Hotel universo, nella notte transluminosa catalogue

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Mostra a cura di: Valentina Lacinio Allestimento: We Exhibit S.r.l. Ufficio stampa e comunicazione: Giulia Toccafondi, Ilaria Gentilini Editing e testi critici: Francesca Rumiato Sito web ed eventi: Claudio Piscopo Logistica: Giulia Sofi Promo e fundraising: Valentina Furian Grafica e documentazione: Stefano Mudu In collaborazione con : Global Art Affairs, Venezia We Exhibit, Venezia Galleria Melepere Arte Contemporanea, Verona Macaco Tour, Venezia IUAV, Venezia si ringrazia: Angela Vettese Caterina Rossato Patrizia Silingardi Sonia Schiavone


HOTEL UNIVERSO NELLA NOTTE TRANSLUMINOSA



L’incubatore Notte di Valentina Lacinio

Il concetto indiano di prasada evoca l’idea di uno stato di pace trans-luminosa1, connotando l’aspetto partecipabile e quindi benevolente di tale luce tranquilla. Più l’uomo è colmato della presenza divina e più è teso verso la fonte sempre al di là di questa presenza, verso la tenebra trans-luminosa2 da cui scaturisce inesauribilmente la luce. L’Hotel Universo si pone come metafora di una collocazione privilegiata, quella degli artisti che come fossero ospiti di uno stesso hotel (fisicamente rappresentato dal contesto/pretesto “mostra”) sono invitati a scorgere una porzione di cielo notturno dalla propria finestra, per indagare quello spazio buio di transizione tra le stelle del firmamento, fulcro di gestazione di quel lume impercettibile che viaggia nella nostra direzione senza poter ultimare il suo tragitto. E poiché contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo3, per percepirne non i punti brillanti ma lo splendore delle tenebre agli artisti è stato chiesto di interrogarsi sui concetti di notturno, non conoscenza o conoscenza fragile, sogno lucido, previsione, chiaroveggenza, per delineare secondo un metodo fondato sull’”entanglement”4 un percorso espositivo volto a innescare una riflessione sullo sguardo dell’artista come sguardo rivelatore e visionario. Laddove l’occhio incorre nel suo handicap, nel cosìddetto “punto cieco” dove la retina non contiene recettori per la luce, l’opera assume il ruolo di bussola, orientando lo spettatore nei vicoli laterali alla conoscenza ordinaria. La Notte dunque nel suo attributo di densa si configura come un incubatore di conoscenza, caratterizzato da un graduale processo di stratificazione, fino al raggiungimento del suo ombelico sotterraneo dal quale si può solo risalire verso l’alba, in un delicato progressivo disvelamento. La Prima Notte si apre su uno scenario noto, il cielo stellato che ci sormonta con il suo buio, i suoi punti luminosi e gli interrogativi che da secoli accompagnano l’umanità. Un uccello dorato fa da amuleto al nostro viaggio, un bagliore ingannevole e artificiale, le ali spezzate ma lo sguardo alto nel cielo (Franko B). È l’inizio del nostro cammino, la meta è solo un miraggio lontano, un punto cieco (Corinne Mazzoli), un porto tutto da scoprire.


Calano le tenebre ed ecco i primi punti di luce sulla volta buia della notte. Sono geometrie millenarie adagiate su un reticolato tutto umano (Filippo Berta), fuochi sparsi distanziati dalla densa materia oscura e al contempo da essa legati infinitamente, e poiché oscuro non è sinonimo di vuoto (Fabio Roncato) le stelle tra loro sorelle sono connesse come fossero parte di un’unica grande costellazione totalizzante. É la veste del mondo, trapunta di luci che scivola nelle ore notturne portando con sé una sinfonia di rumori quasi impercettibili, fruscii leggeri, intermittenze: il canto timido dell’universo che rieccheggia nello spazio (Hilario Isola & Enrico Ascoli). Le ore si infittiscono ed ecco sopraggiungere La Seconda Notte, con le sue tenebre e i suoi punti ciechi, dove la coscienza si perde poiché nel momento in cui la notte è più fitta, la vita stessa pesa di più, per questo di solito scegliamo di dormire 5, di intorpidire i sensi (Simone Rondelet). É il momento in cui corpo e mente fanno esperienza dello spaesamento, dell’inquietudine dettata dal viaggio nell’ignoto, verso il mare aperto della notte che intimidisce (Edoardo Aruta), addolcito dalla fiducia nel futuro, nella meta, dal tiepido brivido della scoperta. Ci si educa a muoversi nel buio, sostituire la vista con l’istinto, prendere confidenza con l’oscurità e trasmutarsi in animale notturno (Alberto Scodro), avvezzo all’umidità abbacinante del sotterraneo, dell’ignoto e dell’imprevisto. L’identità stessa si interroga (Miriam Secco), viene calata in una dimensione altra, e un mantra suadente le fa strada in questa discesa agli inferi. Ecco raggiunto L’Ombelico del buio, dove le vie laterali della conoscenza si fanno più nitide, l’occhio si tinge di nero, è uno sguardo che si muove nel buio senza più vacillare, la vista si fa acuta e con essa si armonizzano gli altri sensi, divengono più caparbi e a volte la sostituiscono (Fabrizio Perghem). E anche i corpi si vestono di buio (Mustafa Sabbagh) intrisi delle tenebre si muovono con disinvoltura, riconoscono contorni e ombre, buchi fitti più scuri della stessa notte (Leonardo Mastromauro), decodificano le criptografie di esseri lunari (Roberta Busechian). Lo sguardo prima ceco, ora è libero (Serena Vestrucci), l’imprevisto non spaventa più e l’accidente diviene positivo e profetico. Con i primi raggi di luce si proclama la venuta del L’ora blu, dove il sogno della previsione si realizza, i linguaggi ancestrali della notte vengono


sviscerati (Simone Pellegrini), le forme stigmatizzate. É l’alba di un nuovo alfabeto fatto di matrici sacre (Ludovico Bomben) e rappresentazioni complesse che svelano lo scheletro del notturno (Caterina Rossato) dando agli occhi una nuova direzione per aprirsi stupefatti sul grande spettacolo della conoscenza, dove l’arte si pone come complessa bussola (Elisa Strinna) di orientamento.

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H. de Lubac, Aspetti del buddismo, in Opera omnia, XXI, Jaca Book, Milano, 1980 J. Ries, Trattato di antropologia del sacro, vol.4, Crisi ,rotture, cambiamenti, Book, Milano G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, Nottetempo, Milano, 2008 La parola entanglement sta ad indicare il legame di natura fondamentale esistente fra particelle costituenti un sistema quantistico (dall’inglese to entangle, “impigliare, intricare”). Il termine può indicare, a differenza del contesto di utilizzo, impigliare, intrecciare, irretire; imbroglio, intrico, groviglio; coinvolgimento (dei sentimenti), relazione amorosa; (mil.) reticolato. P. Rigolo, 9 ore 54 minuti, Galleria Vastagamma, Pordenone, febbraio 2010


(lezioni di tenebra) di Patrizia Silingardi

Quella cosa che è privata interamente di luce è tutta tenebre. Essendo la notte in simile condizione, e tu vi volgi figurare una storia, farai che essendovi il grande fuoco, che quella cosa ch’ è più propinqua di detto fuoco più si tinga nel suo colore, perché quella cosa ch’è più vicina all’oggetto, più partecipa della sua natura.1 L‘altra notte ho visto l’Eternità / Un grande anello di pura luce infinita /Tutto era calmo, così brillante E sotto, tutt’intorno, il Tempo in ore, giorni, anni / Sospinto dalle sfere / Avanzava come un’immensa ombra, in cui il mondo Veniva trascinato con tutto il suo seguito.2 L’Hotel Universo è la metafora del privilegio intellettuale; un edificio immaginario dalle cui balaustre e finestre è possibile contemplare la notte quale rivelazione della conoscenza e delle arti. A dispetto dell’odierna blank generation, inevitabilmente segnata dalla vacuità dell’esistenza e dal senso di finitudine che si palesa in una diffusa coscienza panica, da quel luogo di elezione è possibile contemplare la Notte Transluminosa custode della sfera celeste e silenziosa portavoce di concetti immateriali che competono l’ultraterreno, l’ideale perfetto e simbolico che si colloca in un altrove di verità e trascendenza.3 E di questo cielo, ultimo ed immenso confine che idealmente compromette la rivelazione e la conoscenza assoluta, all’umanità caduca non resta altro che contemplarne con sgomento la vastità che la sovrasta e la racchiude in solitudine, nella fragilità di un corpo immane che è solo viscere e sangue.4 L’epifania degli astri e delle costellazioni, le nebulose, i pianeti e le galassie, nonché la materia oscura e i buchi neri, saranno dunque assunte quali entità simboliche ed evocative di un mondo “altro”, interdetto all’umanità. In realtà, nell’odierno decadimento di ogni cosa della natura, l’inquinamento luminoso vieta l’osservazione delle infinitesimali meraviglie del firmamento, costringendo a considerarne le accezioni astratte e smaterializzate. Inoltre, l’atroce constatare scientifico di come queste entità scintillanti siano invece ormai estinte da tempi incommensurabili, e che quello che rimane è solo un loro lontanissimo spettro tremolante, impone come sovrana la “condizione” del buio, del nero, dell’oscuro5. Lo splendore è dunque mendace e perturbante6 e per questo perviene alla malinconia e al lirismo dimesso. La vitale necessità di un’altra notte, una notte illuminante, rivelatrice, transluminosa, capace di eludere il nichilismo e l’abbietta frivolezza, implica la devozione all’ignoto quale ultima felina (nera) complessione in cui l’inaudito proprio della condizione terrestre si


trasforma nel buco, per l’appunto, nero, in cui tutti sensi possono essere «ingoiati» e, con un conato, restituiti quali prodigiose forme trasfigurate in arte e meraviglia.

