La Via speciale Pasqua 2018

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FIDARSI E’ ancora possibile oggi parlare di fiducia di fronte ai tanti segni che la fanno vacillare o la sgretolano? Speciale Pasqua 2018


Luci ed ombre della fiducia

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Don Umberto

Editoriale:

Luci ed ombre

“Fidatevi...

della fiducia

una seconda chance

don Umberto

è meglio per tutti”.

Erika Negroni

pag. 6-7 pag. 8-9

ll tesoro dei giornali Passaporto italiano

è la fiducia dei lettori

cuore mediterraneo

Valentina

Valentina

Paderni

Paderni pag. 10 pag. 11

“Se puoi sognarlo,

Mi prenderò cura

devi farlo”

di te

Erika pag. 12-13

Elisabetta

La fiducia è un tratto umano caratteristico dell’esperienza pasquale. I discepoli devono infatti fidarsi delle donne che ritornate dal sepolcro annunciano la resurrezione; devono poi nuovamente fidarsi dei due che dicono di avere parlato con Gesù sulla strada di Emmaus; e infine Tommaso deve fidarsi degli altri che gli parlano di Gesù Risorto. Senza fiducia quindi, non ci sarebbe Pasqua. Questo vale anche per noi che a distanza di secoli abbiamo ancora fiducia di coloro che fecero e raccontarono questa esperienza. Non parlo quindi di fede, ma di fiducia. Esattamente di quella attitudine umana, di quella inclinazione del cuore che porta a concedere credito al proprio prossimo e ad agire di conseguenza. E’ ancora possibile oggi parlare di fiducia di fronte ai tanti segni che la fanno vacillare o la sgretolano? Forse non è un problema di oggi ma di sempre. Se la sapienza popolare ha coniato il

proverbio “fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio” qualche ragione ci sarà. Forse da sempre la razza umana ha sentito il bisogno di fidarsi con riserva, se non addirittura di sospettare del prossimo. Eppure della fiducia non possiamo proprio fare a meno. Essa fonda la nostra esistenza senza che ce ne accorgiamo: dal nostro risveglio al coricarci notturno noi ci fidiamo che la terra su cui poggiamo i piedi ci regga; che i nostri cari ci pensino; che il nostro lavoro porti frutto e così per innumerevoli, piccole cose della vita. Alla fiducia e al suo valore; al suo declino e alla sua crisi; al suo rinascere giorno per giorno nella società è dedicato questo numero speciale della Via. Abbiamo vissuto le elezioni: possiamo ancora fidarci delle Istituzioni? Possiamo fidarci della Chiesa? E dei mezzi di comunicazione? Dei social? Con una simile quantità di notizie false che circolano vale ancora la pena tenersi

aggiornati? Possiamo fidarci della medicina e dei dottori? E di quelle speciali categorie di persone che sono coloro che, pur avendo gravemente sbagliato, cercano riscatto? Possiamo fidarci degli ex detenuti? Se pensiamo ai tanti episodi di violenza domestica ci chiediamo: possiamo ancora aver fiducia nel miracolo dell’amore tra un uomo e una donna? Certo non possiamo rispondere con queste poche pagine a domande così radicali. Ma proprio perché cristiani noi vorremmo avere la forza di rinnovare sempre la nostra fiducia. Dio ce ne faccia dono. Buona Pasqua a tutti Don Umberto

Negroni

Cittadini e

Parenti

politica Valentina Paderni

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Tutto il

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bene che c’è

Un libro

tra noi

un film

la nostra pagina

un teatro

informativa

la nostra pagina della cultura

L'Incredulità di san Tommaso è un dipinto a olio su tela di 107 × 146 cm realizzato tra il 1600 ed il 1601 dal pittore italiano Caravaggio. È conservato nella Bildergalerie di Potsdam -3-


“Fidatevi , dare una seconda chance ai detenuti è meglio per tutti”. Volto dei detenuti, misure alternative e Casa di accoglienza di Ca deo: dialogo con Davide Marchettini, referente Caritas diocesana Nel giorno della festa del papà ha tentato il suicidio. “Poverino - diranno tanti -, chissà quali pesi gli gravano sul cuore: lavoro perso, separazione, o forse un lutto”. È un papà come tanti, lontano dai suoi figli, e sta dietro le sbarre di una Casa circondariale. Cambia qualcosa saperlo reo e con una pena da scontare? Anni fa, durante un master universitario, sono stata nel carcere di Parma: mega spazi all’avanguardia riservati a chi è in carcere e ha disabilità,e grandi e validi progetti educativi. Poi visiti una cella angusta in cui a malapena ti muovi e ti dicono che qui troveranno posto più detenuti, causa sovrappopolamento carcerario. Passeggi nel corridoio infinito e trovi i detenuti dietro le sbarre tutti ammassati a fissarti: non ho alzato gli occhi, nemmeno un secondo, non volevo incrociare il loro sguardo, troppo pesante per me. La giustizia umana fa giustamente il suo corso, agli errori occorre riparare, ma come cristiani da che parte stiamo? “L’uomo non è il suo errore” - ripeteva don Oreste Benzi -. Abbassiamo per un attimo le pietre da scagliare contro l’adultera di turno. Qui di seguito una lunga chiacchierata con Davide Marchettini, responsabile del settore giustizia della Caritas diocesana, che ci parla di carcere, valore delle misure alternative e della Casa accoglienza che sorgerà qui a Cadeo. Davide cosa c’entrano i carcerati con la tua vita? Sono referente del settore giustizia della Caritas diocesana. Da vent’anni Caritas è a fianco dei carcerati nella casa circondariale di Piacenza, e da quattro sono io il referente del servizio che opera dentro e fuori il carcere. Cosa fa Caritas dietro le sbarre? All’interno c’è uno Sportello di ascolto. Come avviene in Caritas, anche per chi è in detenzione, c’è uno spazio in cui ascoltiamo e raccogliamo i bisogni che emergono. In pratica i detenuti possono far richiesta di ottenere un colloquio con uno dei nostri volontari.

Cosa chiedono i detenuti? Molti chiedono generi alimentari di prima necessità e vestiario, diversi di loro versano in condizioni di disagio. Per tanti ci attiviamo per l’acquisto di medicinali, che diversamente non potrebbero avere. Ma ci occupiamo anche di tenere i rapporti con le famiglie: è vero che godono della possibilità dei colloqui ma avvengono solo ogni tanto, tanti hanno la famiglia lontano. Noi facciamo da ponte perché i legami familiari continuino ad esistere.

la struttura che ospiterà gli ex detenuti Tu che incontri i detenuti “smontaci” qualche luogo comune... Anzitutto, quando noi entriamo nell’area pedagogica della Casa Circondariale non incontriamo i detenuti, noi incontriamo le persone: non compete noi giudicare, pensare alla pena giusta o meno. Per quello ci sono i magistrati. Molti magari immaginano il carcere come un luogo popolato da tantissimi condannati per chissà quale grave reato. Non è vero. Tanti sono lì in attesa di giudizio - quindi non è detto siano colpevoli-, tanti altri sono reclusi per reati minori. Riguardo a cosa gran parte della società appare sorda e ottusa? Chi è recluso in carcere non è una persona da dimenticare. Noi tentiamo di creare al di fuori una comunità accogliente che li attenda. Quando li incontri ti accorgi che emerge forte il tema della solitudine. Se li abbandoniamo a loro stessi, se non ci preoccupiamo del loro rientro nella società, quando escono rischiano di rica-4-

dere negli stessi errori, se non peggiori di prima. Occorre preparare per loro lo spazio dove vivere una seconda possibilità. Questo è meglio per tutti: per loro e per la società. Dobbiamo capire che per cambiare le cose occorre incentivare le pene alternative, riconoscendo che il sistema carcerario non sempre è risolutivo, che è bene reinserirli in base al percorso fatto in carcere e ovviamente al reato commesso. Perché dovremmo credere al valore della “misura alternativa”? Chi sbaglia, paga. Perché la pena alternativa permette un reale riscatto della persona. La recidiva in chi esce dal sistema carcerario ordinario è del 70 %, la recidiva per chi ha ottenuto una misura alternativa è del 30%. Non lo dice Caritas, lo dicono le statistiche. Grazie alle pene alternative si punta al rientro nel tessuto sociale. Pena alternativa vuol dire trovare una strada per riagganciare, sostenere e creare una rete di protezione. Anche Caritas è in prima linea nell’offrire spazi alternativi alla detenzione carceraria... Sì, abbiamo cercato di farlo con le 45 persone che abbiamo accolto in pena alternativa. Non per tutti i reati si può accedere a ciò: sono persone per esempio che hanno commesso reati stradali o che devono scontare gli ultimi 18 mesi di reclusione. Sia chiaro che non esce dal carcere chiunque, i detenuti possono farne richiesta al magistrato ma sarà lui che valuterà in base al tipo di reato e al percorso carcerario fatto. Noi per esempio non accogliamo persone dipendenti da sostanze, non siamo una struttura deputata a questo. Non solo i detenuti in Caritas, ora arrivano anche a Cadeo... La Casa e il progetto di Cadeo sono nati per volontà del nostro vescovo mons. Ambrosio in corrispondenza dell’Anno della Misericordia, poi è Caritas ad occuparsene perché possiede le competenze specifiche. Caritas italiana ha indetto il bando “Umanizzazione della pena” e noi abbiamo fatto un progetto legato alla

