo del colombario in un’epoca successiva alla sua creazione, che può trovare spiegazione nella difficoltà di reperire in quei tempi spazi liberi, a prezzi accessibili, per le sepolture in prossimità della città.


A questo proposito basti pensare che in questo settore funerario triangolare, formato dal bivio della via Appia e della via Latina fino alle Mura Aureliane, solo nei terreni delle ex vigne Sassi e

Codini, sono state ritrovate più di 1500 tombe (senza contare il Sepolcro degli Scipioni), cifra che rappresenterebbe soltanto una minima parte dell’enorme quantità di sepolture ospitate in quest’area nell’antichità. A ulteriore prova di questa ricostruzione topografica, alcune indagini archeologiche eseguite nel 1970 nel terreno compreso tra i primi due colombari di vigna Codini, e quasi a ridosso di questi, hanno portato alla luce una serie di gallerie riferibili ad altri sepolcri ipogei, a loro volta collegati, verso la zona più a nord, ad altre gallerie con sepolture in loculo. Un’estesa area funeraria quindi, in cui erano comunque presenti altre tipologie di edifici (di abita-

zione e pubblici) come provano i resti emersi sotto S. Cesareo e la Casina del cardinal Bessarione, o presso lo stesso sepolcro degli Scipioni. Rispecchia questa fusione tra gli edifici abitativi e quelli sepolcrali, tra vita e morte, l’uso che i Romani avevano attraverso le loro iscrizioni funerarie - di parlare ai vivi, ai passanti che percorrevano le strade, quasi chiamandoli e invitandoli a fermarsi per ricordare la propria vita, il proprio nome e il proprio lavoro, e cercando alcune volte di strappare una lacrima o un sorriso. In questo contesto rientra un’iscrizione funeraria, riportata dal Lanciani e trovata proprio all’interno della vigna Codini, che incarna perfettamente l’animo romano: il defunto stesso ammonisce i malintenzionati e gli avvocati a girare al largo dalla sua tomba. I BIBLIOGRAFIA: R. LANCIANI, Rovine e scavi di Roma antica, Roma 1985, 291-295; F. ASTOLFI, I colombari di vigna Codini, in Forma Urbis (supplemento), 3, 1998, pp. 5-30; L. PARRI, Iscrizioni funerarie, colombari e liberti. Il terzo ipogeo di Vigna Codini ed alcuni dei suoi epitaffi, in Atene e Roma, 43, 1998; L. SPERA - S. MINEO, Via Appia. I, Roma 2004, 43-45; C. CALCI, Roma archeologica, Roma 2005, 335-337.

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L’AREA ARCHEOLOGICA

a moderna città di Urbisaglia, in provincia di Macerata, sorge sopra una collina a circa 310 metri s.l.m. e prende il suo nome dall’antica Urbs Salvia, i resti della quale sono tutt’ora visibili sia fuori dall’attuale abitato, sia lungo la strada statale 78, che ricalca l’antico tracciato della Salaria Gallica. L’antico nome di Urbs Salvia deriva forse da un culto terapeutico legato in età imperiale alla dea Salus, al quale era probabilmente collegato il culto imperiale o alcuni aspetti dello stesso. Gli scavi archeologici, iniziati alla metà del XX sec. e tuttora in corso, hanno dimostrato che non esistono tracce di una occupazione precedente a quella romana del territorio. Possiamo però supporre che già dal III sec. a.C. vi fosse una delle prefetture create in questa zona del Piceno dopo la sua conquista.

URBISAGLIA

In alto, a destra: La cittadina di Urbisaglia. Lungo il pendio della collina, sulla destra, si possono vedere i ruderi del teatro tra gli alberi Nella pagina accanto, in basso: Nella foto si notano, inglobati all'interno della casa colonica del 1800, i resti dei pilastri di una porta urbica

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Mentre per lungo tempo si è pensato che la città fosse già elevata al rango di colonia sotto Augusto, a seguito della sua opera di colonizzazione di tutto il territorio italico, oggi si sta facendo strada l’ipotesi che la città fosse una colonia fondata nel II sec. a.C. Questo grazie a due epigrafi rinvenute durante gli scavi degli anni Cinquanta del XX sec., che ricordano il nome e la carriera politica del magistrato che aveva col proprio denaro finanziato la costruzione dell’anfiteatro, Lucio Flavio Silva Nonio Basso, che nell’81 d.C. pervenne anche alla somma carica del consolato.


Di maggiore importanza è il fatto che Lucio Flavio Silva Nonio Basso abbia ricoperto in ambito locale la carica di praetor quinquennalis. Questo incarico, ricoperto da Silva all’inizio della sua carriera, dimostra che Urbs Salvia non faceva parte dei municipi romani: la pretura come massima carica politica è presente infatti nell’ordinamento delle colonie di antica fondazione, cioè quelle anteriori al I sec. a.C., come, ad esempio, Potentia (Porto Recanati) e Auximum (Osimo) fondate, rispettivamente, nel 184 a.C. e nel 157 a.C. Plinio il Vecchio ricorda il


Sopra: Vista panoramica di un tratto delle mura Sotto: Un tratto delle mura urbiche. Al centro vi sono i resti di una torre Nella pagina accanto, in basso: Resti delle mura di Urbs Salvia

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nome degli abitanti di Urbs Salvia, chiamandoli Urbe Salvia Pollentini (“Pollentini di Urbs Salvia”). Questa informazione suggerisce che forse, nel II sec. a.C., la città si chiamava Pollentia, nome considerato di buon auspicio, che troviamo simile o uguale in altre colonie

proprio in tale periodo. Anche se gli scavi archeologici hanno confermato una continuità topografica, purtroppo ignoriamo quando la città cambiò il suo nome. Urbis Salvia è l’unica città, oltre ovviamente a Roma, ad averci restituito un frammento dei Fasti Trionfali ed il fatto che in questo elenco di generali che avevano celebrato il trionfo sui popoli vinti, vi siano gli stessi errori presenti nei Fasti di Roma, fa pensare che la lista di Urbs Salvia sia stata copiata direttamente da quella esposta nel Foro Romano. Come per la maggior parte dei centri dell’Impero Romano, il declino di Urbs Salvia è da collocarsi nel periodo tardo-antico, quando oramai sia la crisi politica che quella economica erano divenute insostenibili. Procopio di Cesarea racconta che durante la guerra greco-gotica, la città fu saccheggiata dai Visigoti di Alarico, ma non venne completamente distrutta e la sua esistenza continuò ancora per un certo periodo. Alcune


iscrizioni confermano la notizia dell’esistenza di una sede episcopale, dataci dalle scarse fonti tardo-antiche che possediamo su Urbs Salvia. Nei primi secoli del Medioevo gli abitanti si spostarono sulla collina, dando vita a quello che conosciamo come Castro de Orbesallia; nelle vicinanze della città sorse nel XII sec. anche l’Abbazia Cistercense di Chiaravalle di Fiastra. Perfino Dante Alighieri menziona Urbisaglia nella Divina Commedia (Paradiso, XVI 73-78): Se tu riguardi Luni e Urbisaglia / come son ite, e come se ne vanno / di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia, / udir come le schiatte si disfanno / non ti parrà nova cosa né forte, / poscia che le cittadi termine hanno. I monumenti visibili e discre-

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tamente conservati di Urbisaglia sono le mura urbiche con le tre porte, la cisterna dell’acquedotto del Serino, il teatro, l’anfiteatro e soprattutto il complesso santuariale consacrato alla dea Salus. MURA E PORTE URBICHE L’attuale zona archeologica occupa praticamente quasi tutto quello che era lo spazio, cinto dalle mura difensive, dell’antica Urbs Salvia. Le mura si sono conservate in quasi tutta la loro lunghezza, tranne che nella zona ovest, dove non è rimasto nulla. Sono realizzate in opera laterizia, e sono interrotte a distanze regolari da torri di forma poligonale e ottagonale. Su una torre, sono ancora visibili le feritoie ed i fori delle travature che formavano il solaio del primo piano della torre stessa.

