Tre racconti - numero 8

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TRE RACCONTI

Redazione Maria Di Biase Davide Bovati Paola C. Sabatini Linda Scapigliati Gaia Mutone Andrea Boschi Andrea Siviero Simone Giulitti Eleonora Paulicelli

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TRE RACCONTI

TRE RACCONTI

Storie brevi e voci nuove Numero 8 | Ottobre 2018

Editing Maria Di Biase Gaia Mutone Paola C. Sabatini Impaginazione e correzione bozze Linda Scapigliati Progetto grafico Davide Bovati Fumetto Marco Capra Illustrazioni Anna Isella

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TRE RACCONTI

INDICE

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Il feticcio dell’originalità L’editoriale di Maria Di Biase

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NEL CUBO Claudio Conti

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VOLEVAMO IMBOSCARCI CON UNA SCUSA Stefano Vittori

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LA GIOSTRA Andrea Salvatore Alcamisi

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Biografie Tre righe (o quasi) sugli autori

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A proposito di Vicini Il fumetto di Marco Capra

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Il feticcio dell’originalità TRE RACCONTI

Il feticcio dell’originalità In un racconto di Jack London, uno scrittore decide di uccidersi quando scopre di aver copiato il lavoro di un altro. Secondo William S. Burroughs, che cita il racconto nei suoi testi di scrittura creativa – ma non dice il titolo, e questo è un vero peccato –, il motivo alla base del gesto è che il protagonista di London non aveva avuto il coraggio di essere un vero scrittore. Il feticcio dell’originalità condiziona ancora un gran numero di scrittori; i grandi scrittori, invece, hanno imparato a convivere con l’idea di un mestiere che è anche un originale processo d’imitazione. A farne, anzi, una vera sfida. «Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma», e questo può avere un senso sia nei libri di meccanica classica che in quelli di narrativa. In una raccolta di saggi intitolata Altre inquisizioni, Jorge Luis Borges porta degli esempi concreti a sostegno di questa tesi. La macchina del tempo è stato scritto da H. G. Wells nel 1894: il romanzo si agganciava a una solida tradizione letteraria “di genere” – gli scrittori avevano cominciato a occuparsi del tempo intorno al 1300 –, e a una più antica catena di profezie; come il viaggiatore di Wells riporta ai suoi

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colleghi lo scenario apocalittico dell’anno 802.701, così Isaia aveva anticipato la desolazione di Babilonia, così Enea aveva previsto il futuro dei suoi soldati. Imitazione, dunque, ma applicata in modo innovativo: per la prima volta, con il romanzo di Wells, la letteratura fantascientifica diventava espressione diretta di una crisi del presente. Il ragionamento di Borges nasce da una nota di Samuel Taylor Coleridge, un’immagine che lo scrittore definisce perfetta: Se un uomo in sogno attraversasse il Paradiso e gli dessero un fiore come prova d’esserci stato, e al risveglio si trovasse con quel fiore in mano... e allora?

Quando il viaggiatore di Wells torna al presente, l’unica prova che ha a sostegno di quanto dice è un fiore appassito nella tasca della giacca; come quello di Coleridge, anche se l’orizzonte di Wells è meno celestiale. Ma Borges suggerisce che la letteratura non si riduce a un semplice gioco di repliche perché è lecito supporre che gli scrittori non conoscano ogni testo precedentemente scritto. Allora, ciò che unisce tutte le storie, potrebbe essere qualcosa che trascende addirittura la dimensione razionale. Molti scrittori hanno dichiarato di essere stati ispirati da un sogno; come sappiamo, le storie di H. P. Lovecraft erano riproduzioni di terrificanti sogni lucidi, Frankenstein nacque 6


Il feticcio TRE dell’originalità RACCONTI

nella fantasia di una giovane Mary Shelley durante una notte di giugno nella residenza di Lord Byron, e ancora da un sogno Robert Louis Stevenson trasse spunto per scrivere Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Borges allude a un archetipo ancora sconosciuto, come un “oggetto eterno”, che sta entrando gradualmente nel mondo e che si tramanda da una mente all’altra. Il compito dello scrittore sarebbe soltanto quello di accogliere la visione e di passare il testimone alle generazioni successive. Se l’ipotesi non è così credibile, ammette Borges, è senz’altro affascinante. Nell’ambito della letteratura come negli altri, non c’è atto che non sia coronamento di una infinita serie di cause e sorgente di un’infinita serie di effetti.

I racconti contenuti in questo numero riprendono alcuni dei più classici generi narrativi. Nel Cubo di Claudio Conti si appoggia alle convenzioni della fantascienza e riporta le dinamiche di coppia in un futuro distopico. Stefano Vittori utilizza la satira per raccontare le derive delle relazioni sociali in Volevamo imboscarci con una scusa. La giostra di Andrea Alcamisi, infine, combina la leggenda al racconto psicologico, ed è proprio attraverso la dimensione del sogno che il protagonista compie un’evoluzione.

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Leggendo le tre storie, tornerete con la mente a strutture narrative familiari; allo stesso tempo, noterete che ogni scrittore ha provato ad agganciarsi al discorso infinito con una sensibilitĂ propria. Se ci sono riusciti, spetta soltanto a voi stabilirlo.

