" La Via " raccolta 2008

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LA VIA

2008

“LA FEDE CRISTIANA E’ UN’ ESPERIENZA DI VITA, UN LUOGO DOVE INCONTRARE PERSONE, STABILIRE RAPPORTI, PROPRIO COME SU UNA VIA… ” (Via del 16/12/2007)

In queste pagine abbiamo raccolto le meditazioni di don Umberto pubblicate sulla “Via” che, settimana dopo settimana, ci hanno guidato, provocato o consolato: Per non dimenticare, Per intravedere risposte, Per scovare una luce che rischiari le nostre domande

Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo


LA VIA

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È bello pensare che la Via, la nostra Via, assomigli un poco a quella percorsa dal famoso Pollicino: cosparsa di tante briciole, piccole piccole ma indispensabili per far ritorno a casa. Una Via rivestita di garbo e grazia infiniti (quasi avesse timore di recar disturbo) e spogliata di ogni pretesa (dispensa doni gratuitamente, senza domandarsi se meritati). E così, pagina dopo pagina, scopriamo che la nostra debolezza è la nostra forza, che i nostri sogni si fanno preziosi se trasfigurati dalla tenerezza di Dio, che l’amore è l’unica cosa che rimane e che, nonostante tutto, vale ancora la pena di essere uomini perché Dio non si è stancato di noi. Così anche noi come Pollicino camminiamo lungo la strada che ci riporta a casa, tra ostacoli, interruzioni e magari deviazioni, ma di certo non soli: mano nella mano con Qualcuno che, discretamente, ci conduce al di là della soglia della speranza. Erika .

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Domenica

6 gennaio 2008

Epifania del Signore

LE DUE INQUIETUDINI

Capita spesso che nei testi evangelici vengano presentate due figure o due gruppi tra loro antitetici, quasi per invitare chi legge ad una scelta di campo, ad una presa di posizione; o anche magari per tratteggiare l’ambiguità del cuore umano, mai totalmente unificato in se stesso. In questa festa dell’Epifania la specularità è tra i tre Magi e il Re Erode. E’ una contrapposizione che dice due diversi tipi di inquietudine: quella dei Magi è una inquietudine sana, propria di chi è in ricerca e ha fame e sete di conoscenza e di salvezza; quella di Erode invece è piena di paura, timorosa di perdere il suo potere e i suoi progetti di grandezza. E noi leggiamo, in fondo, nell’inquietudine di Erode le nostre paure, le ansie e le angosce della nostra epoca, quelle che ci chiudono in noi stessi facendoci abbassare la forza della verità alla soddisfazione di pochi bisogni ottenuti senza fatica, ma anche senza slanci del cuore. Questo tipo di scelte producono tristezza e solitudine, quella in cui è piombato Erode. Il cammino dei Magi ha, invece, tutt’altro esito. La loro ricerca non genera solitudine ma comunione: la tradizione ci dice che fossero tre, ma il loro numero preciso non lo conosciamo. Il Vangelo dice “alcuni magi”,quindi potrebbero essere stati di più. Certamente però non erano soli, ma il cammino incontro a Cristo fece loro provare la bellezza della fraternità. Il viaggio intrapreso li portò a capire che non erano più gli astri e la forza della natura a governare il mondo, ma la grandezza del Signore. L’uomo, da allora, non è più dominato dal cielo, dalle stelle, dal destino o dall’oroscopo, ma dall’azione provvidente di Dio. Quei Magi fecero ritorno al loro paese” per un’altra strada” cioè con un cambiamento nel cuore. Il cambiamento di chi non vuole più rinunciare a conoscere sempre meglio Dio perché la fede vera è caratterizzata da un dinamismo che spinge a progredire nella conoscenza di Gesù e della S. Scrittura; una conoscenza che, mentre rende vivi, non sazia mai ed è destinata a crescere, facendoci uscire dai nostri schemi, dalla sonnolenza e dalla pigrizia di una religiosità spesso intimistica e limitata alle mura della nostra parrocchia. Mi tornano alla mente le parole di un Papa del Medioevo, S. Leone Magno: “Nessuno si avvicina tanto alla verità come colui il quale comprende che nelle cose divine, anche se molto ha potuto progredire, sempre gli resta da cercare.Perché chi presume di essere arrivato a ciò verso cui tende, non raggiungerà mai ciò che cerca, anzi smetterà di camminare.” La Vergine del Carmelo, venerata nel nostro Santuario, ci aiuti a fare della nostra fede un pellegrinaggio di verità verso il Padre.

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Domenica 13 gennaio 2008 Battesimo di Gesù CONOSCERSI, DECIDERSI, GIOCARSI Ci sono momenti della vita che rappresentano un punto di svolta, una presa di coscienza della propria situazione che favorisce scelte importanti e definitive. Questo fu per Gesù al momento del suo Battesimo. Egli condivise il gesto compiuto dalla gente del suo tempo, il gesto con cui si esprimeva il desiderio di conversione, pur non avendo nessun bisogno di conversione. In quel gesto di lasciarsi battezzare si rivelò la più profonda realtà di Gesù come figlio di Dio e con esso il senso della sua vita e della sua missione. Egli capì in modo chiaro e assoluto di essere chiamato a realizzare il Regno di Dio attraverso i suoi gesti e le sue parole: non a caso il Battesimo fu l’inizio della sua vita pubblica. Da quel giorno lasciò Nazareth e la sua casa per iniziare quel cammino itinerante sulle strade della Galilea che lo porterà fino alla croce di Gerusalemme. E’ un passo decisivo quello che Gesù compie! Egli vede sbocciare in sé quella particolare forza proveniente dal Padre suo, grazie alla quale sanerà i lebbrosi, guarirà i malati, scioglierà i nodi interiori delle persone che accorrevano a lui riavvicinandole a Dio. Sentendosi “ figlio prediletto “ Gesù ha sperimentato quella sicurezza che permette di affrontare anche le sfide più grandi ed impegnative: perché l’amore di predilezione è quell’amore che si riceve prima ancora di meritarselo, prima ancora di aver dimostrato qualcosa; è, in fondo, il tratto caratteristico dell’amore di Dio. Riscoprire il nostro Battesimo significa allora ricollegarsi idealmente al momento del Battesimo di Gesù, ritrovare in noi il senso del nostro essere cristiani, rilanciare il nostro impegno di testimonianza nel mondo. Il cammino diocesano della nostra Diocesi di Piacenza-Bobbio, incentrato sul valore del Battesimo, ci stimoli a non rimanere seduti sugli allori. Ci impegniamo a trovare un senso alla vita a questa vita, alla nostra vita, una ragione che non sia una delle tante ragioni che ben conosciamo e che non ci prendono il cuore. Ci interessa di perderci per qualcosa o per Qualcuno Che rimarrà anche dopo che noi saremo passati e che costituisce la ragione del nostro ritrovarci. Ci impegniamo . Non per riordinare il mondo, non per rifarlo su misura, ma per amarlo,

per amare anche quello che non è amabile, anche quello che pare rifiutarsi all’amore, poiché dietro ogni volto e sotto ogni cuore c’è, insieme ad una grande sete d’amore, il volto e il cuore dell’amore. Ci impegniamo perché noi crediamo all’Amore, la sola certezza che non teme confronti, la sola che basta per impegnarci perdutamente. (don P. Mazzolari )

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Domenica

20 gennaio 2008

IL PECCATO CHE ABITA IN NOI Mi ha sempre fatto pensare il fatto che Giovanni Battista nell’indicare Gesù lo chiami “l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”. Mi colpisce cioè l’indicazione del peccato al singolare invece che al plurale come facciamo noi di solito.Generalmente infatti ci viene da pensare ai “peccati”, quelli che diciamo in confessione e che sono un po’ sempre gli stessi. Ma il Vangelo parla di “PECCATO”, qualcosa di profondo, fondamentale, qualcosa al cui confronto le nostre arrabbiature, parolacce, rancori e dissapori sono ben poco. In cosa consiste questo peccato più forte degli altri tanto da specificare addirittura la missione di Gesù? Se ci capitasse di leggere per intero il Vangelo di Giovanni ( e sarebbe bello farlo!) troveremmo una risposta: il peccato fondamentale è non accettare Gesù Figlio di Dio tra noi, con tutte le conseguenze che comporta. E’ il non riconoscere al Signore la centralità sulla nostra vita e sul nostro agire. Da questo mancato riconoscimento nasce il peccato che il Vangelo indica con parole tipo: menzogna, tenebre, schiavitù. Sono queste parole che ci aiutano a capire maggiormente anche le nostre condizioni di peccato. La menzogna consiste nel voler ritenere importanti cose che non lo sono, falsificando la gerarchia dei valori e facendo passare per necessarie realtà totalmente banali. Così la persona si scopre continuamente incerta, sempre vulnerabile e si illude di poter sanare questa sua fragilità accumulando cose o relazioni. La menzogna così intesa danneggia l’uomo e lo rende schiavo. E’ per questo che il peccato fondamentale è espresso anche con la parola schiavitù. Chi non si apre all’esistenza autentica (non menzognera ) è schiavo di molte incombenze quotidiane: non solo delle sue passioni, ma anche degli orari, delle scadenze, delle urgenze senza che alla fine si sappia bene, tra tante cose che cosa si sta facendo e perché. Si genera così quella situazione di affannata confusione (derivante dal non orientare all’amore di Dio e del prossimo le nostre scelte ) che il Vangelo chiama tenebre. Non si intende qui qualcosa di macabro, ma un certo disorientamento interiore che non ci fa più distinguere ciò che vale da ciò che non vale e ci lascia in preda a stati d’animo altalenanti o agli impulsi più immediati. Certe volte questa confusione del cuore ci impedisce di agire nel bene, facendoci creare falsi problemi o cavilli di ragionamento che ci paralizzano nelle nostre incertezze. Tutto questo sta dietro a quel “peccato” al singolare di cui parla Giovanni. E’ come se fosse la madre di tutti i peccati. Qualcosa che dovremmo imparare a confessare invece che presentarci con una lunga lista di piccole mancanze…. Gesù è venuto per caricarsi sulle spalle questo peccato dandoci una verità che combatta la menzogna, una libertà che tolga la schiavitù e la luce che illumini la tenebra. A patto, naturalmente, di volerlo conoscere per camminare con lui.

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Domenica

27 gennaio 2008

ATTRAZIONE FATALE

I quattro futuri apostoli erano occupati nel loro lavoro. Gesù passa: uno sguardo, una parola, ed eccoli tutti e quattro invitati a seguilo. Il loro mestiere, i loro strumenti di lavoro, il loro stesso padre non sono più importanti, almeno così sembra. Molto probabilmente non era la prima volta che incontravano il Maestro; se non altro avevano già sentito parlare di Lui. Resta comunque il fatto che lo seguirono con immediatezza, venendo come ghermiti dalla sua promessa: “Vi farò pescatori di uomini”. Lì per lì non hanno sicuramente capito. E niente altro, né un contratto, né una promessa di salario, né una prospettiva di avvenire, nulla. Noi siamo abituati a valutare le cose in termini di progetti, calcolando tutti i pro e i contro, valutando quanto ci costerà o ci impegnerà aderire ad un cammino, ad una comunità, ad un gruppo. Ma per gli apostoli non fu così. Quella che vissero nei confronti di Gesù fu come una attrazione irresistibile, uno slancio d’amore paragonabile ad un colpo di fulmine. videntemente li colpì il fatto che questo nuovo Rabbi venisse ad incontrarli nel loro lavoro quotidiano e non in una sinagoga, dando così inizio a quel particolarissimo modo di intendere la presenza di Dio come legata agli eventi ordinari della vita e non ai casi eccezionali. E poi lo stupore per questo Gesù che considerava i loro sforzi e i loro desideri di pescatori qualcosa di serio, così serio da agganciare la sua promessa proprio al loro mestiere. Finalmente un uomo di Dio che non ti chiedeva di mettere da parte i tuoi sogni e gli sforzi di tutta una vita, ma di trasfigurarli, di custodirli impreziosendoli per orientarli a qualcosa di più grande. E tutto questo in luogo ai margini della storia, alla periferia del Regno di Israele, laddove nessuno si aspettava di certo segni o tracce di Dio! Ogni colpo di fulmine, ogni attrazione ha in sé qualcosa di inspiegabile e di misterioso. Resta solo il fascino che una persona esercita su di noi . Resta il fascino di Gesù Cristo. Certo poi la vita richiede di fare dei passi, di rendere amore ciò che all’inizio è puro innamoramento. Anche ai discepoli accadde così. Il loro rapporto con Gesù conoscerà fatiche e incomprensioni, arriverà al tradimento e all’abbandono. E si stabilizzerà attorno alla fedeltà che Gesù rivelerà arrivando fino al dono della vita. Ma anche quando si raggiunga la maturità della fede o dell’amore è sempre necessario tornare alla freschezza di quel colpo di fulmine che ha dato origine a tutto. Tutto ciò che siamo, Signore, lo dobbiamo a te e al tuo intervento nella nostra vita: fa che seguiamo i tuoi passi e ascoltiamo la tua parola, perché possiamo seguirti sulla via del servizio e dell’amore ai fratelli. Amen” Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo

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Domenica

3 febbraio2008

SOGNARE FA BENE

Sarà poi davvero possibile convertirsi? Di conversioni ne abbiamo sentito parlare, ma ci sembrano un caso raro, un’esperienza riservata a pochi. Eppure la conversione è quel mutamento di cuore che inizia modificando abitudini e stili di vita che senza accorgercene ci tengono lontani dal Vangelo. Per questo la Quaresima ci offre alcuni “esercizi di cristianesimo”; essi sono: la preghiera, la carità, il digiuno. Si tratta di fare diventare un’abitudine (cioè un abito da indossare) il fatto di trovare 10 minuti al giorno per leggere il Vangelo, di digiunare il venerdì e di offrire ai più bisognosi una parte del proprio denaro. Da questo cambiamento d’abitudine può nascere la conversione. Forse è un sogno, ma sognare fa bene, perché i sogni spesso muovono la vita. Il sogno di cominciare a liberarsi dalle proprie aridità e dalla inerzia spirituale, il sogno di riscoprirsi più umili e bisognosi di Dio. E’ la realizzazione di quella povertà di spirito che è la più importante tra le beatitudini ed è anche ciò che ci è richiesto con il rito delle ceneri. Per una Quaresima “da sogno”.

