Aspetti e problemi del ticino

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Aspetti e problemi del Ticino A cura di Guido Locarnini

Con la collaborazione di Mario Agliati - Basilio Biucchi - Bruno Caizzi - Giuseppe Curonici Bruno Legobbe - Argante Righetti

Touring Club Svizzero – Sezione Ticino

Copyright 1964 by Touring Club Svizzero, Sezione Ticino, Lugano Stampa: Istituto grafico Gianni Casagrande SA, Bellinzona

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Sommario Prefazione Avv. Dott. EMILIO CENSI, Presidente TCS Sezione Ticino Introduzione Dott. GUIDO LOCARNINI PRIMA PARTE Dott. GUIDO LOCARNINI 1914-1964 -Aspetti e riflessi del cinquantennio Prof. Bruno Caizzi Profilo di una storia sociale SECONDA PARTE Prof. MARIO AGLIATI Dal «biciclo» al «meccanico volatile» Prof. GIUSEPPE CURONICI Gli annali del Touring ticinese. Con annesso: L’elenco nominativo e cronologico dei Comitati del TCS Sezione Ticino Avv. Dott. ARGANTE RIGHETTI Studio storico-giuridico sul disciplinamento della circolazione nel nostro Cantone Prof. BASILIO M. BIUCCHI Le strade nell’economia e nelle finanze del Canton Ticino BRUNO LEGOBBE Evoluzione del traffico stradale e possibile contributo al turismo di montagna nel Ticino. Con annessi: Tabelle statistiche 1. Effettivi veicoli a motore dal 1910 al 1963: Ticino e Svizzera 2. Effettivi veicoli a motore per categoria dal 1945 al 1962: Ticino 3. Effettivi veicoli a motore per categoria dal 1945 al 1962: Svizzera Grafici statistici 1. Aumento relativo del numero complessivo del veicoli a motore dal 1922 al 1962 2. Aumento relativo del numero delle automobili dal 1922 al 1962 3. Aumento percentuale del numero delle automobili e del complesso dei veicoli a motore dal 1945 al 1962 4. Forme prevalenti di turismo Il materiale illustrativo ci è stato messo cortesemente a disposizione da: Archivio cantonale, Bellinzona. Fig. 8 Signor Olinto Carmine, Bellinzona. Fig. 17, 18, 19, 20 Signor Luigi Morandi, Lugano. Fig. 9 Signor Emile Morel, Lugano. Fig. 6, 7, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 e illustrazioni a pagina 93, 94 Per questa preziosa documentazione, che rievoca il clima suggestivo in cui vissero i nostri pionieri, esprimiamo i più vivi ringraziamenti.


Prefazione Unitamente all’onore - non disgiunto da commozione - di calcare le orme di mio Padre alla presidenza della Sezione Ticino del Touring Club Svizzero, mi è pure toccata quest’anno la singolare fortuna di rivestire questa carica proprio nell’anno commemorativo del primo cinquantesimo di fondazione del sodalizio. In questa mia veste mi è particolarmente grato il compito di rivolgere ai membri qualche parola per la fausta ricorrenza. C’è modo e modo di ricordare un periodo di vita di un’associazione. I pareri in merito possono giustamente divergere. L’assemblea dei Delegati di Faido del 12 maggio 1963 ha comunque deciso di seguire la proposta del Comitato. Ne è nata così la presente monografia. La quale, tuttavia, nei temi trattati, non riflette il parere ufficiale - e pertanto non impegna né il Comitato, né l’assemblea, ma semplicemente i collaboratori: chiamati gli uni a succintamente inquadrare, sulla trama dei suoi eventi più salienti, l’ultimo prestigioso cinquantennio di storia che ha visto nascere e crescere il TCS Sezione Ticino; gli altri a mettere a fuoco i più importanti problemi che investono oggi il Ticino e più o meno direttamente interessano i suoi utenti motorizzati della strada. Cosicché, ne sono convinto, ogni membro della nostra associazione, nonostante la diversità di formazione e attività professionali, vi troverà certamente qualche pagina che lo possa interessare e gli ricordi nel contempo di appartenere ad una stessa grande famiglia, quella del TCS. A tutti i nostri membri, appunto - specie ai non più giovanissimi - non vorrei mancare di esprimere in questa prefazione la mia profonda simpatia e riconoscenza per l’attaccamento e la fiducia che in tempi particolarmente difficili per il nostro sodalizio - gli anni delle ultime guerre - hanno voluto e saputo dimostrare nell’interesse della causa comune, anche se a costo di sacrifici. Attaccamento e fiducia che andarono accumulando nella sezione quella carica di vitale energia che sola poteva sostenere il ritmo del nostro travolgente sviluppo nel corso del dopoguerra. L’anno che segna il primo cinquantennio di vita del TCS Sezione Ticino trova il sodalizio, dopo l’ultimo ventennio di giovanile dinamica crescita, nella fase della prima maturità: fase di assestamento e di affinamento nei confronti di quanto è già stato conseguito; di ripensamento e di incubazione dei progetti che si vorranno attuare nell’immediato avvenire. Come per il passato, anche e soprattutto per il futuro, l’appoggio, la solidarietà e la concordia dei nostri membri sono elementi indispensabili per il raggiungimento di sempre nuove mete comuni. Non ci verranno certo a mancare. A tutti i nostri amici vadano pertanto già sin d’ora il grazie sentito e la riconoscenza del Presidente. Dr. Emilio Censi


Introduzione (La prima corsa per automobili: Parigi, 28 luglio 1894) «Ieri 28 luglio, per nostra iniziativa, si è conclusa la prima corsa per automobili concorrenti; 38 erano a benzina, 29 a vapore, 5 ad aria compressa, 25 ad altri sistemi di locomozione. I concorrenti erano complessivamente 102, il percorso di 126 chilometri. Pubblico delle grandi occasioni, rappresentanze del mondo sportivo internazionale. La duchessa Regnac du Fois indossava un abito di seta azzurra con originali guarnizioni raffiguranti automobili in corsa. Il barone Pontignac Horsay, Presidente del Club Amici dello Sport, ha dato il via alle ore nove. Ammiratissima la Daimler del conte Guy d’Or con motore a due cilindri disposti a V i cui stantuffi a semplice effetto fanno agire uno stesso asse motore: accensione per tutti a incandescenza; distribuzione a valvole di cui quella di scarico, comandata: velocità 760 giri, carburazione a gorgoglio d’aria. Temibile rivale della Daimler è la Ballée di Mr. Touquier Néville a caldaia specialissima e carborizzazione istantanea con fornello a petrolio e motore a quattro cilindri orizzontale. La macchina a caldaia tubolare del signor Fietz a 36 minuti dalla partenza si è fermata per semplice precauzione durante dodici minuti. La prima parte del percorso era compiuta sotto la pressione di un’atmosfera e mezzo. La macchina del noto sportman inglese Max Leviman si è fermata a soli dodici chilometri da Parigi per guasto alle ruote. Eppure la macchina era munita di ruote motrici elastiche con cuscinetti di feltro tra le corone e i cerchioni, novità assoluta in fatto di meccanica. All’89.mo chilometro l’automobile del signor Fietz ebbe la ruota spezzata. La vettura si inclinò e fece portare sulla caldaia il peso che non era previsto dalla sua resistenza. La caldaia esplose e il pilota fu immediatamente portato a Parigi su una carrozza a cavalli. La polizia ha provveduto al fermo di alcuni membri dell’Associazione dei Cocchieri che avevano sparso la strada di chiodi e di altri pericolosi ostacoli. La corsa è stata vinta dalla vettura a vapore dei signori De Dion e Bouton che ha percorso i 126 chilometri in cinque ore e 40 minuti alla media di circa 25 chilometri l’ora. Tuttavia, dato il regolamento della corsa, la vittoria è toccata a PanhardLevesser e a Peugeot che si classificarono a pari merito in ore 5.50 minuti. La Commissione, usando dei suoi pieni poteri, ha preso la decisione di


offrire ai due vincitori «ex-aequo» una grande medaglia d’oro e ai signori De Dion e Bouton un diploma d’onore. «Le corse automobilistiche, a causa del doloroso e mortale incidente accaduto al concorrente signor Fietz, non si ripeteranno mai più.» Questa notizia della prima corsa per automobili, tolta dal «Petit Journal», del 29 luglio 1894, di Parigi, precede di soli venti anni quella della fondazione della Sezione Ticino del TCS, di cui ricorre quest’anno il cinquantenario. Abbiamo voluto riportarla in estenso, poiché nessuna considerazione né storica né tecnica meglio di questa felice e vivace testimonianza del cronista «sportivo» d’allora poteva darci, ci sembra, un’idea più incisiva della misura in cui i pochi decenni che ci separano da quel memorabile evento hanno rivoluzionato la nostra vita nel campo e della tecnica e del costume. Ragione per cui, allorché il Comitato del TCS Sezione Ticino ci affidò il compito di curare la compilazione di una monografia commemorativa del primo cinquantennio di vita della Società, immediatamente ci rendemmo conto dell’impossibilità di limitarci ad una semplice, sia pure particolareggiata, cronistoria della sezione: privata dei bagliori di questo sbalorditivo mezzo secolo nel suo complesso e travolgente divenire, ne sarebbe uscito qualcosa di immoto, di inanime. Abbiamo perciò suddiviso la monografia in due parti distinte: - una prima parte, generale, che vuol essere un tentativo di riflettere il clima del cinquantennio su piano internazionale, nazionale e ticinese, con speciale riguardo, per il nostro Cantone, allo sviluppo economico-sociale che, conseguito l’assestamento politico interno allo scadere del secolo scorso, costituisce ormai negli ultimi decenni, specie in questo dopoguerra, il pensiero dominante della comunità ticinese, la meta da raggiungere; - una seconda parte, che definiremo tecnica, in quanto ha più particolarmente attinenza con la Società e i problemi del traffico e della motorizzazione nel nostro Cantone, la cui trattazione è stata affidata a specialisti nelle diverse materie. Non abbiamo che da ringraziare sentitamente anche in questa sede quanti hanno in un modo o nell’altro contribuito alla riuscita di quest’opera collegiale. Il suo significato vorrebbe andar oltre i ristretti limiti di una semplice pubblicazione commemorativa. Fossimo riusciti nell’intento, la nostra fatica non sarà stata vana e la Sezione Ticino del TCS segnerà così degnamente l’avvio verso nuove mete. Guido Locarnini


Guido Locarnini 1914 - 1964 Aspetti e riflessi del cinquantennio (Il primo cinquantennio Sezione Ticino del TCS) 1914-1964: un cinquantennio di vita. Per l’uomo: un primo consuntivo, forse già quello definitivo, che intimamente urge, la coscienza del nostalgico avvio verso il fatale declino; per una società: un consuntivo, certo, ma che vuol essere soltanto una breve sosta, per un rapido sguardo al passato, al cammino percorso, alle difficoltà superate nella ricerca di un primo assestamento, di un valido indirizzo per il futuro; un consuntivo, insomma, che vuole essere piuttosto un inventario: ponderata valutazione del potenziale raggiunto, meditato raccoglimento e oculata ridistribuzione delle proprie forze in previsione di nuove lontane mete. Con questi sentimenti la Sezione Ticino del TCS si sofferma quest’anno sulla data commemorativa del suo primo cinquantesimo genetliaco. È giusto e comprensibile che una società che raccoglie gli utenti motorizzati della strada, più che preoccuparsi del passato, guardi impaziente all’avvenire: la strada ha forzato la mano al presente e già anticipa l’avvenire. Ma non è fuori luogo, ci sembra, approfittare della ricorrenza per soffermarci, forzatamente in termini succinti, su alcuni aspetti del cinquantennio di storia che ha visto la nascita e il costante consolidarsi del TCS Sezione Ticino tra i sodalizi cantonali e che nel contempo segna, ovviamente dopo i primi decenni di «carburazione», la vera e propria parallela e sbalorditiva ascesa del mezzo motorizzato. Un cinquantennio, in fondo, che racchiude la storia della motorizzazione: ma storia della motorizzazione è storia della scienza e della tecnica che oggi, più che mai, è parte determinante della storia dell’economia; storia economica, a sua volta, significa evoluzione sociale; e la storia economico-sociale si rivela sempre più inscindibile dalla storia politica che è poi, in ultima analisi, storia del costume. I Il cinquantennio su piano generale (Progressi che hanno sconvolto la vita dell’uomo) 1914 - 1964: un cinquantennio nel corso del quale i progressi conseguiti in tutti i settori d’attività hanno letteralmente sconvolto la vita dell’uomo; una


frazione di tempo che - ha calcolato qualcuno, e non poteva essere che un Americano - è valsa a far progredire l’umanità più di quanto non fosse progredita durante la somma dei precedenti secoli della sua più volte millenaria storia. Cinquant’anni di storia che si compendiano in un’epoca ove, come non mai, il genio umano ha rivelato in forme tanto dionisiache, la sua essenza demiurgica e demoniaca ad un tempo: che hanno visto l’uomo sacrificarsi nelle più generose e ardimentose conquiste, lanciarsi nelle più sbalorditive avventure, consumarsi e sublimarsi nelle più logoranti esperienze, conquistare le più impensate vette del sapere e dell’operare; ma anche precipitare nel contempo negli abissi più profondi dell’abiezione, decadere a strumento delle più perverse atrocità, soccorso dal suo stesso sapere: torturare deportare assassinare sterminare i propri simili, accecato da ogni sorta di fanatismo: politico, religioso, di razza. (Radicale trasformazione dell’assetto politico europeo) Un mezzo secolo, quello trascorso, che ha visto l’Europa - l’incontestato continente-guida sino al 1939, il centro della civiltà occidentale - squassata dalle due più terribili guerre e dalla più radicale rivoluzione politicosociale, dopo quella francese, che la storia ricordi. Sconvolta, una prima volta, dalle disperate convulsioni degli ultimi regimi politici nostalgici dell’assolutismo monarchico e dinastico «per diritto divino», cui l’insorgente libertà dei cittadini concretata nell’espressione politica della democrazia popolare aveva inferto il colpo fatale. Prostrata, una seconda volta, dalle catastrofiche conseguenze della follia megalomane di dittatori che, a sostegno di nuovi sogni imperialistici di loro conio, non esitarono ad esacerbare, con il virus del razzismo, le appena sopite velleità nazionalistiche di popoli da poco giunti all’indipendenza democratica. Insidiata, infine, dal sovversismo della dittatura comunistico-sovietica la quale, dopo aver dato lealmente man forte alle forze democratiche nella prova suprema contro le dittature reazionarie, subito si studiò, già durante la guerra, di innestare sui corpi debilitati delle democrazie europee, un nuovo elemento, quello sociale. Nuovo elemento che, esploso nella rivoluzione bolscevica dell’ottobre 1917, nelle contingenze europee particolarmente precarie del secondo dopoguerra, doveva fatalmente trovare terreno propizio all’azione dirompente della sua carica politicosociale. Fatale conseguenza, questa, dell’ibrido schieramento bellico delle democrazie, costrette ad appoggiarsi alle forze di una dittatura per debellare le dittature coalizzate dell’estremo opposto. La rapida successione dei due eventi salienti del cinquantennio - le due guerre mondiali - funse, a distanza di mezzo secolo, da possente


catalizzatore di un processo di trasformazione dell’assetto politico europeo da tempo latente: se il 1914 segnava l’apogeo degli imperi monarchici e delle coalizioni dinastiche, il 1918 ne sancì il crollo rovinoso e definitivo. Ma il significato del decisivo colpo di timone verso le democrazie politiche venne ben presto alterato e svilito dai messianismi nazionalistici e nazionalsocialistici, Le giovani democrazie europee si videro così sempre più dilaniate tra l’ottuso conservatorismo egoistico, il rivoluzionarismo e bellicismo reazionario e dittatoriale, e, provocato specie da quest’ultimo, l’attivismo clandestino e capillare del socialismo marxista d’impronta comunistico-sovietica. Se le dittature di destra avevano saputo coagolare nel più retrivo massimalismo assolutistico le più deteriori degenerazioni della democrazia cui attingere la carica di dinamismo che generò il loro effimero impero di inaudite sopraffazioni e violenze e del più inumano esclusivismo, la dittatura-guida di sinistra seppe invece incapsulare nel più rigido dogmatismo messianico l’anelito sociale delle crescenti masse lavoratrici che la grande crisi mondiale degli anni trenta - terzo evento determinante del clima del mezzo secolo - aveva alimentato e esacerbato. (Dalla democrazia politica alla democrazia sociale) Cosicché, pochi anni dopo, lo scoppio del secondo conflitto mondiale doveva fatalmente maturare - nell’immane crogiolo di idee, di popoli e di nazioni non solo il definitivo superamento della crisi di gestazione della democrazia politica, ma anche l’avvio al non meno laborioso parto della democrazia sociale. Processo oggi in piena fase evolutiva: in quest’ultimi anni del secondo dopoguerra si assiste ormai, nelle stesse cittadelle del sindacalismo rivoluzionario, al definitivo affermarsi delle correnti del socialismo democratico che alla formula eroica dei pionieri contrappongono decisamente l’elevazione, non rivoluzionaria, ma graduale e effettiva del proletariato entro gli schemi legali esistenti, secondo le sempre nuove esigenze che il dinamico evolvere della moderna società viene naturalmente imponendo. Nel segno della generale elevazione del tenore di vita e della generale tendenza al suo livellamento, borghesia progressista e movimento proletario si confondono, ormai. (Prevalenza della scienza e della tecnica sull’economia e sulla politica) Ma questa catarsi sociale tuttora in atto della moderna società non avrebbe potuto sì rapidamente evolvere senza le possenti indirette sollecitazioni della scienza e della tecnica sulla economia. Ogni guerra ha avuto almeno un lato positivo per l’umanità: di promuovere e accelerare, sotto l’assillo della sua spietata legge, i progressi tecnici e scientifici. Se quelli conseguiti durante il primo conflitto non furono tali da incidere sul corso della politica


- che era ancor stata il movente determinante dell’evento bellico - e appena incisero sull’evoluzione economico-sociale del dopoguerra, i progressi tecnici e scientifici che maturarono durante il secondo conflitto mondiale e specie negli anni successivi, furono invece di tale portata da togliere praticamente alla politica le redini delle sorti del mondo: oggi la tecnica e la scienza non solo non sono più strumenti della politica, ma ne condizionano, anzi, il corso. E, con l’indigamento del corso politico, la scienza e la tecnica hanno parallelamente rivoluzionato le teorie, le strutture e le dimensioni economiche e, per riflesso, indirettamente imposto nuovi canoni sociali. (Nuove unità di misura per l’uomo) Con i progressi tecnici e scientifici conseguiti in questi ultimi decenni, l’uomo è stato costretto a rivedere l’unità di misura di ogni suo rapporto con i propri simili, di ogni suo rapporto con le cose: stiamo di giorno in giorno vivendo l’applicazione pratica della teoria della relatività scaturita, in una palingenetica anticipazione del mondo di domani, da uno dei massimi geni di tutti i tempi: Einstein. L’uomo è riuscito a penetrare i misteri del microcosmo, per sprigionarne l’energia che doveva proiettarlo alla conquista degli spazi interplanetari: parallelamente al dilatarsi delle sue cognizioni e possibilità verso sempre più vasti orizzonti antitetici, l’uomo ha visto il suo mondo tradizionale insospettabilmente contrarsi. Dal mondo delle infime inconcepibili dimensioni - come incommensurabili dimensioni sono quelle degli spazi superni – l’uomo ha inoltre saputo captare il segreto della seconda sbalorditiva rivoluzione industriale. La scienza e la tecnica moderne, infine, non solo hanno differito la morte e congelato la vita, ma persino ricuperato l’uomo già prostrato nel sonno letale. (Epoca febbrile di transizione) Non c’è conquista senza tormento, non c’è serenità senza catarsi: questo prodigioso mezzo secolo, travagliato dai più tormentosi sussulti e dilaniato dalle più atroci crisi, ebbro delle più esaltanti conquiste, ancora non conosce pace, serenità: ovunque ancora un’inquietudine diffusa delle masse, un’irritazione crescente verso verità ritenute troppo certe, consuetudini fattesi consunte e logore di un passato che sotto sotto, tuttavia, s’invidia; un’insoddisfazione cronica e sempre più endemica, una frenesia contagiosa, un isterismo collettivo; e ancora e sempre un’incertezza angosciata, una sete insaziabile di novità. Uno stato d’animo, insomma, di un’epoca febbrile di transizione: l’epoca della nuova religione, quella del modernismo e del possibilismo; l’epoca del gigantismo scientifico


economico e politico e dei conseguenti progressivi allineamenti delle comunità nazionali; l’epoca del collettivismo, dell’uomo fagocitato dalla massa, dell’uomo spersonalizzato alla ricerca di se stesso: la più recente versione dell’homo faber, il moderno goethiano homunculus, insomma, che ancora non ha trovato la sua corrispondente essenza etico-morale. Disorientamento della personalità umana disancorata nella moderna tormenta che fedelmente si riflette nell’angosciato affannarsi dell’arte moderna a scrutare oltre la forma, a rifugiarsi oltre la realtà di un mondo di dissonanze, di discordanze, di contrasti. «Pantano di impressionismo morale» - ha definito Lippmann la nostra moderna società occidentale ove i «segni e i suggelli della legittimità, della giustizia e della verità, sono passati a gente che respinge, anche se non le è nemica dichiarata, la democrazia costituzionale». Gente alla quale, rifacendosi al celebre detto di Jaspers: «Ciò che io divento e ciò che sto vivendo l’ho imparato anzitutto nello specchio della storia», l’autore della «filosofia pubblica» saggiamente ricorda tuttavia che «una società può essere progressiva solo se conserva le tradizioni». II Di fronte agli eventi storici che hanno segnato le maggiori tappe dell’eccezionale sbalorditiva crescenza del cinquantennio su piano internazionale, il ritmo che ha scandito il cinquantennio su piano nazionale potrebbe sembrare, a prima vista, estremamente anodino e, comunque, di mortificante immobilità. (Immobilità apparente) È pertanto lecito chiedersi quale fu la marcia della nostra vecchia democrazia durante questo mezzo secolo che passerà alla storia come quello delle due guerre mondiali che posero fine all’imperialismo coloniale e all’egemonia mondiale dell’Europa; il mezzo secolo della definitiva emancipazione delle masse lavoratrici e di quella tuttora in corso dei popoli di colore; della costituzione dei popoli in grandi associazioni internazionali; il mezzo secolo del superamento della più catastrofica delle crisi economiche di dimensioni mondiali; dell’ascesa minacciosa della Cina comunista a turbare i sogni egemonici e messianici ad un tempo delle due massime Potenze che si disputano la «salvezza» del mondo; il mezzo


secolo dalla pace garantita dal più potente ordigno di distruzione, l’arma nucleare; il mezzo secolo dell’uomo, signore degli spazi interplanetari, seguito a vista e ascoltato dai suoi simili attraverso la magia - altra sua stupefacente conquista - della televisione. Nell’Europa sconvolta, irriconoscibile, in un mondo in costante ebollizione, il nostro minuscolo Paese sembra essere il solo rimasto immobile, isolato nella tempesta. In realtà, non si tratta che di un isolamento, di un’immobilità solo apparenti, superficiali: la sua struttura politica economica e sociale è andata costantemente evolvendo, pure incalzata dalle sempre nuove esigenze dei tempi, senza, tuttavia, che i principi basilari sui quali essa da secoli poggia, nell’ambito dello Stato cui hanno dato corpo, ne fossero minimamente scalfiti. La sua stessa struttura estremamente composita fa della Svizzera, più di ogni altra Nazione, l’espressione politica di un atto di volontà dei suoi cittadini, quotidianamente rinnovato. Se in una democrazia diretta, come la nostra, più che in altri ordinamenti politici, è l’uomo, il cittadino, nell’accolta del popolo sovrano, a decidere le sorti dello Stato e delle sue istituzioni, sono però le sollecitazioni di fattori esterni ed interni spesso imponderabili a determinarvi il quotidiano atto del suo rinnovamento politico economico sociale. L’evento bellico generato dalla crisi politica europea, che si conchiuse con il tramonto delle coalizioni delle monarchie dinastiche e l’affermarsi delle democrazie popolari, aveva per la prima volta messo a nudo le insufficienze sociali della democrazia svizzera, che allora sembrava paga di fondarsi direttamente sui diritti politici del popolo. Cosicché, dissoltisi ben presto gli aneliti frontisti di rinnovamento sulla falsariga della «democrazia autoritaria», la grande crisi vi andò maturando quei provvedimenti sociali che, concretatisi durante e dopo il secondo conflitto mondiale, edificarono l’odierna democrazia sociale: la cosiddetta «pace del lavoro», liberamente elaborata consentita e siglata tra datori di lavoro e lavoratori nel 1937, ne aveva segnato il più significativo e promettente avvio. (Verso la democrazia sociale) L’alta congiuntura, poi, che caratterizzò e caratterizza gli anni di questo dopoguerra, alimentò quei latenti fermenti economico-sociali che sono andati rapidamente mutando i rapporti Stato-economia in conseguenza di deliberate riforme politico-economiche che hanno condotto alla realizzazione concreta o tendenziale del cosiddetto Stato del benessere: è appunto nell’essenza stessa del moderno concetto dello Stato la tendenziale


diffusione di un maggior benessere collettivo attraverso il progressivo livellamento della piramide sociale. (Perfezionamento della democrazia svizzera) Evoluzione sociale che, rintuzzato l’attivismo rivoluzionario promosso e sostenuto dal comunismo ecumenico di Mosca nel primo dopoguerra, la democrazia svizzera concepì, crebbe e plasmò a sua misura sul piano politico attraverso gli scontri spesso violenti tra la cosiddetta «maggioranza borghese» e l’opposizione socialdemocratica. Progresso sociale lievitato dall’azione costante dei sindacati, certo, ma facilitato anche e soprattutto da una delle massime decisioni politiche che punteggiano il corso democratico del nostro Paese: l’istituzione del voto proporzionale. Esso poneva praticamente termine alla lunga proficua era del liberalismo quarantottesco - cui si deve l’assetto politico della Svizzera moderna - e apriva l’accesso, oltre che alle altre correnti politiche della borghesia, alla concreta azione parlamentare del proletariato democratico che da allora in modo notevole ha contribuito all’edificazione e al costante perfezionamento dell’assetto sociale della nostra democrazia. La rappresentanza proporzionale dei maggiori partiti politici, dapprima limitata sul piano parlamentare, non tardò a sfociare negli anni più recenti di questo dopoguerra, quale suo logico corollario, anche nella parità della rappresentanza dei maggiori partiti politici in seno al Consiglio federale: il valore dello spirito conciliativo, la necessità dell’operante compromesso e dell’azione solidale collettiva scaturiti dall’esperienza dell’ultimo conflitto, quale imperativo per la soluzione dei grandi problemi internazionali, avevano ancora una volta prontamente trovato nell’ordinamento democratico svizzero terreno propizio alla loro immediata codificazione e pratica applicazione. Se i rivolgimenti della storia mondiale nel corso del cinquantennio avevano indirettamente contribuito al progressivo consolidamento del suo ordinamento politico-sociale, le nuove dimensioni internazionali che ne derivarono, specie quelle uscite dall’ultimo conflitto, misero però a dura prova la consistenza e validità degli stessi tre elementi basilari su cui poggia la Confederazione Svizzera: federalismo, neutralità e democrazia diretta. La bufera dei nazionalismi che sconvolse l’Europa tra le due guerre non riuscì a inficiare il concetto etico-morale dello Stato federale trilingue, ossia il federalismo etnico-linguistico, che delle teorie nazionalistiche costituiva l’operante sconfessione (non dovendo la Confederazione, appunto, la sua esistenza di Stato al preteso generatore etnico o linguistico). (Federalismo politico-economico)


Ma il federalismo politico, già mortificato dall’incalzante necessario rafforzamento dello Stato centrale sul piano finanziario-fiscale e dalla conseguente progressiva esautorazione politico-legislativa e amministrativa dei Cantoni, nonché dal sempre più spietato processo d’accentramento economico imposto dal poderoso evolvere della scienza e della tecnica, si era in un primo tempo rivelato, in questo secondo dopoguerra, una nostra peculiare emanazione storico-politica non più rispondente alle esigenze poste dalle nuove misure internazionali nelle soluzioni dei problemi che oggi si pongono. Sul piano interno - si osservava in particolare - il federalismo, frazionando le competenze tra autorità federale, cantonale e comunale, ostacola, o per lo meno ritarda lo scatto di lungimirante indispensabile collaborazione tra gli interessati. Sennonché, al concetto puramente economico, di ieri, dello squilibrio economico tra regione e regione, le più moderne teorie di politica economica affiancano, oggi, il concetto - più politico che economico - dello stemperamento economico: quest’ultimo in senso integrativo e nel contempo correttivo del primo. Fosse esente da ogni freno e indirizzo politico, la esplosiva carica espansionistica che la seconda rivoluzione industriale ha conferito all’economia la renderebbe particolarmente aggressiva in senso accentratore: ne deriverebbe praticamente un sempre più rapido aggravarsi dello scompenso tra zone, regioni o paesi depressi e zone, regioni o paesi industrializzati. In altre parole, le autorità politiche sono oggi vieppiù chiamate a integrare in senso correttivo il corso economico del paese. Ne consegue per il nostro paese che questo fenomeno dell’accentramento economico, e questa necessità - politica - di stemperarlo, contribuiscono da qualche anno ad una rinascita del federalismo politico nazionale che da noi, sino a ieri, si considerava ormai disperatamente agonizzante. Rafforzamento del nostro federalismo che gli conferisce una nuova provvida ben precisa funzione politica nell’ambito del moderno contesto economico mondiale. (Neutralità) Il capitolo della neutralità nel periodo tra le due guerre corrisponde praticamente a quella che, con ragione, è stata definita la «era Motta»: l’era che segna l’avvio dell’inserimento definitivo e attivo della moderna Svizzera nella politica europea. Con Giuseppe Motta, che diresse la nostra politica estera in uno dei più burrascosi e delicati periodi della storia delle grandi nazioni nostre finitime, la Svizzera, nel clima euforico di fratellanza e di solidarietà tra i popoli europei usciti stremati ma mondati dalla tremenda prova della prima guerra mondiale, non esitò infatti a sacrificare


sull’altare della «Società delle Nazioni» la sua neutralità integrale. E, allorché la tormenta nazionalistica, alimentata dal sempre più accentuato revisionismo della Germania - delusa dal Trattato di Locarno - che in Hitler aveva trovato il suo folle vindice e al quale si era affiancato il «Duce» nostalgico della grandezza dell’antica Roma, spazzò crudamente ogni speranza di pace concordata, fu ancora l’ormai vegliardo grande uomo di Stato ticinese a ripristinarla, con la sua consumata abilità politica e diplomatica, e a restituirla intatta al popolo svizzero che, con lui, aveva creduto nell’ideale ginevrino. L’anno dopo scoppiava la seconda guerra mondiale. Sulle rovine fumanti dell’Europa del 1945, un nuovo Patto di fratellanza e di pace fu firmato tra i paesi ex-belligeranti. Ma tra le «Nazioni Unite», per i Paesi neutri non c’era posto. Tanto meno ci fu, quando l’Unione sovietica di Stalin diede l’avvio alla lotta ideologica del comunismo vieppiù contrassegnata dalla violenza e dalle sopraffazioni nelle realizzazioni dei suoi programmi di egemonia mondiale. Una coalizione difensiva del mondo libero, imperniata sui tradizionali valori che sostanziano la civiltà occidentale, s’impose. Come poteva la Svizzera, in simile temperie, sottrarsi all’impegno morale di attivamente partecipare a questa comune crociata difensiva? come giustificare ancora la sua neutralità? L’atteggiamento della Svizzera neutrale, praticamente isolata, con una certa punta polemica, dagli altri paesi liberi, parve insostenibile. (Rivalutazione della funzione dei paesi neutri) Ma, proprio con l’acuirsi del dissidio tra i due blocchi ideologici, proprio con l’irrigidirsi dei due fronti, con l’addensarsi di una nuova tremenda carica esplosiva all’orizzonte mondiale, i massimi contendenti provvidero di loro iniziativa ad una rivalutazione della funzione dei paesi neutri, che la nuova tensione mondiale rendeva ancor più insostituibili che nel passato. E vennero allora, per la Svizzera, le missioni mediatrici in un mondo di nuovo alla ricerca di un suo stabile pacifico assestamento (Corea, Suez, Congo; l’appello di Cuba) ad affiancarla alle tradizionali azioni umanitarie della Croce Rossa Internazionale, concepita nata e cresciuta nel clima della Svizzera neutrale e che solo può efficacemente operare nel mondo se irradiata garantita e convalidata dalla nostra neutralità integrale. (La democrazia diretta) Se, nel cinquantennio in rassegna, il federalismo e la neutralità sono stati e in parte sono ancora - messi a dura prova da sollecitazioni prevalentemente estrinseche, la democrazia diretta - il terzo elemento basilare del nostro Stato - è andata subendo un processo di debilitazione


dovuto invece esclusivamente a fattori intrinsechi della nostra vita nazionale. Se la progressiva costante ascesa - iniziata nel primo dopoguerra - della nostra democrazia politica verso la sua forma più perfetta, quella della democrazia sociale, è valsa a dare un maggior contenuto etico-morale alla nostra comunità nazionale, essa non poté tuttavia andar disgiunta da una sempre più spiccata materializzazione della politica: quale conseguenza, appunto, dell’imperativo di dare allo Stato un sempre più solido assetto politico-sociale, per i reggitori della cosa pubblica; quale conseguenza della naturale aspirazione al crescente benessere materiale, per i cittadini; quale conseguenza, infine, di un preciso assunto di progressiva conquista economico-sociale, per entrambi. L’evoluzione della nostra democrazia sociale tendenzialmente avviata verso lo Stato del benessere è però accompagnata da fenomeni paralleli che, in uno Stato come il nostro, fondato sulla democrazia diretta, sono suscettibili di dare l’avvio ad un suo processo di progressiva involuzione e senescenza che potrebbe essergli fatale. Già se ne avvertono i primi sintomi: l’affermarsi di un dirigismo politico economico e sociale che, sorretto da sempre più potenti forme associative (associazioni, sindacati), favorisce, anziché frenare, le tendenze accentratrici di ogni forma di vita della comunità, asseconda le sempre più manifeste velleità dell’amministrazione statale di svigorire l’azione dei partiti politici (il cui contenuto e i fini economici già da tempo prevalgono, del resto, sugli assunti ideologici), di sgretolare le competenze dei poteri politici, di disarcionare lo stesso Governo; il dilagare di una sorta di smania collettivistica, conseguenza della tendenza del cittadino ad abiurare i propri diritti nelle mani degli anonimi segretariati delle organizzazioni professionali, che è poi una forma particolare di quella generale dell’uomo moderno a spersonalizzarsi, a confondersi nella massa. Donde, sul piano più prettamente politico, l’agnosticismo politico, l’isolamento deliberato del singolo cittadino di fronte alle degenerazioni della partitocrazia, della comitatocrazia che imbavagliano i fermenti politici individuali e irretiscono i generosi slanci ideali; donde l’atteggiamento polemico di indifferenza e passività politica dei giovani di fronte all’immobilismo, agli appigli delle consuetudini, al conformismo, all’omertà tra congreghe di interessi, che frustrano sul nascere qualsiasi tentativo di lungimirante rinnovamento, qualsiasi idea ritenuta troppo «rivoluzionaria», o definita «utopistica» a priori. (Validità, della democrazia)


