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ARTISTA


EL GATO CHIMNEY DI MORENO PISTO

A FEBBRAIO 2016 NEL PRIMO NUMERO DEL NUOVO C’ERA UNA SUA OPERA. UN ANNO DOPO L’ABBIAMO RICONTATTATO PER CAPIRE COME VA... VIA WHATSAPP

04/02/17, 09:58:19: pistoisfree: Ultimamente mi sto ristrippando per i Rolling Stones. Tu li conosci bene? Ti piacciono? Chessò, non so perché ma Jagger per me è il più figo di sempre, ha quel qualcosa di lascivo che è molto blues, ha meraviglia, ha nostalgia, cose che poi ricerco in tutto, che mettono una linea tra ciò che mi piace e ciò che non mi dà niente 04/02/17, 09:58:31: pistoisfree: Succede anche a te? C’è qualcosa di simile? 04/02/17, 12:07:15: El Gato Chimney Marco: Ciao Moreno, buongiorno! Bè si, chi non conosce i Rolling Stones?! Però no, mi dispiace dirti che non ne sono mai andato matto ahah Però capisco benissimo cosa intendi, credo che sia quell’aspetto fondamentale per definire cosa ha un anima e cosa no, una cosa sentita da una fatta tanto per fare! Io personalmente trovo inevitabile e fondamentale tracciare questa linea di demarcazione in certi ambiti e sono anche piuttosto esigente. Ammetto che comunque è una cosa puramente personale e soggetta a numerose mutazioni, ma guai se non lo fosse! Comunque quando si riesce a trovare una cosa così è decisamente stimolante no? A me quando succede dà sempre nuove prospettive e nuovi obbiettivi e questo è molto importante. 09/02/17, 06:48:08: pistoisfree: Ehi El Gato rieccomi... pensi che ti stancherai mai di fare uccelli e camini? E se sì cosa c’è dopo? Cosa c’è dopo alla fine è una domanda cardine. Decisiva. In ogni cosa. Dopo la vita, ok. Ma dopo ogni cosa. Sta ansia del tempo, sta curiosità da soddisfare. È una fortuna ma anche una condanna... 12/02/17, 10:56:37: El Gato Chimney Marco: mah..magari il temine “stancare” è un po’ drastico, ammetto che i volatili sono sempre stati tra i miei soggetti preferiti, però sicuramente ci saranno dei cambiamenti, come ce ne sono sempre stati nella mia pittura. L’evoluzione è vitale e in generale mi annoia la ripetitività, quindi arrivo a un punto in cui sento il bisogno di questi cambiamenti, però mi è difficile sapere cosa ci sarà esattamente dopo. Non è una cosa che riesco a pianificare a tavolino, sono quasi sempre delle mutazioni spesso improvvise, dei piccoli passi non necessariamente radicali, che inconsciamente maturo con le mie ricerche, con le persone che incontro, con le cose che vedo ecc. ma che a lungo termine mi portano a cambiare ed evolvermi anche in maniera significativa. Non riesco a percepire l’arte come una cosa meccanica, per me è una cosa viva che nei suoi cambiamenti (anche paradossali) ha una continuità, deve crescere con me e cercare di far sì che “dopo” ci sia qualche cosa di meglio di quello che ho fatto precedentemente, ma per riuscirci devo lavorare soprattutto sul presente. Insomma..ho degli obbiettivi, ma non voglio essere io a precludermi possibilità. 12/02/17, 13:07:15: pistoisfree: Cosa ti ispira Marco? Cosa ti ha ispirato ultimamente?

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20/02/17, 16:07:04: El Gato Chimney Marco: Parecchie cose, ma sicuramente i capi saldi sono il folklore inteso come credenze popolari magico/ votive, stampe antiche di sapore ermetico e i cabinet de curiositè soprattutto se naturalistici. Ma anche l’arte tribale, l’outsider art e la scultura folk americana hanno una grossa influenza su di me. Molto spesso non sono solo gli oggetti d’arte in sé e il loro valore artistico simbolico a ispirarmi, ma sono le collezioni stesse, intese proprio come raccolta a fornirmi basi su cui lavorare... Detto questo comunque non posso negare l’immensa influenza che ha su di me l’arte antica e soprattutto quella contemporanea, credo che sia quasi banale sottolineare che è praticamente impossibile esserne immuni, e lo dico in senso positivo ovviamente! Ho voluto essere sintetico e mi fermo qui, ma in verità il discorso sarebbe veramente vastissimo e bisognerebbe approfondire questo argomento per capire meglio quello che creo, perchè di fatto la mia arte si ispira e si basa proprio sui miei interessi.



CI STIAMO PRENDENDO GLI SPAZI CHE MERITIAMO: GRETA SCARANO È TOSTA

Dagli esordi in tv fino alle due grandi interpretazioni in Senza nessuna pietà di Alhaique, che le è valso il Premio Biraghi e in Suburra di Sollima dove recita la parte profondissima di Viola e si porta a casa il Ciak d’oro e il Nastro d’argento. Oggi è al cinema con la banda di ricercatori di Smetto Quando Voglio, Masterclass e attualmente è a Palermo per le riprese di un film per la televisione. La trentenne romana è pronta a conquistarsi il suo spazio. Sempre di più. Sei a Palermo per? Sto facendo un film di Stefano Mordini, per Canale 5 su Emanuela Loi che è stata la prima e unica poliziotta donna uccisa dalla mafia. Faceva la scorta per Paolo Borsellino ed è morta nella strage di D’Amelio. È la seconda volta che interpreti un personaggio realmente esistito, ricordiamo il recente e importante film di Faeza La verità sta in cielo sul caso di Emanuela Orlandi. Cambia l’approccio attoriale in questi casi, e se sì, come? Nel caso del film di Roberto c’era una difficoltà in più, che Sabrina Minardi, la donna di Renatino De Pedis, il Dandy della Magliana, è ancora viva e questo potrebbe dare il via a tutta una serie di conseguenze. Il fatto che lei magari vede il film e potrebbe avere da ridire sull’interpretazione, poi non è successo perché io non l’ho mai conosciuta, però certamente è motivo in più per prepararsi meglio perché il carico di responsabilità dell’attore è maggiore. Come procedi in questo senso? Io cerco di fare un lavoro di mimesi, di rispettare il più possibile il personaggio che interpreto. Lo faccio comunque, anche se si tratta di finzione. Nel caso attuale di Emanuela Loi ci sono ancora tutti i famigliari che sono ancora molto legati a lei e quindi mi sono fatta un’idea grazie a quello che mi hanno detto loro e mi sono documentata il più possibile. Poi a un certo punto però devi mollare e interpretare. Quindi sei una secchiona? Sì, sì! Sono una secchiona! Studio il più possibile, poi però cerco di dimenticarmi tutto e di lavorare sull’istinto e sul qui e ora. Adesso sei al cinema con Smetto Quando Voglio Masterclass, il secondo film della saga dei ricercatori di Sydney Sibilia, poi ce ne sarà anche un terzo. Com’è stato entrare in un gruppo consolidato e prendersi il proprio spazio? Non ho fatto fatica dal punto di vista personale perché molti attori li conoscevo già. Il mio personaggio si differenzia da quelli della banda perché è una donna e poi è abbastanza vero, nel senso che abbiamo cercato di essere il più aderenti possibile alla realtà, senza però dimenticare di essere brillanti e carismatici. Mi sono divertita moltissimo, immagina le dinamiche che accadono in gruppo di maschi, matti. Però abbiamo anche molto lavorato. Sydney è molto bravo, è attento a tutto, alle grandi e alle piccole cose, è molto esigente. Sydney, tu e altri giovani attori, sceneggiatori e produttori fate parte di quella generazione preparata e determinata che si sta, fortunatamente, prendendo spazio nel panorama del cinema italiano. Cosa ne pensi a riguardo? Che stiamo scaldando i motori! Credo che la mia generazione, quella un pochino prima e quella che verrà, siamo un po’ stanchi di sentirci messi da parte. Ci stiamo prendendo degli spazi importanti ed era ora. È bello che il cinema, in un Paese come il nostro che è gerontofilo per natura, rifletta l’esigenza di una generazione più giovane che tenta nuove cose e si nutre di cinema e serie internazionali, ma con una grossa preparazione. Io parlo per me ma credo di poter estendere il discorso anche ad altri. E quindi ci stiamo prendendo lo spazio che ci spetta ma perché ce lo meritiamo. Si pensa sempre che ci sia competizione, che sicuramente c’è, ma questo dipende purtroppo dal fatto che qui in Italia si fanno troppe poche cose e quindi lo spazio è poco e bisogna lottare per ottenere i ruoli. Però ultimamente credo che ci siano ruoli adatti a ognuno, dopo tante, enormi e dolorosissime delusioni, come tutti gli attori, ho capito che se non sono stata presa era giusto così. E le rare volte in cui sono stata presa era proprio necessario. Sto diventando un po’ più saggia. C’è uno dei tuoi personaggi che ti manca e che vorresti ritrovare? Sicuramente il personaggio di Viola in Suburra di Stefano Sollima scatena sempre un certo effetto ogni volta che ci penso. Ancora adesso quando sento le canzoni della colonna sonora degli M83, mi sento male! Ma perché ho investito tantissimo in quel ruolo, sono molto affezionata all’amore di Viola per Numero 8. Insomma mi è rimasto un po’ addosso. E poi anche il personaggio che ho interpretato in Senza nessuna pietà di Michele Alhaique. Che musica ascolti? Tante cose, sono una grossa rockettara. Da Janis Joplin, Bob Dylan, Patti Smith. Ultimamente però mi sono anche un po’ contemporaneizzata, mi piacciono i Thegiornalisti, li adoro, Mannarino, o gruppi indie non italiani, Bon Iver, Mumford and Son. Salutami Stefano Mordini che è stato un mio professore di sceneggiatura, eravamo tutte innamorate di lui. E te credo! Io sono pazza di lui perché è bravissimo, considera che io ho sempre detto di voler lavorare con i registi internazionali, Malick, Iñárritu, Aronofsky, ma c’è Mordini! E non scherzo. Per un attore è il massimo, lui mette la musica sul set, ti spiega le temperature delle scene. Sai noi in Italia, avendo un’impostazione televisiva, perché gli attori per sbarcare il lunario sono costretti a lavorare in televisione dato che di cinema se ne fa poco e quindi abbiamo i tempi televisivi e la fissa delle posizioni. Invece lui ti chiede di non sentire la macchina da presa, di vivere la scena e il momento. Il massimo. Una scoperta incredibile.

INTERVISTA DI SILVIA ROSSI

ABBASTANZA PROVATA MA MOLTO CONTENTA. GRETA SCARANO È UNA TOSTA. BRAVA, BELLA E CON GRANDE PERSONALITÀ.

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Leopoldo Righi, per tutti Leo, era uno di quegli avvocati in scooter che nelle code ai semafori fanno lenti zig zag tra le auto e sfiorano i cofani con i lembi delle giacche grigie. Diceva che la sua più grande paura erano i binari dei tram: «se ti si infila dentro la ruota cadi, ed è finita». Una notte di marzo, rimasto solo in studio, ha aperto la finestra. Il vento ha fatto rotolare il foglio appallottolato sulla sua scrivania. Il foglio è cascato. Leopoldo l’ha raccolto e si è chiesto: «e io quando ho fatto l’ultima capriola?». Molti anni prima, al mare, in una partitella sulla sabbia aveva calciato di punta, come al solito. E aveva fatto gol. Leopoldo era troppo lungo, dinoccolato. Non sarebbe stato un bello spettacolo. Si era abbassato il costume, per fare qualcosa di memorabile. Tutti avevano riso. Alla fine ha dovuto ammetterlo: non aveva mai fatto una capriola in vita sua. Non era mai andato con una puttana, pagare mi umilia diceva. Non aveva mai detto al padre che la sua grigliata della domenica gli faceva schifo. Però, Cristo Santo, una capriola, ribaltare sangue e mondo e poi tornar su, come poteva non averlo mai fatto? È andato al Sempione all’ora dei primi vecchi con i cani. Ha scelto uno spiazzo ben riparato dagli alberi. Ha controllato che non ci fossero buche da slogarcisi un polso. Si è bloccato un paio di volte in ginocchio, a gattoni. La terza c’è riuscito. A lavoro, il capo gli ha fatto notare che aveva i gomiti sporchi di erba. L’ora d’aria, la zona fumatori, il capodanno, la guerra. Tornando a casa, ha visto un cartello appeso alla porta di un bar con la veranda: cercasi cameriere. È entrato. Il proprietario, Marco, era sovrappeso, con le dita grosse di chi lavora da sempre e lo sguardo che resta fermo mentre ti parla. «Un mese di prova, poi vediamo» gli ha detto Marco. «Se hai sete spinati una birra. Dopo la chiusura tiriamo giù la serranda e facciamo il karaoke con qualche amico». Leopoldo non sarebbe più tornato nello studio. Si è fermato a un mercatino. Ha comprato sei giacche di colori sgargianti. Si è fatto crescere i capelli, non li ricordava così lisci. Il mese scorso, al Sempione, è rimasto sdraiato dopo una capriola, canticchiando Crocodile Rock di Elton John, il suo cavallo di battaglia nel bar. Ha sentito qualcosa

A.K.A. LEO

LUNEDií

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Rebecca Tintoretto, restauratrice, era una a cui avresti lasciato le tue chiavi di casa. Non si definiva affidabile, ma scoperta. Non c’era un filtro tra i suoi sentimenti e le sue espressioni. La sua vita interiore era di sughero, a galla. Cercava di frequentare meno gente possibile per limitare le sue verità di carne e i conseguenti imbarazzi. La domenica si sentiva obbligata a partecipare alla grigliate del padre malato e, nel sentire l’odore di grasso sciolto di maiale, rigurgitava dietro un cespuglio di bosco. Ancheggiava, non poteva farci niente, allora si voltava spesso indietro. Se conversando con un’amica faceva un complimento o criticava un conoscente, afferrava subito il telefono per controllare che intanto non le fosse partita una chiamata all’interessato. Il mondo era così aperto, lo spazio così avvolgente. Se fosse vissuta in una realtà a due dimensioni si sarebbe sentita più libera. Non poteva immaginare un marito migliore di Antonio. Da otto anni, ogni settimana, in un giorno a sorpresa così che Rebecca non ci si abituasse, le spediva in laboratorio un mazzo di tulipani blu. Da parecchio lei non riusciva più a farci l’amore. Antonio era pulito, per carità. Ma la sua pelle aveva un che di untuoso. Quando la baciava le sembrava di aprire una scatoletta di tonno. Non poteva simulare. Cercava di non incrociare sguardi maschili. Obbligata, col bancario o col panettiere, premeva il palmo contro lo spillo con testa di perla che teneva nella tasca della giacca e assumeva un’espressione di dolore che gli uomini scambiavano per disgusto. Solo i suoi sogni erano di piombo, a fondo. La mattina si svegliava eccitata e non c’era verso che si ricordasse perché.