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Domenica 10 febbraio 2008 1° di Quaresima

DESERTO QUOTIDIANO

Di gente che rinuncia per un certo tempo a mangiare e bere ce n’è sempre stata e ancora oggi se ne trova. Non è una cosa straordinaria e anche per Gesù non fu quello il problema. Problematico fu il fatto che Gesù il suo digiuno lo fece nel deserto; perché il deserto non perdona. La sabbia che sfugge sotto i piedi rende faticoso il passo e porta i muscoli della gente a indolenzirsi; se non ci si copre il volto i granelli entrano dovunque: negli occhi, nelle orecchie, tra i denti e nei capelli. Lo sbalzo termico tra la notte e il giorno causa al corpo un affaticamento in più e nemmeno l’ambiente ti aiuta: a causa del vento i paesaggi mutano continuamente e i punti di orientamento svaniscono. Il deserto ti costringe ad essenzializzare tutto: i movimenti, le parole, i pensieri. Se poi vi si rimane per molto tempo da soli, il silenzio può diventare opprimente. Gesù non fu certo risparmiato da tutte queste sensazioni; eppure è proprio nel deserto che decise quale impronta dare alla sua vita pubblica. Egli volle fare l’esperienza del deserto per scegliere come vivere, per mettere ordine intorno alle sue scelte. Chiarì a se stesso come esercitare la sua missione e come assolvere al suo compito; rifiutò la logica del pane, cioè una visione che esaurisce la vita nella materialità, escluse per sé di usare il potere e il dominio e cancellò una visione magica di Dio. Seguendo i suoi passi affrontiamo questi quaranta giorni di revisione, di rettifica, di essenzialità, per trovare il senso di ciò che stiamo facendo, per chiederci se anche noi ci siamo lasciati ingannare con la storia dei beni che riempiono la vita, dal potere che semplifica le cose e di un Dio magico al nostro servizio, tentazioni che continuamente ci vengono proposte come soluzione ai nostri problemi. Per noi il deserto è forse rappresentato dalla confusione che ci circonda, dall’affanno in cui ci dibattiamo, dal nostro intrattenere tante relazioni per accorgerci poi di essere soli. I nostri deserti sono quotidiani e ci mettono nel cuore un bisogno di unità: ci serve un centro di gravità attorno a cui far ruotare tutto; ci serve un principio ordinatore che dia senso alle priorità che ci diamo. Ci serve il rapporto con Qualcuno che insaporisca la routine della giornata. Preghiera, digiuno ed elemosina hanno questo scopo. Benvenuti in quaresima. “La Parola non raggiunge gli uomini rumorosi, ma quelli che rimangono in silenzio. Facciamo silenzio la mattina presto perché Dio deve avere la prima parola, e facciamo silenzio prima di coricarci perché l’ultima parola appartiene a Dio”. ( D. Bonhoeffer.) Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo

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Domenica 17 febbraio 2008 2° di Quaresima

GUARDARE LE COSE NELL’INSIEME

Che cosa rappresenta la trasfigurazione per Gesù? In quale momento della sua vita si colloca questo episodio? Egli ha vissuto finora un’esistenza molto umile, molto povera, quasi trascurata dagli altri; certamente ha compiuto miracoli e la folla gli è corsa dietro, ma ad un certo punto si è ritirato perché le sue esigenze erano troppo alte. Gesù sta vivendo un momento di solitudine, di abbandono da parte della gente. E con Lui i discepoli. All’inizio era stata una stagione di successi e tutto filava liscio, ma ora le cose sono cambiate: Gesù ha perso popolarità e il suo parlare di croce e passione ha causato smarrimento. Persino loro, gli apostoli, non capiscono più chi sia quest’uomo di Nazareth che li aveva affascinati: nei confronti del maestro c’è un momento di incomprensione, quasi di attrito. La trasfigurazione è la risposta di Dio Padre a questa situazione. Dio conferma suo Figlio (l’amato) nel cammino che egli sta percorrendo e la trasformazione fisica del Cristo a cui i discepoli assistono rilancia la loro sequela. Gesù colloca un momento difficile della sua vita tra il passato (Mosè ed Elia) e il suo futuro (sta andando a Gerusalemme). Guardando le cose nell’insieme ne esce trasfigurato. Questo stesso atteggiamento interiore anche noi potremmo custodirlo nei confronti di Dio, nei confronti della nostra storia, nei confronti della società. Noi siamo troppo tentati di lasciarci frammentare dalla quotidianità: facciamo una cosa, poi ne facciamo un’altra, magari cose buone, però banali e ripetitive e ci lasciamo sbriciolare dal quotidiano e così non riusciamo ad alzare lo sguardo e vedere l’insieme del mistero di Dio. Nella Trasfigurazione Dio si rivela nella sua totalità, come Trinità, invitandoci a guardare a lui non in modo parziale, magari cogliendo solo quegli aspetti di cui abbiamo bisogno, ma nella sua integrità. Così è anche per la nostra vita. Accadono a tutti avvenimenti spiacevoli e stagioni difficili, ma se li collocassimo nell’insieme della nostra esperienza allora assumerebbero un altro significato, a volte provvidenziale. Spesso la consolazione può nascere semplicemente da un ampiamento di orizzonti. Quando ci concentriamo su un evento spiacevole ne restiamo ipnotizzati e lasciamo dilagare la tristezza in noi. La Trasfigurazione è appunto l’invito a guardare l’insieme dei misteri e a non farci bloccare da singoli episodi. Lo stesso criterio il cristiano lo può far suo nel modo con cui guarda alla società. Sarebbe facile concentrarsi su ciò che non va come fanno i telegiornali e lasciarsi così andare a valutazioni negative del nostro tempo. Ma perché la nostra società e la nostra cultura dovrebbero essere peggiori di quelle passate? Guardare le cose nell’insieme, come fecero Gesù e gli apostoli quel giorno, ci aiuterebbe a scorgere i flussi sotterranei della storia, il bene nascosto ma presente, l’evolversi positivo della società e della cultura. Nella logica del Regno di Dio che, come un seme, sempre misteriosamente cresce.

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Domenica 24 febbraio 2008 3° di Quaresima

OLTRE OGNI DIFESA

Sole allo zenith. Caldo torrido e vie desolate. Nessuno in strada. E una donna, sola, che va ad attingere acqua. Ci va a quell’ora proprio per non incontrare nessuno, dato che in paese tutti mormorano di lei a motivo della sua turbolenta vita sentimentale ma, si sa, un paese mormora quando la gente è piccola. Da lontano intravede un uomo seduto al pozzo e ne resta infastidita. Vorrebbe tornare indietro, ma non può fare a meno dell’acqua per il resto della giornata. Si siede anche lei. E da quel momento niente sarà più come prima, la vita di questa donna sarà segnata per sempre da quel colloquio con Gesù che, passo dopo passo, le farà abbassare le difese e supererà i muri da lei innalzati. Il gioco delle resistenze si farà, via via, sempre più blando, fino a cedere totalmente. Inizierà con una resistenza di tipo razziale: lui è Giudeo e lei Samaritana. Poi introdurrà un equivoco sull’acqua: lei la intende come realtà fisica, Gesù no. Quindi sottolineerà la diversità di culto e dei luoghi sacri: per lei la Samaria, per Gesù Gerusalemme. E ad ogni argomento Gesù la condurrà ad un livello sempre più profondo ed autentico; con grande sapienza e delicatezza il Signore giungerà a porle le domande essenziali, quelle che toccano i nervi scoperti della sua vita. Lo farà con tanta finezza e accoglienza che la donna sarà lei stessa a raccontare quei suoi disordini affettivi di cui non voleva parlare e che l’avevano condotta al pozzo in un’ora in cui non poteva essere vista. Gesù le parla come nessuno mai aveva fatto, la ama nella sua fragilità, ma è proprio questo a farla cambiare. In Gesù trova compimento quella sete d’amore che questa donna stava penosamente cercando di placare. Da questa esperienza nasce e si rinnova la sua fede. E la sua brocca resta lì al pozzo, dimenticata. Il motivo per cui era venuta sembra non esistere più e le sue precedenti preoccupazioni vengono abbandonate per andare a testimoniare l’incontro con Cristo. La libertà interiore finalmente raggiunta è frutto di quella paziente opera di Gesù che disincaglia le chiusure via via incontrate. Chi gioca in difesa con Dio è destinato sempre a perdere qualcosa. Dovremmo pensarlo quando siamo tentati di vivere la nostra fede con la stessa logica dei nostri rapporti sociali: alzando muri, mettendo inferriate, cercando chiusure di sicurezza. Il mondo forse fa paura, ma Dio no. Anche Dio ha le sue stanchezze nel suo paziente viaggio dell’incarnazione. Egli però continua, presso il pozzo, a darci la sua acqua: le parole della Rivelazione, il seme della misericordia, il sapore del suo dono.

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Domenica 2 marzo 2008 4° di Quaresima

CAMMINARE NELLA LUCE

Un cieco dalla nascita: una situazione senza speranza a cui lui stesso e gli altri si sono accomodati. E tanta gente che gli gira intorno: conoscenti, estranei, i suoi genitori, i maestri della legge e i discepoli di un certo rabbi di Galilea chiamato Gesù. E’ proprio Lui che prende l’iniziativa e provoca la guarigione di questo cieco. Con la guarigione il cieco ottiene anche il dono della fede che si sviluppa in lui come un cammino progressivo di riconoscimento di Gesù: egli lo qualifica dapprima come “un uomo”, poi “un profeta”, poi “il Figlio dell’Uomo” e infine “Signore”. E mentre lui passa dalla cecità alla vista, cioè dall’incredulità alla fede, le persone attorno a lui fanno il cammino inverso, allontanandosi da Gesù e diventando come cieche. Ma quante ostilità sperimenta la fede di questo miracolato! Tutti intorno a lui lo allontanano: i farisei lo insultano e lo cacciano dalla sinagoga; i suoi genitori non si assumono responsabilità; persino i discepoli di Gesù cercano i motivi della sua cecità nei suoi eventuali peccati. Forse è questo il reale miracolo: come un uomo così semplice e umile riesca a tener salda la sua fede in Gesù, anzi ad accrescerla, nonostante le contrarietà che deve Appena apre gli occhi sul mondo questo gli si rivela in tutta la sua complessità e fatica. Anche oggi ci sono condizioni, fuori e dentro di noi, che ostacolano il cammino della fede. In noi c’è la confusione interiore provocata da una società complessa e difficile da interpretare, con molte cose che illudono e abbagliano, per cui non riusciamo più a distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Oppure c’è, come nei discepoli quel giorno, un’errata idea di Dio, di un Dio che cerca l’uomo per punirlo e questa idea può far nascere la paura, ma non alimentare la fede. O anche c’è la presunzione che fu dei dottori della legge e dei farisei: ci si illude di saper vivere conoscendo già bene cosa sia la vita, conducendo magari un’esistenza scontata e adagiata nelle proprie abitudini. Si misura tutto con il centimetro del nostro piccolo mondo e così si impedisce a Gesù di farsi strada in noi portando la sua novità. Fuori di noi gli ostacoli sono invece rappresentati da quelle sottili forme di persecuzione fatte di denigrazione, di non rispetto della fede cristiana o di presa in giro operata da chi si ritiene (chissà come) più maturo e più “emancipato”. O anche dell’incomprensione di chi ci sta vicino, come fecero i genitori del cieco nato; a volte sono proprio i familiari a non condividere, se non ad ostacolare tacitamente, le scelte di fede che vogliamo compiere. In fondo la fede ha un costo, come ebbe un prezzo, quel giorno, la vista ridonata al cieco. Ma quando si è toccati dalla Parola dolce e sanante di Gesù, dal suo sguardo purificatore, dalle sue mani rigeneratrici, ben poca cosa sembrano le contrarietà del mondo.

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Domenica 9 marzo 2008 5° di Quaresima

CAMMINARE NELLA LUCE

Un cieco dalla nascita: una situazione senza speranza a cui lui stesso e gli altri si sono accomodati. E tanta gente che gli gira intorno: conoscenti, estranei, i suoi genitori, i maestri della legge e i discepoli di un certo rabbi di Galilea chiamato Gesù. E’ proprio Lui che prende l’iniziativa e provoca la guarigione di questo cieco. Con la guarigione il cieco ottiene anche il dono della fede che si sviluppa in lui come un cammino progressivo di riconoscimento di Gesù: egli lo qualifica dapprima come “un uomo”, poi “un profeta”, poi “il Figlio dell’Uomo” e infine “Signore”. E mentre lui passa dalla cecità alla vista, cioè dall’incredulità alla fede, le persone attorno a lui fanno il cammino inverso, allontanandosi da Gesù e diventando come cieche. Ma quante ostilità sperimenta la fede di questo miracolato! Tutti intorno a lui lo allontanano: i farisei lo insultano e lo cacciano dalla sinagoga; i suoi genitori non si assumono responsabilità; persino i discepoli di Gesù cercano i motivi della sua cecità nei suoi eventuali peccati. Forse è questo il reale miracolo: come un uomo così semplice e umile riesca a tener salda la sua fede in Gesù, anzi ad accrescerla, nonostante le contrarietà che deve Appena apre gli occhi sul mondo questo gli si rivela in tutta la sua complessità e fatica. Anche oggi ci sono condizioni, fuori e dentro di noi, che ostacolano il cammino della fede. In noi c’è la confusione interiore provocata da una società complessa e difficile da interpretare, con molte cose che illudono e abbagliano, per cui non riusciamo più a distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Oppure c’è, come nei discepoli quel giorno, un’errata idea di Dio, di un Dio che cerca l’uomo per punirlo e questa idea può far nascere la paura, ma non alimentare la fede. O anche c’è la presunzione che fu dei dottori della legge e dei farisei: ci si illude di saper vivere conoscendo già bene cosa sia la vita, conducendo magari un’esistenza scontata e adagiata nelle proprie abitudini. Si misura tutto con il centimetro del nostro piccolo mondo e così si impedisce a Gesù di farsi strada in noi portando la sua novità. Fuori di noi gli ostacoli sono invece rappresentati da quelle sottili forme di persecuzione fatte di denigrazione, di non rispetto della fede cristiana o di presa in giro operata da chi si ritiene (chissà come) più maturo e più “emancipato”. O anche dell’incomprensione di chi ci sta vicino, come fecero i genitori del cieco nato; a volte sono proprio i familiari a non condividere, se non ad ostacolare tacitamente, le scelte di fede che vogliamo compiere. In fondo la fede ha un costo, come ebbe un prezzo, quel giorno, la vista ridonata al cieco. Ma quando si è toccati dalla Parola dolce e sanante di Gesù, dal suo sguardo purificatore, dalle sue mani rigeneratrici, ben poca cosa sembrano le contrarietà del mondo. Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo

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Domenica 16 marzo 2008 le Palme

IL SILENZIO DI GESU’

Il Vangelo che racconta l’ingresso di Gesù a Gerusalemme contiene in sé un elemento sorprendente: si tratta del silenzio di Gesù. Nelle domeniche scorse la liturgia, mediante le letture del vangelo di Giovanni, ci ha fatto ascoltare tante stupende parole di Gesù alla samaritana, al cieco nato, alle sorelle di Lazzaro. Qui invece, mentre la folla lo acclama, Gesù tace, tutto assorto nell’indicibile mistero che sta vivendo, mistero di amore e dolore che è la sua imminente passione. Tace quasi a suggerirci che nei prossimi giorni le nostre parole dovrebbero essere sempre più brevi e il nostro silenzio contemplativo e adorante sempre più lungo. Il sacerdote e poeta Clemente Rebora diceva: “La Parola zittì chiacchiere mie” E’ tempo di tacere perché Dio parli, visto che di retorica e discorsi siamo circondati da ogni parte. Forse il silenzio ci intimorisce ma esso è fondamentale per poter ritrovare noi stessi e la nostra verità più profonda. Il silenzio è un modo di attendere, un modo di osservare e un modo di ascoltare quanto avviene dentro e intorno a noi. E’ la via per esplorare le segrete del cuore e il centro della vita. Noi tendiamo spesso ad essere impazienti; tendiamo a divagare; tendiamo ad interferire con questo processo di interiorità. A volte diciamo la prima cosa che ci viene in mente pur di comunicare, senza capire che una comunicazione non verbale è già in sè stessa ricchissima. Il silenzio è, inoltre, una forma d’amore. Dicevano i monaci del deserto: ”qualcuno può apparentemente mostrarsi silenzioso, ma se nel suo cuore condanna gli altri, allora chiacchiera incessantemente”. Questo fu, in effetti, il silenzio di Gesù: un silenzio d’amore, lo stesso tenuto durante il processo davanti al sinedrio. Antitetica rispetto al silenzio di Cristo c’è la confusione della folla. Abituata a comunicare in modo chiassoso essa si lascia trasportare da un estremo all’altro. La stessa folla che accoglie Gesù festante in Gerusalemme pochi giorni dopo lo ripudierà chiedendone la crocifissione. E’ lo stato d’animo di chi va laddove tira il vento e si lascia trasportare perché troppo abituato a prendere decisioni nella confusione interiore e nello strepito, senza il silenzio necessario a penetrare la profondità della scelta. Oggi anche noi siamo ad un bivio; ci sta davanti la settimana santa: possiamo viverla nell’autenticità della preghiera e della ricchezza liturgica del Triduo Pasquale; oppure lasciarsela scivolare addosso presi dalla solita frenesia e confusione, mista ad inutili verbosità. Scegliamo.

