
2 minute read
Riflessione di uno studente del progetto “Carcere/scuola” del CSI dopo una partita in carcere
di Federico B.
Capita che un giorno qualunque ti venga detto che andrai a giocare una partita contro i detenuti del carcere della tua città. Quel giorno il primo piatto servito a scuola è “riso alla battuta” condito con sarcasmo e ironia, seguito da un secondo a base di serenità e indifferenza, per finire con il dolce della dimenticanza. Da sempre quel ristorante offre solo cucina tradizionale della tua vita agiata, ricca, tranquilla, turbata al massimo da quei “problemi” che non esiti a chiamare tali dal momento che problemi veri non ne hai mai avuti. Capita poi che quel giorno si avvicini e ti venga ricordato con insistenza il documento d’identità senza il quale ti sarebbe inibito l’accesso al campo. Cerchi di non pensarci troppo, ma la frequenza con la quale l’incontro con ì detenuti ti si imprime nella mente aumenta di continuo. Può anche capitare che, a due giorni dall’evento, un tuo professore ti infonda suo malgrado una sinistra e inaspettata sensazione di ansia e preoccupazione, parlando alla classe (con un tono che non gli avevi mai sentito usare) dell’ambiente carcerario, del tipo di persone che incontrerai, del comportamento da tenere. E il menù cambia all’improvviso. Dopo due giorni, non devi più immaginarti niente: sei ormai davanti alle più alte e grosse sbarre che tu abbia mai visto. Arri- vano i tuoi compagni. Si scherza un po’, ma anche il cemento su cui nervosamente muovi i piedi in silenzio ha capito che l’atmosfera è strana, diversa. Non è il posto in sé a spaventarti, se di spavento si può parlare, ma l’incognita totale che rappresenta per te quel posto e quella partita che, ormai, non vedi l’ora di iniziare. Metal detector e scorta fino al campo contribuiscono ad emozionarti, ma è solo quando vedi i tuoi avversari che il turbine di sensazioni e pensieri che agita la tua mente raggiunge la sua massima potenza. Capita così, contro ogni previsione, che la loro gentilezza, correttezza, per alcuni addirittura simpatia, ti disarmino. Hai davanti a te persone, uomini, ragazzi normali, disponibili e contenti, quanto tu non sei mai stato, di poter giocare a calcio. Capita (anche ai migliori) che quella partita la giochi proprio male, turbato come sei da un senso di amara tristezza. Stai giocando, ma il tuo sguardo si rivolge continuamente a quelle piccole finestre rosse là in fondo dove riesci a scorgere le figurine e gli adesivi che i ragazzi ci hanno attaccato; proprio come vedi sempre nei film. Ma l’angoscia massima ti prende quando capisci che i detenuti non possono vedere I’esterno, la strada; una muraglia più alta delle loro piccole finestre si frappone fra loro e la vita vera, fra loro e la loro voglia di ricominciare, fra loro e la libertà. Capita che ora sei uscito e il turbine che agitava la tua mente si è placato, lasciando però spazio ad un solo pensiero più forte di tutto: “Un giorno quella partita la voglio rifare fuori...”
Advertisement