Roma, una città, un impero - n. 0

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studioEdesign Passione e creatività studioEdesign nasce da una passione condivisa per la creatività, nata durante gli studi e maturata attraverso numerose esperienze professionali in agenzie di pubblicità. A partire da queste esperienze abbiamo aperto studioEdesign, con l’obiettivo di curare ciascun progetto creativo con passione, rispettando elevati standard di qualità. Oggi studioEdesign segue ogni singolo lavoro dalla fase di progettazione fino alla realizzazione finale: graphic design, packaging design, corporate identity, webdesign, eco design.

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Editoriale

A

nche se numerose sono le riviste di archeologia sia in Italia che all’estero, la nostra scommessa, nonché nostra soddisfazione, è quella di proporre la prima, ed unica al mondo, rivista mensile di archeologia online. Siamo infatti coscienti e convinti che ormai l’informazione viaggi in rete e che sia un dovere, oltre che motivo di orgoglio, far conoscere al mondo intero quel 50-60% del patrimonio culturale mondiale che il nostro Paese possiede. Certo non è semplice fare una rivista mensile specialistica di questo tipo, visto che a volte, purtroppo, ci si imbatte nell’immancabile burocrazia pubblica per ottenere permessi, accessi ed informazioni su monumenti e aree archeologiche, rendendo così il tempo “tiranno” per chi deve pianificare l’uscita di un mensile. Però l’esperienza di chi ha già “navigato in questo mare” per molti anni, e soprattutto la passione e la competenza di noi specialisti della materia, ci ha portato a compiere questo passo importante, incoraggiati tra l’altro anche dai pareri entusiastici di chi, come noi, dell’archeologia ne ha fatto la professione e la missione della propria vita. Ci riferiamo naturalmente all’ampio consenso ottenuto dai professori universitari e dai funzionari e dirigenti delle varie soprintendenze che parteciperanno e sosterranno il nostro impegno. Caratteristica essenziale del nostro lavoro sarà dunque l’eccellenza dei contenuti e delle immagini, grazie anche al vastissimo archivio fotografico che possediamo, unita alla ferma consapevolezza che la qualità paghi sempre. L’impaginazione della rivista sarà curata da uno studio grafico che ha studiato un progetto adatto all’esposizione di contenuti specialistici quali sono quelli dell’archeologia. Chiaramente la rivista potrà essere consultata attraverso il sito www.romarcheomagazine.com che oltre al mensile offre varie opportunità di approfondimento: archivio fotografico storico e contemporaneo di carattere archeologico, schede specialistiche di monumenti e di argomenti vari sulla materia. Sarà inoltre disponibile un forum dove si potranno scambiare idee ed avere delucidazioni sui diversi aspetti e settori dell’archeologia, oltre a tante altre opportunità di confronto. Non ci resta che augurarvi una buona lettura e invitarvi a seguirci sul prossimo numero. Lo Staff di “ROMA UNA CITTÁ, UN IMPERO”


In copertina: Palmira

DIRETTORE RESPONSABILE MARIA TERESA GARAU DIRETTORE ESECUTIVO ROBERTO LUCIGNANI

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COMITATO SCIENTIFICO IN FASE DI COMPLETAMENTO CAPO REDATTORE ALESSANDRA CLEMENTI REDAZIONE ALBERTO DANTI GIOVANNA DI GIACOMO LUANA RAGOZZINO GABRIELE ROMANO DOCUMENTAZIONE FOTOGRAFICA ROBERTO LUCIGNANI GRAFICA E IMPAGINAZIONE STUDIOEDESIGN - ROMA WEB MASTER – PUBBLICITA’ MARIA TERESA GARAU

REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE Via Orazio Antinori, 4 - ROMA

È vietata la riproduzione in alcun modo senza il consenso scritto dell’Associazione Rumon Tiber

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SOMMARIO

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LA SCOPERTA

E

ra in quella staIL SEPOLCRO gione in cui DEGLI SCIPIONI i nembi ristorano la terra dall’estivo ardore … Suonò per la città una voce mirabile che si fossero allora scoperte le tombe de’Scipioni, lungo tempo invano ricercate. Quindi io, tralasciando la contemplazione di ogni altro oggetto, a quelle subitamente la rivolsi… Un villereccio abituro sorge su le tombe de’Scipioni, alle quali conduce uno speco sotterraneo simile a covile di fiere. Per quella scoscesa alquanto ed angusta via giunsi agli avelli della stirpe valorosa. Alcuni erano poc’anzi sgombrati dalle ruine ed altri vi rimanevano

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ancora… Vidi confuse con le zolle e con le pietre biancheggiare le ossa illustri al lume della face la quale io stringea per guida ai passi miei. Io la volsi lentamente d’ogni intorno, contemplando quanto fossero offese dalla marra quelle spoglie meritevoli d’alabastro ed ora divenute ludibrio della plebe e dei curiosi». Queste sono le parole


Nella pagina accanto, al centro: Particolare di un'incisione del XVIII secolo raffigurante alcune lastre sepolcrali rinvenute durante gli scavi nell'area del Sepolcro degli Scipioni Nella pagina accanto, in basso: Disegno del XIX secolo raffigurante l'ingresso al Sepolcro degli Scipioni in quel periodo Sotto: Incisione del XVIII secolo di Carlo Labruzzi raffigurante il sarcofago di Lucio Cornelio Scipione Barbato

con cui Alessandro Verri, testimone oculare dell’evento che tanto interesse suscitò sui contemporanei, nella sua opera Notti romane al Sepolcro degli Scipioni, pubblicata nel 1792, annunciò il rinvenimento dell’antico sepolcro deplorandone la devastazione da parte degli scopritori: nel 1614 erano infatti già state

asportate le lastre incise dei sarcofagi di L. Cornelio Scipione e di L. Scipione, figlio di Barbato Tale ritrovamento non aveva avuto però nessun seguito e fu dimenticato sino a maggio del 1780, quando i fratelli Sassi, proprietari della vigna sulla via Appia Antica, nelle cui profondità era celato il sepol-

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del sepolcro: «i sarcofagi furono spezzati, le iscrizioni delle loro fronti portate in Vaticano, l’aspetto delle cripte alterato, dispersi tutti gli oggetti mobili e i facsimili degli epitaffi originali collocati in punti sbagliati… Perfino le ossa di quell’illustre famiglia che erano passate senza ingiuria al tempo dei cosiddetti barbari sarebbero state disperse ai quattro venti se non fosse stato per il pietoso intervento di Angelo Quirini, senatore di Venezia, che le fece racchiudere in un’urna e depositare nella sua villa presso Padova». Tra il 1831 e il 1847 Pietro Campana aveva intanto intrapreso ulteriori scavi nella zona, riportando alla luce i tre colombari nella vicina vigna Codini e quello di Pomponio cro, ampliando i sotterranei della loro cantina s’imbatterono «in due grandi tavole di Marmo Albano..., scritte a caratteri incisi e rubricati, contenenti l’epitaffio di un Publio Cornelio Scipione… Si avvidero ancora che contiguo alla grotta si apriva un ipogeo a guisa di catacomba scavato però nel tufo, non già nella rena o pozzolana…». Le esplorazioni, interrotte dopo i primi ritrovamenti dagli stessi proprietari preoccupati di danneggiare la vigna prima della vendemmia, vennero riprese nel novembre dello stesso anno sotto la guida dell’abate Gianbattista Visconti, Commissario alle Antichità di Roma, che ottenne il benestare dal papa Pio VI, appassionato cultore di arte antica e promotore di importanti scavi a Roma e nello Stato Pontificio . La struttura originale del sepolcro, già alterata in parte 8

da antiche murature di III e IV sec. d.C., fu completamente trasfigurata e deformata dagli scopritori che costruirono una serie di muri di mattoni a sostegno delle volte pericolanti e in parte franate. Lo scavo fu condotto non con l’intento di rimettere in luce il monumento, ma di rinvenire e asportare tutte le opere d’arte. Le iscrizioni incise sui sarcofagi furono quindi tagliate e portate nel Museo PioClementino in Vaticano insieme al grande sarcofago di Scipione Barbato, che fu estratto da un pozzo profondo dodici metri scavato sulla sommità della collina che celava l’ipogeo. Così Rodolfo Lanciani, al quale si deve l’iniziativa che porterà il Governatorato ad acquistare nel 1887 il terreno su cui sorgeva la tomba, ricorda il modo dissennato e barbaro con cui fu condotto lo scavo e i criteri assai poco scientifici adottati per la sistemazione

In alto: Busto di personaggio con corona di alloro (forse Scipione Asiatico) Sotto: Il sarcofago di Scipione Barbato (Musei Vaticani)


Sopra: Disegno acquarellato del XIX secolo raffigurante la scoperta del colombario di Pomponio Hilas In basso, a destra: Nella foto d’epoca, particolare dell’interno del II colombario di vigna Codini

Hylas nei pressi di Porta Latina. Dopo l’acquisto di quest’ultimo e del sepolcro degli Scipioni, il Governatorato acquistò nel 1929 l’appezzamento di terreno, compreso tra via di Porta San Sebastiano 12 e via di Porta Latina 10, di cui era proprietaria dal 1905 la Società Italiana per le Imprese Fondiarie, allo scopo di attuare un diretto

collegamento tra i due monumenti e «creare attorno ad essi, giusto quanto è previsto dal nuovo Piano Regolatore, un graziosissimo parco che potrebbe anch’esso essere aperto al pubblico». L’incarico di redigere il progetto venne affidato a Raffaele de Vico ed i lavori per la sistemazione del parco si protrassero fino al 1931.


I RESTAURI DEL G Il Governatorato aveva intanto dato inizio ad importanti lavori di restauro per liberare e consolidare il grande sepolcro gentilizio, affidandone il progetto e la direzione tecnica dei lavori ad Italo Gismondi, architetto della Soprintendenza alle Antichità di Roma, che aveva già compiuto con il prof. Nicorescu lo studio topografico del Sepolcro. Le strutture murarie settecentesche, che avevano completamente alterato e nascosto l’assetto originario del monumento, vennero sostituite con armature di ferro che consentirono di rimettere in luce ampie zone del banco tufaceo e i resti di antichi sarcofagi, permettendo così una più facile lettura della configurazione originaria del Sepolcro. I calchi delle iscrizioni vennero inoltre collocati per quanto possibile in connessione con i sarcofagi, dai quali erano state asportate le lastre originarie. Nel corso dei lavori che portarono al completo recupero dell’ipogeo, furono

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GOVERNATORATO scoperti sepolcri di varie epoche, un grande colombario a pianta rettangolare ornato da tralci di fiori, maschere e piccole erme e una piccola catacomba con due o tre file di loculi sovrapposti. Tutto il complesso, unitamente alla casa romana a più piani costruita nel III sec. d.C al di sopra della tomba degli Scipioni, costituisce un’area archeologica fra le più suggestive e interessanti di Roma, cui si accede da via di Porta San Sebastiano accolti dai versi del Petrarca « … i sassi dove fur chiuse le membra / di ta’ che non saranno senza fama / se l’universo pria non si dissolve…». Il sepolcro degli Scipioni si affaccia su di un diverticolo tra la via Latina e la via Appia, in prossimità di quest’ultima, a poche centinaia di metri dalla Porta San Sebastiano: la sua posizione corrisponde esattamente a quella riportata dalle fonti antiche che lo localizzano fuori Porta Capena entro il primo miglio della città.

Nella pagina accanto in alto: Foto d'epoca dell'area del Sepolcro degli Scipioni prima degli scavi del 1929 Nella pagina accanto, al centro: Foto d'epoca degli scavi sul fronte di Via di Porta San Sebastiano (sullo sfondo) Nella pagina accanto, in basso: Nella foto d'epoca un momento importante degli scavi Sotto: Nella foto d'epoca un particolare del fronte relativo all'ingresso del sepolcro, in primo piano le basi delle colonne

Sopra: Colombario rinvenuto nei pressi del sepolcro degli scipioni Sotto: Una delle gallerie del sepolcro durante gli scavi del Governatorato



La decisione di costruire il sepolcro in prossimità della via Appia da parte degli Scipioni non fu certamente casuale, ma riflette una precisa scelta politica. La via Appia, infatti, fu costruita nel 312 a.C. presumibilmente per seguire e favorire l’espansione del dominio di Roma verso l’Italia meridionale. Il suo costruttore, Appio Claudio Cieco, era un grande sostenitore della politica imperialistica romana, oltre ad essere stato il primo importante protagonista della vita pubblica romana a manifestare una netta inclinazione verso la cultura greca. Non è quindi un caso che la famiglia degli Scipioni, una delle più aperte alla cultura ellenizzante, abbia voluto costruire il suo monumento funerario vicino alla nuova strada consolare, simbolo di quell’idea politica di espansione fatta propria da una fazione della nobiltà allora al potere. Al capostipite della famiglia, Lucio Cornelio Scipione Barbato, console del 298 a.C., si deve la costruzione dell’ipogeo nei primi decenni del III secolo a.C. Il suo sarcofago in peperino, elegantemente decorato,

era collocato sul fondo del corridoio centrale, in asse con la porta d’ingresso. La tomba di pianta pressoché quadrata è scavata in un banco naturale di cappellaccio e si articola in quattro gallerie perimetrali e due che si s’incrociano al centro ad angolo retto. Le deposizioni, prima in sarcofagi monolitici addossati o leggermente incassati nelle pareti, in seguito in sarcofagi a lastre inseriti in nicchie più profon-

Nella pagina accanto: Particolare della galleria centrale, nello sfondo il sarcofago di Scipione Barbato Sopra: Pianta generale del sepolcro Sotto: Disegno raffigurante il lato dell'ingresso al sepolcro

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de, erano circa 32 ed appartenevano ai membri della famiglia vissuti tra l’inizio del III sec. a.C. e la metà circa del II secolo a.C. Intorno al 150 a.C., il sepolcro - ormai completamente occupato - venne ampliato con una nuova galleria aperta sul lato verso la via Appia. A Scipione Emiliano, che proprio in quegli anni dominò la vita politica e culturale di Roma, viene attribuita

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la costruzione della nuova galleria e la ricostruzione della facciata della tomba. Dai pochi avanzi superstiti è possibile ricostruire un prospetto formato da un alto podio a blocchi di tufo di Grotta Oscura con cornice modanata in peperino e tre ingressi, sopra al quale s’innalzava una parete in peperino decorata da semicolonne su basi attiche con fusto scanalato e capitelli ionici o corinzi, che

probabilmente inquadravano tre nicchie monumentali, nelle quali erano forse collocate le tre statue ricordate da Livio e identificate dagli antichi come quelle di Scipione Africano, Scipione Asiatico ed Ennio, il poeta che negli ultimi canti dei suoi Annali aveva esaltato le imprese dei più grandi personaggi romani e, in particolare, quelle degli Scipioni. Il basamento, alto più di due metri,


Nella pagina accanto, in alto: Disegno ricostruttivo, ipotetico, dell'ingresso al sepolcro (da Joppolo) Nella pagina accanto, in basso: Particolare degli ingressi al sepolcro A destra: Particolare di alcune basi delle colonne Sotto: Particolare di uno degli ingressi

era interamente affrescato con figurazioni rappresentanti scene di trionfo o di sottomissione di popolazioni vinte. Cinque strati di intonaco, che andavano a coprire di volta in volta le pitture piÚ antiche, sono stati individuati nel corso di un restauro effettuato dal Comune di Roma. Al trionfo di L. Cornelio Scipione Barbato si sovrapposero le rappresentazioni delle imprese gloriose dei suoi discendenti che venivano affrescate in occasione dei funerali per onorarne la memoria e ricordarne le gesta, cancellando via via le pitture piÚ antiche: le imprese della gens Cornelia si stratificarono cosÏ sulla facciata del sepolcro trasformandolo in un monumento di propaganda per la gloria della famiglia. All’interno del sepolcro, la gloria e il valore degli Scipioni si perpetuavano attraverso gli elogi funebri, incisi sui sarcofagi, che insieme alle

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Sopra: Vista dal basso degli ingressi al sepolcro Sotto: Copia del sarcofago di Scipione Barbato ricollocato in situ Nella pagina accanto: Iscrizione sepolcrale del figlio di Barbato, console nel 259 d.C. (Musei Vaticani)

pitture costituiscono un documento fra i più importanti per capire come l’arte, figurativa o poetica che sia, in questo periodo storico è fondamentalmente legata ad una funzione politica, all’esaltazione cioè di uno degli aspetti che più contano per il cittadino romano: la carriera degli honores, ossia delle

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A pag. 18, in alto: Galleria del sepolcro con copia di iscrizioni sepolcrali ricollocate in situ A pag. 18, in basso: Probabile iscrizione sepolcrale di Publio Cornelio Scipione, uno dei figli di Scipione l'Africano (Musei Vaticani)

cariche civili e militari. Una pagina importante della storia romana si rivive quindi visitando il sepolcro attraverso la lettura, per così dire dal vivo, delle gesta elencate negli elogi di questa gens patrizia fra le più importanti della Roma repubblicana. Si tratta di iscrizioni dipinte e

A pag.19, al centro: Lastra sepolcrale di Lucio Cornelio Scipione (Musei Vaticani) A pag.19, in basso: Lastra sepolcrale del figlio di Lucio Cornelio Scipione (Musei Vaticani)

incise, le prime sui coperchi, dove viene riportato soltanto il nome e in alcuni casi le cariche rivestite, le altre sulle casse del sarcofago, in cui vengono presentate le gesta eroiche compiute dal defunto. Le iscrizioni superstiti hanno restituito i nomi e le imprese di nove membri della famiglia.


Cornelius Lucius Scipio Barbatus - gnaivod patre / prognatus, fortis, vir sapiensque - quoius forma virtutei parisuma / fuit, - consol, censor, aidilis quei fuit apud vos - Taurasia, Cisauna / Samnio cepit, - subigit omne Loucanam opsidesque abdoucit.

(“Lucio Cornelio Scipione Barbato, figlio di Gneo, uomo forte e sapiente, il cui aspetto fu in tutto pari al valore, fu console, censore, edile presso di voi. Prese Taurasia e Cisauna nel Sannio. Assoggettò tutta la Lucania e ne portò via ostaggi”).

Questa iscrizione fu incisa dopo la scalpellatura di un’altra iscrizione, più breve, sul sarcofago del capostipite della famiglia degli Scipioni, il cui nome e patronimico sono dipinti sul coperchio. La prima parte dell’iscrizione presenta il nome, la generica forma laudativa e le cariche rivestite; negli ultimi due versi vi è l’elencazione delle imprese militari effettuate, evidentemente durante il consolato del 298 a.C., anno di inizio della terza guerra sannitica. In quell’anno Roma conduceva due guerre su fronti geograficamente opposti, in Etruria e nel Sannio: secondo autori antichi, però, Scipione Barbato avrebbe avuto il comando dei contingenti impegnati contro gli Etruschi, mentre la campagna contro i Sanniti sarebbe stata condotta dal collega Cn. Fulvio Centumalo. L’ultima impresa menzionata, la sottomissione della Lucania, da dove Scipione avrebbe tratto gli ostaggi, non corrisponderebbe al vero: tale regione infatti non poteva essere stata conquistata nel 298 a.C. perché in quell’anno, a causa della pressione che i Sanniti esercitavano sulle sue frontiere settentrionali, chiese ed ottenne un patto di alleanza con Roma, inviando spontaneamente ostaggi. Queste contraddizioni hanno portato a svalutare il valore dell’iscrizio-

ne quale fonte storicamente attendibile. Dal momento però che l’iscrizione è successiva alla sepoltura, potrebbe trattarsi del desiderio dei discendenti di Scipione Barbato di accrescere le gesta del capostipite della famiglia. Se si accetta invece l’identificazione, come è stato proposto, della Lucania con un’omonima zona del Sannio, si restituirebbe valore storico

all’elogio inciso sulla tomba. Nella stessa galleria centrale, dove in asse con l’ingresso è deposto il capostipite della famiglia, si trova sulla sinistra il sarcofago del figlio di Barbato, console nel 259 a.C. Sul coperchio è dipinta l’iscrizione che restituisce il nome, il patronimico e le cariche principali, mentre sulla cassa vengono ricordate le imprese:

Honc oino ploirume consentiont R[omane] / duonoro optumo fuise viro / Luciom Scipione, filios Barbati, consol, censor, aidilis hic fuet a[pud vos]. Hec cepit Corsica Aleriaque urbe, / dedet Tempestatebus aide mereto[d].