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Domenica 23 Marzo 2008 S. Pasqua

LA VITA IN UN AUGURIO

Le nostre parole contengono in sé una forza straordinaria ed una ricchezza che varia a seconda dei significati che ad esse si accompagnano. Anzi, il senso di una parola può via via approfondirsi, illuminarsi, essere penetrato a partire da una esperienza, dalla cultura o dalla fede. E così noi potremmo dare spessore a quell’augurio che in questi giorni risuona per le strade ”Buona Pasqua!” Cosa diciamo quando rivolgiamo questo augurio? Cosa vorremmo intendere con questa parola? Evidentemente c’è anzitutto il significato più immediato, più semplice, quello che si rivela all’evidenza di ognuno: che la domenica di Pasqua trascorra felicemente. Ed è già una gran cosa. Non passa giorno infatti senza che qualche pensiero ci rattristi o che qualche episodio ci porti preoccupazione: avere quindi almeno un giorno interamente sereno, senza affanni e senza angosce sarebbe davvero una grazia di Dio! Eppure il significato di questo augurio non può fermarsi qui. Potremmo scoprirne un senso più autentico per accorgerci che quando diciamo “Buona Pasqua” facciamo riferimento ad una Resurrezione, quella di Cristo. E quindi, infondo, desideriamo, per la persona a cui lo diciamo che essa possa in qualche modo ”risorgere” e che ciò che si compirà nel corpo in futuro, possa già ora cominciare ad accadere nel cuore. E così auguriamo agli altri di uscire dal buio dei loro sepolcri cioè dalle difficoltà, per potersi risollevare e rilanciare. Magari con l’aiuto di una Presenza Amica come fu quella degli angeli per la donna del Vangelo. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci prenda per mano per farci trovare la nostra tomba vuota, per condurci, discretamente, al di là della soglia della speranza. Ne abbiamo bisogno anche quando non lo manifestiamo imbevuti di cultura dell’autosufficienza e col cuore diffidente e guardingo. E’ infatti a questo livello che possiamo scoprire un messaggio ancor più profondo contenuto nel nostro augurare ”Buona Pasqua!” Gesù risorto infatti ristabilisce in modo nuovo le relazioni umane. Egli risana quei rapporti che la morte aveva corroso ed infranto: rapporti di amicizia, di affetto fraterno, di apostolato e di lavoro comune. Così tutti i nostri rapporti, i nostri modi di comunicare vengono rifatti, investiti dalla potenza della vita di Gesù, per cui il nostro comunicare sulla Terra diventa già l’inizio del comunicare in cielo: tutte le nostre relazioni autentiche toccano già il mondo del Risorto facendoci presagire, pregustare la perfetta comunicazione di tutti noi, tra noi e con Dio. Tutto questo ha avuto inizio con la Resurrezione e noi ne possiamo godere i frutti e augurarli agli altri. Certo, si resta impressionati nel vedere quanto due semplici parole possano essere ricche ed efficaci. A questa ricchezza io attingo per dirvi “BUONA PASQUA!” nella pienezza del suo significato! Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo

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LA VIA

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Domenica 30 marzo 2008

APOLOGIA PER UN INCREDULO I soprannomi solitamente nascono da un tratto caratteristico della persona o da un episodio di cui ci si ricorda. Anche S. Tommaso un soprannome ce l’aveva: il vangelo dice che era detto “Didimo”, che significa “gemello” o anche “doppio”. Mi piace pensare che sia legato al fatto che in Tommaso coesistessero due anime: una credente e l’altra no; una aperta alla fiducia e l’altra diffidente; una generosa ed esuberante, l’altra pigra e meschina. In Tommaso si realizzava alla perfezione quella lacerante convivenza di bene e male così ben descritta da S. Paolo in ROM.7 Ma chi di noi non ha almeno in parte avvertito questa situazione? Ciascuno di noi ha in sé un credente e un non credente che si parlano dentro, che si interrogano a vicenda, che rimandano continuamente domande pungenti e inquietanti l’uno all’altro.Tanto che se Tommaso deve avere un gemello, questo forse siamo noi! E quindi ritengo ingiusto catalogare questo apostolo sempre e solo come l’incredulo e mi pare invece opportuno rileggere l’episodio più famoso della sua vita (quello con Gesù risorto) sotto un duplice registro. In Tommaso c’è evidentemente una incredulità, un irrigidimento, una chiusura. In lui è il cuore ad essere chiuso, l’unico organo che permette di cogliere la verità nel suo essenziale, che, come sappiamo, èinvisibile agli occhi. Egli infatti non crede alla parola dei suoi amici e non si fida di loro. E’ la relazione con il resto del gruppo ad essersi inaridita , senza più quella linfa vitale che è la fiducia. Quando poi Gesù appare, a Tommaso basta vederlo. Il vangelo non dice che l’apostolo mise realmente le mani nelle ferite di Cristo: solo la visione fu sufficiente a spalancargli il cuore alla fede. E nonostante ciò Gesù proclamerà beati, cioè felici, quelli che credono, fidandosi, senza vedere. E’ come se Tommaso avesse voluto sperimentare di persona ciò che gli altri gli dicevano. E qui emerge l’altra faccia della medaglia, tutto il buono che c’è in lui. Tommaso desidera appropriarsi personalmente di un contenuto e di una verità finora vissuta da altri. In lui c’è sempre stato un grande desiderio di stare con Gesù; così grande da portarlo ad essere l’unico fuori dal cenacolo dopo la passione del maestro, a sfidare le ire dei giudei. Ed è questo desiderio a fargli invocare una parola di Gesù rivolta solo a lui. Anche ciascuno di noi è chiamato a questo passaggio: dalla fede che i genitori, i preti, i catechisti ci hanno trasmesso all’incontro personale con Gesù Cristo. E’ sempre più difficile riuscire a farsi, sulla vita e sul mondo dei concetti personali. Tutto è di seconda mano, persino le emozioni. Ma non possiamo vivere con una fede di seconda mano, in un Dio di seconda mano. Ci vogliono personali certezze. Quelle che maturano lentamente, ma inesorabilmente nel profondo del cuore. Laddove si vede l’essenziale.

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Domenica 6 aprile 2008

L’OSPITE INATTESO

Questa volta ci avevano proprio creduto. Perciò la sconfitta ha un sapore ancora più amaro. E più forte è la voglia di fuga. Hanno il cuore gonfio ed impaurito, gli occhi velati dallo scoraggiamento e l’animo chiuso dal rancore e dal risentimento. La strada verso Emmaus, per i due discepoli che si allontanano da Gerusalemme, diventa nei fatti un modo per chiudere i conti con l’incidente di percorso chiamato Gesù di Nazareth. Sarà un viandante a svelare la verità alla luce della Scrittura. Sarà lo sconosciuto incontrato lungo la strada a dare un nome al dolore, a tirare fuori l’amarezza e a leggere nei fatti di Gerusalemme il lieto annuncio che cambia la vita. Ci vorrà tutta la strada fino ad Emmaus, senza scorciatoie, perché i due discepoli escano dalla loro sofferenza e alzino lo sguardo fino a riconoscere il Signore. C’è infatti un attaccamento al proprio dolore che ha qualcosa di narcisistico, di egoistico. Si finisce col pensare che i nostri problemi e i nostri guai siano gli unici al mondo e che nessuno ci possa veramente capire. Gli antichi definivano persone così “gente che guardasempre il proprio ombelico”, cioè curvi su di sé, sulle proprie frustrazioni, sul proprio malumore. Andare verso Emmaus vuol dire allora lasciar diradare questa nebbia che può avvolgerci, facendoci ardere il cuore nel petto grazie alla Parola di Dio. Vuol dire farsi abbracciare da Gesù perché ci mostri quanto è bello l’amore quando si resta fedeli, perché è così che si vince per sempre la morte.Perché la morte vera è spezzare la fraternità; è volersi salvare da soli, è essere indipendenti da tutto e da tutti, è rubare invece di ricevere in dono, è dimenticare di essere figli per sostituirsi al Padre. A tutto questo si aprì il cuore dei due di Emmaus. Ma tutto sarebbe rimasto sospeso senza il gesto dell’ospitalità che invitava il viandante a restare con loro. Quel pellegrino voleva andare più lontano. Ma la cura, l’attenzione premurosa di non lasciarlo andare in giro di notte sarà la condizione per riconoscere Cristo Risorto e per non restare in quell’incertezza fatta di emozioni passeggere o di ragionamenti cavillosi. Senza questa ospitalità il Signore non avrebbe potuto rivelarsi pienamente. E’ questa cura dei legami che ci fa veramente cristiani. E in tutti i cristianesimi della storia, quelli passati, quelli presenti e quelli che verranno il ponte tra la nostra vita e il Signore Risorto sarà sempre fatto così.

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Domenica 13 aprile 2008

APPARTENGO DUNQUE SONO La pecora è, in qualche modo, un animale “sociale”. E’ rarissimo vederne in giro una da sola. C’è sempre un gregge al quale appartiene. Se viene isolata si perde in pascoli sconosciuti. Forse per questo il gregge è un’immagine idonea ad esprimere la realtà della Chiesa. Oltre che, naturalmente, per il fatto che Gesù ha usato per sé l’appellativo di pastore, buon pastore. Anche nella nostra società che esalta l’individualismo ognuno appartiene a qualche “gregge”, a qualche gruppo o semplicemente a qualche linea di pensiero. Ognuno ha un suo pastore, cioè qualcosa o qualcuno che ispira le nostre scelte a tal punto che decidiamo di seguirlo. Chi è il pastore della nostra vita? Il modo con cui Gesù vive il suo essere pastore è unico e inimitabile. Stabilisce, con chi lo vuol seguire, un rapporto intimo e profondo in grado di farci sperimentare al contempo la bellezza di una comunità (il gregge) e la singolarità della nostra esperienza (chiama le pecore una per una). La storia ha vissuto in modo altalenante il rapporto tra questi due poli: oggi probabilmente respiriamo un individualismo eccessivo nel quale è difficile coltivare un’appartenenza e far prevalere il bene comune sull’interesse privato. D’altra parte il secolo scorso ha visto il fiorire di due totalitarismi che hanno esaltato valori collettivi a scapito della persona. Nel legame con il Signore entrambe queste dimensioni sono valorizzate e questo è, in fin dei conti, uno dei doni più significativi che il cristianesimo possa recare alla cultura. A patto, evidentemente, che si curi un rapporto con Cristo autentico e sincero. Questo legame a Gesù è alla radice di ogni vocazione cristiana. Per questo la Chiesa oggi celebra la giornata mondiale di preghiera per le vocazioni. Ogni scelta di vita cristiana è espressione del proprio rapporto con Lui.Le vocazioni di speciale consacrazione esprimono la centralità di questo rapporto, ma anche il matrimonio è il modo con cui un uomo e una donna scelgono di seguire il Signore. Si dice che c’è crisi di vocazioni. E’ vero. Ma a volte penso che mancano preti perché manca il coraggio di capire a che cosa “serve” un prete oggi, mancano comunità vive e dinamiche che spingono un giovane a dedicare le proprie forze e le proprie povertà a quel pezzo di regno in mezzo alla gente che è la parrocchia. Forse è per questo che dobbiamo pregare.

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Domenica 20 aprile 2008

L’OMBRA DI PIETRO

“Anche chi crede in me compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi…” Così si conclude il brano evangelico di questa domenica. E’ una frase incredibile, capace di mettere i brividi e di esaltare nello stesso tempo. Noi crediamo in Gesù, ma sentirci dire che faremo cose più grandi di lui ci fa un po’ impressione. Ci sembra una frase del Vangelo troppo ardua, un po’ paradossale ed estrema, una di quelle frasi che indicano il tutto per farci cogliere almeno un frammento. Eppure c’è qualcuno che ha concretizzato queste parole di Gesù. S. Pietro è descritto negli Atti degli Apostoli con una straordinaria capacità: quella di guarire con la sua ombra. (AT 5,15) Le persone si mettevano all’ombra della sua figura e venivano sanate. Gesù non ha mai guarito con l’ombra e pertanto questa capacità di Pietro ci appare più grande di quella del Maestro. Dove sta la grandezza? L’ombra ha anche un valore simbolico: rappresenta quel lato oscuro che ciascuno si porta con sé, quelle zone della personalità un po’ opache , non limpide, forse fragili. Ciò che in Pietro era fragilità diventa strumento di salvezza; ciò che era amaro gli viene mutato in dolcezza e le sue ferite si trasformano in strumento di guarigione per altri. S. Paolo aveva detto:”Quando sono debole è allora che sono forte” ed è questa “l’opera grande” che è possibile a chi crede: che le nostre ombre non siano per noi una condanna, ma la via per imparare a fare del bene. Sapendosi guariti, si può guarire; sapendosi perdonati si può perdonare; sapendosi salvati si possono salvare altri. Forse il cammino cristiano consiste proprio in questo: non è tanto raggiungere una meta, ma trasformare, con la grazia di Dio, i nostri limiti nei confini dove incontrare gli altri ed amarli. PENTIMENTO

Tu sai, mio Dio, che sono debole e impreparato al buon uso del tempo. Non ti fidare troppo della mia resistenza alla tentazione, non mi lasciare a lungo esposto nella prova. Perché io voglio sinceramente benedire il tuo Nome, desidero realmente entrare nel tuo regno, sono certo che la tua volontà è il compimento del mio bene. Credo con tutto il cuore che tu custodisci le cose buone per le quali riesco a trovare il tempo, affinché non vadano perdute. E che sei pronto a sciogliermi dal tempo che ho perduto nel momento stesso in cui riesco a vincere

la mia paura e a confessare la mia colpa. Quando io ti rendo disponibile il tempo che mi affidi, e lo arrischio per venire in soccorso della mancanza del mio fratello, io so che il mio tempo si arricchisce fino a cento volte, fin d’ora: e molto mi viene perdonato. E quando infine riconosco la stupidità della mia colpa, e mi rivolgo contrito a te, Padre, non incontro l’ombra del tuo risentimento, ma soltanto la tenacia della tua fedeltà. Scopro che il mio tempo perduto fu per te il tempo dell’attesa e il tempo insperabilmente ritrovato è subito il tempo della festa.