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Nel Cubo Claudio Conti

F583 batte il medio sull’unghia dell’indice, attiva il tracciante ottico e disegna un nell’aria. M435 si gira quando il logogramma sta per dissolversi. Fissa l’arco sparire quindi guarda sorpreso la sua ospite; ma gli occhi di lei, pixellati sullo schermo digitale degli enormi occhiali scuri, sono rivolti altrove. M435 è infastidito. Non deve ricorrere al simultaneista, sa bene che l’arco significa brutto – per l’esattezza, secondo la Codifica, l’arco fa riferimento al concetto assoluto di negativo, declinabile in ogni accezione e contesto – e da lei non può accettarlo. È rabbioso, sente il segnale sottopelle indicargli un elevato livello di noradrenalina, perciò cerca di riequilibrarsi respirando piano. Da sopra la spalla, il , il pettirosso sintetico collegato alla rete neuronale, gli trilla all’orecchio il codice di ripristino dei parametri emozionali. Un arco, pensa, che insolente. Come può disegnare un arco se il panorama che stanno ammirando nel suo Cubo 3x3x3 – il panorama che lui ha acquistato per l’occasione spendendo tre dosi di moneta organica – è il più visto di Sube! Si tocca ancora la mascherina di metallo. Un panorama simile, e tutto quello che lei sa disegnare è un arco. 11


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Non se ne capacita. M435 pensa che F583 si meriterebbe un bel tracciato in tutta risposta sotto a quel bel bionasino ma decide di fare un altro tentativo: attiva l’ottica del suo indice e traccia un con il punto interrogativo. Lo fa velocemente, vuole sembrarle stizzito, perché in effetti lo è: M435 è parecchio stizzito. F583 alza e abbassa le antenne, gli occhi pixellati le si allargano sulle lenti fino a perdere definizione e risponde con un altro ancor prima che la domanda di M435 svanisca del tutto, che è risaputo esser un gesto provocatorio e maleducato. Il segnale tattile di M435 impazzisce e pulsa sottopelle per le eccessive quantità di cortisolo. Il si alza in volo e si riposa sulla sua spalla, attivato dai suoi valori di stress. Come può non piacerle? Come può il Programma averci accoppiato se siamo così diversi? Per un po’ rimangono così, rigidi, illuminati solo dai colori del panorama. F583 sente che questa cosa dell’arco non è finita. Se ne rammarica, è stata affrettata, pensa che la colpa sia del suo carattere: un animo catalogato dalla Codifica come , concetto assoluto di velocità declinabile nel suo caso a persona ansiosa e impulsiva. Ha il timore di aver mandato tutto all’aria, anzi, essendo una , ne è praticamente certa. Lui non è quello che aveva desiderato: le sembra troppo inflessibile, poco curioso, e ha un pessimo gusto per i panorami. Ma lei tutto sommato può accettarlo. 12


Nel cubo TRE RACCONTI

È per via del suo , del suo animo irrequieto e malinconico che neanche le continue implementazioni umorali del suo riescono a tenere a bada. Mentre entra in standby, M435 sogna una compagna diversa da F583. Non comprende il disegno del Programma. Lui è più di quanto una come F583 possa sperare di ottenere, eppure un errore è da escludere. Il Programma non sbaglia mai. È così fin dalla Singolarità tecnologica che lo ha reso indipendente. È tracciato pure nella Codifica, dove il Programma è descritto come un , a ribadire la perfezione. L’inerranza del Programma è regola. Quando non può darti la tua esatta metà trova comunque il compagno meno imperfetto possibile. La loro unione, pensa M435, ha avuto una compatibilità del sessantuno percento. Non è il massimo, appena accettabile. Per uno come lui, con un profilo classificato come , che equivale al concetto assoluto di solidità, declinato a persona ferma e decisa, ci vorrebbe ben altro che una compagna . È il loro terzo e ultimo appuntamento; allo scadere del successivo flusso temporale di Sube dovranno comunicare separatamente al Programma se quell’unione è gradita. Il primo incontro, riservato solo ai rispettivi , era stato positivo. I due pettirossi si erano trillati i loro parametri: manie, patologie, pensieri, e tutto era sembrato compatibile. Il secondo, invece, era stato un disastro: seguendo la 13


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Codifica, il Programma li aveva connessi in fase onirica, ma qualcosa era andato storto e lui si era spaventato. Il Programma aveva fissato il terzo appuntamento. In caso positivo, F583 avrebbe agganciato il suo Cubo a quello di M435 per iniziare una vita assieme a lei nel loro nuovo Cubo. M435 sa che rifiutare F583 significa destinarsi a un futuro solitario e tutti sanno cosa prevede il Programma per i non accoppiati: il Cubo si sarebbe ridotto all’istante in un 2x2x2 e di lì si sarebbe ristretto ogni giorno, poco alla volta, fino a quando, nel giro di qualche flusso temporale di Sube, ne sarebbe rimasto schiacciato. Sarebbe diventato un composto iperconcentrato che, ironia della sorte, il Programma avrebbe inviato proprio alla fabbrica dove M435 è addetto alla produzione organica dai corpi disattivati dal Programma stesso. Mentre continuano a evitare di guardarsi, si accende una spia del Cubo e la connessione pneumatica consegna due dosi proteiche da iniettarsi endovena: è la cena che il Programma ha stabilito come dieta univoca in tutta Sube. Una volta terminato, F583, spinta dal suo , prende svelta lo zaino e sorride a M435 dietro la mascherina, poi traccia un e tira fuori una scatola per offrirla a M435. Lui traccia interrogativamente un ma lei alza al soffitto gli occhi pixellati e allarga le braccia. 14