POST SCRIPTUM: questa sezione di HOTEL UNIVERSO nella Notte Transluminosa approfondisce temi e aspetti di una mostra-effimera, tenutasi a Modena il 12-13-14 settembre 2014, a cura di melepere arte contemporanea e civico planetario di modena “f.martino”, in occasione del festival filosofia nei suggestivi spazi in disuso di una manifattura tabacchi risalente al 1850: HYPÉROURÁNIOS (la gloria altrove): KARIN ANDERSEN, FRANKO B, BILJANA BOSNJAKOVIC, RUDY CREMONINI, CUOGHI CORSELLO, DEAD MEAT+RANE FRITTE, ETTORE FRANI, MICHELE MARIANO, ANTONIO MARRAS, STEFANO W. PASQUINI SIMONE PELLEGRINI ADRIANO PERSIANI, CHRISTIAN RAINER SIMONE RONDELET MUSTAFA SABBAGH GILDA SCAGLIONI MATTEO SERRI; a cura di Patrizia Silingardi, Sonia Schiavone, Pierluigi Giacobazzi, L’Ariete Arte Contemporanea, Andrea Schenetti, Elena Coppola, Valentina Lacinio. 1 2 3 4 5 6

L. Da Vinci, Come rappresentare la notte, in L’uomo e la Natura, Universale Economica, Milano, 1952 H. Vaughan, The World, Silex Scintillans: Sacred Poems and Pious Ejaculation, Bell and Dal dy, London, 1858 Simone Rondelet, La farmacia di Platone (omaggio a Jaques Derrida), 2014 Simone Pellegrini, Aoristo, 2015 Mustafa Sabbagh, Senza titolo, 2014 Franko B., Senza titolo, 2013


Un’alba, un tramonto, una notte. di Pietro Rigolo

Il primo aggettivo che userei per descrivere la notte è spessa. Seguendo il flusso di idee che ne deriva, il tramonto sarebbe uno stratificarsi, una scultura a mettere, l’alba uno sfogliarsi, una scultura a levare. Nel momento in cui la notte è più fitta, la vita stessa pesa di più; è per questo che di solito scegliamo di dormire. Il sole non s’era ancora levato. Il mare non si distingueva dal cielo; era solo appena appena increspato, come un panno gualcito. Pian piano, col cielo che si schiariva, si poggiò sull’orizzonte una linea scura che li divise, e il panno grigio si spezzò a forza di colpi veloci, che da sotto salivano in superficie incalzandosi, uno dietro l’altro, in un movimento perpetuo. Avvicinandosi alla spiaggia ogni striscia si sollevava, si gonfiava, si rompeva, ricoprendo di un velo sottile d’acqua bianca la sabbia. L’onda si arrestava, poi si ritirava sibilando, come chi respiri lento, regolare e incosciente nel sonno. Pian piano la striscia scura all’orizzonte si fece più chiara, come se in una vecchia bottiglia di vino il sedimento fosse calato a fondo lasciando il vetro verde trasparente. E dietro, come se pure lì il sedimento bianco fosse sprofondato, o il braccio di una donna distesa sull’orizzonte avesse sollevato una lampada, anche il cielo si schiarì e delle strisce piatte di bianco, di verde e di giallo si propagarono nell’aria a lama di ventaglio. Poi la donna alzò più alta la lampada e l’aria sembrò farsi fibrosa e strapparsi dalla superficie verde con guizzi e vampe di fibre rosse e gialle come la fiamma fumosa di un falò che sfavilla. Pian piano le fibre del falò si fusero in un solo alone, un’unica incandescenza che sollevò il peso del cielo grigio spugnoso e lo mutò in milioni di atomi di soffice azzurro. La superficie del mare lentamente si impallidì e brillò mossa, ondulata, e spumosa, finché le strisce scure non scomparvero quasi del tutto. Lentamente il braccio che reggeva la lampada la sollevò più in alto e più in alto ancora, finché si vide una grande fiamma; un arco di fuoco si accese sull’orlo estremo dell’orizzonte, e tutto intorno il mare avvampò d’oro. La luce colpì gli alberi del giardino; una foglia dopo l’altra si illuminarono tutte. Un uccello cinguettò su in alto; ci fu una pausa; un altro cinguettò giù in basso. Il sole, che faceva risaltare gli spigoli delle mura della casa, si poggiò come una punta di ventaglio sulla persiana bianca e lasciò un’impronta di ombra azzurra sotto la foglia accanto alla finestra della camera da letto. La persiana si mosse appena, ma dentro era tutto buio e immateriale. Fuori gli uccelli cantavano la loro melodia vuota. Sono su un treno locale che da Treviso mi sta portando a Udine, all’imbrunire. All’orizzonte si accende di rosa la catena delle Alpi innevate. Intorno la cam-


pagna friulana, paesi come Sacile, Codroipo, Casarsa, conosciuti solamente sui fogli dei trasferimenti dei militari di truppa che, in divisa, smerciavo da un ufficio all’altro, a Roma, ormai otto anni fa. La sera scende oscurando completamente il paesaggio. Solo qualche piccola luce, ormai. E un senso di cupezza, di vuoto. Intanto, ecco che questo corpo, noto come il corpo di George, addormentato su questo letto, russa fortissimo. È l’effetto dell’umidità dell’aria oceanica sui suoi seni frontali; e, comunque, il troppo bere lo fa sempre russare così. Jim era solito svegliarlo a calci, girarlo sul fianco, a volte saltar fuori dal letto infuriato e andare a dormire nella stanza di fronte. Ma George è qui presente nella sua interezza? Su per la costa, qualche miglio a nord, in una scogliera vulcanica, ci sono un sacco di bacini rocciosi. Si posso visitare con la bassa marea. Ogni piscina è separata e diversa dalla altre, e se hai fantasia puoi dar loro dei nomi: come George, Charlotte, Kenny, Signora Strunk. Proprio come, per convenienza si usa pensare a George e agli altri come a entità individuali, si può pensare come un’entità anche una piscina di roccia; benché, con ogni evidenza, non sia tale. Le acque della sua coscienza – per così dire – brulicano di ansie braccate, bavose avidità, intuizioni vividamente abbaglianti, vecchie ostinazioni incrostate alla roccia, mai svelati segreti che brillano sul fondo, organismi proteiformi del malaugurio che si trascinano misteriosamente, forse per dare qualche allarme, verso la luce della superficie. Come può coesistere una tale varietà di creature? Perché è necessario. Le rocce della piscina tengono assieme il loro mondo. E, per tutta la durata della bassa marea, non conoscono altro. Ma la lunga giornata alla fine finisce; conduce alla notte, all’alta marea. E, proprio come le acque dell’oceano irrompono, sommergendo e oscurando le piscine, così su George e gli altri nel sonno giungono le acque di quell’altro oceano; quella coscienza che non è nessuno in particolare, ma contiene tutti e tutto, passato, presente e futuro, e si estende ininterrotta oltre le stelle più lontane. Possiamo ben supporre che, nell’oscurità dell’alta marea, alcune di queste creature siano tolte dalle loro piscine e condotte in alto mare, in acque profonde. Riporteranno mai, quando torneranno il giorno e la bassa marea, qualche sorta di preda? Possono dirci, in qualche modo, del loro viaggio? C’è davvero qualcosa che possano dirci… se non che le acque dell’oceano non sono realmente diverse da quelle della piscina? Virginia Woolf, Le onde Pier Vittorio Tondelli, Un weekend postmoderno Christopher Isherwood, Un uomo solo



OPERE IN MOSTRA



I PRIMA NOTTE

Notte che tanto fai Implorare l’alba notte di grazia cala.

S. Beckett, Filastroccate, in Le poesie, Einaudi, Torino, 1999


FRANKO B

Senza titolo, 2013 tassidermia, vernice dorata Ultima esposizione: L’enigma di Isidore Ducasse. Omaggio a Lautrèamont, Verona, 2013 In eterno bloccato su un piedistallo l’uccello dorato è dedito ai voli di Pindaro e a un luccicore che appartiene all’Eden perduto. Nessun cinguettio, nessun minimo vibrare o trasvolare, tutto è fermo nell’oblio che preannuncia catastrofi di cui solo rimangono tracce museali, suppellettili, artefatti da porre in teca e osservare con la debita distanza emotiva. E quell’ingannevole brillare, quell’astrazione abbacinante palesa il concetto di artificio, prezioso inganno, simulazione per celare la morte e la putrefazione. Il sortilegio consente il librare nei “cieli del noumeno” e poter finalmente godere del simulacro di nuova bellezza concava, svuotata di ogni effimera e mutevole materia per divenire astratta, immutabile, paradisiaca nel senso di un mondo “altro” di perfezione e conoscenza assoluta.

Testo: Patrizia Silingardi


ŠFranko B. All rights reserved.


CORINNE MAZZOLI

Lo Spettro di Fortificazione, 2015 installazione bastone telescopico per selfie, plastica specchiante, pelle, ciniglia, unghie finte dimensioni variabili Opera inedita Collezione dell’Artista

Scintille luminose e riflessi del notturno, vibranti formazioni geometriche e zigzagate che da una macchia chiara e cieca si espandono all’infinito: questo è ciò che accade sul pianeta ‘emicrania’. Il cervello erge mura e fortezze quasi a difesa del dolore imminente. Il rifugio migliore si rivela l’oscurità, e così “l’uomo che nella notte ha saputo chiudere gli occhi accende in sé una visione di luce: nel sonno egli vive e accende (dà luce e vita a) se stesso morto, risvegliato accende (dà luce, dà vita a) se stesso dormiente”. Nel punto di rottura e di passaggio dalla veglia al sonno, il mondo delle apparenze si rovescia e l’uomo può iniziare il suo lungo, interminabile viaggio “au bout de la nuit”.


After breakfast, if much toast and butter has been used, it begins with a singular kind of glimmering in the sight; objects swiftly changing their apparent position, surrounded with luminous angles, like those of a fortification. Fothergill J. Remarks on that complaint commonly known under the name of sick-headach. Med Observ Inquir 1784; 6: 103-137.