Tuttavia, anche se il mito della libertà tende a sostituirsi allo spirito di libertà, all’altruismo, all’eroismo, se l’egualitarismo va sostituendo l’istinto democratico, se il conformismo - che è poi la tirannia dell’opinione pubblica - si confonde sempre più con l’ordine democratico, la democrazia rimane pur sempre - come ha detto Winston Churchill - la peggior forma di governo, tranne… tutte le altre forme che si sono volute sperimentare lungo i secoli: poiché, in una democrazia - ha lasciato scritto John Kennedy - ogni cittadino, quale sia il suo interesse per la politica, «è al potere», ciascuno di noi occupa un posto di responsabilità. Ogni democrazia è pertanto efficiente, soltanto in quanto lo è la libera comunità di cui è l’emanazione politica più diretta. Sotto questo profilo va visto e giudicato anche l’attuale fenomeno di ipertrofia della nostra economia – la nostra più recente forma evolutiva verso lo Stato del benessere: sotto il profilo della partecipazione attiva del cittadino cosciente delle sue civiche responsabilità all’andamento della cosa pubblica va pertanto impostata la soluzione del complesso dei problemi che oggi si pongono al nostro paese. Accanto a questi vari agenti corrosivi endogeni, non sempre meglio identificabili, ma comunque alimentati da moventi materialistici, una sollecitazione ideale esogena è venuta parallelamente a saggiare in questo dopoguerra, per la prima volta in termini concreti, la validità e efficienza della nostra democrazia diretta: la più recente forma dell’ormai plurisecolare postulato dell’integrazione europea. (Integrazione europea) Se oggi, l’imperativo della comune difesa del mondo libero potrebbe costituire un potente fattore di coesione dell’Europa occidentale, se oggi un notevole passo innanzi verso l’integrazione è già stato possibile compiere sul piano economico, nuovi anacronistici sogni egemonici di potenze europee non dome di fronte alle nuove realtà e dimensioni internazionali, alimentate dai vecchi nazionalismi appena sopiti, agiscono ancora una volta da dissolventi, o per lo meno rallentano il processo aggregativo del Continente. In tale fluida situazione, il sacrificio delle autonomie politiche nazionali sull’altare di un’Europa nuova, tuttora in fase di gestazione estremamente laboriosa e dall’esito tutt’altro che certo e, comunque, non ancora definito, appare per lo meno prematuro. Soprattutto ove si pensi a peculiari autonomie politiche nazionali come quelle della Svizzera che affondano le loro plurisecolari radici nell’humus della democrazia diretta federalistica e referendaria.


III L’effervescenza politica che aveva contrassegnato il secolo di gestazione dello Stato e Repubblica del Cantone Ticino si era praticamente tramutata per i Ticinesi, alla vigilia della prima guerra mondiale, in meditata consapevolezza del lungo faticoso cammino percorso, delle enormi difficoltà superate, dei sudati risultati raggiunti, ma soprattutto nella ponderata valutazione di quanto ancora rimaneva da compiere per ricuperare, nei confronti dei Confederati, il «ritardo storico» nell’evoluzione tecnico-economica dovuto al periodo della secolare sudditanza politica. Il cinquantennio su piano cantonale - che inizia appunto con la fondazione del T.C.S. sezione Ticino - non poteva ovviamente che riflettere più o meno marginalmente - per la estrema esiguità del complesso demografico e la estrema fragilità e relativa inconsistenza del potenziale economico del Cantone - i grandi eventi e le grandi correnti della storia svizzera ed europea, italiana in particolare. (Eventi storici decisivi per il Ticino) Il cinquantennio era iniziato con la concomitanza di eventi che segnano una svolta decisiva nella nostra storia: nel quadro internazionale: la prima guerra mondiale; nei rapporti tra Confederazione e Ticino: il superamento del fossato tra Confederati e Ticinesi che le mene nazionalistiche - del pangermanesimo dal nord e dell’irredentismo dal sud - avevano scavato nell’ambito della comunità nazionale, e la elezione - nel dicembre del 1914 - con Giuseppe Motta, del primo Ticinese a Presidente della Confederazione; e, infine, nella vita interna del popolo ticinese: il grave dissesto delle banche cantonali che incise profondamente sulla futura evoluzione economica del paese. Non a caso il primo decennio culmina nella «crisi ticinese», i cui aspetti si compendiano nel primo quaderno delle «rivendicazioni ticinesi» che il Governo presenta ufficialmente a Berna, nel 1924, Nel breve arco del decennio successivo, il Ticino è teatro di due fatti che, sebbene di portata diversa e di significati addirittura antitetici, stanno in modo eloquente a provare il dinamismo dell’evoluzione storica di quegli anni e, nel contempo, la generale instabilità politica del periodo: la «Conferenza per la pace» di Locarno, del 1925; e il tentativo dei fascisti ticinesi, del 1934, di impossessarsi con la forza del Governo cantonale.


(La presenza ticinese in Consiglio federale) Lo scoppio della seconda guerra mondiale, che trova la realtà economicopolitica e etnico-linguistica della Confederazione più che mai suggellata nella realtà morale della patria svizzera, vale a confermare, con Enrico Celio, la continuità della presenza ticinese in Consiglio federale. E, dopo una breve parentesi, è ancora un Ticinese, Giuseppe Lepori, a recare nel massimo Esecutivo della Nazione la voce della stirpe italica. Purtroppo la malattia lo costrinse ad una dolorosa prematura cessazione della sua attività governativa. II forzato ritiro di Giuseppe Lepori doveva favorire, indirettamente, pochi anni dopo, la revisione, da tempo attesa ed elaborata, delle rappresentanze politiche in Consiglio federale che si concretò con l’elezione, per la prima volta negli annali della Confederazione, di due esponenti della socialdemocrazia. Da allora, la Svizzera italiana è assente dal Consiglio federale. E tale certo rimarrà per qualche tempo ancora, finché non muteranno i criteri alla base della nuova costellazione governativa, dettata dalla preoccupazione di farne un fedele riflesso della più recente realtà politico-economica piuttosto che della tradizionale composizione etnico-linguistica della Confederazione (e, non da ultimo, in considerazione della vigente complessa alchimia ufficiale, e più ancora ufficiosa, che determina la designazione di un nuovo Consigliere federale). L’opportunità della presenza di un rappresentante della terza stirpe in Consiglio federale è sempre stata condizionata e suggerita da momenti particolari della storia svizzera: il liberalismo, artefice della Svizzera moderna del 1848, non poteva ovviamente non inserire un rappresentante del radicalismo ticinese, e lo ebbe in Stefano Franscini, prima, e nel suo successore G.B. Pioda, poi. Dal 1867, però, dopo la nomina di quest’ultimo a Ministro di Svizzera a Torino (e successivamente a Roma), quasi mezzo secolo doveva trascorrere prima che un Ticinese accedesse di nuovo al Governo federale, con Giuseppe Motta, nel 1911. Due furono, soprattutto, i moventi di politica interna di tale elezione: l’una appena venata da incrinature che riflettevano i fermenti nazionalistici esteri e i loro riverberi sul nostro paese; la seconda, puramente interna, ossia l’ineluttabilità di far posto ormai in Consiglio federale ad un secondo rappresentante del cattolicesimo politico in ascesa. E allorché, nel 1940, Giuseppe Motta, dopo quasi un trentennio di presenza nel Governo federale, mori in carica, il momento storico - l’inizio della seconda guerra mondiale - consigliò, per una perfetta coesione nazionale che particolarmente s’imponeva, l’immediata sua sostituzione con un Ticinese, Enrico Celio. All’atto delle


sue dimissioni, nel 1950, la bufera era però ormai passata: e il seggio rimasto vacante fu rioccupato da un Vallesano. Una ultima volta, quattro anni più tardi, una contingenza di carattere esclusivamente interno, però, venne in soccorso alla candidatura ticinese di Giuseppe Lepori: essa poté infatti assecondare i disegni politici del maggior rivale del radicalismo svizzero: l’inserimento, per la prima volta, tra i membri del Consiglio federale di un terzo esponente del cattolicesimo politico. Ci siamo limitati a ricordare taluni fatti che coronarono nel corso del cinquantennio in rassegna l’intima partecipazione del Ticino alla vita della Confederazione, ma, in pari tempo, anche talune evidenti, anche se non ideali, connessioni di fatti incontestabili. E ciò senza rancori, né moventi polemici. (Grave illogicità del nostro ordinamento statuale) Ma unicamente per dimostrare le conseguenze pratiche nel corso della nostra storia della grave illogicità del nostro ordinamento statuale, che ignora sul piano istituzionale un elemento pur ritenuto fondamentale per la convivenza confederale e coesione nazionale: la nostra realtà etnicolinguistica, proprio quella peculiarità che agli occhi del mondo conferisce alla Confederazione svizzera il suo più prezioso contenuto morale. Occorre pertanto ancorare al più presto nella Costituzione federale il riconoscimento esplicito della pluralità e parità morale delle stirpi, rendendo finalmente normativo l’art. 116 sulle lingue ufficiali della Confederazione. Da quasi un secolo assistiamo ad un progressivo processo di debilitazione della minoranza etnica che potrebbe un giorno condurre ad una disintegrazione della nostra collettività nazionale. Specie, domani, nel clima di un’Europa integrata e operante, le sollecitazioni centrifughe fino a ieri di carattere politico-razzistico e pertanto rimaste sterili potrebbero rinnovarsi, potenziate da nuovi più insidiosi fermenti. Già nella sua attuale fase iniziale, l’integrazione europea pone al nostro paese, sotto aspetti nuovi, il pericolo reale di una nostra possibile disintegrazione nazionale. Se l’ormai inarrestabile tecnicizzarsi dell’attività statale e il prevalere della tematica economica vanno trasformando il nostro Stato federativo in un semplice Stato unitario decentrato - per cui la sua struttura federalistica può essere tonificata soltanto ancora dalla misura di politica interna dello stemperamento economico (perequazione economica interregionale e intercantonale) - l’ormai naturale e duraturo fenomeno della cosiddetta alta congiuntura economica viene ad aggiungere un nuovo potenziale elemento dirompente della nostra compattezza politica


nazionale: la presenza media di un lavoratore straniero su tre tra la mano d’opera occupata nel nostro paese. (Il problema dell’assimilazione) È così venuto ad aggiungersi al novero dei complessi problemi integrantisi e interdipendenti sui quali poggia l’equilibrio del nostro Stato, in forma sempre più imperativa, il problema dell’assimilazione, il solo atto a neutralizzare l’eccedenza di elementi stranieri nel nostro organismo nazionale. Da problema economico-sociale interno, quello dell’assimilazione dei lavoratori stranieri si pone a noi già oggi come uno dei problemi politici, non soltanto interni, ma pure con i suoi riflessi di politica estera, inscindibile e interdipendente con quelli che accompagnano il travaglio di gestazione dell’Europa integrata di domani. Problema, quello dell’assimilazione, che, data la spiccata prevalenza della mano d’opera italiana, ovviamente si pone in termini diversi per i Cantoni di lingua tedesca e francese che non per il Ticino: infatti la sua accorta soluzione potrebbe finalmente contribuire a rafforzare la struttura etnica, del Cantone, a parzialmente risolvere, in altre parole, il problema etnico del Ticino. Problema etnico che, nel clima dell’integrazione europea, sempre meno può considerarsi problema prevalentemente ticinese, per vieppiù acquistare significato e importanza nazionale. La crescita economica e demografica dell’Europa libera, nel clima della sua integrazione - indipendentemente dalla veste che questa sarà per assumere -esige da noi una dilatazione preventiva della Confederazione verso le regioni etniche finitime sul piano istituzionale, una diluizione, insomma, di taluni suoi ordinamenti istituzionali, per tempestivamente prepararsi a reggere al generale fenomeno di osmosi che fatalmente ne deriverà. Di questo processo il Ticino non potrà che beneficiarne. (I partiti politici) A condizione, tuttavia, che il Cantone sappia esso pure prepararvisi a fondo e per tempo. Sullo slancio del fervore, tutto latino, profuso nell’edificazione a ritmo forzato del suo assetto politico-democratico, il Ticino si trovò, sul finire del secolo scorso, al termine di questo febbrile periodo di gestazione, con partiti politici ideologicamente ancora puri, ancor privi, cioè, di un vero e proprio contenuto economico, benché non sordi ai messaggi e alle istanze sociali del tempo. Ma la lotta politica continuò a svolgersi, spesso con non sempre moderate passioni, intorno a enunciazioni dottrinali e di principio, confinate quasi sempre nelle disquisizioni teoriche tra i presbiti del partito: il che, singolarmente, non imperli tuttavia che sul piano legislativo si elaborassero quasi sempre felici


soluzioni pratiche dei problemi più urgenti che la realtà quotidiana andava via via ponendo. Ma la politica ticinese - contrariamente all’empirismo politico che ha in prevalenza guidato il corso dei partiti confederati continuò a muoversi nella sfera delle esperienze politiche pure tanto sul piano degli apparentamenti e delle coalizioni, quanto su quello delle rappresentanze proporzionali - fedele riflesso delle forze politiche - nei Consigli legislativi e nei collegi governativi. In questo campo il Ticino anticipò di parecchi anni, sotto più profili, il clima e le costellazioni politiche di altri Cantoni, specie della Confederazione: funse da precursore, in particolare, con l’esperienza del cosiddetto «governo di paese» e con la presenza (sin dal 1922) della rappresentanza socialista in Governo; nel secondo dopoguerra, con la coalizione radico-socialista. Ma fu, la sua, non già la risultanza di elucubrazioni teorico-dottrinarie e nemmeno di sollecitazioni empiriche della realtà economico-sociale, bensì una felice intuizione politica: il lasciar prevalere l’istinto politico, liberato ormai dal peso di vecchie svuotate ideologie, eppure non ancora premuto dall’economicità di sorgenti contrasti. Intuizione politica dei Ticinesi che, con la riforma fransciniana del 1830, già era valsa al Ticino - prima ancora della «révolution de juillet» -primo fra tutti i paesi europei, la codificazione della sovranità popolare. (Crescente interdipendenza) Nell’evoluzione di una moderna comunità, però, il fattore politico si rivela sempre più interdipendente e inscindibile da quelli economico-sociale e demografico. II Ticino vive oggi un suo particolare fervore di crescenza economica, fenomeno, tuttavia, dovuto in gran parte a sollecitazioni esterne e, comunque, fenomeno di riflesso. Pure a differenza d’oltr’Alpi, l’azione dei partiti politici non è nel Ticino che minimamente condizionata dalle associazioni e dai sindacati. Ai partiti ticinesi, pertanto, praticamente i soli responsabili dell’indirizzo politico-economico del paese, spetta perciò soprattutto di tener presente, accanto alle eque istanze sociali del mondo del lavoro, anche le preoccupazioni dei responsabili dell’economia. In particolare, il delicato impegnativo travaglio della elaborazione su piano legislativo cantonale dei moderni concetti economico-politici dovrà scaturire da una volontà collettiva, saggiamente ponderata, che risponda all’equilibrio delle forze economiche e sociali specifiche del Cantone e alle possibilità di nuovi orientamenti della politica dello Stato conformi alla effettiva realtà economica del paese. Fondamentale esigenza per raggiungere l’optimum politico ed economico di questo travaglio


legislativo saranno però essenzialmente la capacità e la dirittura degli uomini chiamati a rappresentare le forze vive del Cantone. (L’opinione pubblica come fattore politico) Ma una volontà collettiva delle forze vive del Cantone non può prescindere, in una democrazia come la nostra, dalla operante presenza dell’opinione pubblica. Purtroppo, a questo proposito, Giuseppe Lepori - nella sua acuta «Inchiesta sul Ticino: bilancio di una generazione politica» (In «Svizzera italiana», Rivista bimestrale di cultura, Giugno-agosto 1960) osserva: «A queste deficienze un’altra se ne aggiunge, di tutte la più grave: l’assenza di un’opinione pubblica che, facendo perno sul patrimonio morale, si aderga ove occorra, a porre dei limiti alle intemperanze della politica, In altri Stati e nella Confederazione vi sono esempi cospicui del ruolo che può assumere l’opinione pubblica, questa forza non sanzionata da nessuna costituzione, ma reale e presente nella vita delle democrazie. (omissis) Basti ricordare nella recente storia svizzera, che l’opinione pubblica determinò la nomina di un Consigliere federale (Wahlen). Se soltanto in casi speciali riesce apertamente a imporre la sua volontà, l’opinione pubblica è sempre avvertita, nella sua presenza moderatrice, dai politici più sensibili i quali non potranno o non oseranno passare oltre i suoi imperativi. Nel Ticino è pressoché inesistente come fattore politico; raramente si coacerva in una corrente unica capace di superare gli ostacoli, ma si frange e si sminuzza in rivoletti di cui ognuno scende a suo modo per la sua china. Siamo serrati nella magia di un circolo vizioso: la politica com’è spesso praticata, impedisce la formazione di un’opinione pubblica efficiente: e l’assenza di siffatta opinione pubblica, permette alla politica di stagnare in forme deteriori.» IV (Il «problema ticinese») Nel corso dell’ultimo dinamicissimo cinquantennio, l’evoluzione dei rapporti tra Confederazione e Ticino è valsa, ci sembra, a gradatamente chiarire la ipostasi del «problema ticinese» che, nei vari periodi, si era manifestato via via che il processo morboso delle sue singole componenti giungeva separatamente all’acme. Alla vigilia della prima guerra mondiale, il «problema ticinese», fino allora alimentato dallo scontento dei Ticinesi verso «Berna», per l’acuirsi delle misure accentratrici - e, di riflesso, per lo scemare progressivo dell’autonomia cantonale - si era tinto, per la prima volta, di riflessi esterni:


imperversavano i nazionalismi; negli anni del primo dopoguerra, con il perdurare della minaccia politica dall’estero - ove al nazionalismo idealistico si era abilmente sostituito l’irredentismo politico del fascismo e l’esasperarsi di due fenomeni interni concomitanti - l’inasprirsi dell’isolamento e del conseguente dissesto economico del Cantone ed il preoccupante sempre più rapido alterarsi della sua sostanza etnica - il «problema ticinese» si tradusse nella «crisi ticinese». Benché già allora il problema si fosse posto, scisso nelle sue tre principali componenti - politica, etnica ed economica - la loro stretta interdipendenza parve non essere avvertita in altoloco. Il problema non affrontato nel suo complesso, fu quindi oggetto di provvedimenti singoli che fatalmente dovevano rimanere alla superficie, rivelarsi palliativi. Le «rivendicazioni ticinesi» furono suddivise e affrontate per capitoli, anziché nel loro insieme. Per giunta, le poche sudatissime soluzioni maturate nei singoli settori, considerati quali compartimenti stagni, furono impostate con criteri amministrativi, anziché politici, con criteri unitari, anziché federalistici. Si continuò, e ancora si continua, a considerare il Ticino alla stessa stregua di qualsiasi altro Cantone della Svizzera, anziché di gran lunga il maggiore complesso linguistico-culturale ed economico della Svizzera italiana, anziché, e soprattutto, l’unica comunità politica di stirpe italiana presente quale Stato autonomo - Cantone - nell’ambito della Confederazione: sua maggiore peculiarità, questa, in quanto essenziale ai fini del mantenimento dell’equilibrio etnico-linguistico della Confederazione, e, per riflesso, del valore politico-morale del nostro Stato federativo. Ma, soprattutto, si continuò, e ancora si continua, a voler ignorare che, per la sua stessa generale esiguità, il Ticino, non sorretto da nessuna garanzia sul piano istituzionale, non può, da solo, fungere da valido elemento per il mantenimento di questo equilibrio essenziale alla vita del nostro Stato. Nella versione di questo dopoguerra, infine, si è voluto ancora una volta erroneamente definire l’insieme del problema con la sineddoche «problema etnico del Ticino». Il sostantivo basterebbe. La evoluzione demografica, lo sviluppo economico-sociale e l’ordinamento politico di un paese si rivelano oggi sempre più interdipendenti: il problema etnico di un paese è pertanto inscindibile dalla sua storia, dalla sua situazione demografica, economica (sociale) e politica. Il problema etnico del Ticino è infatti una conseguenza della sua storia, della sua evoluzione demografica, della sua situazione geografica e politica nell’ambito della Confederazione: delle ripercussioni di queste premesse sulla sua evoluzione economico-sociale. (Il «problema etnico ticinese»: problema nazionale)


Considerato sotto il profilo del mosaico etnico-linguistico della Confederazione, il problema cessa quindi di essere limitatamente «etnico ticinese», per assurgere a fondamentale «problema nazionale». È sorto per leggi estranee alla volontà degli uomini: quale fatale conseguenza della carica espansiva che conferisce ad ogni popolo la sua maggiore potenza demografica economica e finanziaria - il gruppo alemanno nei confronti degli altri gruppi etnici costitutivi della Svizzera; quale fatale conseguenza della ubicazione lungo la massima dorsale del traffico nord-sud europeo di una piccola comunità - quella ticinese - troppo esigua per validamente reagire - assimilandoli - alla costante pressione di elementi alloglotti; quale fatale conseguenza, infine, della libertà di domicilio, costituzionalmente garantita, entro i confini politici di una nazione - come la Svizzera composta di gruppi etnico-linguistici non equivalentisi. Ridotto nei suoi diversi aspetti, all’essenza di una connessione e concatenazione di cause ed effetti, il «problema ticinese», che è problema di portata nazionale, si rivela in ultima analisi, dunque, problema di squilibri di masse, di scompensi di potenziali: risultanza, in definitiva, di un fenomeno di esosmosi. Fenomeno di esosmosi verso il Ticino non soltanto demografica - di clementi politicamente affini, ma etnicamente estranei - ma anche di esosmosi economico-finanziaria - di industrie e commerci e capitali confederati entro i confini nazionali, che le Costituzioni federali del 1848 e del 1874 (con il rafforzamento dello Stato centrale, trasformato da Confederazione di Stati in Stato federativo) avevano virtualmente preparato, e che il traforo del San Gottardo, nel 1882, potentemente favorì nella sua pratica attuazione. Da allora, questo fenomeno andò costantemente accentuandosi, alterando progressivamente la primitiva compattezza etnica della popolazione del Ticino e dei quadri della sua economia. La recrudescenza di questo duplice processo è provata da cifre e fatti: dai dati statistici decennali dei censimenti federali, la progressiva debilitazione etnica del Cantone; dagli annuali accertamenti statistici federali e cantonali, la costante penetrazione di elementi estranei nei gangli vitali del suo ordito economico-commerciale e finanziario. Cosicché - fenomeno particolarmente allarmante, ma fatale conseguenza della legge del numero - non soltanto si assiste oggi al costante cedimento, su piano nazionale, in cifre assolute e percentuali, della già esigua minoranza etnica di fronte alla crescente pressione della maggioranza, ma anche al progressivo alimento del già enorme scompenso tra il potenziale economico e finanziario del Ticino e quello medio nazionale.


Il costante rovinoso decremento della minoranza etnica in tutti i settori della sua attività nell’ambito nazionale, quale conseguenza dell’ormai quasi secolare processo all’origine di questo particolare problema di vitale importanza per la convivenza federale, ci permette di giungere ad alcune deduzioni generali. In una moderna società, politica ed economia non possono agire in compartimenti stagni. La collaborazione tra politica ed economia s’impone oggi più che mai di fronte alle nuove dimensioni che reggono la convivenza umana nella moderna società, specie laddove, nell’interesse dell’intera comunità nazionale, soltanto con l’appoggio dello Stato si rivela possibile correggere squilibri interregionali e colmare ritardi storici nell’evoluzione economica del paese. (S’impongono misure politico-legislative particolari in favore del Ticino) L’evoluzione della collettività ticinese nell’ambito della comunità nazionale prova ormai in modo incontrovertibile come misure politicolegislative particolari s’impongano urgentemente tanto su piano cantonale, quanto, ma soprattutto, su piano federale in favore del Ticino. Occorrono correttivi legislativi in favore del Ticino dettati da criteri politici e non amministrativi, federalistici e non uniformi. L’ondata della sovraccongiuntura, che ha determinato in alcune regioni della Svizzera quella che siamo tentati di definire la «crisi del benessere», ha posto, più che nel passato, in evidenza questa assoluta necessità, ponendo vieppiù in rilievo la crescente stretta interdipendenza tra movimento demografico, evoluzione economica e azione politica. L’alta congiuntura, che ha direttamente investito il baricentro geografico economico e politico della Svizzera, ha soltanto lambito marginalmente la «periferia ticinese». Per la prima volta, tuttavia, l’economia ticinese vede la possibilità di finalmente ricuperare i lunghi decenni di forzata anemia economica. Ragione per cui, se le misure politiche antiflazionistiche emanante o previste dalla Confederazione s’impongono altrove, nel Ticino - qualora fossero applicate con criteri uniformi a tutta la Svizzera - , verrebbero a frustare una ancor recente evoluzione economica, che, se ha da essere disciplinata, va comunque però sollecitata ai fini stessi del mantenimento dell’equilibrio economico etnico e politico dell’intera Nazione. Occorre, sotto il profilo nazionale, temperare, stemperare anzi, il progressivo accentramento dei poteri politici e amministrativi dei Cantoni verso Berna, e, in pari tempo, il parallelo progressivo accentramento economico e finanziario del paese entro il triangolo Zurigo-Berna-Basilea.


Attorno ai maggiori centri alemanni va infatti vieppiù polarizzandosi, specie nell’ultimo decennio, la vita politica ed economica della Confederazione: da essi viene pertanto, in termini sempre più ineluttabili, il verbo politico ed economico unitario che dovrebbe reggere le sorti di tutto il paese. (Proposte di correttivi legislativi) Occorrono pertanto correttivi legislativi in favore del Ticino, in particolare: l) su piano economico-finanziario, attraverso il potenziamento della perequazione finanziario-fiscale intercantonale (con un ristorno parziale, ad esempio, del gettito dell’imposta preventiva ai Cantoni) («Occorre dare al federalismo un nuovo contenuto, un contenuto che permetta a tutti i Cantoni di affrontare i problemi di oggi senza perpetuare una situazione fiscale troppo onerosa» (da un intervento del Consigliere di Stato Plinio Cioccari, Direttore dei Dipartimenti delle finanze e della pubblica educazione, in Gran Consiglio ticinese, nel novembre del 1962);

2) su piano politico-economico interno, mediante il potenziamento della perequazione economica intercantonale (favorendo, ad esempio, lo stemperamento economico opposto all’ulteriore accentramento economicoindustriale e finanziario del paese); e mediante una più aggiornata e lungimirante politica dei traffici (ferroviari, stradali e idroviari) verso il bacino mediterraneo; 3) su piano politico-economico esterno, promuovendo una ben ponderata politica d’assimilazione differenziata della mano d’opera occupata nel nostro Paese (nel Ticino, l’assimilazione parziale della numerosa mano d’opera italiana costituisce ormai l’unico valido mezzo per consolidare in pratica la compagine etnica aborigena e contribuire, pertanto, al mantenimento dell’equilibrio etnico-linguistico della Svizzera); 4) sul piano politico-culturale, tramite l’avvaloramento politico-legislativo del federalismo delle stirpi (codificando, ad esempio, nella Costituzione federale, la parità effettiva delle stirpi: conferendo, in particolare, carattere normativo all’articolo 116 della C.F. sulla composizione linguistica della Svizzera, come carattere normativo riveste l’articolo l della C.F. per la ripartizione politica del paese in ventidue Cantoni sovrani). L’opportunità della presenza di un rappresentante della Svizzera italiana in Consiglio federale - abbiamo rilevato più sopra (Pag. 20 e seg.) - è sempre stata condizionata e suggerita da momenti particolari della storia svizzera: essa riflette fedelmente su piano pratico i criteri informativi della «politica delle cose» - della «Realpolitik», - che sempre ha informato e informa ogni decisione politica interna ed estera dei Confederati (e intendiamo la


stragrande maggioranza alemanna). In ossequio, appunto, a questi criteri informativi di «Realpolitik», la realtà ideale della composizione etnicolinguistica del nostro Stato federativo è però sempre stata posposta di volta in volta a determinate realtà contingenti nelle pratiche esigenze che direttamente ne derivano sul piano istituzionale: «La Svizzera - osservava acutamente, già nel 1925, il Prof. Carl Weber in un opuscolo speciale della «Wissen und Leben» dedicato ai problemi ticinesi (Gennaio 1925. Orell-Füssli, Zurigo) - si vanta della sua struttura conciliatrice di stirpi e trae dalla convivenza di tre grandi culture il diritto di esistere. Nella azione normale, legislativa e amministrativa, della Confederazione è decisivo il voto della maggioranza. Nelle votazioni conosciamo la maggioranza dei voti e quella degli Stati, ma non un diritto di veto di un’unità linguistica contro la prevalenza numerica delle altre due. Il diritto federale e il cantonale cercano di continuo il loro equilibrio; una garanzia d’equilibrio, però, per le unità culturali non esiste che nella costatazione formale di tre lingue nazionali. La politica quotidiana è sempre ravvivata dalla concorrenza estremamente utile tra lo Stato federale e le peculiarità cantonali. La Costituzione federale non dice nulla però sul punto essenziale del triplice accordo etnico e culturale. La conservazione di questo equilibrio è affidata di volta in volta ad una saviezza politica d’ordine superiore (höhere Staatsklugheit).» Come appare dal nostro discorso, non sempre i criteri della maggioranza ai fini del reggimento politico del paese - la «Realpolitik» dei Confederati, per intenderci - rispondono però, in pratica, a quelli che la suddetta «saviezza politica d’ordine superiore» esigerebbe. Nemmeno il principio territoriale della sovranità cantonale, esplicitamente sancito nella Costituzione federale - sul quale l’esimio giurista Prof. Burckhardt, specialista di diritto delle lingue in Svizzera, basava la sua famosa sentenza del 1932 nella vertenza sulla lingua delle insegne - si è rivelato sufficiente (con l’ammessa buona volontà dei singoli componenti i diversi gruppi etnici), ad evitare il fenomeno di lenta, ma costante trasformazione della struttura basilare della Confederazione. Di fronte a questa progressiva trasformazione del nostro Stato federativo - che sulla sua eterogeneità etnico-linguistica poggia appunto la sua più peculiare singolarità e, quindi, la sua solidità politico-morale - nulla possono le buone intenzioni degli uomini, se non suffragate da congrue disposizioni legislative. (Il postulato Maspoli: postulato-chiave) Senza giungere addirittura allo «Statuto speciale della Svizzera italiana» elaborato da un altro esimio giurista confederato - il Prof. Giacometti


dell’Università di Zurigo - basterebbe che in avvenire le responsabili autorità federali si chinassero, con la dovuta attenzione sul recente postulato Maspoli che il deputato ticinese svolse alla sessione autunnale dell’ultima legislatura (settembre 1963) delle Camere federali. Esso mette a fuoco per la prima volta, infatti, la tematica complessa, squisitamente politica, di questo capitale problema nazionale e costituisce, in pratica, la chiave potenziale per la soluzione indiretta, ma finalmente concreta, dei vecchi e dei nuovi problemi del Ticino (Ecco il testo integrale del postulato Maspoli, del 19 dicembre 1962, firmato anche dal deputati ticinesi Agostinetti, Borella, Galli e Jolli: «Lo Stato federativo svizzero ha subito una notevole evoluzione. Alla Svizzera dei 22 Cantoni si è sostituita, in parte, la Svizzera delle tre stirpi e di conseguenza sempre più marcato diventa il bisogno di favorire questo nuovo aspetto del federalismo che, oltre ad essere efficacissimo all’interno, si muove nel quadro dell’evoluzione spirituale moderna e corrisponde all’indirizzo dell’integrazione europea, conferendo al nostro Paese maggior lustro e maggior considerazione sul piano internazionale. Il Consiglio federale è invitato ad esaminare e a proporre l’attuazione delle misure necessarie a far sì che tre stirpi elvetiche siano rafforzate nella loro vitalità ed autonomia tanto nel settore politico, quanto in quello economico, sia attraverso adeguate riforme legislative che mediante provvedimenti di carattere amministrativo.»)

