Roma, una città, un impero - n. 3

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Editoriale

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n questo numero pubblichiamo altri due articoli rappresentativi della stretta interazione tra archeologia ed epigrafia. Il primo è dedicato all’Excubitorium della VII coorte dei vigili, scoperto nel 1866 nel quartiere Trastevere, non lontano dalla basilica di S. Crisogono. La funzione del monumento, una caserma minore (excubitorium) destinata a un distaccamento del corpo dei vigili, è stata infatti identificata grazie ai numerosi graffiti (ca. 100) incisi dagli stessi vigili sull’intonaco rosso delle pareti dell’aula centrale. Un esempio: ((Centuria)) Maxim(i). Vetti(us) F/lorentin[us] / sebaciaria / feci mense / Iunio. Grat[i]as ag/a(m) Genio Escubitori (!) / et comanipul/is (!) suis in perpetu/o! (CIL, VI 3010). - “Centuria di Massimo. (Io) Vettio Florentino ho effettuato i sebaciaria nel mese di giugno. Che io renda per sempre grazie al Genius dell’Excubitorium e ai miei commilitoni!”. E ancora: Octavius Felix, mil(es) coh(ortis) VII / vigi(lum) Severianes (!), ((centuria)) Maximi, / sebaciaria feci, Albino II / Maximo co(n)s(ulibus), me(n)s(e) Octobr(e), / feliciter (CIL, VI 3005).- “(Io) Ottavio Felice, soldato della VII coorte Severiana dei vigili, centuria di Massimo, ho portato a termine felicemente i sebaciaria durante il secondo consolato di Albino e il consolato di Massimo (= 227 d.C.), nel mese di ottobre”. Oltre alla funzione dell’edificio, questi graffiti permettono di conoscere il nome della divinità tutelare della caserma (Genius Excubitori), la coorte ivi acquartierata (cohors VII vigilum), i nomi di singoli vigili (Vettius Florentinus e Octavius Felix), la denominazione della centuria in cui avevano militato (centuria comandata dal centurione Maximus) e, infine, il servizio, altrimenti ignoto, dei sebaciaria, che i vigili dovevano effettuare con turni della durata di un mese (mense Iunio, mense Octobre). Questo incarico, di controversa interpretazione, doveva essere alquanto pericoloso, se gli stessi autori dei graffiti hanno manifestato sulle pareti della caserma il sollievo di aver portato a termine il servizio con espressioni quali feliciter e omnia tuta (“tutto a posto”) o con ringraziamenti al Genius Excubitori e ai propri commilitoni. Il secondo articolo, dedicato al municipium romano di Blera, pone invece in risalto - attraverso l’esame di alcune iscrizioni onorarie e sepolcrali - l’apporto offerto dall’epigrafia alla ricostruzione della storia sociale, culturale, politica e istituzionale della città. Tra storia e archeologia si snoda infine l’ultimo capitolo dedicato all’intricato periodo storico noto come Anarchia Militare (235-284 d.C.), mentre l’evidenza archeologica torna indiscussa protagonista del contributo che si occupa della vasto complesso edilizio (tre abitazioni private separate da strade basolate) scoperto nell’isolato compreso tra via in Arcione e via dei Maroniti, durante gli scavi effettuati negli anni 1969-1973 per la costruzione di un parcheggio sotterraneo. Dall’indagine iconografica (monumenti scultorei, pittorici e musivi) dipende invece gran parte della nostra conoscenza riguardante l’abbigliamento romano e i suoi accessori, cui è dedicato un contributo che inaugura una nuova sezione della rivista, dedicata agli usi e ai costumi nel mondo antico. Tra gli eventi attualmente in corso abbiamo scelto due mostre promosse dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma. La prima, Memorie di Roma. Gli Aemilii e la basilica nel Foro, ripercorre la storia della famiglia aristocratica degli Aemilii e del monumento destinato per antonomasia alla loro autorappresentazione, la basilica Aemilia, attraverso l’esposizione nella Curia Iulia dei rilievi marmorei che un tempo decoravano l’edificio e in cui sono rappresentati celebri episodi relativi alle origini di Roma. La seconda mostra, intitolata Il sorriso di Dioniso e allestita nella suggestiva cornice di Palazzo Altemps, presenta per la prima volta al grande pubblico tre opere di notevole pregio artistico: una statua di Dioniso fanciullo, una maschera bronzea di sileno anziano e un’applique, anch’essa bronzea, con testa di sileno. Giovanna Di Giacomo (Redazione)


DIRETTORE RESPONSABILE MARIA TERESA GARAU DIRETTORE ESECUTIVO ROBERTO LUCIGNANI DIRETTORE SCIENTIFICO BERNARD ANDREAE

COMITATO SCIENTIFICO Paolo Arata Funzionario Sovraintendenza Comune di Roma Alessandra Capodiferro Funzionario Soprintendenza Archeologica di Roma Fiorenzo Catalli Funzionario Soprintendenza Archeologica di Roma Paola Chini Funzionario Sovraintendenza Comune di Roma Vincenzo Fiocchi Nicolai Prof. Archeologia Cristiana Univ. Tor Vergata di Roma Gian Luca Gregori Prof. Ordinario di Antichità Romane, ed Epigrafia Latina, Facoltà Scienze Umanistiche, Univ. Sapienza di Roma Eugenio La Rocca Prof. Ordinario Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana, Univ. Sapienza di Roma Anna Maria Liberati Funzionario Sovraintendenza Comune di Roma Luisa Musso Prof. Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana e Archeologia delle Provincie Romane, Univ. Roma Tre Silvia Orlandi Prof. associato di Epigrafia Latina presso la Facoltà di Scienze Umanistiche, Univ. Sapienza di Roma Rita Paris Direttore Museo di Palazzo Massimo alle Terme Claudio Parisi Presicce Direttore Musei Archeologici e d’Arte Antica Comune di Roma Giandomenico Spinola Responsabile Antichità Classiche e Dipartimento di Archeologia Musei Vaticani Lucrezia Ungaro Funzionario Sovraintendenza Comune di Roma Laura Vendittelli Direttore Museo Crypta Balbi CAPO REDATTORE ALESSANDRA CLEMENTI REDAZIONE LAURA BUCCINO - ALBERTO DANTI - GIOVANNA DI GIACOMO LUANA RAGOZZINO - GABRIELE ROMANO DOCUMENTAZIONE FOTOGRAFICA ROBERTO LUCIGNANI TRADUZIONE DANIELA WILLIAMS GRAFICA E IMPAGINAZIONE STUDIOEDESIGN - ROMA WEB MASTER – PUBBLICITA’ MARIA TERESA GARAU REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE Via Orazio Antinori, 4 - ROMA

È vietata la riproduzione in alcun modo senza il consenso scritto dell’Associazione Rumon Tiber

4 IL COMPLESSO DEI MARONITI di Gabriele Romano

70 BLERA

UN ANTICO MUNICIPIUM SULLA VI di Paola Di Silvio


SOMMARIO

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ANARCHIA MILITARE

L’EXCUBITORIUM

IL SORRISO DI DIONISO

VERSO LA FINE DI ROMA CAPITALE

84 A CLODIA

di Annalisa Lo Monaco

di Giulia Evangelisti

di Alberto Danti

VESTIRE NEL MONDO ROMANO di Luana Ragozzino

94 MEMORIE DI ROMA GLI AEMILII E LA BASILICA NEL FORO di Alberto Danti




IL RINVENIMENTO

li scavi condotti a Roma negli anni 19691973 nell’isolato compreso tra via in Arcione e via dei Maroniti, vicino Fontana di Trevi, per la costruzione di un parcheggio sotterraneo, hanno portato alla scoperta di una vasta area archeologica estesa per circa 1540 mq e caratterizzata dalla presenza di tre edifici separati da due strade basolate. Nella stessa zona e nelle aree adiacenti furono rinvenute strutture simili già dalla fine dell’Ottocento e i primi del Novecento (1914-1915) e poi ancora negli scavi del 1955. Questi edifici rientrano nel territorio della regio VII via Lata, una delle quattordici regioni in cui la città di Roma fu divisa durante il principato di Augusto, che si estendeva tra il tratto urbano della Flaminia a sud-ovest e le pendici del Quirinale e del Pincio a nord-est, e che aveva la

IL COMPLESSO DEI MARONITI

A destra: Particolare delle strutture antiche inglobate nel garage moderno alla profondità di circa 8 metri dal piano del cortile interno Nella pagina accanto, in alto: Pianta del complesso archeologico dei Maroniti. (da E. Lissi Caronna, Archeologia nel Centro)

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caratteristica, insolita per Roma antica, di avere un’organizzazione urbanistica ordinata con strade parallele orientate sulla via Lata (odierna via del Corso). Lo scavo di via in Arcione venne eseguito all’interno del cortile di un grande isolato abitativo, che si trova proprio in prossimità delle pendici del Quirinale, e ha permesso una ricostruzione topografica della zona abbastanza chiara. Questa parte della città sembra infatti essere caratterizzata da edifici residenziali quali insulae e domus ordinate su assi viari paralleli alla via Lata, i cui resti sono stati trovati a più riprese sotto la Galleria Colonna nel 1914-1915, durante la costruzione del sottopassaggio di Largo Chigi nel 1955 (resti di insulae di età adrianea e parti di strade basolate) o durante i lavori del 1902 per la realizzazione dell’imbocco nord del Traforo


Umberto I sotto il Quirinale, in cui furono rinvenuti i resti di una ricca domus che alcune iscrizioni su fistula aquaria di piombo hanno permesso di identificare con dimora di Caio Fulvio Plauziano. Essendo adiacenti all’imbocco del Traforo, alcune strutture ritrovate negli scavi di via in Arcione sono state accostate proprio a questa ricca dimora signorile. Durante i lavori di scavo di via in Arcione furono trovati i resti di tre edifici separati tra loro da due larghe strade basolate e situati alla profondità di circa 7 m rispetto al piano attuale di calpestio. Lo scavo fu complicato dalla presenza della falda acquifera dell’Acqua Sallustiana, che ricopriva le strutture antiche per un’altezza di circa 50 cm e che richiese, e richiede tuttora, l’utilizzo di pompe per il controllo del livello

dell’acqua. Questo piccolo fiume, già presente nell’antichità, sgorgava dal Quirinale e scendeva, passando nella zona di via del Tritone, nel Campo Marzio dove formava la famosa palus Caprae. Il primo edificio, situato all’e-

stremità ovest dell’area archeologica, è parte di una grande insula di cui rimane il piano terra caratterizzato da cinque tabernae che si aprono sulla strada ad est dell’edificio, e da un lungo portico diviso da pilastri che si sviluppa ad ovest, alle spalle delle

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botteghe, e che doveva probabilmente fare parte di un cortile interno del caseggiato. In un secondo momento le aperture tra i pilastri del portico vennero chiuse con tamponature murarie e si creò un unico grande ambiente. Questo edificio, che le strutture murarie in opera laterizia permettono di datare al III sec. d.C., doveva avere più piani, come testimoniano tracce di scale superstiti. Subito ad est si trova la prima strada basolata, che ha una larghezza di 8,25 m ed è caratterizzata dalla presenza di numerosi frammenti architettonici usati in età tarda per ripristinare il basolato. Sul lato adiacente alle tabernae dell’insula si trova un pozzo quadrato (o cisterna), creato in un’epoca successiva, quando tutta l’area doveva essere ormai interrata, mentre sull’altro lato della strada si conserva una fontana, addossata alla parete dell’edificio centrale dell’area archeologica, che è composta da quattro lastroni di travertino e rivestita all’interno di cocciopesto. L’isolato centrale è costituito dai resti di un edificio allungato che si sviluppa in senso nordsud. Delimitato dalle due strade basolate, esso è caratterizzato da un grande ambiente rettangolare, databile al III sec. d.C., ma che nel IV sec. d.C. subì una notevole ristrutturazione che ne alterò la struttura e probabilmente la funzione. Venne infatti creata un’abside in opera listata

Nella pagina accanto: In questa foto d’epoca un momento dello scavo del complesso archeologico Sopra: Particolare del tratto di basolato e dell’ingresso alla seconda taberna. In evidenza una parte del muro sul quale poggiava la scala che portava al piano superiore Sotto: Particolare della fontana, sullo sfondo la seconda taberna

nella parete nord e la sala fu completamente ridecorata con l’aggiunta di crustae marmoree alle pareti. Il pavimento, originariamente caratterizzato da un mosaico in bianco e nero che rimane nella zona dell’abside, venne ricoperto con lastre di marmo. Fu inoltre costruito, per tutta la lunghezza del muro ovest, uno stretto bacino delimitato da un muretto, decorato da lastre di marmo e statuette (parti delle quali ritrovate sul luogo); nel bacino sono stati trovati quattro vasi di terracotta, inseriti all’interno del muro, che possono lasciare ipotizzare la funzione di piccolo vivaio per pesci, visto che erano usati per il riparo e la deposizione delle uova. Sul lato est della sala uno stretto cor-

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Sopra: Particolare della strada che percorre il lato occidentale dell’area archeologica. Al centro la grande fontana pubblica in lastroni di travertino Nella pagina accanto, in alto: Particolare dell’interno della vasca-vivaio ubicata nell’isolato B, da notare il foro che serviva come ricettacolo per i pesci Nella pagina accanto, in basso: Visione dall’interno dell’abside relativa all’aula dell’edificio centrale (B in pianta). In evidenza, in basso, il mosaico pavimentale e la fase preparatoria per l’applicazione del rivestimento marmoreo parietale

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ridoio, in cui rimangono resti della zoccolatura marmorea, serve da collegamento tra questa sala e gli ambienti disposti alle estremità dell’edificio. Gli elementi che trasformarono la sala hanno fatto ipotizzare per questo ambiente diverse funzioni, forse ninfeo di una dimora signorile, oppure sala di rappresentanza di un qualche sodalizio religioso, consorzio o corporazione professionale. Le ipotesi riguardo la funzione dell’edificio ruotano intorno alla presenza

della vasca per pesci che caratterizza la grande sala. La più suggestiva è quella che vuole vedere nell’uso della vasca alcuni rituali magici, quali l’ittiomanzia, che pretendeva di predire il futuro osservando i movimenti dei pesci nell’acqua o esaminandone le interiora. Superata la seconda strada basolata, che ha una larghezza di circa 6 m, all’estremità est dell’area archeologica vicino alle scale di ingresso, si trova l’ultimo complesso edilizio formato da


venne chiuso con tamponature in opera listata. Al centro dell’abside, che si colloca - come accennato - sul basolato della strada, si trova una porta di ingresso, caratterizzata da una soglia in travertino che in seguito venne parzialmente chiusa con un muro, sempre in opera listata. Originariamente questa sala absidata e gli ambienti subito a sud di essa dovevano costituire un unico edificio residenziale che doveva avere una sorta di ingresso monumentale proprio nell’aula absidata. Come anticipato, solo in un secondo momento (IV secolo d.C.) questa sala venne separata e isolata dal resto dell’abitazione e probabildiverse strutture abitative databili dal II al IV sec. d.C. Si tratta di due settori distinti, disposti intorno ad una grande sala con abside che invade parte della via. Originariamente questa sala comunicava direttamente con la parte sud dell’edificio, che oggi è la meno conservata delle strutture superstiti (rimane parte del mosaico pavimentale in bianco e nero), ma nel corso del IV secolo d.C. anche questo settore fu interessato da lavori di ristrutturazione e il passaggio in questione

mente utilizzata in maniera differente come bottega o magazzino. Oltre la sala absidata, sui lati nord ed est, si trovano gli ambienti meglio conservati di questo isolato, che si sviluppavano in maniera simmetrica sui lati di una seconda aula absidata. Si tratta di vani appartenenti ad un’ulteriore domus inserita nell’isolato con pavimenti decorati in opus sectile geometrico e crustae marmoree alle pareti con raffigurazione di motivi vegetali. Un ambiente di passaggio tra le varie parti della casa conserva inoltre una pavimentazione con lastre di marmo bianco alternate a listelli di marmo colorato. Sul


Sopra: Particolare del grande ambiente di collegamento della “domus” del settore orientale. Da notare, sul fondo, una base in muratura che probabilmente doveva sorreggere una statua Sotto: Un’altra visione del grande ambiente di collegamento della “domus” del settore orientale (C in pianta). Nella pagina accanto: Particolare della strada in basolato e dell’ingresso all’aula absidata dell’isolato del lato orientale (C in pianta)

versante nord, all’interno di altre due stanze di dimensioni minori, la pavimentazione, databile nel III- IV sec. d.C., è composta da formelle di marmi colorati disposte in maniera geometrica a formare tre quadrati inseriti uno nell’altro. Le caratteristiche di questa struttura permettono di identificarla con una ricca

domus signorile che doveva avere la sua facciata e il suo ingresso principale su una strada ancora più ad est. È proprio questo settore che è stato accostato alla già menzionata residenza di Fulvio Plauziano. La vicinanza delle strutture ritrovate e l’eleganza della decorazione hanno infatti fatto proporre una loro identificazione con la dimora appartenente all’importante personaggio, console nel 203 d.C. prefetto del pretorio e suocero dell’imperatore Caracalla. I dati archeologici delle strutture rinvenute sotto via in Arcione non sembrano tuttavia confermare tale attribuzione poiché le fasi più monumentali dell’edificio ad est appartengono alla fine del III sec. d.C. e all’inizio del IV sec. d.C., mentre Plauziano muore nel 205 d.C., quando la domus non sembra avere ancora le caratteristiche per essere attribuita ad un personaggio di tale rango. È comunque vero che parte della dimora signorile si