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Sono arrivati fino a noi i resti più o meno conservati di tre delle porte che originariamente dovevano aprirsi lungo il circuito delle mura. Una delle meglio conservate è quella nord, a cavallo della SS 78, della quale si conserva ancora bene il mesopirgo, cioè lo spazio trapezoidale davanti alla porta formato da quattro segmenti di muro e da due torri poste agli angoli. Più a ovest, lontano dal resto delle rovine, si conservano gli imponenti piloni in opera cementizia di un accesso monumentale alla città, denominato porta Gemina, che oggi sono inglobati in una casa colonica ottocentesca, in grave stato di abbandono. A sud, l’altra porta posta lungo la Salaria Gallica, non è oggi praticamente quasi più esistente, se non, forse, per alcuni frammenti di muratura in opera

cementizia probabilmente appartenenti ad un pilastro. Le mura di Urbs Salvia sono nate sicuramente con l’impianto urbanistico e la monumentalizzazione della città e sono quindi collocabili in un intervallo di tempo compreso tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C. ACQUEDOTTO E CISTERNA Situata sulla parte più alta della città antica, cioè sulla sommità del colle di San Biagio, a circa 310 metri s.l.m., è la grande cisterna di Urbs Salvia formata da due gallerie parallele, tra loro comunicanti mediante due aperture, ognuna delle quali misura in lunghezza 170 piedi romani (50 m ca.). Le gallerie sono alte e larghe 14 piedi (4 m ca.) e le loro pareti interne sono completamente rivestite in cocciopesto, perfetta-


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A pag. 24: La Porta Sud con in primo piano il Mesopirgo, attraversata dalla SS 78 A pag. 25: Visione dell'esterno della Porta Sud, sovrastata dal moderno attraversamento della SS 78 Sopra: Una delle due aperture che mettono in comunicazione tra loro le due gallerie della cisterna Al centro: Al centro della foto è il condotto di immissione della cisterna, con abbondanti incrostazioni calcaree In alto, a sinistra: Il foro dal quale partivano le tubazioni che distribuivano l'acqua alla città Nella pagina accanto, in basso: La cavea del teatro ed i resti della scena. Si possono inoltre notare le lesioni prodotte dal movimento franoso della collina

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mente conservato, al fine di garantire impermeabilità alla struttura. Lo stato di conservazione globale della struttura è ottimo e i pochi danni visibili sono da imputare soprattutto alla soprastante vegetazione. All’estremità sud della galleria occidentale, è visibile, subito sotto l’imposta della volta, il foro di immissione dell’acqua. All’interno della cisterna, l’acqua veniva fatta decantare e poi veniva convogliata nella città sottostante tramite tubature in terracotta. Un foro posto a metà di una delle due gallerie è ciò che resta del sistema di adduzione dell’acqua dalla cisterna. L’acquedotto di Urbs Salvia captava l’acqua da una sorgente

sita a pochi chilometri a nord dall’attuale città di Urbisaglia, presso il Fosso del Rio, in una località chiamata Acqua Santa. Lo speco dell’acquedotto, mantenendo una pendenza costante, attraversa tutta la cittadina in modo rettilineo sotto l’attuale Corso principale, dove si possono ancora vedere i pozzi di ispezione (lumina). La prima parziale esplorazione del condotto, compiuta nel 1854, tramite uno dei pozzi di via Bellonico, lungo Corso Giannelli, ha permesso di valu-


no rinvenute quattro tegole dipinte, raffiguranti alcune divinità, Giove, Minerva con serpente, una Vittoria alata, e un quarto esemplare, in pessime condizioni, oggi perduto. Con ogni probabilità queste divinità erano state poste a protezione dell’acquedotto cittadino. Nel museo di Fermo si conserva un’epigrafe nella quale si legge una dedica alle Nimphae Geminae da parte di C. Fufius Gemini l(ibertus) Politicus, il quale aveva dotato la città di un acquedotto. Da questa iscrizione si può con buona probabilità ipotizzare che il patrono del liberto C. Fufius Politicus sia il medesimo Fufius Geminus al quale si deve la costruzione del teatro e del complesso idrico di Urbs Salvia. tarne forma e dimensioni. L’acquedotto presenta uno speco alto 5 piedi romani (1, 50 m ca.) e largo 2 piedi (0,60 m ca.) ed è realizzato in tegole sesquipedali (m 0,44 x 0,32 x 0,05) con una copertura del tipo a cappuccina. All’interno dello speco furo-

TEATRO Posto subito sotto la cisterna, seguendo il naturale declivio della collina, è il teatro di Urbs Salvia, uno dei più grandi dell’Italia centrale.

La cavea, orientata verso sudest, è stata ricavata direttamente nel fianco della collina, secondo il classico modello dei teatri greci. Realizzato su uno dei più alti terrazzamenti su cui era stata edificata la città, si presenta ancora oggi in tutta la sua imponenza e monumentalità, anche se purtroppo ridotto in pessimo stato. I gravissimi danni subiti dalla struttura sono dovuti ai movimenti franosi della collina sulla quale sorge, movimenti già consistenti in epoca romana, tanto che il teatro risultava già gravemente lesionato e quindi abbandonato in epoca tardo-antica. Il monumento fu completamente scavato negli anni ‘50 del secolo scorso, ma era già stato riportato alla luce nel Settecento. La struttura è realizzata in opera cementizia rivestita da cortina laterizia e specchiature in opera reticolata. La cavea misura 350 piedi romani (104 m ca.) e si presenta divisa in tre settori di gradinate: ima, media, e summa cavea. Sono ancora visibili e, in alcuni

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Sopra: Visione panoramica del teatro Sotto: In primo piano i resti della scena del teatro di Urbs Salvia Nella pagina accanto: Visione dell'Edificio a Nicchioni

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casi, ancora praticabili, i vomitoria, ossia gli accessi posti su tutti i livelli della cavea, tramite i quali gli spettatori potevano raggiungere le gradinate. La cavea è completamente circondata da un ambulacro anulare avente la funzione di

drenare, isolare e fare da controspinta al terreno retrostante. Sulla summa cavea sono visibili i resti di un piccolo tempio di forma quadrangolare, fiancheggiato dal colonnato presente nell’ultimo settore della cavea. Non si è conservato pratica-


EDIFICIO A NICCHIONI

mente nulla della scena del teatro, tranne il disegno realizzato in laterizio - sulla base delle labili tracce della muratura antica in occasione dei moderni restauri. La scena del teatro aveva un podio rettilineo e tre aperture, la maggiore delle quali, la centrale (porta regia) si apriva nell’esedra centrale. Sulle due esedre minori, poste ai lati della maggiore e di forma quadrangolare, si aprivano le altre due porte minori (portae hospitales). Sono ancora parzialmente visibili le canalizzazioni per il drenaggio dell’acqua e, sotto il pulpitum, si notano sei pozzetti che erano usati per posizionare le intelaiature lignee utili al funzionamento del sipario (auleum), che in epoca romana veniva alzato e abbassato il modo verticale, e raccolto poi in un apposito canale posizionato davanti alla scena. Si entrava nel teatro dalla porticus post scaenam, cioè dal grande portico quadrangolare posto alle spalle della scena, nel quale si aprivano due ambienti, i parascaenia, posti simmetricamente alla scena, che immettevano direttamente all’orchestra, nella

quale si trovavano i sedili riservati alle maggiori personalità cittadine. Nel 1955, nella zona prossima al teatro, venne rinvenuta una iscrizione nella quale si legge che il teatro era stato costruito intorno al 23 d.C., sotto il principato di Tiberio, a spese di un alto magistrato cittadino, C. Fufius Geminus, che viene definito patronus coloniae.