Alla luce della più recente evoluzione della congiuntura economica, però i vecchi e i nuovi maggiori problemi del Ticino non soltanto appaiono sempre più inscindibili da quelli maiuscoli della Confederazione, ma vanno anzi sempre più identificandosi. Nel nostro Cantone essi acquistano, inoltre, significato più chiaro, contorni più netti: il Ticino - ci si permettano le immagini - si rivela già oggi il punto focale e sarà domani il banco di prova di alcuni grandi problemi che assillano in questo dopoguerra l’intero Paese. (Potenziare la deputazione ticinese alle Camere federali) Ragione per cui, è lecito chiedersi se non sia giunto il monumento di indirettamente potenziare la presenza della deputazione ticinese alle Camere federali, istituendo un gruppo parlamentare permanente composto di deputati di ogni regione del Paese convinti che la soluzione dei maggiori problemi del Ticino s’imponga ormai nel vitale interesse della stessa Confederazione. Analogamente ad altri gruppi parlamentari già esistenti che operano in favore di determinati settori dell’economia nazionale turismo, agricoltura, ecc., - il nuovo gruppo acquisterebbe quella forza numerica effettiva - poiché anche alle Camere federali, in ultima analisi, sono i voti che contano - che forzatamente manca all’esigua deputazione ticinese per ottenere in campo federale il riconoscimento e la concreta soluzione di molti problemi che, pur essendo specifici della minoranza


etnica - del Ticino e, sovente, delle vallate grigionitaliane - sono anche di tutto il Paese.

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Bruno Caizzi Profilo di una storia sociale I. La vita laboriosa degli antenati (La vita nelle terre alte durante il XVIII secolo) Lungo i secoli lenti della storia civile le popolazioni di montagna, in modo ancora più evidente di quelle di pianura, trascorsero un’esistenza condizionata da fattori di stretto ordine ambientale. L’importanza della geografia fisica, senza svanire del tutto, è diminuita soltanto allorché il sistema dei trasporti, fattosi assai più rapido, giunse a svincolare gli uomini da molte antiche soggezioni naturali. Il decisivo miglioramento delle comunicazioni, dovuto alla scoperta del vapore, fu annoverato anch’esso fra le grandi rivoluzioni pacifiche che mutarono il mondo: e senz’ombra di esagerazione, si dovrà convenirne pensando a tutto ciò che ne seguì poi. La rivoluzione dei trasporti, riducendo le distanze, abbatté infatti molte barriere che i gruppi sociali avevano innalzato fra loro col favore dell’isolamento, e, intaccando i particolarismi, intraprese l’opera lenta dei livellamenti sociali. A sua volta l’era degli scambi intensi, inaugurata dalle nuove comunicazioni, preparò l’unificazione economica delle nazioni, la quale diede il suggello delle costruzioni durature all’unificazione politica che in molti paesi l’aveva preceduta senza tuttavia incidere abbastanza per riuscire ad imporre veramente un costume comune di vita. Prima che quelle trasformazioni prendessero ad operare concretamente sul tessuto sociale, le diverse comunità prealpine s’erano differenziate assai meno l’una dall’altra che non dalle terre di pianura cui il destino politico poteva averle legate. Chiunque, avendo qualche esperienza di letture storiche, scorra le memorie locali o si soffermi su quanto annotavano i viaggiatori del Sette o dell’Ottocento che per diletto proprio o per necessità di lavoro avevano percorso le terre bagnate dall’alto Ticino o dai suoi affluenti (quel curioso teologo Schinz (Hans Rudolf Schinz (1745-1790) divulgatore popolare dei principi della buona agricoltura ed autore dei Beyträge zur näheren Kenntnis des Schweizerlandes, Zurigo 1783) per esempio, che ha lasciato utili

osservazioni sui paesi svizzeri alla vigilia della grande rivoluzione), non si stupirà di trovarsi immerso in un’atmosfera di problemi umani e di situazioni locali molto simile a quella già incontrata nello studio di altre contrade degradanti parimenti dagli alti spartiacque alpini verso la grande pianura dell’Eridano.


Nota bibliografica. Per la parte più antica è sempre fondamentale l’opera classica di S. FRANSCINI, La Svizzera italiana, 3 voll., Lugano 1837-1840. Molte accurate notizie anche d’ordine storico, in I. SCHNEIDERPRANKEN. Le industrie del Canton Ticino, Bellinzona 1937, con buona bibliografia. Diffusi riferimenti storici, geografici, politici ed amministrativi in A. GALLI. Notizie sul Canton Ticino, 3 voll. Lugano e Bellinzona 1937. Per l’ultimo trentennio manca un lavoro di sintesi, ma tesi, atti parlamentari, annuari statistici ecc. offrono una documentazione abbastanza ampia e di agevole consultazione.

Durante secoli le zone prealpine ebbero tutte un’importanza economica e demografica relativamente assai maggiore di quella che poterono conservare più tardi. Sulle rive dei fiumi principali e nelle valli collaterali, sui pianori e sui dossi soleggiati, la successione variata di grossi borghi, di villaggi e di case sparse, testimoniava l’antica generale preferenza degli uomini per quegli insediamenti giudicati più salubri, e tanto più agevolmente difendibili quanto più prudentemente tenuti discosti dai grandi itinerari delle pianure. L’attività economica della montagna e della collina non sfigurava affatto di fronte a quella del basso. L’allevamento del bestiame, la cura del bosco e le coltivazioni spinte fino alle estreme positure tenevano occupata la fitta popolazione. Ove si dava il caso, questa provvedeva pure ai bisogni dell’industria estrattiva, fornendo alle miniere un gran numero di carbonai, minatori e cavallanti. (L’economia del bosco e quella tessile) Nel Ticino, è pur vero, l’attività mineraria era ridotta praticamente a nulla. Da un pezzo erano state abbandonate le ricerche del ferro, ma i segni dello scavo affioravano ancora qua e là. I giacimenti di Val Morobbia che in tempi passati avevano date buone rese, continuavano al di qua del passo di S. Jorio i filoni metalliferi che nel versante orientale del Lario alimentavano ancora l’impresa di Dongo. Mancava ormai il ferro nel Ticino, e non s’assisteva come in Valsesia od in Valsassina al gran da fare dei fabbri intorno ai magli, ed al restante lavoro di fusione e forgiatura, che ragioni di convenienza spingevano a svolgere nei pressi stessi della miniera e del bosco; ma abbondavano, a parziale compenso, i marmi e le pietre di granito, in Leventina, nella Riviera, a Locarno e su per la Maggia. Nei paesi alti il pascolo, l’alpeggio ed il legname reclamavano altre braccia: «La sterminata quantità di alberi e piante che si atterrano nel Cantone, vogli pel consumo degli abitanti, vogli pel commercio attivo coll’Italia, somministra lavoro, se non per tutto l’anno, almeno per buona parte di esso a migliaia di persone», scriveva il Franscini (Svizz. It., p. 264). Dappertutto le lavorazioni tessili si inserivano nelle maglie del ciclo agricolo. Di tutte le arti domestiche il lanificio era naturalmente la più antica, forte anche del suo carattere nostrano che gli faceva impiegare


anzitutto la materia prima fornita dai pascoli del luogo. Nel ritmo di antiche abitudini, teneva occupate generazioni di contadine che filavano nelle stalle e molti uomini che sedevano al semplice ordigno di tessitura. Ma anche la canapa, il lino e la stoppa venivano lavorati nei casolari, prima che a spodestarli in parte giungesse da fuori la fibra nuova del cotone. Delle operazioni mercantili collegate a queste semplici manipolazioni s’incaricava un mercante residente nel borgo. A volte egli assumeva anche la figura dell’imprenditore in proprio, e si faceva chiamare fabbricante o manifattore. Fosse lana o cotone o lino l’oggetto della sua impresa, il manifattore di paese badava soprattutto a passare di casolare in casolare, distribuendo alle donne materia prima, col patto di ritirarla dopo ch’esse l’avessero filata, oppure consegnando filati che gli dovevano venire restituiti in grezza tela od in panno di prima fattura. In cambio dell’opera loro, i contadini s’accontentavano di mitissime retribuzioni ed il giro d’affari del mercante non correva molto lontano. In compenso si possono avere dubbi molto seri sulla qualità dei prodotti usciti dalle mani dei contadini. Quando il mercante era qualcosa di più di un semplice sensale al servizio di manifattori più grossi, la sua impresa non s’esauriva in un deposito e in un ufficio, ma comprendeva pure un modesto laboratorio nel quale, servendosi questa volta di mano d’opera salariata, egli faceva svolgere quelle operazioni di preparazione o rifinitura che esigevano il suo diretto controllo, la lavatura delle lane, per esempio, la tintura dei filati, o la sbiancatura delle tele. Di fabbrichette intente a questi lavori se ne potevano reperire in buon numero, specie nel Sottoceneri, là ove un corso d’acqua, anche di scarsa portata, fosse disponibile per le operazioni di scolo (prima che se ne scoprissero virtù maggiori da sfruttare per muovere semplici ordigni meccanici). In patria le industrie ticinesi sono principalmente la manifattura dei mezzi panni (volg. mezzalane) e delle tele di qualità grossolane pel consumo quotidiano, i lavori intorno al legname da opera, intorno al tabacco (nel Luganese e nel Mendrisiotto), fabbriche di tegole, vasi di terra e laveggi, cartiere, filande per la seta, tintorie, concerie, tipografie, cappelli di paglia: così scriveva ancora Stefano Franscini nel 1837 (Ibidem, p. 259). Ed aggiungeva: niuna filatura di cotone - intendendo nessun stabilimento meccanico, senza escludere ovviamente la filatura a mano e domestica - niuna manifattura in grande. (L’industria serica) Proprio ai tempi del Franscini l’industria serica aveva preso una grande diffusione in quasi tutto il Sottoceneri ed in alcuni distretti del Sopraceneri,


superando largamente per valore economico sia la manifattura della lana sia quella delle tele. Era anch’essa un’industria tipicamente di villaggio, che si svolgeva a domicilio nella prima fase dell’allevamento, ed unicamente in opificio nella seconda fase della trattura: altrove i contadini facevano da sé anche la trattura tenendo in casa un paio di bacinelle accanto all’arcolaio ed al telaio di tessitura, ma nel Ticino, come in Lombardia e nel Piemonte, la trattura era industrializzata, e ciò era certamente un bene poiché solo l’imprenditore in grande poteva lavorare razionalmente e migliorare gradatamente la produzione, introducendo, quando giunse il momento, i filatoi a vapore al posto di quelli a fuoco diretto, e tutte le altre innovazioni tecniche che s’andavano via via scoprendo. Qua e là per il Ticino sorgevano le filande padronali, e schiere di donne e ragazze vi accorrevano nei 50-60 giorni estivi in cui venivano tratti i bozzoli raccolti nella zona. Contadine lombarde dovevano esser chiamate a dare una mano a quelle del sito negli anni di abbondante raccolto in cui bisognava racimolare un migliaio di donne, oltre che un certo numero, ma assai inferiore, di uomini addetti ai lavori pesanti della filanda. Gli orari quotidiani si stendevano interminabili nelle filande, dall’alba alla notte; ed irrisorie sembrano oggi a noi quelle retribuzioni: anche 14-16 centesimi di lira una giovane e raramente una lira quotidiana l’operaia adulta. Ma i miseri guadagni della filanda erano attesi nelle economie rurali di cui rimpolpavano in qualche modo i magrissimi bilanci; e non erano poi né gli unici né i principali proventi di cui fosse benemerita la seta poiché seguivano di qualche settimana al ricavo della vendita dei bozzoli in cui quasi ogni famiglia contadina era allora impegnata. Incoraggiato da una serie di annate remunerative, già nei primi decenni del secolo scorso anche nel Ticino l’allevamento aveva continuato a guadagnare terreno ovunque le condizioni ambientali glielo consentivano. Plaga particolarmente propizia all’allevamento era il Mendrisiotto, ché il gelso, al pari della vite, ama i luoghi soleggiati e di clima mite, posti al riparo delle nebbie e delle acque stagnanti. Una parte della seta greggia ticinese finiva alle tessiture di Zurigo, ma la parte maggiore scendeva all’emporio milanese nel quale i raccolti ticinesi si confondevano con i migliori di Lombardia, quelli di Brianza e della riviera gardesana, per essere avviati ai grandi mercati dell’Europa centrale e settentrionale. Altra importante coltivazione, anch’essa di tipo industriale e suscettibile di una prima trasformazione in loco, era il tabacco. L’agricoltura, per il resto, procedeva come la natura del suolo e le conoscenze dei tempi


consentivano: sobria da sempre nelle zone collinari, ove la grande tenuta non aveva posto e prevaleva la piccola fattoria con coltivazioni assortite e scarsamente specializzate, su cui cadeva l’intero peso di una famiglia di lavoratori; meno avara in montagna, poiché pascolo ed economia boschiva ripagavano lassù la ristrettezza dei coltivi e la loro insufficienza rispetto ai bisogni della popolazione. (Il Bilancio agricolo) Del resto non solo la montagna presa a sé, bensì il paese nel suo complesso era deficitario di grani, benché la grande maggioranza dei suoi abitanti tenesse un piede almeno sulla terra arata ed il frumento in numerosi distretti occupasse il primo posto fra le varie coltivazioni. Anche nelle annate favorevoli occorreva importare cereali dai grossi mercati di Lombardia. Assai per tempo, in epoche di restrizioni annonarie e di frequenti divieti di esportazione dettati dal ricorrente spettro di carestie reali od immaginarie, per superare quelle incertezze e quei pericoli, i baliaggi ticinesi erano ricorsi alla diplomazia stipulando con le autorità milanesi minuziose convenzioni che li autorizzavano a prelevare a Luino o Laveno contingenti determinati di granaglie, insieme con altre quote di sale marittimo. Ma, scoperta di prodotti agricoli, l’economia primaria del paese aveva per contro eccedenze esportabili nei settori dell’allevamento, della pesca e del bosco. I formaggi di valle Maggia erano assai popolari a Milano, e quelli di valle Lavizzara ed Airolo a Genova specialmente. Il legname forte era ricercato a Pavia, Piacenza, Cremona e nelle altre città padane che l’impiegavano a farne navi, e moltissimo legname da ardere finiva a Milano per il Verbano ed il Naviglio, dopo aver flottato sul Ticino od altri corsi d’acqua. Anche bestiame vivo, selvaggina, pesci, pelli gregge, resina di larice, marmi e cristalli passavano in pianura a pagare il grano, il sale e gli altri manufatti ch’erano oggetto di abituale scambio fra terre finitime e aperte. Se, com’è da credere, il valore degli acquisti superava in complesso quello delle vendite, l’emigrazione bastava largamente a rimettere in sesto la bilancia dei pagamenti. (L’emigrazione) Come da tutte le terre dell’arco alpino più ricche di uomini che di risorse, anche dal Ticino ogni anno sciamavano verso la pianura vicina e verso contrade lontane molti adulti e ragazzi in condizione di lavoro. Esercitavano i più disparati mestieri ed ovunque andassero si raccoglievano per villaggio d’origine, tenuti uniti da saldi vincoli di colleganza e d’amore al natio luogo, cui tornavano per le pause stagionali, e definitivamente da


vecchi. Il Franscini, per mostrare 1’importanza dell’emigrazione stagionale, riferisce che negli almi 1829, 1831, 1832 le autorità ticinesi rilasciarono una media di 11 000 passaporti all’anno, la maggior parte «a favore di artigiani e di operai che ritornano o nell’annata corrente o nella successiva» (Ibidem, p. 256). Più di tremila lavoravano come gessatori, scalpellini, muratori, fornaciai, camerieri ecc., nella Lombardia, non pochi visitavano il Piemonte ed altri Stati italiani, molti andavano stuccatori ed imbianchini nel resto della Svizzera, altri percorrevano la Francia, il Belgio e perfino la Prussia, come vetrai, cioccolatieri o marronai. A metà secolo a questa emigrazione stagionale ed europea, fatta di artigiani e mestieranti, si aggiungerà e quasi sovrapporrà quella oceanica, fatta soprattutto di coltivatori, allevatori, bonificatori e pionieri: e sarà un altro capitolo particolare del contributo portato dagli uomini delle terre alte alla nuova civiltà delle lontane pianure. In relazione alla sua popolazione il Cantone Ticino diede un cospicuo apporto all’emigrazione fuori continente: e basti rammentare che fra il 1850 ed il 1856, nello spazio di neppure sette anni, la sola valle Maggia vide partire poco meno di mille persone che rappresentavano l’ottava parte della sua consistenza demografica. (Un diffuso artigianato) Articolata a quel modo, neppure l’economia del Ticino poteva dirsi ricca, troppo avara essendo la terra da coltivare e troppo ristretta ancora la circolazione dei beni; ma era tuttavia un’economia abbastanza equilibrata, con discreta integrazione delle attività primaria e secondaria. La rivoluzione industriale, che già andava mutando il volto di altre contrade, non aveva ancora fatto presa sul piccolo paese serrato fra i laghi lombardi ed il massiccio dell’Adula. In esso l’artigianato di vecchio stampo conservava una certa vitalità, ed i prodotti usciti dalle piccole manifatture trovavano smercio col favore, non tanto della protezione doganale, quanto piuttosto della lentezza delle comunicazioni e dell’alto costo dei trasporti, vero baluardo, questo, all’introduzione di molte merci forestiere cui i manifattori locali potevano in qualche modo provvedere. I mestieri erano indubbiamente più diffusi allora di quanto non siano oggi: in ogni distretto si trovavano fornai, fabbri, maniscalchi, sellai, falegnami; e se non in tutti in più di uno certamente, conciatori, carrozzieri, fabbricanti di paste alimentari, distillatori e costruttori o riparatori di molti arnesi d’uso comune. Solo poche famiglie colte e ricche potevano far venire da via i libri, la mobilia, i panni, le porcellane, gli oggetti d’ornamento e qualche cibo di maggior pregio.


Prima dell’apertura della ferrovia del San Gottardo, accanto all’artigianato che si limitava a soddisfare le richieste locali, esistevano nel Ticino anche alcune imprese che lavoravano per l’estero, sia pure sempre in dimensione ridotta, come l’officina Guglielmetti di Locarno per la fabbricazione di pallini e lamiere di piombo, quella Fauser all’Alabardia che forniva fili metallici, cancelli, sedili, pompe idrauliche e torchi da stampa, e la Torriani di Mendrisio da cui, a detta di Luigi Lavizzari, uscivano «eccellenti orologi da campanili, macchine per estinguere gli incendi, torchi idraulici, letti in ferro, piccole macchine a vapore, parafulmini ed anche delicati strumenti ad uso delle scuole di fisica» (L. LAVIZZARI, il Monte Generoso ed i suoi dintorni, Lugano 1869, p. 36). II. Nell’età della ferrovia (La rivoluzione ferroviaria) Questo mondo appartato che reggeva da secoli, a metà dell’Ottocento si difendeva ancora validamente: esso entrò in lenta crisi allorché l’avvento delle ferrovie cominciò ad intaccarne le naturali difese. Nessuno oserà mai contestare gli immensi benefici morali ed economici che il nuovo mezzo di comunicazione arrecò al Ticino. Ben aveva compreso il significato di quella conquista il gruppo di cittadini che, con l’occhio attento a quanto avveniva nel resto dell’Europa, fin dal 1856 si rivolgevano all’opinione pubblica propugnando la fondazione di una società ferroviaria ticinese. Compito di questa doveva essere intanto di dotare prontamente il paese di una buona rete di servizi locali, da Chiasso all’alto Ticino, da Locarno a Bellinzona, congiungendo così le diverse parti del Cantone, ma tutto ciò nella prospettiva più importante del prossimo inserimento di quei tracciati nella grande arteria internazionale destinata a congiungere il Settentrione al Mezzogiorno, passando da Basilea e da Milano. Le Alpi sarebbero state vinte in un numero relativamente breve di anni: «Possiamo prevedere non lontano il tempo in cui tutte le società ferroviarie dell’Italia, della Svizzera e del Reno saranno chiamate dai loro comuni interessi a convenire in un patto, per superare a spese comuni, fosse pur anche a fondo perduto, uno o più passi delle Alpi» (Rapporto del comitato delle ferrovie ticinesi, ora in C. CATTANEO, Scritti economici, ed. Le Monnier, Firenze 1956, III, p. 255 sgg. ). Così si legge nel programma che porta le firme di Giacomo Luvini Perseghini, Carlo Battaglini, Pasquale Lucchini, Luigi Lavizzari, Carlo Frasca, G.B. Fogliardi, Carlo Soldini, Pasquale Veladini. Il rapporto riflette in termini inconfondibili il pensiero e lo stile di Carlo Cattaneo, che ne fu relatore.


Non doveva passare infatti neppure un quarto di secolo prima che l’ardimentosa linea del San Gottardo si snodasse percorrendo il Cantone nella sua maggiore possibile diagonale da Airolo a Chiasso. Evento memorabile quale nessun altro forse nella storia del Ticino libero codesto, che segnava la fine del suo isolamento geografico. Merito della grande ferrovia è d’aver reso agevole l’accesso delle genti alpine all’Europa meridionale e d’aver aperto per esse la porta del mondo tedesco: su un piano più generale ed universale, d’aver inaugurato un’era di ricambi preziosi di uomini, merci ed idee fra una parte e l’altra del continente, proprio nel momento in cui l’Europa viveva la sua piena stagione di libertà, di benessere e di potenza politica. Un fatto di questa portata non ha prezzo nella storia di una civiltà, e non è davvero con l’intento di sminuire il significato che se ne additano anche certe diverse implicazioni d’ordine pratico. È vero intanto che il vapore, raccorciando le distanze marittime e terrestri, contribuì pure a rompere l’equilibrio che reggeva molte comunità economiche. Il primo grido di allarme sulle conseguenze della rivoluzione dei trasporti echeggiò nella stessa Inghilterra allorché i coltivatori americani misero in serio pericolo l’agricoltura dell’isola, buttando sul mercato i frumenti raccolti con minima spesa nelle vaste terre vergini dell’Ohio e del Kansas, e trasportati in Europa su navi paganti noli bassissimi. Poté sembrare una vendetta del destino verso il paese che aveva scoperto la rivoluzione industriale, ma in realtà non fu per nulla una nemesi poiché l’Inghilterra si ripagò delle circostanze affidando a navi ed a ferrovie la propria espansione industriale nel mondo. Com’era inevitabile questi nuovi mezzi di diffusione operarono prontamente a favore della nazione che sola era in grado di offrire prodotti di serie e a buon mercato, e dovette passare del tempo perché la rivoluzione industriale distribuisse altrove i propri favori. Essa esigeva da ogni singolo paese particolari condizioni storiche: la disponibilità di determinate materie prime, un nucleo originario di capitale accumulato, una classe formata di imprenditori, ed inoltre l’esistenza di un mercato interno di vendita, protetto ed abbastanza esteso, che desse alle industrie nascenti la sicurezza del primo avvio. Non tutti i paesi potevano dirsi tanto fortunati, e se la gara dell’industrializzazione pareva aperta a tutti indistintamente, in realtà la storia del Sette e dell’Ottocento dimostra che difficilmente nazioni piccole per popolazione e doni naturali riuscirono a farsi subito strada nel grande agone competitivo. Solo più tardi le situazioni maturarono abbastanza da portare nuovi Stati al punto del «decollo industriale», con un certo ritardo sull’Inghilterra ed un ritardo minore sugli Stati che più prontamente ne


avevano seguito l’esempio. Nel frattempo la ferrovia dava tutti i suoi frutti, nei paesi grandi ed in quelli piccoli, dappertutto introduceva prodotti che scalzavano le manifatture di un tempo. In pochi anni il commercio e l’industria si trovarono: a dover affrontare problemi d’ordine nuovo ed inatteso. Anche per il Ticino il mezzo secolo che corre dall’inaugurazione della linea del San Gottardo alla prima guerra mondiale è periodo di ricerche, di adattamenti, di tentativi riusciti o mancati. Proprio allora nella sua storia entrava un dato nuovo e di rilevante importanza: la graduale formazione di un’efficiente economia industriale e commerciale svizzera, cui il Cantone farà ormai sempre più largo ricorso per la fornitura di beni strumentali e di consumo, oltre che di servizi d’ogni genere, e alla quale finirà con l’essere legato in un rapporto complesso di subordinata complementarietà. Mentre il mercato cominciava ad assorbire un numero crescente di prodotti d’origine forestiera, mentre l’artigianato e la piccola manifattura avvertivano i mutamenti dei tempi, il paese si vedeva costretto a cercare nuovi orientamenti economici più consoni ai nuovi indirizzi. (Ferrovia e turismo) La ferrovia stessa gli offrì qualche utile suggerimento. Fatto in gran parte nuovo che segue all’apertura del tunnel di Airolo è l’esordio dell’industria cantonale del turismo. La prima intuizione delle possibilità di avvaloramento economico, implicite nel clima e nelle bellezze della plaga luganese, è assai più antica. Essa risale addirittura al 1854, allorché Giacomo Ciani raccolse i suggerimenti di un confederato intelligente, Alessandro Béha, fondando a Lugano un albergo per la clientela di lusso e in diporto, che fece subito spicco fra le buone locande e le numerose osterie con stallazzo ove scendevano i viaggiatori e sostavano le diligenze a cavalli. Ma, per quanto alberghi di classe cominciassero a sorgere dopo il ‘60 - e quello del Monte Generoso Bellavista è del ‘67 - soltanto le agevoli dislocazioni ferroviarie da settentrione e da mezzogiorno avrebbero assicurato un flusso di frequentatori abbastanza nutriti da far sorgere e prosperare una vera industria alberghiera, diffondendola dalle rive dei laghi, ove s’era dapprima insediata, verso la Leventina e le altre valli. «Da alcuni anni molti vecchi stabili vennero trasformati e ne furono costruiti di nuovi nelle regioni dei laghi, al punto che, invece della mancanza di una volta, avremo presto esuberanza d’alberghi d’ogni categoria», scriveva il Béha qualche tempo dopo l’apertura della linea. Il turismo diede impulso al rinnovamento edilizio, alla costruzione e manutenzione di strade comunali e distrettuali, spinse le città a dotarsi di più comodi servizi pubblici ed operò come incentivo alla graduale


creazione di un patrimonio di istituzioni civili che servirono in definitiva anche la popolazione locale, contribuendo a rendere più comoda e civile l’esistenza di tutti, Lugano fin dal 1866 sì costruì il lungolago al quale una decina d’anni dopo s’affacciava il primo grande-albergo di Paradiso, e per tempo pensò al servizio del gas illuminante; anche Locarno già negli anni di fine secolo poté vantare i suoi impianti di gas, luce ed acqua potabile. Fra il 1896 ed il 1912 la rete dei trasporti regionali - ferrovie, tranvie e· funicolari - si andò infittendo, specie nel Sottoceneri; ma non lì soltanto: le Ferrovie luganesi, la Locarno-Bignasco, la funicolare del monte Bré, la Bellinzona-Mesocco, la Biasca-Acquarossa ed altre linee entrate allora in esercizio segnarono i momenti salienti di uno sforzo intenso a congiungere i borghi e le vallate disperse, rendere economici i traffici delle merci, frequenti ed agevoli le relazioni personali. (Risanamento fondiario e idrico) Risolto felicemente quel problema fondamentale delle comunicazioni, poté venire affrontato con più energia il risanamento fondiario ed idrico, la cui opera si trascinava da tempo immemorabile fra studi, progetti e parziali interventi. Fiumi e torrenti vennero imbrigliati od arginati, a cominciare dall’irrequieto Vedeggio e dalla Maggia. Il Ticino, «devastatore corrente» come lo chiamava Cattaneo, venne corretto, e finalmente poté dirsi avviato a risanamento il piano di Magadino. Negli ultimi lustri dell’Ottocento si concentrarono i mezzi sui lavori idraulici che dovevano risanare l’aria e restituire la vita al Piano, e al secolo nuovo venne trasmesso il compito di coronare l’opera con la bonifica vera e propria che pianta l’albero nelle vecchie paludi, innalza la casa colonica e intorno vi spande gli uomini. La bonifica del piano di Magadino esaudiva un’antica aspirazione ed allontanava dal Cantone l’ultima minaccia della malaria, ma non allargava di molto l’orizzonte delle terre arabili di cui disponeva il paese. Il Piano non era esteso quanto la Maremma toscana bonificata dai Lorena, e se vide sorgere una serie di nuove fattorie non rovesciò il bilancio complessivo di un’agricoltura, sul quale pesava sempre l’esiguità della superficie produttiva, calcolata dagli esperti in circa 23 000 ettari, appena poco più del 2 per cento di quella nazionale. E tuttavia quell’agricoltura povera di terre, frantumata in tante piccole aziende di tipo domestico, incapaci di ingrandirsi e rinnovarsi, continuava a rappresentare uno dei punti fermi, insieme col turismo, dell’economia cantonale. Malgrado le carenze e le inferiorità sottolineate crudamente in ogni confronto con l’agricoltura ben altrimenti ricca e distesa di altri cantoni, negli anni a cavallo del secolo nessuno pensava seriamente ad alternative d’altro genere.