A.K.A. REBECCA

MERCOLEDIí

svuotato della bile frizzante dei sogni irrealizzabili. Invece di cantare, in pratica, mugugnava. Finché, un bel giorno, nell’afferrare una bottiglia di birra, il suo pollice non fece crick. Controllò su Google: poteva essere il primo sintomo di un’artrosi precoce, anche se difficilmente questo era il suo caso, dal momento che non aveva nemmeno compiuto venticinque anni. Cominciò a dire, prima alla band, poi al resto del mondo, che era vittima di un brutto scherzo del destino, proprio adesso che tutto s’era messo per il meglio. L’artrosi gli impediva di suonare, di andarsene a Londra. Per rendere la sua tragedia ancora più toccante, si portava comunque in giro la sua chitarra Gibson SG Standard T, colore cherry burst, tenendola come una pochette. Le ragazze si chinavano e gli restituivano lo strumento. «Ce la fai?» gli chiedevano. «Devo farcela. Per ricordarmi chi sono» rispondeva lui.

prescrizione medica, svegliandosi ogni mattina scombussolato da chissà quali sogni furtivi. Non sapendo come riempire tutte quelle ore di veglia supina, leggeva. Ha letto lo Zohar, secondo cui l’anima umana può influenzare il corso dell’Universo. Fu allora, lì, in quel letto bianco, sotto un soffitto bianco, nel silenzio e nella solitudine, che non poté più fare a meno di ricordare e di capire. Quando era un brufoloso e gracile sedicenne, il bulletto del gruppo l’aveva schiaffeggiato di fronte alla gelateria, così, per farsi bello con le ragazzine. Vittorio gli aveva augurato la morte e quello, inforcato lo scooter tutto sghignazzante, fatte due o tre impennate, era stato investito da un fuoristrada. Era morto sul colpo. Per fortuna Vittorio stava anche leggendo - se ne stava aperta a faccia in giù sull’altro comodino - un’antologia di vangeli apocrifi. Dopo aver brancolato nell’orrore per qualche minuto l’ha afferrata, come per un consiglio del Mondo. Ha letto convulsamente in qua e in là. «Spaccate un legno e io sono lì. Sollevate una pietra e lì sotto mi troverete». «L’errore ci tiene prigionieri, cosicché noi facciamo ciò che non vogliamo, e ciò che vogliamo non lo facciamo». «Chi cerca, non smetta di cercare finché non avrà trovato. Quando avrà trovato, si turberà. Quando sarà turbato, si meraviglierà e regnerà su tutte le cose». «L’amore non prende nulla. Infatti, come potrebbe prendere qualcosa, dal momento che ogni cosa gli appartiene?». Vittorio ha deciso di tagliare i ponti con quegli altri commercialisti, avidi e perduti, che la domenica organizzavano grigliate di porco e di colleghi assenti in qualche villa sui colli. Ha investito parte dei risparmi in una piccola baita dalle parti di Predazzo. Con l’aiuto di un muratore ha ristrutturato la vecchia stube. Passava le giornate con i palmi appoggiati sulla volta a botte, caldissima e buona e pensava che la vita può essere perfetta. Ha buttato tutti i completi, tutti i gemelli. Si è comprato una camicia e un cappello da cowboy. Fischiettava le Variazioni Goldberg alle vacche che pascolavano, faceva lunghe passeggiate nei boschi immaginandosi di essere lui a causare le folate che rimestavano gli aghi di pino per terra, fumava sotto il cielo crivellato di stelle e, dalle parti di Orione, gli sembrava di rivedere il sorriso crudele e splendente del bulletto che aveva ucciso con la sua anima. Una secca mattina d’estate, stava pensando che aveva proprio voglia di un bel cocomero quando hanno bussato, lui ha aperto e lì davanti c’era il vicino con un’anguria in braccio. Si sono seduti a parlare attorno a un tavolo di legno nel prato. Il vicino, Frank, era un ex docente canadese di economia politica. «C’è anche disperazione là dentro» La cugina di Julius Peluso gli disse che il suo falsetto le ricordava quello di Justin Bieber. Nelle J iniziali dei due nomi Julius vide un segno del destino. Per anni ha chiuso la porta del bagno, acceso il ventilatore, aperto i rubinetti e cantato a squarciagola immaginandosi fragorose invasioni di palco. Per anni ha imitato le movenze di Justin, obbligandolo a replicarle ancora e ancora su YouTube. Quando si è sentito pronto, ha tentato un provino per XFactor. Andò male. Anche il secondo e il terzo. Al quarto tentativo, dopo che Julius aveva riversato tutto il suo talento innamorato di vita in What do you mean?, la tizia che lo esaminava, mentre digitava chissà cosa sul cellulare, ha sbuffato: sembri un maiale quando capisce che stanno per sgozzarlo. Julius ha deciso che il mondo era un posto sbagliato e sordo. Ha deciso per una vendetta esemplare. Quando si svegliava eccitato non si ricordava il perché, ma quando si svegliava sudato il motivo era sempre lo stesso: aveva sognato di precipitare nel vuoto. I treni che sfrecciavano sui binari della stazione di Rogoredo gli facevano una paura fottuta. Non aveva il coraggio di buttarsi né da una finestra né sotto una locomotiva. E come scegliere il cocktail di sostanze da farti chiudere gli occhi prima che ti brucino le budella? In una odiosa grigliata della domenica, nel rigirare una braciola suo padre aveva detto: se mi dovessero giustiziare preferirei l’impiccagione all’inglese. Julius ha trovato la spiegazione su Wikipedia: «Lo standard drop prevede una corda più breve, di una misura dai 4 ai 6 piedi (ossia da 1,2 a 1,8 metri). Questo sistema, introdotto nel diciannovesimo secolo in tutto l’Impero britannico, è considerato un miglioramento dello short drop: causa la rottura del collo e l’immediata paralisi (e probabile perdita di coscienza) dell’impiccato». I suoi non scendevano quasi mai in taverna, che aveva i soffitti alti e un lampadario stile industriale, bello robusto. Julius ha provato a piazzare il tavolo da gioco sopra quello da biliardo e ci è riuscito. Sarebbe bastato un saltino in avanti. Ha comprato da Bricoman una corda da 149 centimetri. Ma come fare un cappio? Lui era un artista, mica un falegname o un altro di quelli là che usano le mani. Su Google, appena digitato «come fare un c», il terzo suggerimento, sotto a curriculum, prima di cappuccino, era cappio. Fior fiore di professionisti, inspiegabilmente vivi, ti spiegavano come impiccarti. Julius si è comprato un grande impermeabile scuro, ha aspettato

A.K.A. JULIUS PELUSO

VENERDIíSERA

una con le treccine afro e le lenti spesse. Aggiunto il secondo cuscino, attorno alla mezz’ora, ha sentito un tocco sulla spalla più forte del previsto. Si è voltata: al posto della donna con le treccine c’era un tale con dei fantastici occhi chiari e un cilindro.

Il primo ricordo di Mattia Fioron era

A.K.A. FIORON

DOMENICA

occhi sbarrati, le pupille dilatate. Gli veniva da stringere la mascella. Una sorta di panico - ma in quello stato il panico assomigliava più a un’eccitazione - l’ha invaso: era fatto di ecstasy. Non prendeva una cala da almeno cinque anni. Da quando faceva il selector in una discoteca di Riccione e, per ingraziarselo, tutti facevano a gara a regalargli coca e pastiglie. Aveva letto dei così detti flashback. Un acido poteva tornarti su anche anni dopo l’assunzione. Ma per l’ecstasy una cosa del genere non l’aveva mai sentita. Mentre si lavava i denti e pensava che un Dio capace di creare il gusto della menta ha di sicuro creato anche un paradiso di vento dolce e di rigogliosi alberi blu, l’ha chiamato Luigi per dargli il buongiorno. Alfredo gli ha detto che lo amava, tantissimo, da impazzire. E non era vero. O forse sì, adesso lo era. Ha deciso di andare dal medico. In sala d’attesa, ha provato una compassione smisurata, cosmica, per quelle vecchine che leggevano Famiglia Cristiana in ricerca dei segni quotidiani dell’azione della Divina Provvidenza sulle esistenze più comuni. Dio mio, in che mondo meraviglioso viveva, com’era tutto perfetto e caldo e vicino. «La pressione è un po’ alta» gli ha detto il medico, slacciandogli lo sfigmomanometro e producendo il suono croccante del velcro che si strappa. «E ha il battito un po’ accelerato. Oggi niente caffè. Si prenda una camomilla». Nel congedarsi gli ha stretto la mano con entrambe le proprie, cercando di trasmettergli almeno un po’ dell’amore orgasmico che gli scorreva dentro. Sceso in strada, l’amore se n’era andato di colpo, così com’era venuto. Assetato d’amore, di pietà, perfino di senso di colpa, col vivo ricordo delle vecchie in sala d’attesa, si è deciso a fare una cosa che non faceva da ancora prima delle ultime cale: andare in Chiesa, confessarsi, farsi promettere cielo e minacciare fuoco, farsi raccontare di una lotta epica tra Bene e Male nella quale siamo tutti coinvolti e che si sta combattendo anche in questo preciso momento, un martedì, a Milano. Ha dato un euro al paki e si è avviato verso Santa Maria alla Fontana, lì a due passi. Il prete era inaspettatamente giovane e biondo. Mentre il sacerdote gli elencava le preghiere da recitare per ricevere il Perdono, al suono di quelle parole misteriose e terribili si è concentrato sulla loro fonte al di là della grata. Il prete aveva labbra ben disegnate. Alfredo ha provato un subbuglio nello stomaco. S’è convinto che si trattava di una crisi mistica e ha chiesto al prete quando avrebbe officiato la prima messa.


Quando i genitori litigavano con suo fratello, che fumava e faceva le impennate, Tommy Claps, d’istinto, avrebbe dato ragione ai genitori. Quando gli insegnanti sgridavano un compagno che aveva lanciato tra i banchi molliche impastate di saliva, se non fosse stato per la paura delle rappresaglie, lui avrebbe annuito solennemente. Ma il protagonista di un film che gli era piaciuto molto aveva detto: «Le donne si sposano con gli avvocati, poi vanno a letto con i teppisti». Tommy aveva provato a rubare una bottiglia di gin al Simply e era stato beccato, a fumare una canna e aveva vomitato, allora si era tinto i capelli di rosso. Dopo la maturità, a una festa estiva, una ragazza col piercing sulla lingua gli ha detto che le ricordava David Bowie ai tempi Ziggy Stardust e gli ha dato un bacio a stampo sulle labbra. Tommy si è comprato una chitarra Gibson SG Standard T, colore cherry burst. Le corde gli tagliavano i polpastrelli, si esercitava con i tutorial di YouTube su La canzone del sole o Sleep Walk, coinvolgendo gli ex compagni dell’istituto geometri con cui era rimasto in contatto. I primi due anni dell’università hanno ammonticchiato un repertorio che partiva dai Beatles e arrivava agli One Direction. I due bassi, spesso non proprio sincronizzati, creavano una specie di goffo borbottio di sottofondo. «Diventerò un grande cantante», si diceva adesso. Finalmente, un amico che gestiva un bar con un piccolo palco a Cinisello Balsamo, li chiamò per un’esibizione. Avrebbero aperto con i Sex Pistols. Erano appena arrivati alla seconda strofa della loro versione di God save the Queen, una versione un po’ addolcita, certo, quando uno dei dieci spettatori, che mangiavano arachidi al bancone, sbadigliò. Tommy camuffò la sua crisi di pianto in un grido e spaccò l’asta del microfono contro il muro. Il problema è che erano nati nella merdosissima Italia. Avessero potuto viaggiare avrebbero sfondato a Londra, o in California, o chissà. Mentre il padre, adesso, poteva concentrarsi sulle sue due passioni. Grigliare salsicce e giocare al Superenalotto, non era andato in pensione da neanche un mese, quando ha vinto il famoso jackpot da sei milioni. Dopo averlo saputo, se n’è tornato a casa schiacciando il clacson, ha divelto i tergicristalli ed è entrato in corridoio agitandoli come due spade da samurai. «Ora puoi fare tutto quello che vuoi» ha detto a Tommy, la stessa sera, tra le lacrime. Tommy avrebbe voluto cavargli quegli occhi bagnaticci con le sue dita. Si trascinò qualche giorno in sala prove,

A.K.A. TOMMY CLAPS

MARTEDIí

di umido toccargli l’orecchio. Era una lingua, attaccata a un piccolo cane con due baffoni lanosi. L’ha preso in braccio, ha gironzolato una mezz’ora per il parco, gridando di chi è questo cane, poi se l’è portato a casa. L’ha chiamato Tram.

Vittorio Marini, commercialista bolognese, scapolo. Era bravo ad arrampicarsi, ad arricchirsi e a non pensare a quella cosa che gli era successa a sedici anni. Dal lunedì al venerdì aiutava gli imprenditori ad aggirare il fisco con qualche trust alle Cayman o nell’isola di Jersey. Nei weekend s’inerpicava su per le falesie delle Dolomiti e dell’Appennino. Un giorno di scalate, mentre accarezzava la parete in cerca di una presa, una roccia grossa come un paracarro è precipitata dall’alto, l’ha sfiorato e gli ha lesionato una vertebra. Ha passato sul materasso buona parte dei tre mesi successivi, come da

A.K.A. VIK

GIOVEDIí

Un lunedì di luglio le faceva male un molare. È andata nel palazzone dalle parti di Gioia dove sta il suo dentista. Ha preso l’ascensore insieme a un paio di derby nere con la fibbia, ben lucidate, a occhio un 43. Di sicuro, circa un metro e ottanta più in alto c’era anche una faccia, tra le scarpe e la faccia un sacco di altre cose, ma lei ha tenuto lo sguardo basso con allenata autodisciplina. Una grossa mano con la fede ha premuto il 7, lei d’istinto ha fatto lo stesso. «Che fa, non si fida?» ha detto una voce appena roca. «Non lo so» ha borbottato lei, usando lo spillo. Il tizio non ha più risposto. L’ascensore si è bloccato di colpo. «Cazzo» ha detto la voce roca e la mano con la fede ha premuto qualche volta il pulsante ALT. «Ma che fa?» ha detto Rebecca. «Alt non viene mai schiacciato, a volte si ossida, bisogna sbloccarlo». «Non mi pare che ripartiamo». «Nel vano c’è aria per settimane» ha detto il tizio, allegro. Rebecca gli ha dato la schiena e ha alzato lo sguardo contro il soffitto marrone. Così basso, così cieco. Una striscia di metallo correva lungo l’intero perimetro come una cerniera spessa un pollice. Oltre a loro due, le uniche persone lì dentro erano quelle stilizzate dei divieti. «Premo l’allarme?» ha detto lo sconosciuto. Lei ha alzato di nuovo lo sguardo. La lampada rotonda si è spenta. Rebecca, ancora di schiena, ha inspirato tre volte, velocemente, come per fare prendere la rincorsa alle parole. «No» ha detto forte, godendosi il rimbombo da pareti fonoisolanti, «faccia quello che deve fare». Ha appoggiato i palmi alla parete e ha spinto il sedere contro i pantaloni dell’uomo. «Come?» ha detto quello, «in che senso?» Dopo dieci minuti la luce si è accesa e l’ascensore è ripartito automaticamente per il piano terra. Appena le porte si sono aperte Rebecca ha preso l’uscita, occhi sul pavimento, senza salutare. Per Greta Gracis, cinefila, separata, le nuche in controluce delle sale cinematografiche erano l’incarnazione della tragedia umana in mezzo all’odore di popcorn. Dati di fatto tra te e lo schermo là in fondo, prepotenti, in maggioranza. Le nuche erano gli Altri. Il guaio era che anche lei aveva una nuca. Il guaio era che, tutto sommato, preferiva venire disturbata da quelli davanti, piuttosto che disturbare quelli di dietro. Si teneva i capelli corti, se ne stava rannicchiata sulla poltrona. Una mattina si è svegliata eccitatissima, non si ricordava perché. Verso mezzogiorno, in un negozio di articoli per la casa, ha detto alla commessa: «Vorrei quella trapunta verde petrolio». «È ottanio» ha risposto la commessa. Greta si è ascoltata ancora: «E mia dia anche quei due cuscini da seduta imbottiti». La sera, al cinema davano un film romantico con Dakota Johnson. Greta si è piazzata come sempre al centro della sala, fila F. All’inizio, con una busta tra le gambe, s’è messa nella sua solita posa gentile. Al ventesimo minuto circa, al primo sguardo intenso tra i due protagonisti, con tanto di zoom, ha preso dalla busta un cuscino e se l’è infilato sotto al sedere. Nessuno ha protestato. La cosa, inaspettatamente, l’ha irritata. Neanche cinque minuti dopo, ha preso il secondo cuscino. «Signora, scusi» una donna le ha toccato la schiena. Greta s’è cacciata in bocca una manciata di popcorn. «Signora, potrebbe abbassarsi un pochino», continuavano da dietro. «Villana» ha detto un uomo. Lei sentiva il battito accelerare e i muscoli prepararsi all’azione secondo un meccanismo atavico, da rettile. Era bellissimo. Si è regalata un trench che le slanciava la figura e delle décolleté col tacco alto, ha lasciato che i capelli crescessero e prendessero volume. Ha lasciato che crescessero perfino i peli delle ascelle e ha finalmente concesso un appuntamento a quel suo collega con i baffi. A cena, con un vestito senza maniche, chiamava il cameriere più spesso del necessario, a braccia alzate. Il collega abbassava lo sguardo sul branzino al sale. Selezionava i film meno gettonati, di registi scandinavi e orientali, così poteva scegliere la poltrona, poteva scegliere davanti a chi svettare, elegantissima. «Signora, c’è mezza sala vuota» protestavano da dietro. Preferiva le donne sole, tristi, remissive, quelle che piangono, quelle facili alla resa come all’isteria. A volte tutto si risolveva in un paio di inascoltati colpetti sulla sua spalla. Altre, in grida e deliziosi auguri di morte. Un sabato pomeriggio ne ha adocchiata

A.K.A. GRETA GRACIS

VENERDIí

ha detto Frank. «Come nelle risate di tutti». Intanto Vittorio pensava che la vita è sempre perfetta.