Posto sotto il teatro, continuando la discesa della collina, è un altro dei terrazzamenti e qui è possibile vedere i resti di un imponente muro in opera cementizia, il quale aveva la funzione di sostruzione della terrazza sulla quale sorge il teatro. Nel muro sono visibili sei nicchie di notevoli dimensioni che lo hanno per molto tempo fatto ritenere un ninfeo monumentale. Oggi si è invece giunti all’ipotesi che le nicchie svolgevano un compito pratico, cioè quello di creare una controspinta alla pressione del terreno retrostante, fungendo così in pratica da veri e propri contrafforti. Questo perché - come abbiamo visto in precedenza - la parte di collina e il terrazzo sul quale sorge il teatro erano già franosi in età antica. Alle spalle del cosiddetto edificio a nicchioni vi è un’intercapedine che aveva il compito di raccogliere l’acqua che drenava dal terreno retrostante e che, tramite canalizzazioni, era fatta sgorgare da apposite bocche, tuttora visibili nei nicchioni, le quali mostrano abbondanti incrosta-

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zioni calcaree. Tale struttura fu realizzata sicuramente nel momento della costruzione stessa della città, ma poi fu modificata con l’aggiunta di una copertura realizzata con la costruzione di un criptoportico quadrangolare, detto Criptoportico superiore, per distinguerlo dal criptoportico del complesso santuariale della dea Salus. Restano tracce di intonaco dipinto in pessimo stato di conservazione e resti del pavimento ad un livello più basso dell’attuale piano di campagna. Ad oggi non si è ancora capito l’uso di tale struttura che appare come un portico che circonda un grande spazio centrale scoperto. Resti del Decumano Massimo sono stati individuati a sud dell’edificio. Si può vedere infatti una strada basolata con direzione est-ovest, con ai lati i marciapiedi. Questa si incrociava perpendicolarmente con il Cardo Massimo, attualmente ricalcato dalla SS 78. FORO Il foro di Urbs Salvia è ad oggi sostanzialmente inesplorato. Sono infatti stati eseguiti solo alcuni sondaggi che hanno intercettato il pavimento della piazza, realizzato con lastre calcaree, ed hanno rivelato la presenza di strutture interpretate come il podio di un tempio con una scalinata frontale. Davanti a questo vi è un monumento onorario. Sono state identificate anche altre strutture in posizione di crollo, come due pilastri appartenenti forse ad un arco. Tutte le strutture viste, presentano un preciso orientamento sud-nord rispetto alla piazza del foro, costituendo di fatto il limite della stessa. Il foro era dominato ad est dalla mole monumentale del tempio della dea Salus ed era circondato da edifici e con buona probabilità da portici.

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TEMPIO DELLA SALUS AUGUSTA Il principale monumento di Urbs Salvia è sicuramente il tempio dedicato alla Salus Augusta, intesa come divinità protettrice della persona dell’imperatore. Il monumento è formato dal Tempio-Criptoportico avente la fronte orientata verso ovest. La costruzione sorge su una grande piattaforma che venne creata accumulando terreno all’interno di murature ed è circondata da un portico monumentale articolato su due piani. La facciata del complesso

dava sulla Salaria Gallica, e creava poi una monumentale scena architettonica verso tutti gli edifici del foro, divenendo esso stesso un monumento forense. Il Tempio era prostilo esastilo, cioè aveva sei colonne sulla fronte e due colonne sui lati corti del pronao e misurava 55 x 102 piedi romani (ca. 16 x 30 m). Della struttura resta solo parte del podio in opera cementizia e tracce dei muri interni di divisione, mentre non sono conservati i blocchi di calcare bianco locale con cui la struttura era sicuramente rivestita.


Il tempio presentava un profondo pronao ed una cella praticamente quadrata, sul fondo della quale si apriva un’abside che creava col muro di fondo due piccoli ambienti di risulta. L’edificio venne modificato nel tempo. In un primo momento, infatti, l’accesso era garantito da una vasta scalinata posta al centro della fronte, ma successivamente, forse a causa del crollo di un corridoio tuttora visibile, vennero realizzate due scalinate poste simmetricamente ai lati, le quali portavano ad una piattaforma, dalla quale partiva la scalinata che permetteva l’accesso al pronao. Dal pronao era possibile entrare nella cella tramite una monumentale porta. Sul fondo della cella, come visto, vi era l’abside nella quale era collocata la statua della divinità. Alle spalle della cella vi è una superficie che anche anticamente era scoperta, forse tenuta a giardino, con al centro un basamento di forma circolare (6 m di diametro), probabilmente con la funzione di accogliere gruppi statuari. Il criptoportico che circondava il podio del tempio vero e proprio, era costituito da quattro corridoi semisotterranei, tre dei quali erano divisi in due navate, mediante una serie di arcate pogSopra: Visione d'insieme dei resti del complesso Santuariale della Dea Salus A destra: Interno del criptoportico Nelle due pagine successive: Interno del criptoportico. Si vedono al centro le arcate ancora in posizione di crollo


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gianti su pilastri rettangolari. Ancora oggi è possibile avere un’idea dell’aspetto di tali arcate, poiché queste, crollate a seguito di un sisma avvenuto nella metà del XIX sec., sono state ritrovate dagli archeologi in posizione di crollo e alcune di queste sono state conservate così come vennero scoperte, cioè praticamente intatte, ma coricate su un fianco e appoggiate ai detriti. I due lati maggiori del criptoportico misurano 52 m; quello posteriore al tempio, che raccorda i due maggiori, misura 42 m. Le pareti del criptoportico, i pilastri con le arcate che dividevano i corridoi, erano completamente intonacati e dipinti. Sono tuttora visibili abbondanti tracce di pittura in discreto stato di conservazione, soprattutto nel corridoio meridionale. La pittura era stata divisa in tre fasce: la prima, quella più bassa, imitava il marmo con pennellate di colo-

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re scuro; la fascia centrale, più ampia, era a sua volta divisa in grandi riquadri mediante listelli verticali decorati e candelabri. Su tali riquadri dal fondo bianco, sono raffigurati trofei militari, composti da armi, tra le quali sono ancora identificabili lance, scudi, elmi, ecc. La terza fascia, quella più alta e anche la più sottile, è forse quella che desta maggiore meraviglia. In essa sono infatti rappresentate scene naturalistiche con animali feroci esotici e scene di caccia, intervallate tra loro da maschere lunari. Gli scavi archeologici hanno permesso di datare la costruzione del complesso santuariale in un arco cronologico che va dall’età di Tiberio a quella dell’imperatore Claudio. Tale datazione era già stata ipotizzata sulla base dell’analisi stilistica delle pitture del criptoportico, appartenenti al III stile pompeiano e riferibili quindi ad un arco cronologico oscillante tra il 15-20 d.C. e il 45 d.C.