Casa di accoglienza di Cadeo e non solo. In tre anni da noi le richieste di pena alternativa sono triplicate. Perché una casa in campagna, perché lontano dalla città e dal controllo diretto di Caritas? Potevamo pensare ad un appartamento in città, come avviene in tante località italiane, non siamo mica gli apripista di questo progetto. Invece no, desideravamo avere anche uno spazio esterno fruibile, per riempire la loro giornata anche con momenti di vita all’aria aperta. Non vogliamo creare un “Carcere bis”. Proprio per questo attorno alla Casa opererà un gruppo di volontari, per offrire opportunità di relazioni e socialità. Come sarà questa Casa? Fatta da due appartamenti, uno occupato da un massimo di tre persone che de-

vono appunto scontare la pena alternativa e l’altro dedicato a un singolo o una coppia che accettino di vivere accanto a loro, non per esercitare una funzione di controllo ma come occasione di vita in condivisione, un accompagnamento educativo che prende la forma di una famiglia allargata. Che senso ha una struttura per soli 3 ospiti? Noi puntiamo su numeri piccoli. Questo progetto non è di certo nato per risolvere il problema della carcerazione! Questa poi è una casa di passaggio, dove le persone ospitate, attraverso lo svolgimento di piccoli lavori orticoli, potranno godere di una piccola entrata economica. Il vantaggio di non essere rinchiusi in quattro mura di un appartamento è che il loro tempo sarà più ricco e produttivo. Un tempo e uno spazio che devono essere un

Erika Negroni cuscinetto tra il dentro (prima sperimentato in carcere) e il fuori che li attende (la vita in libertà). A Cadeo, tanti hanno già levato lo scudo contro questo progetto. Perché mai dovremmo dare fiducia? Perché chi arriverà qui è stato inviato dall’UEPE, l’Ufficio del Ministero della Giustizia e un magistrato avrà vagliato ogni singola situazione. Perché queste persone sanno di aderire ad un progetto con regole precise che se trasgrediranno ne risponderanno davanti alla Giustizia. Perché è nell’interesse di tutti, della società intera, anche personale. Come dicevo prima, dare una seconda chance, operare perché il tempo di reclusione non sia seguito da nuovi reati, è meglio per tutti.

MISURE ALTERNATIVE ALLA DETENZIONE

Cosa sono Le misure alternative alla detenzione consentono al soggetto che ha subito una condanna di scontare, in tutto o in parte, la pena detentiva fuori dal carcere. In questo modo si cerca di facilitare il reinserimento del condannato nella società civile sottraendolo all'ambiente carcerario. A chi/come si applicano Le misure alternative alla detenzione si applicano esclusivamente ai detenuti definitivi (cioè con sentenza non più impugnabile) e sono principalmente: l'affidamento in prova al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà. Oltre a queste misure alternative alla detenzione, sono previste anche la liberazione condizionale e, per i cittadini di uno stato non appartenente all’Unione europea irregolarmente presenti in Italia, condannati o detenuti, l’espulsione dal territorio italiano come sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione. Rientra nelle misure alternative anche la detenzione domiciliare concessa ai condannati con pena detentiva (anche residua) non superiore a dodici mesi. Diverse misure = Diversi gradi di libertà Il diverso grado di libertà contrad-

distingue le varie misure: la semilibertà prevede di compiere un’attività fuori dal carcere per una parte della giornata, tor-

nando nell’istituto penitenziario quando non si svolge tale attività; la detenzione domiciliare permette di trascorrere tutto il tempo fuori dall’istituto, in un luogo determinato (abitazione, comunità, luogo di cura o assistenza) potendosene allontanare solo con l’autorizzazione del magistrato di sorveglianza, per brevi periodi e particolari ragioni, in casi e in ore stabiliti, con la vigilanza delle forze dell’ordine; l’affidamento in prova al servizio sociale è la misura alternativa con il grado di libertà maggiore, con possibilità di spostamento anche ampia, se motivata, ma sempre con l’autorizzazione del magistrato di sorveglianza e la supervisione dell’Ufficio per l’esecuzione penale esterna (Uepe) Chi viene ammesso I criteri di ammissibilità sono vari e tengono conto innanzitutto dell’entità della condanna, della pena già espiata e da espiare, che andranno poi rapportate anche a determinate condizioni soggettive (per esempio età, stato di salute, stato di gravidanza, tossicodipendenza, presenza di figli con età massima di dieci anni). La concessione di una misura alternativa deve essere chiesta al Tribunale o al Magistrato di Sorveglianza, secondo i criteri di ammissibilità propri di ciascuna misura. I detenuti che hanno beneficiato di -5-

permessi premio, senza trasgredire le prescrizioni, durante la permanenza in carcere, hanno maggiore probabilità che sia loro concessa una misura alternativa.

Misura alternativa anche per persone non detenute

Possono beneficiare di una misura alternativa anche coloro i quali, al momento della condanna a una pena non superiore a tre anni di reclusione (o a sei anni, se si tratta di soggetto dipendente da alcool o droga), siano in stato di libertà: il pubblico ministero, come prevede l’art. 656 del codice di procedura penale, sospende l’esecuzione della sentenza per trenta giorni, entro i quali l’interessato (o il difensore) potrà presentare istanza di concessione di una misura alternativa.

Chi concede l'ammissione

Verificate le condizioni di ammissibilità, la concessione di una misura alternativa – e la scelta tra esse, compresa la libertà condizionale – è decisa dal magistrato (in via provvisoria) o dal Tribunale sia sulla base delle valutazioni relative all’interessato (per esempio la cosiddetta “residua pericolosità sociale”, il comportamento in carcere, eventuali collegamenti con la criminalità organizzata) sia sulla base di presupposti oggettivi.


Il tesoro dei giornali è la fiducia dei lettori

a cura di Valentina Paderni

“La credibilità si dimostra con la coerenza, l’equidistanza, la verifica delle fonti, la capacità di ascolto della gente e di dar voce a posizioni diverse”. Dare informazioni non è mai semplice. Presuppone una conoscenza e un atto di fiducia. Anche il fornire un’indicazione stradale è possibile solo se si conosce il luogo in cui ci si trova e il seguire quell’indicazione è un affidarsi a chi ti ha dato quel suggerimento. A volte, con onestà, ci si ritrova a dire: ‘Mi spiace, non abito qui. Non conosco la zona. Non posso aiutarla». Ecco, sì, questo atteggiamento bisognerebbe assumerlo anche in altre circostanze. Basterebbe fare un passo indietro, evitare di assumere il ruolo del ‘tuttologo’ facendo circolare informazioni inesatte, e tacere. Ammettere di non sapere. Stare in silenzio.

Anche con la tastiera di un cellulare o di un computer. Semplicemente, ascoltare o leggere. Fidarsi di chi dovrebbe avere le competenze per rispondere. Fare informazione, ossia crearla per poi condividerla, è ancora più difficile. Fare buona informazione, approfondita e verificata, è una sfida quotidiana. Richiede attenzione al territorio e buona memoria, ti impegna nel fare ricerca, ti sfianca nel trovare contenuti e testimonianze, ti prende tempo nella stesura organizzata e precisa del testo. Non è ‘chiacchierare’ su carta. E’ un fare di passione, con passione. E’ una responsabilità. Un essere strumento e farsi strumento. Fare buona informazione non è solo un diritto, ma è soprattutto un dovere, un dovere di lealtà, di correttezza e buona fede: solo così, credo, si può costruire un rapporto di fiducia tra la stampa e i lettori. Per questo, abbiamo coinvolto nella realizzazione di questa edizione speciale de “La Via”, il direttore del quotidiano piacentino Libertà, Stefano Carini, che si è reso immediatamente disponibile a rispondere alle nostre domande. Direttore, come può un quotidiano locale risultare credibile ai suoi lettori?