Nel cubo TRE RACCONTI

M435 apre la scatola e la allontana spaventato. Non ha idea di cosa sia quell’oggetto, ma sembra molto antico e antico non va bene, lo sanno tutti a Sube. , le domanda ancora, mentre il rileva picchi emozionali troppo elevati e trilla che sarà costretto ad avvertire il Programma. F583 allunga una mano ed estrae dallo zaino un cerchio nero che delicatamente poggia sopra l’oggetto. M435 sa che stanno facendo qualcosa di pericoloso, gli oggetti antichi sono banditi. Non riesce a capacitarsi di come F583 possa essere stata così incauta da aver portato quella cosa lì dentro. Potrebbe aver contaminato il suo Cubo. Sempre più stupefatto nota che al centro del cerchio nero c’è l’immagine di una donna nera e grassa. Nessuno a Sube è grasso, nessuno è così ricco da potersi permettere tutta quella materia organica addosso. Sotto l’immagine ci sono alcuni caratteri antichi, li ha visti negli ologrammi educativi. F583 lo guarda serena e preme un tasto. Si sente un fruscio, poi parte un suono che terrorizza M435 e lo spinge tremante nell’angolo mentre il suo sbatte le ali per la stanza e trilla allarmi al Programma. F583 lo rassicura, traccia il logogramma di suono e quello di antico . M435 intuisce esterrefatto che quel rumore doveva essere quella cosa chiamata musica. I suoni sono primitivi, soggetti a incomprensioni. Sono inutili e consumano ossigeno. 15


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Tutti li hanno disimparati. È scritto nella Codifica del Programma. E il Programma è . M435 guarda terrorizzato F583, lei è sorridente. A lui fanno male le orecchie. Si chiede dove diavolo possa aver trovato quell’oggetto. È spaventato, è “ ”. M435 pensa che F583 è molto più di una semplice , forse è una della Restaurazione che sta cercando di arruolarlo. D’improvviso traccia un perentorio , afferra il cerchio nero, lo piega su un ginocchio, lo spezza, lo getta nel condotto di riciclo e chiede al suo di collegarsi al Programma. F583 si mette le mani tra i capelli, ha le antenne dritte e i pixel delle pupille che tremolano lucidi. Mentre M435 zooma soddisfatto sulle lacrime di F583, il Programma si collega e fa apparire un grande • al centro dello schermo panoramico del Cubo: sta domandando cosa succede. Con un’espressione fiera, M435 disegna un logogramma di denuncia indicando F583 che, messa alle strette, fa una cosa inaspettata: afferra il proprio e inizia a stringerlo nel pugno. Con lo sguardo fermo su M435 stringe sempre più forte fino a quando il pettirosso sintetico, materia della sua materia, miracolo di partenogenesi, si disattiva emettendo un fischio stridulo, la testa ciondolante. F583 apre il palmo, guarda quell’ammasso di piume insanguinate e lo getta contro M435 che si ritrae sconcertato. 16


Nel cubo TRE RACCONTI

F583 fa un ghigno, disegna rabbiosa un e scappa attraverso il trasporto pneumatico. M435 pensa che F583 sia spacciata, non ha dove andare e non ha più neanche un . Il Programma la eliminerà e lui se la ritroverà al lavoro come biomassa da sezionare. Ora comprende il disegno del Programma: era un test e lui l’ha superato. Il suo Cubo non verrà ridotto e lui riceverà anche un premio. Mentre ammira il suo bellissimo panorama, una riproduzione in movimento di un robot che aggancia Cubi 3x3x3 ad altri Cubi 3x3x3, creando parallelepipedi sempre più grandi, senza soluzione di continuità, M435 sente il inviargli trilli sedativi di induzione al sonno. Si addormenta così profondamente da non sentire più nulla. Non sente il pettirosso disattivarsi, non sente neanche il suo Cubo scattare.

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Volevamo imboscarci con una scusa Stefano Vittori

Quando Paulina ci ha invitati a festeggiare il suo compleanno in un locale di Corso Magenta, volevamo imboscarci con una scusa. D’altronde, proprio lì e per la medesima ricorrenza, l’anno prima avevamo patito l’aperitivo con la sua cricca: un assortito campionario di giovani milanesi che includeva una bocconiana dal volto equino, presa bene da un internship nel suo ramo (… quale ramo esattamente?), e un cervello in fuga da un’Italia che – ça va sans dire – gli era troppo stretta, finito poi a battere scontrini in Austria. Comunque, alla fine, un autentico senso del dovere ci aveva imposto di accettare. Così, la sera del giorno stabilito, con l’aria rassegnata di gente avviata al patibolo, io ed Eleonora abbiamo affrontato la pioggia – che dalle parti di Corso Magenta ci è parsa perfino più sferzante che altrove (… solo un caso?) –, immersi in dubbi ora frivoli – come l’indecisione sull’analcolico da prendere – ora gravi – come l’assortimento di invitati di quest’anno. Giunti davanti al locale, saremmo rimasti mestamente a schivare le ombrellate dei pedoni ancora per un bel po’ di tempo, se Paulina non avesse fatto la sua 19