Nella pgina accanto, in alto: Un altro braccio del criptoportico con resti di pitture

Sotto: Scene di caccia della fascia alta delle pitture

In basso, al centro: Pitture parietali del criptoportico del Santuario della Dea Salus

Al centro: Scene di caccia. Un leone insegue una preda In basso: Scena di caccia con animali selvatici locali

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MONUMENTI FUNERARI All’interno dell’area archeologica, subito fuori le mura, troviamo una strada sterrata che porta all’anfiteatro e corre grosso modo parallela alla SS 78, ai lati della quale sorgono i resti di due monumenti funerari, che - come in tutte le città del mondo romano - sono collocati appunto all’esterno dell’abitato. Si tratta di tombe a torre alte circa 6 m con il nucleo in conglomerato cementizio, nel quale si possono notare bene i segni orizzontali delle varie gettate di malta, che originariamente dovevano essere rivestite con lastre calcaree, oggi completamente scomparse. I sepolcri dovevano avere sulla fronte principale una nicchia, all’interno della quale era posta la statua raffigurante il defunto, corredata da un’iscrizione con il suo nome e forse quello del dedicante. Dai resti attuali è difficile stabilire il loro aspetto antico, si tratta però di tombe che contenevano l’urna con le ceneri all’interno del conglomerato cementizio. Sulla base si confronti tipologici si è giunti a datare i due monumenti in un periodo compreso tra la fine dell’età flavia e l’inizio del II sec. d.C.

In basso: Monumenti funerari posti lungo la strada sterrata che conduce all'anfiteatro In alto: Visione panoramica dell'anfiteatro di Urbs Salvia Sopra: Visione panoramica dell'arena dell'anfiteatro

ANFITEATRO Proseguendo la strada sterrata fiancheggiata dai due monumenti sepolcrali, si giunge all’anfiteatro di Urbs Salvia, che è collocato, come in molte città romane, all’esterno dell’abitato. Questo soprattutto per motivi di carattere pratico, quali la presenza spesso di animali pericolosi destinati alle cacce (venationes) e soprattutto il problema delle grandi folle che affluendo negli anfiteatri avrebbero provocato problemi di congestione delle strade cittadine. Di forma leggermente ellittica, misura all’esterno, sugli assi maggiori 93 x 73 m e presenta un orientamento nord-est/sudovest. Sappiamo, grazie ad un’iscrizione rinvenuta in frammenti nel 1957, che venne costruito nell’81 d.C. da Flavio Silva Nonio Basso, generale dell’imperatore Tito, che lo aveva accompagnato nelle guerre giudaiche e che per conto dello stesso imperatore le aveva portate a termine.


Resta praticamente intatto il perimetro dell’edificio, fino all’altezza del primo ordine interno della cavea (ima cavea), compresi i vomitoria di tale livello. All’esterno si conservano parzialmente i pilastri del corridoio del primo ordine di quella che era la facciata esterna del monumento. Dallo studio delle architetture superstiti, si è supposto che la cavea era sicuramente divisa in tre ordini di gradinate, ossia ima, media e summa cavea. La summa cavea poggiava sui pilastri esterni che, come detto, formavano la facciata esterna dell’anfiteatro. Oggi all’esterno si vede un muro che regge il terrapieno sul quale poggiavano le gradinate dell’ima cavea, articolato da una serie di nicchie semicircolari, anche queste con funzione di controspinta. In una fase successiva, all’interno di alcune nicchie, a intervalli regolari, furono costruite delle rampe di scale in muratura, ancora parzialmente conservate, che avevano la funzione di

portare ai livelli superiori della cavea. Sull’asse maggiore, alle sue estremità, si aprono gli unici due accessi monumentali all’arena. Accanto all’accesso sud, si apre un piccolo corridoio con volta a botte, anch’esso conducente all’arena, preceduto esternamente da un piccolo vano quadrangolare, del quale resta solo il perimetro visibile sul piano di campagna. Questo corridoio è stato identificato come la porta libitinense, la porta presente in tutti gli anfiteatri, attraverso la quale erano portati via dall’arena i corpi dei gladiatori e delle belve uccisi, mentre la piccola stanzetta è stata interpretata come il luogo nel quale venivano momentaneamente adagiati i cadaveri o come una sorta di piccola infermeria in cui prestare cure ai feriti. L’arena è circondata da un podio non molto alto, che si mostra abbondantemente restaurato, ma suscitano particolare interesse i due condotti con

copertura a cappuccina che si aprono su questo, e che per molto tempo sono stati visti come la prova dell’allagamento dell’arena per lo svolgimento di battaglie navali (naumachie). Tuttavia, sia la scarsa altezza del muro del podio, sia le modeste dimensioni dell’arena, hanno suggerito di scartare l’ipotesi delle naumachie, ritenendo invece più plausibile che i condotti servissero all’immissione e all’espulsione di acqua destinata alla pulizia dell’arena alla fine dei combattimenti. I

BIBLIOGRAFIA: G. PACI et alii, Urbs Salvia tra storia e archeologia, in Cittàideale. Cultura ambiente turismo nelle Marche, 3, 2000;

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LA VILLA DI PUBLIO VEDIO POLLIONE

C

etera noli putare amabiliora fieri posse villa, litore, prospectu maris, tumulis his rebus omnibus. (Cicerone, Ad Att. XII, 9) “Niente, credimi, è più amabile della villa, della spiaggia o della vista del mare e di tutte queste cose messe insieme”

PAUSILYPON

In alto: Spettacolare panoramica sul mare vista dalla villa di Publio Vedio Pollione Nella pagina accanto in basso: Altra panoramica sul mare

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Mai come in primavera, quando la temperatura è mite e il sole ci accarezza, ci si rende conto del perché a partire dall’età repubblicana e per quasi due secoli i romani scelsero la costa campana come luogo privilegiato per il loro otium. Infatti, sul litorale, che dalla Punta della Campanella arriva fino a Baia e Miseno, si susseguono una serie di testimonianze archeologiche, in prevalenza appartenenti a ville, alcune delle quali luogo di importanti avvenimenti. Così, ad esempio, nella villa, inglobata nella fortezza costruita nel XVI

secolo, oggi carcere minorile, sull’isoletta di Nisida (dal greco Nesìs, “piccola isola”) prospiciente il promontorio di Posillipo, secondo le testimonianze, i due cesaricidi, Bruto e Cassio, tramarono la congiura contro Cesare e, sempre nella stessa villa, Bruto, dopo l’omicidio, nel 44 a.C., accolse Cicerone per discutere le conseguenze politiche dell’uccisione. Infine, la stessa villa fu teatro, secondo


quanto racconta Marziale in un epigramma (I, 42), del suicidio della moglie di Bruto e figlia di Catone, Porzia, che, appresa la notizia della morte del marito nel 42 a Filippi, si uccise ingoiando carboni accesi (‌ ardentis avido bibit ore favillas). Questa villa - alla pari delle altre costruite nella zona - rientra nella categoria delle “ville marittimeâ€?, con cui designiamo le lussuose residenze private realizzate per sod-


disfare i capricci dell’aristocrazia dell’epoca e, per questo, collocate in luoghi panoramici e ameni, perfettamente integrati in un’architettura articolata in porticati aperti sul mare, lunghi percorsi panoramici, ambienti destinati al diletto come le peschiere (strutture per la pescicoltura) e stanze riservate al riposo e alle dotte discussioni fra uomini di cultura. In questa elegante cornice residenziale di età tardo-repub-

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blicana si inserisce anche la villa che il ricco cavaliere Publio Vedio Pollione costruì sul promontorio di Posillipo e che nel 15 a.C., dopo la sua morte, lasciò in eredità all’imperatore Augusto, insieme alla domus cittadina nel quartiere della Subura sull’Esquilino. Il nome del luogo scelto per la villa risulta già eloquente, se pensiamo che in greco (Pausilypon) significherebbe luogo che animi moerorem sedat (?luogo che placa la tristezza

dell’animo?). Secondo la leggenda Posillipo, figlio di una divinità marina, cercò di possedere con la forza una splendida fanciulla, Nisida, che, per sfuggirgli, si gettò in mare; così, entrambi furono trasformati in scogli, lui per aver disubbidito al volere divino e lei per aver rifiutato l’amore di un figlio degli dei. Originario di Benevento, Publio Vedio Pollione, nonostante le origini libertine, riuscì a raggiungere il rango equestre e