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trova ancora sepolta sotto i palazzi moderni e potrebbe celare elementi utili alla sua identificazione. In età assai tarda, nell’area che oramai doveva essere interrata anche per i detriti trasportati dall’Acqua Sallustiana, si impiantò una calcara, in prossimità delle tabernae dell’edificio più ad ovest, con diversi marmi ritrovati accatastati nelle immediate vicinanze e pronti per essere distrutti. Durante lo scavo, oltre le strutture, furono rinvenuti numerosi frammenti architettonici, come colonne con basi e capitelli, concentrate soprattutto nell’ultimo isolato descritto. Tra i reperti scoperti non manca-

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no alcune statue di pregevole fattura, che confermano la ricchezza dei proprietari di queste abitazioni, come una statua femminile acefala (forse da identificare con la Fortuna), un gruppo scultoreo con due personaggi, probabilmente imperiali, raffigurati come Marte e Venere, e una statua di Diana cacciatrice. La statua femminile acefala in marmo bianco, vestita con chitone e mantello, è databile in età antonina (138-192 d.C.) ed ha dimensioni appena superiori al vero (1,62 m). Il braccio destro è perduto; sulla gamba destra gravita il peso, mentre la sinistra è poco più indietro. La figura, statica, si appoggia su un plinto ret-


Nella pagina accanto, in alto: Il rivestimento parietale ed il pavimento eseguito con marmi colorati di grande pregio A sinistra: Un ambiente del settore orientale del complesso (C in pianta) con resti di colonne ed elementi architettonici Sopra: Un particolare del rivestimento parietale in marmi colorati

tangolare ed è ravvivata dalle pieghe del vestito che aderiscono al corpo ed evidenziano, grazie alla cinta annodata sotto il seno, le forme femminili. Ai piedi indossa sandali aperti; sulla spalla destra rimane una ciocca di capelli ondulati. La parte posteriore della statua è appena abbozzata, segno evidente che essa era destinata ad un posto che non permetteva la visuale posteriore. Con il braccio sinistro regge una cornucopia, elemento che - insieme alle forme matronali - rende possibile l’identificazione con la dea Fortuna. Il gruppo scultoreo raffigurante due personaggi in veste di Marte e Venere è lavorato in un blocco di marmo bianco venato ed è databile al II secolo d.C. Le dimensioni sono appena minori del vero (1,32 m); entrambe le statue sono acefale. La figura femminile veste un chitone drappeggiato con maniche abbottonate e cinta annodata sotto il seno; il braccio destro (mancante) doveva essere appoggiato al petto della figura maschile (rimane traccia sulla lorica). Il personaggio maschile indossa una lorica decorata al centro con un’aquila ad ali semiaperte che tiene un fulmine tra gli artigli. Al di sotto, le pteryges sono decorate con protomi animali, leone, elefante e ariete. Il gladio si trova sul fianco sinistro e presenta una impugnatura a testa d’aquila, mentre ai piedi indossa calcei con testa di pantera. Con il braccio sinistro (mancante) doveva probabilmente tenere una lancia. Tra le due figure, appoggiato per terra, è l’elmo crestato dell’uomo, mentre il retro delle due statue anche in questo caso è appena abbozzato. Lo schema del gruppo risponde ai requisiti di Marte e Venere, spesso usato per la rappresentazione delle coppie imperiali.

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In alto, a sinistra: Gruppo scultoreo acefalo in marmo rinvenuto durante gli scavi del complesso archeologico In alto, a destra: Statua acefala in marmo raffigurata come “fortuna” rinvenuta durante gli scavi Nella pagina accanto: Gruppo scultoreo acefalo in marmo raffigurato come Diana cacciatrice

La statua di Diana cacciatrice, databile anch’essa al II sec. d.C., è di marmo bianco e di dimensioni minori del vero (0,98 m). Anche questa scultura è acefala. La dea indossa un corto chitone con cintura annodata sotto il seno e una chlaina che le avvolge le spalle, mentre dietro la schie-

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na si intravede la faretra chiusa. Questo è il tipico costume di Diana/Artemide cacciatrice con ai piedi le calzature con testa di pantera (endromides). La figura appare in movimento con la gamba sinistra in avanti e la destra indietro. Il braccio sinistro è piegato ad afferrare un corno della cerva, raffigurata in atto di saltare, a cui mancano le zampe anteriori e parte del muso. Tra queste due figure si conserva anche un cane, privo delle zampe anteriori, che salta verso la cerva, sotto alla quale si vede il plinto di sostegno del gruppo scultoreo. I

Bibliografia: E. LISSI CARONNA, Un complesso edilizio tra via in Arcione, via dei Maroniti e vicolo dei Maroniti, in Roma. Archeologia nel centro, II, Roma 1985, pp. 360-365; EAD., Domus: C. Fulvius Plautianus, in Lexicon Topographicum Urbis Romae, II, Roma 1995, pp. 105-106; F. ASTOLFI, Il quartiere romano di via in Arcione, in Forma Urbis, 4, 1998, pp. 3-18; C. CALCI, (a cura di) Roma archeologica, Roma 2005; E. LISSI CARONNA, Maroniti. Scavo e contesto dei ritrovamenti a via in Arcione, in Roma. Memorie del sottosuolo, Roma, 2006, 163-166.


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VERSO LA FINE DI ROMA CAPITALE

reboniano Gallo e suo f i g l i o Vo l u s i a n o verso la fine del 251 d.C., rimasero unici padroni dell’Impero. Tuttavia nei successivi anni del loro regno, la crisi avviatasi con il periodo dell’anarchia militare raggiungerà uno dei momenti di più acuta sofferenza, minacciando di distruggere definitivamente l’impero romano. Ai pericoli, sempre più pressanti, che venivano dalle popolazioni dei Goti e dei Persiani si aggiunse una violenta pandemia di peste, comparsa già un anno prima e proveniente dalla Mauretania, che oltre a sconvolgere le già decimate truppe dell’esercito, raggiunse l’Urbe, provocando numerose vittime anche fra i civili. I due Augusti dimoravano intanto a Roma, disinteressandosi della crisi e ciò favorì una ripresa delle ostilità mediante un nuovo sconfinamento di Shapur

ANARCHIA MILITARE

Al centro, in alto: Sesterzio con l’immagine di Treboniano Gallo e Volusiano Al centro: Moneta con l’immagine di Emiliano

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in Siria fino ad Antiochia e soprattutto, come ci informa Zosimo, con un’imponente spedizione di Goti, Borani e Burgundi (stabilitisi in questo periodo in una regione ad est dell’Elba, fra le odierne aree di Brandeburgo e della Lusazia) che stava facendo razzie nelle province danubiane depredando diverse città. Sempre Zosimo sottolinea a più riprese l’inettitudine di Treboniano: «perché Gallo amministrava con negligenza il potere…; in questa situazione, poiché i sovrani non erano in grado di difendere lo Stato e trascuravano tutto quanto accadeva fuori di Roma…». Fu così che proprio il comandante delle truppe della Mesia inferiore, Marco Emilio Emiliano, si trovò col suo solo esercito a fronteggiare l’armata di Kniva, che


andavano ad affrontarsi. Treboniano e Volusiano morirono quindi nell’agosto del 253 d.C. in una località dell’Umbria che le fonti ci indicano come Interamna (Terni) o Forum Flamini sulla Flaminia, nel qual caso si tratterebbe dell’odierna frazione di Foligno, San Giovanni Profiamma. Con l’uccisione di Gallo il Senato si sentì in obbligo, in un primo momento, ad accettare la nomina di Emiliano a imperatore, anche se di lì a pochi mesi il

Sotto: Aureo con l’immagine di Valeriano In basso: Interamna (Terni): resti dell’anfiteatro

venne sconfitta e ricacciata a nord del Danubio. Secondo una sceneggiatura ormai nota, immediata fu l’acclamazione di Emiliano a imperatore e questa volta il generale accettò, informando il Senato di Roma e iniziando subito una marcia verso l’Italia e la capitale. Treboniano dovette necessariamente reagire, a questo punto, e si mosse contro l’usurpatore con le esigue forze militari a disposizione ma non prima di aver chiesto aiuto a Publio Licinio Valeriano che si trovava in Rezia per difendere i confini contro gli Alemanni. Ma questo aiuto non fu necessario poiché lo scontro fra gli imperatori associati ed Emiliano venne evitato poco prima che avvenisse: i soldati di Gallo eliminarono i due Augusti per sottrarsi ad una sicura sconfitta, viste le sproporzioni fra gli eserciti che

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A sinistra: Ponte di Augusto sul fiume Nera presso Narni In basso: Spoleto: resti interrati di un ponte romano presso Spoleto, identificabile con il ponte sanguinario” Nella pagina accanto, in alto: Statua di Ares Borghese con testa ritratto (Emiliano?), Roma, Centrale Montemartini Nella pagina accanto, in basso: Statua di Ares Borghese: particolare del ritratto, Roma, Centrale Montemartini

panorama politico sarebbe mutato repentinamente. Difatti anche le numerose truppe al seguito di Valeriano elevarono alla porpora il loro comandante e questa notizia fu accolta con grande sollievo a Roma, visto il nobile censo e l’appartenenza alla classe senatoria del nuovo eletto. Fu così che Licinio Valeriano, discendente da un’aristocratica famiglia italica, già console nel 238 d.C. e princeps del Senato, si avviò a fronteggiare Emiliano. E furono ancora una volta gli eserciti a decidere le sorti dell’impero. Vinse infatti l’immagine e il ruolo di Valeriano. Presso Spoleto, Emiliano fu trucidato alla fine di settembre del 253 d.C. dalle sue stesse truppe che temevano una nuova cruenta e inutile disfatta e si schierarono dalla parte del senatore-generale. Le poche righe dedicate dall’Epitome de Caesaribus a Emiliano riportano anche il luogo dove si sarebbe consumata l’uccisione dell’imperatore: un ponte fra le odierne Narni e Spoleto che per questo evento prese poi il nome di ‘Ponte Sanguinario’. E’ probabile che il toponimo sia rimasto a designare le arcuazioni di un ponte di età augustea, posto sulla via Flaminia e realizzato

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per superare il torrente Tessino, in seguito deviato. Resti dei piloni e di tre arcuazioni, in blocchi di travertino, sono ancora oggi visibili, interrate, nei pressi di Porta Garibaldi a Spoleto. All’immagine di Emiliano è stata ricondotta, da alcuni studiosi, anche una statua conservata presso le Collezioni dei Musei Capitolini. Rinvenuta a pezzi all’interno di un muro medievale sull’Esquilino, fra le vie Cavour, Gioberti e Farini, la scultura è stata in seguito ricomposta con diverse integrazioni. Il tipo statuario a cui l’opera si riferisce è quello dell’Ares

Borghese, utilizzato soprattutto per l’iconografia imperiale e più raramente per privati. Se inizialmente si era supposto che la statua potesse riferirsi all’imperatore Decio (ipotesi questa che oggi è ampiamente rigettata), in seguito si è discusso sulla possibilità di attribuire il ritratto a Treboniano o Filippo l’Arabo e infine con maggiori certezze a Emiliano. Nell’impossibilità comunque di riconoscere sicuramente il ritratto imperiale, è stata anche avanzata l’ipotesi che possa trattarsi di un alto ufficiale degli eserciti della metà del III sec. d.C. Ciò che è da conside-


ro i compiti di comando: a Valeriano spettava la difesa dell’Oriente, a Gallieno quella del nord Europa. Accanto a questa decisione ci fu anche un primo netto distaccamento dei quartieri-generali, dal momento che Gallieno si stabilì a Treviri, creando in Milano un’importante base di appoggio, mentre per Valeriano la sede fu Antiochia (almeno dopo la sua riconquista nel 254 d.C.) e in seguito, dal 258 d.C. a Samosata in Cappadocia. Malgrado questi accorgimenti e la valenza militare soprattutto del giovane Gallieno, non si riusciva a contenere l’impeto delle incursioni barbariche. Nei seguenti anni si assiste infatti ad un primo notevole sconfinamento dei Franchi e degli Alamanni che nel 258 d.C entrarono nella provincia Belgica e da lì, spingendosi attraverso i territori della Gallia e della Spagna, giunsero a conquistare Tarracona e non soddisfatti, depredarono anche alcune città costiere della Mauretania. Gallieno, che era accorso in aiuto delle città della Mesia e della Dacia, ottenendo anche qualche vittoria, pagò a caro prezzo questo suo spostamento, poiché subì, come meglio si vedrà, l’usurpazione del suo fido generale Postumo, che aveva lasciato

rare con attenzione è il tipo iconografico di Marte, molto usato in questo periodo, quando era particolarmente apprezzato per la rappresentazione degli imperatori-soldati o dei grandi condottieri come possono attestare anche i numerosi sarcofagi coevi in cui il defunto preferiva essere ricordato nelle vesti di Ares guerriero. Con l’inizio del suo periodo di sovranità imperiale, Valeriano dopo aver elevato al rango di

Cesare il figlio Publio Licinio Egnazio Gallieno, pensò bene di aggregarlo subito quale Augusto, creando così una nuova diarchia come era già accaduto in precedenza con Gallo, Decio e Filippo l’Arabo. Il motivo, tuttavia, in questo caso, fu anche di natura strategica. Viste le difficoltà sempre maggiori nel controllo del limes imperiale e in particolare l’incessante minaccia di continue usurpazioni, i due Augusti si divise-


insieme al figlio Salonino a proteggere la zona dell’alto Reno. La difesa militare sembrava non bastare più: è curiosa e al contempo molto interessante la notizia fornitaci dall’Epitome de Caesaribus, in cui si afferma che Gallieno giunse a prendere come sua concubina la figlia del re dei Marcomanni, probabilmente nel tentativo di pervenire a un compromesso onde evitare ulteriori razzie da parte di questa popolazione. Non diversamente andavano le cose sul fronte orientale. I Goti erano ormai padroni di molti territori romanizzati e riuscirono ad avanzare fino al Mar Nero, devastando inizialmente molte città della Bitinia, fra cui l’antica città di Kios (Prusa: l’odierna Bursa in Turchia), Nicomedia e Nicea, per spingersi poi fra il 254 e il 256 d.C., fino a Tessalonica e infine ad Efeso. Fu anche necessario intervenire in Siria contro l’avanzata dei persiani che avevano occupato Antiochia e Dura Europos. Dopo alterne vicende, che videro l’intervento di Successiano, uno tra i più valorosi generali di Valeriano, si riu-

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scì, ma solo in parte, a contrastare l’avanzata di Shapur, riconquistando Antiochia nel 256 d.C. e ottenendo una parziale ritirata dei Goti. Tutto l’impero era funestato da flagelli e cataclismi: gli usurpatori si avvicendavano nelle varie province alla minima notizia delle sconfitte dei due Augusti; la peste infuriava facendo continue vittime sia sui campi di battaglia, sia nelle città e nei villaggi; i generali dovevano accorrere con le loro truppe a sostenere Gallieno e Valeriano nella difesa di tutti i confini dell’impero che si stavano progressivamente sfaldando. Valeriano, riprendendo quella che era già stata la linea tradizionalista senatoriale di Decio (di cui fu anche collaboratore) e sostenuto dal malcontento del popolo che vedeva in queste disgrazie anche un intervento divino, emanò con due editti tra il 257 e il 258 d.C.

nuove e stringenti misure persecutorie contro i cristiani. Si ritenne infatti che il cupo periodo di crisi dipendesse dall’abbandono dei culti pagani a favore di quelli cristiani. Una punizione divina quindi, un castigo degli dei, privati del giusto consenso e del credo che aveva caratterizzato i primi secoli dell’impero. Anche se giustificato da quelle stesse istanze di unità e fedeltà ai valori dell’impero che furono già di Decio, nonché da motivazioni economiche, questo editto procurò, ora più che mai, ulteriori danni irreparabili alla già critica situazione socio-politica. L’impero, infatti, a partire dall’inizio del III sec. d.C. aveva subito profonde trasformazioni nella popolazione. I cristiani erano divenuti sempre più numerosi, non solo a Roma ma soprattutto nella parte orientale e nordafricana. Molti adepti alla nuova religione facevano già

Nella pagina accanto, in alto: Ritratto di Gallieno Nella pagina accanto, in basso: Treviri: le terme imperiali Sopra: Antiochia: veduta della moderna città

parte dell’aristocrazia romana e della classe senatoria. Per di più, i cristiani arruolati nell’esercito erano presenti in tutti i contingenti posti a difesa dello Stato, principalmente in quelli dislocati ai confini orientali. Ciò generò un continuo aumento dei proseliti al cristianesimo tanto che, come giustamente è stato sottolineato dal Mazzarino: «l’impero

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Sopra: Cammeo con la rappresentazione della cattura di Valeriano da parte di Shaput: Parigi, Cabinet des Médailles

Nella pagina accanto, in alto: Resti del ponte romano sul fiume Karun a Shushtar (Iran)

Sotto: Rilievo rupestre con Valeriano sottomesso a Shapur: Naqsh-i-Rustam (Iran)

Nella pagina accanto, in basso: Denario con l’immagine di Macriano

romano… appariva come l’impero dei cristiani a chi lo considerasse dall’esterno, e tuttavia il suo imperatore era stato un persecutore». Era dunque possibile una politica così fortemente anticristiana in uno stato ormai di cristiani? Ma un nuovo fatto, incredibilmente inaspettato nel panorama storico romano, giunse a mutare le sorti dell’impero. Quando le truppe di Shapur sferrarono ancora una volta un attacco, assediando Carrhae ed Emessa nell’estate del 259 d.C., proprio presso quest’ultima città, Valeriano fu fatto prigioniero dai persiani. Le fonti sono discordanti sulle dinamiche dell’accaduto: se cioè, come conseguenza di una sconfitta in battaglia, o piuttosto perché Valeriano cadde in un tranello ordito dal re dei persiani, come sembrerebbe trasparire dal racconto di Zosimo. Uno cammeo di età sasanide conservato al Cabinet de