(Decadenza serica) L’attività industriale che avrebbe dovuto alleggerire la campagna di una parte almeno del suo sovraccarico umano, stentava assai a farsi largo. La trattura serica, superato da un pezzo il suo punto culminante, era entrata essa stessa in una fase di regresso, sia pure lento all’inizio ed interrotto da qualche saltuaria ripresa. Si allontanavano gli anni ottimi delle sete nostrane, nei quali esse avevano goduto d’incondizionata preferenza sui mercati internazionali. Le produzioni asiatiche da tempo muovevano una concorrenza serrata a quelle europee, i prezzi dei bozzoli tendevano a scendere, scoraggiando i contadini o riducendo il loro incentivo ad affrontare i disagi fisici ed i rischi economici dell’allevamento. Minor produzione di bozzoli significava minor lavoro nelle filande e diminuiti guadagni per tutti, i contadini, le operaie della trattura, gli intermediari del commercio. La situazione si trascinò così per anni, finché all’indomani della prima guerra mondiale, per un improvviso accentuarsi dell’andamento sfavorevole del mercato, la bachicoltura entrò nella sua crisi mortale. Nello spazio di pochi esercizi s’arrestò del tutto il flusso di proventi che nel passato aveva sorretto tante piccole economie, e la campagna a poco a poco si spogliò dei gelsi o ne conservò soltanto pochi, ultima testimonianza di un’epoca conclusa. (Tentativi di nuova industrializzazione) Altre iniziative erano sorte per tempo, quasi nel presentimento di dover preparare un sostituto del setificio. Nelle campagne ad un certo momento parve che il tabacco potesse raccogliere intera l’eredità del gelso, ma le posteriori vicende ridimensionarono quella coltivazione. Nelle città e nei borghi la presenza della ferrovia alimentò invece la speranza di nuove industrie capaci di mandare lontano i loro prodotti. Il primo decennio del secolo fu caratterizzato da un grosso sforzo d’industrializzazione, sia pure troppo disperso e non abbastanza aiutato. Alcune delle imprese nate allora sopravvissero felicemente, come lo stabilimento del linoleum di Giubiasco e le fabbriche di cioccolata che, se anche più antiche, appunto in quegli anni si irrobustirono e presero importanza più che locale. Altre invece conobbero fin dall’inizio una vita stentata e scomparvero o prima o poi, lasciando debole ricordo: fra esse la ceramica di Sementina, la fabbrica di cappelli e la tessitura meccanica Jacquard di Bellinzona. Ma i più sicuri vantaggi della ferrovia li conseguì l’industria del granito, cui finalmente s’apriva oltre San Gottardo un grande mercato di collocamento: e mai essa fiorì tanto come negli anni prebellici nei quali giunse a dare lavoro fino a tremila persone; poi la sua fortuna s’oscurò in


parte, per varie e complesse ragioni. Tramonto più repentino, anche se non proprio definitivo, conobbe la lavorazione della paglia che nelle sue forme schiettamente di paese aveva attraversato periodi di grande espansione, a vantaggio soprattutto delle donne dell’Onsernone. In gran parte dovuto alla nuova rete di trasporti può considerarsi infine lo sviluppo dell’industria del vestiario e delle confezioni in genere, che nella perenne ricerca di bassi salari insegue le sue maestranze femminili fin sulla linea del confine politico meridionale. Questo ramo di manifattura, che s’affacciò nel Ticino mezzo secolo fa, è ancora oggi caratteristico della struttura sociale del Cantone, e va annoverato fra i suoi più importanti, per lo meno quanto a numero di persone occupate. L’industria turistica percorreva la propria strada, ma per contro, in complesso, il vecchio artigianato stentava a spersonalizzarsi, a mutare struttura, insomma a diventare industria moderna, Eppure erano quelli gli anni in cui altri cantoni progredivano rapidamente, accrescevano le fonti della loro ricchezza, prendevano a sviluppare l’industria meccanica senza abbandonare del tutto quella tessile. Proprio in quella fase di trapasso nella quale si profilava una grande economia svizzera, si sarebbero avvertite le difficoltà di estenderne il moto espansivo a sud delle Alpi, nel cantone più meridionale, chiuso da un confine doganale o da un’alta barriera di monti. L’entità demografica fissava i limiti del mercato interno e lo scarso slancio dell’economia rallentava il consolidamento di quelle infrastrutture mercantili che in ogni moderna società operano a loro volta come forze di promovimento industriale. (La vicenda bancaria) La stessa vicenda delle banche, che ad un certo momento appaiono impegnate nel vivo dell’economia, doveva concludersi presto con un richiamo alla circospezione ed un ammonimento a non forzare dall’esterno la situazione. Fra le grandi creazioni dell’Ottocento va annoverata anche la banca, di deposito e credito, più specificamente a carattere commerciale. Anche nel Ticino erano sorti per tempo istituti d’ambo i generi, ed avevano raggiunto un discreto sviluppo, grazie al favore incontrato presso i piccoli depositanti e le famiglie degli emigranti, depositarie al solito di faticati risparmi. Ma d’improvviso, e quasi simultaneamente, nel 1914 caddero le tre principali banche del paese, la Banca Cantonale Ticinese risalente al 1861, il Credito Ticinese, nato in forma di anonima nel 1890, e la Banca Popolare di Be1linzona, fondata nel 1885: dissestata quest’ultima, fallite le prime due, a causa di sfortunate ed aleatorie operazioni di investimento, e non senza


qualche responsabilità di disordinata amministrazione interna. L’opinione pubblica rimase assai scossa da quelle rovine, ma le banche non scomparvero dal paese, sia perché qualche altro istituto era riuscito a salvarsi e continuava a tenere aperti gli sportelli, sia perché sulle rovine delle due banche fallite sorse prontamente la Banca dello Stato. Il fatto ebbe tuttavia durature conseguenze perché cambiò l’indirizzo degli istituti di credito e, se li rese più avveduti, smorzò anche la spinta che essi, con qualche maggior ardimento, avrebbero potuto imprimere ad un’economia in formazione. La giovane Banca dello Stato assurse a custode intangibile del risparmio pubblico ed a garante di prudentissime gestioni, ispirando anche la condotta degli altri istituti che si introdussero più tardi nel Cantone. Ma la mancanza di occasioni di impiego dei capitali fece sì che il Ticino, cantone finanziariamente fra i più deboli, finì col mandare una parte dei propri risparmi nei cantoni più ricchi, attraverso il sistema bancario, il collocamento dei debiti pubblici ed il meccanismo delle assicurazioni, esercitato nel suo territorio da società aventi altrove la sede ed il centro prevalente dei loro interessi. (Mediocre andamento demografico) Il XIX secolo, malgrado i larghi vuoti fatti dall’emigrazione di masse contadine ed operaie verso le due Americhe, aveva registrato una vigorosa ripresa demografica in tutti i paesi d’Europa, ed in quelli favoriti dalla trasformazione industriale in primissima linea. In quel lungo intervallo crebbe anche la popolazione del Ticino, ma in proporzione ridotta, e ad un tasso medio assai inferiore a quello nazionale. Fra il 1837 ed il 1900 il numero degli abitanti del Cantone passa infatti da 113’634 ad appena 138‘638 (Per i dati del 1837, cfr. S. FRANSCINI, Sv. It., II, p. 296): e non v’è forse altro dato in cui i problemi di crescita del paese siano riflessi con altrettanta fedele immediatezza. (La prima guerra mondiale) Quando scoppiò la prima guerra mondiale, i paesi neutrali da un lato si videro costretti a meglio sfruttare tutte le proprie risorse interne per svincolarsi il più possibile dalla gravosa soggezione alle nazioni belligeranti, e dall’altro lato furono allettati da numerose offerte di carattere industriale. Nel Ticino i lavori della bonifica del piano di Magadino vennero spinti avanti con maggiore solerzia nell’assillo di recuperare qualche terra utile alla battaglia dell’approvvigionamento alimentare; in pari tempo sembrò che stesse per scoccare l’ora definitiva della grande industria elettrochimica. Già da qualche anno grossi complessi europei avevano posto gli occhi su Bodio e le circostanti ricchezze idriche.


Una fabbrica vi produceva leghe di ferro e carburo, esportate soprattutto in Germania, un’altra, dipendente anch’essa da un gruppo forestiero, lavorava nel campo degli azotati, altri stabilimenti ancora contribuivano a fare della cittadina un nucleo industriale che potè svilupparsi ulteriormente sotto la spinta degli eventi bellici, fino a dar lavoro ad un migliaio di operai. La forza di Bodio, che era poi quella del Cantone intero, risiedeva nell’energia elettrica abbondantemente disponibile. Proprio la guerra, mettendo in crisi i rifornimenti di combustibile e dando una spinta enorme alla metallurgia, doveva rivelare pienamente il valore economico e strategico del carbone bianco, la cui importanza peraltro non era sfuggita a suo tempo né ai pionieri della scienza elettrotecnica né a quanti, con spirito più pratico, già pensavano allo sfruttamento economico dell’energia. Da parecchi anni gli esperti percorrevano le vallate alpine per reperirvi i più ricchi bacini imbriferi e le migliori cascate, di cui società di fresca costituzione s’affrettavano ad assicurarsi la privativa legale. Un inventario sia pure provvisorio del patrimonio idrico svizzero rivelava prima della guerra l’eccellente situazione del Cantone Ticino, quanto a potenziale sfruttato o da sfruttare, sottolineando in definitiva che sul piano industriale i corsi d’acqua del versante alpino meridionale serbavano tanta forza da assicurare energia motrice a qualsiasi numero di macchine si fosse pensato di introdurre. Forse il significato rivoluzionario di quella scoperta non fu pienamente capito, o piuttosto mancò il coraggio di affrontare gli ostacoli che una politica idroelettrica risolutamente intesa a trattenere nel paese il più possibile di quella ricchezza naturale inevitabilmente avrebbe trovato sulla sua strada. La forza poteva diventare il dato fondamentale dello sviluppo economico del paese, e ciò invece non fu. Dell’energia prodotta dalle centrali a mano a mano installate nel Ticino, una parte venne accaparrata dai più grossi comuni per i loro servizi urbani, e rappresentò la quota di più felice destinazione sociale, una parte andò in concessione alle ferrovie federali e permise di elettrificare per tempo la linea del San Gottardo; una parte infine divenne merce di esportazione: convogliata da società di privati, prese direzioni diverse, finì ad alimentare altri impianti ed arricchire altre industrie, lasciando nel paese inadeguati contributi fiscali per concessioni erariali o tasse d’esercizio. La stessa industria di Bodio non sopravvisse molto, in quella forma almeno, all’eccezionale periodo internazionale che ne aveva spinte le fortune. Una rovinosa esplosione verificatasi nel luglio 1921 giunse ad accelerare precisi propositi di smobilitazione, che pure avrebbero potuto venire abbandonati se si fosse superato il difficoltoso momento della riconversione postbellica, e se nel


frattempo l’amministrazione delle ferrovie federali avesse compreso l’opportunità di mitigare la tariffa dei trasporti che, enormemente salita in pochi anni, era diventata il maggior ostacolo all’inoltro verso il settentrione dei prodotti di Bodio. Caduto il nucleo di Bodio, andò perso il solo tipo di industrializzazione che poteva dirsi congeniale all’economia naturale del paese. Il dato più impressionante messo in risalto dal censimento industriale del 1934 è la contraddizione economica per cui un cantone che disponeva di tanta energia elettrica, si ritrovava ad avere installate quasi unicamente manifatture scarsamente o punto meccanizzate. Nelle 267 fabbriche rilevate dalla statistica risultavano infatti impiantati 8445 HP in tutto, dunque appena 32 in media per fabbrica. (L’economia ticinese nel 1934) Il 1934, l’anno in cui il mondo cominciava a riprendersi dalla grande crisi, era un momento propizio per allestire un bilancio economico secondo i rilievi precisi della statistica. Delle 41’013 persone occupate fuori dell’agricoltura, 9’274 lavoravano in quelli che secondo la definizione legale potevano chiamarsi stabilimenti veri e propri. V’erano 1’149 addetti all’industria metallurgica e meccanica, 392 a quella tessile, un migliaio di occupati nelle cave e miniere; ma nel settore terziario dominava in modo assoluto il personale d’albergo con la sua schiera di 6’257 individui. Alla luce delle cifre ufficiali appariva manifesto l’impoverimento dell’agricoltura e della selvicoltura. Dal 1895 al 1928 i capi alpeggiati erano calati alla quarta parte, i suini, i caprini e gli ovini a meno della metà. Delle varie coltivazioni la cerealicola appariva maggiormente sacrificata. L’agricoltura ticinese, che nel 1865 dava grani in quantità sufficiente a coprire i consumi interni durante 130 giorni, negli anni trenta bastava per mezzo mese appena. Era diminuito il numero di persone occupate stabilmente in agricoltura (30’488 nel 1929) ma non era mutata in pari grado la struttura dell’impresa agricola. I contadini, fortunatamente, lavoravano quasi tutti terra propria e non v’era traccia nel paese di latifondo o di problemi di bracciantato, ma per contro nel quadro della distribuzione fondiaria prevalevano le piccole aziende insediate su possedimenti di tre ettari o meno ancora. I figli dei contadini cercavano sempre più numerosi il loro guadagno stabile fuori dell’economia domestica, e l’integrazione di qualche paga di stabilimento coi proventi delle coltivazioni, cui tutti davano una mano nei ritagli di tempo nelle vecchie case di campagna; assicurava un assetto meno precario a molte minuscole economie rurali.


(Spopolamento montano. Immigrazioni e emigrazioni) In connessione con le ristrettezze dell’agricoltura e coi disagi della montagna le valli continuavano a spopolarsi: la Verzasca fra il 1850 ed il 1930 perde un terzo dei suoi abitanti, la Maggia di più ancora, e tutte le altre in proporzione, ad eccezione della Leventina, la sola veramente favorita dai fattori antichi e nuovi della geografia. Molti valligiani sono scesi al piano o andati nel mondo; ma in complesso lo spostamento della popolazione delle terre alte giovò mediocremente agli agglomerati maggiori del Cantone, la cui forza di attrazione, fondata specialmente sullo sviluppo del commercio, del turismo e della pubblica amministrazione, ed assai meno su quello dell’industria, si manifestò in termini molto modesti. Bellinzona, Chiasso, Locarno nel 1930 contano all’incirca gli abitanti di vent’anni prima; a Biasca la privazione di un’officina, trasportata altrove dopo l’elettrificazione della linea, ha rovesciato addirittura la curva demografica. Dopo l’apertura del tunnel di Airolo le insistenti richieste dell’industria svizzera indirizzano oltre San Gottardo la maggior parte dell’emigrazione stagionale ticinese. A parte questa, nel 1930 sono più di 20’000 i ticinesi domiciliati stabilmente in altri Cantoni. Minore, nel confronto, è il numero dei confederati che si sono trasferiti nel Cantone, ma erano soltanto 824 nel 1880 e sono passati a 11’421 nel 1930. Funzionari federali alcuni, i più sono attivi nel commercio, negli impieghi privati e in quell’industria alberghiera alla quale svizzeri tedeschi e germanici fin dall’origine diedero un apporto prezioso. Nel 1930 risiedevano nel Cantone oltre 30’000 stranieri, italiani nella grandissima maggioranza: un flusso immigratorio, non impetuoso ma continuo, gradatamente riassorbito nel tessuto della popolazione locale, serviva a sostenere un bilancio demografico indebolito per altro verso dalle emigrazioni e corroso dalla bassa natalità. (Alla vigilia della seconda guerra mondiale) Ad un terzo del secolo l’immagine del Ticino è quella di una società che alla vigilia della seconda guerra ignora le grandi imprese economiche, si tiene al riparo dalle esasperazioni mondiali dell’urbanesimo, ama intrecciare le attività impiegatizie con le medie e piccole iniziative commerciali, ed è impregnata ancora fortemente di spirito rurale, anche se l’agricoltura vi è in decadenza e gli uomini cominciano ormai a disertare le campagne.


Nel 1937 Antonio Galli dava alla stampa i tre volumi di Notizie sul Cantone Ticino, elaborati per incarico della Società demopedeutica. Basta rileggere le parole con le quali l’ente promotore presentava l’opera, per rendersi conto che ideali di quella sorta erano vivi allora nell’animo di numerosi magistrati ticinesi, interpreti certamente delle aspirazioni di molta parte del popolo: «Non possiamo e non dobbiamo ignorare che oggi spesseggiano le opere denuncianti gli sconquassi materiali, sociali, individuali e morali causati nel mondo dal falso progresso; che la «civiltà» industriale e meccanica è in stato d’accusa; che si generalizza il pensiero essere dappertutto la vita, regolata dal sole e dal ritmo delle stagioni (che si vive nelle campagne e nelle valli, in cospetto del cosmo, a diuturno e operoso contatto coi quattro elementi) la più sana, la più naturale per la massa degli uomini, delle donne e dei fanciulli. Terra stat.» Ed inoltre: «Attaccamento indefettibile alle provvidenziali istituzioni elvetiche e alla cultura italiana, sano progresso, diffidenza verso la civiltà meccanica e industriale, ritorno ai campi e all’artigianato: siamo certi che questi saranno gli ideali anche dei nostri nipoti, poiché libertà, cultura, lavoro assiduo e intelligente, semplicità di vita e di costume sono valori umani eterni.» (Presentazione ad A. GALLI. Notizie cit.) III. Verso un mondo nuovo (Mutamenti di ideali e di vita) Ma le vocazioni e le attese di un popolo maturano confluendo nel corso maggiore della storia, i cui tracciati misteriosi si svolgono fuori d’ogni previsione e ad insaputa degli stessi protagonisti. Le guerre dividono gli uomini e subito dopo la pace li riaccosta in un ideale di coesistenza riconsacrato dalle sofferenze patite ed arricchito di nuove esperienze morali e tecniche. Anche dal conflitto conclusosi nel 1945 il mondo è uscito profondamente mutato nei sentimenti e nelle aspirazioni. Esso vive oggi nell’incubo di una rivoluzione scientifica che con le sue terribili ed affascinanti scoperte ha cambiato i presupposti dell’umana convivenza e sconvolto la stessa strategia militare e politica delle nazioni e dei continenti; ed è avvinto in pari tempo ai progressi del mondo esterno che operano essi pure una quotidiana rivoluzione minore. II lavoro manuale dell’uomo, dopo essere stato per secoli legge e misura di ogni economia di produzione c di scambio, ha ceduto il passo alla macchina: e contro la civiltà artigianale, incentrata sull’individuo e la sua fatica, s’è eretta una civiltà capitalistica, assai più dinamica e, nel confronto,


ben altrimenti capace di espansione e di recuperi. L’attività agricola aveva prevalso a lungo su quella manifatturiera, non soltanto perché teneva legata a sé la maggior parte della popolazione, ma pure perché, rifornitrice dei beni essenziali all’esistenza e di molte materie prime richieste dall’industria, essa imponeva anche a questa il ritmo lento e cadenzato dei proprie stagioni. Con l’avvento del macchinismo l’industria cominciò ad emanciparsi ed a progredire per strade proprie, e il baricentro del lavoro si spostò lentamente dalla produzione di materie di base alla loro trasformazione in beni di consumo, portandosi in pari tempo dalla campagna verso la città. La storia del mondo moderno non può essere intesa prescindendo dalla rivoluzione industriale, questo fatto grandioso intorno al quale sono maturati gli eventi più importanti del secolo scorso e del nostro. Ad essa molto si deve, nel bene e nel male, di quella che è la civiltà in cui viviamo immersi: la grande fabbrica ed il proletariato che le pullula attorno; gli aspetti nuovi dell’istituzionalismo giuridico con la società anonima, la holding e la borsa; il nuovo schieramento delle potenze economiche con la rapida ascesa di alcuni stati ed il progredire incerto di altri; una mobile demografia e gli squilibri sconcertanti dell’urbanesimo. (Nuovi problemi sociali) Ognuno di questi fenomeni, assai più che una novità dei nostri tempi, è la portata di un processo storico in atto ormai da un pezzo, ma di tutti indistintamente il secondo dopoguerra ha accentuato i termini ed esasperato le tendenze. Si possa o non si possa parlare a rigore di una nuova rivoluzione attuata nel segno dell’automazione, dello sfruttamento dell’energia termonucleare e della velocità ultrasonica, quello che veramente conta è riconoscere che in un ventennio fecondo di scoperte e di applicazioni vennero compiuti progressi enormi lungo la strada di una strutturazione organica e altamente razionale della vita economica. Nelle grandi imprese industriali ha preso il deciso sopravvento il capitale, inteso nella sua più larga accezione di risparmio investito in immobili ed impianti, ricerche ed invenzioni, organizzazione tecnica ed amministrativa. Fattore poderoso di accentramento e di sviluppo, il capitalismo economico, mentre ridistribuisce in maniera assai diseguale fra gli individui i mezzi di produzione, tende anche ad accentuare il contrasto esistente fra gruppo e gruppo di stati, opponendo in termini ognor più netti il benessere degli uni alla miseria degli altri. Due secoli fa sarebbe riuscito abbastanza difficile cogliere una forte differenza quantitativa fra il tenore di vita di operai o contadini appartenenti a paesi diversi; oggi un coltivatore americano dispone di una quantità di beni e di servizi assai superiore di quelli goduti


da un coltivatore europeo; e questo, a sua volta, distanzia almeno di altrettanto il suo collega d’Africa o d’Asia. In questi fatti d’ordine economico s’annidano realtà politiche e morali i cui densi significati non hanno potuto a lungo venire ignorati. Ogni dibattito internazionale ha ormai come sottintesa, sia pure a volte inespressa e confusa, un’esigenza di rottura e di giustizia, dopo che molti popoli sono divenuti insofferenti del loro stato di inferiorità e che i paesi fortunati hanno cominciato a rendersi conto di quanti pericoli comporti anche per essi la cruda contrapposizione di un’umanità ricca e soddisfatta e di un’umanità povera e infelice. L’azione di aiuto ai paesi cosiddetti sottosviluppati è sentita oggi nell’interesse stesso della pace del mondo, ma essa tende a creare una più vasta solidarietà economica fra le diverse contrade, ed in questo senso potrà giovare alla lunga alle nazioni forti forse altrettanto che a quelle deboli. (Significato di un nuovo regionalismo) Quanto profondamente i problemi del benessere e dello sviluppo siano entrati oggi nella coscienza civile lo conferma il ritorno polemico dello spirito regionalistico, cui si assiste quasi in ogni nazione. L’opinione pubblica si è mobilitata a livello regionale per le stesse cause di preoccupazione e malcontento che operano a livello più alto fra i diversi raggruppamenti statali. Il progresso globale di una nazione comporta infatti anch’esso disparità interne e tende a sacrificare alcune contrade nel confronto di altre meglio predisposte dalla storia o dalla geografia. Forse il contributo più brillante che l’ultima generazione di economisti ha dato alla scienza sociale consiste nell’aver spezzato lo schema dottrinario ed ottimistico dell’equilibrio, caro agli scrittori della scuola classica e riecheggiato ancora qua e là dai loro tardi epigoni. Buoni ragionamenti, suffragati da convincenti verificazioni storiche, hanno contribuito a mettere nel dovuto risalto il principio di perenne squilibrio che governa le società nel loro interno. Al più si può parlare oggi di grandi poli di attrazione spaziale fra i quali tende a formarsi a distanza un certo rapporto dinamico in fase di perenne sviluppo; ma nell’ambito di un’economia chiusa e delimitata nulla è più difficile a conservare che il livellamento reciproco delle singole parti: la popolazione tende a spostarsi da terre poco abitate verso paesi già fitti di uomini, i capitali corrono ove altri capitali crearono gli strumenti del credito e le occasioni degli investimenti, le fabbriche nuove quando possono scegliere la propria ubicazione si avvicinano ai grossi mercati di consumo o preferiscono l’ambiente già reso maturo e ricettivo da altri insediamenti di tipo analogo. In generale la banca si lega


alla borsa e all’industria, l’industria alla pubblica amministrazione e al grande commercio, la pubblica amministrazione all’università… La carta industriale dell’Europa mostra la forza di concentrazione delle grandi iniziative siderurgiche, tessili e chimiche; e la storia demografica del continente è altrettanto ricca di indicazioni di questo genere. Da molti decenni a questa parte l’intero incremento demografico della Francia è assorbito da Parigi e dal suo distretto, ed intanto dipartimenti interi e regioni, come la Corsica, continuano a regredire; in Italia, fra Milano, Varese e Como sta sorgendo un conglomerato umano di parecchi milioni di abitanti, esteso quasi senza rottura di continuità urbanistica, e mezza penisola almeno perde invece abitanti; verso il Mare del nord la metropoli industriale di domani si va profilando rapidamente a cavallo di tre Stati, da Amsterdam, a Bruxelles, a Lilla; in Svizzera già un quinto della popolazione si è concentrato in un solo Cantone, quello di Zurigo, guidato da una capitale vitalissima che sembra predestinata a crescere ancora e ad assumere una funzione sempre più importante nell’economia dell’intera Confederazione. (Gli squilibri economici regionali) Il senso del nuovo regionalismo nasce dalla consapevolezza diffusa in molte regioni che un’azione dev’essere tentata localmente per neutralizzare, in parte almeno, quella che il Myrdal chiama «la cieca legge dei cambiamenti sociali cumulativi». Codesto moto di rivendicazioni particolari non investe unicamente le nazioni povere, quelle che avvertono più forte l’ansia di mutare volto e di non farsi definitivamente superare, ma anche le nazioni ricche, nelle quali il problema della distribuzione del reddito si pone in termini fortunatamente elevati. Ogni regione, ogni cantone, ogni provincia, ogni dipartimento, si può dire anzi ogni valle e ogni comune, dibatte i problemi propri ed ha qualche rivendicazione da fare valere. Per nessuna comunità esiste un punto ideale, toccato il quale all’animosità inquieta subentri la soddisfazione del traguardo raggiunto. La spinta al progresso è un portato della civiltà moderna, un dato inerente ai rapporti di pacifica emulazione che ogni contrada intrattiene con tutte le altre ad essa legate per un titolo o per l’altro. E ci riporta qui all’argomento principale del nostro discorso la considerazione di quanto comprensibile e legittimo sia anche il desiderio del Cantone Ticino di affrontare criticamente i problemi della sua vita riportandoli alla prospettiva del grande contesto storico di cui fa parte. Punto di riferimento del Cantone in ogni valutazione del proprio stato devono essere i Cantoni più evoluti e dinamici: e i suoi sforzi vanno


indirizzati per respingere almeno la qualifica di zona arretrata che gli economisti attribuiscono alle regioni il cui livello economico rimanga sensibilmente inferiore a quello medio nazionale. (Un ventennio di sviluppo economico) Indubbiamente chi si volti ad abbracciare in un solo sguardo il periodo postbellico e consideri ciò che esso ha significato per il Cantone Ticino in termini di economia sociale, troverà nel proprio giudizio numerosi motivi di compiacimento. Dopo la guerra un migliore rapporto fra investimenti e popolazione ha consentito di raggiungere uno stato di piena occupazione, la certezza di un guadagno per ogni persona atta al lavoro. Ed è già di per sé un fatto senza precedente storico che sia finito, o ridotto in proporzioni insignificanti e per così dire naturali e fisiologiche, l’esodo di maestranze che annualmente dovevano varcare i monti alla ricerca di un impiego. Di più anzi: da qualche anno l’economia del Cantone fa appello alla mano d’opera straniera in proporzioni assai maggiori di un tempo, allorché l’immigrazione di operai italiani non superava di molto l’indice del ricambio naturale, proprio ad ogni terra di confine. L’edilizia attraversa una lunga visibile fase di espansione (anche troppo, osano affermare quanti temono che il cemento finisca col manomettere il paesaggio naturale ed urbanistico che è un retaggio prezioso di civiltà); in pochi anni s’è moltiplicato il numero delle aziende commerciali ed artigiane; il risparmio ha raggiunto livelli confortanti, le banche continuano ad offrire nuovi servizi, al pari del resto degli studi legali e notarili, indaffarati come non mai a suggellare iniziative private e combinazioni varie d’affari. Tutto considerato, il benessere è sceso anche dalla cima della piramide verso la base, e sono proprio rare le famiglie che in questi anni non abbiano esteso e migliorato il loro tenore di vita. I segni di un reale progresso non sono dubbi. E tuttavia con i dati positivi dell’evoluzione sociale ne affiorano anche altri che sollevano dubbi e serie perplessità. Nessuno che in questi anni abbia percorso la Svizzera interna e ne conosca le particolari situazioni, sfugge alla sensazione che il grado di benessere raggiunto in altri Cantoni è ancora ignorato al di qua delle Alpi. Il raffronto coi Cantoni che sono all’avanguardia industriale non è ovviamente neppure da tentare, ma è vero inoltre che il Ticino non regge al paragone neppure con Cantoni periferici che, a parità d’altre condizioni, godono di un’agricoltura assai più prospera della sua. Si vorrebbe disporre del preciso bilancio economico cantonale, e ci si augura che fra non molto, approntati gli strumenti necessari dell’indagine metodologica, si possa tenere un discorso comparativo che promette di condurre a conclusioni


interessanti. Conoscere con alta approssimazione le diverse fonti dell’economia cantonale, essere in grado di comparare il reddito monetario dell’abitante del Ticino con quello dell’abitante di un altro Cantone e col reddito medio nazionale, significherà oltre tutto disporre di un punto di orientamento cui riferire ogni piano d’intervento a sostegno dell’economia locale. Ma nel frattempo non pare avventato giudicare abbastanza sensibile la distanza che divide oggi il Ticino dal resto della Confederazione, Se l’intera Svizzera attraversa un lungo periodo eccezionalmente favorevole, se dappertutto la ricchezza è cresciuta sensibilmente nel dopoguerra ed anche il Ticino è inserito in questa corsa al successo economico, è non meno vero ch’esso è partito da un punto assai più arretrato di altri Cantoni e che lungo il percorso il ritmo del suo procedere è rimasto comparativamente più lento. A vecchi fattori di remora, già operanti da tempo, se ne sono aggiunti altri in questo periodo di generali impetuose trasformazioni. Le tabelle dei censimenti demografici ed economici racchiudono la spiegazione di una situazione complessa che rischia di sfuggire ad un giudizio affrettato. (Regresso dell’agricoltura) Il risultato più importante dell’evoluzione recente delle strutture economiche del Cantone Ticino è l’ulteriore forte regresso dell’agricoltura. Fra il 1939 ed il 1955 il ruolo degli addetti all’agricoltura ha perso oltre la metà della propria consistenza, passando da 30’488 unità a 14’384; fra il 1955 ed il 1961 è precipitato. Oggi neppure 10’000 persone trovano nell’agricoltura la loro stabile occupazione. La media degli addetti al settore economico primario è scesa nel Ticino al disotto della media nazionale: in proporzione agli abitanti, il Cantone conta tanti contadini quanto il Belgio, ma non ha per contro né un’agricoltura di alto reddito unitario del tipo fiammingo né la formidabile industria della Vallonia. Il ridimensionamento agrario era inevitabile ed opportuno ma ha avuto troppo il carattere di un puro e semplice abbandono della terra, non ha ripetuto nel Ticino il «miracolo» del Vallese, fatto di vigneti e di frutteti stupendi, e poi di un’avveduta industrializzazione dell’agricoltura. Certamente il lungo sforzo spiegato dal governo cantonale per qualificare le colture orticole più confacenti al clima ed al suolo ticinesi, ha dato anche qualche risultato apprezzabile; resta però che nel complesso l’agricoltura declina, non solo perché continua a respingere braccia, ma anche perché si fa sempre più debole, ormai trascurabile, il suo apporto alla formazione del reddito cantonale.