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Domenica 27 aprile 2008 LO SPIRITO PREGA IN NOI Gesù parla spesso dello Spirito Santo. Lo chiama “consolatore” o “intercessore” intendendo sempre parlare di una persona vicina a ciascuno di noi. Lo Spirito Santo ci aiuta soprattutto nella preghiera: senza di Lui non potremmo pregare; la nostra preghiera non raggiungerebbe Dio. Per questo in coloro che sono santi, cioè lasciano agire lo Spirito in loro, la preghiera è più viva e più efficace. Ai grandi Santi come Madre Teresa o Padre Pio le persone affidano molte preghiere sapendo che la loro santità di vita, la loro condotta morale avrebbe reso la loro preghiera più autentica. Ciò che più di tutto facilita l’azione dello Spirito Santo nel cuore è la carità. Se uno è veramente caritatevole allora lo Spirito si fa spazio in lui e la sua preghiera sgorga con più fecondità. C’è un bel racconto della vita dei monaci che fa capire tutto ciò: due monaci che avevano litigato andarono a letto senza riconciliarsi. Ma durante la notte uno di loro bussò alla porta dell’altro e lo svegliò. Quest’ultimo, con poca gentilezza, chiese “Che cosa vuoi ancora da me?” Gli rispose “Sono venuto a chiederti perdono” E l’altro “Non potevi aspettare domani?” “No La mattina presto noi facciamo le preghiere e le mie sarebbero deboli per mancanza di carità!” Ed è proprio così, la mancanza di carità ostacola l’azione di Dio dentro di noi e quindi rende la preghiera arida e terribilmente faticosa. Lo Spirito Santo invece, essendo Lui stesso luce, rende la preghiera luminosa, cioè capace di farci vedere le cose come stanno realmente. Per questo i Santi parlavano di “illuminazioni”: consistono esattamente nel capire la profondità e la verità di una cosa, il suo senso e anche il suo valore per la nostra vita. Ciò influisce anche sulla formulazione delle nostre domande. Spesso infatti preghiamo per ciò che riteniamo necessario per la nostra vita e, se non veniamo esauditi, ci sentiamo infelici. Ma se lo Spirito ci illumina allora capiamo che cosa è veramente importante per noi e ci accorgiamo che possiamo anche vivere senza tante cose che reputiamo necessarie. Siamo sempre in due a pregare, noi e lo Spirito Santo che prega in noi e se una cosa non è esaudita secondo la nostra voce lo è secondo la voce dello Spirito che è con noi. Dio non ci dà sempre ciò che chiediamo, ma ci dà la forza per sopportare ciò a cui siamo chiamati. Egli sa ciò che è meglio per noi.

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Domenica 4 Maggio 2008 Ascensione del Signore UNA SOLITUDINE ABITATA “Ciascuno sta solo sul cuor della terra, trafitto da un raggio di sole. Ed è subito sera”. Sono questi versi di Quasimodo ad accompagnare la mia riflessione sul mistero dell’Ascensione di Gesù. Essa comporta infatti, per i discepoli, un allontanarsi del Signore. Gesù se ne va ed essi rimangono a guardare il cielo, nell’atteggiamento di chi sente il carico della solitudine ed è preso da un certo senso di abbandono. C’è, in qualche modo, una chiamata ad attendere un ritorno che non sarà affatto immediato e per questo occorrerà che la prima comunità cristiana impari a crescere. E’ proprio degli adulti, infatti, saper guardar lontano, dinanzi a sé, senza pretendere di vedere tutto realizzato entro brevi termini. La vita adulta smaschera le illusioni e genera una attesa interiore che da’ sapore alla speranza, ma che in tanti momenti fa anche sperimentare una solitudine. E’ una solitudine “esistenziale” cioè iscritta in ciascuno di noi: non ce la potrà togliere nessuna comunità, nessun gruppo e nessun matrimonio. La nostra libertà presuppone questa solitudine: se non c’è questa solitudine siamo sempre dei condizionati e non liberi. compiere delle scelte perché convinti di esse e non perché c’è una convinti di esse e non perché c’è una approvazione estrinseca o un riscontro emotivo. Tutte le volte che una persona o una comunità fa un vero cammino ci sarà, ad un dato momento, una vera esperienza di solitudine, di fatica: il cammino si farà deludente, ci sarà il grigiore del quotidiano, l’aridità: Gesù sembrerà essere scomparso e disinteressato a noi; e non è facile credere che questo avviene proprio perché ci vuole bene. Egli permette che passiamo attraverso una desolazione che fa crescere e fa maturare. A noi viene subito da pensare: “Il Signore non mi vuole bene” oppure “Io non voglio più bene al Signore” e questo ci getta in una desolazione più grande che ci porta a mollare tutto, agli sguardi nostalgici o alle fughe in avanti. La pedagogia del Signore è invece quella di un padre e una madre che, ad un certo momento, anche se il figlio piange e strepita non lo sostengono sempre, ma vogliono che impari a camminare con le sue gambe. Così il mistero dell’Ascensione è un evento buono e salvifico per noi. Gesù è salito al cielo perché noi imparassimo a vivere una solitudine, ma una solitudine abitata, colma della sua presenza, invisibile e discreta. Cristo si fa compagno di ciascuno perché vivendo l’invisibile possiamo ritrovare il suo volto in ogni fratello.

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Domenica 11 Maggio 2008; Pentecoste

LIBERTA’ NEL CUORE

La Pentecoste non è un avvenimento che sta alle nostre spalle, ma sta con noi e davanti a noi: si ENTRA nella Pentecoste, più che farne memoria, inteso come un ritorno al passato. Sono due le esperienze che si rinnovano oggi anche per noi: parlare le lingue e vincere la paura. Gli apostoli cominciarono a parlare lingue diverse. Cosa significa ciò? Si intende la capacità di farci capire parlando al cuore delle persone e dicendo cose vere che scendono in profondità. Il miracolo non è il fatto che si siano messi a parlare in modo che una persona capiva in greco, un’altra in latino ecc……: lo Spirito Santo è presente quando una parola viene annunciata con verità, quando viene dato un consiglio in modo sereno e gratuito, quando ricevi una lettera o una mail che ti interpellano in profondità e ti muovono verso una dimensione di autenticità, di fede, di speranza e carità. E’ significativo che il miracolo di Pentecoste sia l’esatto opposto dell’episodio della Torre di Babele: gli uomini volevano avere tutti un’unica lingua e il risultato fu la dispersione cioè l’incomprensione reciproca, il non riuscire più a capirsi e quindi a costruire relazioni autentiche. Quando si vuole uniformare tutti si generano intolleranze e divisioni. A Pentecoste invece ciascuno capisce nella sua lingua: c’è una differenza che è fonte di comunione, c’è una diversità che genera incontro perché grazie allo Spirito Santo si può parlare al cuore gli uni degli altri. Sorprende anche il cambiamento che si opera nel cuore dei discepoli: prima chiusi a chiave nel Cenacolo per timore dei Giudei, poi capaci di uscire allo scoperto e rischiare la vita. Anche qui c’è scritto stando l’Antico Testamento soprattutto il cammino del popolo di Dio nel deserto. Durante l’Esodo quel popolo, impaurito dal faraone, divenne un popolo libero. Ugualmente agli apostoli accade di sperimentare una forza nuova, liberante, che li fa uscire dalla schiavitù delle paure. Quando una persona, per affermare la verità del Vangelo diventa capace di andare contro i suoi stessi interessi, contro il pensiero comune e sa benissimo che ci rimetterà non solo la faccia, ma anche magari qualcosa di più importante, allora lì c’è un evento di Pentecoste, perché nessuno può agire così se non è mosso dallo Spirito Santo. Questa duplice esperienza è ciò che auguriamo (per quanto si può alla loro età) ai 28 ragazzi che quest’oggi ricevono la Cresima.

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Domenica 18 Maggio 2008 S.S. Trinità

A SUA IMMAGINE

Quando mi trovo a guidare gruppi di pellegrini in Terrasanta, in genere cerco sempre qualche momento di incontro e di confronto con persone di fede musulmana. E in questi dialoghi l’argomento “Trinità” è uno dei più spinosi. E’ difficilissimo per le altre religioni accettare la nostra idea di Dio Uno e Trino: ci accusano di adorare molti dei e non l’Unico Signore. Effettivamente non si riesce a spiegare con una certa razionalità l’idea che l’Uno possa essere anche Tre e viceversa. Quando però una cosa è difficile da comprendere direttamente bisogna farlo attraverso le similitudini, come quando per guardare il sole se ne guardano i riflessi nell’acqua piuttosto che fissarlo. Quali sono allora i riflessi della Trinità nelle cose create? Qual è l’immagine di Dio per eccellenza? E’ la Bibbia stessa a rispondere che l’immagine più perfetta è quella che lui stesso ha dipinto, cioè l’uomo creato a sua immagine e somiglianza (Gen. 1,26-27). Anche l’uomo è uno, ma appare sotto vari aspetti. Ciascuno di noi ha un cuore e una mente dove nascono pensieri che si esprimono con parole e vengono messi in pratica con i gesti della volontà. Siamo fatti di interiorità (cuore e mente) parola e gesto. Così è per la Trinità: Dio ne è il cuore, Gesù Figlio è la sua Parola (Verbo di Dio), lo Spirito è come il gesto perché rende presente Dio nella Chiesa. Quando allora pensiamo alla perfetta unità che lega le 3 persone divine siamo rimandati alla nostra unità personale. Se questa unità di vita manca allora possono nascere in noi grandi fatiche e sofferenze. Una persona unificata è invece profondamente pacificata. A volte ci accorgiamo che le nostre parole ci sfuggono come se non fossero collegate al cuore; oppure i nostri gesti sono così impulsivi da sembrarci addirittura non voluti, non legati ai nostri pensieri. L’unificazione di noi stessi è un cammino lungo, ma possibile: è il segnale della lenta maturazione di una persona. La S.S. Trinità ne è l’immagine più densa e più significativa: anzi ne è addirittura la meta finale, perché siamo stati creati ad immagine di Dio e nella Trinità porteremo a termine la nostra esistenza. Ciò che unisce le persone divine è l’amore, e l’amore è anche il principio unificatore della vita di ciascuno di noi e della vita della Chiesa.

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Domenica 25 Maggio 2008 Corpus Domini

PASSATO, PRESENTE, FUTURO

La festa del Corpus Domini contiene in sé il legame con la triplice dimensione del tempo. Le sue radici sono nel gesto compiuto da Gesù più di 2000 anni fa a Gerusalemme quando il Signore identificò se stesso nel pane spezzato e nel vino versato. Si tratta delle nostre stesse radici, quelle da cui proveniamo con la nostra fede, i nostri riferimenti, il quadro di ciò in cui crediamo e che ispira la nostra vita. Nel presente, questa festa ci raduna attorno all’Eucarestia, alla celebrazione domenicale, a quel corpo del Signore che ci spalanca un’infinità di messaggi. Quando siamo davanti all’Eucarestia infatti ciascuno di noi è chiamato ad entrare in una logica di amore e di dono di sé, superando quel naturale istinto al possesso e al dominio che guida il nostro vivere quotidiano. Contiene in sé, l’Eucarestia, la forza di conformarsi a Cristo perché chi si nutre di Lui viene assimilato a Lui per poter assumere i suoi stessi atteggiamenti nei rapporti con le persone. Per questo il Corpus Domini è una festa dalla grande portata sociale: davanti alla presenza del Signore si evidenziano come sensati tutti quei comportamenti improntati al rispetto reciproco, al perdono, al lavoro serio ed onesto per edificare su questa terra una società dove regni la giustizia, la concordia, la verità dei rapporti umani. Nel guardare a Gesù Eucaristico quel che appare un’utopia mostra i suoi aspetti di praticabilità, e ciò che sembra solo un sogno da illusi si rivela un serio programma di vita. Il cristiano sa bene però che la piena realizzazione di giustizia e carità sarà solo nel futuro, in quel futuro in cui godremo la totale comunione con Dio. Per questo la festa del Corpus Domini è anche annuncio e anticipazione del mondo che deve venire, quello in cui Dio sarà tutto in tutti. Siamo già ora conformati a quel Gesù di cui ci nutriamo, ma lo saremo completamente nel Regno di Dio. E’ così che oggi passato, presente e futuro si fondono misteriosamente: senza nostalgia e senza ansie, senza rivoluzioni e senza pigrizie, ma con la grazia dì Cristo che unifica i nostri giorni, perché il tempo che ci è dato sia opportunità di bene.