Medailles di Parigi, potrebbe attestare la prima delle due ipotesi, dal momento che viene raffigurato Shapur in combattimento contro Valeriano e in atto di farlo prigioniero. In un rilievo rupestre di Bishapur, sempre di arte iranica, viene inoltre rappresentato il momento dell’umiliazione di Valeriano, costretto a inginocchiarsi davanti all’immagine di Shapur a cavallo, secondo un’iconografia prettamente romana, in cui si vuole esprimere l’atto di totale sottomissione del nemico vinto. Valeriano, infatti, insieme ad un’ingente massa di soldati romani, venne deportato e costretto sia alla prigionia, sia ai lavori forzati secondo quanto ci dicono fonti autorevoli quali quelle di Zonara, Orosio e Lattanzio. I persiani, infatti, costrinsero l’imperatore fra gli schiavi, avviandoli alla

realizzazione in Susiana di dighe, ponti e altre importanti opere murarie. Nell’attuale città di Shushtar, capoluogo dell’omonima provincia del Khuzestan in Iran, esistono ancora oggi le rovine di un ponte sul fiume Karun, denominato Band i Kaisar (il molo di Cesare), probabilmente in ricordo della sua realizzazione da parte dei romani, fatti prigionieri insieme con Valeriano. La morte dell’imperatore dovette avvenire poco tempo dopo la sua cattura, abbandonato anche dal figlio Gallieno che nulla tentò per ottenere il rilascio dell’Augusto padre. Nessuna notizia certa ci giunge dalle fonti se non il macabro racconto di Lattanzio che ricorda come Shapur fece scuoiare il corpo di Valeriano per poter riempire di paglia la pelle, che una volta dipinta di rosso fu

esposta così quale trofeo di guerra. Sembrava che si stesse affermando la vendetta del Dio dei cristiani contro il suo principale persecutore. L’impero era totalmente sconvolto dopo la perdita della sua guida. Risalgano proprio a questo periodo di profondo sbandamento, i numerosi tentativi di usurpazione del potere che nella Storia Augusta sono conosciuti come il periodo dei Trenta Tiranni, una cifra probabilmente esagerata rispetto alla realtà storica. Certamente alcuni personaggi meritano di essere menzionati. In oriente Macriano, che già a suo tempo aveva ferocemente istigato Valeriano a promuovere la persecuzione contro cristiani, fece proclamare imperatori i suoi due figli, Tito Fulvio Giunio Macriano (Macriano minore) e Tito Fulvio Giunio Quieto, estendendo il potere anche in Egitto e muovendosi velocemente a nord nel tentativo di conquistare la Tracia e la Mesia. Gallieno inviò a contrastarlo il suo generale Manlio Acilio Aureolo che nel 261 d.C., nell’Illirico, sconfisse l’esercito di Macriano, ripristinando momentaneamente l’ordine in questa zona dell’impero. Contemporaneamente in

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Pannonia si assiste al tentativo di Ingenuo, governatore della provincia, che viene acclamato imperatore dalle sue truppe. Anche per questo caso fu provvidenziale il pronto intervento di Gallieno, aiutato dal suo fido generale Aureolo, nello sconfiggere l’usurpatore che venne ucciso poco tempo dopo. Ma ad Ingenuo fece seguito la rivolta di Regaliano, che pur avendo avuto un breve seguito, venne ben presto soffocata sempre da Aureolo nell’autunno del 260 d.C. Due sole, fra tutte queste manovre militari tendenti a sovvertire l’ordine dello Stato ebbero una buona riuscita, modificando in parte l’assetto dell’impero e ponendo le basi di quella riorganizzazione che alla fine del secolo sarà avviata da Diocleziano. Il primo si riferisce al governatore delle Gallie, Marco Cassiano Latinio Postumo. Egli, spinto anche dalla necessità di proteggere i suoi territori dalle

continue invasioni dei barbari, nella totale mancanza di apparati militari difensivi da parte di Roma, formò l’imperium Galliarum, comprendente Britannia, Gallia e parte della Spagna, con capitale a Treviri e durato per circa tredici anni a partire dal 260 d.C. Il secondo riguarda invece la figura di Settimio Odenato, principe di Palmira e legato della Siria, che dopo aver tentato un’alleanza con Shapur contro Roma, prontamente rifiutata da quest’ultimo, passò dalla parte dei romani e sconfisse in più riprese i persiani che si ritirarono nei loro confini; pose inoltre fine al breve regno di Quieto, il figlio minore di Macriano, che era rimasto a governare l’oriente insieme con il generale Ballista, suo sostenitore. Ma Odenato non si fermò a queste sole imprese: continuò a combattere i persiani che vedeva come una seria minaccia per Palmira fino a prendere d’assedio la loro capi-

A sinistra: Antoniniano con l’immagine di Regaliano In basso, a sinistra: Aureo con l’immagine di Postumo Sopra: Palmira Nella pagina accanto, in basso: Palmira: il teatro

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tale Ctesifonte. Varie testimonianze numismatiche ed epigrafiche permettono di considerare questi interventi di Odenato come il frutto di un compromesso con Roma che portò alla nascita di un regno autonomo di Palmira, governato dal corrector totius Orientis, Odenato, e dalla moglie Zenobia, che pertanto estesero la loro sfera di influenza a tutte le vicine province romane orientali, attraverso un costante controllo e la difesa dei territori con l’approvazione di Roma, che in questo periodo si trovava impreparata ad affrontare i pericoli che giungevano da questa zona dell’impero. Fu cosĂŹ che, per la prima volta, quello che era stato per

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più di due secoli e mezzo un unico impero si venne a dividere in tre tronconi con relative capitali poste a Roma, Palmira e Treviri. Gallieno, dal canto suo, rimasto ora unico regnante e affrancatosi dalla preponderante figura paterna, poté finalmente attuare la sua politica. Due atti furono immediati e contribuiscono a comprendere in pieno la sua personalità. Per prima cosa venne interrotta la persecuzione contro i cristiani, dando inizio a un periodo di tolleranza e di libertà di culto, sottolineato anche dalla conseguente restituzione di tutte le proprietà e dei cimiteri. Questo atto non fu solamente dettato da motivazioni strategiche, giacché nella plebe e nei diversi ranghi militari si era ormai diffusa capillarmente la nuova religione, ma anche perché filosoficamente il cristianesimo monoteista ben si applicava alla visione monarchica che Gallieno aveva dello Stato. Contemporaneamente, l’imperatore, cresciuto nel rispetto e nella dedizione verso la cultura greca e pagana, sostenne con grande favore la scuola neoplatonica di Plotino, di cui fu grande amico, spingendosi anche a progettare la fondazione di una nuova città, Platonopoli, che doveva sorgere in Campania, proprio su uno dei

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Sotto: Fronte del sarcofago cosiddetto di Plotino: Roma, Musei Vaticani Sopra: Roma: la porta Esquilina o cosiddetto arco di Gallieno Nella pagina accanto, in basso: Roma: ninfeo degli horti Liciniani, cosiddetto tempio di Minerva Medica

territori che erano stati devastati dall’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Il secondo fondamentale atto della politica di Gallieno fu quello di una radicale riforma che interessò l’esercito. Era divenuto troppo evidente il totale scollamento delle armate dal controllo imperiale mentre balzava agli occhi di chiunque la sempre più crescente supremazia del potere senatoriale in ambito militare e che generava continue usurpazioni al trono e dilanianti guerre civili. Fu così che vennero destituiti dai supremi comandi i senatori, rimpiazzati da membri della carriera equestre, direttamente nominati e controllati dall’imperatore. Anche l’ordinamento della legione venne riorganizzato, aumentando le unità militari a vantaggio della cavalleria che passò da 120 a circa 700


elementi per ciascuna legione. Ciò permise più rapidi spostamenti verso le zone a rischio e, anche in questo caso, una migliore gestione sia degli ufficiali, sia delle milizie combattenti. Gli effetti di questa riforma, che tolse in modo definitivo il comando delle truppe alla Curia romana, insieme al rinnovato clima spirituale, si fecero sentire anche nelle arti figurate. In particolare la produzione dei sarcofagi che fino a questo momento aveva visto sulla fronte la rappresentazione di scene di battaglia, cessò in parte a vantaggio dei contenuti filosofici o di argomento intellettuale. Un tipico esempio di questa trasformazione è costituito dal sarcofago cosiddetto di Plotino, conservato ai Musei Vaticani, dove con lo stile pienamente classicista che caratterizza l’arte del periodo gallienico, il defunto è raffigurato centralmente, seduto su di un trono, che srotola un papiro scritto, a sottolineare la sua natura di persona colta. Ai due lati le figure femminili richiamano le immagini delle Muse, direttamente collegate al mondo delle arti, mentre sullo sfondo le figure maschili vanno considerate come filosofi a completamento dell’immagine che si voleva lasciare ai posteri. Attraverso queste riforme che rientrano in quella che, anche in campo artistico, viene definita la ‘rinascita gallienica’, l’imperatore consolidò il suo potere assoluto e quale dominus indiscusso si avviò a celebrare i Decennalia di governo nel 262 d.C. Sembrava di rivivere a Roma i fasti che avevano solennizzato solo quattordici anni prima la ricorrenza del primo Millennio. Il biografo di Gallieno ricorda con quale sfarzo venne organizzato il corteo trionfale. Davanti a uno smisurato numero di schiavi, soldati e uomini e donne appartenen-

ti alla plebe romana procedeva il carro dell’imperatore circondato da senatori e sacerdoti. Infine cento buoi, duecento agnelli (per i sacrifici), dieci elefanti, milleduecento gladiatori, animali esotici, attori, mimi e atleti e tutti coloro che avrebbero partecipato, nei giorni seguenti, ai giochi e agli spettacoli istituiti per celebrare la figura di Gallieno. Il desiderio di dare lustro a se stesso e all’immagine della sua famiglia si riscontra anche nel programma decorativo che Gallieno volle nella suntuosa villa residenziale romana: gli Horti Liciniani. Nella sua biografia viene più volte nominata questa proprietà dove Gallieno dimorava, circondato da amici e fidi collaboratori e con i quali si accompagnava spesso in feste, banchetti e salutari bagni termali. La localizzazione degli Horti è stata individuata a Roma nell’area compresa fra la chiesa di S. Balbina e porta Maggiore, estendendosi pertanto in tutto il settore nord dell’Esquilino; settore

che doveva essere necessariamente raggiunto attraversando la porta Esquilina dell’antica cinta muraria repubblicana, risistemata da Augusto e decorata da un’iscrizione, non a caso qui inserita sull’architrave, dove il prefetto Marco Aurelio Vittore rende omaggio ai due Augusti, Gallieno e la moglie Saponina. Ma l’area degli Horti Liciniani doveva essere molto più vasta e dominata da imponenti edifici tra i quali si doveva distinguere il palatium Licinianum dove si svolgeva, come si desume dalla Storia Augusta, gran parte dell’attività di governo di Gallieno e della sua corte. Ben poco è rimasto, purtroppo, dell’assetto architettonico di tutto il complesso ad esclusione del monumento, noto ancora oggi con il nome di ‘tempio di Minerva Medica’. Si tratta di una grande aula formata da una struttura decagonale coperta da una rivoluzionaria cupola. Nell’aula si aprono nicchie semicircolari che danno spazio e dinamismo a

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tutto l’edificio, ben illuminato grazie ai grandi finestroni posti al superiore livello. Circa la sua funzione si è molto scritto e ipotizzato. Al momento, visto anche il ritrovamento di alcuni elementi riconducibili ai sistemi di riscaldamento della pavimentazione (suspensurae) uniti a dispositivi idraulici, si è propensi a considerare l’edificio un luogo di riunione o incontro in cui giochi d’acqua dovevano assicurare un gradevole effetto non solo ai presenti, ma anche a tutto l’ambiente circostante. Nel corso dei secoli scorsi l’area degli Horti Liciniani ha inoltre restituito

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numeroso materiale scultoreo e decorativo a testimonianza dello splendore di questi edifici e dei giardini annessi, che sopravvissero anche nel corso del IV sec. d.C. Basterà qui ricordare le due statue di magistrati rappresentati nell’atto di lanciare la mappa per dare il via alle corse nel circo e la porzione di mosaico con la raffigurazione di scene di caccia (attualmente conservati presso le Collezioni dei Musei Capitolini). Gli ultimi anni del principato di Gallieno sono nuovamente funestati dalla ripresa delle ostilità nei confronti dei Goti che

invasero l’Asia Minore. Sul finire dello stesso anno in cui si celebrarono i Decennalia di Gallieno, queste orde di barbari penetrarono in Tracia e Macedonia fino a giungere ad Efeso, dove devastarono il tempio di Artemide, un tempo considerato una delle sette meraviglie del mondo. Poco dopo gli stessi Goti, uniti agli Eruli, arrivarono ad invadere la Grecia, conquistando Corinto, Sparta, Tebe e lo stesso centro della cultura classica, Atene, nel 267 d.C. Nel frattempo Gallieno stava tentando di riprendersi le Gallie, muovendo contro Postumo. Il


Nella pagina accanto, in alto: Statua di magistrato in atto di gettare la mappa: Roma, Centrale Montemartini Sopra: Particolare di una sala espositiva della Centrale Montemartini A destra: Mosaico con scena di caccia dall’area della chiesa di S. Bibiana: Roma, Centrale Montemartini

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A sinistra: Verona: resti della fase gallienica delle mura In basso: Verona: l’arena Nella pagina accanto, in alto: Moneta con l’immagine di Claudio il Gotico Nella pagina accanto, in basso: Moneta con l’immagine del figlio di Claudio, Quintilio

fedele comandante della cavalleria, Aureolo, lo accompagnò in questa nuova impresa che diede all’inizio qualche esito positivo in battaglia. Risalgono proprio a questi anni i tentativi di fortificare alcuni importanti avamposti italiani per contrastare sia le scorrerie dei barbari, fra cui gli Alamanni, sia i frequenti attacchi degli usurpatori alle città, fra le quali va ricordata Verona. Infatti sul finire del 265 d.C., Gallieno, in questa città, ordinò la realizzazione di una cinta muraria che ricalcava il percorso delle precedenti mura repubblicane, distanziandosi solamente di pochi metri. Anticipando, quindi, quella che sarà la tecnica costruttiva militare delle mura romane di Aureliano, la fortificazione di Verona venne eseguita con grande fretta, utilizzando numeroso materiale di spoglio

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(lapidi, elementi architettonici e altro materiale edilizio) e soprattutto inglobando diverse strutture preesistenti fra cui va ricordato anche il noto Anfiteatro, che fu depredato dell’anello esterno. Ma Aureolo, da fido amico e coadiuvante di Gallieno, come spesso accadeva in questi anni di angoscia e anarchia, vedendo il riacutizzarsi di un periodo di sbandamento e debolezza del potere imperiale e la continua decimazione delle truppe dell’imperatore, perseguitate dalla peste e dalle ingenti perdite dovute alle incursioni dei barbari, lo tradì, passando dalla parte di Postumo. Aureolo, infatti, si autoproclamò imperatore preparandosi alla conquista dell’Italia. Stretto d’assedio a Milano da Gallieno, che velocemente era giunto per sedare la rivolta, fu salvato da un’improv-

visa congiura ordita da tutto lo stato maggiore dell’esercito, in cui erano presenti anche le figure di Marco Aurelio Valerio Claudio, braccio destro di Gallieno, e il nuovo comandante della cavalleria, Lucio Domizio Aurelio, non a caso, i due futuri imperatori. Gallieno venne ucciso con uno sleale inganno proprio mentre stava pranzando e, senza conoscere i suoi congiurati, in punto di morte andò a designare come suo successore proprio quell’Aurelio Claudio che aveva tramato alle sue spalle. Erano i primi mesi del 268 d.C. e Gallieno periva vittima di quegli stessi uomini a cui la sua riforma militare aveva dato ampi poteri di controllo sulle milizie, sempre più determinanti e vere padrone degli eventi storici e dell’andamento dello Stato.