Alfredo Bilelli, che conosceva a memoria tutti i testi di Madonna e che si vantava del proprio inglese, a chi gli chiedeva «come va?», per sintetizzare la limitata e ragionevole gamma di umori casuali che determinavano le sue giornate, rispondeva: «my days are dice without one and six». Trasferitosi a Milano da Bellaria, aveva iniziato come commesso in una boutique di vestiti in via Montenapoleone. Dopo pochi anni aveva aperto un negozio di ricerca a Isola, portandosi dietro molti clienti. Per una forma di snobismo, diceva che Luigi non era il suo ragazzo, ma il suo compagno. Usare un termine così ipocrita, così piccolo-borghese, così burocratico, a lui, ventisettenne che se ne andava all’Esselunga in sembianze androgine, procurava un piacere sottile. Forse Luigi, che tornava spesso tardi e diceva di passare le domeniche nella casa del padre in Brianza a grigliare costine e braciole, casa che ad Alfredo restava preclusa, be’, forse Luigi lo tradiva. La cosa lo lasciava del tutto indifferente. Una mattina si è svegliato con un diffuso, profondo senso di benessere per tutto il corpo. Il primo contatto dei suoi piedi, caldi da letto, con il fresco del parquet gli è parso meraviglioso. Una volta in bagno, si è guardato allo specchio: aveva gli

A.K.A. ALF

SABATO

che arrivasse una perturbazione dai Balcani, si è piazzato su una sedia del giardino, sotto la pioggia, col cellulare appoggiato contro la fioriera del tavolo, ha concentrato tutta la sua rabbia nella faccia. Stava immobile. Le gocce precipitavano dall’orlo del cappuccio, lui ogni tanto tirava fuori la lingua. Lo sguardo puntato dentro alla pupilla degli spettatori, fino al centro del loro cervello, al nocciolo del dolore. Solo dopo trenta secondi, prima di stoppare la registrazione, ha fatto: «Anche i delfini hanno iniziato così. E guardateli adesso». Non la sua performance migliore, lo sapeva, ma qualcosa avrà pur voluto dire. Caricò il video su YouTube, Instagram e facebook. In poche ore, era diventato virale. «Non siamo tutti delfini a metà?» chiedevano i post delle condivisioni. Dicevano: «Non respiriamo più l’aria ma non respiriamo ancora l’acqua. #sad #true». Dicevano: «Genio! #giornidipioggia» o «Di che si è fatto questo coglione?». Le ragazze gli scrivevano in privato: finalmente qualcuno le aveva capite, o offese («il pesce come allusione al pisello è vecchia come mia nonna, e machista, sfigato!»). In fondo non poteva che andare così, si diceva Julius nel vedere i follower moltiplicarsi. Davvero la vita è come un film, si diceva, che sembra che non ce la fai poi invece ce la fai. Vogliamo altri video sotto la pioggia, con i delfini, gli scrivevano a centinaia.

il suo elefantino che cadeva dalla seggiovia, sua madre, lì accanto, che innescava un’eco di «no» tra le montagne, e lui che guardando giù provava un grande senso di pace: il peluche era già un punto grigio sull’erba secca, trascurabile e lieve nel silenzio dell’abisso, le sue mani finalmente potevano infilarsi nelle tasche, liberandosi dal freddo delle vette e dalla fatica della presa. Da ragazzino detestava lo sport, le competizioni in genere, le grigliate domenicali del padre con le conseguenti sfide a ruba-bandiera tra cugini. Amava altre due cose. 1. Andare alle giostre durante la fiera, sul brucomela soprattutto, ascoltare Mircea, il proprietario rumeno, sbronzo e in doppiopetto, farfugliare «il bruco è felice perché conosce la sua strada», mentre si pettinava i capelli, lunghi solo sulla coppa. 2. Leggere: lasciare che fossero i personaggi ad agire. Un giorno, attorno ai sedici anni, gli è capitato un libro tra le mani, ha scelto una pagina a caso, una riga a caso: «Essere segnati dalla fatalità è un’elezione o una maledizione? Entrambe le cose contemporaneamente». Il libro era di Emil Cioran. Si è procurato buona parte dei testi dello scrittore transilvano. La stragrande maggioranza dei libri di Cioran erano scritti in francese, sapeva che, come diceva Emil, «non si abita un paese, si abita una lingua », e che la patria di Cioran era la lingua di Voltaire. Si è iscritto a lettere moderne a Ca’ Foscari, per diventare comunque francesista. Il mio docente Luisoni era appassionato di biciclette da corsa. Una mattina, lanciato a grande velocità sul rettilineo di una statale, tamponò un’auto in panne in mezzo alla strada, sfondò di testa il parabrezza posteriore, attraversò come un siluro tutto l’abitacolo, sfondò di testa il parabrezza anteriore, rotolò sul cofano, cadde sull’asfalto, morì. Mattia lo è venuto a sapere dal messaggio dell’assistente di Luisoni, un messaggio pieno di parole come tragedia e terribile, e di puntini di sospensione: la stilizzazione sintattica del futuro dell’assistente, ormai sfilacciato e pericolante sul baratro, come quello di Mattia. Ma lui ha pensato al peluche e si è infilato le mani in tasca. Il giorno di San Giorgio, patrono di Ferrara, nella fiera sotto le mura della città è riuscito finalmente a incontrare Mircea. L’ha fermato. Mircea, com’era prevedibile, non l’ha riconosciuto. «Che c’è? Ha scordato la felpa sul mio brucomela?». Lui, in rumeno, gli ha chiesto se gli serviva un garzone, un guardiano di notte, un lavorante da due lire, qualsiasi cosa. «Amo il bruco, che è felice perché conosce la sua strada», gli ha detto. Mircea ha assottigliato gli occhi e l’ha invitato nella sua roulotte a bere un bicchiere.


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COSA I DOVE I QUANDO I come COSA I DOVE I QUANDO I come Traguardare, l’uragano Brexit, i WOO di Napoli (città che merita, godetevi il portfolio THEpagina FLUID55), ISSUE Mecna e ilriflettere lungomare paranoia.eL’Apollo Club, uno deiBowie posti più da i locali in cui di della avanguardia la mostra di David chetosti di Milano. La mostra nuova Milano Fashion Library. Lo speciale e la mostra del Che di quel più che una è un racconto della diversità infotografia ognuno di noi comunista coi dollari in tasca di Alberto Korda. Storie da un mondo nuovo

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CDQC I MUSICA le scosse che alimentano leo: INTERVISTA Al LEADER DEI PALACE di MARCO CRESCI Dopo tre anni passati a suonare in giro, facendosi le ossa, i Palace pubblicano il loro primo album So Long Forever. I loro suoni lussureggianti sono delicati e emotivi, ma allo stesso tempo epici e potenti. Abbiamo intervistato il leader Leo Wyndham, in attesa della loro unica data italiana, il 30 marzo al Serraglio di Milano Dove sei cresciuto? Sono nato a Londra e poi mi sono spostato verso il basso in un piccolissimo villaggio nell’East Sussex non lontano da Brighton. Ho vissuto lì da quando avevo quattro anni fino a circa venti. Questi luoghi hanno avuto un impatto nella tua musica? Direi di sì, col tempo mi sono reso conto che la vita all’aria aperta è una forte ispirazione per me, la natura aleggia sempre nei miei testi. Però So Long Forever è un disco che gravita attorno al tema della perdita, scelta premeditata o una casualità? Sembra irreale e pretenzioso ma è venuto da sé, noi stessi ce ne siamo resi conto solo quando il disco stava per prendere forma. Si riassume gli ultimi due anni della band che sono stati un pò difficili. L’ispirazione nella scrittura di solito proviene da una scossa, da una esperienza di qualche tipo positiva o negativa, sia che si tratti di una morte in famiglia o di una rottura, è l’anima oscura che alimenta le canzoni del disco. Quali sono le vostre ossessioni musicali? A parte il blues che aleggia anche nelle nostre canzoni la mia più grande ossessione musicale è Jeff Buckley. In particolare il suo album Live in Chicago, che è un disco perfetto. Buckley è stato il primo a farmi muovere qualcosa dentro, basta sentire come pizzica una corda per percepire il suo dolore. Quindi è merito di Jeff Buckley se hai iniziato a fare musica? Suonavo la chitarra ma non avevo mai pensato di cantare fino a quando non ho sentito il potere della sua voce. Direi che è stata una figura chiave per la mia carriera di musicista. Se Jeff ti ha ispirato a cantare chi è stato il tuo mentore per la chitarra?

John Fayhe un musicista popolare negli anni 60, che suonava la chitarra utilizzando strani accordi, tanto che mi feci accordare la chitarra per riuscire a suonare come lui. Anche le nostre canzoni hanno strani accordi, direi che il suo suono mi ha spalancato gli occhi. Ma ti ricordi il primo album che hai comprato? Hahaha certamente! Gangsta Paradise di Coolio, mi ricordo che avevo circa 10 anni e andai per comperarlo da Woolworths ma il disco aveva l’adesivo Parental Advisory e non me lo volevano vendere, così ho chiesto a un ragazzo qualunque che fosse maggiorenne di comperarmelo.

– Volcano (Heavenly)

TEMPLES

- In Mind (Domino Records)

ReAL ESTATE

– Sick Scenes (Witchita Recording)

Il primo disco lo avevano registrato dai genitori del cantante e chitarrista James Bagshaw, in un piccolo stanzino. Nei tre anni successivi I Temples hanno portato il suono vintage e psichedelico di Sun Structures praticamente ovunque, accumulando chilometri su chilometri di tour in giro per il mondo, per poi ritrovarsi a registrare il sequel sempre dai genitori di Bagshaw, ma in una stanza più grande. Può sembrare assurdo, ma il trio di Kettering (UK) ha deciso di puntare ancora una volta tutto sul diy, suonando e auto-producendo l’intero nuovo album a pochi metri da dove tutto era cominciato. In questo modo ha avuto la possibilità di sperimentare con tutta calma le nuove conoscenze acquisite attraverso i numerosi live, di utilizzare l’enorme quantità di strumentazione accumulata nel frattempo e di avere il pieno controllo delle operazioni durante tutte le fasi di lavorazione. Senza contare che un produttore esterno, a detta loro, non se lo sarebbero nemmeno pututo permettere. Non ci sono strappi rispetto al passato, ma non si può dire che la band con Volcano si sia ridotta al compitino: le soluzioni stilistiche si sono moltiplicate, la qualità delle registrazioni è migliorata notevolmente e la voce di Bagshaw è finalmente uscita dal mixer per posizionarsi maggiormente in primo piano. Mancano delle hits vere e proprie, ma il disco fila che è una meraviglia, grazie a una scelta della tracklist evidentemente studiata ad hoc, lato A e lato B (vinyl friendly, ovviamente) inclusi.

«Sono in molti a dirci questa cosa, che la nostra musica sia perfetta come sottofondo, e per me è una cosa buona. Sapere di essere una specie di colonna sonora per la vita di tutti i giorni è appagante, poi penso anche che le nostre canzoni richiedano un ascolto approfondito». Martin Courtney ha le idee chiare sul proprio lavoro e sull’identità dei suoi Real Estate. E infatti nonostante la formazione della band di Ridgewood (New Jersey) sia cambiata frequentemente nei suoi primi 8 anni di vita - gli ultimi innesti sono Jackson Pollis alla batteria e Johan Mauer alla chitarra, in sostituzione al cofondatore della band Matt Mondanile - non ci sono mai stati sensibili cambi di rotta a livello stilistico. Non fa eccezione il loro nuovo album In Mind, fatto di pop curatissimo, chitarre ed eleganza, con omaggi dichiaratamente Beatlesiani: ascoltare per credere la coda con la quale termina il brano Two Arrows, che strizza l’occhio al finale di I Want You (She’s so Heavy) dei fab four. Le dodici canzoni che lo compongono sono piccoli mondi stratificati, somiglianti tra loro alla prima, distratta impressione, magari. Ciascuna è poi in grado di farsi valere e apprezzare col tempo e di acquisire importanza nell’economia dell’intero album. Ancora una volta emerge facilmente l’attitudine della band e del suo leader Martin Courtney, che spesso prima di comporre è solito disegnare paesaggi: non a caso l’elemento descrittivo è il denominatore comune per i Real Estate, tanto nei testi quanto negli arrangiamenti.

Una ragazza agonizzante sul pavimento di un supermercato, non sembra che i nostri contadini gallesi stiano trascorrendo un periodo di spensierata allegria, difatti le undici canzoni contenute nell’album ne sono la lucida narrazione. Preceduto dal singolo I broke up in Amarante, in cui il cantante Gareth ci racconta in modo brillante e ironico il suo tracollo mentale avvenuto per le strade della cittadina portoghese, luogo scelto dal gruppo per la produzione del nuovo album Sick Scene. L’album si discosta ampiamente da quell’indie rock scherzoso e buontempone che aveva caratterizzato il loro esordio, per giungere a una maturità artistica evidenziata da sonorità più pulite e essenziali, sempre comunque tese verso pop song catchy e acessibili. Le restanti dieci canzoni infatti si ricoprono di atmosfere dark che si stemperano nella melanconia di The fall of home o nell’incedere funereo di A litany heart swells. L’impressione è che i Los Campesinos possano presto fare un ulteriore salto di qualità e diventare dei nuovi Arcade Fire meno pomposi e più genuini.