Sopra: Particolare di resti di murature della villa con tracce di intonaco colorato In alto a destra: Particolare delle strutture della villa A destra: Strutture murarie realizzate in opera reticolata e ricoperte con intonaco colorato


A sinistra: Una delle scale che portavano ai piani superiori della villa In basso: Uno degli ambienti più grandi della villa Nella pagina accanto in alto: Particolare esterno degli ambienti della villa

quindi ad assumere, benché cavaliere, il governo della ricca provincia dell’Asia, come testimoniano alcune dediche in suo onore, la coniazione di monete con il suo nome e il suo ritratto e l’emissione di una constitutio Vedii Pollionis. Tuttavia, questo facoltoso romano non godeva nell’Urbe di buona fama: Cicerone lo definiva l’uomo più iniquo e lo stesso imperatore Augusto lo osteggiava in quanto ultimo esponente dei ricchi scialacquatori della tarda età repubblicana, tanto che impedì, alla morte di questi, l’erezione di un monumento funebre a spese

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pubbliche e - coerentemente con il suo programma politico ordinò di radere al suolo la ricca domus di Pollione nella Subura, divenuta emblema provocatorio dell’ostentazione del lusso privato, per costruire al suo posto un edificio pubblico, la Porticus Liviae. Dopo la morte di Pollione e il passaggio nel patrimonio di Augusto, il nucleo originario della villa fu ampliato e articolato in più pertinenze riportate alla luce a partire dalla metà del XIX secolo: dell’intero complesso oggi si possono visitare il cosiddetto Tempio, il Teatro e


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l’Odeion, che insieme fanno parte della pars publica della villa. Il primo edificio, che probabilmente permetteva un ingresso monumentale alla zona pubblica, presenta una forma quadrata, absidata sul lato occidentale, e un ambiente interno articolato in tre navate. L’edificio più significativo è tuttavia il teatro, che nel suo genere costituisce un unicum. Secondo il celebre architetto Vitruvio (De Architectura, V, 6), infatti, la sua pianta canonica consisteva in un cerchio nel quale erano inscritti quattro triangoli equilateri che divideva-


Nella pagina accanto in alto: Particolare dell’ingresso della villa Sotto: Panoramica del teatro A destra: Il teatro visto dall’interno della villa

no la circonferenza in dodici archi uguali; il muro di fondo della scena coincideva con la base di uno dei quattro triangoli. I vertici, poi, segnavano i punti di partenza di sette file di gradini che dividevano la cavea in sei sezioni (cunei) fino all’altezza del primo corridoio (praecinctio), al di sopra del quale il numero dei gradini raddoppiava; le rimanenti estremità fissavano la posizione delle tre porte sul muro di fondo (la valva regia e i due hospitalia). La lunghezza della scena era pari a due volte il diametro dell’orchestra e l’altezza del proscenio non doveva superare il metro e cinquanta, per dar modo agli spettatori, occupanti l’orchestra, di poter vedere comodamente gli attori. Mediante sottopassaggi a volta sui quali si disponevano gradinate con sedili per i personaggi di riguardo (tribunalia), l’edificio scenico era collegato alla cavea utilizzando quegli spazi laterali che nel teatro greco rimanevano aperti. La cavea era sostenuta da arcate sovrapposte che nella facciata esterna erano scandite da tre ordini di colonne (rispettivamente doriche, ioniche, corinzie) e mentre i primi due ordini si presentavano come una successione di porticati aperti, l’ultimo piano, invece, era un porticato

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continuo chiuso; sugli archi del piano terra, poi, vi erano delle indicazioni numeriche corrispondenti alla tessera, generalmente in osso o in avorio, di cui ogni spettatore era munito in modo che fosse garantito un accesso ordinato di pubblico; l’afflusso e il deflusso era, infine, assicurato dai vomitoria, ingressi a volta, posti sui corridoi laterali oppure nel mezzo dei cunei. Nell’orchestra semicircolare prendevano posto, sulle sedie curuli, i senatori, nell’ima cavea si accomodavano gli esponenti dell’ordine equestre, nella media cavea uomini e soldati, mentre nella summa il popolo e le donne. Nel caso, invece, del teatro del Pausilypon ci troviamo di fronte ad una struttura che solo in parte rispetta lo schema vitruviano, in quanto la cavea è appoggiata ad un declivio della collina retrostante, secondo una tecnica costruttiva tipicamente greca e non romana. Essa, poi, seppure divisa in ima, media e summa cavea, presenta un numero di cunei e gradini inferiore rispetto a quello previsto e manca degli ordini di arcate sovrapposte a sostegno delle gradinate, mentre presenta i tribunalia in corrispondenza dell’ottava fila dei gradini della media cavea, su cui dovevano prendere posto spettatori particolarmente in vista. Dall’orchestra semicircolare, con pavimentazione in marmo, oggi perduta, partiva, poi, una lunga vasca di forma rettangolare, che doveva servire per spettacoli d’acqua e che presenta una serie di quaranta fori, disposti su due file parallele, destinati ad alloggiare pali lignei per il mantenimento di un tavolato che serviva, quindi, come palcoscenico. Dalla parte opposta, forse al di là di un viridarium (“giardino”) sorge, invece, l’Odeion, o piccolo teatro coperto, che fin dalle origini nel mondo greco

serviva per le audizioni musicali che accompagnavano la recitazione delle odi e dei passi di retorica. Anch’esso è costituito da una cavea, in parte appoggiata ad un pendio e in parte su sostruzioni laterali. All’altezza, poi, della quarta fila di gradini, una piattaforma aveva la funzione di ospitare il seggio imperiale e, alle sue spalle, un’abside circolare serviva per accogliere una statua, presumibilmente dello stesso imperatore. La scena presenta, invece, nella parte bassa tre nicchie semicircolari affiancate da due stanze che prendevano il posto dei parascaenia, nella parte alta, infine, vi è un’ampia e profonda esedra con sei colonne addossate alla parete. Completano la villa una serie di altre strutture, non ben identificate nella forma e nella destinazione d’uso, molte delle quali, oggi, al di sotto del livello del mare, coperte dalla fitta vegetazione o interrate. Tra queste spiccano una struttura dalla forma quadrata absidata, provvista di nicchie, forse da identificare con un ninfeo, ma in cui la tradizione erudita riconosce la“Scuola di Virgilio”, e una struttura a due

Nella pagina accanto: Nelle due immagini, due particolari del piccolo teatro coperto (odeion) Sopra: Strutture della villa inglobate nella fitta vegetazione

piani in opera reticolata indicata col nome di “Palazzo degli Spiriti”, dove nei secoli passati i seguaci dello spiritismo partenopeo si riunivano per evocare “presenze” soprannaturali. L’accesso all’intero complesso era assicurato nel periodo imperiale da una grande galleria, scavata nel tufo e nel terreno pozzolanico, lunga quasi un chilometro (770 m ), usata per collegare la zona di Coroglio con quella della Gaiola e definita dal Pontano “Grotta di Seiano”, perché, secondo l’umanista, proprio il ministro dell’imperatore

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Nella pagina accanto: L’attuale ingresso alla grotta di Seiano A sinistra: Particolare dell’interno della grotta Sotto: Particolare dell’uscita della grotta di Seiano