Stefano Carini direttore del quotidiano “LIBERTA” Nato a Piacenza il 17 dicembre 1959, Stefano Carini vive a Rivergaro, è giornalista professionista iscritto all’Ordine dell’Emilia Romagna dal 30 novembre 1987. Dal primo gennaio 2016, è alla guida di Libertà, nel ruolo di direttore, al posto di Gaetano Rizzuto. Prima è stato lettore, collaboratore dal 1978 (poi assunto nel 1986), redattore, vice-caposervizio, vice-caporedattore, poi caporedattore. Appassionato di sport, è tifoso juventino e instancabile maratoneta. Ad inizio anno ha curato, per una settimana, come editorialista il programma “Il giorno e la storia” in onda sul canale Rai Storia.

«Il discorso è ampio e complesso. In generale sull’informazione cartacea ha soffiato forte un vento anticasta. I giornali a un certo punto sono stati soprattutto visti come uno strumento di lotta politica, capaci di manipolare la realtà a seconda del partito di riferimento. Con l’aggravante di essere beneficiari di soldi dello stato. Sotto accusa le grandi testate nazionali, ma nel calderone è finita anche la stampa locale. Delle serie tutti i giornali sono uguali. Non generalizzo, dico solo una cosa, dall’alto dei miei 40 anni di militanza in via Benedettine 68: Libertà non è uguale agli altri. Libertà rende conto prima di tutto ai -6-

lettori, Libertà non ha contributi pubblici ma vive del suo lavoro; Libertà, forte anche di 135 anni di storia, anche in questi tempi difficili ha conservato una buona dose di credibilità. Lo si capisce dalle reazioni che suscitano i nostri articoli quando vanno a toccare certi nervi scoperti. E lo si capisce da quello che di positivo riesce a mettere in moto. Penso alle catene di solidarietà a favore di persone in difficoltà. La credibilità si dimostra con la coerenza, l’equidistanza, la verifica delle fonti, la capacità di ascolto della gente e di dar voce a posizioni diverse». Come un direttore deve guidare un gruppo redazionale per fare in modo che si riempia un giornale di contenuti? «Il direttore, se mi permettete il paragone, è come un allenatore di calcio: molto dipende dalla squadra. Libertà ha un organico ristretto rispetto ad altre realtà, ma può contare su professionisti seri e su un gruppo di bravi collaboratori. Il direttore deve fare in modo che la squadra possa dare il meglio e detta la linea, che nel nostro caso privilegia al massimo tutto quello che riguarda la vita quotidiana dei lettori, più che le storie di “palazzo”. Noi cerchiamo le storie della gente e vogliamo essere al fianco della gente. Il direttore deve anche essere pronto a risolvere i problemi che non mancano mai dentro e fuori la redazione. Per come la vedo io, è un regista che sta dietro le quinte, il protagonista è il giornale». Fake news: un’epidemia virale. Esiste un ‘vaccino’? «Le fake news, letteralmente notizie false, sono diventate protagoniste ed è il segnale più eloquente del degrado raggiunto dalla nostra informazione. Mi direte: le notizie false, le cosiddette bufale, sono sempre esistite. E’ vero, ma è altrettanto vero che la carta stampata

con le sue regole deontologiche e con un naturale, reciproco controllo tra le varie testate aveva gli anticorpi per smascherare i truffatori. Quando un giornalista scrive ci mette nome, cognome e soprattutto la faccia, sia quando descrive fatti che quando esprime un’opinione, e si prende le relative responsabilità. Adesso sui social, che sono diventati la fonte principale di informazione grazie allo sviluppo tecnologico, scorre un fiume dove tra notizie vere ce ne sono tante altre mascherate come tali, per carpire la frettolosa buona fede di chi legge. Molti si fermano al titolo senza nemmeno leggere il post, che ad una analisi normalmente attenta a volte rivela la sua natura. La cosa grave è che in questo modo si crea opinione e la si distorce. Le fake news hanno condizionato il voto americano, mentre da noi sono entrate pesantemente in campo negli ultimi appuntamenti elettorali».

prerogativa unica: la possibilità, grazie ai tempi diversi, di controllare meglio l’attendibilità della notizia». Quale ruolo avrà (se lo avrà) la carta stampata nel farsi portavoce di informazioni teoricamente più dettagliate e approfondite che non un flash sul web che può solo alimentare polemiche e discussioni fomentate dai troppi tuttologi che popolano la rete?

«Sono convinto che la carta stampata potrà avere ancora un suo ruolo. Soprattutto quella locale, che identifica un territorio e ne rappresenta una risorsa. Noi, oltre a verificarla meglio, abbiamo la possibilità di andare oltre la notizia approfondendola. E ci sarà sempre chi vorrà capire o semplicemente farsi un’opinione meno superficiale».

Come la veridicità di una notizia si scontra con la velocità di flusso delle informazioni oggi? Ha senso che la carta stampata debba ‘rincorrere’ ciò che appare sui social, quando dovrebbero essere i social a rincorrere la carta stampata che parere mio - dovrebbe garantire una maggiore qualità dell’informazione, ciò che dovrebbe fare la differenza nel mantenere un rapporto di credibilità e fiducia fra giornali e lettori? «Come ho detto prima, spesso è il dolo più che la fretta ad avvelenare il pozzo delle informazioni social. Ma non bisogna nemmeno demonizzare a priori tutto quello che si legge lì. Spesso le persone attraverso i propri profili rivelano fatti di cronaca che altrimenti non emergerebbero. La carta stampata quindi non deve rincorrere i social, che vincono la sfida sul tempo, ma deve pescare quello che può sembrare utile, aggiungendo una

27 gennaio 1883 foto del primo numero del quotidiano -7-


Passaporto italiano cuore mediterraneo Carlo, Lorenzo, Gian Marco e Francesco: la fiducia ‘nell’isola che c’è’, ma non in Italia Per partire non serve coraggio. Serve fiducia. tanta fiducia in se stessi e tanta fiducia negli altri. Fiducia in se stessi perché devi farcela, puoi farcela. Fiducia negli altri perché quando sei straniero, quando non conosci nessuno, quando fai anche fatica a comunicare, non puoi non avere fiducia nell’altro. Dell’altro hai bisogno, a maggior ragione quando sei solo. Le storie che raccontiamo oggi sono dunque storie di fiducia, nelle proprie capacità e in realtà che si ha la sensazione siano più promettenti rispetto a quella italiana: sono le storie di nostri giovani cadeensi che hanno scelto di partire, chi per necessità di svolgere in modo rispettato la propria professione, chi per avere una formazione più completa, chi per aver trovato una posizione lavorativa che premiasse l’impegno negli studi svolti.

Francesco Giovinazzo Età: 20 anni «Durante l’estate tra la quarta e la quinta liceo sono volato in Spagna per due mesi come ragazzo alla pari: lavoravo come babysitter e sono stato ospitato nella famiglia dei bambini che curavo. Era la mia prima estate da maggiorenne. Ho iniziato in quel momento a lavorare su me stesso, a conoscermi meglio, a fare le scelte giuste senza l’appoggio concreto della mia famiglia, ad essere forte e motivato, a crescere veramente. Finito il liceo sono partito allo sbaraglio per Londra con Linda, una mia compagna delle medie. Eravamo entrambi presi dalla voglia di sentirci autonomi e indipendenti, e di migliorare il nostro inglese. Londra è stata la prova di sopravvivenza più dura che abbia mai affrontato. Lavoravo full time come cameriere in uno dei ristoranti più lussuosi e celebri della città. Le ore di lavoro giornaliere erano infinite. Il dress code non era uno dei più comodi: camicia, giacca, cravatta, grembiule fino alle caviglie e scarpe rigorosamente eleganti e taccheggianti. Alla fine del turno mi sentivo distrutto ma allo stesso tempo gratificato perché i manager, che io fossi stato impeccabile o al contrario una schiappa, venivano verso di me, mi tendevano la mano e mi ringraziavo per il lavoro svolto. Ci ho messo una settimana ad essere bravo, a ricordarmi le posizioni dei tavoli, l’ordine in cui dovevo servire ogni cliente, ad essere attento a non far cadere tre piatti contemporaneamente e ad abituarmi ai piatti ustionanti. Ma senza l’appoggio di colleghi, manager e responsabili, che mi incoraggiavano a vedere ogni sbaglio