(Le nuove strutture industriali) Di fronte a questo ripiegamento dell’agricoltura - che tutto lascia supporre irreversibile - il processo di industrializzazione che è in atto nel Cantone continua a svolgersi secondo una linea tradizionale che ne ripete vecchi pregi e vecchie mancanze. La statistica può ingannare senza mentire quando parla di quasi 40’000 individui che sono attivi nei vari settori industriali, cifra che riferita ad una popolazione di neppure 200’000 anime colloca il Cantone ad un alto scalino della graduatoria nazionale. Ma così come il valore dell’agricoltura non si misura dal numero di braccia impiegate ma dall’entità delle rese, il valore dell’industria non è questione di individui occupati ma piuttosto di produzioni ottenute e di redditi distribuiti. Qui è il punto più debole dell’economia ticinese, che annovera ancora troppe industrie aventi struttura scarsamente capitalistica. Il gruppo delle industrie tessili, in cui si proiettano anche le confezioni, rivela la sopravvivenza nel Ticino di uno stadio di sviluppo economico che altri Cantoni ed altri paesi hanno egualmente conosciuto, ma oltre il quale sono riusciti ad andare. La decadenza relativa di quella che per tempo immemorabile, fino alle soglie del nostro secolo, fu la più importante ed estesa delle attività manifatturiere, segna un trapasso di strutture cui nessuno dei paesi economicamente evoluti ha potuto sottrarsi. Già negli anni della crisi economica mondiale il Presidente Roosevelt chiamava l’industria tessile «la grande malata», per le sue manifeste ridotte capacità di ripresa e l’impossibilità di rivaleggiare, quanto a forza d’espansione, con i tipi di industrie nuove. Mentre il consumo mondiale del tessili si mostrava piuttosto rigido, la meccanizzazione degli impianti rendeva superfluo l’impiego di molta mano d’opera, ponendo l’industria di fronte ad inesorabili problemi di riconversione. L’Inghilterra che nell’Ottocento aveva dominato il mondo con le sue lanerie e cotonate cercò d’indirizzarsi ad altre lavorazioni; in Svizzera rimase memorabile il travaglio dei Cantoni orientali e centrali nei quali il cotonificio era giunto a grande estensione. L’industria tessile non è destinata a scomparire dall’Occidente ma ad assumere nuove dimensioni e nuove consistenze. Al posto di un’industria diffusa e pletorica è venuto sorgendo in questi anni un’industria più concentrata, che nelle sue forme più dinamiche e moderne si imparenta sempre più strettamente con la grande industria chimica, la quale le fornisce coloranti, resine, prodotti sussidiari e, in proporzioni crescenti, anche una parte della materia prima, quelle fibre artificiali e sintetiche, la cui fortuna pare destinata a gettare nell’ombra le vecchie fibre naturali. Nella sua parte più mobile l’industria tessile scivola nel grande alveo della


chimica che tutto invade ormai; e nei limiti in cui rimane ferma nelle sue vecchie posizioni - il cotonificio, il lanificio, il canapificio - è lungi dal rappresentare il momento più ricco di un’economia nazionale che abbia raggiunto un certo grado di maturità: ogni paese nuovo od ex coloniale comincia la propria industrializzazione da questo particolare settore cui può avviare maestranze rapidamente istruite e poco retribuite. I Cantoni svizzeri che negli ultimi decenni hanno affrontato vittoriosamente le forme più vitali dell’economia moderna, che si diedero alla meccanica pesante e a quella di precisione, alla chimica organica e all’inorganica, che accanto ad una potente industria seppero creare un adeguato apparato commerciale e finanziario, appaiono oggi più progrediti di un Cantone che continua ad abbracciare attività assai più dimesse e meno promettenti. La spiegazione è nella storia e nella geografia, e non v’è da stupire che una piccola comunità periferica non abbia tenuto il passo con un agglomerato tanto più forte, culturalmente compatto, che la sorte ha favorito ponendolo nel cuore stesso dell’Europa, direttamente partecipe di una delle zone di più alta civiltà economica esistente nel mondo. (Nuovi orientamenti economici) Ma senza voler concedere troppo ai fattori d’ordine naturalistico, e tenendo gli occhi fissi sempre sulla realtà, è giunto il momento di chiedersi se i nuovi orientamenti dell’economia e della politica non lascino al Cantone Ticino qualche fondata speranza di migliorare la propria sorte nel prossimo avvenire. L’evento più notevole di questi tempi che interessa da vicino il Ticino, proprio in rapporto alla sua posizione geografica, è la rivalutazione economica del Mediterraneo. All’avvento dell’era moderna la scoperta dell’America e quella quasi contemporanea delle vie delle Indie orientali causarono la decadenza del Mediterraneo che fini per venire quasi completamente disertato dalla navigazione commerciale delle nazioni dell’Europa settentrionale, riducendosi a mare interno. Esso si rianimò bensì dopo il taglio dell’istmo di Suez, ma soprattutto come via di transito per le navi che dal nord Europa raggiungevano l’Asia facendovi rare soste. Oggi il Mediterraneo è in ripresa, sia perché cresce l’importanza economica delle nazioni che gli si affacciano, sia perché gravitano alle sue sponde alcuni paesi del Medio Oriente la cui importanza è assai aumentata da quando sono diventati fornitori all’Europa di materie prime essenziali. Il Mediterraneo tende così ad assumere nuovamente quella funzione di intermediario che nel passato ne fece un grande centro di civiltà e di vita economica.


Ormai è evidente che esiste un duplice, non contrastante interesse all’apertura di nuove vie di comunicazione nel centro delle Alpi, di qualunque genere esse siano, purché servano agli uomini e alle merci che in una direzione o nell’altra cercano il Mediterraneo, Anzitutto un interesse nazionale svizzero, poiché ogni chilometro guadagnato nell’avvicinamento al mare si traduce in un vantaggio preciso per l’economia di un paese dell’interno, che intrattiene relazioni con tutti i continenti e si rifornisce in terre lontane di numerose materie prime: e da nessuna parte il mare è tanto vicino alla Svizzera quanto da mezzogiorno. E poi un interesse specifico ticinese, per i benefici d’ordine non solo commerciale che il Cantone può avere da comunicazioni passanti per il suo territorio. (Speranze di un idrovia dal Ticino al mare) L’idrovia Venezia-Locarno, la cui idea durante decenni di dubbi e di esitazioni venne tenuta viva dalla tenacia di pochi fautori appassionati, ma che pare avviata a realizzazione dopo la decisione dell’Italia di porre mano ai lavori del tratto Cremona-Milano, è destinata a diventare uno degli strumenti di questa nuova politica economica. L’idrovia non minaccia, come qualcuno teme, le sicure fortune di Basilea: senza indebolire il sistema delle comunicazioni internazionali svizzere, che per tanta parte si distacca dal Reno e sbocca nel Mare del nord, lo renderà completo e duttile dotandolo di un più rapido ed economico accesso ai mari caldi. Sulle chiatte risalenti il Verbano transiteranno prodotti naturali da far proseguire subito in ferrovia per i mercati o le fabbriche della Svizzera interna - e questa sarà la funzione nazionale dell’idrovia - ed insieme con essi anche materie prime e semilavorati da scaricare subito - e questa sarà la sua funzione specificamente ticinese. Come Basilea s’è creato un grande retroterra industriale ed un retroterra commerciale che per certe merci copre l’intera confederazione, giungendo fino a Chiasso e Poschiavo, così Magadino potrà crearsi un retroterra industriale, anche se meno ricco di quello basilese, ed un proprio retroterra commerciale, anche se ovviamente meno esteso dell’altro. Pensando alle possibilità dell’idrovia occorre tenere presenti non soltanto i traffici a lungo raggio (i sali del Mar Morto per le fabbriche chimiche della Svizzera tedesca, per esempio) ma anche quelli di breve tragitto. Il Reno è percorso da barconi che ad Anversa o Rotterdam si riversano nei 50 grossi bastimenti, o viceversa, ma anche e ancor più da chiatte che con viaggi brevi e frequenti collegano fra loro le industrie chimiche e siderurgiche che sono disseminate in poche centinaia di chilometri a monte di Basilea, e si integrano l’un l’altra, anche se appartengono spesso a nazioni diverse. Non


è un caso allora che la sola importante industria pesante del Ticino, la ferriera di Bodio, si mostri vivamente interessata all’attuazione dell’idrovia, nella quale essa scorge il futuro mezzo più idoneo per spedire e ricevere acciai, tubi o laminati, perfezionare la collaborazione tecnica ed intensificare gli scambi con la grande siderurgia lombarda che dista da Bodio assai meno di quanto disti Winterthur da Mannheim. E questo non vuole essere ovviamente che un’esemplicazione concreta di ciò che il canale da Venezia a Locarno (e forse più su ancora) promette al Ticino. (Un’ occasione mancata) Ad un progetto che torna all’idea antica e sempre valida dei trasporti per acque interne di merci d’ogni genere, se ne affacciò recentemente un altro, ancor più ricco di prospettive, ispirato al principio moderno dei condotti sotterranei e coperti, usati nel trasporto dei combustibili liquidi. Quanti studiarono nei suoi riflessi economici la proposta di un oleodotto internazionale che da Genova doveva raggiungere la Baviera, passando in territorio svizzero attraverso Ticino, Grigioni e San Gallo, apprezzarono in modo particolare il privilegio prospettato al Cantone di disporre di un alto contingente annuo di petrolio grezzo, di tipo liberamente designato, alle condizioni più favorevoli di consegna e di prezzo. L’offerta era una sollecitazione invitante a sfruttare nell’interesse collettivo quella che gli economisti chiamano una rendita di posizione. Il petrolio sta cambiando l’economia di molti paesi, non tanto quelli che lo esportano allo stato naturale, quanto piuttosto gli altri che hanno fatto di esso il punto di avvio di un’industria di trasformazione le cui diramazioni penetrano ormai in ogni settore dei consumi civili. Dalla benzina agli aromatici, ai fertilizzanti, alle plastiche, alle fibre sintetiche d’impiego tessile, ai pigmenti e coloranti, i derivati maggiori e minori, prossimi e remoti, del petrolio si contano a migliaia, e formano tutti insieme una selva intricata e fitta, entro la quale è grande fortuna poter fare le proprie scelte. Un’industria chimica caratterizzata dall’alto valore degli impianti e dell’investimento finanziario, da un più largo impiego di tecnici che non di maestranza generica, un’industria insomma di qualità, commisurata alle dimensioni ed alle esigenze del paese, avrebbe posto una premessa veramente nuova di ulteriore industrializzazione e contribuito ad elevare il tono dell’economia cantonale. Forse non s’era avventato troppo con la fantasia chi aveva intravisto nell’oleodotto l’alternativa immediata e concreta a quella politica cantonale dell’energia elettrica che ha avuto un felice inizio col riscatto della Biaschina e la costituzione dell’azienda elettrica cantonale, ma dalla quale


non ci si possono attendere grandi frutti immediati poiché il meglio del patrimonio idrico ticinese è vincolato per molti anni ancora a favore di concessionari privati. (Urgenza di nuove comunicazioni) Ma poiché l’oleodotto è svanito nel novero delle occasioni perdute, e a nulla giovano le postume recriminazioni, meglio è tornare a quel problema delle comunicazioni, di cui l’idrovia è una speranza e la strada e la ferrovia sono gli aspetti di un permanente interesse. Allo stesso modo che riesce quasi impossibile isolare col pensiero la storia del Ticino moderno prescindendo dalla grande opera ferroviaria dell’Ottocento, altrettanto difficile è immaginare il suo prossimo futuro facendo l’ipotesi ch’esso perda anche una parte soltanto della sua importanza di contrada di grandi transiti. Codesto pericolo non è del tutto irreale, poiché se è vero che per il momento il volume dei traffici che percorrono il Cantone continua ad aumentare, è vero anche che da più parti si moltiplicano gli studi per offrire a merci e viaggiatori nuovi itinerari e nuovi valichi. Per ora il San Gottardo gode di molte preferenze da parte degli automobilisti dell’Europa centrale, ma l’inaugurazione di una moderna arteria dello Spluga, ricalcante antichi tragitti medievali, potrà sottrargli movimento ad oriente, come gliene sottrae ad occidente la galleria del Gran San Bernardo che da qualche tempo congiunge il Vallese con la valle d’Aosta. Nessuna prerogativa è intangibile, nessun primato è definitivo, in un mondo mobile come il nostro. E mentre la difesa della strada comporta lavori di adeguamento ai bisogni di un traffico automobilistico intenso e scorrevole - lavori ai quali, del resto, si sta provvedendo alacremente - la difesa della grande dorsale ferroviaria esige essa pure adeguati e pronti interventi. Da un lato il traforo stradale del San Gottardo appare oggi indilazionabile nel quadro delle competizioni internazionali, dall’altro la proposta, autorevolmente avanzata, di aprire una nuova galleria ferroviaria imbucabile assai più in basso di Airolo, giunge assai interessante, anche se vien da chiedersi se sia quanto basti veramente. Gli esperti riconoscono oramai concordi che la vecchia gloriosa linea del San Gottardo, sulla quale i treni s’inseguono giorno e notte, lavora al limite dell’usura del materiale e degli impianti e non può dare più del molto che continua a dare, si ch’è giunto il momento di cercare una soluzione di più larga veduta all’esuberanza del suo traffico. Il migliore sollievo al San Gottardo dev’essere d’ordine ferroviario, come le difficoltà delle Alpi comportano e l’esperienza di quasi un secolo largamente avvalora: nulla oggi di meno assurdo che pensare seriamente ad un’altra ferrovia dal Ticino alla Svizzera orientale, attraverso il Greina ed il Tödi,


per un percorso nuovo, più breve e più celere, particolarmente indicato a convogliare il movimento crescente di merci che passano da una parte della Svizzera e della Germania all’Italia settentrionale, o fanno l’inverso cammino. Già all’epoca della costruzione della ferrovia del San Gottardo i tecnici avevano affacciato l’ipotesi di un secondo traforo abbastanza vicino a quello di Airolo, e tuttavia ad essi non era dato di prevedere di quale entità di merci pesanti si sarebbe arricchito in ottanta anni il commercio fra i paesi settentrionali e l’Italia, Perfettamente giustificata da ragioni d’ordine tecnico, la linea del Greina è anche una rivendicazione a favore dei paesi attraversati, a cominciare dalla valle di Blenio. Un fermo impegno in tema di comunicazioni dovrebbe costituire il nocciolo di quella che si invoca oggi come programmazione economica. Se, fuori d’ogni verboso teoricismo, la programmazione è essenzialmente l’esame dall’economia di un paese, indagata nella sua globalità e colta in prospettiva di sviluppo e se come teoria dell’intervento pubblico, la programmazione trova i suoi limiti nella vastità di uno Stato, nelle sue risorse celate, nell’ambizione della sua politica, per il Ticino essa non può significare che la messa a punto dei problemi che maggiormente l’assillano, la cauta predisposizione dei mezzi che permettano di renderne più facile e pronta la soluzione. V’è da un lato il turismo che costituisce tuttora la maggiore e davvero irrinunciabile fonte di reddito cantonale, e cui occorre dare nuove sollecitazioni e garanzie, in termini di strade bensì, ma anche d’urbanistica e di paesaggio; vi sono dall’altro delle attività economiche che battono alla porta, le industrie di nuovo genere di cui si deve favorire il migliore inserimento nel tessuto cantonale: lo studio organico di questi problemi, con le relative interferenze d’ordine tecnico e finanziario, costituisce il compito non ultimo di una classe politica, ed esaurisce da solo buona parte degli argomenti di una ben intesa programmazione. Se si continua qui a mettere l’accento su strade, ferrovie ed idrovia è proprio perché un sistema di comunicazioni reso adeguato ai tempi, rafforzato nelle venature interne e completato nelle articolazioni esterne ci sembra la pregiudiziale prima di uno sforzo del Cantone Ticino inteso ad affrontare le prospettive di sviluppo che gli si parano davanti: opportunità commerciali bensì, ma anche opportunità di più largo respiro, implicite nella stessa tendenza mondiale alla formazione di grandi spazi che si avviano a riassorbire le singole economie nazionali, allo stesso modo che queste riassorbirono un giorno le economie regionali. (Verso un mondo nuovo)


Intorno al principio federalistico e soprannazionale la lotta si annuncia lunga ed aspra sul terreno delle ideologie e su quello dell’edificazione politica poiché sono ancora forti i pregiudizi dottrinari e gli interessi che insieme contrastano il cammino dell’unificazione. Ma la direzione in cui la storia procede è chiaramente identificabile, ed il suo moto difficilmente reversibile. Ogni passo verso l’integrazione economica costringe i diversi paesi a prendere decisioni che possono comportare dei rischi: ma chi si mostra sgomento del carattere risolutivo di certe scelte, mostra di scordare che è antica legge del progresso di attuarsi attraverso dure selezioni di uomini e di istituti. Le grosse unità che emergono come isole confuse nell’indistinto mare dell’economia mondiale, rivelano per ora la forza di un principio di attrazione più che non indichino la perentorietà o, tanto meno, l’inevitabilità di certe contrapposizioni. L’America che è già un mondo a sé, il Commonwealth, il Mercato Comune, l’Associazione di Libero Scambio, sono raggruppamenti in formazione di interessi che si fronteggiano bensì, ma continuano a trattare fra di loro, cercano la conciliazione e si sentono abbastanza solidali da comprendere il pericolo di reciproci irrigidimenti. Quasi non è pensabile oggi una guerra di tariffe o di rappresaglie fra blocco e blocco, che toglierebbe alle diverse economie le dimensioni naturali verso le quali esse tendono. Così, mentre le barriere politiche sembrano fisse, quelle economiche si rivelano assai più duttili, e le regioni poste al limite di uno Stato o di un’arca doganale, che ieri si sentivano relegate marginalmente, oggi invece, in condizioni generali assai mutate, assurgono a punti di incontro di sistemi economici che si cercano. Nessuno può dire ora se i rapporti fra il Mercato Comune e l’Associazione di Libero Scambio si irrigidiranno od allenteranno nei prossimi anni, se sia lontano o prossimo il giorno in cui l’Europa intera, raggiunta piena coscienza del proprio destino e dei propri compiti, abbandonerà ogni divisione interna per erigersi fra le grandi potenze del mondo: ma si può affermare invece, poiché è nell’ordine logico delle cose che già si colgono, che il richiamo fra l’economia della Svizzera e quella dei paesi che la circondano si farà via via più insistente nel prossimo avvenire. In ogni caso sta per finire l’isolamento del Cantone Ticino, almeno nei suoi aspetti più crudi deprecati nel passato, quando il paese si sentiva stretto fra due sistemi economici egualmente lontani e fra loro scarsamente comunicabili. Oggi l’economia svizzera è quella italiana obbediscono entrambe alla dinamica delle forze industriali e commerciali in espansione, che sanno superare i confini: si muovono da una parte e


dall’altra, ed il loro punto naturale d’incontro è qui, a pochi chilometri da Milano, sul cammino del San Gottardo. Prevedere allora che il Cantone Ticino sia chiamato a far valere la propria posizione geografica e debba irrobustire le proprie strutture economiche e sociali nel contatto vivificatore con un mondo in rapida evoluzione, non vuol dire abbandonarsi all’ottimismo vacuo delle affermazioni generiche, ma soltanto interrogare le tendenze della vita. È un luogo comune che il mondo sia ancora una volta ad una delle sue svolte, e non è grande sorpresa che le rivoluzioni tecniche del secolo scorso solo oggi giungano a completa maturazione, mentre la storia già lavora alle novità di domani.


Mario Agliati Dal «biciclo» al «meccanico volatile» I A dir la verità non è facile, per noi uomini del 1964, immaginar le nostre piccole città e le borgate e i villaggi e anche le strade nel verde de’ prati, insomma quelle che s’usan affettuosamente chiamare, con parola comprensiva, le nostre contrade, anche solo un ottant’anni fa; difficile anzi, almeno da un certo punto di vista, quanto immaginarle al tempo de’ Romani, o nel Medio Evo. Sì certo i professori di storia, gli studiosi delle patrie archeologie, i cultori della Heimatkunde, o anche solo certi loquaci vegliardi, posson esser lì a segnalar case palazzi strade porticati e vicoletti, e qui le cose stavan in un modo e là in un altro, e quaggiù è rimasto e lassù è scomparso, e posson con dovizia di dati parlar di antiche botteghe e osterie, di trapassi immobiliari, di facciate trascolorate dal tempo; e gli occhi della mente, con un po’ di sforzo e di fantasia, posson in certo senso tornar a rivedere. Ma agli orecchi, via, dovrebbe pur giungerci altro suono. Ripristinar quel silenzio antico, ricrear quella sospesa atmosfera di prima che per quelle nostre contrade cominciassero a rombare i motori! L’impresa, anche per i professori di archeologie più o meno recenti, anche per i rimemoratori eloquenti, appar quasi disperata; tanto più che in quel sospeso silenzio dovrebbero poi entrar altre voci, altri suoni, che i motori venuti di poi, e oggimai per tutto trionfanti, hanno coperto e finalmente fatto disperdere. Ritrovar a Lugano la «piaza granda» du temps jadis, del tempo andato… Ci si può affidar a qualche tempera di Carlo Bossoli, col teatrino neoclassico che campeggia accanto all’ancor giovanissimo palazzo civico, che serviva allora al governo; ma quei borghesi, e contadini, lì nel mezzo a chiacchierar cordiali, ai nostri orecchi rischian di non aver più voce. E così per quel ch’era l’antica piazza di Grano, diventata poi piazza Riziero Rezzonico: si son qui davanti a me certe belle fotografie, con la fontana Bossi che già campeggia: ma quel gran vuoto bianco come di terra battuta, senza una macchina o un carro, mi dà la vertigine quasi di un’età favolosa, anche se torno torno l’unghia delle case mi dovrebbe parer familiare, o, di là, l’antica piazza Bandoria, quella che si chiamò poi Giardino e finalmente Alessandro Manzoni. (Il silenzio e la «baldoria» d’allora)


Un disegno d’un artista luganese, Gerolamo Bellani, ci mostra bene il lago che veniva su a rosicchiar la terra fin quasi alle soglie del settecentesco palazzo dei marchesi Riva, e di là la casa Airoldi che ospitò anche Mazzini, e il chioso dei frati di San Francesco coi muri sopravanzati da un po’ di verde; e qui, per quel tal silenzio, può venirci in aiuto una bella pagina di memorie di Francesco Chiesa: «Era, quella piazza, il luogo in cui naturalmente confluivano tutti i rivoli e i torrenti della curiosità, festosità, chiassosità cittadina, appena si avverasse uno qualunque dei mille motivi che traggon la gente luganese fuori di casa. Motivi qualche volta di non molto peso; una latta da petrolio battuta con un bastoncello, un cavallo sdrucciolato sul pavimento, una faccia di negro o di chinese. In men che non si dica, son lì tutti: uomini e donne, grandi e piccoli, nobili e plebei; e quando tanta gente, e gente come la nostra, si riversa in una piana, volete che se ne stia lì silenziosa e raccolta e con le mani congiunte? Si commenta, si approva, si disapprova, si vocia, si va, si viene; e ne nasce un po’ di chiasso, d’onda su onda, di tramestìo, chiamatelo come volete. A Lugano, esagerando un pochino, lo chiamavan baldoria»; ch’era ben una modesta baldoria, possiamo commentare noi, cui soltanto l’assenza dei rumorosi motori lasciava la possibilità di tener il campo. Ma invero come possiamo oggi riviver appieno gli spiriti di quei luganesi d’allora? Davvero altro tempo, altra età, altro mondo. E quando apparvero per le nostre strade le prime «macchine», le prime biciclette e poi, peggio ancora, le prime moto e le prime automobili, dovette esser per quei nostri antenati, che in parte son poi ancor felicemente vivi, lo choc d’un’autentica rivoluzione; e le diffidenze e i risentimenti dovettero sopravviver molti anni, tenaci, anche aggressivi. Non ho bisogno di pensare al Carducci che chiamava i primi ciclisti che incontrava per le strade di Bologna «arrotini arrabbiati»; mi basta pensar al mio povero padre, ch’era poi nato soltanto nel 1882, e pure per tutta la sua vita, conchiusasi cinque anni fa, era rimasto diffidente, quando addirittura non ostile, verso ogni sorta di motori. Rimemorar i tempi di quelle prime macchine per le nostre strade (a lato, è vero, stava già ormai la «strada di ferro»; ma, ripetiamo, stava «a lato», fuor delle diagonali di quel che si dirà il «traffico cittadino», fuor delle piazze e strade; e cominciarono i tram e le funicolari, che però non potevano, per lor natura, sbizzarrirsi in itinerari non obbligati), dovrebbe dunque quasi equivaler a narrare d’una rivoluzione; rivoluzione negli animi, prima di tutto. E come tutte le rivoluzioni, anche questa, che nel Ticino fu simile a quella di tant’altri paesi, cominciò con un programma minimalista, che fu l’avvento della bicicletta, e si coronò col rosso più acceso del


massimalismo, che fu infine l’avvento dell’aeroplano, il «meccanico volatile», come si scriveva; e come sempre, si diè il caso di taluni ch’eran stati rivoluzionari agli inizi e finiron per apparir reazionari, o almen conservatori; come sarà il caso, per esempio, di mio padre, se il lettor mi permette che parli un poco tuttavia di lui: il quale fino alla bicicletta arrivò, e le rimase fedele (si trattava di una Adler, marca allora dominante e famosa), ma sdegnosamente rifiutò quel che venne poi: da catalogarlo adesso, a ragion veduta, tra i «moderati» che accettavan insomma l’avvento della meccanica, ma chiudevan gli occhi inorriditi davanti alle licenze del motorismo, ch’eran quasi licenze suggerite dal diavolo. II (Dalla dresina al biciclo) La bicicletta, del resto, sapeva ancor tutto di secolo XIX. Le enciclopedie ci insegnano infatti ch’era nata ancora ai tempi della Restaurazione, due ruote unite da un travicello di legno, su cui si montava a cavallo, puntando i piedi per terra; la famosa «dresina», come anche si chiamò, dal nome di un suo perfezionatore, il Drais, o anche, ma era una variante, la «celerifero»; e per esempio una certa stampa del ‘48 mostra assai bene un austriaco scappante da Milano reso alipede con quel curioso aggeggio. Verso il ‘60, poi, si trovò il principio dei vari congegni per spinger senza toccar terra, con un pedale; e la macchina era davvero foriera di celerità, sì da percorrere tre metri e più, là dove l’uomo, al passo normale, faceva sessanta-settanta centimetri; con due ruote, però, ch’eran così spropositatamente diverse di grandezza che il cavalcatore avanzava peritoso e traballante, sicuro di finir da un momento all’altro in un fosso e riportar almanco un’ammaccatura. A dir il vero, bisogna confessare, la nuova invenzione dovè faticare non poco a imporsi fuor degli usi degli stravaganti, o, per definirli con parola d’oggi, degli snob; e ora non sapremmo dire quando comparve per la prima volta nelle nostre strade. A scorrere i nostri giornali di quelli che oggi si direbbero gli anni «ottanta», non se ne cava niente di niente, o quasi. Se mai, qualche comparizione di giovanotti di fuori, venuti da Milano, forse per via di treno, col trespolo a due ruote portato poi giù a spalle in due o tre dalla collina della stazione; e il nostro vecchio «teatro sociale» di piazza Bandoria difatti, prima di morire nel luglio del 1889, dovette pur assistere alla scena d’un di questi scavezzacolli ambrosiani capitombolatogli proprio dinanzi, e portato di furia a esser medicato in quello ch’era il suo caffè. In quegli anni le gite,


che si sappia dalle memorie, eran ancor quasi tutte per via di piedi, o se mai di carrozze: nessuno, per le puntate fuori porta, ad Agno per San Provino per esempio, aveva ancora scoronato i breaks, le vittorie, i landaus, le timonelle, quelle che i famosi chiamavano le «voitures hippomobiles». C’era sì ormai, come s’è detto, il treno, e dal 1886, a Lugano, anche la funicolare della stazione, e il via vai dei forestieri, come allora si dicevano universalmente i turisti, aumentava; ma il paesaggio delle strade, quanto a veicoli, si poteva ancor dire pressappoco lo stesso che ai tempi del landamanno Quadri. Eppure, anche se da noi non ce se n’accorgeva, la storia cavalcava in fretta, come quei morti del Romanticismo. C’era ancora - la gran moda di quei pochi stravaganti d’andar su quei trespoli perigliosi a ruote diseguali (i bicicli, come si diceva), e già sul mercato comparivan velocipedi a ruote eguali, pressappoco come l’antico velocifero, ma con applicatevi nuove diavolerie, catene, moltipliche, ruote dentate, rapporti; aggeggi che parevan meno difficili da manovrarsi, ma che eran pesanti come macine, e dopo pochi chilometri lasciavan lo sportsman, come già si cominciava a dire, letteralmente senza fiato: il tipo, dicevan le scritte, «bicyclette». All’esposizione di Milano dell’85 la nuova scoperta faceva furore. Ci si metteva a fabbricarne anche il conte Prinetti, che con quella «biròta» farà metaforicamente molta strada, tanto che di lì a non molti anni lo ritroveremo nientemeno che ministro degli esteri. Il destino era ormai segnato: nel 1889 in Francia si correva un campionato sulla distanza di cento chilometri, e il campione montato su «bicyclette» lasciava lontano quello su biciclo, ancorché questi fosse, probabilmente, di muscolatura più forte e vivace. Per il biciclo era un colpo mortale. E l’anno dopo ci si metteva un veterinario, che sulla «bicyclette» si chinava con l’amore e la competenza che gli ispiravano l’idea di aver a fare con un vero «cavallo», sia pur di metallo; ed ecco che alle «gomme piene» si cominciavano a sostituir i più pratici e leggeri «pneumatici», nome che qualche professore doveva aver imprestato a certi filosofi antichi che andava spiegando a scuola; e sarà bene segnalar il casato del veterinario, destinato a diventar poi come un emblema, Dunlop… Lugano pareva seguitar nella sua vita (non tanto pigra, è vero, ché qualche novità si dava pure: si abbatteva, come abbiam visto, il vetusto teatro, e il municipio abbandonava l’ospedale di Santa Maria per stabilirsi nel gran palazzo civico di piazza della Riforma; e sorvoliam appena sulla rivoluzione di quel settembre, che non è particolarmente luganese, ma a Lugano causava gran vocìo…), ma anche per lei si volgeva il destino. Da


un paio d’anni un giovanotto di Marnand nel Canton Vaud s’era stabilito nel villaggio di Arogno come meccanico di quelle fabbriche degli orologi che Romeo Manzoni e suo padre Alessandro avevano da non molto istituito col trapianto felice d’un pezzo di Giura nel Ticino; si chiamava Jean Morel, era alto, aitante, elegante e di viso aperto, già s’era più volte provato a manovrar sui bicicli, dimostrando una piena destrezza, e accanto a un d’essi, anzi, s’era fatto fotografare dal fotografo Solza; sopra i quali, oltre che andarci, s’adoperava anche di lavorare, esperto di meccanismi com’era, e meccanismi di precisione. A Lugano qualcuno dei rari possessori d’un biciclo o d’una «bicyclette» aveva avuto talvolta bisogno di lui, trovandosi d’un tratto in «panne»; e come quegli aggeggi andavan aumentando, se n’aveva sempre più bisogno; sicché lui scendeva la sera con la borsa de’ suoi attrezzi a Lugano, e risaliva di notte; finché, ormai sposato con una ragazza d’Arogno, decise di stabilirsi per bene in città, allogandosi nel quartiere del Forte, dove cominciò ad aprir quello che si dice un «buco», al pianterreno della casa che abitava. La bottega del Morel (che intanto s’era lasciato crescere un bel par di baffi «a manubrio», giusta quel che il suo mestiere nuovo, abbandonati i bilancieri degli orologi, quasi imponeva, e portava un bel berretto a visiera, luccicante d’una spilla molata) diventava un nuovo centro di vita luganese. I giovanotti seguivan il gagliardo giovanotto vodese ammirati, quasi invidiosi, bramosi, quando s’aggirava per le strade ancora terrose o selciate col velocipede «tipo bicyclette», e sorpassava come niente fosse i carri, le vittorie, i landaus, e i muli e i bovini, pedalando sicuro e fiero. Nei giornali si cominciava a pescar la parola inglese «sport», scritta tra virgolette e in corsivo, con tutte le doverose cautele, ma già ormai ben vistosa; se ne impensierivano i benpensanti e i turisti, ma la gioventù n’era, per dir così, soggiogata; la «bicyclette» era un mezzo per andar più in fretta, e ormai si cominciava a fare a chi andasse più in fretta pigiando sui pedali, nascevan i confronti, le gare; e ben presto, ahimè, ci si metteranno anche i letterati di professione a incoraggiar quella novità, come Alfredo Oriani, o lo stesso Pascoli. A un certo punto s’annunciò la nascita del «Velo club». Lugano, è vero, arrivava parecchio in ritardo rispetto, per esempio, a Milano; ma eravam sempre nel 1890, s’era purtuttavia nell’età del pieno pionierismo. Il buon Morel era il primo di tutti: primo nelle discussioni intorno al nuovo mirabile veicolo, in quel suo misto di francese e di italiano che lo rendeva anche più efficace e affascinante; primo nell’arte di riparar raggi e pedali e catene, e magari nel fabbricare o almen montare macchine nuove; primo anche quando ci si metteva tutti insieme in sella e si faceva a chi andasse più forte.