Con il breve regno di Aurelio Claudio (che verrà chiamato il Gotico per le sue imprese) ha inizio la serie di quegli imperatori illirici che perdurerà fino alla presa del potere da parte di Diocleziano che porrà fine al periodo dell’anarchia militare. Ampiamente elogiato dalla Curia romana non solo per i suoi meriti sul campo, ma soprattutto per aver liberato Roma da quel monarca assoluto che fu Gallieno, Claudio tenterà di restaurare l’impero, dando sicurezze nella primaria lotta contro i barbari. Dopo aver soppresso Aureolo che risultava essere un grave rischio al suo operato, Claudio attese alla risoluzione della que-

stione riguardante i Goti che, forti di circa 320.000 elementi e con numerose navi al seguito erano in procinto di invadere l’area orientale dello Stato romano. Strategicamente, quindi, consolidò e rafforzò la presenza dell’esercito ad Aquinum (vicino l’odierna Budapest), la capitale della Pannonia inferiore, e lungo tutta la linea di confine tra questa provincia e la Mesia superiore coincidente col percorso del Danubio. E dopo aver permesso ai Goti di compiere nuove razzie nelle città costiere del Ponto Eusino, nella penisola Calcidica, e in varie parti della Grecia, li attese durante la marcia di risalita verso nord. I Goti infatti, già ampiamente stremati dalla pesti-

lenza, dalla fame e dalle tempeste che li avevano colti nei loro saccheggi, furono in un primo momento colpiti ripetutamente dal comandante della cavalleria Aureliano e infine, presso Naissus (identificabile con l’odierna Ni? in Serbia), ricevettero dalle truppe imperiali una pesantissima sconfitta. Abritto, in cui Decio aveva trovato la morte, era stata vendicata e Roma fu liberata dall’angosciosa insidia dei Goti per molto tempo (ritorneranno con forza sulla scena storica solo nel IV secolo). Claudio ricevette grandi onori e l’appellativo Gothicus Maximus. Al di là dell’importanza che rivestì questa vittoria sui barbari, il racconto di Zosimo offre un interessante spunto di riflessione quando nel commentare la vittoria di Claudio si afferma: «i superstiti entrarono nell’esercito romano o si fermarono a coltivare quel poco di terra che avevano ricevuto». Non più deportazione dei prigionieri e abbandono dei territori appena riconquistati o difesi, quindi, ma attraverso una politica di integrazione, che aggregava gli sconfitti come soldati o coloni, i barbari andavano via via a ricomporre gli elementi dell’esercito romano od a ripopolare quelle terre a favore di Roma stessa. Ma proprio quando Roma stava riaffermando potere e supremazia sulle numerose popolazioni barbariche, Claudio, che si era ritirato a Sirmio, morì colpito dalla peste nella primavera del 270 d.C. Dall’epoca di Settimio Severo, Claudio fu il primo imperatore a non essere stato eliminato in seguito a tradimento o per mano militare. Come diretto discendente fu eletto il figlio Marco Aurelio Claudio Quintilio che subito accorse con l’esercito a Sirmio, dove pochi mesi dopo giunse anche Aureliano. Quest’ultimo

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fu acclamato dalle sue milizie e quando si diffuse la notizia che Claudio stesso, in punto di morte, lo aveva elevato alla porpora come suo successore, il giovane Quintilio, scomparve, probabilmente dopo essersi suicidato. Risale proprio agli anni intorno al 270 d.C. la realizzazione di un sarcofago che consente di comprendere, nelle scene figurate, il clima di particolare preoccupazione che si viveva sul piano politico e sociale, determinando quindi un desiderio di armonia e tranquillità. Si tratta del sarcofago a tinozza dedicato da Aurelia Massimina al consorte Iulius Achilleus, funzionario del Ludus Magnus, rinvenuto a Roma sulla via Cristoforo Colombo e conservato ora al Museo delle Terme. Sulla fronte sono raffigurate scene bucoliche e pastorali, assai care al repertorio pagano e ampiamente riprese dalla cultura cristiana, mostrando ancor più, per questo periodo, una certa assimilazione e integrazione dei due linguaggi artistici in chiave simbolica. Nelle scene si distinguono alcuni pastori: chi di loro è intento alla lavorazione di attrezzi agricoli, chi in lavori di mungitura o chi, infine, con lo sguardo pensoso e trasognato, sta seduto a contemplare il gregge. In contrasto con queste immagini, sui fianchi del sarcofago, sono raffigurati leoni

Sopra: Ritratto di Aureliano: Brescia, Museo di Santa Giulia Sotto: Fronte del sarcofago di Giulio Achilleo: Roma, Museo Nazionale Romano Nella pagina accanto, in alto: Fano: un tratto della cinta muraria Nella pagina accanto, in basso: Fano: l’arco di Augusto

che stanno sbranando alcuni animali, accompagnati da un bestiario che li trattiene con una corda mentre suona una tuba. Il tema della pace bucolica, quindi, si contrappone a quello dell’aggressiva violenza dei felini e costituisce in questa opera non solo un motivo figurato innovativo, ma anche l’emblema del travagliato periodo che si viveva, caratterizzato ancor più dall’ineluttabile conflitto tra la vita e la morte, tra il terrore e la tranquillità. Nel riprendere il pensiero politico e la strategia di difesa e consolidamento del limes nordico, che fu del suo predecessore Claudio, Aureliano, nei primi anni del suo principato, si impegnò molto per contrastare e respingere le incursioni in Italia degli Alemanni, unitisi agli ex federati dei romani gli Iutungi.


Emulando quindi la tattica militare che Claudio aveva adottato contro i Goti, il nuovo imperatore attese i barbari, che si erano spinti fino al Po nell’autunno del 270 d.C., sulla strada del ritorno, dove carichi di bottino e stanchi, furono aspramente battuti. Dopo di che, quando i vinti vennero a patteggiare la pace, avanzando anche richieste in denaro, egli convocò l’esercito (o una sua rappresentanza), mostrando l’unità non di un solo condottiero, ma di tutto il suo Stato maggiore e delle singole milizie. Negò poi ogni possibilità di ricatto, come ci informa lo storico contemporaneo Publio Erennio Dexippo, davanti alle esose richieste di oro e tributi, affermando che la grandezza di Roma non solo era protetta dalla massima divinità del Sol Invictus, ma che il suo volere corrispondeva a quanto lo stesso dio desiderava. Sul problema del pagamento dei tributi alle popolazioni barbariche si era giocata gran parte della partita relativa alla crisi del III sec. d.C. Da quando Gordiano III, pur di avere un esercito forte

e numeroso da porre in campo contro i persiani, concesse ai Goti e ad altri popoli tributi costanti, sia in tempo di pace che di guerra, fu un susseguirsi di richieste e ricatti che furono diversamente accolti dai seguenti imperatori, con conseguenze a volte devastanti. Con Aureliano si pose fine a questa dipendenza. E i fatti non mancarono di dare ragione all’imperatore. Poco dopo, alla fine del 270, furono i Vandali a muoversi, proprio perché fu loro negato oro e tributi. Si unirono prima ai Sarmati poi con Alamanni, Marcomanni e Iutungi scesero con grande velo-

cità e furia distruttiva fino a saccheggiare le aree che circondavano Milano, e a Piacenza riuscirono, con l’inganno, a battere le truppe imperiali, riversandosi quindi verso Roma e raggiungendo in breve tempo l’Umbria. Ma il carattere, l’esperienza e la tenacia di Aureliano alla fine prevalsero. Presso Fanum Fortunae (Fano), in un’area sicuramente a ridosso del fiume Metauro, i barbari furono sconfitti in una storica battaglia che li costrinse a fuggire, per essere nuovamente sbaragliati sulla via del ritorno presso Ticinum (Pavia).


Il fatto che le orde barbariche si fossero spinte in questa occasione fino a poche miglia dall’Urbe, deve, tuttavia, aver spaventato non poco il popolo italico e i cittadini di Roma. Si pensò quindi alla difesa di molti centri abitati, fra cui la stessa capitale, mediate la costruzione di mura. Roma fino a quel momento e per diversi secoli non aveva mai sentito l’esigenza di difendere i propri stretti confini. Imponenti e maestose, grazie anche ai successivi interventi di Massenzio prima e di Onorio e Arcadio all’inizio del V sec. d.C., le mura aureliane costituiscono ancora oggi uno fra i massimi complessi monumentali conservati nella città eterna. Realizzate in pochissimo tempo e con l’intervento di numerose maestranza civili e militari, per un percorso di circa 19 km., protessero la città dai continui tentativi di penetrazione fino al sacco di Alarico del 410 d.C. Ma oltre alla prestigiosa opera difensiva di Roma i dati archeologici permettono di indi-

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viduare altre città in cui Aureliano intervenne per la loro difesa. In particolare si possono citare Fano e Pesaro, già teatro delle scorrerie dei barbari e delle successive vittorie dei romani. Per quanto riguarda Pisaurum si conservano ancora oggi diversi tratti di mura realizzati in quest’epoca in laterizio al di sopra della cinta repubblicana di II sec. a.C. in opera quadrata. Per Fano, invece, sono attestati gli interventi di Aureliano sia nel consolidamento della cinta muraria di epoca augustea, sia nella probabile realizzazione di un santuario dedicato proprio a quel Sol Invictus che si era manifestato con diversi prodigi alla figura del vincente imperatore. Il notevole consenso che Aureliano andava accrescendo presso le milizie e il popolo era basato non solo su una sua visione ‘democratica’ del comando, che prevedeva, come si è visto, la partecipazione di tutti i ranghi dell’esercito alle principali decisioni da prendere in campo bellico, ma anche sulla sua nuova concezione teologica che in breve tempo determinò l’unità etica e morale dell’impero attorno al dio Sol, che diventerà nel 274 d.C., il dio supremo dello Stato romano. Malgrado ciò non si possono dimenticare i vari tentativi di usurpazione che Aureliano subì, sventandoli con grande tenacia e rapidità, nonché una rivolta di monetieri a Roma che si sollevarono poiché, in assenza dell’imperatore, provvidero a modificare, a loro vantaggio, il valore della moneta. Aureliano fece chiudere la zecca e molti, anche fra la plebe, si sollevarono, con il probabile appoggio della Curia, dando vita ad una sommossa che a fatica fu sedata dalle truppe imperiali. Furono in seguito uccisi sia il capo dei ribelli Feliciano, che gestiva la zecca,

sia tutti i membri della classe senatoria e del popolo, che si erano schierati dalla parte dei rivoltosi. Forte di questo favore, sentì come propria la missione di recuperare quelle zone che avevano operato la secessione da Roma: l’impero delle Gallie e lo Stato di Palmira. La riconquista delle Gallie avvenne approfittando di un periodo di debolezza di questo ‘impero’ che sopraggiunse, già al tempo di Claudio il Gotico, dopo la morte di Postumo nel 269 d.C. Prese il comando, infatti, Marco Piavonio Vittorino che riuscì per qualche tempo a controllare la situazione e a mantenere un certo equilibrio nei rapporti con Roma, ma non ad evitare un

Nella pagina accanto, in alto: Roma: tratto delle mura aureliane presso porta Pinciana Nella pagina accanto, in basso: Roma: le mura aureliane presso porta Tiburtina In basso: Busto ritratto di Zenobia: Palmira, Museo Archeologico

nuovo tradimento che lo vide scomparire dalla scena storica a vantaggio di Caio Esuvio Tetrico, governatore dell’Aquitania. Contro costui si mosse Aureliano e nello scontro diretto avvenuto nell’odierna zona di Châlons en Clampagne (l’antica Duro Catalaunum nella Belgica), all’inizio del 274 d.C., l’esercito di Roma sconfisse i secessionisti, aiutato anche dall’ennesimo tradimento compiu-

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to da Tetrico che passò dalla parte dei romani. Le Gallie vennero riannesse all’impero, Tetrico condotto a Roma come trofeo di guerra, anche se fu in seguito riabilitato e inviato in Lucania con compiti di governo. Più difficile e complessa fu la riconquista dell’oriente. Palmira era rimasta orfana del suo grande condottiero Odenato già dal 267 d.C., vittima anche lui di una congiura di palazzo, e per mano di suo nipote Maconio. Gli successe la moglie Zenobia con il figlio Vaballato che dopo un periodo di relativa pace, pretese di estendere il suo dominio giungendo così a controllare la Siria, l’Arabia e soprattutto l’Egitto, dove erano sempre più frequenti le incursioni dei Blemmi a danno delle città carovaniere. L’ingerenza dei palmireni in Egitto, dove nel 271 d.C. si assistette alla caduta di Alessandria ad opera del generale Zabdas, accompagnata anche dalla loro espansione in Bitinia, non fu più tollerata da Aureliano che muovendo con il grosso dell’esercito attraverso l’Asia minore arrivò a scontrarsi

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con Zenobia e Vaballato proprio ad Antiochia. Qui con grande abilità tattica l’imperatore riuscì ad avere la meglio contro l’ingente e ben armato esercito dei palmireni. Zenobia venne catturata dopo la seguente caduta di Palmira che di lì a pochi mesi si ribellò nuovamente finché Aureliano non la fece radere al suolo nell’estate del 272 d.C. Riunificato l’impero, rafforzate le difese di molte città e dei confini nordici contro i barbari, riorganizzati alcuni settori dell’amministrazione pubblica anche attraverso un’importante riforma monetaria e infine rinsaldati i costumi religiosi attraverso la teologia solare, Aureliano si apprestava a celebrare il trionfo a Roma nel 274 d.C. Non prima tuttavia di aver adempiuto ad un voto che fece alla vigilia della sua conquista di Palmira durante un sacrificio svoltosi davanti al tempio del Sole di Emesa: quello di costruirne uno nuovo in onore del dio a Roma. Inaugurato probabilmente nel 274 d.C., il 25 dicembre, che divenne in epoca cristiana il Natalis Domini, questo tempio

sorgeva in un’area della VII Regione augustea corrispondente all’odierna zona di Piazza S. Silvestro per estendersi a nord fino a via della Vite- via del Gambero, dove la presenza dell’Arco di Portogallo, sulla via Flaminia (via del Corso), doveva costituire uno degli accessi al sacro luogo. Insieme al tempio vennero istituiti giochi annuali che perdurarono nel tempo e un nuovo collegio di sacerdoti (pontefici). Splendidamente ornato sia nella sua decorazione architettonica, sia al suo interno con magnifiche opere d’arte, il tempio conservava il bottino proveniente dalla conquista di Palmira, mentre nei suoi portici avvenivano le distribuzioni a prezzo calmierato di vino alla plebe, istituite proprio da Aureliano. La pianta di questo edificio è in parte ricostruibile grazie ad alcuni disegni pervenutici dal Palladio ed eseguiti nel XVI secolo (quando i ruderi erano ancora visibili) e in cui, malgrado alcune integrazioni, si riconosce il grande portico di accesso al santuario con i lati brevi curvi e un’area centrale più ampia, caratterizzata da nicchie sui lati. Il prospetto disegnato dal noto architetto mette in evidenza un doppio ordine di stile corinzio in cui si inseriscono nicchie. Tra le altre opere che Aureliano lasciò a Roma vanno infine ricordati i Castra Urbana, già realizzati in epoca precedente e da questo imperatore ricostruiti nelle vicinanze del tempio del Sole e, secondo i recenti studi, nell’attuale area di piazza di Spagna. Giunto così all’apice del potere e del consenso assoluto, Aureliano morì per un banale incidente, lasciando un vuoto di potere incolmabile per diverso tempo. Zosimo e altri autori raccontano che l’imperatore si trovava in Tracia a Perinto,vicino Bisanzio, ed avendo fortemente


Nella pagina accanto: Resti del Tempio del Sole in una incisione del XVI secolo A sinistra:Il Sol Invictus in un’immagine del culto mitriaco In basso: Aureo con l’immagine di Tacito

minacciato un suo funzionario di corte, di nome Eros, addetto alla pubblicazione delle sue sentenze, questi si spaventò a tal punto che, mediante una falsa lettera, istigò le guardie del corpo dell’imperatore a sopprimerlo per difendersi da un’eventuale rappresaglia che avrebbe colpito anche loro. Attesa l’uscita di Aureliano dalla città, Eros e coloro che era riuscito ad ingannare lo uccisero a colpi di spada. Si era con ogni probabilità nell’autunno del 275 d.C. Resta ancora da ricordare il rapporto che Aureliano ebbe con il cristianesimo. Se, infatti, all’inizio del suo regno mantenne in vigore le disposizioni di tolleranza emanate da Gallieno, sul finire del principato, la tradizione letteraria cristiana lamenta il sorgere di una nuova persecuzione. Il buon rapporto iniziale con la Chiesa è comunque testimoniato dalla vicenda che interessò il vescovo eretico di Antiochia, Paolo di Samosata.

Questi era un funzionario della classe aristocratica legata a Zenobia che lo elesse vescovo col fine di controllare la chiesa, manifestando per la prima volta il desiderio di interferire nella politica ecclesiastica. Furono necessari, allora, ben due sinodi di vescovi fra il 264 e il 268 d.C. per sconfessare le idee di Paolo e scomunicarlo. E visti i tentativi del vescovo, forte della sua protezione, di conservare la sedia episcopale, i cristiani di Antiochia giunsero a chiedere ad Aureliano stesso la sua deposizione a favore del vescovo Domno, ufficialmente eletto e riconosciuto. L’imperatore seguendo una chiara linea di diritto, accordò ai cristiani le loro richieste, anche per dare rilievo alle proprie idee di unità e che andavano contro a qualsiasi separatismo. Probabilmente un riacutizzarsi delle violenze a danno dei cristiani alla fine del suo regno, ma che non sono documentate

da editti e soprattutto senza neppure aver avuto un seguito, può essere dovuto a diversi fattori tra cui la ripresa del conflitto coi neoplatonici o la minaccia che la fede cristiana poteva rappresentare verso la nuova, ufficiale e universale religione del Sol Invictus. Come si è già avuto modo di dire, l’improvvisa morte di Aureliano gettò nuovamente l’impero e le sue istituzioni in un caotico vuoto di potere e stato di anarchia. Gli autori antichi ci dicono perfino di un periodo di interregno durato ben sei mesi, che tuttavia è da ridurre a un massimo di tre mesi, poiché già alla fine del 275 d.C. il nuovo sovrano Marco Claudio Tacito si trovava insediato sul trono. Fu la scelta giusta per quel momento, uscita da una lunga ed estenuante trattativa fra esercito e senato e in cui la Curia romana deve aver svolto un ruolo di una certa rilevanza. Infatti, Tacito, quando fu eletto, era considerato un princeps del Senato, con alle spalle una brillante carriera militare, ma soprattutto era un ricchissimo possidente terriero tanto che, ormai lontano dai clamori e dai pericoli della vita civile e militare, data l’età di settantacinque anni, viveva in Campania, presso Baia. Il suo impero durò circa un anno. Dopo aver eletto prefetto del pretorio il fratello (?) Floriano, concesse alti onori

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divini ad Aureliano, e si occupò subito di alcune riforme amministrative, nonché di nuovi progetti architettonici per l’Urbe, fra cui quello di voler realizzare un tempio dedicato a tutti gli imperatori divinizzati. Ma ben presto fu chiamato alla guerra. Nuove e pesanti incursioni dei barbari si registravano nel Ponto Eusino (Cappadocia e Cilicia) dove Tacito andò ad arginarle con successo. Ma sul tragitto del ritorno, a Tiana in Cappadocia, durante l’estate del 276 d.C., com’era d’uso, venne trucidato dai soldati che vedevano erroneamente in lui il tentativo di restaurazione del potere senatoriale. Dubbia è la notizia che vedrebbe come