(“Su lui solo è concorde la maggioranza dei Romani, che sia stato il migliore degli ottimati: Lucio Scipione, figlio di Barbato, costui fu console, censore, edile presso di voi. Conquistò la Corsica e la città di Aleria, e dedicò per grazia ricevuta un tempio alle Tempeste”). 17


Sappiamo molto poco di questo personaggio che - scampato miracolosamente con la sua flotta ad una violenta tempesta - dopo la sottomissione della Corsica, dedicò un tempio alle Tempeste nei pressi del sepolcro. Fu padre di Gneo Cornelio Scipione Calvo, console nel 222 a.C., da cui ebbero origine i rami degli Scipioni Ispallo e degli Scipioni Nasica, e di Publio Cornelio Scipione, console nel 218 a.C., uccisi ambedue in Spagna nel 211 a.C. nel corso della seconda guerra punica. Da quest’ultimo nacquero Scipione l’Africano, il vincitore di Annibale, e Scipione Asiatico. Publio Cornelio Scipione, uno dei due figli dell’Africano, fu probabilmente sepolto nella tomba di famiglia e dovrebbe essere il personaggio ricordato nell’iscrizione:

Quei apice insigne Dial[is f]laminis gesistei, / mors perfec[it] tua ut essent omnia / brevia, honos, fama, virtusque / gloria atque ingenium. Quibus sei / in longa licuist tibi utier vita, / facile facteis superases gloriam / maiorum. Qua re lumen te in gremiu, / Scipio, recipit terra, Publi, / prognatum Publio, Corneli.

(“Tu che hai portato l’apex, insegna del flamine Diale. La morte fece sì che le tue cose fossero tutte brevi: l’onore, la fama, il valore, la gloria e l’ingegno. Se avessi potuto goderne per una vita, facilmente con le tue imprese avresti superato la gloria dei tuoi antenati. Perciò la terra riceve volentieri nel suo grembo te, Publio Scipione Cornelio, figlio di Publio”). 18

Secondo Cicerone, il figlio dell’Africano era di salute inferma e morì giovane, il che verrebbe confermato dall’epitaffio. Durante la sua vita compose brevi orazioni e storie in greco, fu augure nel 180 a.C. Il merito maggiore per il quale viene ricordato è che adottò il figlio di Emilio Paolo, il grande Scipione Emiliano, distruttore di Numanzia e di Cartagine. Il figlio di Scipione Asiatico, vincitore nel 190 a.C. di Antioco, re di Siria, a Magnesia, è sepolto a sinistra dell’ingresso; l’iscrizione così lo ricorda: Lucio Cornelio Scipione, morì giovane, dopo aver rivestito nel 167 la carica di questore. Suo figlio, di cui non si conosce il prenome fu sepolto in una nicchia ricavata a sinistra del sarcofago di Barbato:


L(ucius) Corneli(us) L(uci) f(ilius) P(ubli) [n(epos)] / Scipio, quaist(or), / tr(ibunus) mil(itum), annos / gnatus XXXIII / mortuos. Pater / regem Antioco(m) / subegit.

(“Lucio Cornelio Scipione, figlio di Lucio, nipote di Publio, questore, tribuno militare, morto a 33 anni. Suo Padre vinse il re Antioco”).

Il nome del padre e del nonno e il soprannome di Asiageno dimostrano che si tratta probabilmente del figlio del questore del 167 a.C., nipote quindi di Scipione Asiatico o Asiageno, morto probabilmente intorno al 150 a.C. La posizione di questi due sarcofagi in piccoli spazi dimostra che la tomba era oramai quasi tutta occupata. Per la sepoltura di Paulla Cornelia, moglie dell’Ispallo, morta anch’essa nel 150 a.C., si utilizzò addirittura lo spazio retrostante il sarcofago di Scipione Barbato. La facciata posteriore di tale sarcofago venne così a costituire la parete anteriore di quello di Paulla Cornelia, la cui cornice di travertino, che recava l’iscrizione [P]aulla Cornelia Cn(aei) f(ilia) Hispalli (scil. uxor) (“Paulla Cornelia, figlia di Gneo, moglie dell’Ispallo), era poggiata direttamente sul coperchio della tomba di Barbato. La donna volle probabilmente essere sepolta in prossimità del figlio, deposto in un sarcofago monolitico nella nicchia di fronte a quello del figlio di Barbato. L’elogio inciso sulla cassa così lo ricorda:

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L(ucius) Cornelius Cn(aei) f(ilius) Cn(aei) n(epos) Scipio. Magna sapientia / multasque virtutes aetate quom parva / posidet hoc saxsum. Quoiei vita defecit, non / honos honore, is hic situs, quei nunquam / victus est virtutei. Annos gnatus (viginti) is / l[oc]eis m[andatus].

In basso: Iscrizione sepolcrale di Gneo Cornelio Scipione Ispano, fratello di Lucio Cornelio (Musei Vaticani) Nella pagina accanto: Particolare di una abitazione di III secolo d.C. rinvenuta nei pressi del sepolcro

(“Questa pietra racchiude una grande sapienza e molte virtù, insieme con un’età breve: per raggiungere le più alte cariche mancò la vita, non l’onore a colui che ora giace qui, e che non fu mai vinto in valore. All’età di venti anni fu seppellito in questa tomba. Non cercate quali cariche rivestì: non ne ebbe”). La foto dell’iscrizione è a pag. 19 in basso Intorno al 150 a.C. il sepolcro - oramai completamente occupato - venne ampliato con la nuova galleria, cui si accedeva da un arco a conci di tufo dell’Aniene, da dove provengono i frammenti di tre sarcofagi di cui due con iscrizioni; si può identificare con sicurezza Gneo Cornelio Scipione Hispano, figlio dell’Ispallo e di Paulla Cornelia, fratello di Lucio Cornelio. L’iscrizione così lo celebra:

Cn(aeus) Cornelius Cn(aei) f(ilius) Scipio Hispanus / pr(aetor), aid(ilis) cur(ulis), q(uestor), tr(ibunus) mil(itum) (bis), (decem)vir sl(itibus) iudik(andis). / Virtutes generis mieis morbus accumulavi. / progeniem genui, facta patris petiei / maiorum, optenui laudem ut sibei me esse creatum / laetentur, stirpem nobilitavit honor.

(“Gneo Cornelio, figlio di Gneo Scipione Ispano, pretore, edile curule, questore, tribuno militare per due volte, decemviro per i giudizi sulle controversie, decemviro per l’effettuazione delle cose sacre. Ho riunito nei miei costumi le virtù della mia gente. Ho generato figli, sono stato pari nelle imprese a mio padre. Ho ottenuto la lode dei miei progenitori, che furono lieti di avermi generato, le mie cariche hanno nobilitato la stirpe”).

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Alla moglie di uno degli Scipioni della fine del II sec. a.C., come dimostra la frase dell’iscrizione frammentaria [- - -] is / [- - - Sc]ipionem [- - cum qu]o adveixei (“[- - -] con il quale ho convissuto”), appartiene un sarcofago di dimensioni eccezionali, forse destinato ad una doppia deposizione. La sua monumentalità ha fatto ipotizzare che le spoglie appartenessero a Sempronia, sorella dei Gracchi e moglie di Scipione Emiliano, il distruttore di Cartagine e Numanzia, morto nel 129 a.C. e quasi certamente sepolto in questo nuovo sepolcro.


Motivi propagandistici e politici non furono certamente estranei, ormai in età imperiale, al desiderio da parte dei Corneli Lentuli di ricollegarsi idealmente alla famiglia dei Corneli Scipioni. I Lentuli, come dimostrano due iscrizioni trovate nel sepolcro relative a Cornelia Gaetulica, figlia di Cornelio Lentulo Getulico, console nel 26 d.C., e quella di

M. Iunius Silanus, nipote di Getulico, morto a 20 anni, ereditarono probabilmente la tomba in seguito all’estinzione degli Scipioni, ed alcuni di essi vollero esservi seppelliti per sottolineare così gli stretti legami con una delle più famose famiglie repubblicane. Questo straordinario monumento, chiuso al pubblico per motivi di sicurezza

dal 1990, è oggi finalmente oggetto da parte della Sovraintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma di un primo intervento di restauro mirato a consolidare il banco tufaceo e a risanare o sostituire, ove necessario, le strutture metalliche, ormai in stato di notevole degrado, realizzate durante i restauri novecenteschi. 21




LE ORIGINI

N

el 280 a.C. le legioni romane guidate dal console Tiberio Coruncanio conquistarono la città etrusca di Vulci (l’etrusca Velch) dopo una tenace difesa effettuata dai suoi abitanti, compiendo così l’atto finale dell’espansione di Roma nel territorio vulcente, già occupato in gran parte negli anni precedenti la presa della città. Della Vulci etrusca rimane ben poco visibile, visto che subito dopo la presa della città da parte dei romani nuove strutture e nuovi

VULCI ROMANA

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edifici sostituirono i più antichi fabbricati etruschi. La città di Vulci è situata su un altopiano tufaceo sulla riva destra del fiume Fiora (antico Armentae), ad una distanza di circa 12 km dal mar Tirreno. Sulla base dei dati archeologici, la sua origine viene ricondotta all’unione di più villaggi sorti in quest’area intorno al X secolo a.C. Già nel IX secolo a.C. Vulci raggiunge una ricchezza straordinaria soprattutto per la produzione dei bronzi e ciò anche grazie al controllo di un vasto territorio circostante, ricchissimo di risorse naturali ed assai fertile, che doveva estendersi, verso sud, fino alla foce del fiume Arrone e, verso nord, fino ai monti dell’Uccellina. A testimoniare la florida economia che accompagna Vulci già dai primi momenti della sua storia sono tutta una serie di grandi necro-

poli di IX secolo a.C. che sorgono nell’area intorno al pianoro della città, tombe a fossa e a pozzo con corredi tipici della cultura villanoviana di questo periodo. Nel VII e VI secolo a.C. Vulci divenne una delle città più influenti di tutta l’Etruria e gli scavi mostrano un fiorente scambio commerciale con le città della Grecia, che durò fino alla metà del V secolo a.C. Nell’arco di questo periodo sono attestate tantissime industrie artistiche: alla produzione bronzistica si affianca infatti quella in pietra, fioriscono le ceramiche etrusco-corinzie, e lavorano a Vulci grandi ceramografi, tra cui quello a figure nere noto come pittore di Micali. Numerosi i corredi funerari trovati nelle tombe di questo periodo, che sono soprattutto tombe a cassone, ad eccezione del grande tumulo della Cuccumella. Anche le importazioni di ceramica dalle

Nella pagina accanto, in alto: Anfora attica a figure rosse proveniente dalle necropoli di Vulci (Museo Nazionale Etrusco di Vulci) Nella pagina accanto, in basso: Il sinuoso corso del fiume Fiora in prossimità del Ponte della Badia di Vulci Sopra: Il grande tumulo della "Cuccumella" di Vulci Sotto: Anfora attica a figure nere proveniente dalle necropoli di Vulci (Museo Nazionale Etrusco di Vulci)


città greche sono assai numerose e ricche, soprattutto quelle provenienti dall’Attica, come testimoniano i corredi della tomba del pittore della Sfinge Barbuta, la tomba della Panatenaica e la tomba del Guerriero. Proprio per la ricchezza di questi corredi, le tombe di Vulci furono sistematicamente saccheggiate, soprattutto nell’Ottocento, e i tesori ivi

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rinvenuti furono avviati sul mercato antiquario e andarono a riempire i principali musei del mondo. Queste vere e proprie rapine contribuirono ad arricchire anche personalità importanti dell’epoca, come ad esempio Luciano Bonaparte, principe di Canino e fratello di Napoleone, che nel 1828, in soli quattro mesi, si procurò circa duemila vasi.

Dopo la sua morte, la vedova continuò quest’opera di ricerca di tesori antichi, distruggendo tutto ciò che non era considerato di valore nei corredi di circa seimila tombe. Alla metà del V secolo a.C. Vulci subisce un primo declino con l’arresto delle importazioni attiche, ma una ripresa si evidenzia già nel IV secolo a.C.,


anche se la produzione artistica non raggiungerà più le vette dei secoli precedenti. A questo periodo di ripresa appartiene la famosa tomba François (340-330 a.C.) con le sue pitture (conservate a Villa Albani a Roma) che rievocano la storia dei fratelli Vibenna e di Macstarna (il re Servio Tullio) contrapposta, con una precisa ideologia antiromana, all’uccisione dei prigionieri troiani da parte di Achille. Nel secolo successivo, pressata dalla forza di Roma, Vulci si indebolisce sempre più fino alla capitolazione del 280 a.C. e alla perdita del suo territorio, nel quale sorgeranno le importanti città romane di Cosa e Forum Aurelii. Da questo momento inizia il declino vero e proprio di Vulci, nonostante la costruzione della via Aurelia (241 a.C.) che passa

Nella pagina accanto: Il corridoio d'ingresso della tomba Francois di Vulci

Sopra: Sezione e pianta della tomba Francois di Vulci

Sotto: L'anticamera della tomba Francois di Vulci

Sotto: Particolare del sacrificio di un troiano delle pitture della tomba Francois di Vulci

nella città ormai romana. Dopo la guerra sociale (91-87 a.C.) ottiene lo status di municipio, ma il lento spopolamento iniziato già nel II secolo a.C. continuò per tutta l’età imperiale. Nel IV secolo d.C. Vulci è menzionata come sede vescovile, ma nell’VIII secolo d.C. viene definitivamente abbandonata per la vicina Montalto di Castro. Gli scavi nel sito della città di Vulci iniziarono già nell’Ottocento, portando alla luce molti


resti di edifici pubblici del Foro, tra cui un complesso termale e un tempio ionico, di cui oggi non rimane più nulla. Ulteriori scavi furono intrapresi tra il 1957 e il 1961 e portarono alla scoperta dei principali edifici che attualmente è possibile visitare. Le ultime indagini archeologiche sono state condotte tra fine del secolo scorso e i primi anni del Duemila.

IL DECLINO DI VULCI Dell’antica cinta muraria a blocchi (V-IV secolo a.C.) rimangono visibili alcuni tratti, mentre delle quattro o cinque porte che in essa si dovevano aprire ne sono state scavate solo tre, la Porta Nord, la Porta Est e la Porta Ovest. Le prime due avevano una semplice struttura a battenti (dalla Porta Nord provengono alcuni interessanti exvoto, tra cui una testa di Giano bifronte), forse originariamente sormontati da un arco, mentre la terza, la Porta Ovest, presenta una struttura particolare, frutto di una modifica effettuata pochi anni prima della definitiva conquista romana. Di fronte alla porta vera e propria venne infat-

ti edificato un bastione a pianta triangolare provvisto all’interno di uno stretto passaggio a forma di Y, che consentiva il transito e un controllo maggiore dei pedoni; i carri potevano invece passare all’esterno, sulla stretta strada basolata, che doveva essere anch’essa controllata da guardie armate. Si tratta insomma di una struttura di difesa, costruita proprio in vista della resa dei conti con Roma. All’esterno della Porta Ovest si conserva ancora un tratto dell’acquedotto della città di Vulci, costruito dai romani nel I secolo a.C., che portava nell’abitato l’acqua della sorgente ubicata nella località nota come Cento


Nella pagina accanto, in alto: Particolare delle pitture raffiguranti l'impresa di MAstarna della tomba Francois di Vulci Nella pagina accanto. in basso: La rappresentazione di Nestore sulle pitture della tomba Francois di Vulci A destra: I poderosi resti del muro etrusco eretto sulla riva del Fiora Sotto: La Porta Ovest della città di Vulci

Camerelle. Questo acquedotto, che presenta una struttura in opera reticolata, superava il fiume Fiora sfruttando il Ponte della Badia, di cui parleremo in seguito. Durante gli scavi del 1998

vennero scoperte, lungo il lato sud dell’acquedotto, alcune tombe a cappuccina databili al III-IV secolo d.C. e appartenenti ad una piccola necropoli extraurbana che si andò a formare sopra una precedente strada

romana, ormai in disuso, che costeggiava l’acquedotto. Si entra nell’abitato di Vulci seguendo il Decumano, la via principale della città, lungo la quale sono visibili i resti degli edifici. Si incontrano subito le

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rovine appartenenti all’Arco di P. Sulpicius Mundus, inquadrabile nel I secolo d.C., la cui iscrizione ricorda tutte le cariche ricoperte da questo senatore. Proseguendo lungo il percorso, si incontra un grande basamento appartenente al Tempio Grande che doveva affacciarsi sull’area del Foro vulcente. Le dimensioni dell’edificio dovevano essere imponenti (m 36,4 x 24,60) e la pianta è molto simile all’Ara della Regina di Tarquinia. Il tempio doveva essere a cella unica, rivestita da lastre di


Nella pagina accanto, in alto: Le sepolture a cappuccina scoperte a ridosso dell'acquedotto di Vulci Nella pagina accanto, in basso: Resti della strada basolata e dell'acquedotto di Vulci subito fuori la Porta Ovest A destra: Il Decumano di Vulci in prossimita dell'arco di Publius Sulpicius Mundus (ricostruzione). In basso, a destra: I resti del podio del Tempio Grande di Vulci

terracotta dipinte e circondata dal colonnato con quattro colonne sui lati brevi e sei su quelli lunghi. I frammenti architettonici rimasti sul sito testimoniano varie fasi edilizie. Al VI secolo a.C., periodo di costruzione del tempio, appartengono alcune antefisse e lastre di rivestimento; al IV secolo a.C. sono riconducibili frammenti di colonne e capitelli ionici, mentre all’età augustea è attribuibile l’ultima fase edilizia dell’edificio con una ristrutturazione a cui appartengono frammenti di colonne e parte di un’iscrizione. È inoltre probabile che nella famosa statua conosciuta come la Filatrice di Prassitele, scoperta in questa zona nel 1835 e oggi conservata nell’Antikensammlungen di Monaco di Baviera, possa riconoscersi l’antica statua di culto del tempio. Intorno al Tempio Grande si trovano altre strutture, tra cui un edificio absidato in laterizio databile al III-IV secolo d.C., ma costruito su una precedente struttura etrusca e legato ad un complesso termale. Ancora in

questa zona circostante il tempio sono state trovate anche alcune sepolture altomedioevali, databili fra VI e IX secolo d.C. Proseguendo lungo il Decumano si incontra un piccolo edificio con abside in opera mista che viene identificato come una piccola basilica cristiana. Si giunge quindi alla grande e lussuosa Domus del Criptoportico,

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A sinistra: Particolare dei resti del Tempio Grande di Vulci e, sull'altro lato del Decumano ciò che rimane del cosiddetto Edificio in laterizi Sotto: Il Decumano Massimo di Vulci A destra: Il settore ovest della Domus del Criptoportico di Vulci Nella pagina accanto, in basso a destra: L'area ad est della Domus del Criptoportico di Vulci


nella zona centro settentrionale dell’abitato. L’ingresso della casa, al centro della facciata, era preceduto da un portico e affiancato da cinque tabernae. Attraverso le fauces si entrava nell’atrio maggiore, con impluvium e ambienti circostanti, tra cui l’atrio minore con cisterna sottostante. Spingendosi all’interno della casa si trova il tablinum che collega con il peristilium porticato. Da qui le scale conducevano al piano inferiore e a quello superiore. Nell’angolo nord-ovest della domus si trova il balneum con vasca, calidarium (ambiente

riscaldato con pavimento a mosaico sorretto da suspensurae per il passaggio dell’aria calda), laconicum (la sauna, originariamente coperta a cupola, che conserva il pavimento decorato a mosaico) e apodyterium (lo spogliatoio). Oltre il peristilio si trova un altro tablinum, affiancato da altri ambienti che conservano tratti dei dipinti parietali e dei pavimenti a mosaico. Alle spalle di questa zona, un portico con otto colonne introduce nel giardino con abside e una vasca, al centro della quale doveva originariamente essere collocata una statua. La domus era inoltre

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Nella pagina accanto, in alto: Una delle sale nel settore nord della Domus del Criptoportico di Vulci Nella pagina accanto, in basso:Il settore termale della Domus del Criptoportico di Vulci A destra: Il calidarium della Domus del Criptoportico di Vulci, con pavimento a mosaico rialzato sulle sospensurae Al centro: Il portico del giardino della Domus del Criptoportico di Vulci In basso: Il giardino con vasca della Domus del Criptoportico di Vulci

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Sopra: La galleria di accesso al criptoportico della Domus del Criptoportico di Vulci Sotto: Il criptoportico della Domus omonima di Vulci si apre al di sotto del peristilio

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fornita da un settore di servizio con latrine e altri ambienti, raggiungibile tramite una stradina secondaria che partiva dal Decumano. Al piano inferiore si trova il Criptoportico che da il nome alla domus. Si tratta di un corridoio sotterraneo coperto a volta che veniva usato come magazzino ed era illuminato da lucernai. Accanto al criptoportico erano tre ambienti, uno dei quali con soffitto a cassettoni, che doveva avere funzione di ninfeo. La Domus del Criptoportico viene datata tra il II e il I secolo a.C. e vista la sontuosità - doveva essere l’abitazione di un personaggio di alto rango. Durante gli scavi nel settore termale venne ritrovata una fistula bronzea che reca il nome di M. Vinicius, probabilmente da identificare nel proprietario della domus. Sono state