(Le belle gite del Velo Club) E gli orizzonti si allargavano. Si usciva dai confini di Lugano, anche dai confini del Cantone; invitati dai colleghi di laggiù, per esempio, ci si spingeva tutti in comitiva, con in testa il vessillo sociale, nuovo fiammante, fin a Varese, passando per Ponte Tresa e la Val Ganna; e poi si rievocava compiaciuti, in quello che il poeta chiamerà il «garrulo ritorno». Il tono delle rievocazioni era quello dei pionieri, insieme drammatico e scherzoso: «Per la vasta e deserta strada della Val Ganna, arrivammo a Induno, quando piacque meglio ai nostri imbizzarriti cavalli d’acciaio, che d’impennarsi avevano ben donde, giacché la strada era pessima e talmente rinsecchita che il calpestio dei nostri focosi destrieri sollevava una fitta nebbia di polvere che ci toglieva completamente la vista delle belle forosette, colle indispensabili e tradizionali spadine d’argento, che dalle finestre degli sparsi abituri, nei villaggi e sulle vie stavano a vederci sfilare…». E a Varese poi era un trionfo: un gran banchetto all’Hotel de l’Ange, e nel pomeriggio le tribune letteralmente stipate per applaudir i «baldi giovani sfilanti come trasportati dal vento». Le gite, si può dire, non si contavan più: le mete eran le cantine di Capolago, o il museo Vela di Ligornetto: tutto andava bene se, come si scriveva, «Febo era provvido de’ suoi raggi»; ma a tratti la strada diventava impraticabile per quei ferrei cavalli, e allora si scriveva anche: «si proseguì pedestremente»; e i ciclisti portavan pure strumenti musicali che potevan esser suonati rimanendo in sella. Tutto poi finiva in un’eccellente cena, di solito alla trattoria Biaggi di via Pessina, ch’era bene, il quel genere, a Lugano, il non plus ultra, e si facevan brindisi acché «il nostro Club avesse sempre a progredire ad onore e lustro della nostra Lugano». La sede sociale, peraltro, rimaneva la Birreria Basel Strasbourg in via Canova: lì non si tenevan brindisi, ma si facevan discorsi seri, per l’avvenire del Club, per una più precisa attività «sportistica». Nell’aria (siamo ormai nel marzo del ‘92) maturavan applicazioni di grande impegno: e anche i nostri giornali annunciavano l’istituzione di un particolare corpo di «velocipedisti militari», che dovevan esser naturalmente muniti non più dell’ormai sorpassato «biciclo» ma di un velocipede «bicyclette». (Le prime performances) Il mese dopo tre importanti soci del Velo Club, Monigiotti, Brocca e Defilippis, si buttavano a una grande impresa: sotto il titolo Sport si annunciava infatti il 23 aprile di quei signori: «son partiti stasera alle quattro per un viaggio di piacere in bicicletta alla volta di Locarno, dove pernotteranno». Lo stesso Monigiotti, che del Velo Club era anche il


presidente, vinceva del resto il campionato sociale correndo da Lugano a Figino, e poi tornando per Morcote e Melide a Lugano (il classico giro del Monte, insomma, che nel dialetto luganese diventava facilmente il «giro del mondo») in 52’45" su una bicicletta Adler che pesava ventiquattro chili; e il 3 luglio partecipava al campionato nazionale svizzero, organizzato dallo Schweizerische Velocipedisten Bund sul percorso Bienne-Soletta-Egerkingen, in un paesaggio gentilmente melanconico, tra la piana verde e il grigio molassico dell’Hauenstein (giungeva il Monigiotti sedicesimo, quarantacinque minuti dopo il vincitore; ma era già un’ottima performance, con tanti campioni che s’eran allineati alla partenza; e non dovette sfuggire la sua prova agli ufficiali superiori dell’esercito, che vi assistettero, verisimilmente seguendo i forsennati pedalatori a ruota fissa su una vittoria o un landau, e annotando per i prossimi reclutamenti…). (La prima pista) Ormai i tempi eran maturi, e il Velo Club per la fine di settembre poteva addirittura inaugurare una pista di legno, appena di là dal fiume, in quei prati che, per esser stati qualche decennio prima anche campo di esercitazioni militari, si dicevan già, e così del resto diceva la strada che da piazza Castello vi ci portava, «Campo Marzio». Non era quella pista una cosa disprezzabile: aveva uno sviluppo massimo di 250 metri, ed era larga sei, con un dislivello, nelle curve, di sessanta centimetri; per correrci bisognava posseder una destrezza speciale, oltreché forza di muscoli; e sulla destrezza fidava stavolta specialmente il bravo Jean Morel. Quando si diè l’inaugurazione, il cielo era coperto, ma l’animazione in città era grande: quaranta ciclisti sfilarono per le strade, poi si portaron di là; e ce n’eran di Bellinzona, e della vicina Lombardia. Nel campo, per dir così, internazionale trionfò Luigi Colombo del Veloce Club di Milano, sul famoso Pasta della Pro Patria, e il Morel si classificò terzo; ma si può ben capire questa sconfitta, se si tien conto che il baldo campione del Forte era ormai affaticato, dopo aver trionfato in campo locale, piegando stavolta il pur eccellente Monigiotti nei «dodici giri», e vincendo anche nei «dieci giri»: sicché alla fine, quando vennero distribuiti i premi (ed eran corone d’alloro e di quercia, medaglie d’oro, d’argento, di bronzo, diplomi artisticamente fregiati, coppe artistiche, borselli), il Morel ne era letteralmente repleto, e faticava non poco a portarli, «ansando com’uom lasso». Da lungi, altri cuori battevano con quelli della gente assiepata al Campo Marzio: «Auguriamo, telegrafava un gruppo di emigrati a Londra, simpatico Velo Club splendido risultato festa geniale. Brindiamo novella istituzione, fidenti cementare concordia gioventù luganese. Viva unione,


viva progresso». E varrà la pena di aggiungere che un’ombra di malinconia stava forse nei cuori di questi emigrati, che avevan verisimilmente lasciato Lugano, due anni prima, mentre gli animi stavano ma per altre ragioni, le ragioni della politica, ferocemente divisi: sicché quelle parole «concordia», «unione», potevan avere anche un significato profondo, e lo sport assumeva una funzione sociale tutta nuova. (Campionati e «Concorsi») Il dado era gettato, si trattava ora di continuare. Le corse in pista e su strada ormai, con la stagione nuova del ‘93, e col ‘94, cominciavano a non contarsi più: l’invenzione del veterinario Dunlop ormai s’era diffusa anche tra noi, ancorché non completamente vittoriosa: e si parlava ormai di biciclette «tubolari», a gomme piene, e di biciclette «pneumatiche». Di mattina presto ci si radunava fuor della galleria del Walter, ch’era allora insieme birreria e «garni», o fuor della birreria Straub, un poco più giù, sempre a cospetto del lago, ch’era diventata la nuova sede sociale, e poi via: o che si trattasse d’un vero e proprio «campionato», o di un «concorso velocipedistico di resistenza su strada», che allora era anche previsto, al momento del ritorno, nel tardo pomeriggio, il banchetto, parte insopprimibile del rituale; e a volte non si dava nessuna distinzione tra biciclette «tubolari» e «pneumatiche», a volte (specie col passar dei mesi, quando i progressi tecnici si facevano ormai generali) le «tubolari», siccome più pesanti, fruivano di particolari riguardi, e venivan lasciate partire dieci minuti prima… Si dava attorno, a ogni modo, sempre, gran folla; i signori, in quelle occasioni, si sentivano davvero importanti se potevano mettersi un «brassard»; e le signore sfoggiavano vistose eleganze, come altrove alle corse dei cavalli: lo sport era ancora un fatto di élite. E i trofei, le coppe, le corone, le medaglie, esposte nelle vetrine di piazza della Riforma, eran l’argomento dell’invidia, dei sospiri, dei commenti per una settimana. I nomi degli sportsmen correvan sulle bocche. Segnamone alcuni, dopo quelli del Morel e del Monigiotti: Carlo e Arnoldo Brocca, Ettore Maffei, Pietro e Giovanni Barberis, Riccardo Lucchini, Pasquale Bianchi, Piero Luvini, Guido Pedrolini, i fratelli Radice, Giacomo Mambretti; e quest’ultimo, significante particolare, diventerà poi commissario di governo… Quanto al popolo minuto, per ora stava a guardare, sbirciava al disopra dello steccato, come scrivevano i giornali; a volte con ammirazione, a volte con invidia, a volte anche con diffidenza. Forse qualcuno sapeva (c’erano allora a Lugano molti popolani letterati) anche del Carducci, che quei velocipedisti, detti anche, oltreché ciclisti, che sarà termine poi destinato a prevalere, biciclettisti, aveva chiamato


«arrotini arrabbiati»; e tra sé e sé, o in crocchi dentro le fumose osterie plebee, ripeteva la letteratissima qualifica. Se ne occupavano e preoccupavano, pertanto, anche le autorità. Qualche incidente già era segnalato dai giornali. «Attenzione velocipedisti!», scriveva giustamente il cronista del Corriere nel maggio del ‘92; ché una bambina di nove anni era stata investita e gettata a terra da un di que’ cavalli d’acciaio. (I primi incidenti e le prime multe) A volte gli incidenti potevan far sorridere, avessero avuto i lettori allora gli occhi di oggi: un investimento era segnalato per esempio in via Nassa con una bicicletta ch’era peraltro…condotta a mano. Il fatto si è che il municipio interveniva con una sua «risoluzione» nel 1894: «Ai velocipedisti, tuonava, è interdetto, in vista dei frequenti investimenti di persone, di manovrare nell’interno della città, e specialmente lungo la via lacuale, la quale deve servire unicamente per il transito, giacché per gli esercizi sono assegnate la piazza Castello e le strade esterne». La bicicletta, come ognun vede, era ancora meramente un attrezzo di esercizio, di sport; e quasi nessuno pensava di servirsene, che so, per portar un pacco alla posta, per recarsi in più breve tempo sul cantiere. Ma intanto i pizzardoni armati di canna, come il «Lana», il Marazzi, o il Viganò, zelantissimo e fiero nonostante che fosse privo di un braccio, ecco che avevan un ulteriore incarico di vigilanza, che un paio d’anni avanti non avrebbero nemmeno potuto sospettare; e si leggeva nelle «risoluzioni municipali» delle multe, che cominciavano a fioccare, ed eran per quei tempi, come si dice, salate; onde nascevan anche diverbi, accuse di parzialità e di personalismi, da cui non eran esclusi nemmeno personaggi che avevan spicco nella vita della piccola città: «L’avvocato Basilio Donati, si leggeva per esempio, è multato di franchi due per aver percorso con velocipede le vie interdette»; e altrove era la volta del ragionier Gaspare Martignoni, ufficiale delle Esecuzioni e poeta dialettale, che, multato a sua volta, strillava d’esser vittima d’un partito preso… Qualcuno, che pareva aver meno entrature nella high life, aveva intanto pure comprato dal Morel (il quale intanto s’era ingrandito, era trasmigrato nel palazzo Airoldi sul «quai» Albertolli, sull’angolo della vecchia Bandoria che ora si chiamava piazza Giardino: e aveva gran da fare a montare e aggiustar macchine nel cortiletto interno, ch’era ormai un piccolo cantiere, tanto che s’era preso qualche apprendista, e uno si chiamava Battista Morandi e pareva più di tutti alacre ed esperto) una Adler o una Condor o una Stucchi-Prinetti, e pedalava pure nelle strade circostanti e in piazza Castello, e talvolta anche nel centro, quando i


pizzardoni non vedevano, o facevan finta di non vedere, ché la risoluzione municipale via via andava perdendo il suo pratico vigore; e pensò pure di associarsi con altri ch’eran della sua condizione; così che nacque ben presto, siam nel ‘95, un altro club, che si disse «La Veloce»: onde nuove organizzazioni di gare e di gite. Guerra tra i due clubs non è che si desse; un poco di ruggine forse a tratti sì, o di reciproca diffidenza; e parve simboleggiar quella realtà lo scontro che si verificò a una curva appena sotto la Forca di San Martino, una domenica del ‘97, che gli uni andavan in giù e gli altri venivano in su, invero «senza alcun sospetto»; onde il cronista, rifacendo il verso al ferravilliano Tecoppa, di cui doveva essere fervente ammiratore, si sentiva in dovere di gridare dalle sue colonne: «Attenti alle voltate!» Ma, già abbiam detto, i tempi cavalcavano in fretta. Quando si diedero i grandi festeggiamenti per il centenario della libertà luganese, sul principio di maggio del 1898, la bicicletta già era diffusissima per le nostre strade, e non soltanto per ragione di sport: come mostran certe fotografie del corteo giù verso gli Angioli, con innumerevoli astanti appoggiati al sellino o al telaio in quasi basita ammirazione degli sfilanti Volontari, di Guglielmo Tell, delle fanciulle che adombravan in sgargianti costumi l’Elvezia e i Cantoni. In quei festeggiamenti, del resto, allorquando si inaugurò il monumento dell’Indipendenza nella vecchia piazza Castello, i ciclisti, tanto quelli del Velo Club quanto quelli della Veloce, ebbero un parte primeggiante; e molti altri convennero, di società ciclistiche sorelle, che i luganesi andaron di buon mattino a ricevere sui vari stradoni d’accesso: ce n’eran di Milano, di Como, di Monza, di Lecco, di Lissone, di Comerio, di Saronno, di Gallarate, fin di Chiari in provincia di Brescia, tutti venuti a forza di muscoli su quei cavalli a ruota fissa che allora non permettevan riposo; e ce n’eran dei vari altri clubs ticinesi, di Bellinzona, di Chiasso, di Biasca. (Le corse ciclistiche nel Centenario della libertà) La mattina del 1º maggio, alle undici, davanti al Palazzo civico, si dieder convegno qualcosa come cinquecento ciclisti; si brindò con tazze colme di chianti, e poi via per la città in fila per quattro, con le biciclette della libertà a mano; e questo spiega se poi, prima che s’iniziasse il banchetto, quei baldi giovinotti fossero un poco impazienti, e mal sopportassero, inveendo con proteste chiassose, i troppi discorsi che ritardavan l’assalto alle cibarie… E naturalmente ci furon nella pista del Campo Marzio, detto già con parola più pomposa «velodromo», alcune gare attraentissime: internazionali talune, altre riservate agli svizzeri: e si chiamavano, queste


ultime, «Gara Indipendenza» e «Gara Helvetia», forse allo stesso modo delle portate del «menu» che quei baldi giovani due ore prima avevan gagliardamente divorato, dopo le giustificate proteste, sotto i frondosi platani. III Questa era la Lugano «fin de siècle». Ma mentre, per dirla parinianamente, il secolo stava bruciando gli assi, per i benpensanti si dava anche di peggio sulle strade del mondo, e quindi anche sulle strade del Ticino e di Lugano: sorella minore della bicicletta, ma più potente e prepotente, ecco che s’affacciava la motocicletta, detta popolarmente, specie da quelli che il martedì calavan della campagna per il mercato, con parola comprensiva, insomma con un «tropo», il «motore». La motocicletta, ci avverton anche qui le enciclopedie, era nata proprio in quegli anni. (Biciclette col motore) Giunta ormai alla sua forma più pratica la bicicletta, s’era tentato di applicarle un motore, e i vari conati avevan avuto risultato positivo, si può dire, nel 1897; dopo di che l’applicazione s’era diffusa come in un’ampia vampata. E comunque ormai anche il Morel si era allineato co’ tempi, e giù nel suo negozio della casa Airoldi in faccia al lago ora allineava, accanto alle biciclette Adler e Condor, anche tutt’una serie di «moto», che a guardarle adesso quasi non fanno più una grande impressione, ché somigliano a certe motorette, a certi motocicli, a certe motoleggere de’ nostri dì: biciclette un poco più robuste dell’altre, che tenevan nel mezzo quasi una cassetta metallica applicata al telaio, una scatola lucente trapezoidale dove stava il motore; e potevan raggiunger come niente anche i trenta, i quaranta orari, inutile dir con qual baccano, e quali rimostranze dei molti che stavan sui trottoirs a vedere e a udire. Qualche biciclettista s’era accorto che a star nella scia di quelle petulanti si poteva anche andar più veloci, e così non era infrequente veder sfrecciare per le strade della città due forsennati, «l’un dinanzi e l’altro dopo», rombante di motore il primo, forsennatamente pedalante l’altro; ché ormai in quel campo poco peso avevan più gli ukase del municipio. Passava qualche anno, e nel 1903 il «Velo Club» e la «Veloce» decidevan di fondersi in un unico sodalizio; i tempi mutati portavan a mutate esigenze, anche la vecchia pista del Campo Marzio veniva smontata e abbandonata, e ne sorgeva un’altra un po’ sopra la chiesa della Madonnetta, nel prato che stava accanto a un vecchio casale rustico ch’era adibito a grotta, il Tòta di Frà; dove si poteva far su e giù,


pericolosamente nelle curve, anche con le motociclette, in veste, come si cominciava a dire, di «allenatori». La gioventù dorata che cinque anni prima avrebbe dato tutto per un ve1ocipede, ora si buttava sui nuovi portenti rombanti; e i ciclisti, gli «arrotini arrabbiati), scendevan ormai al rango di buoni borghesi innocui; perfino un mite poeta come Giovanni Pascoli poteva adesso cantar la bicicletta senza rimorsi di coscienza («Mia terra, mia labile strada, sei tu che trascorri o son io? - Che importa? Ch’io venga o tu vada non è che un addio»), e questo spiega che anche uomini come mio padre potevan con buona pace adagiarsi a cavalcare quella che ormai non faceva più paura, non era più una novità. (Spericolatezze dei motociclisti) Per i motociclisti, quelli che ben presto saranno detti i «centauri», non si dava nemmeno la necessità, a un certo punto, di smontar di sella quando la strada cominciava a farsi in ascesa; essi sapevano anche attaccar le salite con la tranquilla determinazione di vincerle, e più eran salite aspre, quelle che i letterati chiaman le «pettate», più si sarebbe detto ch’era pane per i lor denti: onde poi si parlava, quando la salita era talmente lunga da giunger su una vera e propria vetta, di «montagna vinta». Né si disdegnavan le spericolatezze quasi da circo: c’era per esempio allora un ponticello che attraversava la valletta di Tassino, giù da Sorengo alla riva di Sant’Elisabetta; un ponticello insicuro, buttato su un piccolo abisso, con un muricciolo a far da parapetto, e in città se ne parlava con remoto rispetto, quasi con un certo timore; e un di quei «centauri» si cimentò un bel giorno con la sua, diavoleria su quel muretto, autentica strada della morte, che un letterato d’oggi, per la sua esiguità, potrebbe attentarsi a definir «improbabile»; e riuscì nell’intrapresa temeraria, chiamando naturalmente gran numero di ragazzaglia e di scavezzacolli ad applaudire… Ma anche qui la vita associativa in funzione «sportistica» (la parola veniva usata, con tono di condanna, da un professore del Liceo, gran grecista e latinista, in una conferenza ai suoi studenti in quel torno d’anni) voleva le sue novità: ed ecco nel 1910 sorger un’altra società, l’«Unione Sportiva Ceresio», un poco sulle ceneri di quelle due società ciclistiche che anni prima, come abbiam visto, s’erano a lor volta fuse; né si vuol qui, ora, far l’istoriato della società, e basterà il dire che l’atto di nascita avvenne nel caffè Corso, ch’era allora sull’angolo di piazza Indipendenza con la vecchia via del Campo Marzio, ormai da anni ribattezzata viale Carlo Cattaneo. E anche qui gite, marce, di regolarità e di resistenza; comitive stavolta rombanti filavano verso Locarno, Bellinzona, o i piani lombardi, e giunti alla meta, quei giovanotti gagliardi, accompagnati magari anche dalle spose, ché


spesso le «moto» si tenevan anche quella curiosa carlinga che era detto «carrozzino» o, anglicamente, sidecar si facevano fotografare in bei gruppi; non più in semplice giacchetta sopra maglie colorate come i modesti ciclisti di qualch’anno prima, ma con poderosi giacconi di pelle, gambali, caschi, occhialoni, talvolta addirittura lunghe palandrane foderate, e coronate al collo di vistose pellicce. (La corsa del Bré) Ma la velocità chiama il confronto, come si può ben capire; e anche qui l’agonismo voleva aver la sua parte. Soci dell’«Unione Sportiva Ceresio» sapevan vincere, o almeno ben comportarsi, come si suol dire, in patria e all’estero; e in patria intanto si andava delineando quella che sarà dell’«Unione» la più bella invenzione, cioè la corsa del Bré. Chi non conosce la conica idillica montagna a levante di Lugano, quasi a specchio del lago, a ridosso della fogazzariana Valsolda? Da vari anni, ormai, i luganesi vi potevan accedere in funicolare, e ormai ci si poteva salire anche in carrozza e perfino (la parola è quasi nuova, noi lettori fin adesso forse non l’abbiamo ancora usata) in vettura automobile, attraverso un’abbastanza comoda strada; più volte ormai la montagna era stata «vinta» anche dagli sportsmen della moto, con tempi che diventavan sempre più brevi. L’idea di far di quella strada tutta curve tra i vigneti o gli speroni di rocce il teatro di una «battaglia di giganti» venne attuata la prima volta il 19 ottobre del 1913; e via via se n’ebbero altre edizioni nel ‘17, nel ‘19, nel ‘20, e negli anni che seguono. O memoria che fa tremare il cuore agli anziani luganesi! Partivano le macchine rombanti in una bella mattina festiva di primavera o d’estate o d’autunno, a una a una, davanti a un «esercizio» posto alla fine del vasto quartiere di Cassarate, dove la strada tende ad abbandonar la piana; e non è da dir il pittoresco bailamme della contrada in quei momenti, tra striscioni di stoffa, cronometristi appostati ai tavoli, gente vociante, strombettii; né il non meno pittoresco spettacolo su tra quelli che si dicevano i «tornanti». Ma un poco prima, al caffè Corso, s’era data la cosiddetta «punzonatura»; onde la città s’era dovuta risvegliare in un baccano di bolgia dantesca, quando via via i «centauri» s’eran gettati, con lo scappamento già aperto verso il ponte di Cassarate, lungo il viale Cattaneo, e oltre, in una allegra temperie da cavanserraglio. Che se uomini come mio padre fossero capitati in quei momenti li, certo dalla lor bocca non sarebbero usciti odi o inni. VI (La carrozza che si muove da sé)


Ma c’era ben altro da ammirare o, per i benpensanti come mio padre, da esecrare. L’Ottocento (parliamo in generale, senza far allusione solo a Lugano o al Ticino) non era voluto tramontare senza regalar al mondo un’altra gran novità: la carrozza che si muoveva da sé, ch’era insomma, non parola dotta, automobile. Sì, certo, i viventi di quegli estremi anni del gran secolo, o nei primissimi del secolo nuovo, vedevan tuttavia dominar per le nostre strade, accanto ai primi tram col conducente che se ne stava ancora tutto all’aperto come in una giardiniera, le vittorie, i landaus, i breaks, i «calessi», ch’era come dire, nel campo dei trasporti, altrettanti «generi letterari», con le possibili variazioni sottili, le sfumature di capienza, di linea, di uso, o anche di sicurezza e di velocità; però ogni tanto ecco a una svolta uno strano fiato, e come un suon di corno o di strombami breve fievole lamentoso, o a tratti petulante come uno strillo puerile o femineo, un fracasso rugginoso, un ansimar sferragliante, e d’un tratto compariva una carrozza che stranamente avanzava senza traino di cavallo, con a cassetta un singolare automedonte munito di grossi occhiali, che anziché le redini e la frusta manovrava una specie di cerchio postogli dinanzi, infisso su un perno verticale; e a lato gli stava di solito un compagno, al par di lui issato alto a cassetta, ma peritoso, silente, «pallido in volto più che un re sul trono». Qual macchina era quella singolare vettura senza cavalli? Una Fiat, una Daracq, una Serpolet? Per i nostri nonni e padri era difficile dire. Quasi quasi non si sapeva nemmeno come chiamarla: «carrozza automobile», suggerivano, o anche «vettura automobile»; «automobile», dicevan senz’altro altri, che disinvoltamente facevan diventar sostantivo quello che doveva essere un aggettivo; né si sapeva bene, e non lo sapevan nemmeno quelli che scrivevan pei giornali, qual genere grammaticale adoperare: ma sarà necessario, per questo, che dirima, anni dopo, la questione D’Annunzio. Lugano annoverò per le sue strade, prima che finisse le stupide XIXème siècle, il quale finì esattamente il 31 dicembre 1900, una «vettura automobile»? O si dovette attendere l’alba del secolo nuovo? L’elegante questione può esser per ora risolta a metà. L’interesse per il gran fatto dell’automobilismo già era presente nei nostri giornali nel 1898 e ‘99, ma si trattava di «note scientifiche», osservazioni che quasi si potrebbero dir librate nell’astratto, come parlar oggi dei voli spaziali; non senza tuttavia l’augurio, che si reperisce in una nota del 30 settembre 1899 sul Corriere, di salutar presto un’industria dell’automobile anche nel Ticino, sulla falsariga di quel che felicemente s’era dato in Francia; e già, del resto,


qualcosa si cominciava a intravvedere, come lo attestavano «i vari automobili montati nello stabilimento di carrozze Chiattone». (Una gran novità fuor dell’«Americana») Eravamo ancora in pieno secolo decimonono, il 4 novembre 1899, quando fuor dell’albergo-ristorante Americana, sulla piazza allora detta Giardino, ch’era poi l’antica Bandoria o Baldoria di Francesco Chiesa, all’una del pomeriggio si diè un grande assembramento: stava appunto lì fuori una fiammante Panhard-Levasseur: «Un bellissimo e solido modello del genere, annoterà il cronista, capace d’una decina di persone, del peso di circa due tonnellate». La gran novità voleva esser naturalmente il motore a benzina che muoveva la vettura, di sedici cavalli, «il quale, continuava l’esterrefatto cronista, occupava uno spazio relativamente modesto sul davanti, al posto dei cavalli… effettivi»; e c’è da immaginar il gran trambusto e vociare della gente nel nostro dialetto mentre i guidatori, due meccanici fiorentini e uno chauffeur parigino della casa costruttrice, eran dentro a colazione nell’esercizio diretto dal signor Ferrari. La vettura automobile era del resto reduce da un autentico exploit: ché, acquistata dal principe Pietro Strozzi, allora noto sportsman fiorentino, era partita da Parigi con l’intenzione di raggiungere la capitale della Toscana; e quella stessa mattina di San Carlo aveva superato il passo del San Gottardo, prima quindi fra tutte; e non sappiamo invero se il primato è ora ufficialmente riconosciuto. Né, spiegarono poi gli occupanti, cortesi, loquaci, forse addirittura, dopo la colazione, euforici, la spesa del viaggio risultava alta: «Basti dire, annotava ancora il cronista, che avendo i suddetti signori acquistato a Lucerna per 45 franchi di benzina, potranno arrivare a Bologna senza bisogno d’alcun nuovo rifornimento»; e il calcolo era presto fatto: otto centesimi per chilometro, e, dato che erano tre persone, a testa meno di tre centesimi… Quanto alla durata del viaggio, non minore l’ottimismo: per Chiasso, Milano e Bologna, si contava d’esser nella città di Dante «in due o tre giorni di cammino»; ch’era sempre, nonostante l’estrema modernità del mezzo, un esprimersi tutto ottocentesco, e anzi di prima ancora, di quando s’usava un solo cavallo, quello del Poverello d’Assisi… (La macchina del colonnello Fama) Automobili di passaggio dunque, o semmai carrozzati (occhio al genere, lettore) nella nostra Lugano, non peranco, che si sappia, automobili luganesi; ed ecco perché abbiam parlato di questione risolta a metà. Per Lugano, veramente, narra la «memoria d’uomo» che aveva cominciato con quella assoluta novità un colonnello svizzero che allora dimorava a Castausio, di nome Fama; scendeva ogni tanto in città con quel suo


anfanante attrezzo, spaventava i cavalli i muli la gente i gatti, chiamava l’ammirazione invidiosa dei giovani, i moccoli degli anziani, poi per giorni e giorni scompariva; e come a tratti anche quella vettura automobile aveva bisogno di qualche cura, egli si spingeva con essa fin dall’unico medico che si dava allora sulla piazza, un medico che invero per quella categoria di pazienti non era per niente uno specialista, ma che insomma, pratico com’era di pazienti affini, poteva, per malattie non troppo gravi, bastare, vogliam dire il Morel; il quale non cercava di meglio che di poter investigare anche su quell’insolito organismo, conoscerlo a fondo, auscultarlo, e poi farlo marciare. Davanti al suo negozio, con lo sfondo popolato di biciclette e di moto, il Morel si faceva fotografare issato a cassetta della carrozza che andava da sé; e aveva accanto, seduto sul predellino, un amico del Velo Club, ora pur lui intrigato di quest’altra più fascinosa novità. A furia poi di condurla a spasso, il Morel finiva per diventar lui il proprietario della vettura, ch’era forse una Daracq, una Clément-Bayart. una Pannhard, una Serpolet-Dedillon-Bouton, chi mai ce lo potrà dire con precisione; con la quale anzi, nel settembre del 1902, regolarmente passava l’esame di guida, conquistandosi la patente numero 2 di tutto il Ticino. (La prima patente del 1901) La prima patente, diremo completando, era stata rilasciata nel dicembre del 1901, invece, a un locarnese, Ludovico Pedroni ch’era un tipico «pioniere», e s’era fatto precedere il cognome da un nobilesco «de»: e guardando questa data sarà da osservare che il nostro Cantone dovette quindi aspettare che fosse già inoltrato il nuovo secolo prima di riconoscere ai suoi cittadini il diritto di usar di quella straordinaria diavoleria. E poi sarà forse curioso notare che il Morel di lì a poco cedeva al figlio del barone von Bülow, giovanotto sportivissimo, che aveva fatto il nostro liceo. Anche i genitori Von Bülow (della famiglia del cancelliere di Germania) avevano peraltro il gusto dell’automobilismo; la baronessa stessa si compiaceva di mettersi al volante, con gran veletta come conveniva, d’una delle prime vetture che il buon Morel noleggiava; e finalmente entraron per loro in proprietà d’una fìameggiante «Bianchi», sulla quale farà poi, ospite di riguardo, le sue prime esperienze automobilistiche il professore e poeta Francesco Chiesa, che ancor oggi ricorda quelle gesta, e più quella macchina, con un misto di sbigottimento e di divertito sorriso… («Gli» automobili vogliono regolamenti e leggi) Le autorità ticinesi, del resto, si sarebbe detto che prevedessero i guai che spericolati tipi alla De Pedroni e alla Morel avrebbero potuto procurare: già


il 28 settembre 1901, infatti, avevano emanato un «Regolamento per gli automobili», che prescriveva appunto un permesso di circolazione e una «placca» coi colori cantonali: «Il conduttore dell’automobile, vi si diceva tra altro, deve sempre dominare la velocità… che sarà ridotta a quella di un uomo al passo nei passaggi stretti e ingombrati»; né si taceva della necessità che ogni veicolo avesse «una tromba a voce grave», e due fanali; e si arrivava persino, ch’era già un bell’antivedere quando si pensa che quelle vetture semoventi erano allora in tutto il Cantone due, o forse tre, a contemplar la possibilità di corse, sul far di quelle che da anni furoreggiavano con le biciclette… (Si veda lo studio del dottor Argante Righetti, in questo stesso volume, di cui togliamo i seguenti dati)

E la prima legge sarà poi della fine del 1909, dopo una discussione rapida, un poco rassegnata, fatta in Gran Consiglio: ché anche quei granconsiglieri, uomini generalmente gravi, barbuti e baffuti, spesso con bombetta e redingotta, fasciati di nero alla maniera del secolo XIX di cui si sentivano completamente figli, signori col pince-nez tenuto su da un cordoncino, che mai avevan magari osato cavalcare nemmeno una bicicletta, e anzi in cuor loro disapprovavano e condannavano certe novità scombussolatrici dell’ordine costituito nelle strade, eran pur costretti ad arrendersi alla realtà; le realtà che invece era bella per la jeunesse dorée luganese, che anche senza legger D’Annunzio si sentiva nell’animo dannunziana. Il Morel rilevava un piccolo garage di legno che stava appena di là dal ponte di Cassarate, si faceva in quattro per accontentar la clientela, che cresceva anche in quel nuovo genere di trasporti; per conto suo si spingeva fuori strombettando, varcava anche i confini cantonali, attaccava le salite anche più aspre e disagevoli e lunghe; non era ancora aperta la strada del Bre, quella che diventerà famosa per le gesta dei «centauri», e lui già la incignava, magari suscitando qualche protesta; e nel 1906 attuava l’exploit (secondo si cominciava a dire nelle rubriche sportive) di raggiungere la vetta del Sempione, in una gita nostalgica verso il suo paese di nascita. Ormai nemmeno la bottega della casa Airoldi poteva bastargli più; il Morel si assicurava, come un buon patriarca, ch’essa continuasse in buone mani, e l’affidava al suo antico apprendista ch’era ormai diventato, per le biciclette, un provetto operaio, il bravo Battista Morandi; e per suo conto si trasferiva in fondo alla valletta di Tassino, un poco sotto il famoso ponte, per un garage e un’officina meccanica, e s’era ormai nel 1908; ché ormai l’automobilismo stava diventando un fatto diffuso, se non proprio comune, e di garages e di officine già ormai sulla piazza ne poteva anche far fiorire più d’uno.