Airy GB. On hemiopsy. The London, Edinburgh and Dublin Philosophical Magazine and Journal of Science 1865_2


FILIPPO BERTA

Allumettes #2, 2013 video HD, 5’ 17’’ Collezione dell’Artista Ultima esposizione: INVENTING THE MEMORABLE, SUC Le Murate, Firenze, 2014

Come nuove stelle in quadranti celesti, sessantasei figure appaiono nell’oscurità silenziosa della Basilica di Santa Maria Maggiore (Bergamo). L’accensione progressiva dei fiammiferi crea un “frastuono” che rivela la frenesia dello sforzo collettivo per rendere visibile il quadrato creato dall’unione dei corpi, quasi il tentativo di mantenere viva una microsocietà. Il gesto ostinato, ripetitivo risulta fallimentare quando il gruppo comincia a dissolversi, lentamente, e come pedine di un’enorme scacchiera, le persone lasciano la scena. Un bagliore, sempre più debole, a dimostrare ciò che resta: la fragilità di una perfezione solo momentanea. Nella navata ricala la notte.


Allumettes #2, 2013, performance, HD Video, 5’ 17’’, stampa fotografica, 180 x 100 cm


HILARIO ISOLA & ENRICO ASCOLI

Whirling dance, 2014 installazione sonora radio analogiche, filo da pesca dimensioni ambientali Collezione dell’Artista Ultima esposizione: PULSAR Arte e Musica dallo Spazio, INFINI.TO - Planetario di Torino - Museo dell’astronomia e dello Spazio, Torino, 2014

L’installazione, dall’estetica calderiana, nasce dalle teorie della fisica che considerano l’Universo come un’immensa cassa armonica. La fonte energetica e informante del Cosmo è come una Grande Orchestra da cui tutto scaturisce per moti oscillatori e interferenze armoniche. In mostra un modello semplificato e rassicurante che equipara i vuoti di segnale delle frequenze radio al suono di particolari fenomeni naturali. L’assenza di segnale radiofonico diventa uno sciame di frequenze da interiorizzare: quiete in movimento che genera ordine. Al centro del sistema, l’uomo ruota su se stesso in una vorticosa danza che lo avvicina sempre più al kòsmos.



FABIO RONCATO

Quantum, 2015 fotomoltiplicatore, circuiti, ambiente dimensioni ambientali Opera inedita Collezione dell’Artista

”Un gioco dell’infanzia era nei giorni assolati voler afferrare o calpestare le ombre dei corpi in movimento […] erano inseguimenti accaniti nel tentativo di afferrare la pelle dell’ombra e di immobilizzarla per sempre” Fuori dalla concezione di senso comune il buio è molteplicità, espressione di un ambiente percepito come vuoto ma ricco in tutta la sua complessità fenomenologica. Le informazioni che provengono da uno spazio oscuro non sono meno determinanti per stabilire un’esistenza di quanto non lo siano le proprietà di un oggetto. Il buio si manifesta come volume senza presenza, uno spazio senza prospettiva; questo lavoro vuole rovesciare la percezione di indeterminatezza su cui si sorregge lo spazio oscuro e raggiungere la consapevolezza della sua luminosità. “Consistenza di un’inconsistenza; presenza di un’assenza; potenza del nulla: il buio come testimonianza d’un’essenza che attraverso la sua incorporeità si manifesta”.




II SECONDA NOTTE

Nell’oscurità udiva meglio anche, udiva i rumori che il lungo giorno gli aveva nascosto, dei mormorii umani, ad esempio, e la pioggia sull’acqua.

S. Beckett, Mercier et Camier, Les éditions de minuit, Paris, 1995


SIMONE RONDELET

La farmacia di Platone (omaggio a Jacques Derrida), 2014 cornice laccata, velluto nero, ampolle 4 mg (Efedrina, Ritalin, Serenase, Sympatol, etc) Ultima Esposizione: HYPÉROURÁNIOS (la gloria altrove), Modena, 2014

L’idillio dell’ iperuranio, l’altrove, lo spazio metafisico di perfezione eidetica sul cui modello è stato plasmato il mondo sublunare, la favola mitologica che descrive “l’oltre il cielo” [A occupare quella regione è l’essenza che realmente è, priva di colore, di figura, di corpo, visibile solo all’intelletto, sulla quale verte la scienza vera. Così dunque l’intelligenza divina, nutrita di pensiero e di pura scienza, e anche ogni anima che intenda accogliere in sé ciò che li si addice, vedendo ciò che è in ogni tempo, si rallegra e contemplando il vero si nutre e gioisce, finché il percorso circolare non la riconduca allo stesso punto. (Pl., Phaedr., 247c-e)], è il pretesto per la raffigurazione di una costellazione immaginaria dove gli astri sono pharmakeus/pharmakon e dunque droga, veleno, pozione magica, vacuo rimedio alla fragile condizione dell’umano.

Testo: Patrizia Silingardi


ŠSimone Rondelet. All rights reserved.


EDOARDO ARUTA

Polena, 2015 bronzo, terra dimensioni variabili Opera inedita Collezione dell’Artista

Anima stessa delle navi, la polena ha rappresentato per secoli il simbolo del viaggio per mare. Una figura dalla seduzione ambigua, a tratti infera che, nella sua sfida alle acque e alle tenebre, si fa simbolo del timore del viaggio verso l’ignoto e materializzazione del sogno, del desiderio e del coraggio dei marinai sulla nave. Partendo da figure archetipiche, l’artista ha realizzato una fusione in cera persa. Il varo simbolico a sorpresa apre l’opera a nuove possibili interpretazioni, come a rivelare un contenuto latente denso di suggestioni.


Quando non c’è il sole | 7/04/2013; 00:13:23, 2013, serigrafia su carta, 2 x 1 m, Collezione privata


ALBERTO SCODRO

Ciupin Ara, 2014 resina epox, terra 170 x 40 x 45 cm Opera inedita Collezione dell’Artista

“A mio parere, non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che vedono. Ciechi che, pur vedendo, non vedono”. La cera s’insinua nel vuoto di un labirinto nascosto. Calca la traccia di un segno territoriale sotterraneo, lo scopre e lo porta in luce. Si tratta di un frammento emerso dal lavorio di un insolito architetto, la cui sensibilità, privata della possibilità di prospettiva, si orienta per vibrazioni. E’ nell’inseguire questo sommesso respiro della terra che nonostante la cecità l’architetto compone la sua dimora, scavando meticolosamente e metodicamente fino a raggiungere le intimità ultraterrene. A vista “spenta” gli altri sensi si affinano. Così, con le palpebre serrate, il confine è già superato. E’ il preludio a una disposizione e a un dialogo col buio.



MIRIAM SECCO

Erlebnis, 2015 voce, performance Opera inedita Collezione dell’Artista

Per ogni individuo il proprio nome contiene l’esperienza del passato, la percezione del presente e la proiezione di sé nel futuro, e interpreta il carattere transizionale dell’esistenza nel suo definire senza fissare. La ripetizione ossessiva del nome dell’interlocutore porta alla dissoluzione della semantica e alla progressiva esaltazione del suono. L’ascolto di questo mantra favorisce nel partecipante il passaggio a uno stato liminale, una zona di confine in cui la creatività culturale inscena la sua danza al congiuntivo. La perdita di senso di una parola che si è abituati a codificare dalla nascita provoca uno spaesamento temporaneo, nel quale si apre uno spazio per l’inserimento di nuove strutture e interpretazioni.


Perimetria del campo visivo oculare umano, esercizi per un’ azione performativa, 2015 pennarello su carta



III OMBELICO DEL BUIO

Non la notte vista dagli occhi, ma la notte che dà occhi, sgorgata dalla sorgente sotterranea, dal sole sotterraneo che gli ingenui chiamano “fuoco centrale”.

A. Carotenuto, I sotterranei dell’anima, Bompiani, Milano, 2001


MUSTAFA SABBAGH

Senza titolo, 2014 fotografia Ultima Esposizione: HYPÉROURÁNIOS (la gloria altrove), Modena, 2014

Vi è il merito di istituire una sorta di iconologia contemporanea come fu a suo tempo quella di Cesare Ripa, nel trasfigurare la bellezza ultraterrena in una serie di ritratti di decadenti divinità che sfoggiano innumerabili gradazioni di un nero assoluto e primigenio, che si manifesta in tutto il suo fulgore e brillantezza, posandosi in tutte le materie, come assumendone le consistenze, le sembianze, come esso fosse un velo che si deposita sui volti, su nuovi attribuiti iconografici, sugli abiti e gli innumerevoli particolari sapientemente disposti. Inoltre l’eleganza formale, un sentire post punk e insieme vittoriano, è anche ad evocare l’immaginario dell’alchimia, dove nuove ninfe, fauni e daemon abitano gli abissi lunari, per sempre bloccati allo stato impuro della nerezza (nigredo), indicata nei testi classici quale condizione necessaria al raggiungimento della perfezione, della condizione aurea della pietra filosofale.

Testo: Patrizia Silingardi


ŠMustafa Sabbagh. All rights reserved.


FABRIZIO PERGHEM

21.01.15 | 18:30 | marghera, 2015 performance audio Collezione dell’Artista Ultima esposizione: Mostra di fine residenza, Fondazione Bevilacqua La Masa, Galleria di Piazza San Marco, Venezia, 2015

Uno schiocco della lingua sul palato, un riverbero sonoro nell’oscurità. Nello spazio notturno la conoscenza acquista nuova vitalità; immersi in uno spazio completamente oscurato, degli artisti visivi chiamati a performare si muovono lentamente orbitando attorno a una scultura posta al centro di una cisterna. Con l’utilizzo del suono prodotto e il ritorno dell’eco dall’ambiente, essi esplorano il sito come sonde spaziali lanciate nello spazio interstellare a emettere e catturare suoni. Nell’interpretazione e decodificazione di ciò che ci circonda, ci si chiede allora se è veramente possibile comprendere una forma una volta eliminata la componente della vista.


Š Fabrizio Perghem. Foto by Spela Volcic.


LEONARDO MASTROMAURO

L’ombra del nero è più nera del nero, 2014 terra, zinco, stampe fotografiche 300 x 150 x 200 cm Opera inedita Collezione dell’Artista

Il lavoro si svolge di notte, completamente al buio. Abituandosi, l’occhio, percepisce gli oggetti fisici come più scuri rispetto all’ambiente: questo semplice principio è l’unico elemento guida. In seguito ad un processo di scavo continuo della materia, viene realizzato un oggetto la cui ombra interna risulti l’elemento più scuro, quasi fosse un buco, all’interno dello spazio di lavoro. L’apparato fotografico, costituito da venticinque fotografie sovrapposte, rappresenta il tentativo di registrare ciò che accade al buio durante le ore di lavoro. Nell’impossibilità di attestare con fedeltà e veridicità ciò che avviene, esse rivelano altro.