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Domenica 1 giugno 2008

SOLIDA ROCCIA

Qual è la volontà di Dio? Cosa significa fare la sua volontà? Ci sorprende il Vangelo di oggi perché dice chiaramente che le opere religiose possono anche non essere volontà di Dio. Si dice infatti che alcuni pur avendo celebrato liturgie, parlato a nome di Dio e compiuto miracoli, non saranno riconosciuti da Gesù. Infatti si possono fare tutte queste cose, ma con un grande amor proprio. Si può agire religiosamente solo perché quei gesti religiosi gratificano ed affermano il nostro io. Ed è qui che ci si allontana dalla volontà di Dio. Essa non coincide con qualcosa di preciso, ma richiede un orientamento del cuore: piacere al Signore, agire per avvicinarsi a lui e per amore suo. In fondo è il nostro io a costituire quella sabbia insicura su cui ingenuamente a volte costruiamo la nostra casa. L’attenzione a sé stessi quando diviene eccessiva è come le sabbie mobili che risucchiano la persona chiudendola e soffocandola senza che possa trovare nessun legame in grado di salvarla. La nostra fede ci dice che solo l’amore rimane. Tutto ciò che è compiuto per amore di Dio e dei fratelli è custodito nella memoria divina: ed è questa la casa stabile che non crolla. Ma allora perché ci ostiniamo a costruire le nostre certezze sulle sabbie mobili del “si dice”, “così pensa la gente”, ”si è sempre fatto così”? A volte diamo più retta alle tante parole che ci circondano, alle opinioni, alle mode, ai mormorii piuttosto che all’unica Parola che ci salva. Mettiamoci alla prova: quando abbiamo affrontato l’ultima difficoltà, su che cosa abbiamo investito? A chi abbiamo dato retta? PER LA FESTA DELLA FAMIGLIA

Un amore paziente Signore, insegnaci la pazienza. La pazienza dell’attesa, la pazienza delle lontananze, la pazienza dei distacchi. La pazienza per placare i sensi, la pazienza per sciogliere gli screzi, la pazienza per chiarire le ombre. La pazienza dell’ascolto, la pazienza della comprensione, la pazienza del perdono. Signore, insegnaci la pazienza delle nostre impazienze

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Domenica 8 giugno 2008

TRISTE FEDE LA FEDE TRISTE Esiste un modo di essere discepoli (di fare i discepoli) basato sull’esteriorità e sul sacrificio. Capita che molti cristiani si fermino al senso del dovere e concepiscano la fede come una specie di tributo (noioso) dovuto alla divinità, correndo il rischio di ridurre la splendida avventura del rapporto con Dio ad una dignitosa e doverosa devozione. Ed il Signore è lì, nel vangelo odierno, a dirci che non ama l’esteriorità e nemmeno il sacrificio, a noi che riteniamo la fede un’esperienza così. Gesù non vuole il sacrificio frutto di una rinuncia forzata, che diventa uno strano gesto inattuale, un assolvere ad uno scrupolo di coscienza o un obbedire ad una norma morale mal sopportata. Una fede così sarebbe una fede triste; e una fede triste genera cristiani tristi; e cristiani tristi non potranno mai parlare del lieto annuncio del Vangelo. Ma il fatto è che questa logica di precetti minimi da osservare ha un altro effetto nefasto. Farci ritenere a posto una volta che li abbiamo adempiuti. E tutti coloro che si ritenevano “giusti” non hanno capito il messaggio e la persona di Gesù. L’esatto contrario dei peccatori, come Matteo il pubblicano. Matteo non si aspettava salvezza ne’ se la meritava. Troppi compromessi, troppe rinunce alla legalità nella sua vita per poter osare tanto. La vita per lui era diventata, ormai, potere e denaro, timore e rispetto da parte degli altri. Fino a quando la sua durezza, l’alto muro eretto per difendere la propria vita si è schiantato in un attimo, si è sbriciolato incrociando nello sguardo di Gesù amore,rispetto e verità. Matteo era abituato agli insulti di chi pagava, attraverso di lui, l’iniqua tassa imposta da Roma imperiale. Collaborazionista e ladro, non temeva lo sprezzo dei suoi amici. No, non meritava alcuna compassione. E, invece, ne riceve. Matteo lascia tutto; come Abramo rischia, ma sa in cuor suo di scommettere sul giusto. Abbiamo bisogno anche noi di coltivare sempre la nostra fragilità e la nostra inadeguatezza perché è lì che Dio viene a cercarci. Mettere a tacere il senso del peccato che abita in noi con azioni buone e lodevoli può essere un grande trabocchetto: Dio possiamo conoscerlo solo nella nostra debolezza, non al di fuori di essa. Fu così per tutti i primi discepoli di Gesù; il Signore non andò in cerca di nessuna qualità eccezionale in loro, ma della povertà del loro cuore pronto a lasciarsi trasformare. Dio fa la piaga e la fascia, ferisce e la sua mano risana, dice la Bibbia. Dio fa di tutto piuttosto che lasciare il nostro cuore in preda alla durezza di chi si sente a posto

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Domenica 15 giugno 2008

COMPASSIONEVOLI

Gesù non fu l’unico rabbì del suo tempo. Altri, come lui, predicavano e insegnavano nelle sinagoghe avendo discepoli intorno a sé. Ma ci verrebbe da chiedere: gli altri maestri come vedevano la situazione della gente, delle persone a cui si rivolgevano? Forse consideravano la situazione normale e ordinaria, come normale era il loro mestiere di leggere e insegnare la Parola di Dio. Non c’erano problemi di tumulto religioso quindi si poteva stare tranquilli. Gesù invece considera il suo popolo con più attenzione e profondità; Egli va oltre le apparenze e coglie che la gente è scoraggiata, delusa, dispersa e ne prova compassione. Questa compassione è la cifra dell’amore di Dio per l’umanità. Cristo soffre insieme alle persone che incontra e solo dopo interviene in loro aiuto. Far fronte ai problemi degli altri non fu per Gesù un atto dovuto, una specie di “routine” ma la conseguenza della sua condivisione interiore. Per questo la gente lo cercava e da lui si sentiva capita. Gesù vede le folle “stanche e sfinite, come pecore senza pastore”. E’ sintomatico che stanchezza e sfinimento vengano associate così profondamente all’assenza del pastore, della guida, di un punto di riferimento preciso. Si tratta della stanchezza di chi porta da solo pesi troppo grandi avvertendo la responsabilità come una zavorra: si desidererebbe, appunto, condividere il peso delle decisioni e ci si scopre soli. E’ una stanchezza interiore, esistenziale. E anche lo sfinimento è la conseguenza di un vivere sempre affannato ma senza una direzione precisa: si corre dietro alle urgenze ma non si sa bene verso dove e se ne ricava l’impressione che il nostro sia un girare a vuoto. A questa stanchezza, a questo sfinimento Gesù vuol portare sollievo. Egli è il vero Pastore, la guida, la meta e contemporaneamente la via. Ed è in questo momento che nasce la Chiesa! Gesù invia i dodici, sono essi l’immagine della Chiesa. Il Signore, davanti al dolore dell’umanità, pensa ad una compagnia, ad una ricerca comune, a un sogno da realizzare: uomini e donne, suoi discepoli, capaci, insieme, di cercare senso e pienezza, misura e gioia. I dodici sono tutti diversi: pescatori ed intellettuali, pubblicani, peccatori e conservatori: c’è l’intera umanità in questo gruppo. Tutti ricevono da Gesù stesso la capacità di fare qualcosa; niente è frutto della loro bravura; non vengono presentati con particolari credenziali. Eppure ci sono, non si tirano indietro. Farsi carico delle inquietudini e delle stanchezze della gente, portando il Vangelo con semplicità e verità: questa è, nel sogno di Dio, la Chiesa.

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LA VIA

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Domenica 22 giugno 2008

LA FEDE NON HA PREZZO L’inquietudine e la contrarietà, si sa, non piacciono a nessuno. Ci parrebbe anzi un atteggiamento distorto se trovassimo qualcuno che ci dice di amarle e di cercarle volutamente. Eppure non possiamo toglierle dal cristianesimo. Come è accaduto a Gesù, il suo discepolo un giorno o l’altro cozzerà contro gli uomini; magari non in modo violento ma più sornione, e non per questo meno incisivo. Prendere le parti di Gesù, nel cuore del nostro mondo, significa sempre esporsi ad un rischio, accettare di vivere pericolosamente. La nostra è una fede nata da un uomo crocifisso e sviluppatasi attraverso il sangue dei martiri. La persecuzione ha fatto da incubatrice al crescere e al diffondersi del Vangelo. E’ per questo che Gesù esorta spesso i suoi amici a “non temere gli uomini”; a non aver paura; e anche a “non affannarsi. Egli sa che le contrarietà arriveranno. Certo non è sempre stato così. In alcune epoche si è potuto identificare la fede in Gesù con la società, a tal punto che i pericoli incombevano piuttosto su coloro che non la condividevano. Era divenuto pericoloso non essere cristiano. La minaccia aveva cambiato campo. Ma in quelle epoche la forza d’urto del Vangelo si è seduta si è assopita: e c’è stato bisogno di grandissimi santi per ridestarla. Perché il Vangelo nasce nelle difficoltà e di esse si nutre: cerca il limite, l’inquietudine, l’agonia nel suo senso più puro di “lotta”. Quando siamo deboli è allora che siamo forti. Sembra invece, a volte, che una religione venga ritenuta vera se genera benessere e pace e che si sia tanto più cristiani quanto più si è a posto con tutti e con il sorriso stereotipato sulle labbra. C’è una sorta di sovrapposizione tra vita cristiana e quieto vivere che ha più il sapore di una lettura parziale delle religioni orientali piuttosto che il gusto dell’incontro con la vita di Gesù. La parola di Dio è sì dolce come il miele ma dopo aver fatto sentire tutta la sua amarezza: così dicono i profeti. Il cristianesimo insegna certamente la gioia e l’ottimismo,ma sono la risultante del suo dramma che va vissuto tutto. Fino in fondo. Bevendo quello stesso calice che ha bevuto Gesù. Chiedere a Dio di fare questa esperienza sarebbe da superbi; ma è da sapienti chiedergli di stare al nostro posto quando questa croce si rivelerà. Essere cristiano costa, eppure coloro che lo sono fino in fondo sanno che non baratterebbero la loro fede con nulla al mondo. Costa in termini di inquietudine interiore, in termini di tempo speso per gli altri, in termini di opinione pubblica. A te quanto costa essere cristiano? Nulla? Brutto segno.

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LA VIA

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Domenica 29 giugno 2008

IMPOSSIBLE IS NOTHING L’associazione tra lo slogan pubblicitario di una azienda sportiva e il Vangelo di oggi mi è balenata davanti agli occhi non appena l’ho letto. Sentire Gesù proporsi come l’amore per eccellenza della vita, più grande di quello per i figli e per i genitori ci pare proprio un’ esagerazione. Ci si sente tagliati fuori da una pagina così: si sperimenta inadeguatezza, scetticismo e la rassegnazione di chi dice:”non ce la farò mai, è un Vangelo impossibile.” Ma può Dio divertirsi a presentare all’uomo una meta non raggiungibile? O può avere dentro di sé una parzialità talmente grande che ciò di cui parla possa essere compreso e vissuto solo da pochi intimi? Quando diciamo che il Vangelo è per tutti occorre che comprendiamo tutto lo spessore di queste parole. Anche nelle relazioni umane più appaganti noi sperimentiamo lo scarto tra ideale e reale: vorremmo qualcosa che non riusciamo poi ad ottenere. Dai piccoli contrattempi alle grandi incomprensioni tutto ci fa sperimentare la fragilità dei rapporti. Abbiamo bisogno di una forza interiore che vada più in là dell’amore per una precisa persona per poter rilanciare ogni volta la carta del perdono e del dialogo. Sentiamo che senza questa energia più alta e diversa saremmo tentati di cercare vie di fuga o di chiusura in noi stessi. E’ per questo che tutte le relazioni umane sono destinate a spalancarci la porta al legame con Cristo. E’ nel rapporto con lui che troviamo la forza per amare gli altri! E le parole del Signore si aprono ad una luce nuova: amare qualcuno più di lui è una strada praticabile, ma prima o poi interrotta. Amarlo più di ogni altro sembra impossibile: ma “impossible is nothing”.

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Domenica 6 luglio 2008

CHI SONO I PICCOLI? A volte ritornano. Leggi il Vangelo e prima o poi sulle labbra di Gesù ”i piccoli” fanno capolino. Non si tratta semplicemente dei bambini anche se questi rimangono il paradigma per entrare nel regno dei cieli. I piccoli si collocano agli antipodi dei sapienti e degli intelligenti, cioè di quelle categorie di persone che valutano criticamente ogni cosa e con ragionamenti spesso tortuosi cercano di avvicinarsi alla verità. I piccoli si fidano. Accolgono la parola del Signore con quell’umiltà che fu il tratto umano anche di Gesù. Sono coloro che conservano un cuore capace di stupirsi e ringraziare, convinti di non essere padroni di nulla, ma di ricevere tutto da Dio. Ad essi sono rivolti i misteri del Regno dei cieli. Sono essi che comprendono la Bibbia più in profondità, perché sanno lasciarsi guidare. Ogni domenica con i ragazzi cantiamo queste parole ”Dio è nel cuore di chi lo sa ascoltare”. Sono parole di S. Agostino, il più grande teologo dell’occidente oppure certamente uno dei “piccoli” secondo il Vangelo.

Domenica 13 luglio 2008

TERAPIA DEI PENSIERI Non c’è terreno che tenga. Strada, sassi, spine, il seminatore la sua semente la getta dappertutto. In quel gesto arcaico e generoso si intravede la magnanimità di Dio che non conosce preclusioni nel suo rivolgersi a ciascuna delle sue creature. Che questo seme gettato sia la Parola di Dio è Gesù stesso a svelarlo nella spiegazione fornita a chi lo ascoltava. Ma come Dio parla? E’ solo l’ascolto o la lettura del Vangelo la possibilità che ci è offerta per cogliere la sua voce? Dio parla attraverso le ispirazioni suggerite al cuore dell’uomo. Il nostro cuore è infatti il campo e i semi che vi cadono sono i pensieri. Alcuni pensieri, tra i tanti, si fissano e rimangono, mentre altri sfuggono. In genere ciò per cui proviamo interesse favorisce il permanere dei pensieri anche in mezzo a molti altri stimoli. Quando infatti non si hanno interessi si piomba fatalmente nella distrazione, cioè nel saltellare senza logica da un pensiero all’altro. Dio suggerisce al nostro cuore pensieri buoni, veri e belli, pensieri di carità e di giustizia. Ma lo fa in modo garbato, come un soffio; per questo i pensieri spirituali sfuggono più facilmente di altri. Perché Dio non fa forzature e non vuole competere sul terreno della costrizione. Per cogliere un pensiero spirituale occorre concentrazione e una certa dimestichezza con le sensazioni di pace, quiete e nitore che la voce del Signore genera innoi. Oggi si rischia di vivere distratti, come se il nostro cervello fosse un telecomando con cui fare uno zapping continuo. Se ogni tanto riuscissimo a vagliare i pensieri vedendo da dove ci vengono e perché, trattenendo quelli buoni e respingendo quelli nocivi avremmo già compiuto un buon passo nella nostra amicizia con Dio. Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo

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Domenica 20 luglio 2008

LA ZIZZANIA NEL CUORE E LA ZIZZANIA NELLA STORIA In buona parte gli apostoli erano pescatori e, come tali, avvezzi a distinguere il pesce buono da quello cattivo. Dopo una notte al largo con gesto svelto e preciso facevano la cernita di quanto andava ributtato in mare. Era facile per loro adottare questa logica anche alla gramigna che nasce nei campi e probabilmente ai rapporti con le persone: i giusti da una parte e gli ingiusti dall’altra. E un bel muro in mezzo. Per fortuna le cose non stanno proprio così. Con il CUORE umano bisogna essere cauti perché è grande il rischio di confondere il bene con il male. Esistono infatti delle virtù che lo sono solo in apparenza e che dissimulano abilmente dai vizi ed esistono dei difetti anche molto evidenti, ma che nascondono ingiustamente ciò che è virtù in profondità. E’ facile ingannare gli altri, più facile ancora ingannarsi da soli, spesso a nostra insaputa e con le migliori intenzioni. Quando si tratta di vita interiore non si può interpretare le cose come in una equazione perfetta. Ci piacerebbe che tutto fosse chiaro e distinto, ma questa chiarezza sarà solo Dio a farla. Così è nella STORIA. In essa c’è la zizzania, c’è il male. Non si può far finta che non esista, accettando tutto, ma nemmeno incarnarlo in modo assoluto in un popolo o in una cultura. Sentirsi grano buono e ritenere che gli altri siano la zizzania è la sottile persuasione che ha portato a regimi totalitari. E’ giusto, finché abitiamo la storia, lottare contro il male e arginarlo il più possibile. Ma pretendere che Dio stesso intervenga per sancire i nostri schemi di pensiero sarebbe frustrante. Egli infatti si riserva l’ultima parola, quella pronunciata al termine della storia. Sino ad allora il suo agire con gli uomini sarà sempre come la pioggia che cade sui giusti e sugli ingiusti.