Sopra: Uno degli ambienti sotterranei della Domus del Criptoportico di Vulci con vasca e canaletta per l'acqua Nella pagina accanto, in alto: Un magazzino sotterraneo della Domus del Criptoportico di Vulci Nella pagina accanto, in basso: Il ninfeo nei sotterranei della Domus del Criptoportico di Vulci


fatte subito connessioni con il console del 33 a.C., quello del 19 a.C. e con il marito di Iulia Livilla, console e genero di Germanico. Subito alle spalle della Domus del Criptoportico, collegato con un’ulteriore domus di I secolo a.C., della quale si conserva il peristilio e qualche ambiente, si trova un mitreo con i due banconi laterali, sostenuti da piccoli archi, sui quali trovavano posto gli adepti. Sulla parete di fondo era collocata la statua del dio Mitra che uccide il toro (tauroctono). Durante gli scavi vennero trovate statue del III secolo d.C., tra cui due gruppi con Mitra e i due dadofori Cautes e Cautopates, i portatori di fiaccola che accompagnano il dio. Nel mitreo e sulle statue sono state trovate tracce di distruzione violenta, ed è quindi probabile che i cristiani incendiarono il santuario e sfregiarono le statue di culto subito dopo il famoso editto di Teodosio (380 d.C.). Seguendo il Decumano si giunge poi all’area orientale dell’abitato, dove possono vedersi i resti di altre abitazioni, tra cui la casa del Pescatore, così chiamata


per alcuni pesi da pesca ivi rinvenuti, un piccolo ninfeo, i resti di un altro arco onorario e parte di una piccola scalinata. Proprio tra l’arco e la scalinata venne trovato il miliarium in nenfro di Aurelio Cotta, il costruttore della via Aurelia, che segna in questo punto la distanza di 70 miglia da Roma. In situ si trova solo la parte

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inferiore del miliario, mentre la parte superiore con l’iscrizione si trova nel Museo della Badia. Nei pressi dei resti della Porta Est si trova il piccolo Sacello di Ercole, costruito con blocchi di tufo, che presenta due fasi costruttive, una ellenistica e l’altra del periodo imperiale. Durante gli scavi vennero qui rin-


Nella pagina accanto, in alto: Il Mitreo di Vulci

Sopra: Il Sacello di Ercole in prossimitĂ della Porta Est di Vulci

Nella pagina accanto, in basso: Ricostruzione grafica del Mitreo di Vulci

A destra: Il tratto del Decumano che scende verso la Porta Est di Vulci

Sotto: L'area est dell'abitato di Vulci con un ninfeo-fontana sul Decumano

In basso, a destra: Il Miliarium di Aurelio Cotta, il costruttore della via Aurelia, con l'indicazione della distanza di 70 miglia da Roma. Il miliarium di nenfro era situato sul Decumano e si trova nel Museo archeologico di Vulci

venuti alcuni bronzetti votivi raffiguranti Ercole e vari animali, un cippo di travertino con iscrizione votiva del liberto C. Petronius Hilarus, ed una statua di Ercole fanciullo seduto. Sempre oltre la Porta si trova la Vasca di Porta

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Est, una conserva d’acqua che presenta più fasi di vita. Lasciata l’area dell’abitato, il Decumano proseguiva verso il Fiora, oltrepassandolo sul Ponte Rotto, di cui sono visibili alcuni resti nel letto del fiume. Questo ponte fu edificato nel I secolo d.C. su un ponte etrusco preesistente. In questo settore si trova inoltre un possente muro etrusco in blocchi di tufo che originariamente era situato proprio sulla riva del Fiora e comunemente è connesso con le attività di produzione e di trasporto situate lungo il corso del fiume. Vicino ai resti del Ponte Rotto si trova la cosiddetta Area 1, scavata tra il 1996 e il 2001, nella quale sono riemersi un tratto del muro di cinta di IV secolo a.C. e numerosi ex-voto provenienti dai depositi votivi di un santuario che doveva essere posizionato al limite del pianoro al di

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Nella pagina accanto, in alto: Resti del pilone e della prima arcata del Ponte Rotto di Vulci Nella pagina accanto, al centro: I resti del Ponte Rotto nel letto del Fiora Nella pagina accanto, in basso: La fine della strada in prossimità della testata del Ponte Rotto sul Fiora Sotto: Il Ponte della Badia di Vulci

sopra di questa area. Tornando alla Porta Ovest e proseguendo fuori l’abitato è possibile raggiungere il Ponte della Badia e il Castello della Badia, oggi sede del Museo Nazionale Etrusco. Il ponte è costituito da tre arcate (la centrale, maggiore, misura m 20). La sua prima fase costruttiva, in blocchi di tufo rosso, risale al periodo etrusco; la seconda appartiene alla ricostruzione di epoca repubblicana con i piloni in opera cementizia ricoperti da lastre di travertino. Ulteriori sistemazioni vennero effettuate in età imperiale e nel Medioevo, dando al Ponte l’aspetto attuale. All’interno delle strutture del ponte passava l’acquedotto romano prima descritto, come testimo-

A destra: Braccialetto in pasta vitrea blu con protomi leonine d'oro (VI a.C.) proveniente dalle necropoli di Vulci (Museo Nazionale Etrusco di Vulci) Al centro: Statua fittile di divinità seduta in trono proveneiente da Vulci (Museo Nazionale Etrusco di Vulci) In basso, a destra: Statua fittile di Ercole proveniente dal Sacello di Ercole di Vulci (Museo Nazionale Etrusco di Vulci)

niano anche le tracce di calcare visibili sul lato nord e causate dalla fuoriuscita dell’acqua dallo speco dell’acquedotto. Il Ponte della Badia conduce al Castello della Badia, inquadrabile nel XII secolo e costruito per controllare il passaggio sul Fiora, che dal 1975 ospita il Museo dove sono esposti i reperti provenienti dagli scavi dell’antica città di Vulci.

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IL REGNO DI ZENOBIA

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a nascita e lo svilupPALMIRA po dell’agLA SPOSA DEL glomerato DESERTO urbano di Palmira è legato alla copiosa sorgente che sgorga dalle pendici del Gebel Muntar, la montagna situata a sud-ovest della città. L’oasi, ancora oggi alimentata dalle acque sulfuree della fonte chiamata Efca, frequentata dall’uomo sin dal VII millennio a.C., sorge a metà strada tra il Mediterraneo e l’Eufrate nel cuore del deserto siriano.

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Palmira, quindi, sorse in una favorevole posizione, tappa obbligata per chi percorreva il deserto tra la valle dell’Eufrate e i ricchi campi, boschi e porti della Siria e della Fenicia. Per questo la città divenne una stazione carovaniera di primaria importanza tra il Golfo Persico, l’Iran e il Mediterraneo. Le carovane, che trasportavano merci dalla Mesopotamia, dall’India e dalla Cina, sostavano presso le ricche sorgenti sulfuree per rifocillarsi e rifornirsi di acqua, prima di proseguire il viaggio verso l’Occidente. La città greco-romana di Palmira fu costruita nel luogo dove sorgeva l’antico centro di Tadmor (citato per la prima volta in un contratto assiro del XIX sec. a.C.), il cui significato ancora incerto forse potrebbe risalire alla radice semitica dh-m-r, cioè “proteggere”, quindi “posto di guardia”. Gli scavi hanno riportato alla luce frammenti ceramici risalenti all’età del Bronzo (2200- 1500 a.C) nell’area del santuario di Bel: si suppone quindi che la città antica dovesse essere al di sotto dell’attuale tèmenos del tempio. La città doveva essere un centro fiorente già in età ellenistica, all’epoca di Seleuco I,


successore di Alessandro Magno, il quale aveva posto fine all’impero persiano nel 331 a.C. Ma le testimonianze letterarie e materiali che attestano uno sviluppo crescente di Palmira si hanno solo più tardi a partire dal I sec. a.C., quando lo storico Appiano narra che il triumviro Antonio, dopo aver accolto Cleopatra a Tarso, inviò l’esercito a Palmira nel 41 a.C. per saccheggiarla. Plinio il Vecchio, che scrive nel 77 d.C. (Naturalis Historia, V, 88), descrive Palmira come una città indipendente, con una posizione privilegiata posta tra i due maggiori imperi, quello dei Romani e quello dei Parti, benché tutta la Siria fosse sotto il dominio romano sin dal 64 a.C. Secondo un’altra ipotesi, avanzata da alcuni studiosi, Palmira dipendeva completamente da Roma già a partire dall’impero di Tiberio (14-37 d.C.), quando con la costruzione del grande tempio di Bel, inaugurato nel 32 d.C., si riscontra un nuovo orientamento artistico di tipo greco-romano che evidenzia

Nella pagina accanto al centro: La regina Zenobia raffigurata su una moneta

In alto: La cava dalla quale furono tagliate le pietre per la costruzione di Palmira

Nella pagina accanto in basso: La stupenda oasi di Palmira

Al centro: Il tempio di Bel e l’area antistante ad esso

Nella pagina accanto in basso a destra: Ritratto in bronzo di Seleuco I

In basso a sinstra: Le possenti mura di Palmira In basso a destra: Il ritratto dell’imperatore Tiberio

una organizzazione politica di tipo romana, confermata anche dalle informazioni dedotte dalle iscrizioni locali. Nonostante i conflitti, sia i Romani che i Parti avevano


città risiedeva anche un’ala della cavalleria, che partecipava alla sorveglianza della frontiera orientale dell’impero. In quell’epoca le attività economiche della città erano assai fiorenti, estendendosi attraverso la via della seta dall’Occidente fino alla Cina e l’India. Anche sotto la dinastia degli imperatori Severi, in parte di origine siriana, la città conobbe un ampio sviluppo. Caracalla (211-217 d.C.), figlio di Settimio Severo e di Giulia Domna, figlia del principe-sacerdote di Emesa (Homs), conferì alle due città, Emesa e Palmira, lo status di colonie romane e quindi, attraverso lo ius italicum, le esentava dal pagamento della tassa fondiaria. Successivamente, la dinastia dei Sassanidi in Persia, che sostituì nel 228 d.C. quella degli Arcacidi, sfidò Roma e, con successi alterni, chiuse l’accesso al golfo arabico ai Palmireni. Pertanto Palmira, alla metà del III secolo, assuninteresse nel mantenere sicure le vie di comunicazione tra l’Occidente e la Mesopotamia e la Persia, assicurando quindi la vitalità di Palmira che era diventata un importante nodo stradale e quindi un emporio ricchissimo. Il suo benessere era dovuto non solo ai commerci, ma anche ai pedaggi richiesti per il passaggio e per il rifornimento di acqua. Nel 129 d.C. la città fu visitata dall’imperatore Adriano che le concesse lo status di città libera, con il diritto di raccogliere le imposte in maniera autonoma sotto il controllo di un curatore, dipendente direttamente dall’imperatore e non più dal legato di Antiochia. L’età d’oro della città, nominata Palmyra Hadriana, fu il II sec. d.C., quando nella 46


Nella pagina accanto in alto: Busto in marmo dell’imperatore Adriano (Roma, Musei Capitolini) Nella pagina accanto in basso: La famiglia dei Severi: Giulia Domna, Settimio Severo, e il figlio Caracalla (sotto a destra), l’immagine dell’altro figlio Geta (sotto a sinistra) è stata cancellata A sinistra: Il busto ritratto dell’imperatore Caracalla (Roma, Musei Capitolini) Sopra: Il busto ritratto dell’imperatore Settimio Severo (Roma, Musei Capitolini)

se progressivamente una maggiore indipendenza da Roma per salvaguardare i propri interessi commerciali. In questo periodo, una famiglia di stirpe araba ebbe un ruolo fondamentale: nel 258 d.C., uno dei suoi membri, di nome Odainat, era stato investito probabilmente della carica di governatore di SiriaFenicia da parte dell’impera-

tore Valeriano, e successivamente Gallieno gli conferì la carica di generale, comandante degli eserciti d’Oriente, e infine di “Reggente di tutto l’Oriente” (dux Romanorum e imperator). Dopo l’uccisione del marito Odenate (Odainat), la moglie Zenobia, donna di leggendaria bellezza, si impadronì del potere con il titolo di regina ed eser-

In basso a sinistra: Particolare di Palmira al tramonto In basso a destra: Il ritratto dell’imperatore Gallieno (Roma, Musei Capitolini)


citò la reggenza al posto del figlio minorenne Wahballat. Ella, ricordata dalle fonti come una donna ambiziosa, di grande cultura e con un’ampia conoscenza della situazione politica di Roma e di tutto l’Oriente, divenne una delle donne più famose e rilevanti nella storia antica. Aureliano, salito al trono nel 270 d.C., permise a Zenobia di inviare le sue truppe in Egitto e in Anatolia raggiungendo il Bosforo per assicurare a Palmira la via delle Indie con il controllo del Nilo e del Mar Rosso. Successivamente, tuttavia, l’imperatore si schierò contro la regina, e dopo un lungo assedio, riuscì nel 272 d.C. a occupare la città

senza saccheggiarla, portando via Zenobia, che - secondo Zosimo - sarebbe morta durante il viaggio. Secondo l’Historia Augusta, invece, Aureliano aveva lasciato una guarnigione di arcieri a presidiare Palmira, mentre lui si recava sul Danubio, ma fu costretto a tornare rapidamente nella città a seguito di un complotto ordito da un parente di Zenobia, di nome Antioco. Giunto a Palmira nel 273 d.C. fece saccheggiare la città, uccidendo i cittadini, ma ordinò anche il restauro del tempio del Sole. L’imperatore, dopo essersi recato nelle Gallie, tornò trionfatore a Roma. Nel 274 d.C. si celebrò un grande trionfo al quale

In basso a sinistra: Il busto ritratto della regina Zenobia (Museo Archeologico di Palmira) Sopra: L’immagine di Zenobia raffigurata su una moneta Al centro a sinistra: Ritratto in bronzo dorato dell’imperatore Aureliano (Brescia, Museo di Santa Giulia) Al centro a destra: La regina Zenobia raffigurata a Roma incatenata con catene d’oro


In basso al centro: Aureo dell’imperatore Aureliano In alto a destra: Particolare del “campo di Diocleziano” In basso a destra: Il tempio di Baal-Shamin

prese parte anche Zenobia, abbigliata come una regina e carica di catene d’oro, che poi venne esiliata a Tivoli, dove sposò un senatore romano e visse come una matrona romana. Dopo questo episodio la città non si riprese più. Sotto il principato di Diocleziano un accampamento militare romano venne stanziato nella parte occidentale della città: nel 297 d.C., dopo che l’imperatore aveva concluso la pace con la Persia, Palmira si trovò infatti al centro di una rete di strade e di forti che costituivano ad est il limes della Siria. Intorno al 300 d.C. il governatore Sosiano Hierocle fece costruire in onore dell’imperatore il “campo di Diocleziano”, un grosso mu-

ro di cinta fortificato che racchiudeva la parte nord della città. Tale muro, secondo quanto narra Procopio, venne poi rinforzato da Giustiniano (527-565 d.C.). Quest’ultimo provvide anche a incrementare l’approvvigionamento idrico della città mediante una canalizzazione che portava l’acqua da Abu Fawares, a 10 km ad ovest della città. La capitale dell’orgogliosa Zenobia era ormai ridotta ad un piccolo avamposto del confine orientale romano, sede vescovile sin dal IV sec. d.C.: Marinus, il vescovo di Palmira, partecipò nel 325 d.C. al Concilio di Nicea. I templi di Bel e di Baalshamin furono poi trasformati in chiese nel periodo bizantino.


LO SCAVO E IL RESTAURO DI PALMIRA

A partire dal V secolo tutto il deserto siriano passò sotto il dominio della dinastia araba dei Ghassanidi, mentre Palmira, ancora abitata, rimase sotto la dominazione bizantina fino al 634 d.C., quando Khaled ibn al-Wallid se ne impadronì. Teatro di violenti scontri tra Omayyadi e Abbasidi, la città venne di nuovo distrutta nell’VIII sec. Subì ulteriori danni a seguito di un violento terremoto nel 1089 e di un saccheggio ad opera delle truppe di Tamerlano nel 1401. Pertanto, sin dal medioevo, la funzione di avamposto fu esercitata solo da una fortezza: in un primo tempo quella costruita intorno al tempio di Baal (XII sec.), poi il castello eretto sull’altura che domina la città (XII-XVII sec.). La città, abbandonata, fu progressivamente ricoperta dalla sabbia che l’ha preserva-

In basso a sinistra: Sullo sfondo il “castello arabo” che dominava la città di Palmira Sotto: Il grande colonnato al tramonto, sullo sfondo l’arco monumentale A destra: Particolare del grande colonnato, sullo sfondo il Tetrapylon

ta dalle spoliazioni che la maggior parte delle città antiche hanno subíto nel corso dei secoli. Gli scavi e i lavori di restauro iniziati a partire dal XIX secolo, hanno consentito di riportare alla luce le strutture architettoniche che avevano costituito un tempo i monumenti della ricca città carovaniera, capitale del mitico regno di Zenobia. Palmira era denominata la “sposa del deserto” dai mercanti che trasportavano dall’estremo Oriente spezie, tessuti pregiati, pietre e metalli preziosi, e - arrivati in città dopo giorni di marcia nel deserto - rimanevano stupiti


dalla grandiosità della via Colonnata, che sicuramente era l’orgoglio della città. Ancora oggi i visitatori del sito rimangono impressionati dalla monumentalità della strada, che, larga 11 m e lunga 1200 m circa, attraversa la città da est ad ovest, fiancheggiata da porticati, sui quali si aprivano le botteghe e gli edifici più importanti. La via Colonnata fu costruita in tre grandi sezioni a partire dal II sec. d.C.: la prima parte, la più antica, è quella ad ovest del tetrapilo e attraversa il quartiere residenziale; la sezione centrale, la più monumentale, fu realizzata nel III secolo e non era lastricata per permettere il passaggio dei cammelli; l’ultima, la più recente, mai terminata, conduceva all’accampamento di Diocleziano. La lunga arteria fu concepita non come un unicum, ma come tronconi fortemente disassati, interrotti da strutture architettoniche di grande rilievo (l’Arco di Trionfo e il Tetrapilo), e fu costruita dagli architetti palmireni con grande originalità. I fusti delle colonne corinzie, ad esempio, erano ornati dalle statue dei 51


personaggi più importanti, spesso mercanti e capicarovana, poste su mensole, ancora oggi visibili, che interrompono a due terzi l’altezza delle colonne stesse. Per mascherare l’angolo tra la prima e la seconda sezione della via Colonnata, fu eretto all’inizio del III sec. d.C. un grande arco, unico nel suo genere, a pianta triangolare con tre fornici. Le due arcate laterali, meno elevate, sono quelle orientate l’una verso il Tempio di Baal e l’altra verso il viale principale della via Colonnata. L’arco, restaurato nel 1930 dall’architetto Robert

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Amy, mostra nella base i resti di una iscrizione greca, nei fregi una ricca decorazione floreale di ghirlande e foglie di quercia, negli archivolti una serie di perle e di tronchi di palma, e nei pilastri fronde di acanto e di vite realizzate con intaglio a trapano che creano un forte contrasto chiaroscurale di particolare e suggestivo effetto alla luce del tramonto. Proseguendo per la via Colonnata si incontrano i resti di un edificio, che in base ai numerosi oggetti e frammenti di affreschi e di bassorilievi rinvenuti negli scavi, è stato


A sinistra: Particolare dell’arco monumentale In basso: Vista generale dell’arco monumentale Nella pagina accanto in alto: I resti del santuario di Nebo Nella pagina accanto in basso: In una foto d’epoca la veduta aerea del santuario di Nebo

identificato con il santuario di Nebo (o Nabu), dio babilonese degli oracoli e della saggezza. La pianta è quella dei santuari siriani con il tempio al centro di una corte chiusa da mura, nella quale si entrava attraverso un ingresso monumentale con propileo e colonne. Il tempio era periptero con 32 colonne corinzie, costruito su un alto basamento. Del santuario, che risale all’inizio del I sec. d.C. con interventi del III sec. d.C., rimangono soltanto le basi delle colonne del portico e il podio. Continuando lungo la via Colonnata si incontrano quattro colonne che indicano i resti delle terme di Diocle-

ziano e, poco più avanti, sulla sinistra, sorge il Teatro. Si accede all’edificio mediante un arco, che interrompe il portico sud, e che immette in una strada colonnata che circonda l’emiciclo e sulla quale si aprono tre ingressi. I due rami semicircolari di tale strada confluiscono in uno rettilineo, anch’esso colonnato, che conduce ad una porta sul lato sud-ovest delle mura della città, quelle completate da Giustiniano. Il Teatro, eretto nella prima metà del II sec. d.C., presenta una frons scaenae lunga 48 m e profonda 10,50 m, che voleva rappresentare la facciata di un palazzo con cinque porte ornate da colonne, da sporgenze e rien-