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mandante dell’uccisione proprio il suo successore, l’illirico nativo di Sirmio, Marco Aurelio Probo, già comandante della X Legio Gemina ed elevato al rango di dux totius Orientis da Tacito stesso. L’esercito, quindi, torna a proclamare l’imperatore, uccidendo, in capo a pochi mesi, anche Floriano che poteva costituire un ostacolo al nuovo eletto. Nei sei tormentati anni del suo regno, Probo dovette fare fronte ai continui assalti di diverse popolazioni barbariche su tutta la linea del limes imperiale. Riprendendo la politica di Aureliano e contando molto sulla sua tenacia, energia ed esperienza (fu già ufficiale sotto

Valeriano; comandante delle milizie nell’Illirico con Gallieno e braccio destro di Aureliano nella lotta contro Zenobia) Probo, dopo essersi scontrato con diversi usurpatori, riuscì nel suo intento di respingere i diversi attacchi dei barbari e di rinforzare i confini, provvedendo così alla sicurezza dell’impero. Il risultato fu quello, per certi aspetti molto singolare in questi drammatici anni, di aver riportato una relativa pace nelle province e a Roma stessa, dove nel 281 d.C. Probo celebrò il trionfo. Nelle diverse campagne belliche combattè con successo contro Franchi ed Alemanni in Gallia (276 d.C.), Vandali nella Rezia (277 d.C.) e infine contro i Goti e i loro alleati che avevano invaso le zone orientali (278 d.C.). Fu anche in grado di riprendere la lotta contro i persiani e grazie all’aiuto di alcuni suoi valorosi generali, Probo liberò l’Egitto dal pericolo dei Blemmi (280 d.C.). In questa sua azione, l’imperatore ebbe sempre cura di fortificare villaggi e città e di dotare di nuove difese quelle regioni maggiormente vulnerabili a nuove incursioni. Si hanno numerosi esempi di queste operazioni in città come Cesena, Narona (Dalmazia), Pupput (nei pressi dell’odierna Hammamet) e Capsa (Numidia). Anche per Roma si hanno notizie in tal senso, come la conclusione della cinta muraria iniziata da Aureliano e la realizzazione di un nuovo ponte. Ricordato nei Cataloghi Regionari del IV sec. d.C., il Pons Probi fu restaurato durante l’età teodosiana. Sulla sua ubicazione sussiste una certa discordanza anche se generalmente viene collocato nel tratto di fiume tra l’Aventino e il Trastevere. Bisogna ricordare che Probo viene dipinto dalle fonti antiche, non senza una certa dose di idealizzazione, come un valente


Nella pagina accanto: Ritratto di Probo: Roma, Musei Capitolini A sinistra: Aureo con l’immagine di Probo Al centro: Area archeologica dell’antica Pupput In basso: Capsa: particolare delle rovine delle terme

militare ma anche quale uomo di pace e legato molto alla terra e all’agricoltura. Sicuramente la vista delle condizioni demografiche dell’impero, molto ridotte a causa delle continue guerre, delle carestie e delle pestilenze, deve averlo colpito moltissimo. Non di meno lo stato in cui versavano molti territori, un tempo felicemente fertili e coltivati. Per questi motivi ebbe molto a cuore il problema del ripopolamento di determinate regioni devastate dalla guerra come anche l’utilizzo dell’esercito in lavori di risanamento ambientale e bonifiche. La sua strategia fu quella di trapiantare i barbari, fatti prigionieri, nelle zone che più necessitavano di interventi con fini demografici. Ma in questa opera, il piano in parte fallì poiché accad-

de, sotto il suo principato, che i Franchi, dislocati con questi fini in Tracia si ribellarono e dopo essersi impadroniti di numerose navi, devastarono le coste dell’Asia Minore e della Grecia per spostarsi poi in Sicilia, dove

saccheggiarono Siracusa, e concludere poi le loro scorrerie, indisturbati, in Africa settentrionale. E da qui, sempre più padroni del mare, varcarono lo stretto di Gibilterra e percorrendo con rotte di cabotaggio l’Atlantico raggiunsero la loro patria a nord. Fu questo, certamente, un fatto inaudito per quel tempo, dimostrando come un’armata di barbari, trasformatisi in pirati, potesse facilmente conquistare il Mediterraneo fino al punto di saccheggiare la Sicilia, considerata imprendibile e soprattutto violandone la sacra e proverbiale pace e serenità. La fine dell’impero di Probo è in diretto collegamento proprio con questa sua politica di riutilizzo delle milizie in opere di pubblica utilità. Dopo aver disposto la diffusione dei vigneti in varie province, fra cui la Gallia e la Spagna, anche mediante l’impiego di mano d’o-

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pera militare, ritornato a Sirmio, progettò il prosciugamento delle paludi con lavori di drenaggio e attraverso un notevole sfruttamento delle truppe di stanza in Pannonia. Ma i soldati volevano la guerra e si ammutinarono nell’estate del 282 d.C., probabilmente fiancheggiati da Marco Aurelio Caro, prefetto del pretorio, che proprio in quei mesi era stato proclamato imperatore dai suoi militari e dalle legioni del Norico e della Rezia. Probo fu dunque eliminato e malgrado una prima reazione senatoriale all’evento, si insediò sul trono di Roma l’ultimo tentativo di creare una stabile dinastia imperiale prima dell’avvento del grande riformatore Diocleziano. Difatti Caro, appena indossata la porpora, nominò Cesari i figli Carino e Numeriano che divennero princepes iuventutis. Il nuovo imperatore, tuttavia, non godeva di buona fama e tanto meno suo figlio Carino che viene

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descritto da Zosimo come «dedito alla mollezza e a vita sregolata e che faceva stragi di uomini che non avevano alcuna colpa, vittime della sua sfrenatezza, ritenuti in qualche modo in contrasto con lui». Presso le Collezioni Capitoline si conserva un interessante ritratto virile colossale che viene attribuito, anche se con qualche dubbio, alla figura di Carino. Rinvenuta nella zona del Castro Pretorio, la testa, in buono stato di conservazione, offre l’immagine di un uomo in età matura con lineamenti ben caratterizzati, come il grosso naso gibboso, le labbra socchiuse, gli zigomi sporgenti, la bassa fronte e i corti capelli lavorati a rilievo molto basso. Stilisticamente l’opera richiama la corrente neoclassicista di età gallienica, come nella lavorazione plastica della barba e nel movimento della testa, presentando anche alcuni aspetti espressionistici che anticipano le

tendenze artistiche dell’imminente età tetrarchica. Attribuito a diversi personaggi di quest’epoca, come Floriano, Probo e anche Gallieno, il ritratto potrebbe riferirsi invece, sulla base di confronti anche monetali, proprio a Carino, malgrado la damnatio memoriae da cui fu colpito e pertanto costituire una delle rare immagini di questo sfortunato imperatore. Visto, quindi, che i soldati chiedevano sangue e bottino, Caro, dopo aver mandato il figlio maggiore a contrastare in Gallia le incursioni dei barbari, con il figlio minore, Numeriano, intraprese una spedizione contro i persiani. Con le sue armate, Caro riuscì ad occupare la Mesopotamia nel 283 d.C. e a spingersi con successo fino a Ctesifonte. Ma qui per una inspiegabile circostanza (forse una tempesta o la caduta di un fulmine), l’imperatore morì, lasciando al figlio il compito di riportare le truppe in patria. Ma preso Perinto, sul Bosforo, anche Numeriano fu trovato morto nella sua tenda e tutto lo Stato maggiore dell’esercito incolpò dell’accaduto, Aper, il suocero, e contro di lui venne proclamato imperatore l’illirico di origine dalmata, Caio Valerio Diocles, prefetto del pretorio. Nasce da questo episodio la veloce e fulgida ascesa al trono di Diocles che con abilità tattica uccise imme-


Nella pagina accanto, in alto: Area del fiume Tevere dove doveva sorgere il ponte di Probo Nella pagina accanto, in basso: Aureo con l’immagine di Caro A sinistra: Ritratto di Carino (?): Roma, Centrale Montemartini

diatamente Aper, cavalcando la comune accusa nei suoi confronti e prendendo la porpora nel novembre del 284 d.C, potendo però contare solamente sul dominio della Siria e dell’Asia minore. E volendosi immediatamente ricollegare alla famiglia degli Antonimi e ai predecessori illirici modificò anche il suo nome in Marco Aurelio Caio Valerio Diocleziano. Già da tempo non era più necessario per gli imperatori, come ci informa Aurelio Vittore, andare a Roma per essere investiti dalla Curia del titolo imperiale; era sufficiente la proclamazione da parte dell’esercito e Diocleziano, forte di questo potere marciò contro l’ultimo ostacolo: Carino. Questi, che stava conducendo il suo operato ancora in Gallia, dopo essere

intervenuto anche nell’Urbe in seguito al grande incendio che sconvolse la capitale nel 284 d.C., preparò il suo esercito e mosse verso colui che vedeva come un usurpatore. Lo scontro si svolse nella Mesia a Vindimicium. L’esito della battaglia volgeva a favore di Carino ma i suoi soldati, probabilmente intuendo la grandezza di Diocleziano, lo uccisero, spianando la strada nell’estate del 285 d.C. al nuovo restauratore dell’impero. Molti dei problemi che la crisi del III secolo aveva generato restavano ancora aperti, ma Diocleziano con la sua rivoluzionaria riforma tetrarchia seppe porvi rimedio. Roma perse il suo ruolo di unica capitale di un unico vasto impero. I

BIBLIOGRAFIA (a completamento dei testi già inseriti nelle prime due parti): G. VITUCCI, L’imperatore Probo, in Studi pubblicati dall’Istituto Italiano per la Storia Antica, 8, ROMA 1952; S. MAZZARINO, La fine del mondo antico, Milano 1959; M. GRANT, Gli imperatori romani. storia e segreti, Roma 1983; M. SILVESTRINI, Il potere imperiale da Severo Alessandro ad Aureliano, in Storia di Roma, III, 1, Torino 1993, pp. 155-191; A. FEDRIANI, Gli ultimi condottieri di Roma, Roma 2001; B.M. DI DARIO, Il Sole invincibile, in Paganitas, 9, Padova 2002; . SORDI, I cristiani - l’Impero Romano, Milano 2004; A. GIARDINA, Roma antica, Bari 2005; A. PANDOLFI, Dal paganesimo al cristianesimo, in La cristianizzazione in Italia fra Tardo Antico e Alto Medioevo, Roma 2007; A. BARBERO, Barbari. Immigrati, profughi, deportati nell’Impero Romano, Bari 2008; A. BALDINI, L’impero romano e la sua fine, Bologna 2008; P. SINISCALCO, Il cammino di Cristo nell’Impero Romano, Bari 2009.

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IL RINVENIMENTO

n un passo della biografia di Augusto, lo s t o r i c o Svetonio ricorda l’istituzione da parte del princeps di un corpo addetto al pattugliamento notturno delle strade di Roma, cui erano inoltre attribuite funzioni di contenimento e prevenzione degli incendi: Adversus incendia excubias nocturnas vigilesque commentus est (SVET. Aug. 30). In effetti, la praefectura vigilum fu introdotta da Augusto nel 6 d.C, nel quadro di una generale riorganizzazione degli uffici burocratici di rango senatorio ed equestre, ma la mancata menzione del praefectus vigilum (così come, quella del prefetto del pretorio e dell’annona) da parte dello storico mette in risalto quanto ancora fosse scarsa l’impressione destata dalla creazione di cariche prettamente equestri. Solo in epoca flavia, con la stabilizzazione delle funzioni, si ebbe

L’EXCUBITORIUM

A destra: L’area dell’Excubitorium della VII Coorte in una incisione del XIX secolo

Nella pagina accanto, in alto: Nella foto d’epoca un particolare del pavimento musivo e della vasca in muratura

I

coscienza del fenomeno, grazie al quale anche gli equites potevano aspirare a un cursus pari a quello dei senatori, se non per prestigio e tradizione, certamente per quantità e vastità di competenze. In origine, la praefectura venne istituita con un campo d’azione limitato nel tempo, ma fu ben presto chiaro l’effettivo valore della nuova funzione civica: in età repubblicana non esisteva, infatti, un corpo militare appositamente destinato all’intervento in caso di incendi, ma la cura era affidata agli edili e, solo nei casi più gravi, ai consoli stessi; di norma, invece, era di competenza di magistrati minori che avevano al loro ordine un numero non definito di schiavi pubblici. La frammentazione e la disomogeneità dell’amministrazione


resero necessario l’intervento di Augusto, che basò l’organizzazione del nuovo ufficio sulla divisione in quattordici regioni della città. Com’è noto, egli affidò due regiones contigue al controllo di una statio, in cui era appunto stanziata una coorte di vigili. A ciascuna statio faceva poi riferimento un distaccamento minore, detto excubitorium. Non è possibile determinare con certezza il numero degli effettivi prima del III sec. d.C., ma per certo in età severiana ciascuna coorte arrivava a contare mille uomini. A capo della milizia era posto un praefectus di rango equestre, a cui erano attribuite competenze non soltanto militari, ma anche giurisdizionali: era infatti suo compito ricercare ed eventualmente punire i colpevoli di un incendio

Dida

e occuparsi del giudizio di coloro che, nel corso delle ronde notturne, avessero subito l’arresto. Lo affiancava nell’amministrazione il subpraefectus, cui seguivano gerarchicamente i tribuni, a capo delle sette coorti, e i centurioni che guidavano le sette centurie in cui ciascuna coorte era suddivisa. Grazie alle epigrafi rinvenute nel corso dei diversi scavi, è inoltre possibile definire con un buon grado di accuratezza i numerosi uffici a cui i soldati dovevano attendere, a cui corrispondeva una precisa denominazione. I cornicularii, i beneficiarii e i commentariones erano alle dipendenze delle cariche di rango più elevato, con molteplici mansioni; ciascuna coorte disponeva poi di un suo vexillarius, di amministratori economici e archivisti (arcarii e librarii), medici e officiatori di sacrifici (victimarii). Trattandosi di una cura alquanto specializzata, data la vastità del suo campo di azione, esistevano inoltre numerosi addetti a specifiche competenze: i siphonarii e gli aquarii si occupavano del funzionamento degli impianti idraulici in caso di incendio, i carcerarii, gli horrearii e i balnearii provvedevano alla vigilanza di carceri, magazzini e

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bagni pubblici; i sebaciarii, che si alternavano con turni mensili, erano addetti all’accensione dell’illuminazione notturna stradale per favorire il pattugliamento dei vigili (le fiaccole, infatti, venivano realizzate con il sebum, sego), oppure, più specificatamente, il servizio sarebbe stato limitato al mantenimento dell’illuminazione pubblica, istituita da Caracalla, in occasione dell’apertura notturna delle terme, fra il 210 e il 215 d.C.; gli emitularii, infine, di controversa definizione, avevano probabilmente il compito di accompagnare i sebaciarii nel loro servizio. Risulta dunque evidente la molteplicità dell’attività dei vigiles, che - come illustra il passo di Svetonio - dovevano assicurare dagli incendi la città, occuparsi della prevenzione degli stessi durante il giorno e perlustrare la città di notte. La collaborazione con le altre curae e praefecturae di Roma era perciò necessaria: il curator aquarum doveva garantire il funzionamento delle fontane e l’agibilità degli acquedotti stessi, le coorti urbane sostituivano, al sorgere del sole, quelle dei vigili nel compito di perlustrazione e polizia, mentre i vigiles stessi continuavano a verificare che i privati disponessero dei mezzi di primo soccorso in caso di incendio, si esercitavano e svolgevano gli incarichi amministrativi di loro competenza. Divinità tutelari del corpo erano, naturalmente, Vulcano e la sua consorte Stata Mater, venerata anche nel culto compitale, come mostra, fra le altre, la basetta del Museo Nazionale delle Terme di Diocleziano, la cui prerogativa era appunto fermare gli incendi. Come in precedenza accennato, nella città di Roma, a ciascuna coorte di vigiles era affidata la supervisione di due regiones confinanti: la caserma era detta sta-

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Nella pagina accanto, in alto: L’edicola, un particolare della vasca e del pavimento musivo in una foto del XIX secolo Nella pagina accanto, in basso: Particolare degli affreschi dell’interno dell’edicola Sotto: Il primo e grande ambiente dell’Excubitorium

tio ed aveva sede in una delle due regiones pattugliate, mentre nell’altra era posto un distaccamento minore dipendente dal principale, detto appunto excubitorium. Conosciamo, inoltre, la caserma di Ostia, ubicata nei pressi del teatro, in cui avevano

alloggio i vigili che, ogni quattro mesi, giungevano dall’Urbs, forniti ciclicamente dalle sette coorti urbane, per garantire la sicurezza del porto, e, di conseguenza, il regolare approvvigionamento di Roma stessa. I Cataloghi Regionari offrono l’elenco di stationes e di excubitoria per ogni coorte, ma non tutte le sedi sono state attualmente individuate. La statio della I coorte si trovava nella regio VII, nelle vicinanze dell’attuale chiesa dei Santi Apostoli; quella della II coorte è ricordata nella regio V, nei pressi di viale Manzoni, mentre la collocazione della statio della III coorte è genericamente indicata nella regio VI, sulla sommità del Quirinale; la statio della IV coorte si trovava alle pendici del cosiddetto piccolo Aventino (regio XII), quella della V coorte (regiones I e II) nei pressi della chiesa di Santa Maria in Domnica, mentre la statio della VI viene ipoteticamente localizzata in un’area contigua al Foro Romano, cui era pertinente. Della VII coorte è noto l’excubitorium nella regio XIV Trans

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Nella pagina accanto: L’arco di collegamento tra due ambienti. Sullo sfondo l’edicola e i resti della vasca A destra: Graffito con il termine emitularius in una foto di fine ottocento In basso: Particolare di strutture del primo ambiente