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Domenica 7 Settembre 2008

GLI SBAGLI DEGLI ALTRI Correggere gli altri non è facile. Se si è minimamente onesti le parole del Vangelo che invitano a guardare prima la trave nel nostro occhio e poi la pagliuzza in quello degli altri ci si presentano come monito per essere quanto meno cauti. Eppure il Vangelo di oggi ci parla proprio di correzione fraterna, cioè di quello stile, discreto e amorevole, con cui si può dire ad un fratello che sbaglia di rimettersi sulla rotta giusta. Gesù indica persino una gradualità di intervento: prima a tu per tu, poi con due o tre testimoni, poi di fronte all’assemblea; ed è importante che questi gradini siano saliti uno ad uno, senza saltarli. Capita spesso infatti che si faccia fatica ad entrare in colloquio con una persona a cui far notare quello che riteniamo un errore: quando si ha qualcosa contro un fratello si preferisce o dirne male alle spalle oppure riferirlo all’autorità competente o addirittura litigare rompendo la comunicazione: tutti modi di non correzione evangelica. C’è invece un dovere che comporta molta sincerità, molta umiltà e molto tatto, ed è quello di trattare direttamente con l’altro piuttosto che cedere alla facile lamentela. Il rapporto all’interno della comunità non dev’essere di litigio, di accusa, di vendetta, ma neppure soltanto di approvazione e di lode. La correzione fraterna ci vuole anche se è ardua: noi sappiamo che rivolgendoci personalmente a chi ha sbagliato potremmo ferire la persona, essere fraintesi o anche lasciarci dominare facilmente dall’ira, da un sottile desiderio di punizione (che tra l’altro può esprimersi anche attraverso il mutismo, la distanza o la freddezza). Ma questi eventuali rischi non devono esimerci da un dovere che ha un’alta qualità evangelica. Se cerchiamo, per amore, di far capire ad un fratello i suoi errori lo facciamo non perché siamo migliori di lui ma perché il Vangelo ci mette in gioco. Non usiamo il Vangelo per condannare ma per sentirci uniti agli altri anche quando sbagliano. Sono i valori comuni e le regole condivise a rendere unita una parrocchia. Niente unisce come la preghiera fatta insieme e come la liturgia comunitaria. E niente divide come le parole pronunciate con cattiveria o superficialità. Perché importante non è dire sempre quello che si pensa, ma capire se quello che si pensa è evangelico o no.

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Domenica 14 Settembre 2008

NEL SOLCO TRACCIATO DA DIO “ Noi siamo l’unica Bibbia che gli uomini leggono ancora.” E’ la frase finale di una famosa preghiera che circolava nelle nostre parrocchie negli anni ‘70-80; una frase che conserva un suo valore anche se va fatto di tutto perché le persone leggano la Bibbia autentica cioè il racconto dell’Alleanza di Dio con noi. Ciò che rimane vero è che l’azione di Dio la si capisce vedendo come vivono gli uomini che dicono di credere in Dio. Questo è lampante soprattutto sul tema del perdono: noi perdoniamo perché siamo stati perdonati per primi da Dio. Il senso del brano evangelico di oggi sta tutto qui. Ed è anche questo il motivo dell’ira che spinge Dio ad agire contro l’amministratore malvagio: non condonando il debito come era stato condonato a lui ha bloccato il diffondersi del Regno di Dio sulla Terra. Mi pare importante trarre le conseguenze da questa immagine del solco del perdono di Dio dentro il quale anche noi ci collochiamo. Spesso ci è difficile perdonare perché riduciamo la questione ad un rapporto a due tra noi e la persona che ci ha ferito; occorre però introdurre un “terzo polo”, e cioè il rapporto con Dio. Noi perdoniamo perché questo è il modo di stare in rapporto con il Signore, non solo per rappacificarci. Perdoniamo perché dovremo presentarci davanti a Dio e stare alla sua presenza; perdoniamo perché ci è stato condonato il debito, cioè ci è stata regalata la vita. La dimostrazione contraria sta nel fatto che chi conserva rancore accumula nel suo cuore un veleno che gli impedisce di pregare serenamente. Tutti noi siamo perdonati da Dio e costantemente oggetto della sua misericordia: la Chiesa può perdonare, può celebrare il sacramento della Riconciliazione non perché è la custode perfetta della legge, ma perché è lei stessa peccatrice perdonata. Il perdono genera un dinamismo straordinario che può portare alla conversione: tutto il Vangelo sta lì a dimostrare che la persona si apre ad una vita nuova, più retta, cambiando mentalità, non perché si scopre punito ma amato. Il perdono è faticoso, ma deve costare fatica per essere vero, altrimenti sarebbe come chiudere un occhio facendo finta di non vedere. Ma se nonostante questa fatica Gesù dice di praticarlo sempre (70 volte 7) è perché prima o poi porterà i suoi frutti in chi lo dona e in chi lo riceve. Chi sa perdonare raggiunge quella pace che nessuna vendetta potrà dargli mai.

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Domenica 21 Settembre 2008

ALL’UNDICESIMA ORA

Pagare gli operai molto più di quello che meritano è sempre un azzardo. Alcuni dicono che la cosa possa stimolare la loro produttività e la loro resa, ma i rischi sono sempre alti: dilapidare un patrimonio aziendale senza averne un guadagno non è impresa per cui valga la pena essere ricordati. Evidentemente il padrone della vigna di cui ci parla il Vangelo era un uomo che amava il rischio. Perché decide di sovvertire l’indiscutibile principio per il quale il salario deve essere retribuito in proporzione al lavoro fatto? Perché paga gli operai dell’undicesima ora (le 17.00) come quelli della prima? All’epoca un denaro era prezioso: con un denaro si poteva sfamare una famiglia di cinque persone per una giornata. Stare al di sotto di questa soglia, raggranellando pochi centesimi, significava non mettere a tavola nulla per i propri figli. Il padrone lo sapeva e pagando un denaro anche agli ultimi operai compie un gesto nobile e signorile con cui sfamare un nucleo familiare. Egli desiderava che la sua casa e i suoi parenti godessero della vendemmia, tanto da tornare ben cinque volte a cercare operai: e quel che cercava per sé e per i suoi lo procura anche agli altri. Talmente grande è la gioia di concludere la vendemmia che in questa gioia vuole coinvolgere tutti coloro che hanno contribuito. Perché ci vuole sapienza anche nel godersi la vita: la sapienza di chi gode insieme agli altri e non da solo. Questa è la magnanimità! Esattamente il contrario degli operai della prima ora che invece si dimostrano pusillanimi, cioè con l’animo piccolo. Per gioire del loro danaro avrebbero avuto bisogno che gli altri ne prendessero di meno. E’ quel bisogno patologico di trovare qualcuno che stia sempre più sotto di noi o di misurare la nostra felicità continuamente paragonandola a quella degli altri. Nonostante ricevano quel che hanno pattuito con il padrone non ne sanno godere e rosi dall’invidia trovano di che lamentarsi. Quando compare una persona signorile c’è sempre nei paraggi l’ombra di qualche meschino. Tanto più meschino quanto più copre con la parola giustizia le sue rivendicazioni. Leggiamo questa parabola e ci par di sentire la puzza di un torto subito; non sarebbe più bello respirare il fragrante profumo della generosità di Dio con noi, operai dell’undicesima ora?

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LA VIA

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Domenica 28 settembre 2008

UN MERAVIGLIOSO RIFIUTO La prima impressione, a volte, non è quella che conta. Questi due figli protagonisti della parabola rappresentano due tipologie di persone. Il primo figlio non oserebbe rifiutare nulla a suo padre. Dice facilmente “si”, ma poi fa quello che vuole. Gli interessa salvare l’immagine di figlio modello, pronto e ubbidiente. E’ un figlio senza storia, accomodante, sicuro di essere il preferito dal padre. Lasciare che gli altri lo credano bravo è il suo impegno costante, ma il coraggio di essere se stesso non gli appartiene. L’altro figlio invece è molto meno gratificante per suo padre. E’ vivo ed impulsivo. Osa contraddire in faccia i genitori ed infrangere gli ordini dati. Non ha nulla di servile. Prima di cedere eventualmente a suo padre sente il bisogno imperioso, vitale, di fronteggiarlo, di misurarsi con lui. Agli occhi degli altri è il figlio cattivo e ribelle. Lo hanno già etichettato. Ma agli occhi di suo padre chi è? Cosa prova per lui suo padre di fronte al suo rifiuto, e soprattutto, come lo accoglie nel momento in cui gli getta il suo “no” in faccia? Curiosamente il Vangelo non ci dice nulla in proposito. Il padre è stato preso da collera? Ha abbozzato un gesto di violenza? Si è rinchiuso in un distaccato mutismo? Non lo sappiamo. Ma l’esito inatteso che segue ci fa pensare. La reazione del Padre (e naturalmente si tratta di Dio) ha dovuto essere tale per cui il figlio si è trovato completamente disarmato. Improvvisamente la sua resistenza non ha più scopo. Il suo rifiuto si scioglie come neve al sole di fronte al meraviglioso calore che il Padre diffonde, davanti alla tenerezza esaltata da questo stesso rifiuto. Davvero un meraviglioso rifiuto che permetterà al figlio ribelle di conoscere l’amore. Quel che non accadrà invece al primo figlio sempre ben disposto e così preoccupato di apparire giusto. Non c’è da scoraggiarci a causa della resistenza che troviamo dentro di noi: Dio avrà modo di abbatterla con la sua grazia. E’ provvidenziale, inoltre, che questo Vangelo si collochi all’apertura del nostro anno pastorale. Le comunità parrocchiali vivono grazie all’impegno di molte persone: è importante che lo spirito di servizio e di dedizione nascano dall’amore del Signore sentito,gustato e vissuto. E’ la garanzia della loro durata. Da questa stessa catena d’amore nascono anche le vocazioni. In questi giorni un giovane delle nostre comunità, Paolo, inizierà il suo cammino nel preseminario diocesano: che il Signore faccia brillare il suo volto sopra di lui perché si senta circondato dalla tenerezza di Dio che, da sola, senza mai niente forzare né rompere, basta a far sciogliere tutti i nostri rifiuti.

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Domenica 5 ottobre 2008

LA PIU’ GRANDE ILLUSIONE Nel giorno in cui a Roma prende avvio il Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio ci troviamo di fronte ad un passo emblematico in cui una parabola evangelica ci offre molteplici chiavi di lettura. I lavoratori della vigna che si allontanano sempre più dal rapporto con il padrone potrebbero rappresentare la cristianità occidentale, indurita e asfittica, a cui viene tolta la bellezza del Vangelo per essere data a nuovi popoli, di più recente cristianizzazione. Una lettura culturale di questo tipo ci incuriosisce, ma ci pare più utile lasciare che la parabola ci interpelli personalmente e in profondità. Che cosa spinge i vignaioli ad un atteggiamento che si fa, via via, sempre più violento? Evidentemente un desiderio incontrollato di possesso nutrito dal miraggio di volersi impadronire della vigna. E’ su questo dinamismo interiore che ci lasciamo provocare. Non si tratta tanto del possesso di cose materiali quanto dell’illusione di essere padroni della propria vita e del proprio tempo. Si vive ammaliati dall’idea che tutto gira intorno a noi e che possiamo veramente decidere noi cosa farne della vita e che indirizzo darle. Ci si dimentica così della semplice verità che non abbiamo deciso noi di venire al mondo e che gli avvenimenti chiave dell’esistenza non li abbiamo pianificati.E naturalmente ci si dispera per la grande ingiustizia subita quando la morte sopravviene a ricordarci che il padrone è un Altro. In questa bramosia di possedere per affermare se stessi, si fa strada piano piano l’accantonamento di Dio. Si cancellano tutti i segni di relazione con Lui: sia quelli esplicitamente religiosi che quelli più nascosti legati alla cultura, all’arte,al creato. Esattamente come i vignaioli della parabola che uccidevano gli inviati del padrone. Paradossalmente si potrebbe anche rimanere esteriormente religiosi ma non prendere mai in considerazione Dio per le questioni decisive della vita. Ma veramente l’esito di questo nostro affermarci ci renderebbe felici? Nella parabola gli operai perdono la vigna che viene data ad altri più meritevoli. Al capolinea del considerare l’esistenza e il tempo come nostra proprietà ci sono le tensioni e i logoramenti più faticosi. C’è quell’irascibilità di chi non accetta che le cose vadano come le ha programmate e che il tempo gli venga “rubato” dagli altri. C’è la difficoltà a costruire relazioni significative, libere e disinteressate. E c’è soprattutto, allorché si mette da parte Dio, quella sensazione di solitudine di chi pur avendo tutto rimane con un cielo vuoto sopra la propria testa. E allora ne vale la pena?

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Domenica 12 ottobre 2008

CRISTIANI “ALLA MODA” Ancora una domenica con una parabola. L’ennesima. E’ così ampio il ricorso che Gesù fece a questo genere di linguaggio che non possiamo fare a meno di chiederci il perché di tale preferenza. Perché Gesù parlava in parabole? Certamente in questo modo poteva far uso di immagini semplici ed immediatamente comprensibili, adatte ad ogni tipo di uditorio; Inoltre la metafora contenuta nella parabola poteva stimolare gli ascoltatori al gusto della ricerca personale, al fine di adattarne il messaggio alla vita personale di ciascuno e ottenendo così un coinvolgimento altrimenti non raggiungibile per altre vie. Ma la forza della parabola sta nel suo mistero: essa coglie ciò che non appare, ma che in realtà esiste e costringe a scrutare in profondità oltre il senso letterale della parola. Basta un particolare, un verbo rivelatore, qualche personaggio esemplare perché si allarghi inaspettatamente l’orizzonte del testo, ben oltre i confini del suo racconto. In una parabola non troviamo niente solo se ci aspettiamo di vedere quello che avevamo già in mente. Oggi allora ci chiediamo: come considerare il rifiuto dei primi invitati? E che cos’è in realtà l’abito nuziale? Dire di no ad un invito non è mai una cosa piacevole: è imbarazzante, quando non arriva addirittura alla maleducazione. Il rifiuto all’invito di Dio poi, si può legittimamente considerare un male. Eppure senza quel rifiuto l’invito non sarebbe stato esteso a tutti, anche a persone inaspettate ed estranee. C’è in quel rifiuto qualcosa di necessario, quasi di positivo perché è grazie ad esso che la premura del Padre raggiunge ogni uomo. Il male va certamente combattuto, ma c’è un modo cristiano di comprenderlo come parte del piano di salvezza di Dio. Non bisogna mai scordarlo, anche a costo di ripetersi. E l’abito nuziale? Con i nostri abiti noi non solo copriamo il corpo, ma vogliamo anche esprimere qualcosa. L’abbigliamento dice che ci sta a cuore comunicare una parte di noi agli altri. Con esso si manifesta come desideriamo apparire agli occhi di chi ci guarda. Che cosa ci piacerebbe che Dio guardasse di noi? Ogni domenica gli chiediamo di non guardare i nostri peccati, ma la fede, non le nostre mancanze, ma il bene che facciamo. Questi gesti cristiani sono l’abito nuziale di cui rivestirci dinanzi a Lui.

