Scena 88

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LIBRI & TEATRO DI DANIELA ARIANO

Chi ha paura di Virginia Woolf?

S

ì, confesso che all’inizio ne avevo un po’ paura. No, non parlo in maniera astratta della lucida follia che serpeggia nel dramma di Albee. Parlo proprio di lei, della signora Woolf. Che poi Woolf è il cognome da sposata, lei era nata Stephen ed era figlia d’arte, visto che il padre era un noto e stimato critico letterario. C’è una foto che la ritrae accanto a questo signore dalla barba folta e dal naso molto british ereditato dalla figlia: lungo, affilato e dritto come quello di una statua greca. Virginia amava suo padre – e forse anche il suo naso – ma se a un certo punto non fosse morto lasciandola giovane orfana di entrambi i genitori, probabilmente lei non sarebbe mai diventata una scrittrice. Me lo ha confessato durante una delle nostre chiacchierate mattutine.

E poi, come nelle migliori storie d’amore, un giorno accadde. Qualche anno fa mi trovavo alla fiera del libro di Roma e sullo scaffale della Minimum Fax adocchiai un librone con la foto di una giovane donna in copertina, il ritratto forse più noto di Virginia Woolf. Il profilo è dominato dal naso sottile ed è trattenuto ai lati da piccole orecchie senza lobo; ciocche di capelli le cadono dalla crocchia sul collo slanciato; lo sguardo appoggia assorto in un punto lontano, in questo caso poggiava sul bordo della costola rossa delle edizioni Beat. Il sottotitolo una frecciata al cuore: Diario di una scrittrice. Fu amore a prima vista. Improvvisamente volevo sapere tutto di lei. Ma non di lei come scrittrice, di lei-lei: lei creatura vivente, lei essere umano, lei donna. Era stata la parola “diario” a infatuarmi.

Come dite? Ma no, non sono pazza... almeno non tanto. E no, non mi diletto di sedute spiritiche né di metafonia. Le chiacchierate di cui scrivo si sono svolte nel salotto di casa mia, circondata dai miei libri e davanti alle mie rituali tre tazzine di caffè nero bollente. Nelle mie vene, metà triestine e metà partenopee, scorre da sempre sangue e caffè. Come recita quella pubblicità? Toglietemi tutto ma non il mio caffè... Il tè non è contemplato, soprattutto alle sei di mattina, l’ora del silenzio, quando mi posso dedicare alle mie scritture e letture in santa pace. E Virginia, da donna intelligente, ha sorvolato su queste mie manie e ha continuato a raccontarmi di sé e della sua vita. Siamo state insieme parecchio, quasi sei mesi. Un pezzettino di vita al giorno, tutti i giorni. Prima di incontrarla – io in camicia da notte e lei nei suoi abiti vintage – questa donna strana, segaligna, brutta ma anche bella e con un cervello illuminato e inquieto, mi spaventava. Per anni avevo preso in mano i suoi lavori letterari, abbandonandoli ogni volta a poche pagine dall’inizio. Gita al faro, La signora Dalloway, Orlando, Le onde... non riuscivo a entrarci dentro. Io amo la letteratura americana del Novecento, quella di Philip Roth e Paul Auster per intenderci, e sentivo quegli scritti così pregni di campagna inglese, di grigio londinese, di campane da Big Bang, lontani anni luce da me e dalla mia visione del mondo. Io che adoro le storie e pretendo che mi siano raccontate senza leziosità, giri di parole e sprizzi-sprazzi di poesia, consideravo le opere di Virginia – e ancora in parte le considero – un artificio letterario, una sfida tra lei e la parola scritta, tra lei e se stessa, tra lei e la morte. Un gioco da cui il lettore è tagliato totalmente fuori e assiste impotente alla battaglia. Vabbe’, non è un problema, mi sono detta. I gusti son gusti e non è che un autore, per quanto bravo e celebrato, debba piacere a tutti. Pur senza incontrarci mai, io e lei saremmo vissute bene ugualmente... cioè, io sarei vissuta. Lei, anche se non si fosse suicidata, a quest’ora sarebbe morta lo stesso.

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