Tiberio ne sarebbe stato l’artefice. Questa grotta, scoperta nel 1840 durante il regno di Ferdinando II venne, per volere dello stesso re, ripulita del terreno, ricostruita nei tratti crollati, rinforzata con sottarchi in tufo e, così, inserita negli itinerari del Grand Tour. Durante la seconda guerra mondiale, invece, la struttura fu usata come rifugio per gli abitanti della zona industriale di Bagnoli e, infatti, a questo periodo risalgono i sedili in tufo e le latrine visibili, ancora oggi, nella zona dell’ingresso da Coroglio. La struttura presenta una sezione quadrata, la cui ampiezza aumenta in altezza e larghezza man mano che si avvicina agli ingressi, per consentire una maggiore luminosità e areazione, assicurate, del resto, anche dai tre cunicoli laterali, il mag-

giore dei quali presenta una lunghezza di 129 m. L’andamento è pressochè rettilineo, tranne nella parte centrale, probabilmente per un errore di calcolo, dal momento che lo scavo iniziò contemporaneamente dal lato di

Coroglio e da quello della Gaiola. La realizzazione dello scavo, inoltre, fu contemporanea al rivestimento: prima vennero realizzate le pareti verticali, che nella parte bassa presentano una muratura interna con riempimento a sacco e rivestimento in opera reticolata o incerta, e poi la volta, leggermente ogivale, riempita con malta e pietrame e sostenuta con centinature in legno, di cui rimangono in vista ancora oggi i fori destinati a reggere le centine. I




UNA TESTIMONIANZA MONUMENTALE DELLA SCULTURA DEL III SEC. D.C.

In questa pagina e nelle seguenti: Resti del sargofago c.d. di Acilia e vari particolari dello stesso

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È

curioso come da azioni, gesti, oppure operazioni che si ripetono quotidianamente provengano grandi ed importanti scoperte che condizionano il corso della storia. Uno dei tanti esempi è rintracciabile proprio nel frammento del sarcofago che andremo ad analizzare, ritrovato per un caso fortuito nei pressi di Acilia, località situata tra Roma ed Ostia, e oggi conservato nel Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo. Nel luglio del 1950, durante i consueti lavori di aratura, un contadino rinvenne nel sottosuolo (per sua fortuna, oserei dire, visto che per la scoperta gli venne donato un premio di 200.000 lire) numerosi frammenti marmorei, in gran parte combacianti, in cui erano riconoscibili almeno quindici figure, tra maschili e femminili, tutte riccamente panneggiate, cinque teste

IL SARCOFAGO DI ACILIA

virili e una testa femminile non ricomponibile, ma solidale, oltre a mani, arti e resti di panneggi. E’ stato possibile ricostruire parte di quanto rinvenuto grazie al confronto con altri sarcofagi della stessa tipologia a lenós, cioè a forma di vasca o tinozza di vino, prodotti a Roma nel III sec. d.C., e sui quali, solitamente, erano presenti scene dionisiache. Un primo confronto è il sarcofago Casali, in cui sono raffigurate scene bacchiche con figure


che girano tutt’intorno alla superficie. Il secondo è il sarcofago Torlonia, sul quale è presente una coppia di sposi al centro, mentre ai lati troviamo una serie di figure disposte in primo e in secondo piano. In quest’ultimo supporto compaiono elementi che ritroveremo sia nel sarcofago oggetto di questo studio, ovvero personaggi con ròtuli in mano, lo scrinium e altre carte poggiate a terra, sia nel sarcofago di Plotino, in cui sono presenti due

fasce di ròtuli ai piedi di alcune figure. Da questi raffronti si può dedurre quali siano le caratteristiche precipue dei sarcofagi a lenós: essi sono decorati con figure che occupano tutta l’altezza della superficie, disposte su piani di profondità diversi, con la presenza di un gruppo centrale, ai lati del quale si dispongono figure femminili (sulla destra) e figure maschili (sulla sinistra); le sculture sono di solito ad altori-

lievo e quindi libere di muoversi nello spazio, oppure sono incorniciate da un listello semplice, senza decorazioni; il coperchio come nel nostro caso - appare liscio. Si propone, ora, un’interpretazione della scena rappresentata sul sarcofago. L’opera, di marmo greco, misura 149 cm in altezza, 248 cm in lunghezza e 128 cm in profondità ed è stata ricomposta dall’unione di 35 frammenti (ne

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rimangono altri 72 non combacianti). Le figure realizzate all’esterno - in tutto quattordici - indossano pesanti panneggi intagliati con grande abilità tecnica e forte plasticismo. Il punto focale della scena è nella parte frontale, su cui sono rappresentate al centro due figure, una maschile, con la toga trabeata e con la barba a pizzo, e una femminile, della quale resta solamente parte della veste e il piede sinistro. Sulla sinistra della figura femminile rimangono pochissimi frammenti di quello che doveva essere un gruppo di donne, mentre sulla destra dell’uomo si dispongono altre figure maschili. È interessante notare alcuni dei particolari di queste figure, utili per capire cosa fosse raffigurato sul sarcofago e a cosa si riferisse il gruppo che procede in corteo. La figura maschile al centro è definita dalla contabulatio, un tipo di panneggio della toga

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affermatosi a partire dal III secolo d.C.; sulla barba a pizzo sono visibili segni di gradina e di raspa. Purtroppo sono andati perduti l’avambraccio sinistro, i piedi e parte del volto. La testa è rivolta verso sinistra e sopra l’ascella destra è presente un puntello che la lega alla figura successiva; la superficie della toga è lucida, con tracce di colore rossastro, che probabilmente doveva essere bolo. Alla destra del protagonista troviamo, in secondo piano, una figura mutila inferiormente, di cui rimane solo parte del busto e la testa con una folta chioma ricciuta. Su tutta la superficie della figura restano tracce di lucidatura e di bolo. Proseguendo si colloca in primo piano una figura conservata interamente (tranne il piede e la mano sinistra) che porta un diadema sul capo, regge il sinus della toga e con la mano destra indica il personaggio alla sua destra. Anche in questo caso la superficie è lucida e rimangono

tracce di bolo. Questo soggetto è stato identificato con il Genius Senatus, cioè la personificazione del senato romano, e quindi, molto probabilmente, nella mano sinistra reggeva uno scettro. In terzo piano si nota un volto girato a sinistra, quasi certamente un riempitivo, con tracce di bolo sulla barba. Il personaggio maschile che segue ha il capo calvo e la barba folta; è situato in secondo piano e viene individuato dal Bianchi Bandinelli come la figura di un letterato, sulla base del ròtulo tenuto tra le mani, di cui resta una parte che sporge al di sopra della mano e che era legato ad essa da un puntello all’altezza del petto. Alcuni atteggiamenti del suo corpo - come la spalla sinistra, l’avambraccio e la mano sporgente - sembrano indicare che il soggetto stia parlando. La figura successiva rappresenta un giovane con la mano destra che regge l’orlo del sinus della toga. Nella mano sinistra


tiene i resti di un oggetto cilindrico andato perduto, molto probabilmente un ròtulo, la cui parte superiore era legata alla figura con un puntello. Sull’anulare della mano sinistra, grossolana e segnata da vene (cosa anomala per la rappresentazione di un giovane), porta un anello a gemma ovale. La testa è a tutto tondo e ha i capelli eseguiti a piccole squame. Gli occhi sono grandi, con iride e pupilla profondamente segnati dal trapano, diversi rispetto a quelli delle altre figure, meno marcati. La superficie è ruvida con segni di gradina e di raspa ben visibili; il resto della figura, invece, è lucido e presenta forti tracce di bolo sulla toga. Su uno dei lati del sarcofago, in secondo piano, troviamo, invece, l’immagine di un uomo rappresentato nella sua pateticità con la bocca semiaperta e con la mano portata al mento. Non ha la barba e la sua particolarità è data dalla torsione del volto verso destra, cioè dalla parte opposta rispetto agli altri personaggi. L’ultima figura riconoscibile è quella sul lato estremo del sarcofago, conservata dai piedi fino all’altezza delle spalle. Tra alcune figure sono inseriti dei ròtuli, tenuti insieme da un nastro a metà della loro altezza. Sulla parte posteriore del sarcofago troviamo solo i piedi con calcei e parte delle gambe di un togato. Sono visibili, infine, un lembo di veste militare e un oggetto non identificabile con certezza. Grazie ad altri frammenti rinvenuti - ai quali, purtroppo, gli studiosi non sono riusciti a dare una collocazione precisa - siamo in grado di ricostruire la parte posteriore del sarcofago, composta da figure virili. Si osservi ora la parte occupata dalle figure femminili. Al centro, la donna di cui resta solo il piede sinistro calzante una scarpa chiusa, doveva essere rivolta