Tiberim, mentre di più incerta collocazione è la statio, variamente ubicata nelle limitrofe regiones IX o XI. Dai graffiti ritrovati nell’excubitorium è stato inoltre possibile stabilire i titoli che gli imperatori della dinastia severa attribuirono alla coorte stessa: Severiana, Antoniniana, Mamiana, Alexandrina. Il distaccamento della VII coorte dei vigili venne alla luce durante le campagne di scavo di metà Ottocento nel quartiere Trastevere, alla profondità di otto metri rispetto al piano stradale moderno. In questa occasione fu scoperta, nel vicolo dell’Atleta, anche una copia dell’Apoxyomenos di Lisippo. Dal 1866, anno della scoperta, l’area venne abbandonata sino ai lavori di recupero e manutenzione del 1966, seguiti nel 1986 da quelli di restauro degli affreschi. Molte delle decorazioni, andate perdute, sono visibili dalle fotografie scattate subito dopo il rinvenimento, che permettono di ricostruire parzialmente le decorazioni musive dei pavimenti e il ciclo pittorico delle pareti. La struttura riutilizza gli ambienti di una casa privata alla fine del II sec. d. C. e, probabilmente, parte di un balneum. L’edificio, originariamente a più piani, è in opera laterizia. Attualmente, l’accesso si apre nella grande aula centrale che originariamente era decorata


In alto, a sinistra: Particolare dell’edicola con il timpano decorato con laterizi di colore diverso A sinistra: Uno degli affreschi una volta visibili all’interno dell’edicola Sopra: Porta di ingresso al secondo ambiente con decorazioni pittoriche nel sottarco

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con un mosaico in bianco e nero a soggetto marino, oggi andato perduto, in cui erano rappresentati mostri marini fantastici, un cavallo, un caprone, un serpente e due tritoni, recanti il tridente e due fiaccole. Al centro è tuttora collocato il bacino esagonale di una fontana, prospiciente un’edicola in cortina laterizia, sormontata da un timpano e incorniciata da colonne corinzie: si tratta probabilmente di un larario, dedicato al Genius Excubitorii, menzionato nei graffiti, oggi scomparsi, tracciati sul-

l’intonaco della parete interna. Della decorazione parietale dell’edicola si conserva solo la parte superiore, in cui sono raffigurate esili colonnette sorreggenti architravi, decorate da ghirlande, fra pannelli rossi, intervallate da figure umane. Sull’aula principale si affacciano diversi ambienti di incerta destinazione. A est, due vani comunicanti, usati con probabilità dagli stessi vigiles; a nord, in asse con l’edicola, si apre l’accesso a un corridoio, su cui prospettano, a destra, due ambienti

pavimentati in opus spicatum (posto in opera su un precedente mosaico a tessere bianche) e pertanto interpretati come ambienti di servizio e, a sinistra, un bagno, la cui funzione è stata individuata grazie alla presenza di un chiusino al centro del pavimento in cocciopesto. Tale corridoio continua attraverso un’apertura praticata nelle fondazioni dell’edificio moderno superiore e porta a un ambiente, delimitato a sud da una soglia marmorea, comunemente identificato come un magazzino per la

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presenza di un dolio interrato. Dell’apparato decorativo di III sec., documentato al momento della scoperta del monumento, non resta nulla, se non parte degli affreschi dell’edicola e del mosaico dell’aula principale, già ricordati, e l’affresco conservato nell’intradosso della porta d’ingresso del corridoio, che raffigura un erote e cavalli marini fra decorazioni geometriche lineari. Negli altri ambienti erano presenti esili architetture scenografiche, animali marini, geni e ghirlande vegetali, conformi al gusto dell’epoca (cosiddetto IV stile pompeiano). I graffiti tracciati sulle pareti dell’edificio, di cui oggi si conserva solo un frammento di intonaco esposto nella collezione epigrafica del Museo Nazionale delle Terme di Diocleziano, offrono notizie utilissime per la ricostruzione dell’attività e della vita quotidiana del distaccamento. Essi infatti riportano le qualifiche delle diverse classi di vigili, cui precedentemente abbiamo fatto riferimento, dediche a divinità tutelari, voti augurali agli imperatori, i nomi degli uomini in servizio e la centuria a cui appartenevano. I Nella pagina accanto: Particolare del primo ambiente con i resti della vasca in primo piano e l’ingresso al secondo ambiente Sopra: Ingresso all’ultimo ambiente con la soglia in marmo sullo sfondo A destra: Resti antichi che insistono sulla copertura moderna dell’Excubitorium




IN MOSTRA A PALAZZO ALTEMPS

ella raffinata cornice di P a l a z z o Altemps, sede del Museo Nazionale Romano, è possibile ammirare, dal 15 aprile al 18 luglio 2010, tre opere di grandissimo interesse: una statua di Dioniso fanciullo, una maschera bronzea di un anziano Papposileno, ed un’applique di sileno, anch’essa bronzea, coronata con foglie di edera. Le tre opere, di recente acquisite dalla Fondazione Sorgente Group, sono qui presentate per la prima volta al grande pubblico. Il sorriso di Dioniso, questo il titolo della Mostra, rimanda immediatamente ad una atmosfera di dolce sensualità, quale si respirava nei giardini e negli atri delle eleganti dimore degli esponenti di spicco della classe senatoria. L’intero apparato decorativo di questi ambienti (suppellettili, statue, fontane, bacini) era teso a ricreare un’oasi ideale di serenità, un

IL SORRISO DI DIONISO

A destra: Un momento della conferenza stampa di presentazione della mostra nella splendida sala del Teatro di Palazzo Altemps Nella pagina accanto, in alto: Il bellissimo allestimento degli oggetti in mostra Nella pagina accanto, in basso: Un particolare di affresco parietale con sileno e motivi floreali dalla “Casa del bracciale d’oro” a Pompei

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N

mondo nel quale trovare rifugio, lontano dagli affanni della tormentata vita politica. I peristili e gli atri si affollarono così di temi tratti dal repertorio dionisiaco: tra le fronde della vegetazione curata ad arte, si potevano trovare statue del dio, rilievi marmorei di vario formato con la raffigurazione di scene dionisiache o oggetti di culto (la cista mistica, destinata a contenere quegli oggetti rituali che era proibito vedere se non agli iniziati ai misteri, il kantharos, il tirso), persino bacini o fontane decorate con menadi rapite nell’estasi della danza, o con grappoli d’uva e kantharoi colmi di vino, il cui effetto complessivo doveva essere acuito dai giochi d’acqua che scorreva in abbondanza. Tra le colonne del peristilio, insieme al dio o ai personaggi del suo corteo (menadi, satiri), potevano essere sospese per mezzo di


festoni o ghirlande maschere fittili, bronzee o marmoree: i soggetti prediletti erano i personaggi della Commedia Nuova, come il vecchio schiavo, la giovane etera, il giovane di buona famiglia, o del dramma satiresco, come i satiri, i sileni ed anche il pi첫 vecchio di essi, il Papposileno. In alcuni casi, si evocavano in tal modo i repertori di vere commedie o tragedie


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Sopra: Affresco parietale con scena di banchetto dionisiaco dalla “Casa del bracciale d’oro” a Pompei A sinistra e in alto, a destra: Particolari di affresci parietali con motivi floreali e uccelli. Da notare la raffigurazione di maschere teatrali appese. Dalla “Casa del bracciale d’oro” a Pompei

realmente messe in scena, come la Medea di Euripide, o le amatissime commedie di Menandro. È possibile che il fenomeno sia in relazione allo svolgimento, nelle stesse case, di vere e proprie performances teatrali e sceniche, che accompagnavano brillantemente quelle cene e convivi serali che, dopo l’età di Annibale, si fecero sempre più lussuosi e ricercati. Dioniso fanciullo cinto di rose La statua di Dioniso, proprietà di una famiglia romana sino agli inizi del 1900, poi oggetto di un decreto di notifica nel Gennaio del 2009, è stata in seguito acquisita dalla Fondazione Sorgente Group. È una rara raffigurazione di un Dioniso in età giovanile,

colto in un momento di pausa nel suo incedere, con il capo leggermente reclinato su un lato. Il dio incede nudo, nella grazia delle forme solide e ben costruite della sua giovane età; unici accessori sono una pàrdalis (una pelle di felino, indossata durante le battute di caccia) che gli ricopre la parte superiore del busto per ricadere poi sulle spalle, ed alti stivaletti in pelle ai piedi. Sul capo, sulla folta capigliatura a lunghe ciocche ondulate, è adagiato un ricco diadema vegetale, a foglie di edera, corimbi, pampini e uva. Un dettaglio curioso e poco comune è la fascia che si adagia al suo ventre, composta da piccole roselline a cinque petali. L’opera è il risultato di un’abile mescolanza di due schemi iconografici. L’impostazione

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Nella pagina accanto: La staua in marmo di Dioniso A destra: Particolare del profilo destro di Dioniso In basso: Particolare della cintura di rose Nelle due pagine successive: Due immagini di trequarti della maschera in bronzo di Papposileno

del corpo giovanile del dio è palesemente modellata sul cosiddetto Efebo Westmacott, una scultura raffigurante un giovane atleta che si incorona, conosciuta in più copie ed attribuita al grande artista argivo Policleto, attivo intorno alla metà del V secolo a.C. Il tipo dell’Efebo policleteo sembra il modello di riferimento delle sculture che raffigurano Dioniso in giovane età; in quest’opera ad esso si aggiungono dettagli tratti dallo schema iconografico del cosiddetto Dioniso “Thriambos”, il mitico vincitore nella lotta contro i Giganti o contro gli Indiani, come gli alti stivaletti in pelle e la pelle animale allacciata sul torso. L’immagine giovanile di Dioniso, elaborata già nel IV secolo a.C., sarà poi amatissima per tutta l’età ellenistica ed ancora in età imperiale, oggetto di numerose riproduzioni sia in pittura, sia in scultura. La statua della Fondazione Sorgente Group, probabilmente realizzata a Roma in età antoniniana, faceva parte dell’arredo del giardino o del peristilio di una ricca domus, nella quale si voleva evocare la presenza del dio e dei suoi seguaci, come simbolo del pieno godimento dei piaceri della vita.

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La maschera di Papposileno La maschera bronzea è un’opera di eccezionale fattura, senza confronti nell’intero panorama della cultura figurativa del mondo antico. Rinvenuta in mare ed appartenuta alla collezione di Johannes Behrens di Brema fino alla fine dell’800, fu poi venduta ad un collezionista privato di Berlino, nelle cui mani rimase sino alla sua recentissima acquisizione da parte della Fondazione Sorgente Group. È raffigurato un Papposileno: un essere semi-ferino, con un viso rotondo, dominato da una barba folta e scomposta, interamente calvo. La natura animale è rivelata dalla conformazione delle orecchie (equine) e, negli esemplari a figura intera, dalla coda, dal vello peloso che ricopre integralmente braccia e gambe e talvolta dalle zampe equine. L’anziano e saggio sileno, tutore di Dioniso fanciullo, vive nei boschi e partecipa ai cortei e al banchetto del dio, cantando con voce melodiosa. Nell’esemplare della Fondazione Sorgente Group, la deformazione quasi satanica dei tratti del volto contribuisce ad accentuare la forte vivacità espressiva del soggetto: le sopracciglia sono fortemente inarcate, gli occhi sgranati, la bocca spalancata in un sorriso Sopra: Il profilo destro della maschera di Papposileno A destra: Particolare del foro quadrangolare dove probabilmente passava un nastro che sorreggeva la maschera appesa Nella pagina accanto, in alto: Particolare degli occhi e della bocca della maschera Nella pagina accanto, in basso: Raffigurazione di Sileno nell’applique in bronzo di piccolo formato

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rigido e quasi beffardo. La maschera, di formato eccezionale, è uno dei rarissimi esemplari in bronzo databili in età ellenistica, forse entro la prima metà del I secolo a.C. Sul retro essa è del tutto cava, al fine di alleggerirne il peso complessivo. Due fori quadrangolari sui bordi delle orecchie servivano probabilmente per sospenderla tramite un nastro passante. È quindi probabile che il luogo di esposizione originario fosse il peristilio con giardino di una ricca dimora, tra le cui colonne la maschera del sileno poteva ondeggiare affiancandosi agli altri numerosi elementi di decoro dell’ambiente: serti vegetali, sculture di marmo, fontane, per lo più a carattere dionisiaco, destinate a evocare una vita di piacere.

con una fluente barba dalle ciocche scomposte, e come unico ornamento, una corona di edera e corimbi posta sul capo. L’oggetto, cavo sul retro, era una applique, destinata ad essere incollata ad un supporto: in assenza di dati precisi sul contesto di rinvenimento, non è facile immaginarne tuttavia la precisa destinazione originaria. Appliques di piccole dimensioni potevano infatti ornare le anse o

le superfici di prezioso vasellame metallico, come crateri a calice o situle, o ingentilire manufatti di altro genere, come casseforti o cassapanche, o supporti in legno, come porte, troni o letti funerari. Il pezzo, di ottima fattura, è da inquadrare cronologicamente ancora nel corso del I secolo a.C. I

L’applique di Sileno L’opera in bronzo di piccolo formato, di recentissima acquisizione da parte della Fondazione Sorgente Group, raffigura la testa di un anziano sileno, calvo,

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UN ANTICO MUNICIPIUM SULLA VIA CLODIA

lera è un’antica citt a d i n a dell’Etruria meridionale interna, nella Tuscia laziale, inserita in un ambiente naturale collinare e di notevole pregio naturalistico, caratterizzato da estese aree a macchia mediterranea e solcato da corsi d’acqua torrentizi che hanno progressivamente formato spettacolari “canyons” e isolati pianori tufacei che, per la favorevole posizione difensiva, hanno da sempre rappresentato aree abitative ottimali. Arroccato su uno di questi alti pianori tufacei, delimitato dalle profonde valli di erosione incise dai fossi Biedano e Riocanale, sorge l’odierno abitato di Blera, che proprio in virtù di questa eccellente e strategica collocazione conobbe una precocissima frequentazione, già a partire dall’età del Bronzo Finale (XI-X sec. a.C.). La nascita di

BLERA

Al centro, in alto: L’antica città di Blera in una rara pianta medievale A destra: Particolare della città di Blera poggiata sul costone

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B

un’entità urbana più propriamente organizzata va invece collocata tra l’VIII e il VII sec. a.C. In età etrusco-arcaica (fine VII-V sec. a.C.) la città raggiunse una notevole floridezza, come testimoniano le numerose necropoli che la circondano, fondata sulla favorevole posizione geografica, all’incrocio delle principali direttrici che dalle grandi città etrusche della costa tirrenica (Caere e Tarquinia) muovevano verso l’interno e il nord dell’Etruria. A seguito della conquista romana e dopo le vicende della guerra sociale (90 a.C.), Blera divenne municipium e il suo territorio ascritto alla tribù Arnensis. La città romana, come già quella etrusca, aveva il suo cuore sull’arce di Petrolo. Questa estrema punta settentrionale del pianoro, oggi disabitata e occupata perlopiù da orti e oliveti, nasconde ancora preziose testimonianze relative alle fasi più antiche della storia di Blera. Lo


stesso toponimo sta probabilmente ad indicare “il luogo delle pietre”, sfruttato per ricavare materiale da costruzione, sottratto agli antichi edifici in abbandono dopo il devastante attacco alla città condotto nel 772 dal re longobardo Desiderio. Attualmente si conservano sul posto lacerti di muri in opera reticolata o laterizia e, inglobati nelle macere di confine o riproposti in originali e fantasiosi contesti funzionali, si possono ancora scoprire rocchi e basi di colonne, capitelli, frammenti architettonici e numerosi basoli pertinenti alle antiche pavimentazioni stradali. Testimonianze più consistenti furono viste e descritte nell’Ottocento da George Dennis e soprattutto dagli autori della Carta Archeologica (1881-1887), che accennano ad edifici pubblici ancora parzialmente conservati. In particolare il Gamurrini afferma che (...) Scavi regolari scopri-

rebbero il perimetro di un tempio da cui si sono tratte delle colonne marmoree dell’impero cesareo (…) Meritano quivi di essere studiate con speciale scavo alcune vestigia di muri romani, presso i quali si indica un pozzo con cunicolo, situati a ponente, e dei chiari avanzi di un edificio importante eretto sopra fabbriche etrusche precedentemente distrutte… .