ETTORE DELL’ORTO Ettore dell’orto

Los Campesinos

ALBERTO CANTONE



CDQC I CLUBBING I A CURA DI ROBERTA BETTANIN NATHAN FAKE 24/03 @Magnolia

VIRGINIA 17/02 ​@VOLT

Nathan, classe 83, arriva da Norfolk, in Inghilterra, si lancia nella musica elettronica sin da giovanissimo: il successo arriva già all’età di 20 anni con il singolo Outhouse, un pezzo che di fatto è entrato nella storia della techno, e nell’autunno dello stesso anno replica con il singolo The Sky Was Pink, che viene pubblicato per Border Community, l’etichetta di James Holden, collaborazione che durerà diversi anni. Con Drowning In a Sea of Love (2006) e Hard Islands (2009), Nathan conferma la sua capacità di integrare le sonorità che gli sono proprie con le idee di grandi come Aphex Twin, Boards of Canada e con la acid in generale. Dalle stesse corde e ispirazioni esce nel 2012 Steam Days, e l’anno successivo debutta con la sua etichetta Cambria Instruments con la quale nel 2015 pubblica l’EP Glive. Fresco di EP per Ninja Tune, che ha visto la sua release nel 2016, Fake torna il 24 marzo a Milano; uno dei compositori, producers e remixers di più grande successo della sua generazione.

La DJ di talento, cantante, compositrice e produttore, Virginia è profondamente coinvolta nella musica elettronica da oltre un decennio. Cresciuta a Monaco di Baviera, la sua carriera è iniziata alla fine degli anni 90 grazie ad una ondata di primi singoli di enorme successo, e continuata con residencies in club come il Flokati di Tobi Neumann o al Cocoon di Sven Väth. Ispirata dai suoni caldi e analogici degli anni 80 e 90 nei suoi set combina queste sonorità a dischi più moderni, creando degli spettacoli sempre divertenti, mai banali. La sua grande passione per la musica incontra quella di Steffi, collaboratrice e compagna di vita, con la quale spesso unisce le forze per creare album, come Yours & Mine o live set carichi di energia. Parte della squadra Ostgut Ton, Virginia per l’etichetta ha lanciato la sua prima produzione solista Loch & Hill nel 2013, e nel maggio dell’appena terminato 2016 la release del suo primo studio album, Fierce for The Night.

SORGENTE SONORA W/ THE EGYPTIAN LOVER 17/03 @Dude Club

BODY HEAT 25/02 @KTV

Greg Broussard aka The Egyptian Lover non ha bisogno di presentazioni. C’è chi la chiama electro, chi hip hop, altri old school, altri rap, ma lui la chiama dance music. Egyptian Lover fa musica per farti ballare, da quasi trent’anni. Comincia la sua carriera infatti in America negli anni 80 diventando importante parte della scena dance e rap di LA di quegli anni. Il suo lavoro più recente 1984 - uscito per Egyptian Empire Records, label indovinate un po´di chi - ripropone il suono di quegli anni continuando la propria tradizione nell’uso di strumenti analogici, gli stessi che usava in passato, soprattutto di quella Roland TR-808 di cui è considerato il king assoluto. Attualmente in tour per il mondo, spesso affiancato in cartellone al nome di Awesome Tapes From Africa, per la data a Milano organizzata al Dude club da Sorgente Sonora - progetto nato dalle realtà milanesi Frames e Subculture - lo troveremo affiancato da Libertine Crew all’osservatorio astronomico.

Body Heat ha visto la luce in un primo momento come etichetta, inizialmente come spin-off di Reset! (celebre party che per anni ha spopolato nella nightlife milanese, creato dalla crew omonima e in grado di dare vita a un genere ben preciso, il turbofunk). Partorita da Rocco Civitelli con l’intenzione di creare un punto di riferimento cittadino per tutti quegli artisti che si muovono in ambito disco, funk (e turbofunk, appunto), è cresciuta e si è evoluta passo dopo passo in un party, dando pure vita a un collettivo di musicisti. Riuniti sotto il nome di Body Heat Gang Band, con una formazione composta da un numero di elementi variabile (dai quattro ai dodici), porta il calore di un vero live nella dimensione del club, tra strumentisti dalla solidissima formazione, cantanti ed mc’s (fra questi, pure nomi celebri della scena italiana). Grazie anche alla quantomeno bizzarra e indovinata location del party, ovvero il KTV, karaoke cinese in un sotterraneo di via Paolo Sarpi, Body Heat nella sua multiformità è senza dubbio una delle realtà in crescita di maggiore interesse nel panorama del clubbing milanese.


CDQC I CLUBBING dal rollover alla direzione dell’apollo club, uno dei posti piU’ giusti di Milano: intervista a Tiberio carcano di Giorgia dell’orto

Avete da poco messo radici nella nuova location, tutta vostra, l’Apollo. Com’è nata l’idea di questo nuovo club? È stato un percorso: Rollover è partita come serata itinerante – ci hanno ospitato Meg, Zog, Tombon de San Marc, Osteria del Binari e Canottieri – ed è cresciuta pian piano fino a diventare quello che è ora. Apollo è nato sulle ceneri di quella che è stata la nostra ultima base: quando non c’è più stata la possibilità di rimanere ai Binari, ho avuto l’idea di fare un tentativo con il Puerto Alegre, un ristorante messicano vicino a quella che era stata casa mia che a memoria sapevo avere una licenza per ballare. Una volta scoperto che avremmo potuto usare quella location ci siamo detti perché no, partiamo! Non era esattamente nelle nostre corde, l’arredamento era un po’ trash ma quel trash così sbagliato che poteva risultare figo. E sapevamo di poter contare sul nostro pubblico per capire quando un eccesso di questo tipo diventa una scelta estetica consapevole. La struttura della serata era la stessa, la proposta del locale completamente diversa rispetto al passato, ma la figata è che non c’è stato nessun calo, anzi al massimo un’ulteriore crescita, il posto funzionava e funzionava bene. La proprietà, che aveva già in preventivo di rinnovare il locale dalla A alla Z, avendomi conosciuto in precedenza ha deciso di affidarmi la direzione artistica, dalla programmazione alla scelta estetica del nuovo locale. A settembre siamo partiti alla grande con Apollo, nome da me ideato. Rollover è una continua fonte di ispirazione musicale, di stile, di carattere: cosa ci dici della community che vi gira intorno? Siamo partiti da 300 persone e quelle, lo zoccolo duro, ci sono ancora. Ma tutto è in evoluzione, c’è sempre crescita, c’è sempre gente nuova che una volta capito che mood trova da noi, torna e porta altri. Quello che accomuna tutti è l’amore per lo stile di serata che offriamo. La selezione c’è sempre stata e c’è ancora, ma è una

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A proposito della serata del Mercoledì - il Giardino dei Visionari - com’è nata? Come si inserisce nel tema Apollo? Il Giardino è una serata che è nata ai giardini di Porta Venezia, i ragazzi che la organizzano sono amici e musicisti che ho conosciuto negli anni e già seguivo. Portare l’evento da noi è stato un passo naturale, si è man mano strutturata passando da aperitivo a serata in stile berlinese con giochi da tavolo che si trasforma poi in serata danzante, in cui come sempre la musica fa da protagonista. È lei il vero filtro, in questo caso del locale viene utilizzata la parte bar, anche questo fa parte dell’adattare Apollo alle diverse situazioni che abbiamo deciso di creare al suo interno. Sfruttiamo le diversità del locale tenendo a mente quella base, il nostro stile, che accomuna tutto. Ecco, Apollo è un Club in questo senso: il pubblico si sviluppa insieme a noi. Anche la loro cultura musicale cresce, grazie alla direzione artistica: la selezione che facciamo passa dai dj internazionali affermati agli esordienti che da noi hanno la prima ribalta. Sanno che qualsiasi proposta ci sia qui è una garanzia proprio perché sanno cosa comprende il pacchetto: un’esperienza rilassata, un ambiente con della bella musica e un posto dove sentirsi, a casa. Quali delle serate ti è rimasta nel cuore? Quelle al Fabrique e ai Binari con ospiti a sorpresa i 2manydjs, ma le inaugurazioni delle prime tre stagioni mi sono rimaste davvero nel cuore perchè hanno segnato un cambiamento, una crescita. Con cosa ci sorprenderà il 2017? Posso dire che l’estivo sarà una bella sorpresa. Potrebbe esserci un mini festival firmato Rollover. Per Apollo invece sarà una continua bella crescita del locale, per fare in modo che l’offerta sia una bella amalgama di quello che siamo e rappresentiamo.

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Il team iniziale c’è ancora tutto: Tiberio, Marcella, Rocco, Polly e Valentina - i ragazzi dietro a Rollover - sono diventati il simbolo di una vita notturna e uno stile di fare serata che si è imposto a Milano come cult, grazie alla loro freschezza, all’essere impossibly cool e alla continua ricerca musicale. Da settembre 2016 Tiberio e Marcella sono consulenti e direttori artistici di Apollo, nuova location di Rollover ma anche e soprattutto club in cui mettere in pratica le loro idee.

selezione che si basa sullo spirito giusto e sul modo di fare ed essere. È anche una crescita che si fa insieme, chi viene e continua a venire dopo un po’ comincia a far parte di un circuito. Ci si conosce, poi si entra nel privé, si diventa amici. Per esempio i ragazzi di Etna vengono da tre anni, comprendono appieno chi siamo e cosa facciamo, tanto che hanno anche sviluppato una propria serata, che stiamo aiutando a far crescere sempre con i giusti tempi.

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Abbiamo fatto due chiacchiere con Tiberio, il capitano di quella nave chiamata Rollover che ha rivoluzionato la scena notturna milanese.


CDQC I LOCALI l’elogio della singolarità: INTERVISTA A sara Ventura, proprietaria e fondatrice di CrossFit Navigli di FRANCESCA ORTU

Alta, bionda, fisico asciutto. Ci racconta del suo progetto, della filosofia della sua palestra e delle sue passioni. Ci parla della sua carriera e di quello sport, il tennis, che ha odiato profondamente, prima di innamorarsi di nuovo. ma del crossfit. tanto da aprire crossfit navigli. Mi racconti come hai scelto la location? Era una ex fabbrica di bastoni per camminare. Sono 500mq. Era vuota inizialmente, abbiamo fatto tutto noi. L’ho trovata per caso, facendo delle ricerche in giro, me ne sono subito innamorata. Mi ha colpito lo spazio ampio e luminoso. La croce nella parete immagino l’abbia fatta tu. Perché proprio la croce? La croce è il mio simbolo nonché il logo della mia palestra. Ha mille significati, come yin e yang, maschile e femminile. Sono gli opposti che assieme si completano. Nulla di religioso. Rappresentano creazione e cambiamento, filosofia che applico molto anche sulle persone durante i miei allenamenti. La ho tatuata anche sulle braccia perché ho una grande passione per l’arte e credo che il nostro corpo sia una delle sue forme. Hai un passato da tennista professionista. Quanti anni fa ti sei appassionata al crossfit? Ho chiuso la carriera internazionale a 28 anni e poi ho fatto la Serie A in Italia fino a 32 anni. Dopo ho iniziato a insegnare, curando la preparazione atletica dei tennisti che si allenavano con me. In seguito l’ho lasciato. Ho sempre avuto questa passione per il fisico e mi sono orientata sull’allenamento. Era appena arrivato in Italia il crossfit e cercavo qualcosa che mi desse lo stesso stimolo, quella passione e adrenalina che mi dava il tennis. Il crossfit è sia fisico, sia mente, è formato da molte discipline, è molto tecnico nei movimenti, mai banale. Subito dopo ho deciso di insegnare e ho iniziato a fare allenamento personalizzato, che è diventata la mia specializzazione. Mi piace cambiare una persona fisicamente, facendole realizzare quelli che sono i suoi sogni fisici ed estetici. Tutto questo comprende anche un cambiamento interiore sulla fiducia che abbiamo di noi stessi. Quando ti vedi più bello ti piaci di più e questo atteggiamento instaura un concatenarsi di emozioni positive nella propria vita. E CrossFit Navigli dopo quanto l’hai aperto? Dopo un anno. Prima avevo uno studio più piccolo sempre sui Navigli, ma ci stavamo stretti. Mi dicevi che tennis e crossfit, sono due attività sportive tanto mentali quanto fisiche. Che cosa hanno in comune? Diciamo che all’interno della mia palestra ho voluto in qualche modo portare un po’ del mio passato e degli aspetti del tennis che secondo me sono importanti, soprattutto in questa disciplina, come la singolarità. Il tennis lo è quanto il crossfit, perché il mio allenamento ho deciso che doveva essere personalizzato e specifico. Seguo le persone singolarmente. Mi piace lavorare sulla loro l’individualità. Mi piace capire chi ho davanti. Studio le personalità e caratteristiche fisiche e mentali dei miei clienti per decidere qual’è l’allenamento migliore per loro. C’è uno studio e una ricerca continua. Non è un lavoro fatto a caso o da fare in gruppo. Anche questo deriva dal mio passato perché il tennis è uno sport in cui si abbinano concentrazione, tattica e tecnica. Quando colpisci la palla sembra un gesto naturale invece dietro c’è tanto lavoro, devi sapere dove vuoi tirare, perché tiri in quella direzione, nulla è a caso, si fanno anche delle finte per depistare l’avversario. Come gestisci gli allenamenti? Il crossfit è un insieme di discipline che sono ginnastica artistica, weight lifting e allenamento metabolico, più altre attività dinamiche, tra cui la corsa e il salto con la corda. Ogni disciplina ha tantissimi esercizi che vengono svolti man mano che ci si struttura per riuscirli a fare e affrontare. Sono sempre più difficili sia a livello tecnico che di intensità. Ci sono dei movimenti specifici che devi imparare, per questo secondo me per essere un buon allenatore devi aver avuto un passato da atleta. Io mi allenavo tutti i giorni per 6/7 ore. Ho fatto e hanno fatto tanti errori su di me e questo mi dà un potenziale che riutilizzo anche su me stessa. Se avessi avuto tutte queste conoscenze a 20 anni mi sarei allenata in modo totalmente diverso.