come un’opportunità per crescere ed imparare, non sarei riuscito a credere così tanto in me stesso e in così poco tempo. A giugno ho scoperto di essere stato ammesso all’università più prestigiosa di Francia e una delle più riconosciute al mondo. Quindi a settembre sono partito per Parigi, da solo. La prima difficoltà rincontrata è stata trovare una sistemazione adeguata. In sei mesi ho cambiato casa nove volte, e non perché non mi trovassi bene ma perché le uniche case disponibili lo erano per tempi limitati. La seconda difficoltà è stata trovare degli amici. I parigini sono molto particolari, freddi, chiusi, pronti a screditarti se sbagli mezza pronuncia di una parola. In università sono il più popolare della facoltà: italiano, socievole, simpatico. Tutti mi salutano e tutti vogliono essere miei amici. Ma il problema è fuori. Tutti vivono la propria vita, con i loro amici di sempre. E io tornavo a casa e mi sentivo solo. Ho iniziato così nuovamente un percorso alla scoperta di me stesso. Mi sentivo cambiato e ovviamente le mie esigenze non erano le stesse che avevo fino a qualche anno prima. Ho cercato di capire cosa volevo veramente, chi era il nuovo me. Dopo di che ho iniziato un percorso sull’accettazione, senza mezzi termini, di chi sono realmente. Ho accettato tutti i difetti fisici che sentivo di avere e migliorato quelli caratteriali. Ora posso finalmente dire di sentirmi bene anche qua, anche se sono da solo. Ho finalmente trovato degli amici veri. E io, come persona, mi sento realizzato. Ho tutto quello che una persona fortunata può avere: la salute, una famiglia che mi ama, e l’amore per me stesso».

Gian Marco Lambertini Età: 28 anni Titolo di studio: Laureato in Economia e Management Internazionale presso l’Università Cattolica di Piacenza. All’estero dal 2011: fino al 2013 a Breda (Paesi Bassi), dove mi sono laureato alla Avans University, e poi a Bruxelles (Belgio), dove lavoro, da 5 anni, come assistente parlamentare presso il Parlamento europeo. «Non è facile descrivere con precisione quali siano i miei compiti, in quanto il mio lavoro deve supportare le attività di un eurodeputato italiano sia a Bruxelles che in Italia, oltre che durante le sedute plenarie del Parlamento a Strasburgo e nella varie missioni in Europa e nel mondo. Un’attività che mi porta a essere il vero e proprio intermediario fra l’eurodeputato e tutti -8-

gli attori coinvolti nel processo decisionale e legislativo europeo: dai rappresentanti delle altre istituzioni (Consiglio e Commissione europea), a quelli dei governi e delle amministrazioni dei 28 paesi membri dell’Unione, alla società civile, la quale ricopre un ruolo di sempre maggior rilievo nella definizione delle normative, alla stampa. Oltre all’aspetto relazionale, che ritengo essere quello che più mi ha arricchito in questi anni grazie alle persone che ho conosciuto e con le quali ho avuto il piacere di collaborare, l’attività pratica prevede la redazione di risoluzioni, relazioni, emendamenti, interrogazioni alla Commissione europea, discorsi e documentazione a supporto dell’attività parlamentare. A differenza di molti altri ragazzi della mia età, che hanno vissuto la scelta di uscire dall’Italia come qualcosa di obbligato o addirittura forzato, per me ha sempre rappresentato invece un’opportunità, da cogliere assolutamente, soprattutto in un’epoca in cui le distanze si accorciano ampliando incredibilmente il raggio di azione di ognuno di noi. Certo, l’allontanarsi da Cadeo, dai propri cari, dalle proprie abitudini non è semplice, ma l’aver potuto conoscere compagni di università, colleghi, amici con culture e trascorsi totalmente differenti dalle nostre, è un valore aggiunto davvero cruciale: un valore aggiunto che sicuramente, in futuro, voglio mettere a disposizione in Italia. Ora però, per quelli che sono i miei progetti, ritengo l’esperienza a Bruxelles la più funzionale per proseguire la mia crescita sia professionale che, soprattutto, personale, tenendomi sempre ben strette le nostre radici e, appena possibile, prendendo un aereo per tornare a Cadeo a bere il nostro impareggiabile caffè con gli amici di sempre, o a mangiare un piatto di pisarei insieme alla mia famiglia!».

Carlo Rossi Età: 28 anni Titolo di studio: Laurea magistrale in medicina veterinaria Professione: Medico veterinario Vive all’estero da 2 anni, principalmente in Irlanda «Ho scelto di espatriare perché non c’erano possibilità di lavoro e crescita professionale nel mio paese e perché amo l’Irlanda. Tra le prime difficoltà c’è stato l’ambientarsi, da solo, in una realtà dove la maggior parte delle persone non ha mai visto uno straniero o non è mai uscita dai confini nazionali. Ho comunque trovato tutti sempre molto disponibili ed

accoglienti, il che mi fa spesso sentire a casa. Gli irlandesi sono gente folle ed incredibile al tempo stesso. Gli agricoltori locali guardandomi ricordano ancora con amarezza il gol di Schillaci che li eliminò dai quarti di finale di Italia ‘90. Finché paghi le tasse, comunque, vai sempre bene. In Italia, il mondo del lavoro è davvero troppo complicato. È un ottimo paese per la formazione e penso tornerò presto per svolgere un internato in una clinica specialistica solo per avere più competenze da portare con me in Irlanda. Nel mio campo professionale però, come penso in tanti altri purtroppo, spesso lavori senza nessuna certezza di venir retribuito a fine mese e con un grado di tassazione che rende quasi impossibile pensare ad un’attività libero professionale (come purtroppo il nostro stato ci impone). Mi è capitato purtroppo più volte di lavorare in diverse cliniche in Italia per mesi senza alla fine ricevere nessun compenso. Per non contare le persone che vedono più la tua professione come una missione e non come un lavoro, con i suoi costi. All’estero vedo la mia figura professionale più rispettata. Potrei paragonare l’Irlanda ad un’Italia degli anni ‘60: forse molto indietro per certi aspetti, ma con molto più rispetto per le categorie professionali. Molte sono purtroppo le cose che l’estero può offrirmi in più, dal punto di vista lavorativo, comparato all’Italia, ma è altrettanto vero che mi mancano le piccole cose di essere a casa. Sapere di incontrarti con persone che conosci da sempre e poter fare molto di più che solo il tuo lavoro, sia nell’ambito del volontariato che nelle amicizie coltivate una vita, mi manca spesso. Spero di riuscire nel futuro a far combaciare queste due realtà riuscendo a tornare a casa più spesso e dedicandomi di più a ciò che mi fa stare bene».

Lorenzo Villaggi Età: 27 anni Titolo di studio: Laurea in architettura ambientale al Politecnico di Milano nel 2012 e laurea specialistica in architettura presso la Graduate School of Architecture Planning and Preservation (GSAPP) alla Columbia University nel 2015. Vive a New York da sei anni. «Verso la fine dell’estate 2015 ho cominciato a lavorare presso uno studio emergente di architettura sperimentale che si chiama The Living dove cerco di trovare connessioni fra natura, informatica e architettura. In particolare mi occupo della ricerca e applicazione di nuovi metodi di progettazione generativi