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Domenica 19 ottobre 2008 Giornata Missionaria Mondiale

IL PRIMATO DI DIO

Un popolo che riconosce il suo evento fondatore nell’Esodo dall’Egitto non può che anelare alla libertà. La memoria perennemente rinnovata e celebrata delle gesta di liberazione operate da Dio alimenta un senso di rifiuto nei confronti di chi vuole imporsi come conquistatore e padrone. E da che mondo e mondo il bisogno di libertà va sempre a toccare la questione delle tasse. In questo clima culturale fu posta a Gesù la domanda sulla liceità di pagare il tributo a Cesare. Una domanda-tranello: se Gesù risponde affermativamente è come se si schierasse con il dispotismo di Roma, se invece dice di no incappa nell’accusa di essere un rivoltoso. Ci sono alcuni che provano un sottile piacere nel cogliere in fallo gli altri, e Gesù di questo tipo di persone ne ha incontrate molte. Il Signore rispose con astuzia, ma spostando nettamente i termini della questione. Nessuno gli aveva fatto domande su Dio eppure Gesù parlò riaffermando il primato dell’Eterno. Le monete avevano l’immagine di Cesare e andavano restituite a lui, ma quasi per liberarsene. L’uomo invece è fatto a immagine di Dio e deve appartenere a Lui solo. Dare a Dio quel che è di Dio vuol dire dargli tutto. Non credo proprio che Gesù avesse in mente criteri del tipo “libera Chiesa in libero Stato” o l’idea di due ambiti distinti e collaboranti. La profonda coerenza di vita con cui trascorse i suoi anni terreni ci fa giustamente pensare che egli avesse a cuore il primato di Dio a cui appartiene ogni cosa. Probabilmente, da ebreo osservante, la moneta con il volto dell’imperatore romano Gesù non la maneggiò mai. Ma in che cosa consiste il primato di Dio nei confronti dello stato? Cosa significa, per noi cristiani, il primato di Dio in politica? Come si suol dire è una domanda “da un milione di dollari”! Ma come Dio si è rivelato progressivamente all’umanità svelando a tappe successive l’autenticità del suo volto così nell’affermare il primato di Dio si procede attraverso la ricerca del miglior bene possibile in una precisa contingenza storica, sociale, culturale. Il primato di Dio non si impone con la forza, e la dittatura del bene è il peggiore dei mali. Anche nella giornata missionaria mondiale che oggi celebriamo è importante che questo concetto venga ribadito. Da esso nasce l’urgenza missionaria, la carità instancabile, ma anche la coscienza che l’evangelizzazione non coincide con il farsi carico dei problemi della fame nel mondo.

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Domenica 26 ottobre 2008

DIMMI DUE PAROLE

I maestri che ho avuto mi avevano messo in guardia contro uno stato d’animo che in latino va sotto il nome di “horror vacui”. Significa “paura del vuoto” e la si sperimenta, nel nostro caso, allorché dovendo preparare un discorso o uno scritto sul Vangelo, la Sacra Scrittura rimane come muta. Si ha la sensazione di non poter dire nulla perché la mente e il cuore non suggeriscono nessuna idea, nessuna emozione, dando l’impressione del vuoto. Si resta lì, di fronte al Vangelo, senza sapere cosa pensare. Personalmente sperimento questa condizione abbastanza regolarmente. Tanto più mi accade quanto più le pagine della Bibbia sono chiare in se stesse, immediatamente percepibili, così limpide che ogni commento appare superfluo. E’ il caso di questa domenica dove Gesù indica il comandamento più grande nell’amore per Dio e per il prossimo. Sono parole che vanno praticate più che commentate. Ma rimane però l’esigenza di uscire da questa paralisi di mente e cuore,forse perché l’aridità interiore è una condizione difficile da sopportare. In questi casi mi faccio guidare dai vocaboli che più mi colpiscono, singolarmente presi. Mi lascio letteralmente afferrare da una sola parola considerandola in se stessa e ascoltandone le intime risonanze interiori. La osservo come in controluce, da più parti, ne esamino i significati, ne formulo i sinonimi e i contrari e mi accorgo così che un solo vocabolo è in grado di aprire vasti orizzonti di preghiera e di riflessione. Quali le parole del Vangelo di oggi? Primariamente un aggettivo: TUTTO. Gesù dice di amare Dio con tutta l’anima, tutto il cuore, tutta la mente. Abbiamo bisogno di unificazione nella nostra vita, perché corriamo sempre il rischio di fare le cose a metà e di comprometterci fino ad un certo punto. Viviamo in una cultura che teme la definitività e insegna a compiere scelte da cui si possa poi sempre tornare indietro, senza spenderci tutto se stessi. In questa prospettiva di totalità che Gesù traccia sembra di cogliere un’esagerazione, ma in realtà è la strada maestra per essere liberi. Secondariamente, mi ha attirato l’espressione: COME TE STESSO. Amare gli altri come noi stessi . Gesù pone l’amore per sé quale punto di partenza dell’amore per il prossimo. Chi non si ama difficilmente amerà gli altri. Sarà piuttosto portato a rovesciare sul prossimo le insoddisfazioni e le ferite aperte nei confronti del proprio io. C’è un amore di se stessi, sano e non egoistico, che è profondamente evangelico, e che, tra le altre cose, comporta la capacità di scegliere i beni di più lunga durata. A volte ci si accontenta di ciò che ci soddisfa immediatamente ma poi ci lascia tristi e delusi. I beni più grandi comportano scelte di sacrificio che però, a lungo andare, danno pace e consolazione. Amare se stessi vuol dire scegliere beni così.

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Domenica 2 novembre 2008 Commemorazione dei fedeli defunti

ESSERE NELLA LUCE

“L’ora viene”. Con questa pacata consapevolezza si preparava al momento supremo il papa Paolo VI, vergando le sue sensazioni nel “ Pensiero alla morte”, autentico testamento spirituale del pontefice. Ho ripreso tra le mani quel testo in questa settimana, forse per l’avvicinarsi alla morte di persone amate, trovandovi una forza interiore e una fede tranquilla e abbandonata a Dio. Mi piacerebbe che ci nutrissimo anche noi di questa pace oggi, giorno del ricordo dei nostri cari e tempo propizio per pensare alla nostra morte. Si dice che imparare a vivere significa imparare a morire ed è vero. La morte è l’ultimo tabù, l’ultimo argomento di cui non si può parlare perché sarebbe sconveniente. E’ forse meglio far finta di niente o tentare di rendere la morte una festa per bambini? Comunque non potremmo evitarla. E allora parole e pensieri come quelli di Paolo VI non possono che farci bene, anche solo per constatare quanto ne siamo lontani. Sentiamo la morte come una profonda ingiustizia, il male assoluto e non riusciamo a capire come si possa definire con parole positive un avvenimento che ha tutto di negativo. Come ha potuto S. Francesco chiamarla “sora nostra morte corporale”? Noi non ne siamo capaci. Anzi, può capitare di lamentarci con il Signore perché non ci ha tolto la necessità di morire. Egli è morto per noi, ma non al posto nostro e forse avremmo preferito andare in paradiso più comodamente. Invece Dio ha voluto che passassimo per questa dolorosa cruna dell’ago che è la morte ed entrassimo nell’oscurità che incute paura. La morte abbruttisce tutto e tutti. E’ l’ultima nemica, cioè la peggiore. Nemmeno Gesù ha fatto una “bella morte”. Ma morendo si è fidato del Padre. Se c’è un po’ di pace nel pensare alla morte, questa nasce (così percepisco intimamente) quando comprendiamo che senza la morte non arriveremmo mai a fare un atto di piena fiducia in Dio. Di fatto in ogni scelta impegnativa noi abbiamo sempre delle “uscite di sicurezza”. Invece la morte ci obbliga a fidarci totalmente di Dio. Ciò che ci attende dopo la morte è un mistero che richiede da parte nostra un affidamento totale, quasi alla cieca, che ci fa mettere in tutto nelle mani del Signore. E’ con questa fede che si attraversa l’oscurità e che la morte viene svuotata del suo macabro significato: come un’ape che perde il suo pungiglione essa non può più iniettare veleno nell’uomo, ma aprirlo alla luce. Paolo VI chiedeva con parole che ancor oggi emozionano: “...mi piacerebbe, terminando, d’essere nella luce.” E’ il nostro stesso desiderio. Per tutti quelli che abbiamo amato e ci hanno preceduto sulla via e per noi stessi, adesso e nell’ora della nostra morte.

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Domenica 9 novembre 2008

IL SONNO DELL’ANIMA

Biblicamente parlando il sonno si rivela un tempo propizio all’epifania di Dio. Nel sonno di Adamo il Creatore agisce perché l’uomo abbia un aiuto che gli sia simile, Eva. Nel sonno di Giacobbe Dio si rivela con gli angeli che salgono e scendono da una scala la cui punta tocca il cielo. E il sonno di Giuseppe è propiziatore di quei sogni che lo convinceranno a prendere con sé Maria. Eppure c’è anche l’altra faccia della medaglia: il sonno della tristezza dei discepoli che abbandonano Gesù al Getsemani o, come ascoltato oggi, il sonno delle dieci vergini chiamate alle nozze. Che cosa rappresenta quindi l’assopimento in cui sprofondano queste ragazze inizialmente euforiche per la festa di matrimonio? Concretamente, lo sposo era trattenuto a casa della sposa per le contrattazioni circa la dote da lasciare in dono: ai tempi di Gesù si usava così. Ma la metafora di questo assopirsi è gravida di significati: esprime quello stato di torpore spirituale che afferra una persona rendendola pigra, tiepida, incapace di rimanere fedele ai minimi impegni, come svuotata e annoiata di tutto. E’ una condizione dell’anima che sfocia in atteggiamenti che rendono importanti questioni da poco, provando passione per piccole banalità e perdendo di vista le realtà decisive. Non di rado questa tiepidezza lascia scontenti e amareggiati, così da farci sorgere pensieri disfattisti, irritati, lamentosi. Questa condizione non è risparmiata a nessuno. Tutti dobbiamo vivere queste stagioni aride e vuote. La parabola in questo è eloquente: tutte le vergini si addormentano, non solo alcune. Ma per cinque di esse il risveglio coincide con una ripresa spirituale, per le altre con la rovina. Significa che il sonno dell’anima non è ancora il danno peggiore, e che si può uscirne. Ne escono le persone sagge e previdenti che hanno saputo fare qualcosa simboleggiato dalla scorta dell’olio portato con sé. L’olio del realismo di chi sa che la vita non è fatta solo di grandi emozioni ma anche della piatta quotidianità; l’olio dell’amore di chi ha provato a donare tutto se stesso per gli altri e per la Chiesa, senza giocare al ribasso; l’olio di chi ha saputo chiedere consiglio a chi ha vissuto prima di lui una crisi spirituale e ne è uscito lasciandosi guidare. Tutte cose strettamente personali, tali che altri non ce le possono dare, come il coraggio (di manzoniana memoria) che mancava a don Abbondio. Vale la pena tenere accese le nostre lampade per gustare la serenità, gli slanci e la scioltezza che nascono da un cuore riscaldato dal Signore.

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Domenica 16 novembre 2008

MAGIS

Tra le tante fissazioni che gli amici benevolmente mi rinfacciano c’è quella per la vita e l’opera di S. Ignazio di Loyola. A ben vedere è una frequentazione spirituale assidua e stimolante. Ed è proprio della spiritualità di questo santo che raccolgo una parola probabilmente sintetica e centrale nel suo percorso interiore. La parola è “magis”, espressione latina che significa “di più”. Essa sta ad indicare la capacità di non accontentarsi, ma di puntare più in alto, di cercare le cose che più valgono. Questo “di più” è il moto verso ciò che è superiore. E’ ciò che hanno vissuto i primi due servi della parabola di oggi. Avevano ricevuto i talenti dal loro padrone ma non si accontentano di custodirli:li fanno fruttificare. Non potrebbero concepire l’idea di starsene lì fermi e non cercare di fare qualcosa di più, senza che, tra l’altro, il padrone glielo abbia esplicitamente richiesto. Forse è la fiducia ricevuta, con la conseguente gratitudine, che porta al “magis”. Se questa fiducia intorno a sé non è percepita è difficile cercare sempre di dare qualcosa in più. E’ ciò che sperimenta il terzo servo, il quale prova nei confronti del padrone un sentimento di paura. La paura ha molte conseguenze nefaste, non ultima quella che chi sceglie obbedendo alla paura non può che sbagliare e mortificare i propri talenti. Mantenere alto il profilo delle proprie scelte e la qualità del proprio impegno: ecco i frutti del “magis”. Ci sarebbe poi da capire cosa sono questi talenti che il padrone affida ai suoi servi. Generalmente con la parola talento si intende un dono naturale caratterizzante una persona e capace di renderla unica e speciale. Ma non si tratta solo di questo. Il talento è qualcosa di prezioso e nel Vangelo ciò che è prezioso sono le parole stesse di Gesù, i suoi insegnamenti. I talenti che abbiamo ricevuto sono il Vangelo stesso che deve portare frutto nella nostra vita. Basterebbe anche un solo talento, cioè una sola pagina di Vangelo presa come riferimento della nostra esistenza per compiere un salto di qualità. Una sola parabola evangelica o un solo insegnamento di Gesù, se imparato a memoria e poi continuamente ripetuto è in grado di farci compiere scelte buone ed evangeliche perché riaffiorerebbe alla nostra mente nei modi più impensati e ci guiderebbe nei comportamenti. Madre Teresa di Calcutta partì dalla frase di Gesù sulla croce ”Ho sete” per soccorrere i bisognosi che trovò sul suo cammino identificando in essi il Cristo. Qual è la nostra pagina evangelica, cioè il nostro talento?