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comparsa offrendo baci, abbracci e invitandoci a entrare, là dove si sarebbe consumata la nostra esecuzione. Una volta dentro, Paulina è andata a confabulare con una cameriera (… o forse carceriera?), lasciandoci in balia di quella Babilonia: uno stretto e oblungo corridoio bordato, a sinistra, di tavolini ai quali s’ingozzavano e trincavano promiscuamente galletti e galline della Milano bene e, a destra, da un bancone da cui celeri camerieri partivano per riempire di becchime le ciotole di quelli a sinistra, dissetarli con prosecchini, insomma soddisfare quasi tutti i loro desiderata. Quando la nostra attesa in mezzo al corridoio rischiava di bloccare i collegamenti tra le due sponde e provocare una crisi di approvvigionamento, Paulina ci ha fatto cenno di seguirla – mentre lei faceva altrettanto con la cameriera – che, a sua volta, ci stava certamente conducendo al nostro capolinea. Ma, prima di raggiungerlo, a quanto pareva restava ancora un’ultima stazione; Paulina si era fermata a salutare due piccioncini seduti a un tavolino; poi, il convoglio ha ripreso il suo cammino con me ed Eleonora che, costeggiando quei due, abbiamo – con sommo studio – cercato di non curarci di loro, bensì di passare senza (… per carità!) guardare. «Ah, di sopra?», ho chiesto a Paulina, vedendo che la cameriera stava salendo una scala a chiocciola. «Eh, sì!», ha detto Paulina. 20


Volevamo imboscarci con una scusa TRE RACCONTI

«Ah, bene, almeno non stiamo infognati qui di sotto come l’anno scorso», le ho detto mentre, ormai a latte versato, riflettevo se in quel contesto fosse o no comme il faut l’aggettivo “infognato”. Paventavo già lo spauracchio della gaffe ma poi, fra me e me, mi son detto: “tanto Paulina è tedesca, non avrà capito; con questo chiasso, poi…”. Piuttosto, mi chiedeva Eleonora mentre salivamo la scala, con la voce bassa ma concitata di chi ha finalmente risolto la questione omerica, avevo colto i sottili link tra l’aperitivo da noi due vissuto come “passione”, dal greco pascho cioè soffro (… è vero, l’anno scorso avevamo patito!), e la cameriera con quel piglio coercitivo (… ma certo, come una carceriera!), e il locale come luogo di perdizione (… Babilonia!) e i suoi dannati (… ha ragione, gli avidi galletti e galline!)? Anche perché, Eleonora chiosava, tutti questi elementi erano, si badi bene, solo apparentemente sconnessi ma, a un esame più attento, mostravano di essere intimamente senza soluzione di continuità e, in ultima analisi, si saldavano plasticamente nella simbologia del piano terra, dove eravamo l’anno scorso, e del primo piano, dove stavamo ascendendo quest’anno, e chissà l’anno prossimo. Anche perché, Eleonora postillava, mi stava sfuggendo che eravamo di fronte non tanto a un banale aperitivo, e non certo all’ultimo (… quindi niente patibolo, né boia, né esecuzione, né capolinea! Qui insomma avevo preso dei granchi), quanto a un percorso, per così dire, progressivamente iniziatico, comunque sapienziale, 21


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verticalmente indirizzato verso l’alto, intrapreso l’anno prima e destinato a condurci verso la conoscenza attraverso la sofferenza, rappresentata per noi due da quelle serate (… e bla, bla, bla). «Anche perché, se si considera…», lei non aveva ancora finito di postillare ma ormai eravamo al primo piano. «Senti…», ho interrotto le sue postille con sofferenza, ma soprattutto con una punta di invidia per una tale capacità di sintetizzare tanti elementi eterogenei che anch’io avevo colto ma senza riuscire a ricondurli all’unità. «Aspetta, lasciami finire. Se si considera…» «Non mi interessa, non me ne frega niente!», ho tagliato corto tra i denti, mentendo, anche perché da qualche secondo Paulina e la cameriera ci guardavano con aria interrogativa. Paulina, con una certa teatralità nei gesti, ci ha spiegato che la saletta, con un tavolo da cinque coperti, era tutta per noi (… hai capito, la Paulina ha fatto i danè!). E, dopo aver congedato la cameriera, come un consumato banditore d’asta, pontificava ancora sulla bellezza delle lampade che illuminavano la saletta, dal design molto minimalist che, a dirla tutta, ce n’erano di simili anche in quel tugurio dove abitavo a Parigi in rue La Fayette (… settecento sacchi al mese, non so se mi spiego). Comunque, Paulina – mi ha fatto notare Eleonora mentre quella era distratta a contemplare le lampade minimalist, ridendo e scherzando (… davvero?) – 22


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non ci aveva ancora rivelato chi fossero gli altri due invitati; inevitabilmente abbiamo iniziato a sospettare il ritorno di qualcuno della vasta gamma di ceffi dell’anno prima. E sfruttavo quella tregua piena di sospetti per correggermi la pettinatura davanti a uno specchio, quand’ecco che ho visto riflesso alle mie spalle un tizio basso e tozzo, con la destra che oscillava un calice di vino rosso (… un satiro?); voltatomi di scatto, mentre già univo a punta le dita della mano destra per scuoterle in un gesto piuttosto universale (… ma che cazzo vuole, questo?), ecco che Paulina, liberatasi dalle lampade minimalist, me lo presenta come avrebbe fatto con un interessante pezzo esotico, dicendomi che era il ragazzo della sua amica, entrambi invitati: li avevamo già visti al piano di sotto, no? Il satiro dei miei stivali mi aveva già travolto con la sua straripante favella toscana (… macché satiro, solo un buhaiolo!), quand’ecco che si palesa la sua ragazza, col suo pedigree da milanese imbruttita – “nocioètipopraticamente…” – copiosamente addobbata di ciondoli Pandora. Ci fu chiaro, all’improvviso, che il vaso con tutti i mali era stato scoperchiato e che stavamo ciondolando in piedi, da almeno cinque minuti, sotto quella selva di lampade minimalist; Paulina, a quel punto un po’ spazientita (…forse queste lampade, carine e minimalist quanto vuoi, ora iniziavano a rompere i coglioni anche a lei), ci ha indicato la tavola, esaudendo così la volontà della cameriera, che era ritornata con un’aria 23