e computazionali, studio materiali viventi e esploro la quantificazione dell’esperienza spaziale degli utenti. Insomma il lavoro mischia ricerca (che spesso si tratta di pubblicazione di articoli scientifici) e progettazione sperimentale. Allo stesso tempo ho fondato “:” (pronunciato “colon” che significa “due punti” in inglese) una rivista che si occupa di interrogare criticamente la disciplina dell’architettura e i suoi effetti nella città contemporanea e ho cominciato ad insegnare nella stessa università dove mi sono laureato. Ho deciso di spostarmi a New York principalmente per l’offerta formativa della Columbia che tratta architettura in una maniera teorica, sperimentale e “allargata” che al momento corrente la scuola italiana non offre in quanto piuttosto conservatrice e generalmente non incline ad aprirsi al nuovo, all’inusuale e priva di una visione critica del futuro della disciplina. Similmente, al momento attuale non credo sarei desiderato nella dimensione professionale italiana, nella quale una visione rigida dell’architetto e progettista non mi permetterebbe di trovare lo spazio o la domanda necessaria per poter praticare la mia visione della disciplina. Nonostante l’Italia abbia avuto nel corso del ‘900 grandi maestri e personaggi che si sono rivolti al futuro per potere spingere i limiti della disciplina (utilizzati peraltro spesso da accademici in tutto il mondo come modelli di riferimento per un’approccio sperimentale e radicale) la condizione attuale sia accademica che professionale è priva delle condizioni culturali per poter fare progredire la disciplina architettonica di cui l’Italia ha (fino a qualche tempo fa) sempre vantato un ruolo da innovatrice ed esempio a livello globale. Al contrario negli USA, in particolare a New York, grazie ad una apertura nei confronti del nuovo, l’attrazione di talenti da ogni parte del mondo, una connessione molto diretta tra accademia e realtà professionale e enti culturali che promuovono anche a livello finanziario giovani studi, ha dato frutto a diverse generazioni di progettisti che stanno trasformando l’industria del costruito spingendola verso nuove frontiere. È in questa comunità che ho trovato e trovo tutt’ora lo spazio per potere riflettere nei confronti della disciplina e praticarla in modo diverso e nuovo».

Lorenzo Galliacci Età: 28 anni Laureato in Marketing all’Università di Parma con un Master in Marketing e Retail all’Università di Torino. E’ all’estero -9-

a cura di Valentina Paderni da 3 anni: 1 anno in Australia, 8 mesi in Corea del Sud e da un anno vive a Londra. Occupazione: Assistant store manager in Selfridges (department store nel cuore di Londra) “La mia esperienza oltre il confine italiano si è connotata da tre 3 momenti molto diversi tra loro.L’ Australia è stato per me il famoso anno sabbatico o per farla all’inglese il “gap year” durante il quale avevo voglia di vedere cosa potevo fare lontano da casa, in un paese lontanissimo e senza nessuno che conoscessi. E’ stato bellissimo. La Corea è capitata come opportunità di stage che ho avuto con l’Università di Torino, con ancora tanta voglia di esplorare e uscire dai nostri confini, sono stato parte di un progetto export di un consorzio di aziende toscane del settore dell’abbigliamento. La cultura e le difficoltà incontrate in termini di lingua e contesto sono quelle che poi hanno reso il viaggio memorabile nel mio immaginario e nei miei ricordi.Ora che vivo a Londra mi sento quasi a casa confrontando le distanze oggettive dall’Italia rispetto alle due precedenti destinazioni, è stato fare un passo più vicino a quello che è sempre stato il mio contesto mantenendo la passione e l’adrenalina di vivere in un ambiente differente.Attualmente lavoro come Assistant store manager per un brand di moda che si chiama Allsaints, in una delle principali sedi del brand e con un team di oltre quaranta persone impiegate nel negozio. Di questo percorso è stato incoraggiante soprattutto il fatto che sono arrivato a Londra solo un anno fa e in relativamente così ‘poco’ tempo mi è stata subito offerta una posizione che combacia perfettamente con quelle che prima avevo solo studiato ed in un settore, quello della moda, che mi aveva sempre affascinato.Ciò che posso dire è che io non penso di far parte di quella fetta che vive all’estero perché è fuggito dall’Italia, ma d’altra parte penso che in Italia probabilmente ci sarebbe voluto molto più tempo per raggiungere un contratto indeterminato, un livello di sicurezza economica che ti permetta di vivere normalmente e indipendentemente e una determinata posizione lavorativa.Sicuramente Londra è il posto per chi ha voglia di fare e ha voglia di rimboccarsi le maniche e può succedere che meritocraticamente si riesca ad emergere, anche piuttosto rapidamente.Ciò che non posso assolutamente dire è come sarebbe andata in Italia. L’obiettivo ovviamente è tornare un giorno, così da avere una risposta”.

«Sono un migrante, non ho radici ma piedi per camminare, coraggio la fantasia in viaggio» Jovanotti


Se puoi sognarlo, devi farlo. Geocart e Il Calabrone: storie di chi ha sfondato nel mercato del lavoro grazie a fiducia e gratuità

Mi prenderò cura di te

Non ci può essere cura senza relazione e non ci può essere relazione senza fiducia Elisabetta Parenti

Erika Negroni "La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d'angolo". Facile pensare a questo versetto quando si vedono uomini e donne che del ridonare dignità agli esclusi e agli ultimi, attraverso il lavoro, ne hanno fatto una missione. Un accostamento che ha forse il sapore del profano ma che appare azzeccato per due realtà vicine a noi: Geocart di Piacenza e Il Calabrone di Cremona GEOCART, QUANDO IL PROFITTO ECONOMICO VA A BRACCETTO CON QUELLO SOCIALE https://www.geocart.coop/ "L'attività prinGEOCART cooperativa cipale sociale non è quella che si vede, eppure c'è. Ciò che conta di più non sono la manutenzione del verde o la raccolta rifiuti che realizziamo, ma il fatto che inseriamo nel mondo del lavoro persone che in questo periodo storico di fiducia non ne godrebbero assolutamente; persone in cui, di norma, nessuno ha fede". Parole di Cristina Caviglioni, presidente di Geocart, una cooperativa sociale

piacentina nata nel '95 con il preciso obiettivo di operare a favore di coloro che si trovano in una situazione di precarietà lavorativa. Dalla gestione del verde pubblico (cura, progettazione e potatura) passando per le attività che riguardano l'igiene pubblica (spazzamento meccanico strade, raccolta rifiuti, gestione centri raccolta), fino alla gestione di un centro socio riabilitativo diurno e di una mensa aziendale, tanti sono i campi in cui Geocart eccelle, ma i protagonisti sono sempre loro: i lavoratori. "Il vero riciclo non è quello dei rifiuti ma quello della fidu-

cia che riponiamo nelle persone - prosegue Cristina -. Fiducia che i lavoratori qui acquisiscono, fanno propria, e la riversano su altri. Così nasce un circolo virtuoso che dona fiducia a tanti". Mentre ovunque dilaga la caccia del profilo super competente, Cristina apre le porte a chi la società gli ha già sbarrato ogni strada. "Mi fai andare da solo? mi chiede talvolta qualcuno. Sì, li lasciamo andare, ci fidiamo, e il lavoro viene portato a termine, ben fatto. Così per qualcuno il camion della cooperativa diventa il mio camion, e si responsabilizza".

STORIA DI UN "CALABRONE" CHE FA VOLARE L'ECONOMIA http://www.apg23.org/it/cooperativa_il_calabrone_cremona/

“È venuto il momento di gridare che un’altra economia è possibile, a patto che ci siano dei professionisti che accolgano la chiamata ad investire le loro capacità per cambiare il sistema”. E' Enzo Zerbini che si racconta, il responsabile de Il Calabrone” di Cremona, cooperativa sociale che si occupa di metalmeccanica di precisione nata all'interno della Comunità Papa Giovanni XXIII. La cooperativa nata nel

1996, all'inizio si occupava di semplici lavori di assemblaggio: nessun guadagno e nessuna dignità restituita a chi vi lavorava. Poi il grande salto nel ramo metal meccanico che ha portato Il Calabrone ad aver alti standard di professionalità, avanguardia tecnologica e competitività. Oggi tra i clienti figurano molte aziende piacentine, dalla Bolzoni a Rolleri, e la metà di lavoratori che vi opera viene da percorsi terapeutici o dal carcere. "Abbiamo dimostrato al mondo del mercato del lavoro che è possibile starci vivendo

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una realtà di gratuità - ha più volte ricordato Primo Lazzari, presidente della cooperativa e vice presidente dell'associazione Papa Giovanni XXIII -. Una realtà dove varie capacità si fondono insieme e danno vita a qualcosa di significativo, di bello e che può stare sul mercato". "Prima lavoravo in aziende importanti del piacentino - conclude Enzo - e quando facevi un colloquio cercavi le persone migliori. Oggi le persone che prendiamo in Cooperativa sono quelle che il Signore ci manda".