ROBERTA BUSECHIAN

TeXtMessAgeGlow, 2015 inchiostro su carta, stampa su carta, arduino e display LCD, traccia audio poster (100 x 70 cm), display e plexiglas (100 x 50 cm), traccia audio (42’ 04”) Opera inedita Collezione dell’Artista

Le frequenze trapassano ogni consistenza e il messaggio di testo diventa, oggi, comunicazione di bisogni in continua reinterpretazione. E se il display si trasformasse in un simbolo riconoscibile e il testo digitato in un testo aperto a nuove decodificazioni? Questo è ciò che accade: un messaggio spinto in vasi comunicanti che tocca lo stile e se ne allontana, si sposta in zone buie, segnate da passaggi umani e non, underground, che riscopre il testo digitale nella sua elementarità e viene surclassato dal messaggio acustico. TeXtMessAgeGlow è un animale ciclotimico, che riattiva le lettere digitate e si riattiva attraverso le loro interpretazioni, aprendosi all’intimità individuale.



SERENA VESTRUCCI

Notte in bianco, 2015 Stampa fotografica in bianco e nero, canottiera, cornice (#2), 32 x 38 cm, tre giorni (#6), 32 x 38 cm, due giorni Ultima esposizione: Penthouse Art Space, Harlan Levey Projects Gallery e Galleria FuoriCampo, Bruxelles, Belgio Notte in bianco, 2015 Stampa fotografica in bianco e nero, canottiera, cornice (#7), 25 x 19 cm, due giorni (#8), 25 x 19 cm, quattro giorni (#9), 28,5 x 22,5 cm, due giorni Opere inedite Collezione dell’Artista

Le notti in bianco sono notti in cui non si riesce a chiudere occhio. L’artista trascorre il tempo di queste notti insonni a osservare una serie di ritratti raccolti e collezionati nei mercatini. Nel tentativo di ridare vita a questi lavori anonimi, si innesca un meccanismo tale per cui l’opera risulta essere, nella sua forma finale, un lavoro a quattro mani tra l’artista stessa e qualcuno di cui non conosce l’identità.


Notte in bianco (#2), 2015 Stampa fotografica in bianco e nero, canottiera, cornice, tre giorni (dettaglio) 32 x 38 cm



IV L’ORA BLU

La notte si decompone perde rapidamente le sue stelle, e giunge a penetrarla il veleno del giorno. La luce s’insinua nella profonda sostanza delle tenebre, corrompe la sua solenne unità. Come prodotti di tale corruzione, si scorgono apparire, qua e là, abbozzi di cose, primi sintomi degli oggetti e degli esseri.

A. Marchetti, La notte. Invenzioni e studi sul nero, Pendragon, Bologna, 2004


SIMONE PELLEGRINI

Aoristo, 2015 tecnica mista su carta 120 × 265 cm Ultima Esposizione: HYPÉROURÁNIOS (la gloria altrove), Modena, 2014

Notturno è il raffigurare i reconditi labirinti dell’inconscio che sono prossimi a un sentire saturnino. Il segno è come di tempi immemori, di estetica ancestrale perché somiglia alla materia fisiologica: quasi sangue o altro liquido di dubbia definizione, E dunque quei gironi, quelle narrazioni complesse e indicibili, mostrano strane somiglianze con gli organi dell’interno umano, talvolta giungendo al gigantismo di un vetrino citologico che ne seziona la vera natura. Bisogna dunque dire grazie della opportuna struttura epiteliale che preserva la vista dal viscerale, da queste terribilità corporali per godere infine appieno di ognuno dei significati intellettuali, della sofisticata letteratura di simboli che si racconta in queste carte magistrali.

Testo: Patrizia Silingardi


ŠSimone Pellegrini. All rights reserved.


LUDOVICO BOMBEN

Pala 9 / Serie dei Bianchi / Rovesciata1, 2015 corian, foglia oro 24 karati 160 x 70 x 1 cm Opera inedita Collezione dell’Artista

A partire dalla riorganizzazione e scomposizione delle forme distintive della pala d’altare e dell’icona ortodossa tradizionali, l’artista propone una personale interpretazione in cui gli elementi contraddistintivi sono rielaborati graficamente con lo scopo di generare vere e proprie “icone del contemporaneo”. Per rendere possibile tutto ciò, viene scelto l’oro come elemento decorativo, con cui sono riempite, con precisione miniaturistica, le incurvature della sezione frontale. Simbolo alchemico di comunicazione iniziatica ed esoterica, l’oro conserva, in questo lavoro, la sua forte connotazione religiosa di “diaframma” e canale diretto con i corpi celesti.


Š Marco Diodà Opera realizzata in collaborazione con THEKE


CATERINA ROSSATO

MIND MAPS N.8, A - B, 2015 3/2 pezzi unici di una serie in progress penna, pennarelli colorati su carta 200g 150 x 150 cm Opera inedita Collezione dell’Artista

Le mappe mentali sono forme di rappresentazione grafica del pensiero: un continuo esercizio di conoscenza e frantumazione del reale, un desiderio urgente di catalogazione e controllo, un metodo necessario per fare chiarezza e per liberare la mente. Queste mappe registrano cronologicamente i processi mentali che accompagnano i momenti di lavoro e quelli di stallo e li condensano in griglie e diagrammi dalle molteplici chiavi di lettura.



ELISA STRINNA

The Artist’s Profession, 2012 video HD della performance (Palazzo Taverna, Roma) 18’, Schermo LCD Courtesy: l’Artista e Galleria Massimodeluca Ultima esposizione: Riflessi da se, MAXXI, Roma, 2013

In scena affermazioni pronunciate da celebri artisti nei secoli, accompagnate da una traccia che in sottofondo riporta le quotazioni degli stessi nelle aste di Sotheby’s e Christie’s. In questo sovrapporsi di voci, due punti di vista, apparentemente opposti e in assoluto contrasto, entrano in dialogo: due galassie in collisione, un confronto che innesca una concatenazione di riflessioni sul ruolo dell’arte nella contemporaneità, bene di scambio o bene dell’anima. Le risposte sono molteplici, il discorso si problematizza addensandosi di frase in frase.


Š Massimo Piersanti



APPARATI


Un Universo ancora buio di Nicolò Moschera (Ingegnere fisico)

Difficile credere che la fisica, figlia di una mente umana intrinsecamente limitata, possa addentrarsi a tal punto nell’ignoto da riuscire ad uscirne vittoriosa. Tanti sono stati i fallimenti e tanti ve ne saranno ancora, ma straordinaria è la tenacia con la quale ognuno di noi, a suo modo ed in contesti diversi, ha saputo affrontare questa sfida estrema contro la propria essenza, una lotta contro i limiti imposti dalla propria natura e dal cosmo. Come non fare una breve riflessione sulla continua ricerca dell’uomo verso una sempre maggiore conoscenza delle proprietà che regolano l’Universo? Tra gli studi più curiosi uno in particolare spicca tra tutti per la forte connessione col tema che stiamo trattando: la Materia Oscura. È dagli anni Trenta che la comunità scientifica discute attivamente su questo argomento usando termini che si sono evoluti con gli anni fino a scegliere l’aggettivo “oscura” per definire questa massa. Essa è infatti la massa che, secondo il modello standard della gravitazione universale, dovrebbe esistere ma che non si riesce ancora ad osservare per poter descrivere correttamente i moti all’interno dell’Universo. La teoria ci dice che i corpi interagiscono tra di loro tramite questa forza gravitazionale, inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza, influenzando reciprocamente i propri moti. A conti fatti, però, il modello funziona perfettamente solo ipotizzando una massa del sistema maggiore rispetto a quella effettivamente quantificabile dalle osservazioni. E così dunque ci troviamo a brancolare nel buio,con mezzi ancora inadeguati a rilevare ciò che stiamo cercando, feriti nell’orgoglio da una natura che non smette di metterci alla prova e di ricordarci i nostri limiti. Tuttavia è proprio nel momento dell’apparente sconfitta che la mente umana, spinta da una rinnovata forza generata dal desiderio di conoscere sempre più di quanto le sarebbe concesso, si attiva per abbattere queste pareti, illuminare questo Universo ancora così buio e trascinare così “le boe un po’ più lontane dalla spiaggia”. Infatti la non interazione di questa materia con la radiazione elettromagnetica non ha fermato i fisici che hanno cominciato una vera e propria caccia ai candidati più probabili che potessero contribuire a riempire le porzioni di spazio ancora “vuote” senza però essere rilevate. Le stime, rese possibili grazie anche al contributo del Telescopio Spaziale Hubble, risultano sorprendenti: la materia - visibile e non - barionica (ovvero protoni e neutroni) presente nell’Universo è solo un settimo circa di quella neces-