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piuttosto annoiata che sembrava dire: “Prima si siedono, prima mangiano, prima sloggiano, prima liberano la saletta per altri clienti, prima se ne vanno a…”. Mi stavo adagiando sugli allori per il fatto che del codazzo di Paulina dell’anno scorso, purtroppo assente per i troppi impegni (… o, forse, perché giubilato in toto?), io ed Eleonora fossimo gli ultimi rimasti, e già mi cullavo in un dolceamaro reducismo, quand’ecco che… quand’ecco che sono iniziate le manovre per occupare i posti a tavola, intermezzo di cui Eleonora ha saputo approfittare, in apparenza per mormorarmi qualcosa di cui ho colto solo uno dei suoi “Se si considera…”, in realtà per distrarmi dalle mosse fatte di avanzamenti e recessioni con le quali gli invitati, lei compresa, cercavano di attestarsi in quel certo posto, lontano da quello/a lì, che mi sta antipatico/a... Quando ormai tirava aria da les jeux sont faits, rien ne va plus, mi sono rassegnato a chi era più abile di me in quel tipo di manovre e ho accettato il posto che mi veniva assegnato d’ufficio da un dio forse minore (… ma sicuramente maligno), tra Eleonora – che si era messa al riparo tra me e Paulina – e la ragazza del “nocioètipopraticamente…”. E provai un’autentica pietà nei suoi confronti quando mi accorsi che, anche lei come me, era uscita sconfitta da quell’episodio di struggle for life: anche lei non mi avrebbe voluto accanto e, pur di ottenerlo, sarebbe stata disposta a 24


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lasciare sfacciatamente un posto libero tra noi due; ci sarebbe riuscita, se solo non si fosse impicciato il suo buhaiolo che, da patentato scocciatore qual era, le ha detto che non sarebbe stato carino (… anzi, harino) lasciare quel posto vuoto tra me e lei. Subito dopo avvertii un colpetto al piede destro, ma non gli diedi peso perché intanto la cameriera aveva iniziato il carosello di vassoi e Paulina, a sua volta, come un automa impazzito, ci indicava questa o quella leccornia. «Ma questo…», disse Paulina, additando il lardo, come in preda all’afasia davanti a quel ben di dio (… minore, sempre lui). «Sì, è lardo – le ho porto io la parola, osservando la pioggia di vassoi carichi – di Colonnata, sicuramente». «Oh sì, Colonnata, il migliore… e… e questo prosciutto crudo ha un’aria così invitante…», ha continuato lei, rimpinzandosi, mentre ormai il mio stomaco era del tutto serrato. «San Daniele, ovvio». «Oh sì, San Daniele, una bontà… la bruschetta poi è squisita, con questi pomodorini…» (… non vorrà farmi inventariare tutti i vassoi, vero?). «Di Pachino, non c’è dubbio. Anche se – e le ho fatto apposta una carognata, per porre fine a quello strazio – lo sai che quelli di Pachino non vanno più di moda?». Risentita, ha volto lo sguardo verso Eleonora, che a sua volta con la 25


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sinistra zampettava tra una bresaola di Val Chiavenna e un culatello di Zibello. E mi pareva di sentire l’inizio di uno dei suoi “Se si considera…”, quando mi sono accorto di un altro colpetto al piede destro che, però, mi è parso giungere non dalla mia destra, dove c’era Eleonora, ma dalla mia sinistra, dove c’era la “nocioètipopraticamente…” che finii per guardare con occhi nuovi. I nostri sguardi si sono incrociati, all’ombra dei suoi ciondoli di Pandora, di nascosto dal suo buhaiolo, troppo intento a osservare con nostalgia il fondo del calice di vino rosso che si era portato da basso, troppo intento in quei piacevoli ricordi persino per scocciare anche l’incipiente idillio amoroso tra me e la sua milanese imbruttita. «Se tipocioè ordinassimo da bere?», ha interrotto quell’intenso sguardo reciproco lei, lasciando a metà (… interruptus) il nopraticamente e guardando ora la cameriera, che a sua volta attendeva persa nei suoi soliti pensieri (per i quali, vedi sopra), ora Paulina, intenta a piazzare questa o quella leccornia a Eleonora o al buhaiolo. Tutti hanno annuito, era tipocioè per tutti il momento di ordinare da bere, il che poteva voler dire solo una cosa: che era giunto il paventato ma previsto momento di fare outing. «Io, ehm, sono astemio – e ho iniziato a piluccare nervosamente la coppa piacentina spiaggiata nel mio piattino, giusto per darmi un contegno – che analcolici avete?». La cameriera, con sguardo fintamente comprensivo, 26