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tranze. Attualmente si conserva un solo piano, ma in origine dovevano essere tre. Al centro è ancora ben conservata l’orchestra e i due passaggi coperti (parodoi), mentre della cavea rimane soltanto un terzo delle gradinate. Superata l’area del Teatro, la via Colonnata giunge ad una piazza ovale ornata da un grande Tetrapilo, che doveva mascherare la prima deviazione della strada. Il monumento è costituito da quattro piedistalli quadrati, ciascuno dei quali sorregge quattro colonne in granito rosa sor-


A sinistra in alto: Le strutture esterne del teatro di Palmira A sinistra al centro: Particolare della cavea del teatro A sinistra in basso: Uno degli ingressi al teatro Sotto: Vista generale del teatro A destra: Particolare della scena e dell’orchestra del teatro

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Nella pagina accanto in alto: Una suggestiva immagine del Tetrapilo al tramonto Nella pagina accanto in basso: Il Tetrapilo alla fine della via colonnata A destra: Particolare dell’Agorà di Palmira In basso: Particolare dell’Accampamento di Diocleziano

montate da una trabeazione. L’insieme forma quattro monumenti indipendenti, ciascuno dei quali racchiudeva una statua (ora si conservano solo le basi). L’edificio oggi appare secondo una ricostruzione eseguita nel 1963 e solo una delle colonne, riconoscibile dalla diversa colorazione, è ancora originale. Ad ovest del Teatro, nell’area presso il Tetrapilo, un piccolo edificio, costituito da un vestibolo, una piccola corte a peristilio e una sala con gradini disposti a ferro di cavallo, è stato interpretato come la sede del Senato o di una associazione di commercianti. Accanto a questi resti si apre la vasta piazza pubblica, l’Agorà (84 x 71 m ca.), concepita come un edificio chiuso e circondata da mura porticate, nelle quali si aprivano undici porte. Le colonne erano provviste di mensole, in origine ornate da statue, delle quali si conservano in parte le dediche. Dalle iscrizioni sappiamo che le statue appartenevano a personaggi che si erano distinti nella vita della città, suddivisi per lato a seconda della categoria, ossia funzionari palmireni o romani, senatori, militari, mercanti e capicarovana. Sull’architrave del-

la grande porta ad est figura la dedica dei busti o delle statue, ora scomparsi, di Settimio Severo, del figlio Caracalla e probabilmente della moglie Giulia Domna, figlia del grande sacerdote di Emesa. La dinastia siriana dei Severi fu molto importante per Palmira, e favorì l’eccezionale sviluppo che in quell’epoca conobbe la città. Adiacente all’Agorà si apre una vasta sala che presenta sul fondo una nicchia destina-

ta all’immagine di una divinità e un altare per incenso. Lungo le altre tre pareti sono ancora conservati i resti di letti conviviali, sui quali prendevano posto i membri delle varie confraternite durante le cerimonie religiose. Alla sala per banchetti si accedeva mediante tessere in terracotta, ornate dall’effigie del dio Baal, rinvenute nel corso degli scavi e oggi visibili nel Museo Archeologico. Un altro importante rinvenimento nel-

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l’area della sala avvenne nel 1881 ad opera del principe russo Lazareff, che scoprì una stele, datata al 137 d.C., con un’iscrizione bilingue in greco e in palmireno che stabiliva le tariffe per le mercanzie che entravano e uscivano dalla città. L’iscrizione fu trasferita al Museo dell’Ermitage nel 1901. Tornando al Tetrapilo e percorrendo la strada ortogonale alla via Colonnata, si giunge al Santuario di Baal Shamin, signore dei cieli, dio della tempesta e delle piogge, assimilato all’antico dio Hadad e poi a Zeus. Il tempio, eretto nel 131 d.C., presenta una cella, ancora ben conservata, preceduta da un pronao con sei colonne corinzie munite di mensole per ospitare statue. Nel V secolo il tempio fu trasformato in chiesa. La grande via Colonnata dal Tetrapilo prosegue verso nord fino alla monumentale facciata di una tomba del III sec. d.C., chiamata Tempio Funerario. Una scala permette di accedere al pronao a sei colonne con frontone e pilastri angolari ornati da motivi fitomorfi. All’interno, la tomSopra: Il santuario di Baal-Schamin A sinistra: L’interno del tempio di BaalShamin Nella pagina accanto in alto: La tomba del III se. d.C. chiamata Tempio Funerario Nella pagina accanto in basso: La grande scalinata e colonne superstiti nel “campo di Diocleziano”

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d.C. ad opera di Aureliano. L’accampamento occupa l’area del palazzo di Zenobia, sostituito dall’imperatore con un quartiere militare destinato a proteggere la frontiera orientale dell’Impero. Lo spazio occupato dal campo di Diocleziano è circondato da un muro che sale verso la collina e racchiude il Santuario di Allath, grande dea araba assimilata alla divinità guerriera Atena Minerva e alla dea siriana della fecondità Atargatis. A

quest’ultima divinità, spesso raffigurata tra due leoni, quale protettrice degli animali, era dedicato forse il grande leone stante, alto 3,50 m ca., rinvenuto in frammenti all’interno del tèmenos. La statua, ora visibile all’ingresso del Museo Archeologico, si data ai primi anni del I sec. d.C. e apparteneva al primo edificio, realizzato probabilmente intorno al 6 d.C., datazione confermata dall’iscrizione che compare sull’altare, ancora ben conservato, di questo

ba presentava una serie sovrapposta di loculi e sul fondo alcuni sarcofagi. Ai lati, sopra i loculi, alcune nicchie con frontone erano destinate ad ospitare le statue dei defunti. Al di sotto, è presente una camera funeraria ipogea con una serie di loculi. La strada presenta un’altra deviazione ad angolo retto verso sud e conduce ad una piazza ovale dove si apriva l’accesso principale della città. Il pendio adiacente alla piazza conserva le rovine del campo militare fatto costruire dall’imperatore Diocleziano dopo circa 30 anni la distruzione della città, avvenuta nel 273 59


A sinistra: Particolare dei resti del Santuario di Allath In basso a sinistra: La mastodontica statua di leone rinvenuta nell’area del santuario, ed ora situata all’ingresso del Museo di Palmira Sotto: Copia romana dell’Atena Parthènos identificata come la dea Allath Nella pagina accanto in alto: Particolare della via colonnata con il Tempio di Baal sullo sfondo Nella pagina accanto in basso: Il tempio di Baal

primo edificio. Il tempio venne poi ampliato intorno alla metà del II sec. d.C. con un peristilio, largo 28 m e profondo 46 m, e una cella con pronao esastilo. All’interno della cella sono stati rinvenuti i frammenti di una copia romana in marmo dell’Atena Parthénos di Fidia (ora esposta nel Museo Archeologico), che mostra chiaramente la possibile identificazione dell’antica dea Allath con la celebre divinità ateniese. All’interno del Campo di

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Diocleziano si riconoscono la via principalis, la via praetoria, i resti del forum con gli horrea, i resti di una porta a tre fornici, detta porta Pretoria, e quelli di uno scalone monumentale che saliva al pretorio, sede del comando della legione. Dopo aver attraversato un vestibolo con quattro colonne monolitiche, si entrava in una spaziosa sala dove al centro era il santuario del campo, detto Tempio delle Insegne. Sull’architrave del tempio l’iscrizione, dedicata agli imperatori Diocleziano, Massimiano, Costanzo e Galerio dal governatore della provincia Sossiano Hierocle, data l’edificio all’epoca della tetrarchia (293 d.C.). Tornando indietro, all’estremità orientale della via Colonnata, sorge l’edificio più importante di Palmira, il Tempio di Baal. Il nome semitico Ba’al, che significa “signore”, designava il dio supremo, poi associato allo Zeus greco e al Giove roma-

no, che come divinità cosmica era venerato insieme ad Yarhibol e ad Aglibol, gli dei palmireni del Sole e della Luna. Le loro immagini sono rappresentate nel vano settentrionale della cella, unite a quelle dei simboli dello

Zodiaco che compaiono nel soffitto. Il tempio, che sorge su un tell e su resti risalenti agli inizi del Bronzo medio (2200-1500 a.C.), è costituito da una grande corte (205 x 210 m) circondata da un muro di cinta,

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Sopra: L’ampia area antistante il Tempio di Baal

Sotto: La facciata posteriore del Tempio di Baal, i capitelli del colonnato erano in origine di bronzo dorato

all’interno della quale si aprivano dei portici a doppia fila di colonne corinzie. Il lato ovest, dove è l’ingresso, aveva una sola fila di colonne e un triplo arco monumentale. Le colonne presentavano delle mensole, originariamente ornate dalle statue dei cittadini benemeriti che avevano contribuito alla costruzione dell’edificio. La cella, con ingresso su uno dei lati lunghi, quello ovest, è anch’essa circondata da un portico colonnato. All’interno sono presenti due vani, disposti l’uno di fronte all’altro alle due estremità nord e sud, che sono caratteristici dei templi orientali, soprattutto siriani, e sono designati mediante la parola greca thàlamos. Ai lati, le scale


permettevano di accedere al tetto, dove forse si svolgevano delle cerimonie. All’ingresso della cella vi sono alti sostegni trasversali per il soffitto del peristilio, sui quali compare la raffigurazione di Aglibol presso un tempio ed un altare colmo di frutta. Un’altra immagine, quasi scomparsa, è forse quella del fratello Malakbel, divinità protettrice della fertilità e della fecondità degli armenti, che è infatti raffigurato accanto ad un altare ricolmo di frutta e sul quale è presente anche un capretto. Sull’altro lato, è rappresentata la lotta tra due divinità e un essere anguipede (con il busto umano e serpenti al posto delle gambe) simboleggiante la lotta

Sopra: Il vano di sinistra all’interno della cella Al centro: Particolare del soffitto e della decorazione del vano di sinistra

Sotto: Il vano di destra all’interno della cella


contro le forze del Male. Su un altro sostegno è raffigurato un rito arabo: una processione di donne e di quattro personaggi benedicenti segue un cammello che porta una tenda, dalla quale sembra sporgere un betilo; ai lati compaiono sacerdoti che bruciano incenso. Il tempio, consacrato nel 32 d.C., fu completato soltanto alla metà del II sec. d.C. con la costruzione dei porticati e dei propilei, ma durante la seconda conquista della città ad opera di Aureliano (273 d.C.), l’edificio venne in parte distrutto. Terminata la visita della città non può mancare quella della città dei morti che quasi

rivaleggia in splendore con la città dei vivi. La vasta necropoli, della quale colpisce soprattutto la monumentalità delle torri-mausolei di pietra, eleganti nelle proporzioni, ma severe nei contorni, era costituita anche da templi-tombe, riccamente decorati con dipinti e rilievi, e da costruzioni dall’apparenza più modesta all’esterno, semplici tumuli, che invece presentavano una sontuosa ornamentazione scultorea all’interno. Le sale sotterranee scavate nella roccia, che presentano pareti adorne di pitture e raffigurazioni scolpite, sono documenti preziosi per la conoscenza della cultura, del

Al centro a sinistra: Uno dei sostegni per il soffitto del peristilio con rilievo raffigurante Il dio Aglibol A sinistra: Un altro sostegno con la raffigurazione di una processione di donne e un cammello che porta una tenda Sopra: Una suggestiva immagine dell’area dove sorgono le caratteristiche tombe a torre Nella pagina accanto in basso: I resti di alcune tombe a torre

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modo di vita e dell’arte palmirena. E se ad una prima impressione l’arte palmirena appare interamente greca, una visione più attenta mostra una tale cura per il dettaglio, ad esempio, nella resa della foggia delle vesti, dei gioielli e delle acconciature delle figure, che è difficile definire questa scultura greca o greco-romana. Colpisce soprattutto la mescolanza di stili provenienti dall’Iran, da Babilonia, dall’Anatolia e dalla Siria del Nord, che con-



tribuiscono a rendere l’arte palmirena il frutto ellenizzato di vari elementi orientali. Particolarmente suggestiva è la visione degli scavi dall’alto della collina che sovrasta la città, sulla quale si ergono le rovine del castello appartenuto all’emiro libanese Fakhr elDin (1590-1635), che si era fieramente opposto all’egemonia ottomana. Il ritrovamento di reperti ceramici e di elementi architettonici del XII e XIII sec. hanno fatto ipotizzare una costruzione precedente, riadattata poi dall’emiro. Il possente edificio, circondato da un fossato munito di ponte, ha forma circolare ed è rinforzato da sette torri di difesa. Il suo aspetto massiccio in cima alla collina, che fa quasi da sfondo alle suggestive rovine della città, contribuisce a dare un aspetto quasi fantastico a questo splendido sito archeologico e colpisce l’immaginazione dei visitatori, evocando sensazioni romantiche e lasciando un ricordo indimenticabile di Palmira, la città carovaniera della mitica Zenobia.

Nella pagina accanto: Il tempio di Yblabal

Sotto: Una splendida veduta dall’alto dei resti della città di Palmira e dell’oasi

Sopra: La tomba sotterranea denominata dei “tre fratelli”

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LA CONSERVAZIONE

L

a stragrande magQUALE PATRIMONIO NUMISMATICO gioranza, in ITALIANO ? termini quantitativi, del pa-trimonio culturale italiano è composta da oggetti di piccole dimensioni che per la loro stessa natura sembrano non dare alcun problema ai conservatori di musei o collezioni d’arte in genere. Si sta alludendo al patrimonio numismatico, costituito da monete e medaglie dall’età greca all’età contempora-

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A sinistra: Zecca di Roma:asse fuso in bronzo della serie della prora di nave In basso: Ripostiglio di monete fuse da S. Marinella (Roma) Sotto: Aes signatum in bronzo


In alto, a sinistra e a destra: Zecca di Roma: semisse fuso in bronzo In basso: Ripostiglio di monete dell’età tardo imperiale

nea conservato, ma sarebbe più giusto usare il termine ‘disperso’, tra musei statali, musei locali e collezioni private, queste ultime comunque parte dello stesso patrimonio. Alcune migliaia di monete possono essere tranquillamente infilate in uno dei cassetti della scrivania del direttore e rimanere lì per anni senza costituire un problema. Migliaia di statue, urnette o vasi hanno, invece, sempre obbligato i responsabili a trovare una soluzione, almeno di immagazzinamento, ma anche di esposizione e, quindi, di catalogazione. Un’indagine conoscitiva condotta qualche anno fa ha mostrato come in Italia vi siano 239 musei pubblici (da A come Acireale a V come Volterra) che hanno un medagliere-monetiere-gabinetto

numismatico o comunque un nucleo di monete di età antica, medievale e moderna. La stessa indagine ha verificato come solo il 20% dei musei contattati è stato in grado di fornire numeri precisi sulla consistenza delle rispettive collezioni numismatiche, un altro 20 % ha fornito cifre approssimate per difetto o per eccesso sui diversi nuclei ed il rimanente 60% alla domanda-tipo sull’esistenza di monete romane ha risposto “si”, solamente “si”. Nel frattempo alcuni musei tra quelli “intervistati” nell’indagine hanno candidamente ammesso che le monete già possedute erano state, nel frattempo, rubate. Questa dei musei visitati da ladri è una lista molto lunga, che si allunga ogni giorno di più,

nonostante le asserite misure di sicurezza messe in atto. Ed ovviamente, se non si ha coscienza del posseduto, non si è nemmeno in grado di individuare le eventuali assenze! E tutto ciò nonostante i giacimenti culturali, i grandi progetti catalogatori che hanno percorso in lungo e in largo la penisola negli ultimi venti anni già negli anni Settanta con schede cartacee RA, N di tutti i tipi, grandezze e colori. L’unica concretezza rimangono i grandi cataloghi compilati, ma solo per le maggiori collezioni pubbliche italiane: a Torino per tutte le monete consolari e imperiali romane e bizantine (10384 esemplari), catalogate e pubblicate da Fabretti, Rossi e Lanzone nel 1881; a Firenze per le monete

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greche, romane repubblicane ed imperiali, medievali e moderne catalogate dal Direttore delle Gallerie Granducali, Michele Arcan-gelo Migliarini, tra il 1841 e il 1852; a Napoli per le monete greche e medievali della Collezione Santangelo, catalogate da Giuseppe Fiorelli negli anni 1866-1867; a Roma, nel più grande (solo per i numeri, non per la qualità del servizio!) medagliere del mondo, la grande stagione di inventariazione e di catalogazione è opera di Seconda Lorenzina Cesano, Direttrice del Medagliere per quasi mezzo secolo, collocata a riposo nel 1947! Intanto dovremmo cominciare a dar retta ai Carabinieri che da anni insistono nel ricordarci (ma noi testardi a non ascoltare!) che la migliore tutela del patrimonio numismatico non consiste affatto nel chiudere le monete in una cassaforte e la cassaforte chiuderla in un caveau, perché quando si va ad aprire quella cassaforte, in maniera inspiegabile, qualcuno degli oggetti non risponde più all’appello. La migliore tutela, come 72

Sopra: Gruzzolo di monete tardo antiche e suo contenitore Sotto: Zecca di Roma: aureo con testa gianiforme Nella pagina accanto, in alto a sinistra: Zecca di Roma: asse di Nerone (54- 68 d.C.)

Nella pagina accanto, in alto al centro: Zecca di Roma: denario in argento di Galba (68 d.C.) Nella pagina accanto, in alto a destra: Zecca di Roma: aureo di Faustina I, moglie di Antonino Pio (138-161 d.C.) Nella pagina accanto, in basso: Zecca di Roma: aureo di Adriano (117-138 d.C.)


insegnano i Carabinieri, è, invece, la pubblicazione delle stesse monete nel senso latino di ‘rendere pubblico’: pubblicazione dei dati scientifici perché siano di utilità agli studiosi che continuano ad utilizzare per le loro ricerche i dati dei vecchi repertori di fine Ottocento ed inizi Novecento; esposizione (non la chiusura nelle casseforti) al pubblico degli studiosi e degli appassionati di nuclei di monete perché le stesse siano conosciute e riconosciute come un bene di proprietà dello Stato (si scrive “dello

Stato”, ma si deve leggere “di tutti i cittadini”). Nella situazione di piena emergenza con furti continui nei nostri musei-colabrodo non possiamo permetterci di inseguire ancora la scheda perfetta, ma occorre rispondere con sensate azioni di emergenza. Dobbiamo garantire in tempi brevi almeno una “carta di identità” per ogni moneta o medaglia del nostro patrimonio, riportando gli stessi limitati dati che sono sui nostri documenti personali, dove non è raccontata

tutta la storia della nostra vita, ma sono segnati quattro dati ed una foto, sufficienti per riconoscerci ed essere riconosciuti. Se la tutela è fatta anche di prevenzione, questo sembra un buon inizio. Avremo dopo tutto il tempo per completare la ‘scheda d’identità’ con gli altri dati di riferimento e fare i grandi cataloghi, così da sostituire, finalmente, i cataloghi ottocenteschi, e accapigliarci sulle cronologie delle diverse serie che non coincidono mai. Esistono splendide collezioni numismatiche, donate o acquistate dallo Stato per le strutture museali pubbliche; esistono nuclei di monete frutto di rinvenimenti dal territorio nella prima metà del secolo scorso, di cui si ignora da sempre la reale consistenza perché non sono mai state inventariate e neppure semplicemente contate. Esiste un’ex collezione privata donata al popolo italiano 63 anni fa che ancora oggi non è stata interamente fotografata (lo è per non più del 20%!) e dunque non è tutelata e nemmeno inventariata (lo è per poco più del 10%) e pertanto non è ancora entrata a far parte del patrimonio ufficiale dello Stato. Mi riferisco chiaramente alla Collezione Reale, la più grande e importante collezione di monete italiane al 73


Sopra: Zecca di Roma: aureo di Traiano (97-117 d.C.) Sotto, al centro: Zecca di Roma: aureo di Caracalla (211-217 d.C.) In basso, a sinistra: Zecca di Roma: aureo di Nerva (96-97 d.C.)