saria per tenere legate le stelle nelle galassie e le galassie negli ammassi. Questo significa che le enormi nubi di gas nei grandi ammassi di galassie, i buchi neri provenienti dal collasso di stelle, i buchi neri massicci al centro delle galassie, le nane bianche e le stelle di neutroni sono quasi irrilevanti rispetto all’Universo ancora mancante. Da quanto detto finora risulta chiara la necessità di ipotizzare l’esistenza di materia oscura non barionica e negli anni sono state formulate moltissime ipotesi sull’esistenza di particelle non ancora “avvistate”. Inoltre i modelli cosmologici predicono un Universo euclideo con geometria piatta tramite la stima di un parametro (Omega) che risulta pari ad 1. Cercando di giungere alla stessa conclusione tramite la teoria gravitazionale si trova però, utilizzando la massa effettivamente osservabile, un valore di Omega prossimo a 0,005. Questo ci dice che la materia mancante influisce per il 99,5% sul calcolo di Omega e di conseguenza sulla spiegazione dell’evoluzione del nostro cosmo! Non solo: la quantità di materia totale richiesta per tenere legate le stelle nelle galassie e le galassie in grandi superammassi è stimata essere il 35% di quella necessaria per ottenere un Universo a geometria euclidea (il 30% di materia non barionica solo ipotizzata, 4% da materia barionica non visibile, 0,5% da neutrini e 0,5% da materia barionica visibile). Cos’è dunque la restante parte che contribuisce per il 65% al solo calcolo di Omega? Energia. Più precisamente Energia Oscura. Nella fisica moderna infatti lo spazio vuoto non corrisponde al “nulla filosofico”: in esso, grazie al principio d’indeterminazione di Heisenberg, appaiono e scompaiono coppie di particelle-antiparticelle che sono virtuali ma possono avere effetti tangibili. È proprio grazie a loro che il vuoto può avere una densità di energia invisibile,”oscura” appunto, diversa da zero e può quindi esercitare un effetto gravitazionale. Questo è dunque il panorama in cui gli astro-fisici si muovono: un panorama in cui essi si trovano ad analizzare una situazione estrema potendo contare solo sul proprio intelletto, unico faro dell’uomo disperso in luogo oscuro di cui non solo non si vedono gli estremi, ma in cui risulta quasi impossibile avvistare qualsiasi cosa si aggiri a più di un palmo dal naso. Ma tutto questo verrà illuminato un giorno, la reale essenza dello spazio intorno a noi potrà essere osservata e studiata perché, ora lo sappiamo, ciò che a noi in questo istante può apparire solo “Vuoto” non è qualcosa di inerte ma, al contrario, è qualcosa i cui effetti dominano da sempre il comportamento dell’Universo.


L’ombelico di Freud di Marta Sioli (Psicologa)

Questo è allora l’ombelico del sogno, il punto in cui esso affonda nell’ignoto.(...) Da un punto più fitto di questo intreccio si leva poi, come il fungo dal suo micelio, il desiderio onirico. Ogni sogno ha un ombelico...(un punto oscuro)... attraverso il quale è congiunto all’ignoto. Sigmund Freud

Ipnosi, lapsus, atti mancati, sogni..sono tutti stati in cui possiamo avere necessariamente prova del nostro inconscio. Attraverso questi eventi i nostri stati più profondi si rilevano e arrivano alla coscienza. Fin dall’antichità gli sciamani utilizzavano il proprio dono per alterare lo stato di coscienza e quindi aver accesso al mondo degli spiriti normalmente invisibili alle persone la cui coscienza è focalizzata nella realtà ordinaria della vita. Il mondo interiore è espresso attraverso la teatralità dei rituali, un potere trascendentale che gli permette l’accesso ad una dimensione più e più terrifica di quella quotidiana, egli viaggia e apre le porte della coscienza in uno stato di sogno vigile dove non interviene l’immaginazione né l’allucinazione, ma la consapevolezza che tutto ciò che accade durante il viaggio è reale in quella dimensione. Possiamo dunque conferire una straordinaria attualità al lavoro sciamanico che, basandosi su simboli e archetipi, permette un collegamento con la parte antica della mente e della profondità dell’anima. Lo sciamano, come lo psicoterapeuta, usa un linguaggio con il quale l’inespresso trova espressione. Recuperare e rivitalizzare l’anima malata e’ il compito dello sciamano che, usando immagini primordiali penetra nei sotterranei passaggi bloccati della nostra psiche. Qui si muove liberamente nello spazio immaginale dell’inconscio e il paziente trova “il medico dentro di sé” proprio in quello spazio dove si era smarrito cosi che la mente conscia si integra con il substrato inconscio. Questo è lo stesso compito che secoli dopo ha mosso il maestro della psicanalisi, Sigmund Freud, a dedicarsi ai contenuti inconsci della nostra psiche, ad indagare l’ignoto dell’onirico, segnando una svolta epocale e guidando a una visione diversa del mondo con il suo Die Traumdeutung. L’Interpretazione dei sogni segna il passaggio del metodo psicanalitico, per accedere all’inconscio, dalla tecnica della libera associazione di idee al nuovo me-


todo che privilegia l’attività onirica, che di per sé limita considerevolmente l’attività censoria della ragione. Il sogno è, infatti, l’appagamento di un desiderio inconscio su cui opera la censura, rappresenta la lingua dell’inconscio e funziona attraverso le leggi che regolano e strutturano il linguaggio stesso. Possiamo dunque affermare che il sogno è la realizzazione di un desiderio rimosso, questo desiderio risulta spesso irriconoscibile in quanto opera su di esso una forza psichica opposta che vi esercita una censura provocando necessariamente una deformazione della sua espressione. La differenza principale tra Freud e i suoi predecessori è l’idea di considerare il sogno non un mero processo somatico, ma una formazione psichica densa di significato. Il sogno è dunque della stessa natura delle esperienze psichiche della veglia con la differenza che, invece di parlare per immagini verbali, parla per immagini visive. Nel sogno ritroviamo due diversi tipi di contenuto, un “contenuto manifesto” del sogno e un “contenuto latente”. Il sogno manifesto è ciò che la censura interna del sognatore permette che arrivi alla coscienza, il suo contenuto maschera il vero contenuto del sogno tanto che spesso rimane irriconoscibile a una analisi ingenua. Questa deformazione è messa in atto ad opera della “censura”. Ciò che emerge dalle associazioni del sogno riguarda il contenuto onirico latente, laddove il ricordo del sogno tratta invece del contenuto manifesto: «Contrappongo il sogno, quale mi si presenta nel ricordo, al materiale ad esso corrispondente trovato con l’analisi, e chiamo il primo contenuto onirico manifesto, il secondo (...) contenuto onirico latente». Egli non manca di sottolineare che ad ogni modo l’essenza del sogno non sta nel suo contenuto, fosse anche quello più profondo e nascosto, ma nel processo che costituisce il sogno stesso. «Il contenuto del sogno è dato per così dire in una scrittura geroglifica, i cui segni vanno tradotti uno per uno nella lingua dei pensieri del sogno. Si cadrebbe evidentemente in errore, se si volesse leggere questi segni secondo il loro valore di immagini, anziché secondo la loro relazione simbolica». Per Freud è chiaro che il sogno raccontato non è del tutto omogeneo a ciò che è stato sognato. Spesso non rimangono che frammenti, alcune cose vengono dimenticate, altre trasformate, altre anche omesse. Ciò che conta, cioè, non è tanto il ricordo fedele del sogno, quanto il “come” viene raccontato, quello che emerge nella parola del sognatore al momento di riportare il sogno in analisi e dalle associazioni che si legano al sogno. Nel “dire” il sogno è già interpretato dal soggetto. L’analista, in quanto uditore, in posizione di causa per il soggetto, permette che la catena significante si dispieghi. A questo proposito Freud ci dice che il sogno è una formazione psichica che si inserisce in un contesto transferenziale determinato e non può essere interpretato indipendentemente da tale contesto. I meccanismi operativi che producono il sogno così come noi lo ricordiamo sono fondamentalmente di due tipi. Freud li nomina con le parole “condensa-


zione” e “spostamento”, che saranno poi tradotte da Lacan, a partire dalla linguistica di Jakobson, in “metafora” e “metonimia”. Altre particolarità del sogno sono che non conosce causalità, né contraddizione, né identità e che non conosce la negazione e rappresenta le persone e i sentimenti attraverso i loro contrari. Il linguaggio dell’inconscio, il sogno è dunque una sorta di “linguaggio cifrato” la cui decifrazione è possibile solo a partire dalle significazioni fornite dal paziente. L’inconscio è strutturato secondo le regole del linguaggio. Ciò che del linguaggio sfugge alla significazione e che rimane come punto di inconoscibile, un resto non interpretabile, è quello che Freud ha riportato sotto il nome di “ombelico del sogno”, punto oscuro che “non si lascia sbrogliare”. «Questo è allora l’ombelico del sogno, il punto in cui esso affonda nell’ignoto. (...) Da un punto più fitto di questo intreccio si leva poi, come il fungo dal suo micelio, il desiderio onirico». Il sogno è l’illusione individuale per eccellenza, infatti non si può mai affermare che si è conclusa l’interpretazione di un sogno quando si è trovata una soluzione, per quanto “soddisfacente e senza alcuna lacuna (..) è sempre possibile che il sogno abbia un altro significato”. Allora l’interpretazione sarebbe infinita e aperta a tutti i sensi? Freud mette in evidenza un punto d’arresto, una cicatrice a partire dalla quale il sogno non può più rilevare più niente, che chiama ombelico del sogno. Si tratta di un nodo chiuso di pensieri del sogno che non si lascia sciogliere e che non apporta nessun nuovo contributo al contenuto del sogno. In ciò consiste l’ombelico del sogno, il punto in cui esso poggia sull’ignoto. Nel momento in cui una simbolizzazione si produce mediante un lavoro instancabile dell’inconscio, questa è sottomessa dalla natura del significante all’equivoco. Ciò non vuol dire che l’inconscio interpreta, ma che la sua struttura impone un modo di intervento che libera dal peso di un significato univoco fissando il soggetto in un essere, un’immagine alienante di sé. Questo intervento ha lo scopo di portare il soggetto a fare il lutto di un tale senso ultimo e a ritrovare, nella differenza da se stessi dei significati che formano questi nodi irriducibili, l’oggetto che carica il suo fantasma e conferisce al desiderio quel carattere atemporale e indistruttibile che Freud ritrova nel sogno. Il lavoro intellettuale promosso dalla psicanalisi introduce all’equivoco inaspettato, l’apertura per nuove esplorazioni ed elaborazioni, la stessa spinta che muove l’arte. L’arte come rappresentazione può indurre nello specifico dell’osservatore una provocazione. Nel sogno così come nell’arte vi è sempre un ombra di ignoto, la presenza di qualcosa che è inconoscibile..nelle nostre fantasie notturne il nostro inconscio prende forma, le nostre difese si abbassano. Idee, fantasie, fantasmi, paure, alienazioni, terrore, amore, convinzione, idealizzazione, sono parole, solo parole, di cui molte opere raccontano l’esistenza, le stesse parole che ritroviamo nelle nostre fantasie, nei nostri sogni e incubi.