“Dal suo sguardo dipendeva tutto. Perché quello che aveva detto e che ancora poteva dire – “guarirà, non ho mai mentito ai miei pazienti” – erano soltanto parole, anche se diceva la verità. E in quell’istante seppi con certezza che tutto quello che avrebbe potuto fare nel mio interesse – iniezioni, radiazioni, terapie e farmaci-sarebbe stato inutile e insensato se noi due, il medico e io, non avessimo stretto una sorta di alleanza, o contratto in cui si stipulasse che lui era il mio medico, e per questo sarebbe stato capace di guarirmi. Tutti e due sapevamo, senza bisogno di esprimerlo a parole, che tutto dipendeva da questo: le frasi, le medicine e le terapie erano solo un di più.” (La sorella – Sàndor Màrai) Queste parole potrebbero, credo, essere sufficienti a descrivere quello a cui dovrebbe idealmente tendere il rapporto tra un paziente e il suo medico. Riproporle oggi, cercare di renderle credibili, mi sembra davvero la sfida che la mia professione sta attraversando in questo tempo. Un tempo di grande crisi e trasformazione profonda: dove la cifra più evidente di questa crisi è proprio il venir meno del rapporto di fiducia tra medico e paziente. Mi lascio guidare da queste parole e dall’immagine che trovate sulla copertina di questo numero de “La Via” e in particolare dalla corda che unisce tra loro gli alpinisti. Corda simbolo di un legame e quindi di una relazione. Una relazione particolare quella che si instaura tra medico e paziente, una relazione di cura. E nessuna relazione autentica e feconda può esistere senza fiducia. Oggi si verifica una oscillazione tra due estremi ugualmente pericolosi. Da una parte il paternalismo con la presunzione del curante di decidere quale sia l’interesse autentico, il “bene” del malato e quindi quale terapia attuare, senza entrare in comunicazione con chi soffre. All’opposto un atteggiamento di asettico distacco in cui la narrazione della malattia si limita alla enunciazione di una serie di numeri e statistiche che di fatto lascia il paziente, e chi lo assiste, in uno stato di profonda solitudine di fronte a quella che

essenzialmente è una lotta impari, il cui risultato non è per nulla scontato. Tra questi poli opposti esiste una terza via, quella dell’alleanza terapeutica in cui, tra paziente e medico, esiste una condivisione di obiettivi, un definizione dei rispettivi ruoli ed un legame caratterizzato da fiducia e rispetto. E alla radice di ogni alleanza, come nell’Alleanza tra Dio e il popolo, c’è sempre una promessa. Qual è questa promessa? Occorre saper dire, non a parole ma attraverso la presenza, la tenacia, l’umanità e la verità, “io ci sono e mi prenderò cura di te, di questo tempo che è quello della malattia e della fragilità, mi prenderò cura di una storia, non solo di una patologia”. Tutto questo ovviamente deve essere accompagnato da aspetti di carattere scientifico e culturale: uno studio incessante (perché la prima carità al malato è la scienza) e la continua revisione critica del proprio operato. Questa è sempre una promessa di cura, non di guarigione, che purtroppo non può essere certa. Ma anche nelle situazioni apparentemente più disperate occorre continuare ad accompagnare, aiutare a capire ciò che si può ancora fare, sostenere nella lotta, spesso indeterminata e cronicamente duratura,

che si dovrà ingaggiare. Bisogna essere capaci di fare in modo credibile questa promessa, anche ammettendo la propria insufficienza e inadeguatezza. Ricordo una notte di guardia in cui una paziente si è improvvisamente aggravata. Prima di perdere conoscenza, rendendosi conto di quel che accadeva, si è girata verso di me, mi ha guardato e detto “dottoressa, ho paura”. Non ricordo se le ho detto qualcosa, spero di non averlo fatto, perché in una situazione di questo genere le mie parole mi sembrano invariabilmente sciocche. Ricordo invece che le ho preso una mano, perché volevo si sentisse afferrata, e ricordo con assoluta precisione quello che ho pensato, “mio Dio, come si può essere all’altezza davanti ad una cosa così?” Penso che un essere umano non possa essere all’altezza. Penso che non mi sentirò mai adeguata, e spero che mai mi lasci tranquilla o indifferente un grido come questo. Ma so che a soccorrere questa inadeguatezza umana c’è un Altro, in cui la fiducia non viene mai tradita. Come nella cordata della foto di copertina anche in un percorso di cura, che spesso è faticoso come una scalata, si può sempre pensare di essere almeno in tre.

“Scienza e Carità” Pablo Picasso 1897 (197 x 250 cm) Museo Picasso, Barcellona

“Scienza e Carità” è stato realizzato da Picasso quando aveva appena quindici anni, Picasso dispone i vari protagonisti in modo tale che lo sguardo vada direttamente sul malato l’atmosfera che riempie il quadro è accogliente e familiare. - 11 -


Cittadini e politica Quando la fiducia si guadagna goccia a goccia, ma si perde a litri «Ci sarà sempre chi ti critica, l’unica cosa da fare è continuare ad avere fiducia, stando attento a chi darai fiducia due volte». Iniziamo con questa citazione di Gabriel García Márquez (Premio Nobel per la letteratura nel 1982) che ci pare essere appropriata per l’intervista che andremo a proporvi. C’è un ambito in cui tutti noi diamo molta poca fiducia, quello della politica. Dimenticandoci spesso due cose: 1.Che ogni politico, prima di essere tale è uomo, e da uomo non è esente da errori e da difetti; 2.Che la politica, sebbene per alcuni appaia essere una ‘cosa’ per pochi e distante da noi, in realtà è ciò che noi mettiamo in pratica tutti i giorni e forse, prima di sparare sentenze contro chi tenta di governarci dovremmo guardarci allo specchio e chiederci ‘io, cosa sto facendo, oltre a sparlare e a lamentarmi?’. Abbiamo coinvolto in questa edizione de La Via, tre politici locali, che rappresentano ciascuno un’istituzione differente: Tommaso Foti (TF), recentemente eletto in Parlamento, Matteo Rancan (MR), consigliere regionale, e Patrizia Calza, vicepresidente della Provincia di Piacenza. Contattati via mail, specificando a tutti che si trattava di una collaborazione volontaria e senza alcun fine propagandistico, ecco chi ci ha risposto. Quando è iniziato il tuo impegno politico e perché hai scelto, la prima volta, di diventare parte di un meccanismo in cui pochi hanno fiducia, e continui ogni giorno a confermare questa scelta? MR: «Mi sono iscritto alla sezione Lega Nord di Cortemaggiore quando avevo 17 anni, ossia 10 anni fa. La Lega a Corte, dove sono stato assessore comunale, è sempre stata abbastanza radicata, varie persone che conoscevo erano già iscritte al partito, così sono stato coinvolto. Mosso da uno spirito di servizio, per cui mi sarebbe piaciuto fare qualcosa per il paese, mi sono messo in gioco. E confermo tutti i giorni questo impegno perché le speranze che avevo allora, circoscritte a fare qualcosa per il mio paese oggi mi piace farle ad un livello superiore, per la provincia e la regione. Lo spirito con cui ho iniziato la mia attività in politica non

è cambiato. Ho fiducia in me stesso, nel poter essere utile ai miei cittadini. Credo di essere capace di poter fare qualcosa di buono per la gente». TF: «Ho iniziato ad interessarmi di politica a metà degli anni ‘70. Allora nelle scuole, ho frequentato il Liceo Scientifico, si tenevano molte assemblee da parte degli studenti e reagii spontaneamente al tentativo dell’estrema sinistra di monopolizzare ogni discussione. Di lì a farmi appiccicare addosso l’etichetta di <fascista> il passo fu breve. Anziché impaurirmi questo tipo di reazione dei miei contraddittori mi radicò nella convinzione di rappresentare idee giuste.