(Le macchine della gioventù dorata) Certi personaggi luganesi ormai eran diventati inscindibili, per le fantasie, dalle lor macchine, ch’eran insomma per tutto famose, come l’ingegner Riccardo Lucchini, proprietario d’una filanda in corso Pestalozzi, o come Emilio Barioni, o Attilio Maffei, o Pierino Primavesi, ch’eran, questi tre ultimi, autentiche espressioni della spericolata jeunesse dorée di cui s’è parlato; e Pierino Primavesi, anzi, con una cento cavalli, compieva nientemeno, in quegli anni, ch’erano suppergiù quelli di Luigi Barzini e del principe Borghese, una «Mosca-Pietroburgo», impresa che anch’oggi si colora di favola, favolosa marcia in paesaggi di pianura quasi irreali, punteggiati all’orizzonte da chiese ortodosse coronate di cipolle dorate, su strade fumanti di fango, tra la curiosità nera e diffidente di barbuti «pope» villerecci e lo sbigottimento di poveri «mugiik»… Quel che la ditta Chiattone aveva già cominciato a fare alla fine dell’Ottocento, e l’abbiam visto, ora continuava su scala più ampia; l’automobile veniva carrozzata a Lugano, da provettissimi battilamiera; dall’Italia o dalla Francia arrivavan meramente gli châssis, che spesso gli sfaccendati sulla riva, nelle assolate mattine d’inverno, vedevan scaricare direttamente dai battelli. Ogni tanto, per le strade, si dava un assembramento, era qualche modello nuovo fiammante esposto alla loquace ammirazione dei luganesi; e chi poi s’avventurava oltre il cimitero nuovo, udiva spesso un gran fracasso di trombe e di motori ringhianti, ch’erano i principianti che stavan tentando le lor prove per quelle contrade allora ancora quasi deserte; e adesso in certe occasioni, come per la festa di San Provino ad Agno, ch’era la classica prima «sortita» dei luganesi sul principiar di marzo, le vetture automobili si mescolavan ai pedoni e alle timonelle e alle carrozze con strepito e sussiego, ché di solito tuttavia restavan al coperto, in attesa di mostrarsi nei momenti davvero buoni… Ogni tanto, poi, s’annunciava qualche novità. Ora era lo stesso Morel che organizzava un servizio di corriera fino a Cremenaga: ci stavano, su quel macchinone, dieci, quindici persone, le signore avevan grandi cappelloni muniti di spessa veletta, gli uomini eran ottenebrati da occhialoni, e tutti eran fasciati da spolverini lunghi fin ai piedi per ripararsi dalla mota della strada; e se per il pian d’Agno nei momenti buoni si potevan fare i quaranta, su per la salita di Sorengo, o tornando per la Brusata, era una anfanare e un rantolare da far saltare i nervi. Ora era Emilio Barioni che, nel 1911, iniziava il servizio delle automobili da piazza, munite di tassametro. Ora ancora, sempre in quel 1911, era il brevetto d’una «ruota elastica» di cui si lanciava una piccola fabbrica al Paradiso; per sperimentar l’efficacia della quale veniva


organizzato un viaggio fin a Parigi, preceduto da un «vermouth» offerto, non senza solennità e pubblicità, nel caffè Jacchini che ormai stava nelle sale del vecchio Terreni, nell’angolo del palazzo civico… Dalla fin de siècle tutta ciclistica si era passati alla belle époque e tutto pareva giovenilmente bello, lieto, promettente. Il progresso meccanico pareva metter le ali anche agli spiriti. Senonché, purtroppo, cominciava a darsi per le strade, a causa proprio del nuovo sport, qualche fatto di sangue, (E si danno purtroppo i primi grandi incidenti) Nel 1912 un giovane Fontana perdeva la vita sulla forca di San Martino; nuovo lavoro già si profilava per la Croce Verde da poco nata. E non molto dopo si dava l’incidente più clamoroso. S’eran trovati nel pomeriggio d’una domenica al Jacchini per la solita partita di chiacchiere alcuni personaggi luganesi, che lì per lì avevan deciso d’organizzar una gita fin a Bellinzona, con una Fiat marca che ormai, tramite il Morel, era diventata sul nostro mercato primeggiante, del signor Plinio Cornetti; una macchina che da mesi giaceva inoperosa nel garage, tanto che diede da fare al suo proprietario prima di partire, resistette a lungo ai conati d’avvio e agli armeggii, quasicché fosse presàga; e che finalmente partì docile ai comandi, e varcò il Ceneri, portò i suoi sei occupanti a Monte Carasso e a Bellinzona; ripartendo dalla capitale, dopo un caffè allo Schweizerhof, verso le sei. Ma sul Ceneri, meno di mezz’ora dopo, si diè l’appuntamento fatale; scoppiò un pneumatico, la macchina fé uno scarto, girò su se stessa, proiettò fuori con estrema virulenza i suoi occupanti e i cuscini di pelle e i sedili, si capovolse, e con una sorta di salto mortale tornò diritta in posizione trasversale sulla strada: come dirà poi il giornale con rapida prosa. E si alzarono tutti, più o meno malconci, ma non l’architetto Paolito Somazzi, ucciso sul colpo. Si trattava d’un uomo che allora a Lugano e nel Ticino aveva gran nome, e perciò l’impressione fu enorme, la gente si radunò sulla piazza della Riforma per aver notizie più precise, per giorni e giorni non si fé che parlar con raccapriccio del caso. Era la fine di marzo del 1914, di li a quattro mesi sarebbe scoppiata la guerra, e ben altro ci sarebbe toccato vedere: ma per ora nessuno sapeva esser profeta, e quel terribile fatto, sul chiudersi della belle époque, era come il calar d’una nera ala ammonitrice sul frenetico ottimismo che quell’età, davvero «improvida d’un avvenire mal fido», era andata un po’ dappertutto suscitando, grazie anche alle meraviglie dei motori che correvan la terra e le acque, e anche ormai, adesso, i cieli. V


I cieli, appunto… In quegli anni si davano fatti straordinari, che impressionavano il mondo: la guerra russo-giapponese, il processo Murri, il colpo di Agadir, la guerra di Libia… Anche per le nostre strade giungeva l’eco della canzone «Tripoli bel suol d’amore». E dell’impresa africana s’entusiasmava anche Giovanni Pascoli, che lanciava il famoso grido: «La Grande Proletaria si è mossa!». («Guardare in alto!») Pochi anni prima «Zvani» aveva cantato in quasi dimessi versi, come abbiam ricordato, la bicicletta: Ma bello è quest’impeto d’ala, ma grata è l’ebrezza del giorno… Ma ora, in quel suo discorso, diceva alto e forte: «Guardate in alto: ci sono anche le aquile»; alludendo agli improbabili uccelli detti aeroplani, o meglio ancora, con parola dannunziana, velivoli, che per la prima volta, aggeggi che avevan appena tre o quattro o cinque anni di vita, venivan impiegati per la guerra; e certo il mite poeta non poteva vaticinarne gli spaventosi sviluppi. In quel primo decennio del secolo XX anche i nostri giornali recavano ogni tanto notizie delle gesta, come si soleva dire, «aeroplanistiche»; e i fratelli Wright e Parman e Blériot e Chavez; ma eran tutte, per dir così, notizie di fuor di casa. (Un bel tipo di precursore) Una notizia di casa, veramente, aveva avuto tutto il sapore del pionierismo d’estrema avanguardia: ché nel settembre del 1901 era capitato a Lugano un signor Luigi Mezzadrelli di Curtatone, con l’intento di dare una pubblica conferenza alla Birreria Gambrinus sopra il tema: Il convoglio aereo; per spiegare una sua invenzione, brevettata peraltro in Italia, per cui, senza pallone o altro mezzo «fin qui inutilmente sperimentato», si sarebbe potuto con sicurezza navigare nello spazio… Uno scrittore ch’era anche bello spirito, Angelo Nessi, volle avvicinare, come diremmo oggi, in anteprima «l’uomo che vola», ancorché volante, per il momento almeno, solo con l’ali del fantasioso ingegno. L’aspetto poteva lasciare perplessi: quest’uomo tutto proteso nel futuro era un vecchio signore con una gran barba fluente, che ogni tanto da uno scatolotto di legno aspirava, sollevando il coperchio con una funicella, una presa di rapé, sicché non solo per il suo paese d’origine si poteva pensare ai tempi gloriosi e ormai remoti delle battaglie del Risorgimento; ma le parole eran di ben altra


tempra, ché egli parlava di «forza di eliche propulsive e repulsive», e spiegava che l’intento era uno solo e raggiungibilissimo, insomma si trattava di «asservire l’aria». I vittoriosi esperimenti dei Wright, come si sa, saranno solo di due anni dopo. Difficile resister alla tentazione di paragonar il Mezzadrelli a Marconi, il geniale giovane bolognese del cui nome era in quei giorni piena l’aria, ma che era stato pochi anni prima guardato con diffidenza e fin irriso; e si ventilava la notizia che andasse formandosi a Lugano nientemen che un comitato per appoggiare il nuovo genio. Il quale, a dir vero, dai giornali non si sa poi se tenne la sua conferenza, e con qual esito; «e più non parve fuora» nelle cronache cittadine né ora non sappiam se abbia lasciato un qualsiasi solco in quelle, più late, dell’areoplanismo. Ma per tornare «al primo detto», qualche anno dopo, diventato ormai l’aeroplano un «fatto», e coi nomi di Blériot e di Farman e di Chavez ormai popolari, qualcuno, reduce da Milano o da Parigi, diceva già d’aver veduto co’ suoi occhi la straordinaria novità che solcava i cieli, e subito intorno gli si formavan capannelli di giovani ascoltatori; né per tante fantasie le saettanti biciclette e le moto e le automobili del Morel potevano più bastare. Poi ci fu anche chi ci si volle direttamente provare. Il primo, se non si erra, fu Pasquale Bianchi, un bel giovanotto smilzo e audace che pareva incarnare l’ideale dell’Ulisse dantesco, uomo tutto protesto «a divenir del mondo esperto». Pochi anni prima era stato un pioniere della bicicletta, e aveva anzi vinto anche qualcuna delle nostre famose gare; aveva pilotato, naturalmente, una moto e un’automobile; ma ora s’era portato anche a Càmeri, ch’era un de’ primi campi d’aviazione, presso Novara, e compiuti alcuni voli, conseguito il relativo brevetto, era tosto tornato a casa con la mente in ebollizione, ché aveva in animo, insieme con un ingegner Lodetti milanese, non soltanto di far vedere ai suoi concittadini come si facesse a volare, ma anche di volare, novello Leonardo da Vinci, con un biplano di sua propria costruzione. (Il «meccanico volatile» di Pasquale Bianchi) Si trattava invero di un «meccanico volatile», come scrivevano i giornali, fatto di tela e di tubi di bicicletta, con un motore Anzani, dello stesso meccanico lombardo, insomma, che aveva approntato poco prima l’apparecchio con cui Blériot aveva sorvolato la Manica; il quale volatile, portato su a Bellinzona nel campo militare, che pareva l’unico idoneo, dovette attendere per varie giornate il momento buono. Fu il 16 novembre 1909, Intorno a mezzogiorno il buon Pasquale Bianchi e l’ingegner Lodetti salirono, come si scrisse, «in sella», mentre tre operai tenevano ben stretta


la coda per resistere alla prima spinta; e la coda poi, messo in azione il motore, «si alzò orizzontalmente», e fu già un miracolo. Quanto poi al risultato, sarà da lasciar parlare il giornale: «Stante la velocità relativamente forte, le ruote davanti sorvolavano quei piccoli solchi che trovansi nel terreno ineguale, arrivando al confine del campo felicemente senza alcun incidente». Era già qualcosa, ma restava, bisogna dire, un po’ poco, e alcuni giorni dopo i due generosi pionieri decidevan di sospender le prove; che seguitaron a Milano, senza ulteriore fortuna. Il buon Bianchi aveva però sempre nel cuore la sua Lugano, e il «meccanico volatile» fu trasportato difatti in un capanno lungo il Cassarate, dov’era lo stand di tiro; e di qui trasportato sul piano di Bioggio, che pareva l’ideale per le ardite prove. Mezza città, almeno i giovani e ragazzi, si trasportò poi là; e per il pilota si foggiò un nome che aveva dentro di sé sorriso ammirazione affetto: come tra gli aviatori del tempo uno dei più famosi si chiamava Paulhan, il buon Bianchi venne battezzato dalla folla «Pasqualhan»; e come tale invocato a gran voce. Sul pian di Bioggio i ragazzi si gettavano per terra, con gli occhi rasente al suolo, per avvertir se appena le ruote dell’apparecchio, passando via, si fossero staccate dall’erba anche di solo una spanna; «Al sa alza!», gridavano frammezzo al frastuono del motore dell’elica dell’aria, e poi: «L’a goràa!»; e forse un poco doveva essersi alzato davvero, o forse anche qui era l’illusione di un avvallamento, formato da un rigagnolo, superato d’impeto da quello che pur voleva essere un «volatile»… (La memorabile giornata luganese di Légagneux) Ma il tempo incalzava. Pochi anni bastavano per far compiere all’aviazione balzi incredibili, e Lugano ormai era impaziente di veder finalmente volare davvero. «Quando a Lugano si volerà?», ci si chiedeva sui giornali. Ma ormai tutto appariva approntato anche per questo: ci si era assicurati, per il mese di settembre del 1911, l’esibizione d’un dei più grandi assi del tempo, il francese Légagneux, che col suo apparecchio Blériot sarebbe partito dal campo Marzio per una serie di voli, sulla città, sulle colline intorno e sul lago. L’atmosfera era ancora patetica, d’una mescolanza curiosa tra due mondi, tra due secoli: nel recinto del campo, per esempio, si annunciava, c’era posto per le automobili e per le carrozze a due cavalli e a un cavallo, Légnagneux, giunto sul campo, lo valutò con uno sguardo circolare prudente e anzi circospetto: un po’ piccolo, concluse, ma abbastanza adatto; c’era intorno del resto ancora molto fieno, che bisognò sgombrare in tutta fretta per facilitar la manovra al «Blériot». Si visse un paio di giorni in un’attesa febbrile, anche perché un vento gelido e violentissimo non


accennava a cadere. L’attesa era del resto piena di ansia anche per altre più tecniche ragioni. Insomma, ci si chiedeva perplessi da più parti, quest’uomo sarebbe davvero riuscito a staccarsi da terra, a volare? Gli organizzatori stessi non ne eran ben sicuri. Annunciarono delle speciali segnalazioni al Campo Marzio e in piazza della Riforma, con una bandiera: che se fosse risultata ben issata in alto bisognava intendere: «Si vola!», e se fosse stata a mezz’asta invece: «Probabilmente si vola»; ma abbassata completamente come dopo una battaglia perduta, ahimé, senza rimedio più: «Non si vola». Ma gli Dei furono benigni. A mezzogiorno della fatidica domenica il comitato poté mandar in giro torme di ragazzotti che, col compenso di cinquanta centesimi, reggevano vistosi cartelli affrettatamente vergati da qualche pittore d’insegne, in caratteri, v’è da ritenere, vagamente floreali: «Oggi si vola», stava scritto, e il lunedì il giornale trionfante potrà parlare di Légagneux come del «figlio ardimentoso e buono della generosa nazione francese». Fu, si scrisse, una «realtà superba»; né la penna poteva tenersi per sé i versi montiani: «Umano ardir, pacifica - filosofia secura, qual forza mai, qual limite - il tuo poter misura?…» La gente aveva fatto del resto una fittissima, incredibile corona intorno: al Campo Marzio, sul quai, sulle terrazze, sui balconi, sulle finestre, sulle colline circostanti, sui ronchi, nei prati… Fu un momento inobliabile per quelli del comitato quando udiron dalla carlinga, fra il groviglio dei fili, il secco ordine di Légagneux ai meccanici che tenevan il timone: Lâchez!; ogni scoramento, ogni sfiducia, ogni disperazione ormai eran lasciati alle spalle, e l’animo vibrava a un ritmo di vittoria: «Légagneux vola! La svelta macchina corre via sul campo, poi insensibilmente si stacca da terra, e si alza, si allontana sibilando, è a dieci, a duecento e più metri dal suolo, passa sopra il lago…», Incredibile a vedersi, quella libellula in pochi minuti era là sopra il ponte di Melide, sulla Collina d’oro, nientemeno che sopra la vetta del Monte! E le evoluzioni si spingevan anche sopra i tetti della vecchia città. Il buon Gin Bianchi, il proprietario del famoso «esercizio» in faccia al vecchio Liceo, era salito sulla terrazza del suo stabile, e a ogni passaggio del volatile brindava, gallicamente, con champagne e biscotti Pernod; e là sul campo la Civica filarmonica sfogava i sentimenti comuni dando fiato a più non posso alla «Marsigliese»: «Aux armes, citoyens! Formez vos bataillons! Marchons, marchons, paa pam pam pam, papàm papàm!» (Malfei, Cobbioni, Salvioni, Primavesi e gli altri) Ma Lugano, che viveva allora un gran fervore di vita, non poteva accontentarsi di applaudir le gesta «degli altri»; ed ecco che pochi mesi dopo giungeva notizia che un figlio autentico della città, Attilio Maffei,


giovane brillante che già s’era fatto notare nella vita luganese, e politica e mondana e anche sportiva, ciclista e automobilista, s’era iscritto a Pau alla scuola d’aviazione, per aver il brevetto pur lui: e non eran davvero prove facili, si trattava di compiere due serie di giri di cinque voli attorno a due bandiere, a seicento metri di altezza, e poi di atterrare dentro un cerchio di cento metri di diametro. Le prove venner felicemente, forse sul principio di marzo del ‘12, superate; e il 20 marzo i giornali poteron annunciare che Attilio Maffei avrebbe volato a Lugano. Ci volò infatti, sulla fine del mese, e la sua impresa apparve degna di quella di Légagneux; sol che al «lâchez! del francese ora si sostituì un «mòla», che agli orecchi dei luganesi doveva suonare anche più lieto e caro; e subito si portava a Locarno, per altre prove, insieme con gli altri pionieri, Cobbioni, Salvioni, e via. Né le gesta aviatorie luganesi volevan finire, ché un altro, a Taliedo, s’era fatto il brevetto: ed era quel Pierino Primavesi che già abbiam visto in corsa, da Mosca a Pietroburgo, con l’automobile… Quel radioso giorno primaverile del 1913 in cui sarebbe dovuto tornare col suo idroplano nella città nativa, tutti erano ad attenderlo osannanti; ma ahimé, fecero appena in tempo ad avvistarlo da lontano, che lo videro inabissarsi nel lago; e l’acqua che si sollevò per un attimo ricadde, come scrisse cinquant’anni dopo un rimemorante amico dell’aviatore, illuminata dal sole di meriggio, come un barbaglio d’oro… L’apoteosi sportistica si conchiudeva in tragedia. Questi fatti certo commovevan la gente, che tuttavia restava serena e ottimista: il progresso, si argomentava, vuole le sue vittime, e quasi ci si inorgogliva a pensar che Lugano aveva pure pagato il suo tributo. Non si poteva pensare davvero a quel che avrebbe riservato il domani: ahimé, l’immediato domani.


Giuseppe Curonici Gli annali del Touring ticinese Il modo migliore per conoscere il carattere e le capacità di una persona consiste nel tracciare la sua biografia: in che ambiente è nata e si è formata, che cosa ha appreso, quali sono le sue esperienze, qual è il ritmo e lo slancio del suo sviluppo, quali sono le sue opere. Noi crediamo che lo scopo di un profilo storico di una società come il TCS Ticino deve essere innanzitutto quello di conoscere che cosa sia questa società nelle sue basi, nelle sue radici più sottili e profonde. Non solo lasciarsi trasportare dalla corrente dei ricordi, dalla commemorazione di ciò che si è realizzato, ma afferrare il senso, l’orientamento di questa più ampia persona che è l’organismo sociale. Sarebbe troppo ambizioso pensare di giungere addirittura a delineare la psicologia, la personalità di tale organismo: troppi fattori affidati al fluire del tempo ormai ci sfuggono. Tale potrebbe tuttavia essere l’obiettivo di questa cronaca. (Scarsità di documentazione sicura) Chi ha compilato la cronaca stessa meglio di ogni altro ha avuto l’occasione di rendersi conto della mole imponente, sovente insperabile, di lavoro svolto dal Touring negli anni e nei decenni della sua esistenza. Purtroppo due circostanze hanno reso impossibile la descrizione esatta e particolareggiata delle varie fasi attraverso cui tutto questo lavoro si è maturato, segnatamente per i primi decenni del periodo che consideriamo, dalle origini a oggi. Non vogliamo dire che gli inizi del Touring si perdano nella leggenda, spariscano nella notte dei tempi. Certo si è che i fondatori della società non appartengono più al mondo dei vivi; le notizie che ci sono state date da persone che comunque hanno appartenuto al Touring Ticino per molto tempo, ci sono d’altra parte sembrate altrettanto interessanti quanto bisognose di controllo e di confronto, specialmente per la loro esatta collocazione nel tempo. Analogamente sono apparse inaspettatamente scarse e lacunose le fonti documentarie, sia tra gli archivi della Sezione ticinese, sia alla sede centrale del TCS a Ginevra, dove addirittura non esiste nessun archivio destinato a possibili ricerche di carattere storico per la ragione straordinariamente semplice e persuasiva che, come ci è stato serenamente spiattellato in faccia, «il Touring guarda al futuro, non al passato». Eccellente dimostrazione di vitalità e di giovinezza, che ha tuttavia costretto lo scrivente a togliersi d’imbarazzo affidandosi solo a pochi


frammenti di verbali delle sedute di comitato, e ai comunicati apparsi a lunghi intervalli sulla rivista del Touring Svizzero. Le notizie invece sono ovviamente più abbondanti quanto più ci avviciniamo ai nostri tempi. (Prima sezione in tutta la Svizzera) La Sezione ticinese del Touring fu in senso assoluto la prima organizzazione cantonale del TCS in tutta la Svizzera. La sua costituzione, mezzo secolo fa, segnò dunque una svolta assai netta nel Touring svizzero, che cominciò allora ad occuparsi di una decentralizzazione delle competenze e degli organi, secondo un ritmo sul quale vale la pena di soffermarsi. Osserviamo infatti: la sede centrale è a Ginevra, dove il TCS nacque nel 1896. Se la sezione Ticinese è del ‘14, nel 1916 ci imbattiamo nella sezione del Giura bernese, mentre già nel 1915 si cominciava a considerare l’eventualità della fondazione di una sezione vallesana definitivamente imposta nel 1917 insieme alla Sezione di Zurigo; seguono nel ‘18 Vaud, nel ‘21 Basilea. In altre parole, dalla sede centrale l’irraggiamento del Touring in Svizzera segue una doppia legge: vengono via via interessate le regioni periferiche, i Cantoni di confine, e i centri urbani di maggior importanza. (Una forma federalistica) Ciò significa che il TCS si è molto rapidamente adeguato alla struttura decentralizzata, tipicamente federalistica, propria della Svizzera: il che a sua volta significa che il TCS si è dimostrato assai agile nell’immedesimarsi con le necessità pubbliche del paese, nell’accettare le sue condizioni e nell’incorporarsi facendosene una propria ragione di vita. L’affermazione non è esagerata per nulla perché è di totale evidenza che il TCS ha seguito con la più grande attenzione, ininterrottamente, tutto quanto si è fatto in Svizzera nel campo non poco importante della politica dei trasporti, del turismo, della viabilità, delle strade: tutte questioni che si collegano fra loro con un continuo rimando dal piano federale a quello cantonale o regionale e viceversa. Nel caso del Ticino la spinta periferica e decentralizzatrice ha un’energia ancora più manifesta per motivi ben noti, la posizione geografica al di qua delle Alpi e il sensibile orientamento di molti interessi verso l’Italia. Non è senza conseguenze ad esempio il fatto che i documenti doganali per l’entrata dei veicoli in Italia vengano rilasciati attraverso il Touring (trittico); all’inizio dell’attività del Touring Ticino appare infatti subito la questione doganale. (Aspetti economici, sociali, tecnici) Tali ci sembrano essere le ragioni politiche, nel senso più ampio e generale della parola, che hanno portato il TCS a snodarsi in sezioni cantonali. A ciò


si devono aggiungere anche ragioni economiche e sociali - di interesse generale - le quali hanno causato l’espansione del Touring a vastissimi strati della popolazione (il TCS conta oggi in campo federale oltre 400’000 soci): ne consegue la necessità di moltiplicare gli uffici regionali per quanto occorre all’organizzazione e all’amministrazione di una comunità tanto rilevante. Il TCS è attualmente soprattutto una società di automobilisti; settant’anni fa era un raggruppamento di ciclisti, sempre in ogni modo un sodalizio di possessori di veicoli. Ne è presupposta una certa situazione economica minima variabile secondo il mutare dei tempi, che è insieme causa ed espressione di una condizione sociale. La storia del Touring svizzero è anche la storia della sua proliferazione numerica, e questa altro non è che un riflesso straordinariamente significativo della storia minuta e concretissima del popolo svizzero, a sua volta ovviamente in rapporto con tutto ciò che è capitato in Europa: il miglioramento delle condizioni sociali, l’evolversi del tenore di vita, una graduale democratizzazione. Si noti a titolo di verifica che tra i membri del Touring svizzero nel periodo delle sue origini spesseggiavano i rappresentanti di una élite economica e dell’alta borghesia, cui fa riscontro invece soprattutto dopo la seconda guerra mondiale la partecipazione di cerchie largamente popolari, che rispecchia piuttosto fedelmente quasi tutti i ceti della Svizzera. Le considerazioni generali riportate sopra ci sembrano utili per l’inquadramento storico e organico di ogni discorso riguardante la nascita di qualsiasi tipo di organizzazione particolare entro la cornice complessiva del Touring svizzero. A questo punto possiamo occuparci senza indugio delle vicende particolari che hanno segnato la presenza in esso della Svizzera Italiana. Possiamo suddividere il nostro discorso in alcune parti diverse. Dapprima, la fase in cui si comincia ad intravvedere la partecipazione dei ticinesi al Touring senza che si sia ancora potuta istituire una Sezione cantonale, per quanto già ne appaiano le premesse e si senta il pungolo di alcuni problemi caratteristici; poi, la formazione ordinata della sezione cantonale e la sua vita di piccola società comprendente alcune centinaia di iscritti; infine dopo la seconda guerra mondiale l’affollarsi quasi tumultuoso dei nuovi membri, e il relativo intensificarsi dell’attività del sodalizio. Ma dobbiamo avantutto riassumere qualche notizia sulle origini del Touring in campo federale, partendo dalla sua culla ginevrina. (Origini del Touring in Svizzera) Il TCS nacque qualche tempo dopo il consolidamento di clubs del genere in Francia, Belgio e Italia. Queste società annoveravano anche alcuni


membri in Svizzera: di qui l’idea di costituire una associazione per i cittadini svizzeri interessati. L’assemblea costitutiva ha luogo a Ginevra il 1º settembre 1896. Lo scopo della società è lo sviluppo del turismo specialmente nell’ambito del ciclismo (non si pensa però alle competizioni sportive). Si tratta inoltre di provvedere alle carte stradali, ai segnali indicatori, alle strade, alle strisce riservate ai ciclisti, alla definizione delle regole della circolazione. Il miglioramento della rete stradale e l’evolversi della legislazione del traffico saranno costantemente promosse dal Touring, il quale ben presto si occupa anche delle riduzioni dei prezzi delle riparazioni e degli alloggi rispettivamente nei garages e negli alberghi che accettano il programma del Touring stesso e si raccomandano a lui. Altri problemi che il Touring affronta sin dal primo anno della sua esistenza sono quelli delle franchigie doganali per i viaggiatori che dalla Svizzera si recano in Francia, Belgio, Italia. Per quanto riguarda l’organizzazione il presidente del club è Frédéric Raisin, presidente onorario l’on. A. Lachenal, presidente della Confederazione. (Le delegazioni) Si pensa subito a istituire delegati del Touring in tutte le località della Svizzera con l’incarico di favorire l’iscrizione di nuovi soci. Le prime delegazioni sono a Ginevra (comprendente anche la zona doganale francese;) la regione Vaud e Vallese; la regione di Friburgo, Neuchâtel e Giura bernese, quella di Basilea, Soletta e Argovia. Esistono anche delle legazioni estere: Parigi; costa nord-occidentale degli Stati Uniti d’America; Milano. I primi soci sono però stanziati soprattutto a Ginevra, e secondariamente a Losanna. La «Revue du TCS» rivelava il carattere battagliero del club fin dall’autunno del 1896: polemiche sul cattivo stato delle strade, discussioni sulla convenienza di lastricare le vie con pietra o con legno, sottoscrizioni per la posa di segnali d’avvertimento lungo le discese pericolose. Un articolo sul numero di novembre definisce lo scopo delle delegazioni, che non erano affatto associazioni regolari aventi una propria autonomia, bensì semplici derivazioni della sede centrale. Tuttavia ad esse erano già attribuite alcune competenze che in seguito vennero assegnate alle sezioni cantonali: il proselitismo, la raccolta di informazioni sulle curiosità locali (paesaggio, monumenti, ecc.), la compilazione di liste di alberghi, di meccanici, di medici, e anche di fotografi, oltre che il disbrigo delle pratiche doganali. I soci cominciano ad affluire con una frequenza sempre maggiore. La rivista del Touring pubblica i nomi di coloro che chiedono l’ammissione, la quale viene automaticamente concessa se entro 8 giorni non si hanno opposizioni. La