TESTATO PER VOI Della serie: provato per voi, che fa molto anni 90 ma ora vanno di moda quindi anche sì. Ho fatto una lezione prova da Crossfit Navigli. La prima cosa da ispezionare sono gli spogliatoi, quando vai in una palestra, se no può capitare come mi è successo una volta che era tutto molto bello poi vai per farti la doccia e scopri che non c’è (e poi anni di rancidi campi da calcio e palestre 24h a che minchia sono serviti?). Spogliatoio vasto e soprattutto: sono solo. Solo. Non so se rendo l’idea. Niente ascelle del vicino, niente scusa ti puoi spostare che devo prendere le scarpe? Arredamento? Industrial. Phone? Ci sono. Armadietti? Pure. E la figata è che non hai bisogno di portarti il lucchetto da casa, la chiave è già inserita, #ciaopovery proprio. Ed ecco che vedo Sara. Bionda, stilosa (sì, per tutta la lezione avrei voluto chiederle se si è comprata prima la tuta o le scarpe o se le ha acquistate insieme, perché le strisce della tuta richiamavano le scarpe camou, entrambe Adidas), creativa (il logo di Crossfit Navigli verniciato sul muro lo ha disegnato lei). Nel suo ufficio mi interroga: cosa vuoi fare? qual è il tuo obiettivo? Sai cosa è il crossfit? Poi un giro nelle sale. Spazi ampi, soffitti alti, location notevole. «Mini ci ha girato uno spot» mi dice. «Anche Philippe Plein». Cominciamo l’allenamento e in tempo zero mi sento un libro. Sara mi legge, mi analizza. Faccio gli squat e mi fa: ti sei fatto male alle caviglie? Come hai fatto a vederlo, rispondo Eh, perdevi la schiena. Perdere la schiena, traduzione: lasciarsi andare quando ti abbassi. Mi corregge. Poi i sit in, e mi fa: petto in fuori, sei tutto chiuso. Fisicamente, penso io, ma non solo. Touché. Per ogni esercizio è così. Spiega, sbaglio, corregge. Ma quello che corregge non è solo un modo per fare (bene) un esercizio, è anche un modo che hai (ho) di stare al mondo. Come dire: non è solo il mio fisico a essere condizionato dagli infortuni avuti ma è anche il mio fisico a condizionare il mio approccio al mondo. Molto Occidentali’s. Tanto Karma. Ora, può sembrare una banalità, ma ne ho visti troppi di trainer che guardano il cellulare mentre ti alleni, che ti rispondono con un’alzata di spalle quando dici sai mi fa male la schiena o che ti correggono una volta e poi chi si è visto si è visto. E poi comunque, dopo dieci anni di palestre varie, Sara ha individuato subito i miei due problemi maggiori senza che io le dicessi bah. Certo, la professionalità si paga, anche perché non paghi solo gli spazi, gli spogliatoi o le ore che passi lì, paghi anche gli aggiornamenti che professionisti come Sara fanno per essere sempre al top (tipo in Svezia, come mi ha raccontato). Mentre tornavo negli spogliatoi arriva un mazzo di fiori. Rose rosse, per lei. È la sera di San Valentino, va bene, però... Sara diventa rossa e commenta: «Poi quando non sai da chi arrivano fa ancora più piacere». Ecco, ora sappiamo cosa succede a chi sa leggere le persone.


CDQC I LOCALI I A CURA DI Marco Torcasio LA NUOVA LINE UP DEI COCKTAIL DEL PINCH di TOMMASO VALISI

Arriviamo verso le 14 al Pinch, non c’ero mai stato prima ma rimango molto colpito dall’atmosfera che si respira al proprio interno, uno stile tipicamente casciavit unito ad un clima fantasy che riporta alla mente un realismo magico tipico dei libri di Harry Potter. Io e questo mio amico allora ci sediamo e aspettiamo l’inizio dell’evento, rimaniamo subito affascinati dal menù, mi avevano già detto primo che il tema della stagione era l’alchimia, ma non mi sarei mai aspettato di vederlo messo su carta. Il menù è pieno di illustrazioni che sembrano prese da libri di magia, al suo interno sono mostrate le 4 fasi alchemiche con il relativo cammino verso l’illuminazione, passando dall’etanomestizia, «Da qui parte il cammino verso libertà ed illuminazione», fino ad arrivare all’etilomistica «La sublimazione delle fantasie per il ricongiungimento finale con il sé e con il divino». Poco dopo parte l’evento, inizia Mattia Lissoni mostrandoci la sua Peppa Ladruncola, un drink che si basa sopratutto sullo sciroppo di nocciola e l’affumicatura fatta con l’abete fresco, molto leggero e molto saporito, anche la presentazione colpisce poichè si vede il lavoro fatto per tramutare il gusto in rappresentazione fisica. Mattia ci racconta infatti che il nome «Peppa Ladruncola» è un uccello di fantasia evocato dalla sua maestra delle elementari per tormentarlo, inizialmente rimaniamo sorpresi: «cos’è questa cosa ? Sembra una crema». Una volta assaggiato però capiamo subito che cosa intendesse Mattia, Ci sentiamo proprio come se stessimo osservando un piccolo passerotto in un bosco,

volevamo anche assaggiare le uova, ma qualche istante prima la presentazione riparte e ci prepariamo ad assaggiare il prossimo drink, curiosi di sapere dove ci porteranno le papille gustative. Fabio Brugnolaro ci presenta il suo Dragon Blood, a vederlo inizialmente ci sembra una tazza di tè, per fortuna nessuno di noi ha esperienza con i cocktail e questo ci permette di goderci appieno questa nuova creazione, il colore è tendente al rosso e il sapore è proprio simile ad un tè ma con l’aggiunta del dragoncello (mai erba più azzeccata per il Dragon Blood) e del whisky che però è solo un sottofondo, talmente leggero che secondo noi potrebbe esser dato ad un amico astemio come scherzo. Infine è il turno di Erik Viola che con il suo Crema di Crema alla Edgar fa immediatamente viaggiare con la mente agli Aristogatti che per molti di noi ha rappresentato l’infanzia nella sua fase più tenera, con il suo colore marrone chiaro ci ricorda subito il latte «corretto» con del riso tostato che il maggiordomo rifila ai gattini per spedirli a Timbuctù, ovviamente Erik il suo solo scopo è quello di farci raggiungere una delle fasi alchemiche, facendoci partire per dimensioni sempre nuove della nostra mente. Poco dopo la presentazione finisce e ce ne torniamo a casa soddisfatti e desiderosi di tornarci, magari quando fuori c’è un po’ di nebbia, per ritornare di nuovo a quell’atmosfera magica e nordica.

Ripa di Porta Ticinese 63 | MILANO | NAVIGLI

Rita & Cocktails I Via Angelo Fumagalli 1 I MILANO I NAVIGLI

STELVIO I Via Sabenico 14 I MILANO I ISOLA

Nonostante si trovi in una via laterale del Naviglio Grande, leggermente scostato dal caos, il Rita è diventato e rimane un’istituzione di Milano. Seduti al (rinnovato) bancone centrale, nel dehors coperto, o in piedi fuori d’estate, bere un cocktail al Rita è sempre un’esperienza da rifare.I barman sono da sempre e come sempre esperti e gentili, oltre che incredibilmente simpatici. Dopo i lavori dell’estate scorsa i ragazzi sono tornati senza cambi radicali ma con accorgimenti per far sentire i clienti sempre più a proprio agio. Astenersi frequentatori di «apericena», perché qui non esistono buffet o cibi riscaldati, anche la proposta food è strepitosa e ben calibrata in funzione degli spirits della casa. Al Rita si ritorna per l’atmosfera amichevole e scanzonata, oltre che per la perfezione dei drink. E anche per la nuova lista, il Cameriere della Sera, sotto forma di quotidiano, con contenuti e verve che sono il vero e proprio carattere del locale. Ecco, se non la sapete ancora a memoria bisogna che andiate a studiarvela con amici fidati

Un ristorante contemporaneo che propone gli autentici piatti della tradizione lombarda nientepopodimeno che in Lombardia? Ebbene sì. In controtendenza rispetto alle ormai innumerevoli ondate fusion, veg, thai e via dicendo, Stelvio Milano dimostra che il vero cool è tornare alle origini. Sia chiaro, ci piacciono un sacco udon, phat thai e pentole di fuoco varie, ma vuoi mettere mondeghili e casoncelli? È un locale in perfetto stile Isola, Stelvio, che mixa dettagli instagrammabili - vedi i menu ispirati alla tattoo art - a un’atmosfera calda e accogliente. Di giorno è chiaro e luminoso, la sera invece lascia spazio all’intimità delle luci soffuse. Il percorso del ristorante è inverso rispetto a quello cui siamo abituati: apre e conquista prima Toronto, portando per la prima volta la cucina del nord Italia in Canada, per poi tornare alle origini a Milano. Viaggiando tra risotti e cotolette, fino a pizzoccheri, sciatt e zigeuner prende vita una proposta gastronomica che attinge al dna, alla storia, bellissima, di una fetta di territorio nostrano. Da provare i tortelli di sfoglia all’uovo fatti in casa ripieni di zucca, amaretti, mostarda di Mantova e grana, come da ricetta tipica insomma. Esagerate con una delle particolarità del menù: il polenta burger con salsiccia e casera, che ha la polenta al posto del pane e la polenta fritta al posto delle patate fritte.

con cui testare tutto. Al più presto. Se non diventate habitué qui, dove altro.

GIORGIA DELL’ORTO

MARCO TORCASIO


CDQC I LOCALI NASCONDERSI PER DIFFERENZIARSI: IL NUOVO GUM SALON INTERVISTA AL FONDATORE STEFANO TERZUOLO Di MARCO CRESCI

GUM Salon, fondato a Milano da Stefano Terzuolo nel 2009, ha inaugurato, ad inizio ottobre 2016, la sua nuova sede in Corso Italia 46 a Milano, in un elegante appartamento di 160 mq dei primi anni del 900, all’interno di una corte a cui ha saputo infondere la sua anima rock n roll. Abbiamo chiacchierato con Stefano che ci racconta la sua personale visione di hair stylist. Cosa ti ha spinto a cambiare location? Due motivi, il primo perché la nostra identità è stata in qualche modo violata. Gum è nato nel 2009 dopo un mio viaggio a Londra, decisi di portare a Milano qualcosa che non c’era e che oggi con la moda dei barbershop e di tuti quei concetti nuovi che noi divulgavamo da tempo sono diventati inflazionati. Per anni siamo stati riconosciuti per le mattonelle nere e il negozio total black un’immagine che mi aveva stancato. Seconda cosa volevo offrire ai miei clienti un ambiente più intimo, il mio desiderio era quello di offrire una privacy che in un salone come quello di prima non riuscivo a dare. Quindi per prima cosa ho deciso che volevo togliermi dalla strada e ho cercato uno spazio interno anche per targhettizzare meglio la clientela, ora Gum lo devi conoscere, non ci sono persone che entrano per caso come succedeva a volte prima. Inoltre corso di Porta Ticinese (dove si trovava la location storica) è una zona che negli anni ha perso molto il suo allure. Il nuovo spazio è un perfetto connubio tra antico e moderno, come hai sviluppato il nuovo concept? Ho trovato questo spazio abbandonato da quattro anni che apparteneva alla Curia e con un architetto abbiamo studiato questo contrasto tra antico e moderno creando questa struttura modulare che forma degli spazi aperti all’interno dell’appartamento in modo da poter lasciare una certa privacy. C’è stato un pesante intervento di ristrutturazione però abbiamo mantenuto il parquet, i cassettoni e le boiserie con le frasi di Seneca in latino e siamo poi entrati nelle stanze con una struttura moderna evitando il pericolo che diventasse un mausoleo. La clientela con gli anni si è evoluta, è cresciuta con mè quindi mi sembrava giusto creare uno spazio in linea. Gum era nato per distogliersi dalla visione del parrucchiere classico con le piastrelle bianche e le poltrone schierate in fila senza gusto nè personalità e soprattutto senza attenzioni verso il cliente. Da Gum bisogna sentirsi a casa, io voglio che il mio locale sia visto

come un bel posto in cui ti piace andare a bere un caffè, senza stress, senza attesa, nè confusione. Questo è il terzo spazio che apro in 7 anni e rispecchia perfettamente la mia visione. Avete cambiato anche i vostri servizi? Sì, per anni siamo stati caratterizzati dai nostri colori forti sulla scia della tendenza londinese, facevamo anche molte barbe, oggi cerchiamo di fare cose diverse dai soliti crazy color, abbiamo studiato delle colorazioni che sono cool ma appaiono più naturali; insomma non sono colori che la gente può farsi a casa. Da quando ho aperto Gum non sono mai sceso a compromessi, preferisco lavorare poco e con una clientela selezionata, il nostro target è molto trasversale, va dai 25 ai 55 anni e sono tutte persone che lavorano in un ambito creativo, ecco da noi non viene la signora che si vuol fare la piega o la tinta una volta al mese. La gente riconosce il marchio e questo è un orgoglio. Ma la moda del capello colorato nel mentre è dilagata... Diciamo che continua ma gli addetti ai lavori non la seguono più. Ora questa tendenza è veramente arrivata a tutti e noi cerchiamo di guardare avanti e di proporre cose nuove. Ho la necessità di evolvermi e di rivolgermi a un pubblico diverso che abbia un sapore internazionale. Vedo ritratti in bianco e nero di Pete Doherty e Morrissey tra gli altri, direi che sei riuscito a infondere anche in questo spazio la tua indole indie rock, sei d’accordo? Il sapore che si respira dev’essere questo, è un mondo di contrasti anche la location. Puoi immaginare le prime volte che ci vedevano gli inquilini di questo stabile sigmorile, ci osservavano tipo: sono arrivati gli alieni. Prima hai detto che hai aperto Gum dopo un viaggio a Londra, dove hai lavorato anche per diverso tempo presso Vidal Sassoon, è una città che ti affascina tutt’ora? Ci sono stato un mese fa e devo dire che oggi è una città molto più allineata con Milano, che negli ultimi 5 anni è cresciuta tantissimo, purtroppo respiro sempre un sapore che qui secondo me non avremo mai. Anche nel nostro settore non ho riscontrato un enorme gap ma percepisco che c’è un attitudine diversa, soprattutto a Bricklane o a Shoreditch nell’east London ti capita di vedere un piccolo parrucchiere con tre postazioni curato nei minimi dettagli e le persone che ci lavorano dentro sono super cool, poi magari dal punto di vista del design siamo noi a potergli insegnare alcune cose. Londra per me resta la capitale dell’hair stylist, ricordiamoci che lì sono nati Vidal Sassoon e Tony & Guy che hanno fatto scuola al mondo. Poi oggi ti basta aprire Pinterest per vedere tutto non c’è più bisogno di prendere e andare là. Chiudiamo con la musica, qual è l’ultimo album di cui ti sei innamorato? I See You degli XX è un disco belissimo.

STARRING

CONTE NITRATI

DONNA NITRITI

REGINA ACQUA

IL BASSOTTO

RESIDUO FISSO

IL GIUDICE

PH NEUTRO


CDQC I LOCATION la casa di SI RINNOVA CASA EDITRICE, CONCESSIONARIA DI PUBBLICITà, SOCIETà DI CONSULENZA E BIBLIOTECA DELLA MODA: ECCO LA NUOVA MILANO FASHION LIBRARY La casa di Urban si è profondamente rinnovata nei suoi spazi e nei suoi sponsor e sarà sempre di più palcoscenico per aziende interessate ad attivare un dialogo con la fashion community internazionale. Stiamo parlando della Milano Fashion Library, casa editrice, concessionaria di pubblicità, società di consulenza e biblioteca della moda in via Alessandria 8 a Milano, in zona Tortona. Ogni giovedì ospiterà un evento e per il momento gli appuntamenti confermati nel 2017 sono più di 50. All’interno si potranno organizzare workshop, presentazioni, prime visioni di film sfruttando la sala cinema, shooting fotografici e riprese video come quelle realizzate da Sky Sport per la trasmissione L’uomo della domenica. Le testate di MFL adesso sono Fashion Illustrated, Urban, Riders, Soccer Illustrated, The Life, Italy Illustrated e Design Tribune. A queste si aggiungono la raccolta pubblicitaria moda bimbo per Style Piccoli di RCS e le attività consulenziali a favore di ICE. Il 2016 ha rappresentato il primo anno di focalizzazione sul perimetro delle testate di proprietà, rendendo prevalente l’attività di editore rispetto a quella di concessionaria, e l’andamento delle singole testate è stato ampliamente soddisfacente con punte di crescita di vera eccellenza. Tipo quella di Urban che ha chiuso l’anno con + 39%.