dalla parte dell’uomo che le è accanto. La figura successiva è andata perduta. La terza in primo piano, leggermente obliqua verso destra, è conservata fino all’altezza della spalla; la superficie è completamente raschiata. Delle figure successive rimangono solo piedi con calzari che sono alternativamente in primo e secondo piano. Di questa parte dell’opera ci è pervenuta solamente una serie di frammenti che, sfortunatamente, non hanno trovato collocazione. Tra questi, tuttavia, troviamo una mano che sorregge un oggetto cilindrico e parte di una gamba, forse appartenenti ad Eroti vendemmianti.

Secondo Bianchi Bandinelli essi erano collocati tra le figure intorno al sarcofago, come già nel sarcofago Torlonia; mentre Himmelmann li posiziona sul lato anteriore del coperchio, decorato da un fregio con gli stessi soggetti. Al coperchio dovrebbe appartenere anche il frammento n. 31 con una ruota di plaustrum, veicolo usato per il trasporto dell’uva. Per quanto concerne la datazione, in passato erano state fatte alcune ipotesi: Bianchi Bandinelli - seguito da altri studiosi - datava l’opera alla prima metà del III sec. d.C., grazie all’analisi di alcuni elementi, quali l’acconciatura dei capelli della testa femminile (frammen-


to n. 34), le modalità di lavorazione del sarcofago, ricca e vivace, caratteristica ancora del barocco antoniniano, e soprattutto l’identificazione del giovane con Marco Antonio Gordiano, cioè l’imperatore Gordiano III, nato nel 225 d.C. da Mecia Faustina e dal console Giulio Balbo, che - subito dopo la morte del padre, a tredici anni - venne proclamato Cesare e poco dopo Augusto. La scelta di Gordiano sarebbe accettabile anche grazie al confronto con la sua immagine rappresentata sulle monete e nei ritratti, e potrebbe essere confermata dalla presenza di altri elementi che rinviano allo stesso periodo. La testa femminile (frammento n. 34) era inserita nel sarcofago con il profilo rivolto dalla parte opposta rispetto a quello delle altre figure femminili dello

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stesso gruppo. L’espressione è patetica e sembrerebbe quasi in lacrime, ma grazie al confronto con altre teste coeve, siamo in grado di capire che l’angolo lacrimatorio dell’occhio veniva fortemente accentuato con il trapano. Il volto, tuttavia, non è equiparabile ad un ritratto, nonostante l’acconciatura segua la moda del momento (la pettinatura con due ciocche di capelli raccolti e portati sopra la testa è infatti tipica degli anni 230-240 d.C.). Si può ipotizzare che questa figura rappresenti la Concordia e fosse inserita tra le due figure centrali. La datazione sarebbe quindi confermata dallo stile della decorazione del sarcofago che è ancora ricco e pieno di movimento. Il rilievo è particolarmente alto con figure che si staccano quasi completamente dal

fondo. Tale rilievo si appiattisce al centro, mentre è più forte nei personaggi effigiati sul lato curvo: questo fa sì che le figure laterali abbiano la stessa intensità e lo stesso effetto di quelle centrali quando il sarcofago viene osservato dal centro. Ciò è significativo perché, come vedremo in seguito, è proprio la figura laterale la vera protagonista della scena. Da studi più recenti la datazione del sarcofago risale alla fase finale o immediatamente successiva al regno di Gallieno (253-268 d.C.) o, comunque, alla metà del III sec. d.C. Non siamo di fronte ad un solo artista, ma ad una bottega di marmorari che sa utilizzare sapientemente il trapano e realizzare le pieghe delle vesti in una maniera fortemente plastica e virtuosistica. La particolarità della realizzazione risiede nelle differenze emergenti tra alcune figure rispetto ad altre; ciò, quindi, ha fatto supporre al Bianchi Bandinelli che abbiano operato due tradizioni artistiche differenti. Ad esempio, il volto di Gordiano ha una fattura diversa rispetto a quello degli altri personaggi e la figura del Genius Senatus è realizzata con una forte accentuazione della figura, tipica di quell’“espressionismo antico”, che abbandona elementi classici come la simmetria a favore di un carattere più patetico. L’ipotesi più plausibile oggi affermata è che il sarcofago sia attribuibile all’attività di maestri asiatici operanti a Roma: questo spiegherebbe una così forte caratterizzazione barocca tipica proprio di questi scultori. L’interpretazione di questa opera è stata a lungo dibattuta. Inizialmente, infatti, Bianchi Bandinelli aveva letto la scena come la designazione di un giovane principe, indicato con il braccio destro dalla figura diademata, ma la più convincente


risulta essere quella per cui la scena raffigura la dextrarum iunctio, l’unione delle destre tra due sposi, circondati da figure che sembrerebbero essere filosofi alla destra dell’uomo e Muse alla sinistra della donna. I primi sono infatti caratterizzati dai ròtuli che tengono in mano e sono in numero di sette, proprio come i Sapienti, mentre le donne sono nove come le Muse. Questa rappresentazione, forse, faceva parte dell’idea originaria di far apparire il defunto, verosimilmente il personaggio al centro della composizione, come un uomo colto, secondo una consuetudine diffusa nei sarcofagi del III sec. d.C. L’opera, tuttavia, si distacca da questa serie per un insieme di elementi, tra cui, ad esempio, la presenza del Genius Senatus. Inoltre vi è una figura ambigua, non riconducibile ai tipi dei filosofi, quella del giovane che abbiamo identificato con Gordiano III, anche se non tutti gli studiosi sono d’accordo nel confermare questa ipotesi. L’Heintze, per esempio, attribuisce per ragioni stilistiche il sarcofago al 270–280 d.C. e designa il giovane come Nigrignano, figlio di Carino e di Magna Urbica, che morì prima del padre. Quest’ultimo fece realizzare l’opera in onore del figlio, utilizzando un sarcofago nuziale con filosofi e facendovi applicare in seguito il ritratto del figlio. Altri invece credono sia il giovane Ostiliano con i genitori, Decio ed Etruscilla. Negli anni Ottanta del Novecento viene adottata la tesi dell’Andreae che vede nella scena la rappresentazione di un processus consularis. Nella processione il console appena eletto, cioè il personaggio maschile centrale, preceduto dai cavalieri e seguito dai senatori, viene accompagnato dai littori e dagli amici che si trovano alla sua

destra. Il corteo si sta recando in Campidoglio a compiere il sacrificio prescritto. Il personaggio che indica la strada è proprio il Genius Senatus, che non si rivolge al fanciullo - come riteneva Bianchi Bandinelli - ma alla figura centrale con toga trabeata, il senatore, che a sua volta si sta accomiatando dalla moglie; i due coniugi sono legati dalla figura della Concordia, tipica delle scene nuziali. Questa interpretazione giustifica, quindi, altri elementi presenti nel sarcofago: il gesto di Gordiano di alzare la toga e mettersi in cammino, l’identificazione della figura posta nella parte posteriore del sarcofago con un littore grazie all’abbigliamento, e, infine, le figure femminili che rappresentano le amiche della sposa e che prenderanno parte al corteo. Tutto ciò giustificherebbe

anche l’anello all’anulare del fanciullo: essendo figlio di un senatore, il giovane è cavaliere fin dalla nascita e gli unici che portano l’anello sono proprio i cavalieri. Di conseguenza il giovane risulta essere il figlio della coppia che ha ordinato il sarcofago, facendo ritrarre il padre nel giorno più importante della sua carriera. Il corpo di Gordiano sembra essere di un uomo più maturo rispetto al giovane, e ciò può essere spiegato con il fatto che in un primo momento il sarcofago sia stato realizzato con la figura del figlio in età maggiore e senza il volto, credendo di inserirlo in un lontano futuro; ma a causa della morte prematura del ragazzo il volto inserito è quello dell’età adolescenziale. Tutta la famiglia, molto probabilmente, ha trovato sepoltura all’interno del sarcofago. I