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Domenica 23 novembre 2008 Festa di Cristo re giornata del ringraziamento

UN GRAZIE CONCRETO

La Bibbia esprime il legame tra Dio e l’uomo attraverso la parola Alleanza. Questa Alleanza si è sviluppata attraverso tre fasi:la prima è l’Alleanza con Noè, sancita tramite il creato; la seconda è l’Alleanza con Mosè nella Tavole della legge; la terza e definitiva Alleanza è compiuta da Gesù nell’ultima cena. Ognuna di queste alleanze sviluppa quella precedente senza cancellarne il significato. Quindi ogni volta che noi ripetiamo il gesto dell’ultima cena nella S. Messa rinnoviamo anche l’Alleanza con il creato presentandone i frutti del pane e del vino, trasfigurati, davanti al Signore. Per questo, celebrare l’Eucarestia nel giorno del ringraziamento ha un significato tutto particolare. Mentre eleviamo a Dio il nostro grazie per i frutti della terra, noi rinnoviamo il nostro legame con essa per prendere nuovamente coscienza che non ne siamo padroni. L’impossibilità a governare gli eventi atmosferici non è solo motivo di apprensione ma anche prezioso insegnamento: nel nostro limite umano si apre la via dell’affidamento al Signore. E il clima ci potrà essere favorevole se ci impegnamo a rispettarlo. Così il nostro “grazie” non si limita ad una pura espressione verbale che saprebbe tanto di semplice cortesia e buona educazione. Il “grazie” di un cristiano ha le tinte forti dell’impegno a fare qualcosa; le stesse tinte del Vangelo di oggi che ci ricorda che saremo giudicati sulle opere dell’amore. E’ la carità che salva, da qualsiasi luogo provenga e qualsiasi motivazione abbia. Se Cristo è re, lo è perché più di tutti ha vissuto l’amore, fino al dono di sé. E’ re perché sa stare dalla parte degli ultimi e dei più poveri, quelli che a volte ci infastidiscono. La sua regalità è inaudita: è già molto difficile trovare dei potenti che realmente si interessino ai poveri e agli afflitti, ma trovarne che si mettano nei loro panni è praticamente impossibile. Cristo re lo fa. Forse per questo la storia non potrà mai fare a meno di Lui.

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Domenica 30 novembre 2008 1° d’Avvento

GIORNI D’AVVENTO

Si può, via via, imparare ad amare l’Avvento come tempo di attesa, di desiderio, di nostalgia. E’ una stagione nella quale fa buio prima, le sere sono più lunghe, fuori fa più freddo. Tutto ci invita a prestare attenzione ai segni del cuore, a tendere l’orecchio dentro di noi e a dedicare tempo a Dio. E nel pensiero rivolto a lui ne avvertiamo tutta la mancanza e ne sentiamo il bisogno. Vegliare, verbo tipico del tempo di Avvento, non significa puramente togliere tempo al sonno per destinarlo alle attività dello spirito. Vegliare è avvertire il vuoto di una assenza. Vegliare è patire una mancanza. E questo sentimento è, in fondo, una virtù, una grande virtù: Gesù è venuto ad insegnarci la virtù della mancanza Ci possono mancare le persone care o gli amici. Ci può mancare un ambiente, la casa, la salute. E ci può mancare Dio. L’opportunità del tempo di Avvento è quella di trasformare questa mancanza in energia positiva, senza lasciarci prendere dalla tristezza. Chi non avverte questa nostalgia di Dio farà fatica a mettersi in gioco. Basterebbe poco; ad esempio iniziare le giornate alzandosi dal letto non all’ultimo minuto per pronunciare con calma le parole del salmo 129 “L’anima mia attende il Signore più che le sentinelle l’aurora” Oppure, ogni tanto, alzare lo sguardo e sentire la presenza di Dio. Nell’autobiografia spirituale di S. Ignazio si legge che “la consolazione più grande la riceveva guardando il cielo e le stelle; lo faceva frequentemente e a lungo, perché, con questo, sentiva dentro di sé un grandissimo desiderio di servire nostro Signore”. E magari terminare la giornata sedendosi brevemente dinanzi ad una candela accesa, al buio, rimanendo a guardare la fiamma. Se lasciamo agire in noi la luce tremolante della candela, affiorano tanti desideri, sentiamo nostalgia d’amore, di calore, di casa. Anche questa è nostalgia di Dio. Forse sono sensazioni legate ad esperienze infantili. Non si tratta però di desideri rivolti al passato, bensì al futuro. L’Avvento ci dice che i nostri aneliti non sono illusioni, bensì promesse di un mondo in cui la luce di Dio emana calore e amore, in cui possiamo davvero sentirci a casa, in cui un fiore sboccia nel freddo inverno, proprio nel cuore della notte.

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Domenica 7 dicembre 2008 2° di Avvento

CHI DIMINUISCE, CRESCE (Mc 1, 1-8) Giovanni il Battista appare sulla scena all’improvviso. Dopo qualche fugace accenno al suo concepimento, presente nel Vangelo di Luca, non si parla più di lui. E poi, inaspettatamente, eccolo nel deserto, uomo tutto d’un pezzo, austero e tenace, voce che invita alla conversione. La sua figura, la più rappresentativa del tempo d’Avvento, è rimasta nascosta per lunghi anni agli occhi del mondo. Ha vissuto da solo, senza che nessuno si accorgesse di lui, coltivando nel silenzio della sua interiorità tutto ciò che sarà poi oggetto della sua predicazione. Anche per Gesù fu così: molto sappiamo delle parole e dei gesti compiuti in pubblico, poco e nulla sappiamo dei suoi giorni di deserto o delle sue notti di veglia. Allo stesso modo nella vita di molti santi ci fu bisogno di una lunga e silenziosa gestazione prima di fiorire come discepoli del Signore in perfetta sintonia con quanto diceva un filosofo dell’800: “Chi molto annunzierà, tace a lungo in sé raccolto; Chi lancerà la folgore rimane lungamente nuvola!” In questa vita nascosta è contenuta la sostanza dell’Avvento che celebriamo: quel che più importa non è quello che accade in pubblico, ma quel che accade nel segreto. Se nel segreto non accade nulla, anche quello che si celebra in Chiesa è destinato ad apparire poco vero. E’ nel silenzio del nostro cuore che la Parola del Vangelo può risuonare in profondità e se non riusciamo a sentirlo è perché abbiamo una vita congestionata e dominata da tante altre voci che erigono un muro di sbarramento. In una società che ha il culto dell’immagine e che idolatra l’apparenza, lo stile di chi cerca Dio nel segreto, nel silenzio e con discrezione, appare fuori moda e perdente. Si pensa che chi crede a queste cose sia una persona passiva. Ma nei tempi di passività Dio opera. Tutti nella vita attraversiamo queste stagioni: sono molte le “passività di diminuzione” che ci è dato di sperimentare. Situazioni in cui subiamo gli eventi senza poterci fare nulla: una malattia subdola e sfibrante, una morte improvvisa, la perdita del lavoro, la rottura delle relazioni familiari o anche quel continuo logorio dovuto a limiti caratteriali che non riusciamo a modificare. Sono tutti frangenti in cui si rimane penosamente danneggiati e nei quali non si sta sotto le luci della ribalta: eppure qui agisce il Signore, e in modo più efficace e santificante . Perché anche se noi non ce ne accorgiamo, anzi, ci sembra di venire meno, la mano di Dio è all’opera: facendoci perdere i nostri punti di appoggio ci rende capaci di sbilanciarci su di Lui. Preparare l’Avvento del Signore, la sua venuta, in fondo significa lasciargli spazio. Come fece Giovanni Battista nei suoi anni di nascondimento. Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo

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Domenica 14 dicembre 2008 3° di Avvento

ANCORA LUI

(Gv1, 6-9, 19-28) Giovanni Battista ritorna. La liturgia ci propone nuovamente la sua figura, ma lo fa in un modo stilizzato, quasi rarefatto. Non si lascia alcuno spazio alla descrizione del carattere, dei pensieri, dei sentimenti, degli entusiasmi e anche delle prove del precursore. Ma la stessa cosa, in fondo, succede per i personaggi evangelici: i Vangeli non sono scritti come un romanzo e quindi non indulgono ad evidenziare la personalità e i tratti psicologici dei protagonisti. Noi non sappiamo nulla dei tratti fisici di S. Pietro o di S. Paolo o di qualsiasi altro apostolo. Nemmeno si narrano le loro emozioni e i loro pensieri, e questo, per una cultura abituata alla fiction televisiva è abbastanza deludente. Se pensiamo alla ricchezza narrativa dei romanzi di Dumas o Dostojeskji, i Vangeli appaiono asciutti, sobri, e le vicende sono scritte in modo essenziale. Per Giovanni il Battista tutto ciò è ancora più marcato; per definire chi egli sia si usano quattro negazioni (non è la luce, non è il Cristo, non è Elia ne’ il profeta) e una precisazione: egli è “voce”. La sua identità è espressa attraverso la sua missione. E’ ciò che è chiamato a compiere, a rivelare chi è il Battista, non i suoi sentimenti o le sue opinioni. Una persona infatti la si conosce anche a partire da quello che fa, se lo fa con onestà e trasparenza. E’ proprio questa assoluta trasparenza della sua persona a caratterizzare Giovanni: chi lo guardava non vedeva lui, ma il Cristo che egli stava precedendo, di cui stava preparando la venuta. Con il Battista siamo portati ad una delle questioni di fondo dell’esistenza: che scopo ha la nostra vita? Qual è la nostra missione? E’ solo la risposta a questi interrogativi a dire chi siamo veramente. E probabilmente, anche la gioia cristiana, che da il tono a questa domenica, dipende dal mantenersi in rotta con la nostra missione. E’ una consolazione interiore che nasce in chi compie il proprio dovere. “L’uomo è creato per amare e servire Dio nostro Signore. Le altre cose sulla faccia della Terra, sono create per l’uomo, perché lo aiutino a conseguire il fine per cui è stato creato. Quindi l’uomo deve usarle quando lo aiutano per il suo fine

e liberarsene quando glielo impediscono. Perciò è necessario rendersi interiormente liberi verso tutte le cose e persone desiderando e scegliendo solo ciò che più ci conduce al fine per cui siamo stati creati.” (Esercizi spirituali, Principio e fondamento)

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Domenica 21 dicembre 2008 4° di Avvento

PER UN GIOCO DI PAROLE (2 Sam 7) Per una volta ci fermiamo all’Antico Testamento a quella grande figura che fu il re Davide. Famoso per aver abbattuto il gigante Golia, ha una storia in realtà costellata di tanti altri episodi emblematici ed avvincenti. In fondo egli è il simbolo di tutti i personaggi della Bibbia: così lontani eppure vicinissimi; così fantastici eppure molto reali; così canonizzati eppure facilmente imitabili. Davide unificò il regno di Israele e trasformò un gruppo di tribù seminomadi in uno stato organizzato, con istituzioni stabili e funzionali. Vinse molte guerre, allontanò i nemici, edificò case alla gente del suo popolo e costruì la sua reggia. Aveva messo a posto tutti. Tranne che Dio. Si era dato da fare per moltissime cose, ma aveva tralasciato il Signore. D’improvviso si accorge di questa situazione imbarazzante (“l’arca di Dio sta sotto una tenda”) e vuole porvi rimedio. Come chi si avvicina al Natale sistemando prima di tutto ciò che è contorno: l’albero da preparare, i regali da confezionare, il pranzo da cucinare; per poi accorgersi di non aver trovato tempo per pregare, meditare, celebrare. E allora corre, magari per confessarsi all’ultimo secondo e dare al suo Natale una parvenza religiosa. Dio fa capire al re Davide che, messa così, la situazione non è molto esaltante. Il Signore ogni tanto non accetta questo essere considerato l’ultima ruota del carro. Lui è il primo, l’iniziativa è sempre sua. Tutto ciò che è, Davide lo deve soltanto a Dio. Tutto ciò che noi siamo è puro dono suo. Ed è a questo punto del racconto che la Bibbia ci sorprende: Dio gioca con le parole per spiazzare il re Davide. In ebraico il termine “casa” e il termine “discendenza” si pronunciano allo stesso modo. E così Davide vuole fare a Dio una casa, ma Dio gli promette una discendenza. Davide punta sulle cose; Dio punta sulle persone. Davide è preoccupato di costruire un edificio, ma a Dio sta a cuore offrirgli rapporti umani, legami affettivi . E’ curioso che questo episodio ci venga incontro in giorni così prossimi al Natale: è una festa in cui si rischia di lasciare il ruolo principale alle cose, agli oggetti, invece che alle persone. Come Dio con Davide, anche noi siamo chiamati a rimettere al centro la bellezza dell’amicizia e del calore umano. Perché, in fondo, una buona parola sussurrata, un abbraccio da cui ci si è troppo astenuti o la tenerezza di una carezza, sono sempre il regalo più interessante.

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Domenica 28 dicembre 2008 S. Famiglia

SOTTO IL SEGNO DEL FIGLIO (Lc 2, 22-40)

Da una settimana a questa parte la liturgia ci parla di figli. Domenica scorsa la discendenza di Davide; a Natale, il Figlio per eccellenza che è Gesù; e oggi il figlio promesso ad Abramo, come segno del rapporto tra Dio e lui. Non poteva esserci retroterra migliore alla celebrazione della festa della Santa Famiglia. Si tratta di una festa moderna, nata solo alla fine dell’ottocento, sotto la pressione del movimento cattolico pro-famiglia. Fino ad allora infatti alla famiglia spettava con tutta naturalezza il ruolo di cellula elementare di ogni legame umano: era il luogo decisivo di elaborazione dei significati della vita e della loro trasmissione. Poi le cose hanno cominciato a mutare e allentandosi il significato fondamentale della famiglia stessa, è sorto il legittimo bisogno di istituire una festa che invece lo rivendichi. E lo fa con un testo evangelico che focalizza la sua attenzione su Gesù, piccolo figlio presentato al Tempio. Di Lui si dicono parole profetiche: “Egli è qui per la rovina e la resurrezione … perché siano svelati i pensieri ……” Qualche cosa di simile deve essere affermato a proposito di ogni figlio. Ogni figlio è per la rovina e la resurrezione; ogni figlio è prima di tutto motivo di gioia e gratitudine, ma diventa poi motivo di oneroso impegno e addirittura di ansia. Per gli adulti non vi è motivo di preoccupazione maggiore di quella per i figli. Forse sta qui la radice del nostro record di denatalità e di questa esagerata parsimonia nel mettere al mondo bambini. I figli impongono dei compiti grandiosi e questi compiti intimoriscono. Intimorisce il futuro che hanno davanti, ma anche la prospettiva delle responsabilità che i figli suscitano: testimonianza, dono di sé, sacrificio, ascolto, consiglio, sono tutte attitudini di alto profilo e non sempre allettanti. Ma in realtà si tratta di compiti che, presenti o assenti i figli, un adulto cristiano dovrebbe comunque realizzare. La presenza del figlio, in questo tempo, riconduce il genitore alla verità di sempre della sua vita. I figli rivelano a noi stessi chi siamo, mettono in piena luce le nostre virtù e i nostri difetti, fanno fiorire ciò che era presente da sempre. Per questo la loro nascita è una benedizione. Persino per la Madonna fu così: suo figlio Gesù fece sbocciare in lei quello spirito di abbandono alla volontà di Dio che Maria aveva da sempre coltivato; ma se anche il figlio non ci fosse stato ella avrebbe comunque vissuto come “serva del Signore”. Anche le fatiche e le gioie della vita familiare sono il luogo in cui la verità di Dio si fa chiara in noi e ci accompagna, passo dopo passo.

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Un particolare ringraziamento a Marilena Mori per la disponibilitĂ , la pazienza e la cura nel lavoro di segreteria Parrocchia di Roveleto di Cadeo, Santuario della Beata Vergine del Carmelo



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