I NITRATI E I NITRITI VOGLIONO CONQUISTARE LA S.BERNARDO VALLEY... MA NON CE LA FARANNO MAI!


presenta # L I V E L I K E Y O U L O V E

NAVIGLI IN ARTE

IL BARCÙN DE MILAN DALL’11 APRILE FINO A SETTEMBRE IL BARCONE STORICO DI MILANO SARÀ POSIZIONATO SULLA SPONDA DELL’ALZAIA NAVIGLIO GRANDE. UNO SCHERMO 10X4 PROIETTERA’ LE IMMAGINI DEI MUSEI MILANESI E LOMBARDI E LE COPERTINE DI URBAN, CHE SARÀ IL MEDIA PARTNER UFFICIALE DI QUESTA INIZIATIVA

DALLA STORIA ALLA DESIGN WEEK

LA CULTURA (E NON SOLO) IN UN BARCONE

Il suo vero nome è Nibbio e risale al 1955. È lungo 37 metri, largo 5 e ha una

Dall’11 aprile fino a settembre sarà a disposizione dei musei milanesi e lombardi

capacità di 30 tonnellate di peso. Pochi anni fa è stato restaurato. Dall’11 aprile a

settembre la sua postazione sarà quella del Naviglio Grande, una delle location più

suggestive della città, che calcola un’affluenza media giornaliera di 50mila persone durante la settimana e di 80-100mila durante i weekend, per merito della sua

posizione strategica e della sua versatilità. Un dato importante considerando che i Navigli sono indubbiamente uno dei centri di attrazione tra i più rilevanti di Milano. Tra il 2015 e il 2016, molti sono stati gli eventi organizzati al suo interno e molte le

iniziative culturali che ci hanno preso luogo, quali mostre, concerti, presentazioni, eventi aziendali, workshop, registrazioni televisive, shooting e party. Tra i più

importanti Milano Beach, New York Club, Mazda Beach Party, la oresentazione

che gestirannno due appuntamenti settimanali, il martedì e il mercoledì.

IL MARTEDÍ

Dalle ore 17.00 alle 23.30 il pubblico potrà salire a bordo per conoscere il

museo, consultare ed acquistare libri, merchandising e biglietti d’ingresso.

Proiezione delle opere del museo trasmessa di continuo sui monitor all’interno del barcone e dalle ore 21.00, preview sul grande schermo. Spazi e momenti dedicati alle persone con diversa abilità per una cultura accessibile.

del team Hockey Milano, Emis Killa Concert e una puntata di Junior Masterchef.

IL MERCOLEDÍ

svolti incontri di varia natura. Tutto questo per merito della sua predisposizione

a bordo figure dei settori dell’arte, della comunicazione e del turismo.

Ma non è tutto, perché con il 2017 il Barcone potrà essere disponibile anche

del curatore.

E ancora, sono stati trasmessi gli Europei di calcio, ospitati gruppi musicali,

Dalle ore 17.00 il museo e la produzione del Barcùn de Milan invitano a salire

strutturale, facile da gestire e modificare a seconda della necessità dell’evento.

Dalle ore 21.00 alle 23.30 la presentazione delle opere d’arte con la conduzione

durante la Design Week, dal 4 al 9 aprile, quando l’affluenza in zona si raddoppierà. In questo modo sfrutterà al massimo la sua versatilità e le sue caratteristiche,

tant’è che per queste giornate sarà possibile personalizzarlo sia per il giorno sia

per la sera, per workshop ed eventi, rappresentando così uno dei punti cardine del prossimo Fuorisalone.


EVENTI PRINCIPALI REALIZZATI SUL BARCONE STORICO DI MILANO

MILANO BEACH

EMIS KILLA CONCERT

JUNIOR MASTERCHEF

PUBBLICI E PRIVATI

DARSENA CON IL BARCONE COME PALCO

JUNIOR MASTERCHEF 3

CONCERTI, SHOOTING, WORKSHOP, EVENTI

PRIMO E UNICO CONCERTO REALIZZATO IN

REGISTRAZIONE DELLE PRIME DUE PUNTATE DI

NEW YORK CLUB

SUNSET EXP

HOCKEY MILANO

DURANTE FUORISALONE

DESIGN BY LAPO ELKANN

ROSSOBLU PER LA STAGIONE 2016-2017

MOSTRA FOTOGRAFICA MILANO - NEW YORK

PRESENTAZIONE DELLA MAZDA MX-5 LEVANTO

PRESENTAZIONE SQUADRA HOCKEY MILANO

ALTRE ATTIVITÀ PREVISTE SUL BARCONE DI MILANO

MOSTRA CARAVAGGIO

VIDEO INSTALLAZIONE E MULTI PROIEZIONE VIDEOMAPPING

LOCATION SUGGESTIVA

L’ACCESSO È TOTALMENTE GRATUITO AL PUBBLICO

COSA È POSSIBILE FARE SUL BARCONE • PROGETTAZIONE E ALLESTIMENTO DEL BARCONE E DI SPAZI DEDICATI

AZIENDALE: SHOOTING FOTOGRAFICO, CENA AZIENDALE, ESPOSIZIONE

GIORNALIERO E/O SETTIMANALE

• IDEAZIONE E ORGANIZZAZIONE TEAM DI GESTIONE EVENTO

E PERSONALIZZATI IN OCCASIONE DI UN EVENTO A CALENDARIO • CONDIVIDENDO LO SPAZIO CON ATTIVITÀ DI CO-MARKETING

• POSSIBILITÀ DI AFFITTO PER UN EVENTO SPECIALE, PRIVATO O

E PRESENTAZIONI DI PRODOTTI, SFILATE DI MODA.

• SPOT AZIENDALE O VIDEO SU MAXI SCHERMO 10X4 METRI • DISTRIBUZIONE GADGET E MATERIALE PROMOZIONALE



CDQC I SHOPPING ASICS TIGER LANCIA LA COLLEZIONE GEL-KAYANO TRAINER KNIT E TI INVITA AD UNIRTI ALLA TRIBU: we are all one L’ideologia della millenial generation nasce da influenze urban, dal desiderio di far parte di una cultura comune e dalla voglia di porsi ogni giorno nuove sfide. I millenials sono un gruppo in continua crescita, e ciò che indossano li unisce gli uni agli altri come specchio della loro personalità e li fa sentire parte di qualcosa di più grande. Da qui nasce la nuova campagna globale per il lancio e la rinascita di un’icona: la collezione Gel-Kayano Trainer Knit. WE ARE ALL WOVEN FROM THE SAME THREAD «TUTTI INTRECCIATI CON LO STESSO FILO»

affinché capiscano che solo credendo in se stessi anche gli altri crederanno in loro. E mentre Asics Tiger comprende quanto i giovani di oggi necessitino di essere compresi nella loro individualità, è solamente unendosi che possono realmente dare ispirazione. Il lancio della campagna è stato celebrato il 23 febbraio a Berlino con un’installazione esclusiva in collaborazione con Highsnobiety e Neulant van Exel. La campagna è stata creata da The Adveture Of e prodotta da Easy Does It. La regia è di Chehad Abdallah e la fotografia di Robert Wusch.

La Gel-Kayano Trainer è stata apprezzata per il suo design iconico fin dal 1993. Oggi viene lanciata nella nuova versione con un’esclusiva tomaia in knit per riflettere lo spirito collettivo, la creatività che contraddistingue i giovani di oggi e la street culture che li definisce. La nuova collezione presenta cinque diversi modelli tutti caratterizzati dalla tomaia in knit. Il claim della campagna è: “We are all woven from the same thread”. Siamo tutti intrecciati con lo stesso filo. Infatti ASICS vuole celebrare proprio la voglia di stare insieme. La Gel-Kayano Trainer Knit è caratterizzata da uno stile minimalista che lega perfettamente la tomaia in knit con le famose stripes ASICS riprese dal modello originale e combina uno straordinario comfort a una versatilità con uno streetstyle premium. La collezione lanciata tra Gennaio e Aprile 2017 in cinque diversi gruppi di prodotto. Con 10 combinazioni di colore e un look per ogni “tribù” permette a tutti di sentirsi uniti e poter affermare la propria identità. TOGETHER WE RISE La campagna è stata lanciata il 16 Febbraio con un video in bianco e nero di 90 secondi, che evidenzia ed esalta la Gel-Kayano Trainer Knit. Girato in spazi urban, il video ritrae influencers e creatori di nuove culture. Nonostante apparentemente sembrino diversi, sono un tutt’uno. Probabilmente provengono da realtà differenti e inizialmente procedevano verso direzioni differenti, ma ben presto si sono resi conto che solamente uniti risultano più forti. Il video e la campagna vogliono promuovere e sfruttare l’autostima presente nelle nuove generazioni di oggi. Asics Tiger vuole lanciare un messaggio ai giovani

VOLUME e la gioia del vinile Via Privata Ettore Paladini 8, Milano / Città studi di giorgiA DELL’ORTO

In un momento in cui la musica stampata su vinile sembra avere più successo dell’mp3, vengono spesso a mancare realtà in cui trovare rifugio. Presente quei negozi di dischi in cui entri e ti senti subito libero di chiedere consiglio? Quelli con cui instauri un bel rapporto di fiducia e finiscono per diventare una seconda casa? Si dai, di quelli che ne esistono pochi ma buoni. Ecco: a Lambrate, a settembre scorso, ha aperto V O L U M E uno spazio per chi ha voglia di scoprire e comprare musica e libri di etichette e case editrici indipendenti, sapientemente selezionati dall’anima del negozio, Marco Monaci, che è sempre pronto per uno scambio di idee: «Da Volume passano sia quelli che vogliono scoprire un mondo che non conoscono sia altri che sanno bene di cosa hanno bisogno e quindi sanno di poter trovare qui cose che da altre parti non tengono». I clienti capiscono al volo che in lui possono trovare una persona appassionata che ti aiuta a orientarti ma anche con cui ti puoi confrontare per interesse comune verso un genere, un disco, una novità. La selezione di nuove uscite, ri-edizioni e qualche oldie (rigorosamente in ordine alfabetico, da sfogliare tutto) è accurata e varia, fatta di etichette che sono «piccole realtà, magari costituite da una persona o due, che fanno già in partenza una selezione pazzesca dettata dalla passione». Stesso criterio vale per il reparto bookshop: «Ho contattato direttamente le case editrici» – in linea di massima sono quasi tutte indipendenti - «riscontrando una grande apertura al nuovo e a chi apprezza la ricerca e recepisce il messaggio». In pochi metri quadri Volume riesce in un’impresa che pochi altri eguagliano: diventare un punto di incontro di realtà diverse, accomunate da una stessa voglia di scoprire cose nuove e innamorarsi della creatività. E se poi viene voglia di bere un drink, questa cave si trova all’interno del cortile della Santeria Paladini, una garanzia. Andate a verificare di persona, subito!

IF BAGS / NEW BASICO DI MARTINA GIUFFRÉ

Vi ricordate la collezione Basico del 2017? Probabilmente sì, non si dimentica mica così facilmente, ma nel caso in cui fosse un no, vi rinfreschiamo la memoria: zaini If Bags e If Double, Pocket, Pochette e zaini OZ, pezzi imperdibili dalle linee pulite e minimal, declinati in 6 colori pazzeschi! Fino a qui nulla di nuovo, starete commentando infastiditi e invece no, perché di novità ce ne sono eccome! La prima è che questa collezione, bella in modo assurdo come direbbe Zoolander, sarà presentata il 24 febbraio a Milano, nel negozio di Corso Ticinese 46. Dalle 19:30 in poi ci sarà un aperitivo (che ci sta sempre) e anche un dj set (che ci sta ancora di più!).La seconda novità è che durante il corso della serata ci saranno due nuovi lanci: una linea di tazze in ceramica realizzate a mano che riprendono ognuna delle 6 nuances di Basico e, in più, una linea di t-shirt nel tipico stile essenziale del brand, con l’aggiunta del claim ironico e divertente “don’t care about the hype.” Come promesso le sorprese per il lancio della collezione sono tante ma, se aveste ancora bisogno di un motivo per partecipare alla serata, allora sappiate che, per la primissima volta, tutti gli ospiti avranno la possibilità di richiedere, attraverso una semplice scheda da compilare, una IF completamente personalizzata! Potrete scegliere tutto, ma proprio tutto: dagli abbinamenti di materiali, corde, fermacorde, fino ai colori della tasca interna, del legnetto/gomma e del logo. Ricapitolando, nel corso della stessa serata avrete la possibilità di: sostituire la vostra vecchia tazza da colazione con una molto molto più figa, magari anche abbinata al vostro zaino, aggiungere al vostro guardaroba una t-shirt che amici e nemici vi invidieranno e creare la IF Bag perfetta per voi, unica e inimitabile. Il tutto nella via dello streetwear di Milano per eccellenza e con aperitivo e dj set annessi. Serve aggiungere altro o ci vediamo lì?


DESIGNED BY CARLOTTA CONCAS & TOMMASO TINO • ©2017 MITCHUMM INDUSTRIES - RIDERS

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R I D E R S @ M I T C H U M M . C O M


CDQC I speciale fotografia / 1 MIA PHOTO FAIR 2017: IMPRONTA INTERNAZIONALE E ALTA QUALITà ATTENZIONE SUL BRASILE E SULLE ASTURIE, NUOVA AREA DEDICATA ALL’EDITORIA, PERFORMANCE DI DANZA, FILOSOFIA, MUSICA E TECNOLOGIA: DAL 10 al 13 MARZO A THE MALL, nel quartiere di porta nuova a milano DI francesco mascolo MIA Photo Fair, la fiera dedicata alla fotografia d’arte, si riconferma uno degli appuntamenti più attesi della stagione espositiva milanese ed è ormai pronta per la sua settima edizione. Ancora una volta ideata e diretta da Fabio Castelli e Lorenza Castelli, la fiera sarà aperta al pubblico dal 10 al 13 marzo 2017 a The Mall, nel quartiere di Porta Nuova a Milano, riconfermando la sua impronta internazionale e offrendo ancora una volta un programma culturale di alta qualità. Forte del grande successo dell’edizione passata, che registrò 24mila visitatori, MIA Photo Fair 2017 ripropone un format ormai consolidato: da un lato le gallerie, a cui viene lasciata la possibilità di presentare collettive o progetti monografici; dall’altro Proposta MIA, una selezione di fotografi che avranno la possibilità di esporre il proprio lavoro individualmente. Tra le novità di quest’anno, MIA Photo Fair 2017 porterà all’attenzione del pubblico due progetti tematici legati a due aree geografiche: il Focus Brasile, a cura di Denise Gadelha, e il Focus Asturie, a cura di Monica Alvarez Careaga. E poi ancora una nuova area dedicata all’editoria e innovativi e originali progetti dedicati alla performance, con la partecipazione di Flux Laboratory, uno spazio sperimentale multidisciplinare che incoraggia creatività e lavoro performativo attraverso incontri con i mondi della danza, dell’arte, della filosofia, della musica, della tecnologia e ArtOnTime, un progetto curatoriale itinerante, promosso da Artraising e supportato da Eberhard & Co., che ha l’obiettivo di finanziare Bernard Pras, Inventory N°74 - The scream (after Edvard Munch), 2008, stampa fotografica sotto diasec, Courtesy: Mazel Galerie – Brussels

Halida Boughriet, Pandore, 2014, C-Print, Courtesy: Officine dell’Immagine & Halida Boughriet

artisti dell’arte performativa attraverso il crowdfunding. Il comitato scientifico di selezione degli artisti del progetto è composto da Monique Veaute (Fondazione RomaEuropa), Fabio Castelli, Giorgio Fasol (Ass. AGI Verona), Riccardo Lisi (spazio La Rada, Lugano) e Antonio Grulli (Critico e curatore). Tra i premi previsti dalla fiera, la nuova edizione conta ancora una volta il prestigioso premio BNL Gruppo BNP Paribas, che offrirà all’opera vincitrice la possibilità di entrare a far parte del patrimonio artistico della Banca, che a oggi conta oltre 5.000 opere. Il premio Codice MIA, che permetterà un incontro ravvicinato tra i migliori 45 fotografi e collezionisti, art advisor e curatori provenienti da tutto il mondo. Il nuovo premio Charles Jing, che riconoscerà al primo classificato 7.000 euro e la concessione gratuita di uno stand nell’edizione 2018 di MIA Photo Fair e ancora i premi Massimo Gatti e RaM Sarteano, che selezioneranno un vincitore al quale verrà offerto la possibilità di allestire una personale rispettivamente negli spazi della Galleria Cavaciuti e all’interno della Rocca Manenti. MIA Photo Fair, con il patrocinio della Regione Lombardia, della Città Metropolitana di Milano, del Comune di Milano, del Consolato Generale del Brasile a Milano e del Principato delle Asturie, può contare sul contributo dei main sponsor BNL Gruppo BNP Paribas e Lavazza e sul supporto di Eberhard & Co.

uca Giaretta**, Sadhu, Varanasi 2014, 2014, stampa a pigmenti su carta, Museo Silver Rag


CDQC I SPECIALE FOTOGRAFIA / 2 focus sul lavor0 DI ALESSANDRA ROSATI

Alessandra Rosati inizia a scattare fotografie sin da giovane per poi frequentare scuole e master che la portano a girare il mondo. Il suo stile attinge dall’immaginario pop con un mix di colori e sensualità che la portano a disegnare le sue foto con un tratto erotico inconfondibile, diventando un interprete particolare per maison prestigiose tra cui Saatchi & Saatchi, Miluna Gioielli e Land Rover.