L’importanza di Blera in epoca romana fu una conseguenza del passaggio della consolare via Clodia. Nel III sec. a.C. Roma, vittoriosa a sud, era costretta a creare a settentrione un antemurale contro l’avanzata dei Galli, anche in vista dei futuri conflitti contro Cartagine. In questa fase particolarmente impegnativa i Romani, oltre a sfruttare le risorse naturali e produttive d’Etruria, utilizzarono anche la sua avanzata rete stradale. Risale a quest’epoca il primo intervento di adattamento della via che si denominerà più tardi Clodia. Le strade di epoca preromana avevano una diffusione molto capillare nella regione: ogni centro etrusco era connesso agli abitati limitrofi con una fitta rete di vie, generalmente piuttosto brevi e con percorsi particolarmente tortuosi. L’intervento romano si limitò, in alcuni casi, alla risistemazione e al restauro di questi antichi tracciati e al raccordo di alcuni tratti. E’ da escludere che la strada presentasse già un fondo artificiale, una vera e propria pavimentazione, che fu invece realizzata a partire dall’età tardo-repubblicana (II-I sec. a.C.), così come la costruzione di ponti in muratura che andarono a sostituire precedenti guadi o opere lignee. La regione fu allora disseminata da

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un gran numero di manufatti che non di rado rappresentano le più eloquenti, talvolta le uniche, testimonianze della viabilità antica e della perizia ingegneristica di chi la realizzò. Nel comprensorio blerano, a causa delle

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sue particolari caratteristiche idrografiche, gli architetti romani si trovarono più volte a dover affrontare l’ostacolo rappresentato da un corso d’acqua, problema che risolsero mirabilmente progettando alcuni viadotti di notevole impatto scenografico. E’ il caso del Ponte del Diavolo, monumentale e a tre fornici, con cui la Clodia, alla fine di una lunga trincea incassata nel tufo, attraversava il fosso

Biedano. L’introduzione del toponimo va ascritta alla diffusione lungo le vie medievali, in connessione con ponti antichi, della leggenda di un uomo che, trovandosi il cammino ostacolato da un torrente vorticoso, ricorre al Demonio e gli assegna il compito di costruire in una sola notte un ponte, promettendogli l’anima del primo essere vivente che passerà su di esso. Al primo albeggiare, quando il


Nella pagina accanto, in alto: Particolare di un antico rilevo romano inglobato in una costruzione

soprannaturale architetto ha quasi compiuta l’opera e si appresta ad esigere il compenso pattuito, l’uomo usa lo stratagemma di far transitare per primo un animale, un asino o un cane a seconda delle versioni. Restando nel campo delle tradizioni locali, nel caso del ponte di Blera la figura del Diavolo è stata soppiantata da quella del drago sconfitto da san Sensia, uno dei santi qui venerati, le cui vicende si collocano proprio nei pressi dell’antico viadotto. Il ponte, del I sec. a.C., destò già l’ammirazione del viaggiatore inglese George Dennis, autore di un importante resoconto di viaggio in Etruria, che dall’accurata fattura lo giudicò lavoro di maestranze etrusche, pur facendolo risalire all’epoca della dominazione romana. La sua muratura, realizzata

senza uso di calce, è in opera quadrata di peperino grigioverde e la pietra fu reperita sul posto, sfruttando una cava nelle vicinanze, dove si notano ancora i negativi dei grossi blocchi impiegati per la sua costruzione. L’aspetto attuale, ancorché dimesso, lascia comunque intuire l’imponenza originaria. La luce dell’arco centrale è di m 10,30, quelle degli archi laterali minori sono di m 2,90, per una lunghezza totale di oltre 20 metri. La larghezza, ricostruibile dalla testata meridionale dell’arcata minore che si conserva, è di m 4,70, che consente di ricostruire una carreggiata di m 4,10, canonica per le consolari. L’ampiezza centrale del manufatto è attualmente di soli cm 75, avendo ormai l’arcata mediana perduto numerosi blocchi da entrambi i lati.

Nella pagina accanto, in basso: Particolare di antiche strutture Sotto: Frontale di sarcofago di epoca romana Sopra: Antica pianta medievale della zona A destra: Resti antichi in una foto d’epoca

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Dalla valle del Biedano la via Clodia guadagnava il pianoro, e giunta all’interno dell’abitato lo attraversava per tutta la sua estensione, costituendone l’asse viario principale, e ne ridiscendeva, piegando verso ovest, poco prima di aver raggiunto la sua punta settentrionale (località Petrolone), accompagnata da una monumentale necropoli etrusco-romana. A fondovalle il Ponte della Rocca, ad un solo arco a tutto sesto, consentiva alla Clodia di superare il torrente Riocanale, poco prima che il suo corso confluisse nel Biedano. Unico ad

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aver avuto una continuità d’uso fino ai nostri giorni, questo ponte fu realizzato in opera quadrata di tufo, con filari di blocchi disposti alternativamente per testa e per taglio. La campata è di m 7,50 e la sua altezza raggiunge i m 7,60. L’arco a monte si imposta direttamente sul tufo, appositamente tagliato per sostenerlo, mentre sulla parte opposta insiste su un arco in muratura. La strada, la cui ampiezza originaria era anche qui di m 4,10, dopo il ponte scendeva piegando verso nord-ovest con una lunghissima rampa artificiale (m 35). La cronologia più

accreditata lo colloca al II sec. a.C., anche se i caratteri di maggiore arcaicità che lo contraddistinguono lo hanno fatto ritenere un’opera etrusca. In realtà il manufatto è senz’altro da attribuire ad epoca romana, come dimostra il fatto che la prospiciente e monumentale necropoli arcaica di Pian del Vescovo fu utilizzata come cava in occasione della sua costruzione, uno scempio che la pietas etrusca non avrebbe mai consentito! Beneficiando quindi del passaggio di questa importante via di comunicazione, Blera godette di una certa prosperità anche in


sulla cui consistenza purtroppo non si è bene informati per mancanza di mirate indagini archeologiche. Una villa regolarmente scavata è quella in località Conserva, a pochi chilometri dal centro abitato, che fornisce utili dati riguardo l’organizzazione dello sfruttamento agricolo in Etruria nella prima età imperiale. L’impianto risulta composto da una parte residenziale e da una pars rustica, riservata ai lavori interni di produzione agricola e ad altre operazioni di carattere artigianale collegate alla vita domestica e produttiva della villa, come la fusione dei metalli, la cottura di tegole e la produzione di ceramica d’uso domestico. Nella maggior parte dei

casi questi insediamenti rustici sono noti solo per alcuni rinvenimenti occasionali di frammenti fittili e opere murarie. Sono stati così identificati alcuni edifici lussuosi, con annessi impianti termali e mausolei di famiglia (località Terrone, Formello, Vignale, Casentile). Vi erano poi anche aziende agricole di media e piccola dimensione, che gestivano modeste attività legate soprattutto alla produzione di olio e vino, come testimoniato dal ritrovamento di macine e presse. Sicuramente al mausoleo di famiglia di qualche facoltoso proprietario terriero fu destinato in origine il pregevole sarcofago di marmo bianco che funge oggi da mensa di altare nella Collegiata

In queste due pagine: Nelle tre foto particolari dell’antica via Clodia

età tardo-repubblicana e imperiale, basando la sua economia sullo sfruttamento intensivo del fertile territorio vulcanico, che bene si prestava all’impianto di colture tipicamente collinari, soprattutto olivo e vite. Esiste una ricca documentazione che attesta una fitta presenza di villae rustiche sparse nella campagna,

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di Blera. Prodotto da una bottega di marmorari di età severiana (200-210 d.C.), presenta sulla fronte una decorazione ad altorilievo tripartita, raffigurante episodi tratti dal mito di Adone. Sempre per la decorazione esterna di un lussuoso contesto sepolcrale fu commissionato l’altorilievo con scene di munus gladiatorio, commemorativo delle attività ludiche offerte da un munifico mecenate del periodo giulio-claudio. Oggi, del rilievo marmoreo che si dispiegava intorno al monumento funebre si conserva solo un frammento con combattente “trace”, murato, insieme ad altro materiale lapidario antico, all’esterno dell’ex chiesa di San Nicola. Un’ulteriore focalizzazione sugli aspetti sociali, politici ed economici di questo antico municipium è possibile attraverso l’attento vaglio delle preziose fonti epigrafiche.

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Sopra: Una vista dall’alto dell’antico Ponte del Diavolo Sotto: Nel disegno una rappresentazione del Ponte della Rocca

Il volume XI del Corpus Inscriptionum Latinarum (CIL) raccoglie le iscrizioni rinvenute nella Regio VII augustea, l’Etruria, tra cui quelle rinvenute nel territorio blerano. Si tratta di poco meno di una trentina di epigrafi (CIL VI, 3333-3360 ); per la maggior parte di esse la trascrizione del Corpus è l’unica documentazione superstite. Molte testimonianze sono di carattere funerario e l’esame dell’onomastica rivela che durante l’impero molti cittadini blerani erano liberti, uomini liberati dalla condizione servile e divenuti cittadini di diritto, la cui condizione sociale è denunciata dalla formula di patronato presente nei loro nomi. Una presenza così massiccia di schiavi liberati era perfettamente compatibile con l’assetto economico della città, fondato sullo sfruttamento agricolo del territorio, che aveva bisogno di numerosa manodopera servile, impiegata anche nell’artigianato che faceva da corollario alle attività agricole delle aziende. Se le necropoli erano disseminate di iscrizioni funebri, il foro, la piazza principale della città, era il luogo di esposizione di tituli onorari, atti a ricordare, esaltare, onorare personaggi illustri, notabili, clarissimi viri, che si


erano distinti per la loro attività amministrativa o per qualche atto di evergetismo a favore della comunità. Alcuni erano divenuti cittadini onorari, patroni, nominati per deliberazione della cittadinanza. Erano personalità che avevano ottenuto importanti pubblici uffici nella stessa Roma e sotto la cui protezione e tutela si era posta la città. Sembrerebbe questo il caso documentato da un’iscrizione onoraria su marmo (CIL XI, 3337), ritrovata a Blera e oggi scomparsa, dedicata ad un illustre personaggio della gens Iulia, vissuto sotto l’imperatore Adriano (117-138 d.C.): Caius Iulis Iulianus. Per rendere omaggio a Iulianus l’iscrizione ne ricorda la folgorante carriera politica (cursus honorum). Le cariche vengono elencate, come era abitudine fare, in ordine inverso rispetto a quello di assunzione. Il primo impegno ricordato è il quattuorvirato, una carica amministrativa municipale esercitata in un centro (Blera?)

purtroppo non identificabile per via di una lacuna che tronca l’iscrizione. Possiamo invece sicuramente affermare che Iulianus non era originario di Blera, poiché nella sua formula onomastica è indicata una tribù (Palatina) che non è quella a cui apparteneva il comprensorio blerano. Dopo aver mosso i primi passi nell’ambito di un’amministra-

Sopra: Un interessante veduta d’insieme delle Tombe rupestri Sotto: Particolare di tombe scavate nel tufo

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Sopra: Interno di una Tomba Sotto: Due Tombe scavate sulla sommità del costone Nella pagina accanto, in basso: Tombe scavate lungo la via Clodia

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zione locale la sua carriera segue un percorso molto originale, presentando una commistione tra funzioni riservate alla classe dei cavalieri e a quella senatoria. La sua esperienza militare è quella tipica dell’ordine equestre: praefectus cohortis (comando di una

coorte di ausiliari), tribunus militum (tribuno di legione), praefectura alae (comando di un’ala di cavalleria). Sono le cosiddette tres militiae, incarichi militari, che dovevano necessariamente precedere la carriera politica. Ma a questo punto ecco che il promettente giovane viene adlectus, vale a dire nominato, direttamente dall’imperatore Adriano tra gli edili, una carica che gli aprirà le porte della carriera senatoria. Dopo l’edilità fu infatti inviato come questore, con mansioni quindi amministrativo-finanziarie, nella provincia Betica, in Spagna, e infine nominato pretore, il massimo grado giurisdizionale nella capitale dell’impero. Essere sotto la protezione di un personaggio di tale calibro avrà sicuramente giovato ai blerani, che lo ringraziarono forse con una statua di cui il titulus potrebbe essere stato il completamento. Un’altra interessante dedica (CIL XI, 3336), anche questa probabile basamento di una statua, è quella fatta a Druso, figlio di Germanico, e quindi nipote dell’imperatore Tiberio (14-37 d.C.),


da parte dei seviri augustali di Blera, i membri di un collegio municipale addetto al culto dell’imperatore morto e divinizzato. In genere non si trattava di persone altolocate, ma piccoli borghesi ante litteram, perlopiù liberti arricchiti. Anche questa iscrizione è ormai smarrita, ma fortunatamente venne però trascritta da un anonimo viaggiatore del XVII secolo, evidentemente appassionato o studioso di antichità, nelle cui schede epigrafiche si leggono parecchie iscrizioni dell’età imperiale, raccolte (…) nella terra di Bieda, sulla piazza. La lista dei seviri che segue la dedica a Druso, in quanto flamine e sodale augustale, ci fa conoscere i nomi di alcuni antichi cittadini blerani, tutti liberti. Possiamo immaginare con quanto orgoglio questi parvenus abbiano commissionato e poi esposto in un’area pubblica della città la statua del nipote dell’imperatore con relativa dedica. A queste iscrizioni ritrovate a Blera possiamo aggiungere altre testimonianze epigrafiche, rinvenute in contesti

diversi, che raccontano la storia di chi era uscito dal luogo natio, per andare a cercare fortuna altrove, talvolta in terre e paesi lontanissimi. Alcuni erano stati più fortunati. La vicinanza di Roma era, allora come oggi, un vantaggio considerevole per chiunque avesse voluto trovare un facile impiego in ambito amministrativo o militare, con la prospettiva di una stabile e onorevole carriera. E infatti proprio a Roma Caius Occius Similis, di Blera, aveva trovato un comodo impiego come archivista (librarius cohortis) nella V coorte dei vigili, e insieme ad altri colleghi dedica nel 113 d.C. un piccolo monumento a personaggi che rivestivano in quell’anno importanti incarichi e soprattutto al console Caio Clodio Crispino (CIL VI, 221). Ancora in CIL VI, il volume che raccoglie le iscrizioni ritrovate a Roma, si leggono i testi di due epigrafi marmoree da ascrivere alla numerosa famiglia dei latercula praetorianorum, lunghi elenchi con i nomi dei pretoriani

che prendevano ogni anno servizio. In una lastra (CIL VI, 2375 b), tra decine di altri nomi, troviamo quello di Lucius Baius Restitutus di Blera, che cominciò a militare nel 119 d.C., anno del terzo consolato dell’imperatore Adriano, come indicato nell’intestazione. Restitutus era uno speculator, quindi aveva una mansione che lo poneva al di sopra della comune milizia. Gli speculatores, in numero di 300, erano il servizio informativo dell’imperatore. Nell’altra lastra marmorea (CIL VI, 2379 b), ancora in un interminabile elenco di pretoriani, si legge il nome di Caius Tutinus Iustinus, anche lui originario di Blera. Si tratta in questo caso di un evocatus, un richiamato, tornato al servizio militare dopo il congedo, nell’anno 144 d.C., come si deduce dalla coppia di consoli in carica. Sicuramente Iustinus avrà più volte incontrato sulla sua strada un concittadino e collega, tale Petronius Venerandus, che in base ad un altro titulus ritrovato a Roma, aveva iniziato il suo ser-

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vizio nella guardia pretoriana solo tre anni prima, nel 141 d.C. Un’altra iscrizione (CIL VI, 2608), questa volta funeraria, ritrovata lungo la via Cassia, in prossimità di Roma, commemora un Publius Fabricius Sabinus Blere (“da Blera”), che militò, non si sa bene in che periodo dell’impero, per otto anni nella

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VI coorte pretoria, nella centuria di Petronio. Morì a soli 33 anni, molto prima del suo congedo. Le vite di Iustinus, Restitutus, Venerandus e Sabinus erano piuttosto agiate se confrontate con quelle dei loro colleghi legionari, che a fronte di una paga ridotta e di un servizio più lungo, erano anche costretti a stare per lunghi

periodi nelle regioni più estreme dell’impero. Eppure qualche blerano più temerario, sprezzante del pericolo e delle difficoltà che inevitabilmente la vita di legione avrebbe comportato, si avventurò anche in questo ambito militare. E almeno uno di loro si può dire che abbia fatto veramente strada, e non solo in senso


figurato! Un’iscrizione (CILVI, 3645) incisa su un sarcofago di marmo decorato a rilievo con amorini che fabbricano armi, rinvenuto all’interno di una sepoltura lungo la via Appia e oggi conservato al Louvre, ricorda un centurione della legione III Augusta. Si conserva solo il cognome Vitalis, e la sua origine, Blaera. La legione III Augusta era stanziata nella provincia d’Africa per mantenere l’ordine nella regione. La figura del centurione era di eccezionale importanza: proveniente dalla truppa e nominato dai tribuni, formava i quadri medi della gerarchia militare. I suoi compiti spaziavano dall’addestramento al mantenimento della disciplina, dal regolare la vita minuta del legionario al condurlo in battaglia. Il valore e la capacità della legione dipendeva in buona misura dalla qualità dei suoi centurioni. Sicuramente anche Vitalis si sarà fatto onore, accumulando un discreto gruzzolo, con cui si assicurò, oltre ad una serena vecchiaia trascorsa verosimilmente a Roma, una sepoltura più che dignitosa. Ma non fu il solo a portare fino ai confini dell’Impero il valore e il coraggio dei milites blerani. Nel CIL non è confluita un’iscrizione ritrovata a Nicopolis (attuale Mustafa Kamel) in Egitto, segnalata dalla rivista epigrafica Année Epigraphique (AE 1955,

238), e attualmente conservata presso il Museo di Alessandria d’Egitto. Si tratta di un lungo elenco, questa volta di legionari, che nell’anno 158 d.C. vengono congedati, honesta missio, cioè avendo compiuto irreprensibilmente tutto il periodo della ferma (25-26 anni), militando nella legione II Traiana. Con Ercole come emblema, questa legione era stata istituita da Traiano (98-117 d.C.) e aveva combattuto in tutte le numerose e vittoriose guerre intraprese dal suo fondatore. Il suo successore, Adriano (117-138 d.C.), la destinerà di guarnigione in Egitto con sede appunto a Nicopolis. Tra la schiera interminabile e intricata di nomi provenienti da ogni parte dell’Impero, all’improvviso, ecco emergere il nome di Tiberius Claudius Fidus Blere, che, dopo 26 anni di vita militare tra-

scorsa in terra straniera poteva finalmente tornarsene a casa sua: a Blera! I Ogni iscrizione antica fu redatta con la speranza di far durare nel tempo il messaggio trasmesso. Alcune sono riuscite nell’intento…

Nella pagina accanto: Interni di due Tombe Sopra: Raffigurazione di un corteo funebre Sotto: Frontale e ingresso di una Tomba

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passare sotto il braccio destro e si gettava in avanti sulla spalla sinistra. Il braccio destro quindi rimaneva libero, mentre il sinistro sotto la stoffa. La piega che si veniva a formare si chiamava sinus e serviva da tasca. Ma la moda si sa, cambia nel tempo e anche la toga subisce un’evoluzione: alla fine della Repubblica

L’ABBIGLIAMENTO NEL MONDO ROMANO

A destra e nella pagina accanto, in alto: Due personaggi che indossano due diversi tipi di toga

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Romani attribuivano un forte valore simbolico all’abito, che indicava rango, età e status di chi lo indossava. Il cittadino, quando si trovava fuori di casa, si riconosceva dalla toga, che indossava soprattutto la mattina. Come suggerisce l’etimologia, essa serviva a coprire l’uomo, a renderlo decente per affrontare la vita pubblica. Si tratta di una grande pezza di lana grezza che copre il corpo dalle spalle fino ai piedi. Inizialmente di forma rettangolare, poi tagliata a semicerchio per farla cadere meglio. Certamente saperla indossare non era semplice, tanto che spesso era necessario l’aiuto di uno schiavo. In effetti bisognava poggiarla sulle spalle, piegata in due nel senso della lunghezza, lasciando sporgere sulla mano destra un lembo lungo il doppio dell’altro; questo lembo si faceva

VESTIRE NEL MONDO ROMANO


era elegante portare una toga molto larga, fino a sei metri di diametro, di stoffa raffinata. Ciò rendeva più difficile indossarla senza l’aiuto di uno schiavo. Poiché la toga è distintiva del cittadino romano, a seconda dei colori che la ornavano, era facile capire lo stesso status di chi la portava. Qualche esempio. Il

semplice cittadino adulto aveva una toga senza decorazioni, del colore naturale della lana. Era bianca solo per i candidati alle elezioni; la toga degli aruspici, invece, era gialla color zafferano. I magistrati superiori e i bambini portavano una toga bordata di una fascia di porpora tessuta mediante un filo di porpora e chiamata praetexta. I censori indossavano una toga porpora e i trionfatori una toga porpora bordata d’oro. Data la scomodità della toga, alcuni imperatori furono costretti a emettere ordinanze per farla indossare: Claudio, ad esempio, ne impose l’uso in tribunale, Domiziano in teatro, Commodo nell’anfiteatro.