Anatomia del Cigno Nero di Stefano Acuto (Economista)

Nel suo “I Problemi della Filosofia”, Bertrand Russell presentò una celebre metafora sul “Tacchino Induttivista” –ripresa, in seguito, anche da Karl Popper- al fine di confutare l’empirismo tradizionale dell’epoca. In questa metafora, un tacchino in un allevamento statunitense decide di formarsi una visione scientifica del mondo partendo dall’orario in cui il suo padrone gli dà da mangiare. A tal fine, il tacchino aspetta di avere sufficienti osservazioni –le famigerate n nel mondo della statistica- per potersi fare un’idea precisa. Così, giornalmente, il tacchino vede il suo padrone presentarsi puntualmente alle 9 di mattina per sfamarlo, sia che piova, sia che ci sia il sole. Il tacchino quindi, soddisfatto, elabora finalmente l’inferenza: “Mi danno da mangiare alle 9 di mattina”. Peccato che questa deduzione si riveli falsa la Vigilia di Natale, quando, al posto di essere nutrito, è sgozzato dal suo padrone in vista della tradizionale cena. Ho voluto riprendere questa metafora di Russell perché l’avevo ritrovata nel libro “The Black Swan” di Nassim Nicholas Taleb, ex trader, matematico e saggista naturalizzato statunitense ma di origini libanesi. In questo libro, uscito nel 2007, si pone il problema dei “Cigni neri”, ossia quegli eventi molto improbabili da essere trascurati sulla base di un’interpretazione fallace degli eventi. In particolar modo, Taleb fa riferimento ai modelli comunemente usati in finanza per prevedere i rischi che, non potendo leggere nel futuro, si avvalgono dei dati passati per identificare dei trend che, in realtà, sono casuali. Ne è un esempio l’ultima, grande, crisi finanziaria del 2008 causata –anche- da errori di valutazioni del rischio che ha portato le agenzie di rating a valutare alta l’affidabilità di banche d’investimento che in realtà erano sull’orlo del fallimento. I colossi finanziari hanno fatto la fine del tacchino: le agenzie e gli operatori ne hanno giudicato l’affidabilità guardando al passato creditizio degli istituti e valutando i rischi attraverso modelli che sottostimano o non considerano valori aberranti (outliers). Questo discorso può essere esteso alla comprensione generale del mondo che ci circonda. In tempi recenti la comprensione della realtà che ci circonda ha subito una rivoluzione: l’avvento di Internet. Se da un lato le nuove tecnologie, infatti, ci permettono di essere informati in tempo reale su ciò che succede in ogni angolo del mondo, dall’altro ci sommergono di troppe informazioni. Inoltre, il mondo stesso è diventato più complicato, con l’apertura a Oriente e il crollo della dicotomia USA-URSS, gli scenari internazionali sono diventati più difficili da interpretare poiché bisogna andare oltre la semplice lotta all’“evil empire”


reaganiano. Oggi la semplice dicotomia noi-loro non esiste più e il lavoro che deve compiere l’uomo contemporaneo per formarsi un’idea completa degli eventi è quindi arduo: districarsi fra migliaia di opinioni e informazioni –anche false- può dare adito a una conoscenza confusa di una realtà inevitabilmente complicata. Il rischio di basare le proprie decisioni su una conoscenza fallata può quindi farci fare la fine del tacchino. Ma c’è una buona notizia. Noi non siamo come il tacchino. Non viviamo in un recinto e, purtroppo o per fortuna, abbiamo accesso a molte notizie in più di lui, che disponeva solo dell’orario in cui veniva sfamato. E siccome non siamo tacchini dobbiamo poggiare maggiormente sulle nostre capacità intellettive, facendo lo sforzo di eliminare tutti i preconcetti che minano la nostra conoscenza e formarne una propria, scevra da influenze esterne e preconfezionate. Come riconosciuto anche da Taleb in un’appendice a “The Black Swan”, scritta dopo la crisi, il modo che ha l’economia mondiale per sopravvivere, in questi tempi minacciati da ogni parte da catastrofi ed eventi imprevisti, è imparare a vivere con meno certezze e gestendo meglio i rischi, ad esempio evitando di ripetere l’approccio “too big to fail” testimoniato dalla crisi del 2008. Per quanto riguarda la lezione che possiamo trarre nella vita quotidiana, è utile avvalersi della prima parte della sua soluzione. Può sembrare paradossale all’interno di un saggio sulla conoscenza, ma questa non può prescindere da una certa dose di ignoranza, come già recitava il socratico “sapere di non sapere”, ovvero deve formarsi attraverso una continua negazione delle proprie certezze alla ricerca di una cognizione migliore degli eventi. Eliminiamo le barriere intellettuali, politiche e religiose che ci tengono legati alle nostre comode certezze. È l’unica soluzione per non fare la fine del tacchino.


Una volta qui c’erano le tenebre di Federico Cavalleri (Antropologo)

Risalendo il fiume, il capitano Marlow ha sfidato le tenebre; si è recato nel cuore oscuro della notte, là dove sull’umanità non è ancora sorto il sole, là dove tutto è ancora confuso e, nascosti tra le fronde, si celano il genio e la pazzia. Le tenebre di Conrad sono il notturno sotto il caldo africano, perché in quel luogo dimenticato da Dio la normale logica delle cose, la rappresentazione rassicurante che ci siamo dati del mondo scompare, frantumata in una miriade di dubbi e incertezze. Le linee rette delle costruzioni della ragione vittoriana si piegano, si spezzano, la loro imponenza vacilla, la loro solidità si sgretola; tutto pare possibile. L’Africa è sempre stata, dal punto di vista europeo, la patria delle tenebre, laddove logica, ragione e civiltà cedono il passo a un mondo caotico e primordiale nel quale uomini, spiriti e animali si confondono. Nella rappresentazione occidentale, il continente nero corrisponde alla notte dell’uomo prima dell’alba della civilizzazione. Nelle praterie della savana o nelle foreste tropicali vivrebbe un’umanità sconosciuta, ancora inconsapevole del proprio stesso essere umana. Esploratori, missionari ed etnografi sono partiti verso terre lontane affascinati da questi uomini in potenza ancora da plasmare, per scrutare nell’abisso dell’anima o per offrirle la propria luce. Possiamo definire queste forme di umanità notturne perché esse sono selvagge ai nostri occhi: diverse, spaventose e incontrollate sono sembrate il fallimento dell’umanità. Per l’antropologo, invece, esse sono possibilità alternative dell’essere uomini che si distaccano dalla via tracciata da noi stessi e che pensavamo fosse l’unica possibile. Per lungo tempo, l’antropologia si è occupata esclusivamente di loro, dei selvaggi, dei primitivi, del terzo mondo, di coloro che la storia non aveva mai considerato relegandoli a spettatori della modernità, arrivati troppo tardi per poter prendere parte allo spettacolo. L’etnografo viaggia per il mondo e si inerpica lungo questi sentieri divergenti, si perde nella selva di queste possibilità non solo per capire dove portano, ma anche per vedere meglio il tragitto della strada maestra che passa giù a valle. Oggi che il mondo può stare tutto nel monitor di un pc, oggi che il gps ci ha dato l’illusione che sia impossibile perderci, il fatto stesso che queste persone, queste culture, non stiano scomparendo né vengano semplicemente macinate nel tritacarne della globalizzazione, affascina l’antropologo: la molteplicità sopravvive. Esse continuano instancabilmente a produrre uomini e idee, a complicare la via verso la modernità e questo impone una riflessione, instilla un dubbio dovuto riguardo la nostra pretesa di


unicità e ciò che pensiamo di sapere su di noi e sugli altri. Ma quanto lontano bisogna arrivare per cercare il notturno? Marlow sa che la tenebra è parte di tutti gli uomini; sa che la tenebra dominava anche le urbane sponde del Tamigi e che il carro apollineo della ragione e della civiltà non potrà mai diradare completamente quell’ombra che ci avvolge e ci scuote. Una volta conosciuta, una volta strappato il velo di ovvietà e innocenza che ci eravamo posti sugli occhi, scorgiamo la tenebra laddove era nascosta. All’interno degli uomini, dietro le loro costruzioni fatte di filosofia e di scienza, si cela il potere straniante e sconvolgente della diversità, l’alterità impunita. Cosa è più oscuro dell’Altro? Quell’altro che è così diverso dal sé che è impossibile comprenderlo nell’insieme delle proprie categorie, così diverso da essere scandaloso e offensivo, tanto da essere costretti a negarlo, a espellerlo, a marginalizzarlo per salvare le proprie certezze? Tutto ciò non va poi tanto male: però, purtroppo, non portano calzoni! L’incontro con il diverso ha il potere di mettere a nudo le nostre certezze e mostrare quanto quelli che ritenevamo dati incontrovertibili possano essere negati in maniera assoluta con la stessa buona fede con cui noi li eleviamo a verità. Come nell’incontro immaginato tra Montaigne e il re dei cannibali, quando l’altro viene portato tra di noi il velo della normalità viene strappato. lI selvaggio cannibale non si stupisce della grandeur europea ma con poche e semplici domande, evidenzia le ingiustizie e le contraddizioni del nostro mondo e, all’improvviso, non è più cosi chiaro chi sia il più barbaro dei due. L’antropologo fa dello straniamento provocato dal contatto con l’alterità la forza e la fertilità della disciplina, raccoglie una manciata di questa alterità che è andato a prendere negli angoli più sperduti del mondo e la porta a casa. Questo germe di dubbio contamina la propria stessa mente, la obbliga ad allargare i propri orizzonti, ad affrontare la diversità a viso aperto, mettendosi alla prova e assumendosi il rischio di fallire e dover ricominciare tutto da capo. Questo incontro ci porta a costruire una coscienza più fragile, perché consapevole di essere solo una delle vie possibili, contornata da innumerevoli altre possibilità ancora inesplorate o sconosciute che potrebbero in ogni momento contraddirla e renderla del tutto inappropriata. Allo stesso tempo, però, questa è più forte perché sa di non essere meno contingente e meno finta (nel senso latino di fictum: plasmato, modellato, artefatto) delle altre. Essa, quindi, non si regge su una cieca fiducia nell’autorità che l’ha generata, non teme contaminazioni ma anzi vive di rivoluzioni, ripensamenti e scambi. Una volta raggiunta e conosciuta l’alterità, dunque, non è più possibile fuggirla. L’altro-lontano-da-noi ci permette di aprire e riconoscere un altro vicino e dentro di noi e in questo spazio di dubbio e di incertezza che si crea si apre la via dell’artista, inteso come sperimentatore di nuove forme di conoscenza (e di coscienza). L’artista si fa esploratore dell’alterità, dell’ altro-dentro-di-noi e ci


riporta con il suo lavoro tracce e immagini di questo viaggio, insegnandoci che altre forme di veglia, di sguardo, di presenza sono possibili. L’artista individua lo scarto necessario tra realtà e pensiero, trova il punto cieco della nostra prospettiva ma invece di correggerlo lo pone nel mezzo, usandolo a mo’ di lente per sondare quella notte che sta tutt’intorno a noi. Su questa architettura volutamente dubitante, egli costruisce i saperi della notte, la interroga e la fa parlare. Le parole della notte non godono della semplice chiarezza di quelle diurne, non si dispongono in maniera ordinata ed esaustiva in un discorso compiuto. L’artista con le sue opere non può, non vuole segnare una strada; esse non ci permettono di vedere i particolari come la luce del sole, ma ci permettono di ammirarle e di guardare dentro di noi, come le stelle di notte.