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Sotto: Zecca di Roma: denario in argento di L. Bruto

mondo. Fu donata nel 1946 dal re Vittorio Emanuele III, in partenza per l’esilio, e lo Stato repubblicano, certamente imbarazzato dal dono, ha tenuto nascosta la collezione agli italiani, veri proprietari del bene, dapprima in locali del Quirinale, e poi trasferendola, agli inizi degli anni Cinquanta presso l’Istituto Italiano di Numismatica e quindi nel Museo Nazionale Romano. Fortunatamente, durante la permanenza nell’Istituto di Numismatica, sulla collezione è stato effettuato un riscontro da parte di Pietro Oddo, ultimo segretario numismatico del re e primo conservatore della collezione per lo Stato repubblicano, con l’elaborazione di un registro per ogni armadio ed un conteggio finale di 116.149 monete. In quegli anni erano assenti tutte le monete di Casa Savoia, che re Vittorio Emanuele III aveva portato con sé in esilio. Il figlio, re Umberto II, volle


donare anche quella parte all’Italia e nel 1983, per suo espresso volere testamentario, altre 8316 monete furono consegnate al Medagliere del Museo Nazionale Romano. Ma di tutta questa ricchezza quanto è stato visto ed apprezzato dal popolo italiano? La prima esposizione risale al 1990, quando circa 1.500 monete della Collezione Reale, dal V secolo d.C. al regno di Vittorio Emanuele III, sono state esposte nel Museo Nazionale Romano. Ma sono state esposte solo quelle (poco più della centesima parte!), sempre le stesse, senza alcuna rotazione negli anni con altri nuclei o con esposizioni a tema su un periodo, una zecca, come se non vi fosse altro materiale da esporre. Eppure in quella collezione vi sono 1500 anni di storia della penisola italiana che molti italiani, i proprietari del bene, ignorano.

Sopra: Solido di Costanzo II (337-361 d.C.) Sotto: Venezia: osella di Silvestro Valier Doge CIX (1694-1700)

Sogno di poter dire al sindaco di Brescello, cittadina nota per le dispute cinematografiche tra Don Camillo e Peppone, che la sua città è stata sede di zecca, pur se per un breve periodo! E probabilmente il sindaco di Brescello ed i suoi concittadini lo ignorano! Sogno di poter fare la stessa cosa con i sindaci dei comuni di Desana, Tessennano, Bardi, Guardiagrele, Manoppello ed altri ancora che potrebbero ignorare che la loro città è stata sede di zecca! Sogno di poter riunire tutti i circa 300 sindaci di questa Italia numismatica! Sogno di poterlo fare per il 2011 in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia! Sogno di poterlo fare nell’aula del Parlamento Italiano, il simbolo stesso dell’Italia! Tutti i sindaci e tutti i loro gonfaloni riuniti assieme: l’Italia numismatica!

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INTRODUZIONE

I

l 17 novembre del 9 d.C., in un DIVUS villaggio delVESPASIANUS l’antica Sabina, noto con il nome di Vicus Phalacrinae (odierna Cittareale), nacque Titus Flavius Vespasianus, futuro imperatore di Roma e fondatore della dinastia dei Flavi. Nella ricorrenza del bimillenario della sua nascita, Roma celebra questo avvenimento dedicando una serie di mostre nell’area archeologica centrale (Colosseo, Curia del Foro, Criptoportico neroniano sul Palatino), cui si abbinano alcuni interessanti percorsi didattici attraverso i principali monumenti, voluti proprio da Vespasiano e dai suoi figli Tito e Domiziano, che nel corso dei

secoli sono divenuti simboli indiscussi della grandezza dell’Urbe (Tempio della Pace, Meta Sudante, Arco di Tito, Tempio del Divo Vespasiano, Palazzo imperiale sul Palatino). Di sicuro interesse è la piccola esposizione allestita sul Campidoglio e dedicata all’operato della dinastia Flavia su questo colle, anche in memoria degli importanti eventi storici di cui si avrà modo di dire in seguito - che determinarono uno stretto legame fra la nuova gens imperiale e il Colle.


GLI ANNI PRECEDENTI IL PRINCIPATO

Nella pagina accanto, in alto: Gigantografia del ritratto di Vespasiano sulla piazza del Colosseo Nella pagina accanto, in basso: Veduta parziale dell’ambulacro superiore esterno del Colosseo sede dell’allestimento della mostra. A sinistra: Idem. Ambulacro superiore interno. Sotto: Ara funeraria di Antonia Caenis, concubina di Vespasiano da Roma.

Lo storico romano Gaio Svetonio illustra in modo autorevole le origini e la successiva carriera di Vespasiano, figlio di un esattore delle imposte, Flavio Sabino, e di Vespasia Polla, appartenente all’antica e nobile famiglia dei Vespasi, che acquisì nel tempo ricchezza e potere politico in tutta la Sabina. Dopo aver trascorso l’infanzia in parte con il padre ad Aventicum (Svizzera) e in parte tra la Sabina e l’Etruria, il giovane Vespasiano venne avviato dalla madre alla carriera politica. Fu così che dopo aver passato un periodo in Tracia per svolgere il servizio militare in qualità di tribuno, si recò con la carica di questore a Creta e Cirene, conseguendo poi l’edilità e la pretura. A questi anni risale il suo matrimonio con Flavia Domitilla da cui ebbe tre figli, Tito, Domiziano e Domizia. Purtroppo il destino delle due donne, legate alla sua famiglia, fu infausto, poi-

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ché morirono molto tempo prima del suo avvento al trono imperiale. Da quel momento in poi, Vespasiano riprese i rapporti con la liberta Cenide, con la quale visse anche durante gli anni del principato, considerandola non tanto come amante o compagna, ma come una legittima moglie, cui spesso l’imperatore si rivolgeva prima di prendere decisioni politiche. Sotto i principati di Claudio e Nerone, Vespasiano si distinse come grande condottiero grazie alla sua abilità e valenza nel campo delle arti militari. Prima in Germania e poi in Britannia sottomise alcune popolazioni ribelli e più di venti città (fra cui va annoverata la ben nota isola dei Vecti, odierna isola di White), giungendo così ad ottenere da Claudio le insegne del trionfo. Ricoprì il consolato nel 51 d.C. e nel 63 d.C. divenne governatore dell’Africa. Anche se queste cariche accrebbero l’imma-

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gine e la notorietà di Vespasiano presso il popolo e il senato di Roma, al ritorno dall’Africa, una serie di eventi sfavorevoli lo fece cadere in disgrazia. Dapprima, infatti, dovette vendere tutte le sue proprietà per venire in aiuto del fratello, e ciò lo costrinse a svolgere lavori umilissimi, fra cui il mercante di bestiame; in seguito, chiamato da Nerone a far parte del suo seguito durante il viaggio in Acacia (Grecia), venne poco dopo

escluso dalla corte imperiale poiché evitava di partecipare alle esibizioni canore di Nerone o si addormentava quando era obbligato ad assistervi. Ritiratosi in un piccolo borgo, subì la sorte avversa finché una nuova circostanza non modificò di nuovo il suo destino. Nel 66 d.C. una nuova rivolta in Giudea minacciò il controllo romano della provincia e nel timore che tale ribellione si potesse rapidamente propagare in tutto l’Oriente, Nerone si affrettò ad inviare Vespasiano a sedare l’insurrezione popolare. Malgrado fosse ancora inviso, la scelta cadde proprio su di lui poiché se da un lato, le sue doti di condottiero erano ancora valide, dall’altro, le umili condizioni, nonché la modesta discendenza e la mancanza di alleati politici o di fedeli collaboratori, non potevano di certo destare alcuna preoccupazione qualora avesse ottenuto importanti successi. In breve tempo Vespasiano ristabilì l’ordine in tutta la provincia della Giudea, sottomettendo la Galilea e occupando la Perea, la Samaria, l’Idumea e arrivando infine a stringere d’assedio Gerusalemme. Ma nel giugno del 68 d.C. arrivò da Roma la notizia del suicidio di Nerone e tutte le operazioni belliche furono sospese in attesa dei nuovi eventi.


Nella pagina accanto, in alto: Moneta di Vespasiano con la raffigurazione sul rovescio della Giudea sottomessa Nella pagina accanto, in basso: Denario Aureo di Galba imperatore (68/69 d.C.) In basso: Particolare della testa da una statua di Otone conservata al Louvre, Parigi A destra: Busto ritratto di Aulo Vitellio Germanico

Nella pagina successiva, in alto: Veduta del lato est dell’obelisco di Domiziano ora a piazza Navona dove sono riportati i nomi dei Flavi Nella pagina successiva, in basso: Pyramidion posto a coronamento dell’obelisco di Domiziano. Musei Vaticani, Roma

Si giunge così al fatidico anno 69 d.C., quello che decretò la vera e propria svolta nella vita di Vespasiano: l’anno della cosiddetta “anarchia militare” o “l’anno dei quattro imperatori”. Gli avvenimenti convulsi di quell’anno e i numerosi capovolgimenti di fronte che portarono al trono imperiale Vespasiano, si possono così sintetizzare. Dopo il suicidio di Nerone, Sulpicio Galba, governatore della Spagna, venne acclamato imperatore dal Senato e dal popolo di Roma. Contemporaneamente, Aulo Vitellio, comandante delle truppe stanziate in Germania, fu proclamato imperatore dalle sue stesse legioni. Nell’accanita contesa per il potere fra Galba e Vitellio, si inserì, a questo punto, la figura di Salvio Otone, governatore della Lusitania, già acerrimo nemico di Nerone e, fino a quel

momento, leale amico di Galba. Ma quando quest’ultimo nominò come suo successore, mediante adozione, Calpurnio Pisone, Otone si sentì tradito e trovò in breve tempo alleati nei pretoriani, il corpo dimenticato da Galba, da cui a sua volta si fece proclamare imperatore. Dopo aver teso una trappola a Galba, che fu massacrato insieme al figlio adottivo Calpurnio Pisone ai piedi del Campidoglio, Otone ricevette la solenne investitura da parte del Senato e del Popolo di Roma. Restava ancora aperta la questione con Vitellio, che trovandosi in Dalmazia, era stato nel frattempo riconosciuto come imperatore anche dalle truppe di Aquitania, Spagna e Britannia. Questa ingente moltitudine di soldati stava marciando velocemente verso Roma al comando di Vitellio e, dopo il tentativo compiuto da Otone di trovare un accordo sull’eventuale divisione dell’Impero, non si potè scongiurare la guerra civile. L’esercito di Otone, con a capo generali incapaci e pronti al tradimento, si mosse quindi verso nord e nell’inevitabile scontro, avvenuto sulle sponde del Po, presso la località di Bedriatico, subì una tremenda sconfitta. A tale notizia Otone, che ancora non

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aveva raggiunto le sue truppe, si tolse la vita. Il nuovo imperatore Vitellio si manifestò immediatamente come un tiranno sanguinario e senza scrupoli, prima umiliando le sue stesse truppe e più di tutte quelle dei pretoriani che erano state fedeli a Otone, e in seguito permettendo alle sue legioni, che marciavano vittoriose verso Roma, di eseguire qualsiasi genere di razzia e scempio dei villaggi e territori incontrati lungo il percorso. A Roma poi, le cose non andarono meglio: Vitellio in breve tempo si attirò disprezzo e disgusto per il suo operato finché, al culmine dell’intolleranza, non si pensò a un nuovo imperatore. Questi altri non poteva essere se non Vespasiano. Le legioni stanziate in Giudea, Siria ed Egitto lo avevano già acclamato imperatore, ma attendevano il volgersi degli eventi. Era il momento propizio per muoversi. Vespasiano marciò velocemente su Roma, lasciando il compito di portare a termine la campagna bellica contri i Giudei al figlio Tito. Lo scontro con i Vitelliani fu cruento e violentissimo e nei combattimenti, avvenuti dentro e fuori la città, fu incendiato il Campidoglio. Vitellio fu barbaramente ucciso dalla folla delirante e Vespasiano posto ufficialmente sul trono imperiale alla fine del dicembre del 69 d.C. Si inaugurava così il periodo di dominio della dinastia dei Flavi. Vespasiano diede corso a una nuova struttura politica e amministrativa, caratterizzata da una guida prestigiosa, saggia, intelligente, in contrapposizione alle leggi tiranniche e agli abusi commessi durante il governo di Nerone e dei suoi successori nell’anno dell’anarchia militare.

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CARATTERE E PERSONALITÀ DI VESPASIANO

Questa breve digressione sulla vita di Vespasiano fino alla presa del potere si è resa necessaria non solo per comprendere gli avvenimenti che portarono al trono imperiale questo homo novus, rappresentante di una élite italica e provinciale subentrata al potere finora esercitato esclusivamente dall’aristocrazia senatoria, ma anche per sottolineare come siano emerse dall’interno della civiltà e della cultura romana, in un periodo di particolare difficoltà e vuoto di potere, proprio quelle energie vitali sempre presenti nell’impero e

In basso, a sinistra: Veduta dell’ingresso all’area espositiva del Colosseo In basso, a destra: Veduta del Capitolium di Brescia realizzato da Vespasiano nel 7374 d.C.

capaci di rimodulare il corso della storia a favore di Roma. L’ascesa della dinastia dei Flavi resta pertanto un fatto epocale, più volte sottolineato dagli stessi autori antichi, in particolare da Svetonio che così esordisce nel narrare la vita e il carattere di Vespasiano: Rebellione trium principum et caede incertum diu et quasi vagum imperium suscepit firmavitque tandem gens Flavia, obscura illa quidem ac sine ullis maiorum imaginibus, sed tamen rei publicae nequaquam paenitenda… (“L’Impero, reso a lungo instabile e quasi vacillante dalla rivolta e dalla morte di tre principi, fu alla fine raccolto e consolidato dalla famiglia Flavia, che fu senza dubbio oscura e senza antenati degni di rilievo, ma di cui, ad ogni modo, lo Stato non ebbe mai motivo di rammaricarsi…”).

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LA RASSEGNA DEL COL

Per quanto riguarda il carattere e l’indole di Vespasiano sono particolarmente illuminanti due brani tratti dallo storico Tacito (Historiae, II, 5, 1): Vespasianus acer militiae anteire agmen, locum castris capere, noctu diuque consilio ac, si res posceret, manu hostibus obniti, cibo fortuito, neste habituque vix a gregario milite discrepano; prorsus, si avaritia avesse, antiquis ducibus par (“Vespasiano era un duro combattente, precedeva l’esercito in marcia, predisponeva personalmente le tappe, notte e giorno faceva fronte al nemico con la sua decisione e, quando necessario, impegnandosi personalmente: indifferente al cibo, lo si poteva a malapena distinguere da un

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semplice soldato, per l’aspetto e per l’abito. Insomma, eccettuandone l’avidità, era degno di stare alla pari con i condottieri antichi”). Infatti, a questo proposito sempre Tacito informa (Annales, III, 55, 3): Sed praecipuus adstricti moris auctor Vespasianus fuit, antoquo ipse cultu victuque. Obsequium inde in principem et aemulandi amor validior quam poena ex legibus et metus (“Ma il principale promotore del ritorno all’austerità dei costumi fu Vespasiano, che nel suo tenore di vita si attenne sempre a una semplicità di antico stampo. Perciò la deferenza verso il principe e il desiderio di emularlo furono più efficaci della paura che ispirano le sanzioni di legge”).

Vespasiano è sicuramente uno dei pochissimi personaggi storici, dall’antichità ai nostri giorni, che possa vantare di aver avuto come sede di una mostra riguardante sé, la sua famiglia e il suo operato, un edificio da lui stesso voluto e realizzato e nel contempo simbolo indiscusso di Roma nel corso dei secoli. L’Anfiteatro Flavio infatti è il monumento che meglio di qualunque altro rappresenta il nuovo corso politico inaugurato dalla dinastia Flavia. La mostra, organizzata al primo piano dell’edificio, si divide in sei sezioni che illustrano, a partire dalle origini sabine di Vespasiano, il carattere e le imprese dei componenti della dinastia Flavia, gli inter-


A ESPOSITIVA LOSSEO

venti urbanistici che interessarono la nuova Roma durante il loro regno, la propaganda di Domiziano, i Flavi in Italia (con particolare riferimento alle città vesuviane) e nel resto dell’Impero.

LE ORIGINI SABINE E LA DINASTIA FLAVIA

La prima opera che si ammira è uno dei ritratti più noti del nuovo imperatore, conservato a Copenaghen, da cui è possibile già comprendere le innovazioni apportate in epoca flavia anche nel campo dello stile artistico e soprattutto della ritrattistica. Questa infatti, a partire da Augusto, si era ispirata, date le nobili ascendenze della famiglia Giulio-Claudia, a modelli ed incarnati cari all’ellenismo greco, idealizzando spesso i volti dei personaggi nei diversi tratti somatici. Con Vespasiano si attua una rivoluzione che prevedeva, al contrario, nella rappresentazione del volto, un crudo realismo che rievocava le antiche virtutes dell’età repubblicana.

Nella pagina accanto, in alto: Particolare dell’iscrizione dedicatoria di Vespasiano nel Capitolium di Brescia Nella pagina accanto, in basso: Denario Aureo di Vespasiano imperatore (69 d.C.) In basso, al centro: Il Colosseo visto dal Palatino A sinistra: Ritratto di Vespasiano Sotto: Veduta della sezione iniziale della mostra sulle origini sabine della dinastia Flavia

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Dal ritratto emerge infatti l’immagine di un uomo di età matura (Vespasiano salì al potere a 60 anni), concentrato e determinato (come sottolinea la contrazione dei muscoli della fronte), dotato di saggezza, esperienza e moralità, come suggeriscono le rughe della fronte, le cosiddette “zampe di gallina” ai lati degli occhi e, in

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generale, tutta la struttura del volto reso in maniera alquanto concreta. Il messaggio a questo punto è assai chiaro: Vespasiano non poteva contare su nobili e illustri antenati o su una prestigiosa genealogia cui riallacciarsi e pertanto si affida a quelli che erano i suoi veri valori e la sua indole di condottiero valoroso e onesto, di fidato servitore della patria sotto tutti i punti di vista. E questo poteva emergere solo da questo tipo di immagine. Gli altri ritratti esposti in questa prima parte della mostra, fanno risaltare, in alcuni casi, un tentativo di rendere il volto di Vespasiano più giovanile e classicheggiante, mantenendo comunque intatte le caratteristiche già viste nel ritratto principale. Si tratta probabilmente di ritratti postumi, quando la divinizzazione dell’imperatore permise una certa idealizzazione del suo volto. Resta anche da segnalare il

In alto, a sinistra: Ritratto di Vespasiano da Napoli (?). Ny Carlsberg Gliptotek, Copenaghen Sopra: Ritratto di Vespasiano con corona civica da Minturnae. Palazzo Massimo, Roma Sotto: La seconda sezione dedicata ai componenti della dinastia dei Flavi


ritratto con corona civica proveniente da Minturnae e conservato al Museo Nazionale Romano: uno dei pochi ritratti coronati che ci sia rimasto e che ricorda le imprese belliche di Vespasiano che portarono alla conclusione delle guerre civili del 69 d.C. In questa sezione e nella seguente sono esposti anche i ritratti degli altri esponenti della dinastia Flavia a partire dai figli Tito e Domiziano per continuare con Giulia, la figlia di Tito, Domizia Longina, la sposa di Domiziano. Anche Tito presenta caratteri fortemente individualizzati, con una struttura massiccia del volto, mento sporgente, guance e collo adiposi. Le fonti antiche si soffermano molto sulle facoltà morali e sulle qualità fisiche del figlio primogenito di Vespasiano. Particolarmente noto è un passo di Svetonio che lo descrive così: Amor ac deliciae generis humani (“Amore e delizia dell’umanità”). Già abile e valente condottiero, Vespasiano lo volle al suo fianco nelle campagne in Giudea e quando dovette rientrare a Roma per la sua elezione a imperatore, Tito prese il comando delle legioni portando a compimento il bellum Iudaicum, in primo luogo con la presa di Gerusalemme e la

distruzione del tempio nel 70 d.C., e in seguito con la conquista dell’ultimo avamposto ebraico, la fortezza di Masada, nel 74 d.C. Alla morte del padre, divenne imperatore, governando con grande consenso su tutto l’impero, ma morì tragicamente all’età di 41 anni e dopo soli due anni di regno per una grave malattia o - secondo alcuni storici - per essere stato avvelenato dal fratello Domiziano. Diversamente, il principato di Domiziano viene ricordato come un periodo di tirannia e di terrore attuato da questo personaggio megalomane e particolarmente ambizioso, a tal punto da farsi chiamare ancora in vita dominus ac deus, meritandosi così alla sua morte la damnatio memoriae, decretata dal Senato verso coloro che con la loro linea politica fossero andati contro i principi e i valori della tradizione, della

In alto, a sinistra: Ritratto di Tito da Pantelleria. Museo di Mazara del Vallo Sopra: Ritratto di Vespasiano da Lucus Feroniae. Museo di Lucus, Capena Sotto: Statua di Giulia di Tito dall’isola tiberina. Palazzo Massimo, Roma

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Nella pagina accanto: Ritratto di Domiziano già a Villa Borghese. Musei Capitolini, Roma Sopra: Specchio con l’immagine di Domiziano. Badisches Landmuseum, Karlruhe

In basso, a sinistra: Ritratto di Domizia (?). Palazzo Massimo, Roma In basso, a destra: Ritratto di Giulia di Tito dalla Collezione Ludovisi. Palazzo Altemps, Roma

legge e della religione romana. Nella mostra sono esposti tre ritratti di Domiziano che ne svelano i principali tratti somatici, tradendo la familiarità con il padre e il fratello, e soprattutto la tipica acconciatura costituita da lunghe bande ondulate e tirate in avanti dalla nuca verso le tempie, espediente questo usato probabilmente per nascondere una precoce calvizie. Per quanto riguarda i ritratti delle donne della famiglia dei Flavi (Giulia, figlia di Tito e Domizia, moglie di Domiziano) va ricordata l’esclusiva moda nell’acconciare i capelli, inaugurata proprio in questo periodo: sulla nuca i capelli sono raccolti in uno chignon intrecciato, mentre sulla fronte si alza una voluminosissima corona di riccioli che formava il toupet. Si noti la paziente lavorazione dei riccioli circolari, dettagliatamente scolpiti e forati al centro con il trapano.