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IN MOSTRA AL COLOSSEO

gladiatori tornano al Colosseo. Dopo la mostra di grandissimo successo del 2001, Sangue e arena, tra le esposizioni più visitate del decennio anche grazie al successo mondiale del pressoché coevo film Il gladiatore, il Colosseo, dal 26 marzo e fino al 3 ottobre prossimo, accoglie la mostra Gladiatores. Una mostra innovativa nel suo intento dichiaratamente didattico, che segue però una precisa politica legata al target e agli interessi degli oltre tre milioni di visitatori annuali (tre milioni e duecentomila dicono le cifre ufficiali) del monumento romano per eccellenza: accanto ai reperti antichi, una raccolta di oggetti moderni e di grande impatto scenico, la cui ricostruzione, realizzata sul filone dell’archeologia sperimentale sul tema della gladiatura e, in particolare, della gladiatura a Roma,

GLADIATORES

In questa e nella pagina accanto: Particolari dell’allestimento della mostra all’interno del Colosseo

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è stata voluta in prima persona dalla curatrice e direttrice dell’Anfiteatro Flavio, Rossella Rea, della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. Mentre nella grande mostra del 2001 la gladiatura era illustrata mediante l’esposizione di numerosi reperti storici, tra cui armature e calchi, ma soprattutto affreschi, mosaici e plastici, in questo allestimento la maggior parte delle armi e degli accessori esposti, eseguiti da moderni artigiani, «sono - come spiega Rossella Rea - il prodotto di uno studio molto approfondito, tuttora in corso, delle testimonianze pervenute dal passato: descrizioni nelle opere degli autori antichi; raffigurazioni su affreschi, rilievi, mosaici, graffiti; oggetti di uso quotidiano quali statuette, lucerne, vasi; reperti autentici, primi tra tutti le armi rinvenute a Pompei», qui esposte in vetrine allestite negli ambulacri del secondo ordine dell’Anfiteatro Flavio.

Una coincidenza mediatica notevole, che ci auguriamo possa essere bene augurante per il successo dell’allestimento come nel caso della mostra del 2001, è il contemporaneo lancio negli Usa della serie tv Spartacus, una ricostruzione a puntate, in stile Rome - Graphic Novel, della vita del più noto dei gladiatori dell’antichità, e non c’è dubbio

Nella pagina accanto e in alto: Altri particolari delle vetrine contenenti reperti originali e copie degli stessi e di abbigliamento relativo ai gladiatori In basso: La dott.ssa Rossella Rea curatrice della mostra, e Direttrice del Colosseo, durante la conferenza stampa

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Sopra: Ricostruzione realizzata dall’architetto Silvano Mattesini. Il nemico più diretto del gladiatore Murmillo è il Thraex. Periodo Imperiale o I sec. d.C. Sotto: Ricostruzione di calzari Nella pagina accanto: Elmo in bronzo di Hoplomachus con visiera a copertura totale del viso e cimiero terminante a testa di grifo, dal Quadriportico dei Teatri di Pompei, età giulio-claudia. Napoli, Museo Archeologico Nazionale

che, in caso di lancio internazionale, la serie potrà fare da volano all’evento romano. Tornando alle caratteristiche della mostra, come ha spiegato bene la curatrice nelle sue pagine di presentazione: «È proprio dal contrasto tra il nuovo che riproduce l’antico e l’antico, che l’esposizione trae il suo senso, mostrando quanto del passato

sia, ormai, irrimediabilmente perduto: i colori, la lucentezza, che svolgevano un ruolo fondamentale negli spettacoli dell’Anfiteatro». Lo sfarzo e la grandiosità dell’apparato scenico erano necessari poiché man mano che le gradinate e i posti si allontanavano dall’arena - come ha ricordato l’architetto Silvano Mattesini, responsabile dell’allestimento «non si percepivano le singole figure, ma gruppi di combattenti colorati e luccicanti sotto i raggi del sole, composti anche da 80 gladiatori». L’elaborato sistema scenico delle arene trovò il suo culmine proprio con l’inaugurazione del Colosseo nell’80 d.C., che durò cento giorni con combattimenti di gladiatori (munera) e venationes in cui furono uccisi migliaia di animali. L’esposizione, un centinaio di pezzi tra originali e ricostruzioni, spiega con l’ausilio di cartelli e disegni la cronologia e il tipo di armatura (classe gladiatoria)


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Nella pagina accanto: Elmo gladiatorio, Napoli, Museo Archeologico Nazionale In questa pagina: Ricostruzioni realizzate dall’architetto Silvano Mattesini in occasione della mostra Gladiatores A pag. 70 in alto: Schiniere bronzeo con decorazioni su piÚ registri (dall’alto in basso: rami di alloro, maschere bacchiche, festoni vegetali, aquila), dal Quadriportico dei Teatri di Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale A pag. 70 in basso: Spada nel fodero. Napoli, Museo Archeologico Nazionale A pag. 71: Elmo in bronzo di Provocator con gladiatore a rilievo sulla calotta, dal Quadriportico dei Teatri di Pompei.Napoli, Museo Archeologico Nazionale

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sciti ad attribuire a un tipo di gladiatore, piuttosto che a un altro, una determinata arma. Un procedimento di archeologia sperimentale che sta contribuendo - come ha spiegato Rossella Rea - a individuare figure di gladiatori finora avvolte nel dubbio». I

INFORMAZIONI La mostra Gladiatores, curata da Rossella Rea e promossa dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma in collaborazione con Electa, sarà ospitata nella suggestiva sede del Colosseo fino al 3 ottobre 2010.

indossata dai gladiatori nell’arena, la loro condizione giuridica, l’origine delle diverse classi gladiatorie e le specialità del combattimento. Come è noto, non tutte le classi gladiatorie sono infatti esistite contemporaneamente e le armi di difesa e di attacco subirono notevoli trasformazioni per foggia e tipo di

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lavorazione tra l’epoca repubblicana e quella imperiale. Le armature, ricostruite in base alle descrizioni degli antichi e alle fonti iconografiche, sono anche state indossate per comprendere quanti e quali movimenti potesse compiere chi le portava: «Attraverso vari tentativi e modifiche si è spesso riu-

Dal 26 al 27 marzo: 8.30 -17.30 (ultimo ingresso ore 16.30). Dal 28 marzo al 31 agosto: 8.30 19.15 (ultimo ingresso ore 18.15). Dal 1 settembre al 30 settembre: 8.30 -19.00 (ultimo ingresso ore 18.00). Dal 1 al 3 ottobre: 8.30 18.30 (ultimo ingresso ore 17.30). Non si effettua chiusura settimanale. La biglietteria chiude un’ora prima. Biglietto intero € 12,00; ridotto € 7,50 (lo stesso biglietto consente l’accesso al Palatino e al Foro Romano). Per informazioni e visite guidate rivolgersi a Pierreci (tel. 06.39967700 www.pierreci.it).


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