BIOGRAFIE


Edoardo Aruta (Roma, 1981)

vive e lavora tra Roma e Venezia. Ha studiato Progettazione e Produzione delle Arti Visive presso l’Accademia di Belle Arti di Roma e l’Università Iuav di Venezia. Parallelamente agli studi, sviluppa una pratica artistica che dal 2003 espone in vari ambiti, a livello nazionale e internazionale. Nel 2008 inizia a lavorare come scenografo, scenotecnico e costumista in ambito teatrale e cinematografico, tali esperienze professionali lo hanno portato a includere nella sua pratica vari tipi di linguaggio, dagli approcci più classici della scultura all’installazione, alla performance e alla creazione di spazi alternativi.

Franko B (Milano, 1960)

vive e lavora a Londra. I lavori di Franko B spaziano tra disegno installazioni, sculture, performance. Nel corso degli anni ha costruito un corpo considerevole di lavori e si è fatto conoscere a livello internazionale lavorando con molte istituzione attraverso i continenti, tra cui la Tate Modern , Tate Britain Tate Liverpool, UK. ICA (Istituto di arte contemporanea a Londra) Ikon Gallery di Birmingham, UK., il PALAIS des Beaux-Arts, Belgio, EX TERESA CITTÀ DEL MESSICO, Messico, PAC (Padiglione di Arte Contemporanea, Milano), RU ARTS Mosca, Russia e molti altri. Le sue opere sono in collezioni private e in istituzioni pubbliche tra cui alla Tate Modern, al Victoria and Albert Museum, e nella collezione permanente del Comune di Milano.

Filippo Berta (Treviglio, 1977)

vive e lavora a Bergamo. Nel 2014 vince il Premio Maretti a L’Avana (Cuba) ed è finalista al Talent Prize di Roma. Nel 2008 è tra i vincitori della IV Edizione del Premio Internazionale della Performance, Galleria Civica di Trento. Ha esposto al Museo MADRE di Napoli, al Jonkopings Lans Museum (SE), alla Städtische Galerie di Brema (DE), allo State Museum of Contemporary Art di Salonicco (GR), al Pori Art Museum (FIN), al Vandalorum Museum, Varnamo (SE), al Victoria Art Center di Bucarest (RO), al Center for Cultural Decontamination, CZKD, Belgrado (SR), alla Galleria Augeo Art Space (ITA), al Matadero Madrid, Contemporary Art Center


(SP), alla Gallery 400, Chicago (USA), al Brukenthal National Museum di Sibiu (RO). Ha partecipato alla Biennale di Thessaloniki IV Edizione (GR), Biennale di Praga V Edizione (CZ) e alla III Edizione della Biennale di Mosca - Young Art (RU). Ha preso parte a differenti residenze per artisti, tra cui: Fondazione Ratti di Como, Fondazione Spinola Banna di Poirino (TO) e Careof di Milano; e partecipato a numerosi festival, come: 30th International Festival (2014, Sarajevo), International Konst Film (2013, Svezia), Corpus 3 (2012, Napoli), 3rd Thessaloniki Performance Festival (2013, GR) Romaeuropa Festival, Digital Life (2012, Roma), Tulca, After the fall (2011, Galway, IR), European Performance Art Festival (2011, Varsavia, PL).

Ludovico Bomben (Pordenone, 1982)

Dopo la laurea all’Accademia di Belle Arti di Venezia, con il massimo dei voti, si dedica alla ricerca artistica concentrandosi sull’uso della luce e sull’indagine dello spazio come luogo dell’apparire della relazione. Partecipa a varie mostre in sedi istituzionali e private, nel 2006 inaugura la sua prima mostra personale in Galleria 42 (Modena), lo stesso anno in cui vince il Premio per l’Innovazione alla Fondazione Bevilacqua la Masa (Venezia). Successivamente, espone a Villa Manin a Udine, Viafarini a Milano, Tina B. Festival di Praga e nel 2011 alla 54. Biennale di Venezia. Nel 2013 vince il Premio Acquisto Rotary Club al Concorso Francesco Fabbri di Treviso. Parallelamente, approfondisce il campo della progettazione, del design e della grafica lavorando per varie aziende del territorio pordenonese.

Roberta Busechian (Trieste, 1990)

Nel 2009 si trasferisce a Venezia, dove studia Arti Visive e dello Spettacolo presso l’Università Iuav. Dopo alcune installazioni presso istituzioni e spazi veneziani, due collettive e svariate performance di cui un’inerente al finissage di I miss my enemies, evento collaterale della 54. Biennale di Venezia, nell’estate 2012, partecipa al Corso Superiore di Arti Visive presso la Fondazione Antonio Ratti (Como) e riceve un Atelier presso la Salzburg International Summer Academy of Fine Arts, all’interno della fortezza medievale Hohensalzburg. Dopo la laurea, si trasferisce a Berlino. Tra i suoi progetti: due mostre collettive: Corpo Circuito a Caldogno (Vicenza, 2013) ed Echo Back presso la Galleria Jarach (Venezia, 2014); la conferenza sulle installazioni sonore nello spazio pubblico all’Università Iuav di Venezia nel marzo 2014 e la collaborazione con il poeta austriaco Christoph Szalay che si conclude in una performance sonora e testuale presentata a Berlino e a Weimar. Parallelamente, dal 2013 si occupa di


musicoterapia con i pazienti affetti da demenza nelle case di riposo a Berlino, tiene workshop sulle installazioni sonore e partecipa a festival di musica sperimentale, performance e sound art, tra cui hoergeREDE-Elevate Festival (Graz, 2014) e Vorspiel-transmediale (Berlino, 2015).

Hilario Isola (Torino, 1976)

Si laurea in Storia dell’Arte e Museologia presso l’Università degli Studi di Torino. Dal 2003 porta avanti una ricerca nell’ambito dell’arte contemporanea, che per gli interessi e la formazione in storia dell’arte, museologia e architettura, sconfina in altri ambiti espressivi, creando installazioni che rispondono direttamente al contesto o che usano lo spazio espositivo come medium, rispondendo all’architettura e agli oggetti presenti nell’ambiente, siano essi gallerie, luoghi specifici o paesaggio. Spesso ha collaborato a progetti di diversa scala con artisti, principalmente con Matteo Norzi con cui ha condiviso fin dall’inizio un importante sodalizio artistico, con studi di architettura come Isolarchitetti, studio LSB e studio SCEG, e con musicisti e compositori come Enrico Ascoli e Ivan Bert. Il suo lavoro è stato esposto in Italia e all’estero, in sedi e istituzioni come Art in General, NY; Artists Space, NY; SculptureCenter, NY; CCA Canadian Centre for Architecture, Montreal; Museion, Bolzano; David Roberts Art Foundation, Londra; GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea Torino; Fondazione Bevilacqua la Masa, Venezia; Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino; NMNM Nouveau Musée National de Monaco, Montecarlo.

Enrico Ascoli (Torino, 1974)

vive e lavora a Parigi. Psicologo di formazione, Enrico Ascoli, è compositore, sound designer e sperimentatore sonoro. Lavora da anni nel campo dell’arte contemporanea, delle installazioni multimediali, della pubblicità, del cinema e della ricerca nella psicologia cognitiva. La sua vasta gamma di ispirazioni teoriche ed estetiche appare reinterpretata in modo poetico nelle sue colonne sonore, installazioni ed esibizioni dal vivo. Collabora con diversi artisti video e d’arte contemporanea e con essi ha esposto in istituzioni, musei, gallerie e partecipato a numerosi film festival. Nel 2013 si aggiudica, con l’installazione Opium, il premio del Milano Design Award come miglior installazione sonora. Negli ultimi anni porta in giro a livello internazionale la sua performance Fo-


odjob, frutto di una delle sue maggiori tematiche di ricerca: quella dell’interazione tra cibo e suono. E’ docente di Sound Design presso l’Istituto Europeo di Design (IED) di Milano e il Centro Sperimentale di Cinematografia di Torino.

Leonardo Mastromauro (Trani, 1988)

Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Firenze, dove si diploma nel 2011 con una tesi in Estetica. Attualmente frequenta il Corso di Laurea Magistrale in Arti Visive presso l’Università Iuav di Venezia. Ha esposto presso spazi pubblici e privati, tra cui Fondazione Bevilacqua La Masa (Venezia), Viafarini DOCVA (Milano), Mediateca toscana (Firenze), Quattro/Quarti (Bologna), in occasione di Artefiera Bologna 2014.