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LA NUOVA ROMA

Questa sezione è dedicata all’intensa attività edilizia avviata da Vespasiano a Roma, dopo che fu investito della porpora, e proseguita con grande efficienza dai figli che gli successero al principato. Attraverso planimetrie,

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plastici e pannelli didattici vengono ripercorse le principali tappe del programma urbanistico dei Flavi, i cui edifici costituiscono, ancora oggi, la principale ossatura della città antica conservata, nonché della stessa città moderna.

L’itinerario espositivo è arricchito da molti reperti in parte noti e in parte provenienti dai recenti scavi eseguiti nell’area archeologica centrale. Quando nell’autunno del 70 d.C. Vespasiano giunse a Roma per essere incoronato imperatore, trovò una città ancora devastata, sia dagli scontri bellici avvenuti nel corso del precedente anno, sia da quell’incendio che nel 64 d.C. aveva distrutto gran parte dei principali edifici pubblici e privati dell’Urbe. In particolare il Campidoglio, che fu il teatro dei sanguinosi


Sotto: Veduta generale della terza sezione della mostra: la nuova Roma Sopra: Iscrizione commemorante il restauro del tempio della Magna Mater a Ercolano. Museo Archeologico, Napoli. In basso, a destra: Cippo pomeriale di Vespasiano da via di Campo Marzio/via della Torretta, Roma

scontri fra Flaviani e Vitelliani, era ridotto in macerie, compreso il tempio di Giove Capitolino, centro religioso di Roma e di tutto l’impero. Proprio dalla riedificazione di questo tempio e di altri edifici sul sacro colle di Roma si avviò l’opera di ricostruzione di Vespasiano. Ma gli interventi nella città non furono casuali o destinati solo al rifacimento di quanto distrutto. Architetti, ingegneri e tutte le maestranze furono coinvolte in un progetto ben chiaro e definito che partiva da un ampliamento del pomerio per concludersi con la creazione di architetture che fossero funzionali alle diverse esigenze del popolo, in contrapposizione a quanto venne fatto da Nerone, che aveva espropriato gran parte del suolo pubblico per la realizzazione delle sue dimore. Ecco dunque la nascita dell’Anfiteatro Flavio, proprio nel luogo dove sorgeva quel lago artificiale (stagnum) che costituiva il fulcro della colossale dimora neroniana (Domus Aurea). E con esso la realizzazione di altri edifici, dislocati nei dintorni, fra le pendici del Celio e dell’Oppio, che dovevano servire al perfetto funzionamento dei giochi: Saniarium (ospedale dei gladiatori), Spoliarum (una sorta di obitorio), Armamentarium (deposito delle armi e di altre suppellettili per i giochi), Summum Choragium (magazzino per gli

scenari e i costumi), come pure i fabbricati adibiti ad accampamenti o palestre gladiatorie (Ludus Magnus, Matutinus, Dacicus, Gallicus). Nel novero delle numerose indagini archeologiche che hanno interessato il Colosseo durante il XX secolo ricoprono particolare interesse i risultati emersi dagli scavi eseguiti alla metà degli anni Settanta all’interno dei collettori ipogei. Con l’intenzione di ripristinare il necessario deflusso di acque piovane e di falda, sfruttando la rete fognaria antica, le indagini si sono concentrate sui collettori ovest ed est, liberandoli non solo dai detriti e accumuli moderni, ma anche dalle stratigrafie formatesi durante l’epoca di vita dell’Anfiteatro Flavio. Tra i reperti osteologici, numerosissimi, oltre ad animali utili all’alimentazione quali i bovidi, si è accertata la


presenza di frammenti ossei di cigni, rapaci, pantere, leoni, cani lupo, cervi, daini e orsi. Ragguardevole è un cranio di orso e un altro di cavallo (esposti nella sezione che precede l’avvio della mostra) oltre a vari resti di felini. L’ingente bottino di guerra accumulato grazie ai trionfi in Giudea permise a Vespasiano di realizzare - a perenne ricordo della conquista di Gerusalemme - una nuova piazza forense dedicata alla Pace ristabilita nell’impero. Plinio la ricorda tra le meraviglie di Roma e soprattutto ci informa che al suo interno erano conservate famosissime opere d’arte greca, che dopo essere state trasportate a Roma in seguito ai brutali saccheggi di Nerone, vennero disposte nei saloni della Domus Aurea. Con questo ulteriore atto di munificenza, la politica di Vespasiano tendeva a dimostrare di aver restituito al Popolo ciò che


impropriamente Nerone aveva sottratto per sé. Il templum Pacis, realizzato fra il 71 d.C. e il 74 d.C., era costituito da un’aula absidata, in cui era conservato il simulacro della Pace, fiancheggiata da ambienti adibiti a biblioteche e affacciata su una corte quadriporticata in cui vennero disposte aiuole e giardini. La mostra espone alcuni reperti pertinenti alla decorazione del tempio della Pace, in parte noti, come un frammento di fregio-architrave con vittoria tauroctona e vari frammenti di capitelli di lesena figurati, in parte rinvenuti nei recenti scavi, come il frammento di sima con protome leonina e quello appartenuto a una statua maschile loricata. Oltre alle opere d’arte greca e ai Nella pagina accanto, in alto: Cranio di orso dal collettore ovest dell’Anfiteatro Flavio Nella pagina accanto, in basso: Cranio di equide dal collettore ovest dell’Anfiteatro Flavio Sopra: Frammento di fregio con vittoria tauroctona dagli scavi del Templum Pacis (1998-2000) A destra: Capitello figurato di lesena frammentario con bucranio e ghirlanda, dal Templum Pacis Sotto: Tegole con coppo e frammento di sima in marmo dagli scavi del Templum Pacis (2000-2004)

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simboli della religione ebraica sottomessa (tra cui il noto Menorah, ossia il candelabro a sette bracci, l’Arca dell’Alleanza e le ben note trombe d’argento), il templum Pacis conservava anche, in una sala posta a sud-ovest del tempio, la pianta marmorea di Roma, meglio conosciuta come Forma Urbis. Realizzata in scala 1:240, numerosi frammenti, a partire dal 1562, furono rinvenuti nella zona dove era disposta originariamente e che oggi corrisponde a quella grande parete in laterizio posta a destra dell’ingresso alla chiesa dei Ss. Cosma e Damiano. La rassegna del Colosseo espone diversi frammenti della Forma Urbis, appartenenti però all’edizione di età severiana (205-208 d.C.) e principalmente quelli pertinenti alle aree della città che furono interessate dagli interventi urbanistici della Dinastia Flavia: il templum Pacis, la porticus Minucia Frumentaria (corrispondente

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all’attuale zona di piazza Argentina), l’area del Campo Marzio, occupata dai monumenti celebrativi della dinastia Flavia e dall’Iseo e Serapeo, il Palatino, in cui si concentrò l’attività dell’unico architetto conosciuto di questa epoca: Rabirio. Provengono dall’Area Sacra di piazza Argentina due magnifiche teste di divinità femminili esposte in questa

Sopra: Le Teste colossali dall’area sacra di largo Argentina (Feronia e Giuturna?). Magazzini dell’area del Teatro di Marcello, Roma In basso, a sinistra: Il Templum Pacis nei frammenti della Forma Urbis Sotto: Le teste colossali dall’area sacra di largo Argentina nella sezione espositiva dell’Anfiteatro Flavio Nella pagina accanto, in alto: Domus Augustana: il peristilio inferiore con fontana


sezione: la prima probabilmente si riferisce all’antica divinità italica della Sabina, Feronia, verenata nel c.d. tempio D dell’Area, resa magistralmente seguendo canoni e modelli greci di V secolo a.C.; la seconda, invece, dal modellato e incarnato più morbido, secondo prototipi greci di IV secolo a.C., è stata di recente attribuita al simulacro della dea Giuturna, divinità protettrice delle acque e delle sorgenti, venerata nel c.d. tempio A dell’Area. Dopo la morte di Vespasiano e il breve regno del primo figlio Tito, seguirono i quindici anni di principato di Domiziano, scanditi da ferocissimi contrasti fra questi e il Senato e da periodi di vera autocrazia. Malgrado ciò, l’opera di Domiziano per la capitale dell’impero fu immensa: portò a compimento il Colosseo; realizzò il Foro Transitorio (in seguito ribattezzato Foro di Nerva) per dare continuità e unità armonica alle piazze forensi già esistenti in precedenza; ampliò e completò la Domus Flavia sul Palatino, che divenne la Domus Augustana, sfruttando, con fervida intuizione, le pendici del colle verso la valle del Circo Massimo; rifece integralmente il tempio di Giove Capitolino sul Campidoglio che era stato devastato da un nuovo incendio nell’80 d.C. Nel Foro Romano creò un nuovo edificio che prese il nome di Athenaeum, dove si svolgeva la scuola di retorica e oltre ai numerosissimi restauri ed abbellimenti, eresse al centro della piazza l’Equus Domitiani, la sua colossale statua equestre, dove si fece rappresentare con una statuetta di Minerva in mano e con la personificazio95


A sinistra: l’Equus Domitiani, la colossale statua equestre di Domiziano posta nel Foro Romano Sopra: Torso di Atleta. Palazzo Massimo, Roma Nella pagina accanto: Torso del Minotauro da via S. Tommaso in Parione. Palazzo Massimo, Roma

ne del Reno sotto la zampa anteriore del cavallo. Alta 18 metri, posta su un basamento di 12, che riportava, incisi, versi epici inneggianti alla vittoria conseguita nell’89 d.C. sulla tribù dei Chatti, la statua equestre era visibile da gran parte della città e soprattutto era rivolta verso la Curia, palesando - in modo sprezzante - l’indiscusso potere assoluto di Domiziano nei confronti del Senato. L’incendio dell’80 d.C. aveva anche distrutto gran parte degli edifici che sorgevano nella pianura del Campo Marzio. Domiziano, abilmente, sfruttò questa occasione sia per restaurare monumenti illustri come l’Iseo e Serapeo e la porticus 96

Minucia Frumentaria, sia per erigerne di nuovi a celebrazione della sua dinastia, dando seguito alla propaganda del suo regime assolutistico. Tra le attuali piazze del Gesù e Grazioli si estendeva infatti il Divorum, una grande piazza quadrangolare, limitata su tre lati da un muro perimetrale con portico antistante e dotata di un monumentale ingresso ad arco; all’interno erano due sacelli dedicati alla memoria del fratello e del padre. Accanto al Divorum sorse anche il Tempio di Minerva Calcidica, dea protettrice della dinastia. I nuovi edifici furono invece realizzati nel settore più a nord della pianura e destinati agli spettacoli: lo Stadio per le gare

ginniche e l’Odeon, una sorta di auditorium al coperto. Per l’occasione vennero istituite anche feste e riti annuali quali i Ludi Capitolini che resero ufficiali, per la prima volta, i giochi atletici greci a Roma (corsa semplice, corsa con le armi, pugilato, pancrazio). Il filoellenismo di Domiziano doveva rispecchiarsi anche nel programma decorativo degli edifici. La mostra, a questo proposito, espone uno straordinario torso di Minotauro, proveniente proprio dall’area intorno a piazza Navona (via di S. Tommaso in Parione) e conservato al Palazzo Massimo. Si tratta di quanto resta di un gruppo che rappresentava la cattura del Minotauro da parte di Teseo,


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copia di un originale greco collocato sull’Acropoli e il cui autore, stando alla resa stilistica, si potrebbe riconoscere in Mirone. La copia è sicuramente databile in età flavia grazie alla resa dell’acconciatura del Minotauro: i caratteristici riccioli a chiocciola con un forellino circolare al centro. Negli anni che precedettero la sua morte, Domiziano fece realizzare un nuovo monumento a celebrazione di se stesso e della sua famiglia: il templum Gentis Flaviae, citato anche dalle fonti antiche. La scelta del sito è già di per sé una chiara dimostrazione del messaggio che voleva offrire ancora in vita a tutto l’impero: rendere sacro il luogo della sua casa natale sul Quirinale. Ciò nonostante, il monumento riveste un carattere originalissimo nel panorama architettonico romano.

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Sopra: Sculture del Templum Gentis Flaviae: torsi virili e frammenti della trabeazione

Nella pagina accanto, in alto a destra: Sculture del Templum Gentis Flaviae: frammenti di rilievi con soldato

Sotto: Particolare della ricostruzione della decorazione del Templum Gentis Flaviae

Nella pagina accanto, al centro: Sculture del Templum Gentis Flaviae: frammento di rilievo con testa virile

Nella pagina accanto, in alto a sinistra: Sculture del Templum Gentis Flaviae: frammento di rilievo con testa di soldato

Nella pagina accanto, in basso: Sculture del Templum Gentis Flaviae: frammenti di rilievi con testa di Vespasiano e testa femminile (Vittoria)


Si trattava infatti di un Sacrarium che doveva avere sia la funzione di mausoleo per gli esponenti della famiglia Flavia, sia quella di tempio destinato al culto della dinastia: l’unione di queste due funzioni, in un unico edificio, non era mai stata realizzata a Roma. Gli scavi eseguiti a più riprese nel corso del XX secolo nell’area dell’attuale piazza Esedra hanno riportato alla luce sia strutture monumentali, sia frammenti scultorei che sono presentati in mostra insieme a un tentativo di ricostruzione del programma decorativo: un grande portico quadrato doveva accogliere al centro, su un alto podio, il tempio, e il recinto esterno presentava una decorazione in cui accanto alle personificazioni delle provincie assog-

gettate, fra cui con certezza la Giudea, si disponevano una scena di sacrificio e una scena di adventus (ritorno) in cui compare Vespasiano accolto da Genius Populi Romani e dalla Vittoria.


LA PROPAGANDA DI DOMIZIANO

L’intensa attività edilizia volta a celebrare la dinastia Flavia e le sue imprese, è testimoniata anche dal ritrovamento nell’area del Foro Romano, già a partire dai secoli scorsi, di numerosissimi frammenti di sculture, di cui non è stato finora possibile individuare la provenienza originaria. Definiti con il generico termine di Rilievi Statali, questi reperti sono stati per lungo tempo custoditi nei depositi della Soprintendenza di Stato e ora, grazie all’evento di questa

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mostra, si è deciso di esporne una piccola selezione. Il Foro, dunque, durante l’età Flavia e in particolare con Domiziano, si era particolarmente arricchito di monumenti che celebravano e commemoravano non solo l’operato, ma anche i diversi atti politici della famiglia imperiale, come attestano, ad esempio, un frammento di rilievo in cui compaiono personaggi dell’ordine senatorio disposti a formare un corteo che richiama il modello espressivo dell’Ara

Sopra: Rilievi statali dall’area del Foro Romano testa virile e testa di Tito (a destra) Sotto: Ambulacro superiore dell’Anfiteatro Flavio: spazio espositivo dedicato alle ultime sezioni della mostra


secondo e la sua possibilità di decidere e quindi ratificare la commemorazione delle imprese degli imperatori. Domiziano, quindi, giunse ad autocelebrarsi in maniera così frequente ed ossessiva (come si è visto con l’esempio dell’Equus) nelle aree pubbliche che, dopo la sua morte, le sue immagini e tutto ciò che ricordava le sue gesta furono velocemente fatte a pezzi dal Popolo e soprattutto dagli esponenti della classe senatoria.

In basso, al centro: Rilievi statali dall’area del Foro Romano: testa di soldato e torso loricato In basso, a destra: Immagine di Domiziano rasata in un busto ritratto in conseguenza della sua damnatio memoriae Sotto: Rilievi statali dall’area del Foro Romano: corteo rituale

Pacis; un frammento con l’immagine del volto di Tito e infine rilievi frammetari di soldati o victimari riconducibili a scene di sacrificio oppure a imprese belliche. Ciò nonostante, non è da escludere che tale frammentazione possa derivare anche dalla damnatio memoriae che colpì Domiziano alla sua morte. Il notevole contrasto e l’acceso conflitto determinatosi tra questo imperatore e il Senato era giunto, invero, ad esautorare il prestigio del

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I FLAVI IN ITALIA: LE CITTÀ VESUVIANE

Una speciale sezione della mostra è dedicata alle azioni dei Flavi in Campania, che si resero necessarie poiché, durante il loro regno, questa regione e in particolare l’area di Pompei ed Ercolano, fu

sconvolta da due calamità naturali di ingente portata: il terremoto del 62 d.C. e in seguito la devastante eruzione del Vesuvio del 79 d.C. Questi interventi contribuirono in modo sostanziale a sviluppare nel tempo, consolidandola, la convinzione, presso le popolazioni dell’impero, che in presenza di tali catastrofi, l’autorità imperiale intervenisse in aiuto e nell’opera di ricostruzione. Un grande impegno, infatti, fu profuso prima da Vespasiano per il terremoto, e poi da Tito per l’eruzione vesuviana, fino a giungere, da parte proprio di quest’ultimo ad istituire un pubblico ufficio preposto alla ricostruzione con a capo i curatores restituendae Campaniae e a finanziare le diverse operazioni di soccorso mediante il gettito derivante dai beni di coloro che erano morti senza lasciare eredi e le cui proprietà passavano direttamente nelle casse dello Stato.


Un singolare rilievo, proveniente dal larario della casa di Caecilus Iucundus a Pompei, tenta di descrivere in parte gli effetti prodotti dal terremoto

Nella pagina accanto, in basso a sinistra: Le sezioni 5 e 6 della mostra nello spazio espositivo dell’Anfiteatro Flavio Nella pagina accanto, in alto: Statua femminile acefala dal sacello degli Augustali di Miseno A sinistra: Rilievo con la rappresentazione degli effetti derivati dal terremoto del 62 d.C. nel Foro di Pompei Sopra: Statua ritratto di Flavia Iulia. Museo Archeologico Nazionale, Napoli

del 62 d.C. E’ un documento figurato unico nel suo genere che, insieme alle fonti scritte, ci aiuta a meglio comprendere quanto accadde nell’area centrale di Pompei. Da sinistra a destra si individuano un arco fortemente piegato e in cui si è giustamente riconosciuto l’arco di Druso nel Foro. Segue la raffigurazione di un tempio, anch’esso reclinato, in cui è possibile riconoscere, per l’altare posto sulla scalinata e i basamenti di due statue ai lati, il Capitolium, che sorgeva al centro del lato settentrionale del Foro. Il rilievo si conclude sulla destra con un victimario che conduce verso un altare (integro a differenza degli altri edifici) un toro per eseguire, probabilmente, un sacrificio espiatorio. A testimonianza della gratitudine delle popolazioni vesuviane per l’alacrità profusa dai Flavi nel risanamento delle città colpite dalle calamità naturali, la mostra espone alcune iscrizioni che commemorano gli interventi di restauro eseguiti a Ercolano e due statue: la prima, sempre da Ercolano, con l’immagine Tito in abito militare, la seconda, da Pompei, dedicata a Flavia Iulia. Quest’ultima è stata rinvenuta nel 1822 durante gli scavi del Macellum di Pompei. Di pregevolissimo stile, la scultura, raffigura una giovane donna in abito e con gli attributi di una sacerdotessa che sta per prendere alcuni grani di incenso con la mano destra (questa è stata erroneamente restaurata e risulta oggi trattenere una patera) dalla pisside sorretta con la sinistra. Lo schema iconografico è quello dell’Artemisia del Mausoleo di Alicarnasso (IV a.C.) e rappresenta Iulia in età giovanile e, secondo i recenti studi, sarebbe stata collocata nel Macellum poco dopo la presa del potere da parte del padre.