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mi ha proposto quello della casa e finalmente, dopo l’ennesimo colpetto al piede, ero pronto a fare io stavolta piedino alla mia vicina, quando il solito dio minore (… e sempre più maligno) ha dato la parola al buhaiolo che ci ha intrattenuti, per un buon quarto d’ora, con la storia di uno studente del master che la nostra università aveva mandato da loro alla Mercedes, a fare uno stage, al quale un giorno avevano affidato il delicato compito di parcheggiare sette o otto macchine, che però aveva sciaguratamente rigate tutte, motivo per il quale i dirigenti della sede locale della Mercedes avevano ritenuto infranto il rapporto fiduciario con la nostra università e… «Comunque oggi, se vuoi trovare lavoro, devi fare il master», ha sancito infine il buhaiolo, e la mia conquista di quella sera e Paulina hanno annuito, convintamente, mentre Eleonora sembrava assorta in chissà quali metafisiche considerazioni. Un nuovo colpetto al piede! «Ma sono già le 22! Ora scarto i regali», ha detto Paulina, presa da un’improvvisa fretta, indicando i due pacchi colorati sulla panca. E mentre Paulina scartava il pacchetto mio e di Eleonora, ridevo sotto i baffi ripensando alla nostra indecisione in libreria: regalare alla nostra crucca una nuova biografia di Priebke o, piuttosto, un più innocuo 4321 di Paul Auster. Tra estatici e finti “Ohhh…”, Paulina era già intenta a sfogliare il suo Paul Auster ma, ancora piccata per la storia dei 27


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pomodorini di Pachino, ha ringraziato solo Eleonora. Quando poi ha scartato il regalo del buhaiolo e della “nocioètipopraticamente…”, tre sagome di cartone componibili, a dimensioni naturali, che riproducevano una foto di loro tre (…), era ormai chiaro che la serata fosse finita. Dovevamo andare. Siamo usciti dalla saletta, sfiorando le lampade minimalist. «Ma lo sai che la tizia mi ha fatto piedino per tutta la sera?», ho detto a Eleonora, quando ormai eravamo per strada, di nuovo sotto la pioggia. «Ma lo sai che ero io? Mi hai interrotto all’inizio quando ti stavo spiegando quella cosa del pascho, della conoscenza attraverso la sofferenza… allora, durante la serata ho scandito con i piedini i momenti imbarazzanti e, più in generale, le tappe di sofferenza, pascho cioè soffro, no? Se si considera…»

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La giostra Andrea Salvatore Alcamisi

Provo quasi piacere all’idea che la follia sia la risposta giusta all’indifferenza. D’altronde, credo che abbeverarsi alla fonte dell’insania metta al riparo dall’ingrato compito di prendere una decisione. Di qualunque natura essa sia, infatti, si troverà sempre un pugno di spettatori che, come un branco di lupi affamati, non vedrà l’ora di spolparla. Allora preferisco rintanarmi nella gabbia della mente, indossare io stesso la toga ed emettere il verdetto. Ma stare rannicchiati nel cantuccio dell’ego è realmente vivere? Esisto solo perché respiro e va in frantumi ogni certezza. “Ridere e piangere quanto basta”, mi dicevano, come se sapessi dosare le emozioni. Così il silenzio è diventato il miglior compagno di giochi che potessi desiderare, e se non fosse stato per il ticchettio fitto delle unghie sul piano della scrivania, sarei un fantasma. Esiliato, con il peso di un male ignoto, lentamente affondo in un brodo anemico, e un frastuono di smorfie plastiche avvolge la discesa. Da giorni sono incollato alla sedia. Con il capo riverso sul tavolo mi perdo osservando i granelli di polvere che vi si adagiano lievi. Ma il sollievo svanisce, e con la mente ritorno a quella sera, al parco. Mentre mi gingillavo con la solita 31


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bottiglia di vino da quattro soldi sentii delle grida sempre più violente. Guardai verso la fontana del Nettuno sulla quadriga dei tritoni e vidi un uomo vestito di stracci che correva intorno alla vasca; terminata la corsa, saliva sul bordo e si immergeva per uscirne lesto. Mi avvicinai per offrirgli un sorso di vino, ma trasalii giacché la situazione prese una piega inaspettata: con un balzo, l’uomo rientrò nella vasca, sfilò il tridente dal pugno del Nettuno e, in groppa a un tritone bronzeo, iniziò a latrare e a sorridere insieme in un miscuglio di suoni incomprensibili. Infine urlò, e con il tridente squarciò la bottiglia di vino. L’assurdità della scena mi tolse ogni capacità di comprensione; lo specchio d’acqua limaccioso e lo sguardo torvo dei tritoni fecero il resto. Ricordo che rimasi sbalordito dalla terribile somiglianza tra me e la furia indomabile: gli occhi sanguigni e le risa beffarde stampate sul viso mi troncarono il fiato. Per la prima volta ebbi davvero paura di toccare la mia parte malata e l’inquietudine fece breccia nel torpore antico. Perdetti di vista l’uomo e tornai a casa col pensiero fisso a Giona. Sì, Giona, così chiamai la belva furiosa. Per tre giorni e tre notti Giona ebbe un volto e un corpo; Giona sputato dal ventre dell’oscurità mentre io assaporavo l’angoscia di sempre. Ora un naufragio di parole m’impedisce di continuare la storia perché la memoria è muta e la coscienza è sorda. Ma Giona lotta ancora, si batte tremendamente, come Orlando nella quiete insidiosa della mia casa ridotta a una Roncisvalle. 32