Venni eletto, la prima volta, a 20 anni, consigliere comunale di Piacenza con circa 700 preferenze. Molti di quei voti, direi la maggior parte, mi venne attribuita da un mondo giovanile che vedeva in me una persona coerente e coraggiosa. Direi che quei giovani avevano ragione: io non sono mai fuggito dalle mie responsabilità, ne ho mai cambiato bandiera». Come si può recuperare il gap che tutt’ora esiste tra popolazione e istituzioni, considerato che la gente sente inadeguate le istituzioni a farsi carico e ad affrontare i problemi collettivi? TF: «La sfiducia che oggi si avverte nei confronti della politica è solo più accentuata rispetto a quella che i cittadini riservano ad altre Istituzioni. Il distacco tra cittadini ed istituzioni è frutto di un concorso di cause: da una parte, una classe politica autoreferenziale poco incline a mettersi in discussione; dall’altra il susseguirsi di pesanti crisi economiche e la conseguente caduta di certezze (ad - 12 -

esempio: il posto di lavoro) che ha indotto l’opinione pubblica a generalizzare e ad estendere un giudizio sommariamente negativo anche nei confronti di coloro che non hanno colpe». MR: «Se la gente è sfiduciata è perché sono stati fatti tanti errori negli ultimi vent’anni. La politica di qualsiasi schieramento ha fatto troppi errori. E ha creato scollamento con la popolazione. Ora bisogna imparare a vedere il passato per migliorarsi. Non possiamo non ascoltare i cittadini. Io ascolto la gente. La politica non deve più dire ai cittadini cosa devono fare, la politica deve fare quello che i cittadini chiedono e i politici devono reimparare ad ascoltare perché troppe volte non lo fanno. Questo è il primo passo. Il secondo è fare le cose, non annunciarle e basta. Da assessore a Corte ho fato il possibile, ora in opposizione ho un ruolo diverso, spero di poter riuscire a dare un contribuito maggiore con una posizione di governo. Ascoltare e fare le cose che la gente chiede. Non fare politica dai palazzi, quello chiuso in se stesso o che si fida di statistiche è anacronistica. Deve stare in mezzo alla gente ed è così che dialoga con il cittadini direttamente». Come, da politici, vi sentite di fronte all’affermazione, in accezione negativa, di rabbia e rassegnazione ‘tanto sono tutti uguali’. Come si può recuperare fiducia con la gente? MR: «A me dispiace quando si fa di tutto l’erba un fascio. Capisco però che ci sia sfiducia. La mia missione è cercare di eliminare questa sfiducia nella gente, con una politica attiva per poter dare una speranza di cambiamento alla gente». TF: «Forse sono un privilegiato ma difficilmente mi sono sentito dire “che sono uguale” ai miei avversari. Certo, qualche volte viene scritto sui social, ma spesso e volentieri - se si va a verificare - si tratta di persone non desiderose di instaurare un confronto, ma soltanto di radicalizzare lo scontro, avendo già un’opinione politica ben definita. Tuttavia, per differenziarsi basta poco: occorre essere se stessi, evitare inutili smargiassate, sapere che oggi sei nelle stelle, ma domani puoi finire nelle...stalle!!! Insomma per dirla in pia-

centino ‘vula bas e schiva i sass’». Prima di essere politici, siete cittadini. Condividete il generale senso di sfiducia che si respira oggi nella società, in tutti i settori: dalla giustizia all’istruzione, dal lavoro alla sanità, dalla scienza alla religione. Oltre alla sfiducia nell’incontro con l’altro e nelle relazioni umane? Come poter invertire la rotta? TF: «Come sopra detto il senso di sfiducia che pervade l’opinione pubblica è ampio e non fa sconti a nessuno. Del resto, al di là della politica, anche altre Istituzioni hanno dato, in alcuni casi, pessimi esempi. Paradossalmente il cittadino non si scandalizza se uno senza arte né parte viene scoperto pedofilo, ma non accetta che pedofilo sia un politico o un prete. E il cittadino ha ragione, perché chi ricopre incarichi di responsabilità deve dimostrarsi all’altezza della stessa. Per invertire la rotta basterebbe che chi, per sua scelta o per le ragioni del suo ufficio, occupa una posizione privilegiata non si consideri mai legibus solutus, cioè esente dal dovere di rispondere delle proprie azioni». MR: «Certe volte sembra di non vivere in un paese normale ma in un paese che va al contrario. Posso capire che ci si molta sfiducia. Sono io il primo a condividere talvolta, non da sfiduciato ma da deluso dalle istituzione, il sentimento di tanti. Però il mio impegno in politica è anche questo: non rimanere a guardare, ma dato che sono deluso e certe cose non mi vanno, entro nel sistema per cambiarle. Non delego ma faccio. Lamentarsi e far presente ciò che non è giusto, è corretto però credo che sia altrettanto necessario rimboccarsi le maniche e dare un mano attivamente per cambiare ciò che non funziona». Se doveste cercare una o più probabili cause di questo dilagante senso di sfiducia, quasi un’emorragia, quale o quali sarebbero? E quale potrebbe essere la soluzione, il laccio emostatico da applicare? MR: «Molta gente schifa la politica, crede che la politica non sia utile, non serva a nulla e che chi la pratica sia solo pronto

a cura di Valentina Paderni

a rubare lo stipendio. Ma nel bene e nel male la politica incide sulla vita di tuti noi e ognuno, a modo suo, fa politica, anche solo occupando del suo territorio. Questo sentimento di mancanza di prospettive future è un grosso problema, sia per i giovani che per i meno giovani, che vedono i propri figli o i propri nipoti, tenere di stare a galla in una società poco solida. Dobbiamo però cercare, faccio un piccolo appello, di impegnarci in politica. I ragazzi di oggi non sono vittime di un sistema politico vecchio e dovrebbero impegnarsi proprio per questo, perché hanno onestà intellettuale. Non sono contaminati da convinzioni passate e quindi se fanno qualcosa lo fanno perché ci credono e non perché hanno secondi fini».

TF: «Vi sono due opposti atteggiamenti, fortemente radicati nella società, che finiscono per generare la sfiducia: l’egoismo di chi ritiene di avere raggiunto il sogno della vita e, quindi, guai a chi glielo tocca, e l’invidia sociale, cioè il non accettare che vi possa essere chi è più bravo e/o fortunato di te. Il mito della società competitiva, fondata molto sull’effimero e quasi niente sui valori, è negativo. Oggi la società vive il dramma di troppe persone che non si parlano, ma si denunciano; che non discutono, ma si picchiano; che non si confrontano, ma si odiano. La politica, ma non solo essa, deve concorrere a ricondurre entro i binari della ragionevolezza un treno sociale che pare impazzito. Se i cittadini non partecipano più alla vita sociale, se si rinchiudono nel privato, se delegano alle minoranze le decisioni che li interessano, non si può far finta di nulla. E forse il ‘laccio emostatico’ potrebbe essere rappresentato dalla scelta di porre la persona al centro della società e non la società al di là della persona». Da cittadina, faccio autocritica: quali sono le nostre colpe nel continuare ad - 13 -

alimentare quest’aria viziata di sfiducia? Quali finestre dovremmo aprire (e quali chiudere, forse) per cambiare l’aria malsana che ci circonda? TF: «Comprendo la protesta ed il senso di frustrazione delle persone, impotenti a sentirsi protagoniste in un mondo globalizzato che gira ad una velocità che esponenzialmente aumenta ogni giorno. Tuttavia non è inseguendo falsi maestri, personaggi con ricette miracolistiche più idonee a frequentare i circhi che il Parlamento, che si riuscirà a fare uscire l’Italia dalla bottiglia in cui si è rinchiusa. Ogni tanto servirebbe che l’opinione pubblica non solo contestasse ma anche proponesse e, soprattutto, si proponesse come alternativa nei confronti di coloro che non godono più della sua fiducia». MR: «Bisognerebbe guardare un po’ meno le ‘notizie’ sui social network perché non tutto quello che passa è verità. Tante sono le fake news. Bisogna invece studiare ed informarsi. Per capire bene ciò di cui si parla, prima di dire una sciocchezza studio l’argomento. Non bisogna dare giudizi, ma andare a fondo della questione. Certe cose possono essere molto più semplice di quelle che appiano ed altre più difficili. Informarsi è la soluzione oppure chiamare qualcuno che può essere informato per rispondere. Il mio numero ce l’ha il mondo. Chi vuole mi può contattare e trovare un aiuto. Il legame politico-cittadino è importante, se il cittadino ha dubbi può telefonare così da ricevere una spiegazione. Se è vero che il politico deve avere essere vicino al cittadino, è altrettanto vero che il cittadino deve provare a dare fiducia». Infine, la vostra personale conclusione. Lei ha fiducia in... MR: «Nel cambiamento. Che vuol dire avere fiducia nelle nuove generazioni. Ho fiducia in chi verrà, nei giovani con mente aperta che hanno studiato tanto, che siano aperti a tanti mondi e logiche che i politici troppo datati, che fanno politica da troppo tempo, non hanno». TF: «Se il quadro è oggi a tinte fosche, sono convinto che in futuro così non sarà. Io ho fiducia nel Popolo d’Italia».