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I FLAVI E L’IMPERO

L’ultima sezione della mostra del Colosseo è dedicata alle iniziative politiche dei Flavi nelle provincie dell’impero. L’eredità di Nerone fu pesantissima per Vespasiano,

che trovò le casse del fisco con ammanchi di straordinaria portata. Ciò lo indusse a rivedere tutta la politica fiscale sia in Italia, sia nel resto dell’impero, mantenendo sempre un

equilibrio fra rigore ed equità. Proprio a Vespasiano, infatti, si deve una prima registrazione catastale del territorio sottomesso per distinguere meglio l’entità dei redditi da tassare e la loro natura. Successivamente, con l’intenzione di dare una maggiore stabilità ai rapporti fra centro del potere e periferia provinciale, fu illuminante la sua intuizione di estendere il diritto di cittadinanza latina a molte delle provincie spagnole, con la conseguenza che queste città poterono ottenere lo status di municipi. Grazie alla lex Flavia municipalis, infatti, fu data la possibilità alle diverse città dell’impero, di darsi un proprio statuto nel rispetto della sovranità di Roma. La conseguenza di tali innovazioni giuridiche fu l’avvio di un processo di integrazione politica delle provincie con l’Urbe, offrendo così ai cittadini delle regioni periferiche dell’impero l’opportunità, finora impensabile, di poter accedere alle cariche politiche e amministrative di Roma stessa. La mostra si conclude con una statua di Vespasiano proveniente dai recenti scavi a Narona, in Dalmatia, dove l’imperatore viene raffigurato nelle fattezze del volto con le stesse caratteristiche del tipo principale che si è visto nell’immagine che apre la rassegna, ma più stilizzato nei lineamenti somatici e in parte idealizzato. E’ importante notare che Vespasiano, qui, come in altre immagini rinvenute nelle diverse provincie imperiali, si fa rappresentare non in abiti militari ma in veste eroica, ovvero come “primus inter pares”, mostrando ancora una volta il carattere liberale e pacificatore della sua politica.


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LA RASSEGNA ESPOSITIVA DELLA CURIA NEL FORO ROMANO

All’interno della Curia è stata allestita una piccola rassegna di opere dedicate ai Flavi e riguardanti il tema del culto imperiale. Qui, infatti, sono state esposte, tra le altre opere, due colossali teste di Vespasiano e Tito, provenienti da Roma e conservate al Museo Archeologico di Napoli. Secondo i più recenti

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studi, la testa di Vespasiano, che risulta il doppio del vero, non solo tradisce la sua realizzazione postuma, ma, sempre dall’analisi stilistica e in particolare dalla resa dell’acconciatura, può anche essere a ragione collocata cronologicamente durante gli anni del principato di Tito o nel primi anni di quello di Domiziano.

Di conseguenza la testa potrebbe appartenere al simulacro di culto del templum Divi Vespasiani, realizzato alla morte di quest’ultimo dai figli e collocato ai piedi del Tabularium tra il tempio della Concordia e il Portico degli dei Consenti. Impropriamente attribuito, ancora oggi, sia a Vespasiano, sia a Tito, questo tempio, grazie all’iscrizione trascritta nell’Itinerario di Einsiedeln del IX secolo d.C., che menzionava un restauro


severiano, venne decretato in onore del solo Vespasiano e tale restò in seguito anche dopo la morte di Tito. La testa colossale di Tito, invece, alta ben 1, 52 m, pur presentando le realistiche sembianze del volto che accompagnano sempre i suoi ritratti, mostra l’intenzione di dare forme ideali, attraverso una rigida simmetria e un’attenta regolarità nell’ovale del volto, negli occhi e nell’incarnato delle guance. Anche per questa testa si è molto discusso circa la sua datazione e provenienza. Recentemente si è affermato che, visto il luogo di ritrovamento (Roma, via Pastrengo), la testa potrebbe essere appartenuta alla statua di culto del Divus Titus collocata nel templum Gentis Flaviae, voluto da Domiziano negli ultimi anni del suo regno. Ma l’opera più prestigiosa esposta nella Curia è certamente la lex de imperio Vespasiani. In occasione della mostra i Musei Capitolini, presso cui il documento è

conservato dal 1576, nell’ambito di una serie di interventi di restauro che dopo circa tre secoli hanno portato a smurare la lastra bronzea dal suo luogo di collocazione (una parete della Sala del Fauno nel Palazzo Nuovo), hanno concesso il prestito dell’opera per la sua esposizione nella Curia. La lex de imperio Vespasiani, nota anche come lex regia, venne promulgata e redatta fra la fine del 69 d.C. e l’inizio del seguente anno. In essa vengono attribuiti al nuovo imperatore i poteri necessari per avere un controllo totale sulla vita politica, amministrativa e religiosa

A pag. 104: L’accesso alla sezione 6 della mostra, sullo sfondo statua femminile acefala da Miseno A pag. 105: Statua togata di Vespasiano dall’antica Narona (Dalmatia) Nella pagina accanto, in basso: Statua loricata di Tito dalla basilica di Ercolano nell’allestimento della mostra alla Curia del Foro Romano Nella pagina accanto, in alto: Testa colossale di Vespasiano, Museo Archeologico Nazionale, Napoli A sinistra: Veduta delle pendici del Campidoglio verso il Foro Romano, sulla sinistra in evidenza le colonne del tempio di Vespasiano Sopra: Testa Colossale di Vespasiano, già collezione Farnese. Museo Archeologico Nazionale, Napoli

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denti; la clausola VIII, infine, convalida retroattivamente tutti gli atti e i decreti emanati da Vespasiano come imperatore prima dell’approvazione della stessa lex de imperio. Il testo si conclude con una Sanctio, ovvero una disposizione che pone quanto emanato al di sopra anche delle norme precedenti. Non si conosce il luogo di ritrovamento della lastra bronzea. Nel 1347 era collocata nella basilica di S. Giovanni in Laterano, luogo in cui fu scenograficamente posta da Cola di Rienzo in reazione al precedente impiego fattone da papa Bonifacio VIII, che in antagonismo con il potere imperiale - aveva rovesciato la lastra riutilizzandola come mensa di altare. Da ultimo va ricordato che la tavola di bronzo non venne incisa ma fusa, seguendo una tecnica particolarissima confermata anche dalle recenti indagini eseguite in occasione del restauro. dell’impero: la clausola I attribuisce a Vespasiano il potere di stipulare trattati con le nazioni estere secondo i suoi desideri; le clausole II e III definiscono e regolano i suoi rapporti con il Senato; la clausola IV riguarda i comizi elettorali e, in particolare, l’ammissione e l’eleggibilità nei comizi dei candidati raccomandati dall’imperatore; la clausola V conferisce a Vespasiano la possibilità di ampliare il pomerio qualora lo ritenga utile; la clausola VI gli attribuisce il diritto e il potere di compiere tutto ciò che egli ritenga di utilità pubblica; la clausola VII dispone che Vespasiano sia esonerato dalle leggi da cui fossero stati esonerati gli imperatori prece108

Sopra: Testa colossale di Tito da via Pastrengo, Roma. Museo Nazionale Archeologico, Napoli Sotto: Veduta generale delle teste colossali esposte nella Curia del Foro Romano

Nella pagina accanto: La sezione della mostra nel criptoportico neroniano al Palatino


LA RASSEGNA ESPOSITIVA NEL CRIPOPORTCO NERONIANO AL PALATINO

Nel Criptoportico neroniano, riaperto per questo evento al pubblico, sono presentati alcuni elementi architettonici in marmo, tutti provenienti dal Palatino e facenti parte della decorazione architettonica del nuovo grande Palazzo imperiale, iniziato con Vespasiano e completato sotto il principato di Domiziano, non senza ripensamenti, ad opera dell’architetto Rabirio. Si tratta, in particolare, di una collezione di circa 60 lastrine di marmo raccolte durante le prime indagini archeologiche condotte sul Palatino da Pietro Rosa (1861-

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1870) per conto di Napoleone III, l’illuminato imperatore dei francesi che divenne proprietario degli Orti Farnesiani. Questi campioni, detti marmi palatini Rosa, dopo essere confluiti nel Museo voluto proprio da Pietro Rosa all’interno della Domus Tiberiana, vennero dispersi a seguito della demolizione dello stesso Museo. Recuperata quasi integralmente negli ultimi anni, la collezione oggi è esposta per la prima volta in occasione della straordinaria circostan110


za legata al bimillenario della nascita di Vespasiano. Fra gli altri materiali esposti nel Criptoportico si distinguono diversi frammenti in marmo colorato (pavonazzetto, africano, giallo antico, ecc.) appartenenti a fusti e capitelli di lesena, che mostrano un’attenta lavorazione, eseguita con estrema finezza anche nei minimi dettagli, e un frammento di fregio con catasta d’armi pertinente alla decorazione del colonnato ad avancorpi che scandiva le pareti della sala del trono, detta Aula Regia, della Domus Flavia: la testata di ciascun avancorpo era infatti ornata da un fregio con l’immagine di una Vittoria che ornava un trofeo nascente da una catasta di armi.

A sinistra: Frammenti architettonici figurati dalla Domus Augustana; giallo antico Sotto: Frammento di fregio con catasta di armi probabilmente pertinente all’Aula Regia

Nella pagina accanto, in alto: Campioni di marmi policromi dalla collezione raccolta durante gli scavi palatini di Pietro Rosa A sinistra: Frammento di lastra di rivestimento parietale (lesena?) dal Palatino (Domus Flavia?); pavonazzetto

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DIVUS VESPASIANUS: IL CAMPIDOGLIO E L’EGITTO ALL’EPOCA DEI FLAVI

Il Campidoglio non poteva non rendere omaggio a Vespasiano e alla sua famiglia, alla luce degli stretti legami che questo colle ebbe con lui durante gli eventi che lo portarono a prendere il potere imperiale. Come si è già detto, infatti, il Campidoglio fece da sfondo alle cruente lotte fra Vitelliani e Flaviani, in cui perse la vita il fratello di Vespasiano, Flavio Sabino, mentre il suo giovane figlio, Domiziano, si salvò poiché era riuscito a travestirsi da sacerdote isiaco. Dopo la sua elezione a imperatore, Vespasiano iniziò l’opera di ricostruzione partendo proprio dal Capitolium, riedificando così, sia il tempio di Giove Capitolino, sia quel santuario

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dedicato a Iside Capitolina che aveva permesso al figlio di salvarsi. Tacito (Historiae, IV, 53) fornisce una descrizione analitica dei riti che si svolsero durante la sua nuova dedicazione, avvenuta il 21 giugno del 70 d.C.: “Vespasiano affida l’incarico di ricostruire il Campidoglio a Lucio Vestino, appartenente all’ordine equestre, ma personaggio fra i più illustri per autorità e prestigio. Gli aruspici da lui convocati gli raccomandarono di trasportare le macerie del vecchio tempio in uno stagno e di innalzare il nuovo sulle fondamenta del primo: gli dei vietavano di cambiare la vecchia struttura. Il 21 di giugno, sotto un cielo luminoso, tutta

l’area dedicata al tempio venne cinta con bende sacre e corone; vi fecero penetrare dei soldati dai nomi di buon augurio, recanti rametti di alberi fruttiferi; poi le vergini Vestali, con ragazzi e fanciulle aventi padre e madre ancora viventi, la aspersero con acqua attinta da fonti e da fiumi. Allora il pretore Elvidio Prisco, cui il pontefice Plauzio Eliano suggeriva la formula rituale, immolò, quale sacrificio di purificazione, un maiale, una pecora e un toro, e, deposte le viscere su un altare composto di zolle erbose, alzò una preghiera a Giove, Giunone e Minerva e alle divinità protettrici dell’impero, perchè assecondassero l’opera iniziata ed elevassero, con la loro divina assistenza, quella loro dimora, iniziata dalla pietà degli uomini. Poi toccò le sacre bende avvolte attorno alla prima pietra e alle funi che la reggevano, mentre gli altri magistrati, i sacerdoti, il senato, i cavalieri e gran parte del popolo, univano, in gioiosa


partecipazione, i loro sforzi per trascinare un masso enorme. Furono gettati qua e là, nelle fondamenta, pezzi d’argento e d’oro e metalli grezzi, non domati da nessuna fornace, ma così come natura li produce. Gli aruspici espressero l’ammonimento che non si contaminasse l’edificio con pietra o con oro destinato ad altro fine. L’altezza del tempio venne accresciuta: si credeva che la legge rituale consentisse quest’unica modifica e che soltanto quel pregio mancasse alla magnificenza del tempio precedente.” Ma a distanza di soli dieci anni, durante il principato di Tito, nell’80 d.C., il tempio venne nuovamente distrutto da un incendio. Anche se, apparentemente, i lavori di rifacimento iniziarono già sotto Tito, la vera e propria ricostruzione si ebbe, alacremente, con Domiziano, che la portò a termine in pochissimo tempo: la nuova inaugurazione avvenne infatti nell’82 d.C. Il nuovo tempio, super-

Nella pagina accanto: Gruppo marmoreo con la rappresentazione della Traide Capitolina. Museo Archeologico, Palestrina

In basso: Busto ritratto di Domiziano, Musei Capitolini, Roma Sopra: Busto di Vespasiano, Musei Capitolini, Roma

bamente riedificato da Domiziano, superava in fastosità il precedente. L’edificio era esastilo, di ordine corinzio; colonne e decorazione architettonica erano realizzate in marmo bianco pentelico, proveniente dalle cave dell’omonimo monte nelle vicinanze di Atene (un materiale mai utilizzato per gli edifici romani); le porte erano ornate d’oro ed il tetto coperto di tegole dorate. Il frontone era decorato, agli apici e nei timpani, con splendide statue come nei templi primitivi e presentava al centro la rappresentazione della triade capitolina (Giove, Giunone, Minerva). Questo tempio, descritto ancora nel IV secolo d.C. in termini appassionati da Ammiano Marcellino e dal poeta Ausonio, ebbe a patire la sua distruzione nel V sec.,

quando Stilicone trasferì fuori i rivestimenti d’oro delle porte. Genserico rimosse poi parte delle tegole dorate del tetto, ma nel VI secolo d.C. era considerato ancora una delle meraviglie del mondo. Di questo tempio magnifico e unico nella sua bellezza, oggi non ci sono rimaste che le sole fondazioni di età arcaica e qualche sporadico frammento della decorazione architettonica di età imperiale. La mostra del Palazzo Nuovo offre la possibilità di ammirare l’unica scultura a tutto tondo che si conosca raffigurante la triade capitolina, nella forma e nella disposizione dettata iconograficamente da Domiziano per il rinnovato tempio sul Campidoglio. Il gruppo, rinvenuto in una villa romana presso Guidonia, in provincia di Roma, 113


mazione dei più antichi edifici di culto e la creazione di nuovi. Si è già detto quanto la dinastia Flavia sia stata devota a questa religione orientale anche in conseguenza dei vari prodigi che sottolinearono il loro avvento e il loro operato. Tra i numerosi materiali conservati nei Musei Capitolini, una selezione di opere permette di ricordare l’esistenza e l’importanza di almeno quattro templi presenti a Roma nel periodo dei Flavi, oltre al ben noto Iseo Campense, ristrutturato in forme fastose proprio da Vespasiano. Per quanto attiene il Campidoglio è conosciuta la presenza, grazie a ritrovamenti epigrafici, sin dalla fine dell’età repubblicana, di un edificio dedicato a Iside Capitolina, probabilmente collocato sul sito dell’attuale chiesa di S. Maria in Aracoeli. Da via della Conciliazione proviene il rilievo con divinità egizie, scolpito nel durante uno scavo clandestino, fu recuperato nel 1994 e si conserva presso il Museo Archeologico di Palestrina. Le tre divinità sono sedute su un unico e lungo trono con al centro Giove, riconoscibile per i suoi ben noti attributi: il fulmine tenuto con la destra e lo scettro (non più conservato) che doveva trattenere con la sinistra. Alla sua destra è la figlia Minerva, vestita di chitone e mantello, che probabilmente toccava con la mano destra l’elmo corinzio su cui è posta una corona. Alla sinistra di Giove è invece rappresentata la consorte Giunone, coronata da un diadema e con vesti analoghe a quelle di Minerva; le mani, perdute, dovevano trattenere una patera e un lungo scettro. Sul retro 114

del gruppo sono parzialmente conservate tre Vittorie che cingevano le teste dei numi con una corona. Singolare è la presenza ai piedi delle tre divinità dei loro rispettivi animali sacri, grazie ai quali erano riconoscibili in mancanza di una chiara iconografia: la civetta per Minerva, il pavone per Giunone, l’aquila per Giove. La datazione di questa opera si pone per motivi stilistici nella metà del II secolo d.C. La piccola rassegna prosegue trattando il tema dei culti isiaci presenti a Roma, proprio per dare risalto alla rinascita e conseguente sviluppo di questa religione, che proprio a partire da Vespasiano si diffuse ampiamente a Roma con la risiste-


marmo dell’Imetto, che raffigura al centro Serapide in trono che accarezza Cerbero con la mano destra; alla sinistra del dio si trova invece il piccolo Arpocrate, mentre le due divinità femminili effigiate alle due estremità del rilievo vanno ricondotte - secondo il lungo processo di assimilazione delle divinità egizie nel vasto panorama simbolico della religione greco-romana a Iside-Persefone e IsideDemetra. La prima, stante alla sinistra di Serapide, è identificabile per gli attributi del crescente lunare sulla fronte, del sistro nella mano sinistra e del lungo scettro nella destra. Iside-Demetra, stante alla destra di Serapide, trattiene una fiaccola con la mano destra, mentre nella sinistra doveva tenere stretto un mazzo di spighe. Caratteristica è la presenza sulla testa del modius per la misurazione dei cereali. E’ in dubbio se il rilievo faces-

Nella pagina accanto: Rilievo con la rappresentazione di Iside Pelagia, Centrale Montemartini, Roma In basso: Rilievo con divinità egizie, Musei Capitolini, Roma In alto: Capitello con l’immagine di Hator, Musei Capitolini, Roma

se parte della decorazione di un tempio egizio presente nell’area del Vaticano; meglio sarebbe ricercare la sua provenienza nella vasta necropoli che sempre ha caratterizzato questa periferica zona della città antica. Alcuni materiali esposti ricordano inoltre il noto Iseo della III Regione augustea, dislocato sulle pendici del Colle Oppio, mentre di particolare interesse è la documentazione riferibile al tempio di Iside Pelagia, protettrice della navigazione, il cui culto è attestato a Roma, nell’area del Porto Tiberino presso il Foro Boario, a partire dal I sec. d.C. Si tratta di uno splendido capitello figurato, proveniente da via della Consolazione, con la testa della dea Hathor e soprattutto di un rilievo dall’area del Teatro di Marcello che rappresenta una figura femminile in movimento verso destra con le braccia tese in avanti: la presenza del nodo sul petto per fermare il mantello permette di identificare la figura con Iside Pelagia che - sulla base dello schema iconografico – doveva trattere con le mani l’albero maestro o la prua di una nave.