Corinne Mazzoli (La Spezia, 1984)

vive e lavora a Venezia. Ha frequentato l’Accademia di Belle Arti di Firenze, conseguendo nel 2012 la Laurea Specialistica in Progettazione e Produzione delle Arti Visive all’Università Iuav di Venezia. Rappresenta realtà distorte e corrotte per mezzo di molteplici media, dal libro al video, dall’installazione alla performance. Nel 2013 è in residenza presso la Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia, dove vince il Premio Stonefly Cammina Con L’Arte con il lavoro Tutorial #1: How to get a Thigh Gap. Attualmente è artista in residenza a VIR Viafarini in Residence, Milano.

Simone Pellegrini (Ancona,1972)

vive e lavora a Bologna. Dal 2003 con la personale “Rovi da far calce” inizia la sua collaborazione con la Galleria Cardelli & Fontana di Sarzana (SP). Nel 2004, con “I muschi del sentiero”, espone per la prima volta alla Galleria Bonioni Arte di Reggio Emilia. Nel 2006 inaugura la personale “Stille” presso la Galerie Hachmeister di Munster che diviene la sua galleria di riferimento per la Germania. Nel 2010 avvia, in occasione della doppia personale “Jus, il Giusto nel suo mondo”, la nuova collaborazione con la Galleria GuidiMG Art di Roma. Le sue opere sono rappresentate dalle gallerie suddette presso ArteFiera di Bologna e ArtCologne.


Fabrizio Perghem (Rovereto, 1981)

A seguito del Diploma in Arte Grafica Pubblicitaria, Cinetica e Fotografica conseguito a Rovereto, si laurea con una tesi in Antropologia Culturale presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Partecipa a varie mostre in Italia e all’estero, in città quali Venezia, Lugano, Bari, San Paolo; realizza diverse installazioni site-specific in spazi antropizzati, come in cave dismesse o su frangiflutti posti in mezzo al mare. Negli ultimi anni la sua ricerca si è concentrata sulla relazione tra il paesaggio e l’uomo, e sulle pratiche d’intervento di quest’ultimo sulla natura. Nella concezione dell’artista, le azioni intraprese e il nuovo materiale visivo prodotto devono mirare non a creare un ulteriore luogo, ma a produrre delle interferenze che consentano di captare forze non immediatamente visibili in un ambiente.

Fabio Roncato (Rimini, 1982)

vive e lavora tra Venezia e Padova. Nei primi anni 2000 si trasferisce a Milano, dove consegue il Diploma di Laurea quadriennale in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera, e dove si dedica al graffitismo. Trascorre un periodo a Berlino prima di ristabilirsi in Veneto. “Ciò che mi interessa con il mio lavoro è cercare di comprendere i meccanismi della società, delle persone e delle cose in generale. Spesso parto da elementi che mi appartengono in prima persona, le mie esperienze, le mie suggestioni, le smonto e le ricompongo provando a svelare ed esplicitare la fascinazione per le macro strutture, procedendo con la stessa tenacia con cui si smonta un gioco per capirne il funzionamento”.

Simone Rondelet is innocent.

Caterina Rossato (Lecco, 1980)

vive e lavora a Venezia. Parallelamente allo studio del pianoforte presso i conservatori di musica di Como e Castelfranco Veneto si è diplomata all’Accademia Carrara di Belle Arti di Bergamo (2006) e ha ottenuto la Laurea Magistrale in Progettazione e Produzione delle Arti Visive all’Università Iuav di Venezia (2010), dove ha appena conseguito il Master in Interactive Arts (2015). Ha lavorato come assistente per artisti quali Pascale Marthine Tayou (2009) e Nan Goldin (2010), e dal 2011 è assistente di Alberto Garutti per il Laboratorio di Arti Visive presso


l’Università Iuav di Venezia. Ha partecipato a residenze artistiche con Luca Vitone (2009) e Benjamin Weil (2010) presso la Fondazione Spinola Banna per l’Arte di Poirino ed è stata assegnataria di uno studio d’artista presso la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia (2010). Tra le mostre a cui ha preso parte: Un’idea brillante, Frise Künstlerhau, Hamburg (curata da Francesco Urbano Ragazzi, 2014); Padiglione Crepaccio at yoox.com, Ca’ Soranzo, Venezia (curata da C. Corbetta in occasione della della 55. Biennale d’Arte, 2013); Helicotrema, MACRO, Roma (curata da Blauer Hase, 2013); BYTS ‘s-HERTOGENBOSCH, Stedelijk Museum ‘s-Hertogenbosch (curata da Monique Verhulst, 2011); L’arte non è Cosa Nostra, Padiglione Italia/Accademie, Tese di San Cristoforo, Venezia (in occasione della 54. Biennale d’Arte, 2011).

Mustafa Sabbagh (Amman, Giordania, 1961)

attitudine nomade. Formatosi a Londra come assistente di Richard Avedon, nel 2007 collabora con la prestigiosa Central Saint Martins College of Art and Design. Mustafa’s photography, video and multimedia work have been exhibited internationally and featured in a wide range of publications Pubblica diversi lavori in numerose testate tra le quali Arena, The Face, Vogue Italia, l’Uomo Vogue, Rodeo, Gasby, Front, Kult, Sport & Street. Ad oggi, Mustafa Sabbagh è stato riconosciuto, da un curatore e storico dell’arte quale Peter Weiermair, come uno dei 100 fotografi più influenti al mondo, ed uno dei 40 ritrattisti di nudo - unico italiano - tra i più rilevanti su scala internazionale. Le sue opere sono presenti in molteplici collezioni permanenti, in Italia e all’estero.

Alberto Scodro (Marostica, 1984)

vive e lavora tra Bruxelles e Nove (VI). Tra il 2009 e il 2010 è stato tra gli assegnatari degli atelier della Fondazione Bevilacqua la Masa, Venezia. Tra le mostre personali: Hiap, Helsinki (2014); Spannung, Viafarini, Milano (2013); Werkbank, Lana, Bolzano (2013); Villa Dalegno, Brescia (2012); Lete, Spazio privato, Padova (2011); Verso, Monastero Bormida (2011); Fune, Spazio Monotono, Vicenza (2010); Alberto Scodro, Agricultural Centre, Pechino (2010); Cardine, Teatro Instabile, Napoli (2008). Ha esposto inoltre in mostre collettive presso Fondazione Bevilacqua la Masa (Venezia), Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (Torino); MAG (Arco), Galleria Civica G. Segantini (Arco, TN), A + A Centro Espositivo Sloveno (Venezia).


Miriam Secco (Varese, 1981)

vive e lavora a Venezia. Nel 2008 si laurea in Pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, dopo un periodo di studi all’Académie Royale Des Beaux Arts a Bruxelles. Il suo lavoro è presente in esposizioni internazionali a Milano, Bruxelles, Lubiana e Grenoble; e in istituzioni tra cui il Museo Nacional des Bellas Artes a L’Avana, la 54. Biennale di Venezia, Padiglione Italia/Accademie, La Fabbrica del Vapore, Milano. Nel 2014 vince il secondo premio della 98esima Collettiva Giovani Artisti alla Fondazione Bevilacqua La Masa, dove attualmente è in residenza. La sua ricerca si sviluppa intorno all’ambivalenza tra due tensioni che caratterizzano la natura umana: da un lato l’immaginazione come metodo per mettere alla prova le conoscenze comuni, e quindi il superamento di ciò che viene considerato ovvio; dall’altro, una forte tendenza alla conservazione. Nelle sue performance e installazioni esplora i processi di trasformazione in diversi contesti, analizzando i meccanismi di sopravvivenza.

Elisa Strinna (Padova, 1982)

vive e lavora in Italia. Nel 2006 si diploma in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna e completa i suoi studi con la Laurea Magistrale in Arti Visive all’Università Iuav di Venezia. Partecipa alle residenze d’artista presso: Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia (2008-2009); Fondazione Pastificio Cerere, Roma - Citè internationale des arts, Parigi (2010-2011); East China Normal University, Shanghai (2014).

Serena Vestrucci (Milano, 1986)

vive e lavora a Venezia. Ha presentato il suo lavoro in mostre personali presso: OTTOZOO, Milano (I Eat Lunch Between Two Highways, 2013), Furini Arte Contemporanea, Roma (Tigre contro tigre, 2012), IL CREPACCIO (2012). Tra le mostre collettive più recenti: The Remains of the Day, a cura di Rita Selvaggio, San Giovanni Valdarno (AR), Così Accadde, Fondazione Sandretto Rebaudengo, Torino, Evoluzione, a cura di Marco Tagliafierro, Spazio Monotono, Vicenza, Padiglione Crepaccio at yoox.com, Ca’ Soranzo, Venezia, curata da Caroline Corbetta in occasione della vernice della 55ma Biennale d’Arte, Fuoriclasse. Vent’anni di arte italiana nei corsi di Alberto Garutti, a cura di Luca Cerizza, GAM, Mila-


no, Falansterio, a cura di Guido Molinari, Spazio Morris, Milano, Opera 2011, Fondazione Bevilacqua La Masa, Venezia. Ha partecipato a residenze a Bruxelles (Penthouse Art Space Residency, 2015, Galleria FuoriCampo), Belgrado (Real Presence, 2010, nKA/ICA), Venezia (Fondazione Bevilacqua La Masa, 2011), Bologna (Accademie Eventuali, 2013, realizzata da Fondazione Carisbo e Fondazione Furla, in collaborazione con il MAMbo) e Genova (AFTER THE FUTURE, Genova MaXter Program, 2013).



per la pazienza, la fiducia, l’affetto: Valentina Furian Stefano Mudu Francesca Rumiato Giulia Toccafondi Ilaria Gentilini Giulia Sofi Claudio Piscopo Caterina Rossato Leonardo Mastromauro Si ringrazia: Grazia Sechi Sara Danieli Sofia Nissardi Giulia Vivaldi Davide De Carlo Nicolas D’Oronzio Aldo Aliprandi Giovanni Dantomio Giulio Peirè Edison Pashkaj Pietro Rigolo Nicolò Moschera Stefano Acuto Marta Sioli Federico Cavalleri Martina Trombini Federica Ballabio Agnes Kohlmeyer Rachele Ferrario Grazia Seregni Chiara Vecchiarelli Master Audio, Padova (Maurizio Schicheri) Adriano Lacinio & Giulia Raschetti Per aver creduto in me e in questo progetto per aspera ad astra



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