La sua vera forza è la vocazione a far propria ogni nuova tendenza, accompagnata a un maniacale perfezionismo dato da uno studio continuo che ha sviluppato la sua capacità di dialogo con le persone, le cose, gli ambienti, i profumi, per produrre foto che si trasformano in idee e significati. www.alessandrarosati.com


CDQC I Speciale fotografia / 3 OFFICINE FOTOGRAFICHE / Via Friuli, 60, MILANO DI GIULIA LAINO

Corsi, workshop, incontri e mostre. A Milano arriva un nuovo polo della fotografia. Da anni punto di riferimento per la realtà romana, Officine Fotografiche apre a Milano: associazione che propone formazione, workshop, incontri e mostre per una nuova piazza di scambio sul mondo della fotografia a 360°. Così ci raccontano il direttore Emilio D’Itri e Valeria Ribaldi che, da frequentatrice, oggi rappresenta la realtà milanese che ha già registrato una forte risposta, anche grazie all’inaugurazione con la mostra Copacabana Palace di Peter Bauza. Come s’inserisce Officine Fotografiche nella realtà culturale di Milano? Emilio: Dico sempre una piazza aperta per parlare di fotografia, un po’ la tradizione che ci ha contraddistinto in questi anni qui a Roma. Lo stesso spirito lo vogliamo portare su a Milano, avere degli appuntamenti fissi per attivare un luogo d’incontro e di discussione per tutto ciò che c’è intorno alla fotografia, non soltanto l’oggetto classico - la macchinetta fotografica o la fotina - ma tutto ciò che riguarda la cultura dell’immagine a 360°. Valeria: La nostra vocazione è quella di essere il più possibile aperti e il buon seguito ci ha fatto capire che nonostante a Milano ci sia tanta offerta, la realtà di Officine è stata subito accolta con calore, sia dagli addetti ai lavori ma - e forse è la sfida o comunque la cosa che ci ha fatto più piacere - anche da persone appassionate, da curiosi, magari di arti visive in generale: la signora del quartiere, la photo editor, un ragazzo che ha letto del nostro incontro sulla stampa o sui social. Una certa fluidità, tema del nostro numero Valeria: Esatto, la cosa esce fuori soprattutto dall’offerta formativa, ci muoviamo su vari filoni di fotografia più tradizionale e poi abbiamo tutto un settore che noi chiamiamo di linguaggi, che partono dalla fotografia per sviluppare proprio dei percorsi. Photo Editing, tenuto da Emanuela Mirabelli di Marie Claire e Chiara Oggioni Tiepolo, un discorso abbastanza ampio e fluido a sua volta, rivolto a tutti gli aspiranti photo editor, curatori, ma anche a fotografi che vogliono avere un riscontro sul proprio lavoro sia dal punto di vista editoriale che dal punto di vista espositivo. Com’è nata l’idea di un corso di fotografia per la terza età? Valeria: Dall’idea di una fotografa che ci ha proposto di avvicinare un target che non è detto che sia necessariamente interessato: di anziani che hanno disponibilità sia di tempo che di risorse ce ne sono abbastanza. Abbiamo sviluppato un corso di critica fotografica, book design e poi uno di Signature Development tenuto da Francesca Serravalle, che vuole portare il fotografo a sviluppare il proprio progetto editoriale e artistico verso le installazioni, il video, il libro o interventi più pittorici e grafici, che sviluppi a pieno tutto quello che è il suo linguaggio. E

MEDIA I CACTUS DIGITAL Di striP-project.com CACTUS Digital è un progetto editoriale nato nel 2015 da un’idea di tre giovani creativi milanesi, Luca Smorgon, Giovanni Grosso e Valeria Peschechera (hanno collaborato con noi al numero di Urban 130). La rivista dal titolo innovativo è quasi interamente composta da immagini, e in tutto il suo kilogrammo di peso contiene le proposte più interessanti degli artisti visivi del panorama contemporaneo. Il team milanese infatti concentra il suo lavoro soprattutto nella ricerca dei contenuti più all’avanguardia. Ogni artista viene accuratamente selezionato e il lavoro viene valorizzato a seconda della propria identità, ma la sequenza visiva che viene proposta diventa un susseguirsi di sensazioni, come fosse un unico racconto virtuale. Non c’è dissonanza e confronto tra le immagini che convivono in un unico flusso creando un vero e proprio continuum di emozioni. Questa è la particolarità dell’affascinante calderone di idee che è CACTUS. Determinante per il terzo numero da poco uscito è stato l’incontro con il duo di fotografi Christto & Andrew, considerati tra i giovani artisti più talentuosi del momento, un vero colpo di fulmine per CACTUS che ha capito subito la potenza del loro linguaggio visivo e come poteva perfettamente adattarsi alla moda del momento. La loro capacità di fondere gli stili, la creazione del set, il tocco di humor che rende la loro visione del medio-oriente unica e non tradizionale. Oltre ad accaparrarsi la copertina del magazine e ad essere protagonisti indiscussi di questo terzo numero, in occasione del 91 PITTI uomo Cactus e Bjork Florence hanno anche presentato la mostra The Eternal Now, realizzata dal duo di fotografi residenti in Qatar, in collaborazione con KENZO. Una sorta di editoriale di moda ideato pensando per ogni scatto a qualcosa di nuovo che lasci lo spettatore a immaginare una storia che lo affascina indipendentemente dai vestiti, che diventano solo un plus. Il punto di partenza del lavoro dei due artisti, così come per CACTUS, è un’idea della moda definita un-fashion, diversa da quella convenzionale e patinata delle comuni riviste, forgiata da una visione meno tradizionale e conformista, poco ortodossa, che a volte rende ridicoli, fa sorridere, stupisce, o semplicemente può non essere banalmente attraente. Il punto di arrivo è una totale libertà espressiva attraverso le immagini che definisce il tutto con questa forte estetica contemporanea.

poi ovviamente c’è la parte più documentaria di reportage che è sempre un core di Officine Fotografiche. Infatti collaborate anche con Il Reportage e la vostra mostra d’inaugurazione è stata quella di Peter Bauza. Com’è andata? Emilio: Benissimo, tra l’altro abbiamo aperto con una mostra così prestigiosa che, dopo il Visa d’Or 2016, ha vinto anche il World Press Photo. Valeria: L’inaugurazione è stata un successo. Abbiamo avuto anche un talk con Peter Bauza, dove ha parlato del suo lavoro, come l’ha gestito durante gli anni, la sua esperienza personale e com’è arrivato a creare un libro, un multimedia e tutto quello scaturito da Copacabana Palace. Emilio: Ma tutto il primo mese di vita... gli appuntamenti sono stati tutti frequentatissimi, soprattutto da tanti giovani, e mi fa piacere, perché è quello a cui puntiamo, fare in modo che diventi punto di ritrovo come lo è diventato negli anni qui a Roma. Anticipazioni sulle prossime mostre Valeria: Il 9 marzo avremo un lavoro inedito di Davide Monteleone, che sarà anche ad Officine Fotografiche per un workshop di un giorno. Tutte le mostre e gli incontri sono aperti al pubblico e gratuiti. Da marzo inizieranno i corsi e verranno affiancate delle attività esclusive per i soci.


DA MARZO IN EDICOLA soccerillustrated.eu


CDQC I arte IL RITRATTISTA DEL CHE E una storia mai raccontata foto e testo di enrico de luigi

ONO arte contemporanea di bologna, dal 2 marzo, inaugura UNA MOSTRA DI ALBERTO KORDA, Ernesto Che Guevara. Guerrillero Eroico. Un fotografo di rimini era andato a trovarlo a cuba e questa è l’impressione che gli ha fatto, raccontata a michele smargiassi di repubblica

Caro Michele, ti allego un ritratto di quelli che come dici tu raccontano una storia. L'ho scattato ad Alberto Korda nel 2001 all'Havana. Korda l'ho conosciuto grazie a un mio caro amico scenografo che a Cuba per una serie televisiva aveva addirittura costruito 3 caravelle a dimensione reale. Per i cubani il mio amico è una leggenda. A casa di Korda ci ero arrivato con qualche centinaio di dollari, speravo di poter comprare da lui una stampa del Che, stampa che alla fine ho trovato: il Che su una barca da pesca a torso nudo, basco e macchina fotografica in mano, il Che fotografo. Ho avuto la possibilità di sfogliare stampe dell'epoca della revolucion, stampe che Korda si era stampato chissà quando e chissà come visto che i suoi negativi sono custoditi al museo della revolucion e che neanche lui aveva il permesso di utilizzarli e stamparli. Alberto Korda era ubriaco, era l'ora di pranzo, mojito in mano. Si aggirava stordito per la casa. Alla parete il suo leggendario ritratto del Che al funerale di un compagno scomparso per la causa rivoluzionaria. Dopo un'oretta sapevo quale era la foto che avrei comprato quindi, con l'aiuto del mio amico, gli chiedo quanto costa. Korda non si scompone e dice 300 dollari. Io e Davide ci guardiamo negli occhi pensando subito che la cifra è alta. Davide gli ricorda che siamo colleghi ma lui risponde calmo: il mio gallerista di Los Angeles le mie foto le vende a 1.000 dollari, quindi il prezzo per voi è vantaggioso. Io e Davide, nello stesso istante,

proviamo un brivido lungo la schiena. Korda ci ha appena detto che lui, fotografo della revolucion cubana, è rappresentato da un gallerista americano, da un gringo. Faccio fatica a credere a quello che ho appena sentito, Davide tira una bestemmia, io mi demoralizzo a tal punto che per un lasso di tempo penso di rinunciare ma è troppa la curiosità, voglio proprio vedere come va avanti il tutto. Passa qualche minuto in cui non sappiamo veramente che cosa fare, se andare via subito o rimanere. Rimaniamo. Korda non ci offre da bere, scompare in un'altra stanza per ricomparire dopo qualche minuto. Davide ora è incazzato, amareggiato, gli chiedo di calmarsi, cerco di riflettere finché decido di comprare la foto. È rimasto solo l'ultimo passo, tirare fuori i soldi e darli a Korda. Lo faccio senza che lui presti al mio gesto la minima attenzione, conto i soldi infilo il malloppo nel taschino della sua camicia militare cubana, fatto ciò mi tiro indietro e lo osservo parlare in piedi con alle sue spalle il ritratto del Che. Poi ho un lampo, non so giudicare di che natura, un lampo diciamo diabolico. Mi riavvicino a Korda e con un gesto veloce gli faccio sbucare dal taschino il malloppo di dollari faccio due passi indietro e scatto, non so quante volte ma scatto, lucidamente scatto. Sono passati tanti anni, Alberto Korda non c'è più, Cuba resiste, il Che è sempre il Che. Enrico


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CDQC I CINEMA I A CURA DI SILVIA ROSSI

JACKIE DI PABLO LARRAIN

T2 Trainspotting DI Danny Boyle

MOONLIGHT DI BARRY JENKINS

MANCHESTER BY THE SEA DI KENNETH LONERGAN

Pablo Larrain sceglie gli USA per il suo settimo film, un insolito biopic che racconta i tre giorni successivi all’assassino di JFK, visto attraverso gli occhi della moglie Jacqueline. Con Jackie, interpretata da una splendida Natalie Portman, Larrain, come ci ha ormai abituati, fugge la retorica. La sua Jacqueline è si la first lady, moglie e donna che nel giro di poche ore ha perso quasi tutto, ma sarebbe riduttivo dire che quel tutto comprenda solo il ruolo istituzionale e il matrimonio. In realtà, dal film, si capisce che in quelle ore Jackie ha seriamente rischiato di perdere sé stessa. Lo dice chiaramente al prete che tenta una sorta di confessione allargata: «Padre, ogni giorno prego di morire». Poteva farlo solo Larrain un film così, perché in mano a tanti altri, anche esperti, si sarebbe naufragati nell’ennesimo polpettone patinato, impeccabile certo, ma vuoto. E invece Jackie ha una bellissima anima. L’abbraccio su cui il film si chiude dice tutto quello che c’è da dire, lega un nodo alla gola che ci accompagnerà ogni qualvolta rievocheremo Jackie: quest’ultima e suo marito di spalle, alla Casa Bianca, mentre ballano un lento. Tempi felici, che sembrava dovessero durare per sempre. Dal 23 Febbraio al cinema per Lucky Red.

Sono passati 20 anni da quel film che ha segnato una generazione e oggi, Danny Boyle ti sbatte di nuovo in faccia quei 4 tossici scapestrati di Renton, Spud, Sick Boy e Begbie. Che cosa sarà mai successo dopo la fuga di Renton con i soldi rubati ai suoi stessi migliori amici? Prima c’è stata un’occasione, poi c’è stato un tradimento. Molte cose sono cambiate, ma altrettante sono rimaste le stesse. Mark Renton (Ewan McGregor) torna nell’unico posto che da sempre chiama casa. Lì ad attenderlo ci sono Spud (Ewen Bremner), Sick Boy (Jonny Lee Miller), e Begbie (Robert Carlyle), insieme ad altre vecchie conoscenze: il dolore, la perdita, la gioia, la vendetta, l’odio, l’amicizia, l’amore, il desiderio, la paura, il rimpianto, l’eroina, l’autodistruzione e la minaccia di morte. Sono tutti in fila per dargli il benvenuto, pronti ad unirsi ai giochi. T2 Trainspotting riunisce il regista premio Oscar Danny Boyle con il cast originale del film del 1996 ed è una bomba. Le corse, la droga, lo sporco e le risate sono sempre quelle. Anche il monologo, l’indimenticabile monologo e la scelta di metterlo proprio quando meno te lo aspetti è funzionale. Dal primo minuto fino all’ultimo non riuscirete a stare fermi sulla poltrona del cinema. Un lunghissimo video-trip dal quale non si scappa. Andate a vederlo al cinema grazie a Warner dal 23 febbraio.