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Dida



L’EVOLUZIONE DELLA PITTURA

ROMA LA PITTURA DI UN IMPERO

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L

a mostra “Roma. La Pittura di un Impero”, inaugurata il 23 settembre 2009, si terrà nella prestigiosa sede espositiva delle Scuderie del Quirinale fino al 17 gennaio 2010. Curata dal professore Eugenio La Rocca, ordinario di Archeologia e Storia dell’Arte greca e romana all’Università degli studi di Roma “Sapienza”, insieme a Serena Ensoli, Stefano Tortorella e Massimiliano Papini, la mostra si avvale dell’elegante allestimento di Luca Ronconi e

Margherita Palli. Il visitatore è condotto attraverso le opere esposte in un piacevole viaggio che illustra la storia e l’evoluzione della pittura nei territori dell’Impero romano per un lunghissimo arco di tempo, dal III secolo a.C. al IV d.C. L’accurata selezione dei reperti, un centinaio, valorizzati dall’ottima illuminazione, permette di concentrare l’attenzione sulle varie tecniche pittoriche utilizzate, sugli schemi iconografici e compositivi e sulla straordinaria qualità di frammenti, anche di piccole dimensioni, che testimoniano l’alto livello cui era giunta la pittura antica. La prima sezione della mostra, organizzata per temi, è dedicata ai sistemi decorativi parietali delle residenze romane, entro i quali trovavano posto paesaggi, nature morte e


scene mitologiche. La classificazione tradizionale, operata da August Mau nel 1882 e da allora adottata convenzionalmente negli studi archeologici, prevede - com’è noto - la distinzione di quattro stili pompeiani, che corrispondono a sistemi di decorazione delle pareti nelle dimore signorili e riflettono il gusto dell’epoca. La nostra conoscenza della pittura antica si basa sostanzialmente sugli esempi restituiti dalle città sommerse nell’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., scavate a partire dal Settecento, ma non bisogna dimenticare che erano gli affreschi che ornavano le dimore più illustri e gli edifici pubblici di Roma, sorprendenti per qualità e bellezza, a dettare la moda del tempo. Un raffinato frammento proveniente dalla Casa del Naviglio di Pompei, datato al III sec. a.C., esemplifica i caratteri tipici del cosiddetto I stile pompeiano, noto in Grecia già nel IV sec. a.C., in cui la lussuosa decorazione delle pareti ottenuta con lastre di marmi policromi disposte in fasce orizzontali viene imitata con la pittura ed elementi a rilievo di stucco. Nella pagina accanto: Frammento di affresco parietale di I stile, dalla Casa del Naviglio a Pompei A sinistra: Affresco raffigurante un particolare del ciclo dipinto dell’Odissea. Da una domus dell’Esquilino (Biblioteca Apostolica Vaticana) Sopra: Particolare dell’affresco dalla domus dell’Esquilino

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Vari esempi di provenienza vesuviana, ma anche urbana, come i celebri affreschi con scene dell’Odissea dalla domus di via Graziosa sull’Esquilino, illustrano lo sviluppo del maestoso II stile, nel quale le pareti incorniciate e spartite da elementi architettonici si aprono con effetto illusionistico su sale colonnate, giardini, scenografie teatrali, gallerie di quadri con scene mitologiche o paesaggi. Proprio gli affreschi dell’Esquilino introducono alla concezione del paesaggio caratteristico della pittura antica. Nonostante conoscessero bene i principi prospettici, con cui vengono rese le architetture, nella rappresentazione del paesaggio i pittori greci e romani non adottarono il sistema prospettico a fuoco unico, cui noi siamo abituati dalle opere rinascimentali: nei dipinti esposti la linea dell’orizzonte è alta rispetto allo sguardo dello spettatore; l’ef-

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Sopra: Affresco di un tratto della parete settentrionale del corridoio F, dalla Villa della Farnesina a Roma (Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo) Sotto: Affresco dalla parete meridionale del triclinio C, dalla Villa della Farnesina a Roma(Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo)

In alto, a destra: Particolare dell’affresco dalla parete meridionale del triclinio C, dalla Villa della Farnesina a Roma (Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo)


fetto di lontananza si affida all’attenuazione dei colori sfumati dal primo piano allo sfondo; l’unità della composizione è ottenuta grazie alla resa atmosferica; le figure sono organizzate su piani paralleli e la narrazione si svolge più in lunghezza che in profondità, secondo una concezione bidimensionale dello spazio, che torna anche nei fregi scultorei che ornavano templi e monumenti pubblici. Le straordinarie pitture della Villa della Farnesina, il corridoio F, su fondo biancocrema, e il triclino C, su fondo nero, mostrano il passaggio dal II al III stile, negli anni dell’affermazione del potere di Augusto. Il nuovo stile sarà

caratterizzato da una riduzione dell’illusionismo e da pareti rigorosamente tripartite in grandi pannelli di colore uniforme, scanditi da esili elementi architettonici, al centro dei quali si apre un’edicola con un tipico paesaggio idillicosacrale o un quadro figurato. Le pitture della Farnesina raggiungono un livello altissimo di qualità, eleganza e fantasia, e se non sono opera del pittore Studius o Ludius, noto dalle fonti antiche, devono essere attribuite a una bottega di artisti abili e innovativi, che decorarono la dimora di un membro della famiglia di Augusto o comunque della più alta aristocrazia romana. Il curatore della mostra, il professore La Rocca,

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Sopra: Il Prof. Eugenio La Rocca, curatore della mostra, durante un’ intervista per la televisione In basso: Particolare di affresco parietale dalla Villa detta di Agrippa Postumo a Boscotrecase. Napoli, Museo Archeologico Nazionale

ha individuato un’evoluzione delle soluzioni stilistiche sperimentate nelle pitture della Villa della Farnesina nella raffinatissima decorazione parietale della Villa di Agrippa Postumo a Boscotrecase, di cui è possibile ammirare in mostra la cosiddetta Sala Rossa, l’esempio più bello che ci sia pervenuto del III stile iniziale (20 a.C. circa): le pareti sono dipinte di un colore rosso uniforme e scandite da eleganti colonnine ornate da motivi vegetali; le edicole centrali svelano magnifiche vedute paesistiche eseguite con pennellate rapide e sicure e un sapiente uso del chiaroscuro, animate da vivaci figurine schizzate, che sembrano galleggiare sul fondo neutro. La bella porzione di affresco dalla Villa di Contrada Sora a Torre del Greco presenta i caratteri tipici del fastoso IV stile, che si diffonde durante il regno di Nerone: l’esuberante

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Nella pagina accanto: Frammento di affresco parietale in IV stile, dalla Villa di Contrada Sora a Torre del Greco

profusione di motivi ornamentali e fantasiosi nelle bordure, spesso desunti dal repertorio tessile; gli sfondi architettonici poco realistici relegati nel registro superiore della parete; il gusto per le linee curve e i contrasti cromatici accesi, resi in questo caso con colori costosi (blu egiziano e cinabro), stesi in modo accurato e levigato su numerosi strati preparatori di intonaco. La seconda sezione tematica comprende i soggetti mitologici, che spesso gli scavatori del Settecento staccarono dalle pareti e dal contesto di appartenenza per farne veri e propri quadretti da esporre nelle gallerie del Re di Napoli. Frequenti sono i temi amorosi, che alludono alle gioie della vita e alla felicità familiare. Nella scena di Ercole e Telefo, che decorava in origine un edificio destinato al culto


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A sinistra: Frammento di affresco parietale in IV stile raffigurante Ercole e Telefo, dalla cosiddetta Basilica di Ercolano. Napoli, Museo Archeologico Nazionale In basso: Menadi danzanti su fondo nero: frammenti di affresco parietale in III stile dalla cosiddetta Villa di Cicerone a Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale

imperiale di Ercolano, la cosiddetta Basilica, si è riconosciuta la mano di un maestro del IV stile, capace di riprodurre figure scultoree e maestose e colori cangianti di effetto. Di estrema raffinatezza appaiono le leggiadre Menadi danzanti dalla Villa di Cicerone a Pompei, così come il frammento raffigurante una

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dea con arco su fondo celeste, proveniente dalla Villa di Arianna a Stabia, che rivela una tecnica superba nel disegno e nella resa della trasparenza delle vesti. In un’altra villa di Stabia è stato rinvenuto un frammento di soffitto con l’interessante rappresentazione di una sfera armillare, entro la quale danzano le personifi-

In alto: Frammento di affresco parietale in III stile raffigurante una divinità femminile con arco, dalla Villa di Arianna in Stabia. . Napoli, Museo Archeologico Nazionale Nella pagina accanto, in alto: Particolare di affresco da soffitto raffigurante la sfera armillare-la “danza delle stagioni” Nella pagina accanto, in basso: Frammento di affresco in III stile denominato le cosiddette “Nozze Aldobrandini” da una casa sull’Esquilino a Roma. Città del Vaticano. Musei Vaticani


cazioni delle Stagioni, a simboleggiare il moto dell’universo e del tempo, che porta ciclicamente abbondanza e prosperità, e la cultura e l’interesse scientifico del proprietario della dimora. Di provenienza romana sono invece le celebri Nozze Aldobrandini, scoperte sull’Esquilino nel 1601, fonte di ispirazione e modello per molti grandi artisti dell’età moderna che non potevano ancora conoscere le pitture delle città vesuviane. La lunetta con Perseo che libera Andromeda costituisce la più tarda raffigurazione mitologica che conosciamo a Roma, databile nell’avanzato

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In alto: Lunetta dipinta raffigurante Perseo e Andromeda da Roma. Roma. Antiquarium Comunale In basso: Frammento di affresco parietale in III stile raffigurante un paesaggio con imbarcazioni su fondo nero. Da Pompei. Napoli. Museo Archeologico Nazionale In alto, al centro: Frammento di affresco parietale in IV stile raffigurante una corsa di quadrighe, dalla Casa della Quadriga a Pompei. Napoli. Museo Archeologico Nazionale

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Nella pagina accanto, in alto: Frammento di affresco parietale in IV stile raffigurante una distribuzione di pane. Dalla Casa del Fornaio a Pompei. Napoli. Museo Archeologico Nazionale

Nella pagina accanto, in basso a sinistra: Frammento di affresco in IV stile raffigurante una scena di vita nel Foro, dai praedia di Iulia Felix a Pompei. Napoli. Museo Archeologico Nazionale Nella pagina accanto, in basso a destra: Frammento di affresco parietale raffigurante la nave da carico Giminiana. Da Ostia. CittĂ del Vaticano. Musei Vaticani


IV sec. d.C. Il cambiamento di gusto e linguaggio formale si nota nello schema compositivo, nella resa delle vesti e dei lineamenti dei protagonisti e nell’impiego della spessa linea nera di contorno che definisce le figure, anticipando soluzioni tipiche dell’età medievale. L’esposizione prosegue con vedute paesistiche, tra cui un affascinante paesaggio marino, nel quale l’architettura di una villa sembra galleggiare su un fondo nero uniforme in cui si fondono cielo e acqua, e con nature morte, un soggetto molto amato nella decorazione parietale perché illustrava agli ospiti la ricchezza della dispensa e la generosità dei banchetti del padrone di casa. La sezione dedicata alle scene di vita quotidiana è costituita da vivaci raffigurazioni, alcune delle quali rese in uno stile più popolare, che permettono di prendere parte a eventi pubblici e religiosi o a spettacoli del tempo. Con uno stile efficace e di grande immediatezza espressiva vengono

rappresentati il ricco proprietario della Casa del Fornaio di Pompei, che distribuisce gratuitamente il pane in occasione di una ricorrenza festiva o i cittadini intenti a leggere nel foro editti o avvisi pubblici; si assiste a sacrifici, al trasporto di sacchi di grano su un’imbarcazione ostiense e a un’animata corsa di carri nel circo. Conclude l’esposizione un’accurata selezione di ritratti, molti dei quali provenienti dalle oasi egiziane del Fayum e conservati nei musei di Londra, Parigi, Berlino, Monaco di Baviera, Francoforte, Zurigo e Mosca, che sono pre-

sentati accanto ad altri ritratti di eccezionale qualità rinvenuti in ambito italico allo scopo di dimostrare come i pittori specializzati nell’arte del ritratto non fossero in epoca romana una prerogativa dell’Egitto. Da Pompei provengono infatti un raffinatissimo mosaico con ritratto femminile, il celebre quadro di Terentius Neo con la moglie, entrambi raffigurati con notevole fedeltà fisionomica e in atteggiamento pensoso da intellettuali, e un sorprendente ritratto dipinto su vetro, appartenente probabilmente in origine a un medaglione bifacciale. Gli altri due medaglioni


A sinistra: Frammento di decorazione musiva con ritratto femminile. Seconda metà del I secolo a.C. Napoli, Museo Archeologico Nazionale Al centro: Medaglione in crisografia con ritratto virile. Prima metà del III secolo d.C. Arezzo. Museo Archeologico Nazionale “Gaio Cilnio Mecenate” In basso: Frammento di affresco parietale in IV stile con il ritratto di Terentius Neo, (cosiddetto Paquio Proculo), con la moglie. Dalla casa di Terentius Neo a Pompei. Età neroniana (54-68 d.C.) Napoli. Museo Archeologico Nazionale

con ritratti esposti in mostra sono eseguiti nella rara e preziosa tecnica della crisografia, che consiste nell’incisione di una lamina aurea con particolari sovradipinti, applicata su vetro e sigillata da un ulteriore strato di vetro trasparente (se ne conoscono una decina di esempi antichi in tutto). I famosi ritratti del Fayum, dipinti a tempera o a encausto (tecnica nella quale i colori sono mescolati con la cera, poi sciolti in un composto chimico e resi pastosi con l’aggiunta di resina, uova o olio di lino prima di essere stesi) su tavole di legno o su lenzuoli di lino, avevano destinazione funeraria poiché venivano deposti nelle mummie. Le condizioni

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In alto, a sinistra: Ritratto maschile. (117-138 d.C.) Monaco, Staatliche Antikensammlungen Al centro: Ritratto femminile. (110-130 d.C.) Edimburgo. National Museum of Scotland A sinistra: Ritratto maschile. (Primo quarto del II secolo d.C.) Berlino. Staatliche Museen - Antikensammlung In alto, a destra: Ritratto maschile. (140180 d.C.) Londra. British Museum

climatiche della regione ne hanno consentito l’eccezionale stato di conservazione. La raffigurazione dettagliata delle vesti, dei gioielli e soprattutto delle acconciature dei defunti ritratti, senza dubbio appartenenti a un ceto ricco e colto, permette di stabilire con precisione la datazione dei dipinti (dal I al IV sec. d.C.). I volti esprimono una straordinaria vitalità e immediatezza, anche perchÊ sovente puntano lo sguardo direttamente negli occhi dello spettatore, invitandolo a un dialogo muto e suggestivo con uomini, donne e anche fanciulli del passato, realisticamente e sapientemente ritratti.

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TORNA LA VITE A POMPEI

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n ottobre si è perfezionata la linea intrapresa dai responsabili dell’area archeologica di Pompei nel coniugare la testimonianza di una civiltà sconvolta dall’eruzione del Vesuvio, cadendo nell’oblio per secoli, e il recupero alla produttività degli ettari di terreno non scavato. Un’iniziativa, quella intrapresa dal Commissario delegato dell’area archeologica Marcello Fiori e l’Assessore all’agricoltura della Regione Campania Gianfranco Nappi, indirizzata verso la conservazione della biodiversità, tuttora esistente nelle aree verdi degli scavi di Pompei, e la razionalizzazione del lavoro dei contadini nei terreni agricoli demaniali rappresenterà un modello di archeo-agricoltura sostenibile unico al mondo.

TORNA LA VITE... TORNA LA VITA

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Un protocollo d’intesa finalizzato alla valorizzare del patrimonio culturale e territoriale rappresentato dall’unicità dell’area archeologica di Pompei e dall’enogastronomia campana d’eccellenza, garantendo al visitatore l’emozione d’itinerari conoscitivi degli usi agricoli e alimentari pompeiani in epoca romana e dell’evoluzione verso l’attuale produzione della Campania, fruttandone le suggestioni di una florida epoca, per promuoverne l’attualità nel mondo, con la futura distribuzione del vino Villa Dei Misteri in ogni ambasciata italiana. L’odierno Made in Italy è anche nel “recupero” delle tradizioni, rafforzato da una serie di


Nella pagina accanto al centro: Particolare della vigna nella Casa della Nave Europa a Pompei Nella pagina accanto in basso: Un momento della conferenza stampa di presentazione delle nuove coltivazioni di vite a Pompei. Da sinistra, il noto viticultore dott. Mastroberardino, l’Assessore all’Agricoltura della Campania on. Gianfranco Nappi, la nuova Soprintendente di Napoli, Pompei ed aree vesuviane dott.ssa Mariarosaria Salvatore, ed il Commissario delegato dell’area archeologica dott. Marcello Fiori In basso: Vista generale del vigneto nella Casa della Nave Europa A destra: La firma del protocollo da parte dell’Assessore Gianfranco Nappi e del Commissario delegato dell’area archeologica Marcello Fiori

eventi e promozioni studiate appositamente per ogni destinazione. Il vino “simbolo” e “sintesi” di Pompei si mette in viaggio per promuovere e raccontare la vita antica e le suggestioni del presente. Il futuro di Pompei è nelle sue Radici, sino alla mostra Vinum Nostrum, che inaugurerà a Firenze nel giugno 2010 e racconterà il lungo cammino della vite e della sua diffusione dalla Grecia a Roma antica, grazie anche alle testimonianze uniche che gli scavi di Pompei conservano. La Domus Nave Europa è lo scenario e il luogo dove è tornata la vite per il vino della Villa dei Misteri, riesumando le mitiche origini della vite come dono di

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Dioniso agli uomini per l’ospitalità ricevuta e il suo insegnamento nella trasformazione dei grappoli in vino. Gli dei nati per giustificare le debolezze umane e dare nobili origini al vino e alla sua conquista del mondo. La devozione a DionisoBacco risale al II secolo a.C. e numerose sono le testimonianze nelle opere d’arte (scultura, pittura, arredi e suppellettili) che si ispirano alla divinità nell’area urbana di Pompei. Atmosfera dionisiaca nelle innumerevoli decorazioni pittoriche, dai dettagli decorativi, come i tralci e i grappoli d’uva, ai giardini, come quelli delle Case dei Vettii e degli Amorini Dorati, dove l’arredo marmoreo evoca i boschi sacri dei Baccanali ed utilizza ampiaSopra: L’ingresso alla Casa della Nave Europa a Pompei Sotto: Particolare del graffito raffigurante una nave che ha dato il nome alla casa A destra: Particolare del graffito dove si legge il nome della nave “EUROPA” In basso a destra: La ricostruzione di un torchio vinario

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Sopra: Il momento del brindisi con la stampa specializzata Sotto: Un ambiente con dolii interrati per la conservazione del vino

mente i simboli a lui legati. La diffusione del suo culto è anche dimostrato nelle pitture domestiche di Larario, dove il dio appare spesso raffigurato nel gesto di versare del vino ad una pantera. Riportare l’uva a Pompei non scaturisce solo dagli affreschi e dalle decorazioni di tema dionisiaco presenti nelle ville romane, ma anche dagli studi effettuati, sin dagli anni ’90, sulla presenza di vigneti nell’area intorno all’Anfiteatro. Un progetto che la Soprintendenza non poteva sviluppare con le sue sole forze, trovando il partner naturale in un’azienda vinicola campana quale la Mastroberadino, fondata alla fine del ‘700, e distintasi per la ricerca nell’identificazione e il recupero dei vitigni antichi. Una collaborazione che ha portato ad una convenzione, al fine di utilizzare un’area verde di circa 200 mq, destinata anticamente a vigneto. Individuata l’area è la scelta dei vitigni da mettere a dimora, a concentrare l’attenzione degli esperti, partendo dalla identificazione dell’uva, attraverso la raffigurazione dei grappoli e delle loro foglie negli affreschi pompeiani. Uno studio affidato al profes-

Sopra: Uva pronta per la spremitura in una cassetta di “Mastroberardino” Sotto: Filari di vite in un’area vicino all’anfiteatro Nella pagina seguente: Due esempi di coltivazione sperimentale a Pompei

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sore dell’Università di Piacenza Mario Fregoni ha portato a identificare otto varietà impiantate con il “sistema a pergola”, ispirato dall’affresco di Bacco e il Vesuvio, che celebra la coltura della vite sulle antiche pendici vesuviane. Si è passati, solo dopo un periodo di sperimentazione con tre dei vitigni scelti, al raccolto dedicato alle prime prove di vinificazione, sia con le attuali tecniche che con quelle utilizzate anticamente. I promettenti risultati portano ad allargare la coltura a vigneto

per un’estensione di circa 8000 mq ripartiti su 5 appezzamenti di diversa estensione, il più vasto dei quali è il cosiddetto Foro Boario. Per i nuovi impianti è scelto l’allevamento “a filare”, rispettando le distanze tra i filari suggerite dai dati di scavo ma lasciando in situ i calchi delle antiche radici. È l’autunno 2001, anno del primo significativo raccolto di uve, a sancire l’imbottigliamento del prodotto vinificato, come Villa dei Misteri, nome con cui attualmente vengono prodotte

mediamente 1700 bottiglie l’anno di un vino rosso rubino intenso. Un’esperienza quella di Pompei che fa riflettere sulla potenzialità della cultura come fonte di guadagno, senza vendere monumenti e reperti, indiretto, visto l’irrilevante quantitativo di bottiglie prodotto dopo un invecchiamento di 18 mesi, con la promozione dell’immagine dell’Italia nel mondo. La valorizzazione dell’area archeologica di Pompei, una delle priorità del soprintendente Mariarosaria Salvatore, che da pochi mesi ha sostituito Pier Giovanni Guzzo, non riguarda solo il recupero delle antiche culture dell’uva, ma anche l’utilizzo delle tecnologia per la promozione dei beni culturali. Uno di questi utilizzi è proposto dalla collaborazione tra il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e Google Italy, che permette di vedere Pompei a 360 gradi. Un’iniziativa a portata di mouse, per fare una gita virtuale tra gli edifici e le ville sepolte dall’eruzione del Vesuvio del 24 agosto del 79 d.C., inserendo Pompei tra i siti del Patrimonio Mon-diale che l’Unesco sta rendendo visibile sul web grazie al servizio di Google Maps e Google Earth.


NEL PROSSIMO NUMERO

CASA BELLEZZA SULL’AVENTINO DI ALESSANDRA CAPODIFERRO

LA SCOPERTA DI ERCOLANO DI LUANA RAGOZZINO

ANCORA SUL CORREDO EPIGRAFICO DEI SEPOLCRI REPUBBLICANI DI VIA STATILIA DI GIOVANNA DI GIACOMO

ANARCHIA MILITARE IL CONTRASTATO PERIODO DELL’IMPERO TRA STORIA E ARCHEOLOGIA DI ALBERTO DANTI

LA COLLEZIONE FARNESE A NAPOLI DI ALESSANDRA CLEMENTI

IL SEGRETO DI MARMO DI GABRIELE ROMANO

ARCHEOLOGIA E INFRASTRUTTURE DI ALBERTO DANTI



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