Tutto il bene che c’è tra noi

Un libro, un film, un teatro

la nostra pagina informativa

la nostra pagina della cultura IL LIBRO Jean-Marie Ploux DIO NON E’ QUEL CHE CREDI Comunità di Bose

NUOVO CONSIGLIO PASTORALE PARROCCHIALE Ho frequentato la mia parrocchia in modo attivo da quando ero piccola e ho sempre avuto molto nitida l’immagine di una chiesa dove ognuno con le sue caratteristiche e specificità dona la sua parte, avendo presente l’obiettivo comune di camminare insieme ed essere testimoni di Cristo: “come il corpo è uno e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, benché siano molte, formano un solo corpo, così è anche di Cristo.” (1 Cor, 12,12) Quando mi sono trasferita a Cadeo, però ho iniziato vivendo una dimensione più intima e personale della mia fede, poiché per entrare pienamente in una comunità

nuova ci vuole tempo e non fretta, umiltà e non invadenza. Ma per me che ero sempre stata impegnata attivamente, questo restare in disparte stava diventando un po’ faticoso e ho iniziato a sentire l’esigenza di trovare il mio posto, di mettermi a disposizione, per sentirmi più parte della comunità parrocchiale. Ed ecco che una domenica mattina, durante la messa, è stata chiesta disponibilità a far parte del Consiglio Parrocchiale… la parte di me più attiva si è risvegliata e ho pensato che forse era giunto il momento di provare a mettermi a disposizione, insieme agli altri, per essere davvero corresponsabile

della direzione che la comunità parrocchiale prende, insieme al suo parroco. In un mondo dove spesso conta più l’individuo della collettività, qui si cerca di dare invece un giusto peso anche al camminare insieme nella stessa direzione, poiché questo dà forza reciproca e sostiene anche chi si trova in un momento di debolezza. Come afferma Filippo Clerici “da soli si cammina veloci, ma insieme si va lontano”…ed eccomi, quindi, in punta di piedi, speranzosa di poter dare il mio piccolo contributo a questa comunità in cammino. Daniela Germoni

membri eletti per il nostro consiglio pastorale

Quanto sono necessari, i consigli pastorali! Un Vescovo non può guidare una diocesi senza i consigli pastorali. Un parroco non può guidare la parrocchia senza i consigli pastorali. Questo è fondamentale! Papa Francesco

Don Umberto Don Stefano Diacono Elio Suor Adeline Fiorangela Riboni Fabio Piazza Stefano Costi Daniela Borlenghi

Daniela Germoni Francesco Rossi Davide Narcisi Stefania Menta Antonella Massa Paola Modè Laura Rizzi Riccardo Maucione

EQUIPE BATTESIMALE E' passato poco più di un anno dalla nascita dell'equipe battesimale della parrocchia di Roveleto e i frutti sembrano trovare forma nella foto che riunisce diverse delle famiglie che hanno battezzati i piccoli del 2017: gioia nei volti e un inno alla vita incarnato dai tanti bimbi presenti. E' la fotografia che ritrae operatori battesimali e famiglie che domenica 7 gennaio si sono riuniti in occasione della festa del Battesimo del Signore per far memoria del battesimo dei propri piccoli. “Vi auguro che i vostri figli crescano in età, sapienza e grazia e che Cristo sia al centro della vostra famiglia”, cosi il parroco don Umberto ha accolto genitori e bambini intervenuti al momento di festa. Preghiera, condivisione e una benedizione speciale per i neonati, vissuti nello spazio, raccolto e familiare, della cappellina del Centro Parrocchiale di Roveleto.

«Una falsa rappresentazione di Dio rende falsa anche la vita dell’uomo e degli uomini fra di loro» Con questa affermazione Ploux apre la questione mettendo sul tavolo le dinamiche in gioco: c’è un legame stretto tra l’esperienza

IL FILM

L’ORDINE DELLE COSE

Corrado è un alto funzionario del Ministero degli Interni con una specializzazione in missioni internazionali legate al tema dell’immigrazione irregolare. Viene scelto per un compito non facile: trovare in Libia degli accordi che portino progressivamente a una diminuzione sostanziale degli sbarchi sulle coste italiane. Le trattative non sono facili perché i contrasti all’interno della realtà libica post Gheddafi sono mol-

IL TEATRO

to forti e le forze in campo avverse con cui trattare molteplici. C’è però una regola precisa da rispettare: mai entrare in contatto diretto con uno dei migranti. Andrea Segre prosegue il suo viaggio attraverso le condizioni esistenziali di chi migra e di chi si trova a confrontarsi con il fenomeno. Questa volta però sposta in modo considerevole il punto di vista. Non più la comunità lagunare di “Io sono Li” o quella montana di “La prima neve “ (solo per rimanere ai film di finzione) ma un emissario (ex poliziotto) del Ministero impegnato a trovare una soluzione all’afflusso di migranti dal continente africano. Per una di quelle coincidenze che accado-

Dio… allora Dio non è quel che crediamo.» Una lettura breve che ha la forma di un piccolo saggio, scritto in un linguaggio quasi colloquiale e comunque sempre accessibile, molto scorrevole e fresco nello stile, di facile lettura. Quasi una riflessione ad alta voce di un settantenne innamorato di Dio, del mondo e dell’umanità che guarda al misterioso intreccio tra i tre con umiltà, curiosità e intelligenza e che condivide la sua passione con garbo e senza integralismi.

regia Andrea Segre no solo quando entra in gioco un elemento di ponderata preveggenza, lo stesso giorno in cui il film è stato presentato alla 74. Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, l’Ansa riportava una dichiarazione del Ministro della Difesa Pinotti soddisfatta dei “dati molto confortanti per quanto riguarda gli afflussi sia di luglio sia di agosto”. Dati, ovviamente, che davano gli sbarchi in consistente diminuzione. Questo significava forse che il numero dei migranti fosse ‘miracolosamente’ mutato in consistenza? Assolutamente no. Significava solo che gli stessi avevano iniziato ad essere bloccati dalle forze libiche in cambio di consistenti esborsi di denaro. Il rispetto dei diritti umani faceva parte del prezzo pagato?

LEILA DELLA TEMPESTA di Alessandro Berti “Leila della tempesta”. Il carcere, il monaco, il dialogo.

Un’avventura di dialogo tra le culture. Questo è Leila della tempesta. Lo spettacolo, di Alessandro Berti, è un adattamento teatrale del libro omonimo di Ignazio De Francesco, monaco cristiano e islamologo. Pubblicato dalla giovane editrice Zikkaron, il volume è il resoconto romanzato di un’esperienza pluriennale d’incontro - 14 -

religiosa e le forme storiche dell’esistenza umananei suoi aspetti personali e sociali; il forte impatto che le diverse rappresentazioni di Dio hanno avuto sulla vita degli uomini ne è la prova. Si ragiona dunque del rappresentare Dio. Punto di partenza è la consapevolezza che Dio nessuno l’ha mai visto e dunque ogni sua rappresentazione resta approssimativa, provvisoria e mai esaustiva del mistero di Dio. Perciò: «Se crediamo che le nostre parole, le nostre scritture, i nostri dogmi, le nostre pratiche religiose dicano tutto di

coi detenuti arabi (musulmani) all’interno del carcere di Bologna, dove il dossettiano svolge tuttora la sua attività di mediazione culturale. Lo sfondo della vicenda è dunque quello del carcere, e in particolare il mondo delle persone coinvolte nel traffico di stupefacenti. Leila è una di loro. Giunta in Italia dalla Tunisia come clandestina, dopo aver attraversato il mare durante una tempesta sul Mediterraneo, intreccia un rapporto intenso con la figura inconsueta di questo monaco cristiano, che le parla in arabo e conosce perfettamente il Corano. Un rap- 15 -

porto fatto di continue scoperte, scontri e incontri, sul filo di una scommessa: trovare punti in comune al di là delle differenze, e diffidenze, reciproche. I personaggi in scena sono due, una donna e un uomo, una musulmana e un cristiano (interpretati dallo stesso Alessandro Berti e da Sara Cianfriglia). Ma nell’intreccio dei loro dialoghi emergono altre vite, altre storie di uomini e donne che, come Leila, hanno attraversato il mare e sono costretti a rielaborare la propria identità in un nuovo contesto, aprendosi a culture e idee altre rispetto a quelle dalle quali provengono.


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