Verso il III sec. d.C., essa cominciò a perdere i morbidi drappeggi anteriori, sostituiti da pieghe rigide e piatte che attraversavano il petto (toga contabulata). Diventarono di moda, sia per gli uomini che per le donne, tuniche ampie e lunghe fino ai piedi, con grandi maniche, da portare senza cintura (tunica talaris, dalmatica) e si diffusero sempre di più le bracae, pantaloni tipici dei popoli nordeuropei. Ma cosa indossavano sotto la toga? Nel numero degli indumenta, in primo luogo abbiamo il subligaculum o licium: si tratta di un semplice perizoma, confezionato quasi sempre in lino e anno-

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Nella pagina accanto: Statua di Augusto con toga e capo velato A sinistra: Personaggio anziano con toga In basso: Particolare di toga contabulata indossata dall’Imperatore Massimino il Trace

ture, i cittadini di rango elevato usavano i calcei, che consistevano in suole senza tacco, corredate da tomaie in pelle, che ricoprivano tutto il piede; dai lati di ogni suola partivano due larghe strisce di cuoio che si incrociavano e venivano annodate sul dorso del piede. Poiché era sconveniente portare in casa le stesse calzature con cui si usciva, i calcei vennero sostituiti con le soleae, sandali fatti di una suola di cuoio o sughero e semplici strisce di pelle. dato intorno alla vita. A partire dal II sec. d.C., comincia l’uso di infilare sopra il licium la tunica. Quest’ultima era un pezzo di stoffa piegato in due, cucito ai lati, con un buco per la testa e due aperture per le braccia. E’ sulla tunica che si porta la cinta. Questo permette di alzare la tunica fino a metà coscia, per rendere liberi i movimenti delle gambe. I senatori sono gli unici a portare una tunica che è anche un abito ufficiale, vale a dire il laticlavio, una tunica decorata da due strisce porpora verticali. Per quanto riguarda le calza-

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GLI ABITI FEMMINILI Le matrone romane, riguardo la biancheria intima, indossavano la fascia subligaris o mammillare, l’antenato del nostro reggiseno, e il subligar, uno slip molto scosciato. Con questa sola tenuta, le matrone potevano fare il bagno nelle piscine e dedicarsi agli esercizi ginnici. Sopra la biancheria indossavano una tunica lunga fino ai piedi, segno della loro condizione elevata, chiamata stola, in fondo alla quale era cucito un gallone (instita) ricamato in oro. Mettevano poi una cintura (zona) in vita, accompagnata spesso da un’altra cintura sotto il seno, e il mantello, che poteva essere la palla o il pallium, grande mantello quadrato dalle pieghe regolari

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Nella pagina accanto, in alto: Ragazze che indossano la fascia subligaris e il subligar Nella pagina accanto, in basso: Da un affresco di Pompei, donne che indossno vari tipi di stole A sinistra: Da un affresco di Pompei, una ragazza con reticella che racchiudeva i capelli In basso: Donna che indossa una stola di vari colori

e le tinte splendenti. La sostanziale differenza tra gli abiti maschili e quelli femminili era la ricchezza delle stoffe e la varietà dei loro colori. Ad esempio al lino e ai tessuti di lana si preferivano le cotonine che venivano dall’India; molte apprezzate erano anche le sete che venivano dall’Oriente. Queste stoffe non erano solo più morbide, leggere e cangianti, ma anche quelle che meglio si prestavano alle manipolazioni degli offectores, tintori capaci di rinforzare i colori originali; degli infectores, capaci di alterarli, e di quei tintori (purpurarii, flammari, crocotarii e violarii) (opus perfectum), le cui specialità erano pari al numero dei coloranti animali, vegetali e minerali di cui conoscevano l’uso: il bianco del gesso, il giallo dello zafferano, il nero della noce di galla, i rossi chiari e scuri della porpora. A completare l’abbigliamento della matrona c’erano gli accessori, che aggiungevano fascino alla sua figura. La donna romana, in mancanza di un diadema o mitra, passava tra i capelli, non più chiusi da una reticella (reti-

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Nella pagina accanto: Da un affresco di pompei, donna che indossa stola e tutulus In questa pagina: Vari tipi di gioielli indossati dalle donne romane

culum), un semplice nastro di colore rosso porpora (vitta) o un tutulus, la cui benda si allargava nel mezzo per rialzarsi sulla fronte a forma di cono. A completare la vestizione della matrona c’erano le ornatrices, le ancelle addette alle acconciature. La capigliatura femminile si è distinta nelle diverse epoche, costituendo il vero elemento di moda femminile. Le ornatrices acconciavano le signore con trecce posticce (crines, galeri) o parrucche complete, anche se il loro compito non si esauriva qui. Dovevano infatti anche truccare la matrona: un po’ di gesso bianco sulla fronte e sulle braccia, in rosso con feccia di vino sulle labbra, in nero con fuliggine (fuligo) o polvere di antimonio sulle ciglia e intorno agli occhi. Una volta imbellettata, sempre con l’aiuto delle ornatrices, la donna indossava i suoi gioielli: gli orecchini, la collana (monile) e le catenelle (catellae) intorno al collo; i ciondoli (pectoral) sul petto, i bracciali ai polsi, gli anelli alle dita, senza contare quelli che portava al braccio e alle caviglie, i periscediles. Per quanto riguarda le calzature, le donne mettevano sandali decorati da perle e pietre preziose e, a volte, anche calzari simili a scarpe basse senza tacco. I BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE: J. CARCOPINO, La vita quotidiana a Roma, Bari 1997; F. DUPONT, La vita quotidiana nella Roma repubblicana, Bari 2000.

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MOSTRA NELLA CURIA IULIA DEL FORO

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e l l a straordinaria cornice della Curia Iulia, il 21 aprile scorso è stata aperta al pubblico una rassegna espositiva dedicata all’aristocratica famiglia romana degli Aemilii e alla loro più importante opera architettonica voluta nell’area forense, la basilica che porta ancora il suo nome. Promossa dalla Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma e curata da Maria Antonietta Tomei e Patrizia Fortini, la mostra è solo la prima di una serie di iniziative volte a valorizzare il prezioso patrimonio dell’area archeologica centrale di Roma, comprendenti non solo la realizzazione di alcuni percorsi didattici corredati da una nuova illuminazione e da supporti informatici, ma anche la riapertura di aree, da troppo tempo chiuse al pubblico, come il tem-

MEMORIE DI ROMA

Al centro, in alto: La grande sala della Curia che ospita la Mostra A destra: Il sottosegretario ai Beni Culturali On. Francesco Giro a colloquio con il Prof. Andrea Carandini durante la serata di inaugurazione della mostra Nella pagina accanto, in basso: Il rilievo relativo al “Ratto delle Sabine” apre la serie dei pannelli connessi alla leggendaria nascita di Roma

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pio di Venere e Roma, la Casa delle Vestali e parte dei sotterranei del Colosseo. Prossimamente, quindi, sarà possibile ammirare l’area del Foro in una nuova veste serale, dove una luce diffusa si accom-


pagnerà a punti luminosi più accentuati per sottolineare singoli monumenti, mentre, in via sperimentale, la zona della basilica Emilia riceverà luci in modo tale che, anche passando per via dei Fori Imperiali, potranno

essere percepiti i punti nevralgici delle colonne che scandiscono le navate dell’edificio. All’interno della Curia il filo conduttore che unisce i diversi reperti esposti è quello della Memoria; quella storica di Roma

nel rievocare le sue origini in un edificio pubblico che nel tempo divenne anche il veicolo per tramandare il ricordo della nascita e dei fasti della famiglia che aveva commissionato la sua realizzazione. Quando infatti fra il 1900 e 1905 vennero alla luce i resti della basilica Emilia, tra i frammenti marmorei rinvenuti, furono ricomposti alcuni pannelli a rilievo con scene figurate rappresentanti i principali episodi connessi con la leggendaria nascita di Roma. Si comincia dal primo pannello sul lato sinistro della Curia dove viene rappresentato il Ratto delle Sabine, in cui giovani romani sollevano le fanciulle per portarle via, mentre a sinistra altre figure femminili sono intente a governare degli animali, con ogni probabilità in ricordo della nascita, in età romulea, del culto del dio Conso, la cui festa, unita a giochi circensi, fu l’occasione per attuare il rapimento delle giovani Sabine. Il successivo pannello mostra la punizione di Tarpea, la vestale preposta a custodia dell’Arce Capitolina, che avrebbe con un tradimento permesso ai Sabini di impossessarsi del Campidoglio. Ma invece di rice-

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vere la richiesta ricompensa, venne uccisa dai Sabini stessi che la seppellirono sotto i loro scudi. Qui, Tarpea è ben rappresentata al centro della composizione mentre i soldati romani stanno lapidandola; alla scena assiste, sul margine sinistro, un personaggio barbato in cui si è

voluto riconoscere il re sabino Tito Tazio. Il pannello si completa sulla destra con un gruppo di figure femminili che stanno compiendo un rituale (scena di matrimonio o festa dei parentalia). Sull’altro lato lungo della Curia sono esposti invece tre

Sopra: Il rilievo che mostra la punizione della vestale Tarpea Sotto: Particolare della scena con la punizione di Tarpea


Sopra: Il rilievo denominato “Il congedo dal Pastore” Sotto: Particolare del pannello raffigurante il Pastore

pannelli pertinenti alle mitiche vicende legate all’origine dell’Urbe: il primo, in cui si riconosce a destra la figura di un pastore, per il peculiare bastone ricurvo, è stato ricondotto, anche se dubitativamente, al momento in cui Romolo e Remo si allontanano da Faustolo, che - insieme

alla moglie Acca Larentia - aveva cresciuto ed educato i gemelli come propri figli. Non sono mancate altre interpretazioni di questa scena, tra cui va ricordata quella che preferisce vedere nella figura del pastore, quella del secondo re di Roma, Numa Pompilio. Segue il rilievo dove è


riconoscibile una scena di battaglia, in cui due guerrieri - stando alla rappresentazione di un albero in secondo piano - si affrontano su di un probabile fondo agreste. Conclude la serie dei pannelli su questo lato, un rilievo con scena di fondazione: alla presenza di una figura femminile che costituisce la personificazione di una città, alcuni uomini si alternano in lavori per innalzare le mura di una nuova colonia, identificata ora con Lavinio, ora con Cameria o, infine, con una delle colonie dedotte dal censore Emilio Lepido in età repubblicana. Per molto tempo si è ritenuto che questi rilievi appartenessero ad un unico fregio figurato che decorava l’architrave del primo ordine interno della basilica Emilia. I recenti studi di Freyberger tendono a considerarli invece come pannelli separati e illustranti ognuno un diverso episodio dell’originaria storia di Roma. A questi studi si associa anche la nuova ipotesi

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sul loro collocamento: non apparterrebbero cioè al fregio dell’architrave del primo ordine interno, bensì sarebbero stati inseriti lungo le pareti interne dell’edificio, anche per una migliore fruizione da parte dei numerosi frequentatori della basilica. Resta infine il problema concernente la datazione di questa pregevolissima e unica opera, che è strettamente connessa con le diverse fasi edilizie della basilica Emilia. L’edificio, fondato nel 179 a.C., venne più volte restaurato tra il 79 a.C. e il 22 d.C., proprio dai maggiori esponenti della nobile famiglia Emilia, come indicano sia le fonti sia i dati archeologici. Nel 79 a.C. fu il console Marco Emilio Lepido a intraprendere i primi abbellimenti, ricordati anche da alcuni coni monetali. Nel 55 a.C. fu la volta di Lucio Emilio Lepido (figlio del console del 79 a.C. e fratello del futuro triumviro) che rifece gran parte della struttura architettonica anche grazie ai finan-

ziamenti di Cesare. A questa fase appartengono i frammenti di colonne di marmo africano e cipollino ancora oggi conservati sulle basi che definiscono le diverse navate della basilica. Un devastante incendio distrusse l’edificio pubblico nel 14 a.C. e Augusto provvide ad una pronta ricostruzione (conclusasi nel 22 d.C., sotto il principato di Tiberio) secondo l’equilibrato stile architettonico di quell’epoca, cui va ricondotto il meravi-

Nella pagina accanto, in alto: Particolare del rilievo raffigurante una scena di battaglia Nella pagina accanto, in basso: Particolare del rilievo raffigurante due uomini che innalzano le mura di una città In alto: Il pannello relativo alla fondazione di una città Sotto: La Basilica Aemilia dopo la recente riapertura al pubblico


Sopra: Particolare delle monete fuse con il pavimento a causa dell’incendio che distrusse la Basilica Sotto: Un particolare dell’allestimento della Mostra

Nella pagina accanto: Statua togata in marmo di M. Nonio Balbo (testa posteriore non pertinente) dalla Basilica Noniana di Ercolano

glioso pavimento marmoreo ancora in situ. La fine dell’edificio fu sancita da uno degli eventi più dolorosi della storia di Roma: il sacco di Alarico del 410 d.C. Il segno indelebile di questa distruzione è visibile ancora oggi in quelle monete degli inizi del V sec. d.C. che si sono fuse con il pavimento a causa dell’elevata temperatura che l’incendio fece raggiungere. Esse dovevano appartenere con ogni probabilità ai numerosi cambiamonete che operavano proprio nella basilica Emilia con le loro sedi e in funzione delle molte attività commerciali che si svolgevano nell’area forense. Per tornare alla datazione dei rilievi esposti, è stato suggerito di recente che per lo stile e il programma decorativo si possa pensare ad una datazione coeva alla ricostruzione della basilica voluta da Augusto nel 14 a.C. Gli Aemilii, nel racconto della memoria civica di Roma, quindi,


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In alto, a sinistra: Statua femminile in marmo proveniente dalla Basilica Aemilia In alto, a destra: Ritratto in marmo proveniente dalla Basilica Aemilia raffigurante un uomo in toga velato capite A sinistra: Un bellissimo ritratto di M. Emilio Lepido

attuano anche un piano propagandistico, perseguendo cosĂŹ un disegno politico che vede trasformare la basilica anche in un monumento familiare attraverso il quale celebrare i propri eminenti esponenti. Negli Annali Tacito (III, 72) ci informa in modo chiaro su questo uso, che sicuramente costituiva una consuetudine assai seguita da tutte le piĂš importanti famiglie roma-


A sinistra: Statua togata e barbata in marmo del re Numa Pompilio, dalla casa delle Vestali. II secolo d.C In basso, a snistra: Ritratto in marmo di Augusto proveniente dalla Basilica di Lucus Feroniae. Inizi I secolo d.C. Sotto: Statua togata in marmo velato capite proveniente dalla Basilica di Lucus Feroniae

ne dell’età repubblicana: «In quei giorni Lepido chiese al Senato di restaurare e adornare a proprie spese la basilica di Paolo, il maggior monumento della famiglia Emilia. Era ancora in uso a quei tempi la pratica della munificenza pubblica da parte dei cittadini privati … Seguendo tale esempio Lepido fece rivivere lo splendore degli avi, sebbene la sua fortuna fosse modesta». La mostra pertanto presenta anche alcune sculture provenien-

ti sia dall’area della basilica Emilia, sia da altre basiliche, come la Noniana di Ercolano, quella di Luni, di Lucus Feroniae e di Velleia, a testimonianza di come questo processo celebrativo sia stato attuato in tutte le aree conquistate da Roma. Partendo dalla prestigiosa statua di Numa Pompilio (rinvenuta nella Casa delle Vestali del Foro), da cui la gens Aemilia vantava discendenza, viene esposto il bel ritratto riferito a M. Emilio Lepido che insieme con Ottaviano e Marco Antonio formarono il secondo triumvirato. Si distinguono poi per raffinatezza di esecuzione, tra le opere esposte, lo straordinario ritratto di Augusto da Lucus Feroniae e, infine, quello di un personaggio togato e raffigurato capite velato. I

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