La RACCONTI giostra TRE

Cos’è questo rumore? Hanno bussato alla porta? «Cosa volete? Non ho soldi. Andatevene!» «Sei tu Elia, il profeta? Apri la porta! Ti dico: apri!» Tre rintocchi di campane: è l’ora nona e il muro di silenzio s’incrina. Un vegliardo avanza nella penombra. La barba folta, il passo lento. «Sì, sono Elia, ma non il profeta che dici». «Oh sì, sei Elia, il benedetto profeta. E tu? Non mi riconosci?» Che cosa dovrei rispondere? Ormai sono il pasto del ventre viscoso e umido di Giona, maledetto Giona! Tutto è così lieve, tutto è amaro, tutto è Giona. «Chi sei, vecchio?» «Davvero non sai chi sono? Guarda le mie pustole, sono i tuoi taciti assensi, e la barba, quella lurida prigionia alla quale hai condannato me e te stesso». La sua voce s’insinua, è un serpente. «Elia, tu hai il male del mondo», ecco il sibilo della verità. Chiudo gli occhi e scappo, corro, mi rifugio tra le macerie biancastre del passato. Ho i graffi delle imposizioni e i segni delle storture. Condannato a raschiare solo ricordi infranti e nulla più. Sono Elia, il moribondo, non il profeta. «La cura è la conoscenza, terribile e meschina sofferenza. Ti aspetto al parco: lì troverai il Giona che vai tanto cercando». «Chi è Giona? Dimmelo, diavolo di un vecchio!» È sparito, ammesso che fosse davvero qui. Ho caldo, 33


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sono stanco. Questa stanza è diventata una trappola. Forse il vegliardo aveva ragione: più la sopprimo, tanto larga si fa la ferita; si gonfia e ribolle fino a scoppiare. Sembra un dittico il mio tormento: Giona galoppa, il vecchio trafigge e io nel mezzo sono una cerniera arrugginita. Ho ancora il male arcaico conficcato nella carne. L’anamnesi è già conclusa da un pezzo: Elia Grieco, paziente in fibrillazione ventricolare, opacamente presente e lucidamente assente. Ma la brezza del vento notturno, tra le corsie dei viali e l’astanteria delle aiuole, ristora appena l’umore e ammorbidisce un poco la pena. Nonostante sia morta la prima ora, sono ancora qui a rincorrere le farneticazioni di un vecchio e a seguire una canzone che si spande in tutto il parco. È una melodia invitante da flapper girls e charleston, Valencia, in my dreams it always seems I hear you softly call for me… Finalmente la sento vicina. Mi immergo tra gli arbusti, nel fascio di luci e di suoni. E davanti a me si staglia una giostra rosa vivo con ornamenti dorati, e sulla cima un tappeto di zucchero filato. Intorno al perno centrale, su un piano in legno leggermente sopraelevato, il cantante è circondato da una piccolo orchestra: un banjo, una tromba, un contrabbasso, un clarinetto e un direttore che col piede batte il tempo su un barile di bourbon. Il vecchio in piena putrescenza, ritto nel gabbiotto di comando, mi fissa 34


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spalancando la bocca cadente. Ha un grumo di capelli appiccicati alle tempie per il pus giallognolo di una cisti incancrenita. Poggia i palmi rachitici sulla lastra di vetro e mi fa cenno di volgere lo sguardo. «Elia, alla fine hai accettato il mio invito! Guarda cosa ho preparato per te: bacucchi e cani parlanti, penitenti e filosofi conturbanti». La voce metallica sembra uscire dall’altoparlante e la giostra inizia a girare. È un delirio l’intera scena. Al posto di cavalli e carrozze, sui pali semoventi trovano spazio varie figure umane. Ecco la prima. Una signora anziana, con un cappellino di sbieco e una giacca color lillà, strappa santini senza posa e li ingurgita a forza, sputando poi disgustata l’ammasso colloso. Che fa ora, piange? Nel punto in cui sono cadute le lacrime germogliano girasoli che subito sfioriscono. La seconda. Un uomo alto e ben vestito spinge una carriola traboccante di libri: tra i volumi compare un ragazzo con una manovella ficcata nel fianco destro. A ogni scatto della leva, il giovane cava fuori una lingua lunga come quella di un camaleonte. E questi sembra crogiolarsi nel suo stato, finché strilla: «Maestro, ho paura della libertà! Voglio parlare e pensare come Lei desidera». La sensazione di afasia comincia ad allentarsi. Ecco, la cultura dello scempio! E intanto Valencia, in my dreams it always lallallerò lallallà. La terza. Ssssst, li lascio dormire. È così delizioso il loro 35