Applaudito dalla critica di tutto il mondo, Moonlight racconta l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta di Chiron, un ragazzo di colore cresciuto nei sobborghi difficili di Miami, che cerca faticosamente di trovare il suo posto nel mondo. Un film intimo e poetico sull’identità, la famiglia, l’amicizia e l’amore, animato dall’interpretazione corale di un meraviglioso cast di attori. L’opera prima di Barry Jenkins ha già vinto il Golden Globe per il miglior film drammatico ed è candidato a 8 premi Oscar tra cui miglior film, miglior regista, migliore attore non protagonista e migliore attrice non protagonista. Tre momenti della vita di un afro-americano nella periferia di Miami: bullismo, omofobia, genitori assenti. Ma anche un romanticismo inaspettato e universale. Barry Jenkins ricostruisce così in Moonlight la figura maschile sul grande schermo. Per Jenkins Moonlight è il progetto di una vita, un film di quelli che chiedono tanto allo spettatore: investire il cuore, il cervello e pure la pancia. Accettazione è la parola chiave di questo lavoro. Chiaramente accettazione per sé stessi, della propria sessualità e razza. Stiamo assieme al protagonista lungo tutto questo percorso di consapevolezza interiore, mentre tutto il mondo là fuori si diverte a fare il lavoro sporco. Quello che lo mette in crisi. Moonlight è anche un film di decostruzione e ricostruzione della figura maschile e lo fa permettendo la riappropriazione di un immaginario (qui black e pure gay) che viene restituito in una forma inedita per il cinema. Un gran bel progetto. Al cinema per Lucky Red.

Si fanno i conti col dolore e con la sua elaborazione in Manchester By The Sea, il film candidato a sei premi Oscar che dà buone possibilità a Casey Affleck di portarsene a casa uno. Kenneth Lonergan questa volta ci racconta come, a volte, nella vita ci siano anche alcune sofferenze che proprio non si riesce a mandare dietro le spalle. Anzi, forse, la soluzione è proprio quella di viverle. Il più a lungo e profondamente possibile.Il film racconta la storia dei Chandler, una famiglia della classe operaia del Massachusetts. Dopo la morte improvvisa del fratello maggiore Joe (Kyle Chandler), Lee (Casey Affleck) torna nella città natale dove scopre di essere stato nominato tutore del nipote adolescente (Lucas Hedges). Lee però è ancora tormentato dal tragico passato che lo ha allontanato dalla moglie Randi (Michelle Williams) e dalla comunità in cui è nato e cresciuto. Il racconto che ne esce è delicato e intimista. Da notare anche il montaggio non cronologico che funziona benissimo, così come la scelta di mettere i personaggi in un contesto semplice, puro a renderli i veri protagonisti della storia. Nonostante il paese e il rapporto di Affleck con esso giochi un ruolo fondamentale. Importante la scelta anche della musica spesso in contrasto con i fatti narrati che diventa così bilanciere delle sensazioni messe in scena. Al cinema per Universal.

LA STRONCATURA

LA LUCE SUGLI OCEANI|DEREK CIANFRANCE CON Michael Fassbender E Alicia Vikander Questa è una delle delusioni più dolorose. Avete visto Blue Valentine o Come un tuono di Derek Cianfrance? Ecco se non l’avete fatto, fatelo. Poi per favore evitate di guardare La Luce sugli Oceani perché non potrete sostenere il dolore. Si, anche se ci sono Michael Fassbender e Alicia Vikander come protagonisti. Chiaramente la premessa è doverosa: non si sta stroncando il film perché brutto o realizzato male. Si sta stroncando il film perché: «Mamma mia, mi sono addormentata eppure c’è Fassbender sullo schermo». Tratto dall’omonimo best seller del debuttante M. L. Stedman, La Luce sugli Oceani, presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, è uno strappalacrime dramma storico ambientato al termine della Prima Guerra Mondiale su un’isola australiana dimenticata da

Dio. Perché in mezzo al nulla, nel cuore dell’Oceano. Qui c’è il faro e il suo guardiano, Tom, eroe di guerra auto-candidatosi come custode dell’isola per sfuggire dal doloroso passato. Con lui Isabel, conosciuta quasi per caso poco prima di imbarcarsi per l’isola e subito perdutamente innamorata di lui, ma fatalmente colpita dalla sfortuna. Per due volte rimane incinta e perde i bambini. Ma il destino le porterà sull’isola una creatura a bordo di una barca a remi naufragata sugli scogli. Quello che sembrerà un miracolo si trasformerà in un incubo. Si riflette molto sul concetto del perdono e dell’espiazione. Sull’amore in tutte le sue forme. Ci si interroga sui grandi dilemmi della vita ma Cianfrance si fa prolisso nel metterli in scena. Dialoghi lunghi, ridondanti e lenti. Noia e lentezza. E troppo amore che si trasforma in stucchevolezza. Siamo in lacrime. In sala.


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CDQC I LIBRI

ROMANZO I DANIELE RIELLI Storie dal Mondo Nuovo di Lorenzo Monfredi

LE STARTUP SFIGATE, LE NEVRASTENIE DI SERPICO, MATTARELLA CHE DIVENTA PRESIDENTE E COME VA LA VITA OGGI «Serpico è il vecchio nonno che ti ripete che nella vita non bisogna fare debiti, altrimenti si diventa schiavi, che ha un parere su tutto e una teoria coerente per ristabilire il bene sulla terra, anche se poi una parte di te si chiede com’è che alla fine di tutta questa giustizia i piatti li lava sempre nonna». Nel mentre di un’asserragliata descrizione e costruzione di un uomo che ha fatto la storia del noir americano, Frank Serpico, ecco che ti si sbatacchia una metafora calzante, sì, ma che ti stende. Cazzo, pensi, anche mio nonno paterno era così. Giustizialismo a uso e consumo delle polpette. Fascismo gerarchico e poi lavoro in nero. Ridi, di gusto. E allora pensi che Daniele Rielli fa parte di quegli scrittori che vorresti chiamare al telefono per chiacchierarci, come diceva Holden Caulfield. Nello scorso numero di Urban abbiamo recensito un romanzo dove la devianza, la distopia e la paranoia la fanno da padroni: Le tre resurrezioni di Sisifo Re, di Cosimo Argentina. E allora? Allora, dopo una siringata di fantascienza letteraria, tocca ritornare a nocche dure sulla realtà dei fatti, sul mondo nostro. O mondo nuovo. Storie dal Mondo Nuovo è la raccolta dei migliori articoli a firma Daniele Rielli, al tempo Quit The Doner, gonzogiornalista per Vice, Riders, Il Venerdì di Repubblica e Soccer Illustrated tra gli altri. Ogni volta che leggo i suoi articoli mi piscio dalle risate. E penso che è proprio un coglione. Ma un coglione in senso buono, eh, perché ti tira fuori dal nulla delle frasi umoristiche che ti spiazzano e lasciano sul posto, come la veronica di Adriano l’Imperatore durante un ValenciaInter di Champions League 2004/2005. Quando leggi le sue battute ridi a denti stretti e vorresti dargli una spinta di quelle da compari, bonaria, e sibilare ma vaffanculo va’, Daniè. Lo stile di Daniele non ha metri di paragone. Che sia il ritratto di Serpico, il modo in cui un cameriere montenegrino intrattiene dei clienti baresi al ristorante, o la conversazione patologica con il direttore

IL FUMETTO TRAMA di Ratigher Il pensiero dietro alle tavole, una critica sulle nuvole e le incertezze di una generazione spaventata messe nere su bianco. Trama il peso di una testa mozzata è l’opera con cui è diventato famoso e apprezzato Ratigher. Il suo taglio naif, i suoi disegni imprecisi ed essenziali sono il fulcro del racconto di questa storia. Qualcosa non va come deve andare, il mondo si è perso, sta giocando a nascondino con il destino ma pare che stiano vincendo comunque i cattivi, o semplicemente quelli che non se lo meritano. La trama di Trama ci butta in faccia una realtà pasticciona e tagliente, una realtà vera e non vera allo stesso tempo, uno stereotipo a metà tra la cruda, violenta e bastarda realtà e un’onirica realizzazione di se stessi con una maschera a dividerci tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere o anzi ciò che vogliamo mostrare agli altri di essere. Un gioco tra cosa è giusto e cosa è sbagliato che s’incrocia fino alla fine del racconto. Lavinia e Giulio sono due ragazzi viziati, ricchi e leggeri. Passano le loro giornate a decidere di andare o meno a una festa snob riempita dagli invitati di droga e alcool per non pensare, per lasciare andare tutto per il meglio, fregandosene della loro vita, senza considerarla come forza, come entità, ma semplicemente pensando all’oggi e non al domani. L’incontro con una creatura inumana, un mostro antropomorfo, cambierà le loro vite in un modo inaspettato e imprevedibile. I due ragazzi incontreranno sulla loro strada la solitudine della società, l’opportunismo dell’umanità e il menefreghismo della vita. L’esperienza può trasformarti in qualcosa che non sei. Oppure può trasformarti in qualcosa che pensavi di non essere ma invece eri, facendo cadere tutte le maschere che avevi creato e mostrando al mondo, e soprattutto a te stesso, chi sei veramente. Non c’è oggi, non c’è domani. Ci sei solo tu e quello che vali davvero. Non farti scrupoli a mostrarti davvero per quello che sei, tanto qualcosa non va come deve andare, il mondo si è perso, sta giocando a nascondino con il destino e gli schiaffi li prenderai comunque perché alla fine vincono i cattivi.

Fabio Fagnani

de “Il Venerdì” di Repubblica, lo riconosci. Belle riflessioni affiancate a momenti di follia proto-nonsense come “Camicia! Azzurrina!” che fanno assomigliare i suoi pezzi a sketch dei Griffin. In più ha quel non so che di elegante, la sua scrittura. Un’eleganza non artefatta, ma innata. Ci sono tanti bifolchi arricchiti che pur comprando tonnellate di haute couture continuano a sembrare dei bovari del cazzo e ci sono invece persone che hanno stile senza impegnarsi granché. Questo meccanismo si applica anche alla scrittura. E Daniele Rielli cade nella seconda dicotomia. Per carità di dio, se siete nella fase di coscienza civile militante e cercate un marcobignami che possa sgorgare la vostra ignoranza e predicare soluzioni analitiche circa la guerra siriana, le tensioni TexMex e altre dotte porcate da sociologo tivvutato, allora non è il libro per voi. Perché sono storie apparentemente slegate quelle che racconta RielliQuit-Daniè. Le startup del cazzo, la nevrastenia di Serpico, la dopamina di dipingere con gli spray sopra un treno intercity, la nomina del presidente Mattarella al Transatlantico, un racconto esaustivo del Trentino-Alto-Adige, il rave che precede la gara al Mugello, in onore di VR46 santo nazionale cioè non apparentemente, diciamo che non accocchiano granché se le colleghi una all’altra, ‘ste storie. Però abbiamo bisogno di leggerle. Perché quando chiudi il libro, l’immagine che ti appare nel cranio a velocità da colibrì è proprio quella di un mondo. Hai appena letto storie disossate tra loro, eppure ti hanno restituito un senso di come va la vita oggi. Contraddittorio, eh? E poi oh, c’è poco da fare: il fascino di avere in casa un volume della Adelphi, la casa editrice di Rielli, è innegabile. Se hai un Adelphi sul tavolino da caffè e la tipa te lo sgama, puoi anche evitare i preliminari. Inzuppi a colpo sicuro.

LA LIBRERIA ARABESQUE CAFÉ Largo Augusto 10, Milano / Duomo

Un percorso variopinto è stato quello di Urban alla scoperta delle librerie milanesi colorite o semplicemente sconosciute ai più e degne di menzione. Questa volta non si fa cenno di un locale nato per essere libreria, né per fingersi tale. L’Arabesque Café si definisce un cult store, un locale polifunzionale, in cui convergono elementi rubati dagli anni 50 e 60 e qui posizionati per farli rivivere in un’atmosfera vintage e al contempo moderna. Un gioco di delicati equilibri, da cui è facile lasciarsi trasportare oltre il confine del buongusto. Nell’Arabesque il design è la parola chiave. Tra le collezioni di moda, di monili e complementi d’arredo una nicchia particolare è riservata ai libri. Un’oasi della cultura del design in un locale che ha fatto dell’estetismo la sua essenza. Le pagine dell’haute couture, quelle più rare e introvabili, si custodiscono nel salotto dell’Arabesque nell’attesa che un estimatore le faccia sue. Tra i profumi e i sapori, in un atelier che stimola i sensi, dalla vista al gusto, i nomi Balenciaga, Ralph Lauren e i loro compagni di quell’avventura che è la moda, riposano eterni nell’Arabesque.

Federica Colantoni


SOMMARIO

URBAN 137 BIMESTRALE ANNO XV / NUMERO 137

EDITORIALE 9

EL GATO CHIMNEY 12

MODA / THE FLUID ISSUE 17

BEAUTY 10

GRETA SCARANO 15

VENICE BEACH 30

STAFF

TEXT

Editor in Chief MORENO PISTO m.pisto@urbanmagazine.it

Roberta Bettanin Alberto Cantone Federica Colantoni/Cultora.it Ettore Dell’Orto Giorgia Dell’Orto Fabio Fagnani Martina Giuffré Giulia Laino Francesco Mascolo Lorenzo Monfredi Stefano Nappa Francesca Ortu Silvia Rossi Strip-project.com Marco Torcasio Tommaso Valisi

Art Direction ARCHIMEDE6.COM ELEONORA PASSONI segretaria LAURA MANDELLI assistente moda DAVIDE RUDELLO SPECIAL GUEST EL GATO CHIMNEY ENRICO DAL BUONO SARA FILETI FEDERICO GUIDA FELIX PETRUSKA LORENZO ZAVATTA

PHOTO Aytekin Alcinn Alessio Beretta Enrico De Luigi

Burn After Reading Uso alternativo di Urban dopo averlo letto

Chairman DIEGO VALISI dvalisi@milanofashionlibrary.it Assistant Publisher PRASANNA CONTI pconti@milanofashionlibrary.it Distribuzione PSC Promos Comunicazione Via Tertulliano 70, 20137 Milano T. 02 89540195

Responsabile di Testata LAURA CHIAROMONTE lchiaromonte@milanofashionlibrary.it Agente per il centro e sud Italia AUGUSTO IANNINI augusto.iannini@fmaadv.it

COVER CREDITS PHOTO ALESSIO BERETTA FASHION EDITOR FRANCESCO CASAROTTO MODEL SEBIN @BOOM GROOMING LORENZO ZAVATTA @FACETOFACEAGENCY USING MAC COSMETICS

Illustrazione di Felix

Puntata N.5: come trasformarlo in stelle filanti

THE FLUID ISSUE

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Coordinatore mag e online MARCO CRESCI redazione@urbanmagazine.it

Tutti i diritti sono riservati. facebook Urban Magazine instagram urbanmagazine_milano La riproduzione dei contenuti, totale e parziale in ogni genere e linguaggio è espressione vietata. Abbonamenti Registrazione presso il Tribunale info@urbanmagazine.it di Milano con il numero 286 del 11/05/2001 Dove puoi trovare Urban Pubblicità MILANO FASHION LIBRARY SRL www.urbanmagazine.it Corso Colombo 9 20144 Milano T. 02 58153201 Stampa LITOSUD Via Aldo Moro 2 20060 Pessano con Bonago, MI T. 02 95742234

THE FLUID ISSUE

Fashion Editor FRANCESCO CASAROTTO

Urban è edito da MILANO FASHION LIBRARY SRL Corso Colombo 9 20144 Milano T. 02 581532011

CDQC 39

PetruŠka




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