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abbraccio! Un uomo, insudiciato di sudore e olio, col caschetto giallo in testa – strano, che lo abbia indosso! – e l’altro tutto imbellettato, con le scarpe nere tirate a lucido, che nel sonno continuamente chiede: «Qu’est-ce que la propriété?». Mais c’est le vol, Monsieur! Al direttore d’orchestra faccio segno di abbassare il volume, che suonino piuttosto la ninna nanna di Brahms. La quarta. Oh, chi è questo stravagante omino e il suo corteo? Con gli occhi stralunati e la schiuma alla bocca, apre la calotta del cranio e vi infila pedanterie e quiproquo. Intercetto qualche frase: «La distribuzione del quorum varia tra chi può convergere e chi non può in un asse delle ascisse, cioè due per due fa quattro e dunque lorem ipsum et qui quo qua requiescant in pace». «Amen», e il pubblico applaude. È un tripudio ascoltare l’opulenza dell’inganno, ora so che il vecchio è un bravo medico. Valencia, in my dreams it always... Sta arrivando la quinta. Quattro bassotti tentano di azzannare un boccone di carne annodato al filo sottilissimo di una canna agganciata al palo della giostra. «Bau, la cuccia sta crollando, ma il pezzettino di carne sarà mio». «Bau bau, ho sempre rubato le bistecche, chi verrà dopo pagherà il conto». «Bau bau bau, oggi toelettatura, domani pedicure e dopodomani baffo colorato». 36


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Il cane quattro è impegnato a scattare qualche foto. Lo sostituisco, se la regia lo vorrà. Va bene, bau bau bau bau. Valencia, in my dreams it always lallallerò lallallà pulsa nelle mie vene, è un antibiotico efficace. La sesta, l’ultima. Su un seggiolino sta avvinghiato un bambino imboccato da un cuoco panciuto. Do un’occhiata al manicaretto: sono lettere di pasta affogate in abbondante sugo. Leggo P E T R O L I O. Eh, già, muove il motore... mhm, che bontà… lallallero lallallà. La melodia continua ancora a inebriarmi e percepisco una linfa nuova dentro di me. Le figure scendono dalla giostra e mi prendono per mano. Ehi, cane tre, non sbavarmi sul braccio! E la nonnina sputa e piange, l’uomo culla il giovane camaleonte, l’omino apre e chiude la calotta del cranio, il cuoco mette un po’ di peperoncino, i cani si azzuffano e io giro follemente fino a elevarmi al di sopra di loro. Una mano mi tira giù e mi stringe in un tepore avvolgente. È il vegliardo, è guarito: le ferite si sono rimarginate, le rughe non solcano più il suo viso e la barba è rilucente. Sorride dissolvendosi in un pulviscolo di atomi evanescenti e io ne respiro l’effluvio. Il furore bacchico aumenta sempre di più e il girotondo ammaliante, e i suoni, e i giri incantevoli della giostra, e la coscienza seducente, e tutti noi, miseri burattini mitologici, siamo trascinati nel convulso sabba della consapevolezza. 37


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«Ehi, ragazzo, sveglia». Le palpebre mi tremano e la vista è annebbiata. Mi ritrovo accasciato sulla panca, spogliato dal macigno dell’eterno letargo. Sono Elia, il… dov’è la giostra? Nulla, solo lo spazzino che si aggira intorno alla fontana. Mi alzo, ma qualcosa s’impiglia. Uno strappo. Ora capisco, e ogni tassello torna al suo posto: la giostra dell’agnizione non era altro che la fontana del Nettuno e Giona sono io. Giona in carne ed ossa, pronto a liberare ciascuno dai fumi dell’angoscia librando sopra il magma viscoso dell’affanno. Ecco cosa attutivano i miei rantoli: un’umanità che brama di assistere perennemente alla commedia delle illusioni, anche nei suoi meandri bizzarramente bestiali. Posso adesso sciacquare gli oltraggi e riparare con il fuoco dell’amara conoscenza le offese del mondo!

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BIOGRAFIE

Claudio Conti Claudio è nato a Roma nel 1972 e da vent’anni vive nelle Marche dove, mentre disegna tubi, sogna di scrivere. Ha già terminato una raccolta di racconti e un suo romanzo inedito è stato segnalato al Premio Calvino 2018. Alcuni suoi racconti sono stati o verranno pubblicati su Pastrengo, Indiscreto, Inutile e Carie. Ama il Black Metal, Boris Vian, Charlie Kaufman, J. D. Salinger e il pollo della rosticceria. Stefano Vittori Stefano è nato nel 1994 in provincia di Milano. Ha perfezionato gli studi universitari in Storia antica a Parigi e a Strasburgo per sentire nuove campane, ma nonostante ciò continua a preferire quelle del suo paese. J. D. Salinger, Mordecai Richler, Frank McCourt e Fruttero & Lucentini sono musica per le sue orecchie. Dicono che sia un po’ orso. Andrea Salvatore Alcamisi Siciliano e laureato in Lettere classiche, Andrea vive a Milano dove è costretto ad ammirare la Sicilia stampata sulle scatole dei cannoli. A causa della sua “sicilitudine”, viaggia spesso tra le pagine di ricettari e guide turistiche. Cresciuto a pane e Vittorini, è “l’uomo Ezechiele” di Conversazione in Sicilia. Quando scrive non può mancare al suo fianco Egle, la sua Musa. Il suo sogno nel cassetto: MilanoCaltanissetta via Autostrada del Sole. 40


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A proposito di Vicini

Testi di Raymond Carver, A proposito di Vicini, tratto da Il mestiere 42 di scrivere, traduzione di Riccardo Duranti.


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Tre racconti è un progetto nato per promuovere la lettura e la scrittura di storie brevi. Ăˆ una rivista digitale che ospita racconti inediti e un sito web di approfondimento sulla forma del racconto, in tutte le sue interpretazioni.

Contatti www.treracconti.it redazione@treracconti.it 43


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