lettura di quei vecchi numeri della rivista del Touring è a volte enormemente divertente oltre che storicamente interessante. Appaiono le descrizioni dei primi incidenti. Un carro carico di fieno ha urtato un ciclista, di chi è la colpa? Oppure: tecnica di frenaggio di una bicicletta lungo una discesa pericolosa: si tagli un grosso ramo di pino nella foresta più vicina; si leghi il ramo al mozzo della ruota posteriore della bicicletta mediante una corda lunga esattamente un metro e mezzo; il ciclista potrà scendere tranquillamente senza sprecare forze in estenuanti operazioni di frenaggio, il ramo di pino è un’ottima zavorra. Ma i contadini protestano che in tal modo si rovinano le strade di terra battuta, e un ciclista scrive al Touring preoccupato se si incorra in pericolo di contravvenzione. (I primi ticinesi delegati) Il primo nome di ticinesi è pubblicato sul quarto numero della «Revue», vale a dire nel gennaio del 1897: Josef Minigiotti, banchiere, Lugano. Il secondo ticinese è registrato nel febbraio dello stesso anno: è il commerciante Italo Farinelli di Bellinzona. In marzo troviamo il primo meccanico ticinese alleato dcl Touring, il signor D. Giambonini che nel suo garage di Bellinzona concede il 15% di sconto sulle fatture ai soci tesserati. Intanto già era sorta la delegazione del Touring svizzero per la regione del Ticino, comprendente anche la valle di Mesocco e la zona dei laghi italiani. Il consiglio di amministrazione del TCS nella sua seduta del 12 gennaio 1897 ha nominato Minigiotti delegato principale, e Italo Farinelli delegato semplice. A partire da questo momento assistiamo all’entrata di sempre nuovi soci ticinesi, specialmente in quel di Bellinzona e di Biasca. Il consiglio di amministrazione nomina un nuovo delegato. Omero Codaghengo. Nell’estate del 1897, ecco il quarto delegato ticinese, il dottor Italo Vivanti di Locarno, e qualche socio del Sottoceneri. A meno di un anno dalla fondazione del TCS, l’espansione ha già toccato il Ticino in tutte le sue parti. E comincia per il Ticino la classica azione destinata a facilitare il passaggio del confine italiano: il numero II della «Revue» reca la lista dei posti doganali svizzeri. (Dalla bicicletta all’automobile) Ci siamo occupati fin’ora di ciclismo, Nel novembre del 1898 nasce un’organizzazione per gli automobilisti, l’Automobil Club Svizzero, la cui costituzione definitivamente è stabilita il giorno 6 dicembre. È presidente A. Terroud, membro del consiglio di amministrazione del TCS, e segretario H. Schauenberg, vice-presidente del Touring. La rivista del TCS è adottata il 28 dicembre anche come organo ufficiale dell’Automobil Club, Possiamo notare che la «Revue» del Touring è stata l’organo ufficiale


anche di parecchie altre società amiche del Touring. l’Aeroclub ad esempio, oppure la Lega svizzera contro la polvere (la polvere delle strade era lo smog di quei tempi), la Società degli amici dell’ordine. Nel 1899 una riforma organizzativa del TCS considera anche il problema dell’organizzazione generale e tutta la Svizzera è divisa in 25 Sezioni sempre da intendersi come suddivisioni dell’amministrazione centrale e non come enti autonomi locali. Le Sezioni non hanno altro compito che quello di rappresentare la direzione centrale conformandosi alle sue istruzioni. Nei primi anni del secolo si precisano parecchie cose. Intanto si accentua l’importanza del gruppo automobilistico: ne parliamo perché la sezione cantonale ticinese nasce appunto in strettissimo riferimento all’organizzazione degli automobilisti e non dei ciclisti. Nel gennaio 1900 il nome dell’Automobil Club esce dalla testata della «Revue» del Touring; nel novembre del 1901 un nuovo passo in avanti della collaborazione ticinese con la pubblicazione del primo articolo in lingua italiana. «Le mie vacanze in bicicletta» di Italo Farinelli il quale racconta un viaggio di dieci giorni che a noi, poco allenati al pedale, sembra addirittura pauroso: un itinerario circolare per valli e montagne da Bellinzona a Coira, Innsbruck, passo del Brennero, Venezia, Bellinzona. (Primi accenni di autonomie regionali) Nel 1903 alcune importanti modifiche statutarie dimostrano chiaramente che il TCS a poco a poco si dispone a instaurare un regime di maggiori autonomie sezionali. Il 6 giugno il consiglio di amministrazione vota un regolamento che dice tra l’altro: «In ogni Cantone o semi-Cantone può essere fondata una sezione di almeno 20 membri, suddivisibile in semisezioni». Ogni sezione elegge il suo comitato, di cui fanno però parte di diritto i delegati già nominati precedentemente. Il presidente sezionale è delegato capo e rappresenta il TCS in quella regione. Ogni sezione elabora il proprio regolamento interno, che però deve essere approvato da Ginevra, cioè dal comitato direttore del TCS. È a carico della sezione ogni spesa che la riguardi. Segnaliamo con particolare cura questa disposizione, che indica senza nessun equivoco competenze e limiti (limiti stretti!) di queste nascenti autonomie sezionali: eccetto le trattative con le autorità comunali, la sezione non potrà agire ufficialmente se non per tramite del Comitato Direttore della sede centrale. (La Sezione automobilistica) Nel primo decennio del secolo si registrano avvenimenti di importanza generale che letteralmente costringono il TCS a una importante trasformazione interna, a cui è legato strettamente il nascere delle sezioni


cantonali: la motorizzazione che ha contraccolpi in tutto il paese e che in particolare porta la nostra associazione ad essere non più un raggruppamento essenzialmente di ciclisti, bensì di automobilisti. Le evoluzioni imposte dalla storia stessa di una civiltà si affermano non ostante gli strilli di chi la pensa diversamente. Basta pensare che nel 1907 una votazione popolare nel Canton Grigioni vieta, a strepitosa maggioranza, la circolazione delle automobili nelle strade cantonali (10’000 no contro 2’000 si). Nel consiglio di amministrazione centrale del TCS entra, in data 11 aprile 1908, il primo ticinese: Rinaldo Rusca, spedizioniere di Chiasso, che è il vero padre della nostra sezione cantonale, animatore e organizzatore instancabile, Ma intanto si delinea il nuovo organismo nel TCS: la sezione automobilistica (detta «Auto Touring Svizzero») è formalmente costituita nel 1911, Il TCS è ora impostato su due linee, quella dei ciclisti e quella degli automobilisti: la seconda finirà per comprendere in sé praticamente tutto il Touring. Il Rusca è attivo, si occupa di tutte le facilitazioni doganali necessarie agli automobilisti ticinesi (e non ticinesi) in transito per l’Italia, La sua presenza nel consiglio di amministrazione è lo stimolo che suscita l’azione del sodalizio verso il Consiglio federale, verso il Touring italiano, verso il Ministero delle Finanze d’Italia: nell’assemblea centrale del 15 marzo 1913 viene pubblicamente dichiarato che senza gli interventi del Rusca non sarebbe stato possibile ottenere le franchigie per l’importazione temporanea delle macchine in Italia. Ed eccoci finalmente al 1914, La sezione automobilistica, quella appunto denominata Auto Touring Svizzero, genera la prima sezione autonoma cantonale, ed entra per così dire in una nuova era. Riportiamo il testo integrale della fondazione:

(Nascita dell’auto Touring Ticino) «L’Auto Touring Svizzero, che ha sempre considerato che una decentralizzazione ben intesa formava uno dei più sicuri elementi di successo corrispondendo nei migliori dei modi alla riuscita del programma prefissato, ha la grandissima gioia di annunciare ai suoi membri la fondazione della Sezione Ticinese dell’Auto Touring Svizzero la quale ha visto la luce a Lugano alla fine del mese di dicembre del 1913, vale a dire meno di tre anni dopo la fondazione dello stesso Auto Touring Svizzero. (Il comitato fondatore)


La nuova sezione, la cui sede è a Lugano, ha formato il suo Comitato nel seguente modo: Riccardo Lucchini, Lugano, presidente Pio Soldati, Lugano, vice-presidente Rinaldo Rusca, Chiasso, segretario Pietro Molinari, Lugano, tesoriere I presidenti del cinquantennio (Fig. 1-5)

1. Riccardo Luchini

2. Carlo Censi

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3. Antonio Bolzani

4. Riccardo Rossi

5. Emilio Censi

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Fig. 6. Il giovanissimo Jean Morel agli albori della sua carriera, accanto al «biciclo», ormai presso a esser soppiantato dal «tipo bicyclette»


Fig. 7. Uno spettacolare incidente sulla strada del lungolago di Lugano nel 1924, Il motociclista se l’è cavata con nove mesi d’ospedale

Fig. 8. 1915: la sezione ticinese del TCS ha un anno, Il Ticino ha già i suoi piloti: Questo è il bellinzonese Carletto Salvioni: un uomo-volatile, si potrebbe definire.

Membri aggiunti: Alessandro Balli, Locarno Giuseppe Vella, Faido Italo Farinelli, Bellinzona Evaristo Garbani-Nerini, Lugano Giuseppe Baragiola, Riva San Vitale Francesco Bertola, Vacallo Giovanni Thiele, Lugano Revisori dei conti: Signorina Emmy Bernasconi, BelIinzona Giorgio Crescionini, Lugano A quest’epoca i membri ticinesi non raggiungono la cinquantina. Siamo negli anni duri della prima guerra mondiale. Sul piano nazionale, il Touring affronta grosse battaglie, e la Sezione cantonale lo spalleggia. Il


segretario generale del Touring Svizzero, Navazza, deve addirittura affrontare un processo penale in cui otterrà completa vittoria, per la coraggiosa polemica aperta dal Touring contro gli abusi accaduti in seguito all’istituzione di un corpo di automobilisti volontari, organizzato a fianco dell’esercito svizzero in modo che il reclutamento era affidato a un’organizzazione automobilistica diversa dal Touring e sua concorrente, e comprendente, per i volontari, l’esonero dal servizio regolare nell’esercito e dalla tassa militare. La vittoria di Navazza determina un movimento di opinione pubblica favorevolissimo al Touring, il quale riesce anche a ottenere alcuni miglioramenti nel servizio automobilistico dell’esercito. Nuovi soci affluiscono, nonostante le difficoltà dalla guerra europea. Avvenimenti riguardanti il Ticino nel 1915: l’ing. Vella esce dal Comitato ed è sostituito dal dott. Sacchi di Bellinzona che è pure membro dei Gran Consiglio. Le competenze proprie all’autonoma sezione cantonale ticinese si allargano: la Sezione è investita del diritto di rilasciare i trittici (ne sono stati concessi finora 89). Il Comitato è riuscito ad ottenere facilitazioni speciali per l’acquisto di benzina e lubrificanti; forti riduzioni sui premi di assicurazione per la responsabilità civile, che nel Ticino è obbligatoria; si sono votati Fr. 500.da distribuire come premio di incoraggiamento ai cantonieri affinché provvedano meglio alla manutenzione stradale; si collocano 30 cartelli segnalatori, pure riconoscendo che ciò è soltanto un’infima parte di quanto occorrerebbe; ogni socio riceve un formulario destinato a raccogliere indicazioni sulle strade da riparare e suggerimenti per qualsiasi iniziativa concernente il traffico e la viabilità. Dopo tanto lavoro la Sezione cantonale si prende un giorno di vacanza: è i14 giugno 1915 e si parte per la prima gita sociale la cui meta, assai modestamente, è Bignasco. L’anno successivo l’azione si intensifica. Si pensa a una guida turistica ticinese. Escono dal Comitato i signori Pio Soldati e Garbani-Nerini sostituiti da C, Donini di Gentilino e G, Souvrier di Lugano. (Riorganizzazione del TCS) 1917. Questo è l’anno dell’assestamento interno del Touring Svizzero. Grandi discussioni sono provocate dagli ambigui rapporti esistenti tra il Touring come tale e 1’Automobil Touring: le ripercussioni si avvertono sensibilmente nelle sezioni cantonali che sono appunto - giova ripeterlo sezioni puramente automobilistiche. L’assemblea generale del 14 aprile 1917 vota la soppressione del Comitato centrale dell’Auto Touring le cui Sezioni divengono così sezioni automobilistiche del Touring Club Svizzero. Formalmente è la distruzione del gruppo automobilistico: sostanzialmente


è vero il contrario, cioè che il raggruppamento automobilistico si allarga sempre più, entro il TCS fino al momento in cui lo avrà assorbito. Per ora nasce in seno al consiglio di amministrazione centrale una commissione automobilistica che si occuperà di tutto ciò che è legato ai motori: sport, industria, traffico, attività delle Sezioni. (Fusione) Il Comitato dell’Auto Touring entra in massa nel Comitato del Touring Club Svizzero. Paradossalmente l’associazione degli automobilisti che era pur già inserita entro il TCS, era più danarosa dello stesso Club. Essa annulla i prestiti precedentemente concessi al Club trasformandoli in dono, e raccoglie tutti i suoi averi in una fondazione avente lo scopo di incoraggiare l’automobilismo «terrestre aereo o navale». Evidentemente in quei beati tempi le automobili avevano una forma abbastanza ambigua da poter essere tranquillamente scambiate per navi o aeroplani… Invano il nostro Rusca aveva lottato contro l’istituzione di codesta fondazione. Egli aveva infatti proposto la spartizione del capitale fra le diverse sezioni cantonali, per ragioni che a noi ticinesi sono molto evidenti: espressione del rapporto dialettico così peculiare al nostro paese, sempre teso federalisticamente tra accentramento e decentramento. (Crescita) La prima guerra mondiale è finita, Siamo nel 1919, tutto fermenta e cresce, La rivista del Touring pubblica servizi giornalistici che vanno dalle visioni del Belgio, devastato dalla recente guerra, ai tranquillissimi sentieri ticinesi: Giovanni Anastasi scrive articoli sul paesaggio del nostro Cantone cominciando da «Un celebre sentiero», quello di Gandria. Intanto l’Auto Touring Ticinese intrattiene una fitta corrispondenza col consigliere di Stato E. Garbani-Nerini a proposito dei problemi stradali. Il 24 agosto l’Unione Sportiva Ceresio aveva organizzato una corsa motociclistica sul Monte Bré alla quale erano stati invitati ad assistere anche delegati del Touring e ospiti della Svizzera interna. Forse non si parlò molto di vincitori, ma fu una lagna generale per le incredibili condizioni delle strade. L’Auto Touring Ticinese scatta ai posti di combattimento, mette al lavoro la sua Commissione Stradale e presenta al Governo cantonale un adeguato rapporto di cui sono autori l’ing. G. Casella, il sig. Carlo Rezzonico, l’arch. Otto Maraini. Molto si discute anche in merito a un eventuale aumento delle tasse di circolazione. Questa attività ticinese corrisponde appieno al fervore di iniziative assunte dal Touring Svizzero. Basti ricordare che nel 1920 il Touring pubblica la prima proposta di costruzione di un autosilo. Lo


chiamavano allora garage grattacielo, una torre circolare con rampa elicoidale per le vetture e ascensori per le persone. Le prime ondate d’aumento della circolazione automobilistica suscitano reazioni ostili nella popolazione. Si lamentano troppi incidenti, alcuni dei quali sono mortali. Durante la guerra si erano viste quasi soltanto automobili militari, ora invece qua e là si sente strepitare la voce del malcontento contro il «tuf tuf». Il Touring Ticinese interviene presso il Governo per impedire che venga proibita la circolazione automobilistica nei giorni festivi. Evidentemente i pedoni nei giorni di riposo volevano le strade tutte per sé: problemi che oggi ci sembrano addirittura preistorici. A parte qualche scosserella dovuta alla costante pressione di crescita e di iniziativa del Touring, tutto procede sotto il segno della buona e normale amministrazione. Rusca è sempre il più attivo; per la quarta volta vince il primo premio per essere stato il miglior propagandista del Touring in campo nazionale e aver raccolto il maggior numero di nuove affiliazioni. Rusca muore nel 1930 tra il compianto generale. Nel periodo che va dal 1924 al 1950 la presidenza del Touring Ticinese è affidata all’avv. Carlo Censi di Lugano. (Presidenza dell’avv. Carlo Censi) In questo periodo molto lungo conviene ricapitolare l’azione del Touring mettendo in evidenza gli aspetti nuovi di quanto si va realizzando, le iniziative più caratteristiche, intendendosi però molto chiaramente che le nuove iniziative sorgono sulla base solida e sempre più larga di un graduale sviluppo delle numerose attività del Touring che già abbiamo visto delinearsi finora. Non ci soffermeremo a elencare gli scambi di corrispondenza con il Governo cantonale o con le Autorità comunali, ma daremo per presupposto che tale dialogo procede costantemente; senza dirlo espressamente sapremo già che il Touring è presente dappertutto dove si noti la necessità di migliorie nella segnaletica, nella legislazione, nella costruzione delle strade, nei rapporti con l’estero. Il trittico viene applicato anche agli autocarri (1921); per i viaggi in Italia vengono aboliti i pagamenti di dazio della benzina contenuta nei serbatoi delle vetture (1923); esce la guida turistica ticinese (ancora 1923); per qualche tempo funziona un servizio di traghetto su motoscafo per i veicoli che si recano in val Solda; non esiste ancora infatti la strada di Gandria. Per chiarezza, vediamo intanto la composizione del Comitato cantonale che entra in carica il 3 febbraio 1924. Ufficio presidenziale: Presidente: Carlo Censi Vice-presidente: Enrico Biaggi


Tesoriere: Gino Nessi Segretario: Rinaldo Rusca Membri: Arturo Bernasconi, Lugano Dott. Emilio Bianchi, Lugano Arch. Luigi Luvini, Lugano Henri Morel, Lugano Dott. Antonio Solari, Lugano Pio Soldati, Lugano Avv. Attilio Zanolini, Locarno Revisori: Dott. Bruno Manzoni e Pietro Primavesi, Lugano (Assistenza stradale) Qualche anno dopo il membro del comitato Soldati esce e al suo posto subentra il dott. Guglielmo Franzoni di Locarno. All’assemblea generale del Touring Club Svizzero cominciano ad apparire accanto a Rusca anche i nomi di Carlo Censi e Gino Nessi. È piuttosto importante l’istituzione di un regolare servizio di assistenza stradale a partire dal 1929. Una decisione in tal senso è presa il 22 aprile dal consiglio di amministrazione centrale: il servizio ha la sua sede in tre città, Ginevra (che si rivolge alla zona del Lemano), Zurigo per la Svizzera Tedesca, e infine Chiasso. Sulla tratta Chiasso-Bellinzona circola una motocicletta con carrozzino che è tutt’insieme officina, farmacia e ospedale, e dispone tanto di attrezzi meccanici quanto di una lettiga. Possiamo ricordare che oggi il Touringsoccorso dispone di cinque vetture e cinque pattugliatori. Non vale certo la pena di catalogare minuziosamente le feste da ballo, le passeggiate turistiche nel Cantone, in Svizzera o all’estero, le manifestazioni di carattere ricreativo che si succedono ubbidendo zelantemente al calendario. Però è opportuno menzionare la loro esistenza: in parte servono alla propaganda, per altra parte costituiscono già una vera realizzazione degli scopi della società in quanto turismo, viaggio, conoscenza di città e contrade: Firenze, Roma, Parigi, Amsterdam, e più tardi la Spagna, la Germania, fino agli esempi che incontriamo nel corso dì questo 1964, la visita ai monumenti della valle del Nilo, nella zona della diga di Assuan dove all’impero del Faraoni si sostituirà il regno dell’acqua, o a Londra. Con l’assemblea del 1930 si modifica parzialmente il Comitato, che risulta ora composto di Carlo Censi, Enrico Biaggi, Gino Nessi, Guglielmo


Franzoni, Bernardo Caverzasio, Henri Morel, Antonio Solari, Arturo Bernasconi, Silvio Cattaneo, Alfredo Vella, Emilio Barchi. Nel 1932 constatiamo alcuni interventi a proposito della nuova legge federale della circolazione e dell’assicurazione sulla responsabilità civile. Il TCS produce per l’occasione un film sonoro della durata di cinque minuti che illustra i pericoli dell’imprudenza nella circolazione. (Impossibile isolarsi) È piuttosto curioso il tentativo di creare una Sezione automobilistica autonoma a Locarno. Ovviamente un tentativo del genere poteva essere l’effetto soltanto del ridicolo campanilismo che è tipico non di Locarno ma del Ticino; il rapido naufragio dimostra l’impossibilità di realizzare un’azione concreta qualsiasi in un campo lungo come quello del turismo dell’automobilismo, ecc. senza una organizzazione egualmente larga, agile ma unitaria. Tutta la storia del Touring del resto dimostra che l’attività del Club è sempre progredita entro le stesse aree di azione in cui si svolge la vita politica svizzera: Confederazione e Cantone. Qualche altro mutamento negli organi direttivi nel Touring Ticino: entrano nel comitato l’ing. Giudici di Bodio, Giorgio Giaeometti di Locarno, l’avv. Antonio Balzani, Nel 1935 il Touring si dà un segretario nella persona di Alberto Bianchi, attualmente redattore del nostro giornale. (La Strada di Gandria) E giungiamo alla realizzazione della strada di Gandria. Quest’opera, che costituisce il collegamento di Lugano con la Val Solda e con St. Moritz, con le conseguenze e i vantaggi che ciascuno vede, è sorta da un’idea e da un lavoro che il Touring Club Ticinese ha regalato al paese con un gesto ovviamente di lungimiranza e di generosità. Un po’ di auto-incensamento possiamo pur permettercelo. Già nel 1919 i soci Riccardo Lucchini, Pietro Molinari, Otto Maraini e Carlo Rezzonico avevano versato 500 fr. ciascuno perché l’associazione potesse finanziare lo studio di un primo progetto di massima. Si discusse a lungo sull’altimetria della strada, se cioè fosse preferibile intervenire nel fianco del Monte Bre nell’immediata prossimità del lago oppure più in alto, sulla montagna. Difficoltà di carattere tecnico si aggiunsero al desiderio giustissimo di salvare una zona di grande bellezza, e pertanto vicino al lago si conservò l’antico e pittoresco sentiero: non uccidiamo la natura! La strada assunse il tracciato attuale, ma occorsero sedici anni di trattative e di lavorio. Carlo Censi a un certo momento chiese al Comune di Lugano che la fondazione Steger concedesse 100’000 fr. per favorire l’opera; Lugano non comprese e non acconsentì. Ci si rivolse al Cantone e alla


Confederazione; era inoltre necessario il consenso dello Stato italiano per tutto ciò che riguardava la zona di confine; specialmente per la costruzione della sede doganale. Sul bollettino sezionale del Touring appare il 15 giugno 1936, accanto al programma delle feste dell’inaugurazione - finalmente - della strada di Gandria, un testo del Consigliere di Stato Guglielmo Canevascini il quale osserva che «la strada internazionale di Gandria è senza dubbio l’opera più importante eseguita dal Cantone Ticino in questi ultimi tempi» e prosegue mettendone in evidenza i due principali valori, quello turistico e panoramico e quello economico, mentre già è allo studio il progetto per la correzione e l’allargamento della nuova strada del Gambarogno e della strada Locarno-Brissago. Sembra incredibile oggi che tanta fatica si sia dovuta durare per superare posizioni mentali come quella di un brav’uomo di campagna il quale, nella sua autorità dì membro del Gran Consiglio, si era opposto a suo tempo alla costruzione di una carreggiabile che congiungesse un villaggio del piano del Vedeggio alla strada cantonale, temendo che essa facilitasse la via ai ladri! Per intenderci ancor meglio sul senso delle proporzioni ricorderemo anche come il Touring avesse proposto che alle dogane si distribuissero a tutti gli automobilisti stranieri foglietti recanti disposizioni di legge e inviti alla prudenza, essendo le strade ticinesi curve, strette e comunque «congestionate dal traffico» ed eravamo nel 1935, In quell’anno l’apertura della strada di Gandria non poteva che costituire un avvenimento di grande scalpore e risonanza. (Le medaglie d’oro) All’inaugurazione venne data la massima solennità possibile. Le giornate del 20 e 21 giugno comprendevano le cerimonie di ricevimenti di ospiti svizzeri, di una delegazione grigionese, una delegazione italiana, un discorso del Presidente della Confederazione, corteggi, l’organizzazione di un rally, un concorso di eleganza per automobili, una serata familiare, banchetti, e una serata di gala. Il Touring. che aveva donato idee e intraprendenza, fece un altro dono, una medaglia d’oro recante sul recto uno schizzo geografico della strada con i laghi di Lugano e Como e la data di compimento dei lavori, 1935; e sul verso una veduta panoramica della strada, l’entrata di una galleria, un lembo di lago e il San Salvatore sullo sfondo. Vennero coniati 1’000 esemplari d’oro (del diametro di 18 mm) destinati ai soci, e un’altra serie di maggiore dimensione (diamoci pure al lusso delle minutaglie pedantesche: diametro 25 mm) da offrirsi alle Autorità. (Nuovo comitato)


Il 1936 fu un anno importante per il Touring anche per altri aspetti. Rinnovo del comitato: Censi, presidente, Bolzani, vice-presidente, Nessi tesoriere; membri: Antognini, Antonietti, Barchi, Bernasconi, Buletti, Cattaneo, Rusca, Segretario: Bianchi. Revisori: Signorini e De-Matteis, a cui succederà l’ing. Paleari. L’avv. Riccardo Rossi, che sarà presidente nel dopo guerra, entra in comitato nel 1939. (Pubblicazione del bollettino) Dal 1936 al 1939 il Touring Ticinese pubblica un proprio bollettino, il cui redattore è Alberto Bianchi. La rivista si occupa di tutto ciò che riguarda la vita privata e pubblica del Touring, dà notizie sulla legislazione svizzera e anche straniera, sulle difficoltà del turismo in Svizzera in quegli anni. È sempre sensibile una certa tensione tra i problemi della strada e quelli della ferrovia. Si propone la soppressione delle tasse cantonali sulla circolazione, ammettendosi per converso l’aumento del prezzo della benzina. Si sostiene la necessità di difendere strenuamente il paesaggio, si citano gli ottimi esempi di quanto si è concretamente realizzato all’estero. (Le autostrade) Problema delle autostrade: la Confederazione non deve rimanere isolata nella rete stradale europea, è presente il concetto dell’asse Roma-Berlino nel suo aspetto autostradale (rete autostradale svizzera!). In particolare sono degne di nota alcune serie di articoli che si succedono a puntate: l’avv. Alberto Verda si occupa della responsabilità civile dell’automobilista, l’ing. Eugenio Gianoli discute problemi stradali, l’avv. Riccardo Rossi dibatte i rapporti tra automobile e fisco, l’avv. Piero Barchi riprende l’argomento, pensa alla possibilità di pagamento rateale delle tasse di circolazione, espone la tesi in Gran Consiglio, Il dott. Franco Gallino torna sulla faccenda delle tasse, e l’arch. A. Marazzi illustra la necessità di efficienti collegamenti attraverso le Alpi. (I trafori alpini) Nel 1938 il nostro bollettino presenta schemi di gallerie automobilistiche transalpine: ecco l’autostrada Airolo-Göschenen, ecco un altro progetto di tunnel dì 32 km tra Amsteg e Bodio: il Touring è tutto teso in polemica urbanamente tenace contro «i sostenitori di certe teorie ferroviarie». Il ‘38 è anche l’anno in cui Francesco Rusca entra nel Consiglio di Amministrazione del Touring svizzero. (Difficoltà durante la guerra mondiale) Nel 1939, dopo l’inizio della guerra mondiale, il Touring è in agitazione: le Autorità hanno istituito la domenica senza automobili, il razionamento aggravato della benzina, e tutta l’economia automobilistica è in pericolo


(commercio, garages, rifornimenti, tasse, decreti). Il bollettino del Touring non ha più tempo ormai di perdersi in divagazioni umoristiche come quelle che trovavamo solo pochi mesi prima (esempio: «Quarant’anni di automobilismo hanno insegnato alle galline ad attraversare la strada, quanti ne occorreranno ai loro padroni in bicicletta per imparare a percorrerla?»). (Sviluppo numerico nel dopoguerra) Nel periodo dell’amministrazione Censi il Touring è dunque costretto ad affrontare la difficoltà derivante dal conflitto; il bollettino sospende le pubblicazioni, dall’automobilismo si ripiega sul ciclismo, la pressione degli avvenimenti è troppo forte e il numero dei soci subisce un ripiegamento. Nel 1939 contavamo 903 iscritti, nel 1941 soltanto 577 ed è l’anno della flessione maggiore. Il dopoguerra segna la ripresa: nel 1947 i soci sono 1483. Ciò esprime non solo un generale risollevarsi dell’automobilismo, ma una condizione di speciale miglioramento proprio per il Touring Ticinese rispetto alla percentuale svizzera. Infatti nel 1939 i ticinesi erano 1’1,64% dell’effettivo totale del Touring Svizzero, un lieve cedimento proporzionale lo abbiamo nel ‘41 con l’1,54%, mentre l’anno della ripresa, 1947, ci vede salire alla proporzione del 2,34%. Per un decennio registriamo l’aumento quantitativo annuo di circa 500 soci, mentre rispetto al Touring Svizzero la proporzione oscilla da un minimo del 2,27% nel 1957 al massimo del 2,61% registrato nel 1950. (Presidenza dell’avv. Rossi) Questo 1950 è un’altra data caratteristica nella storia del Touring Club Ticino. Dal punto di vista dell’aumento delle iscrizioni, esso segna l’ondata più alta nello sviluppo favorevole del dopoguerra. Per quanto appartiene alla vita interna della società, assistiamo a un ripetuto cambiamento della presidenza. L’avv. Carlo Censi, presidente per ben 26 anni, diviene presidente onorario fra le attestazioni di simpatia dei soci, e la sua carica è assunta dall’avv. Antonio Balzani. Purtroppo Balzani scompare prematuramente nel corso dell’anno stesso, e gli succede alla testa del club l’avv. Riccardo Rossi. I dodici anni del periodo di presidenza Rossi hanno alcuni caratteri peculiari: l’espansione economica europea ha immediate ripercussioni nell’espansione automobilistica e nell’aumento dei viaggi, dal turismo al commercio. Nel 1950 il Touring Ticinese conta 3’051 soci che alla fine del 1962 erano saliti a 13'026. Dal 1958 in avanti la progressione dell’effettivo dei membri della Sezione ticinese aumenta più che proporzionatamente agli effettivi del Touring Svizzero passando dal 2,28% al 3,44%: sono gli anni del bum economico. Moltiplicando per quattro il numero degli


aderenti è chiaro che il Touring ticinese deve anche quadruplicare la sua attività. Tipici dell’amministrazione Rossi sono lo spirito di iniziativa e il tempestivo adeguamento ai dati di fatto. Nel 1951 l’azione per il controllo dei veicoli a motore porta alla curiosa scoperta che gli autoveicoli con i fari in cattivo stato sono, in quest’epoca, 1’80% del totale preso in esame. Il Touring pubblica un opuscolo intitolato «Sempre più in fretta» che viene offerto agli allievi delle scuole nel numero di 10’000 copie: un contributo notevole all’insegnamento di come ci si comporta in strada. Da notare infine che se in tutta la Svizzera la sezione di Zurigo è la più forte con 21’000 soci, quella ticinese è all’ottavo posto, In generale gli automobilisti sono poco più dei 2/3 dei membri. Si comincia a notare successivamente che lo spazio destinato dal giornale TOURING, che esce in edizione svizzera, alla collaborazione in lingua italiana, è piuttosto scarso. Nel 1955 il giornale pubblica regolarmente una pagina denominata «Targa Ticino», ma si incomincia a pensare di nuovo all’edizione di un organo interamente in lingua italiana. Con le modifiche statutarie definite nel medesimo 1955, il club prende il suo nome attuale: non più Auto Touring Ticinese, bensì Touring Club Svizzero Sezione Ticino. Nel 1956 (assemblea generale del 24 giugno) appare l’intenzione di articolare il Touring Ticinese con qualche sottosezione. Intanto i problemi turistici offrono aspetti nuovi con il diffondersi dell’uso del campeggio. Ma ciò che attira veramente le sollecitudini del club è la necessità di scavare una larga galleria attraverso il San Gottardo, e da questo momento il Touring non desisterà più dal dibattere costantemente tale problema. (Si lavora in sei direzioni) Nel 1957 la laboriosa attività del Touring può riassumersi in sei punti principali: l) affermata la volontà di pubblicare un giornale «Touring» in italiano a spese della Sede centrale. Il primo numero esce il 16 gennaio di quell’anno, ne sono redattori Alberto Bianchi e Aldo Giudici; 2) l’apertura di un nuovo ufficio a Chiasso; 3) l’intensificarsi delle manifestazioni sociali; 4) l’istituzione regolare di controlli tecnici; 5) la maggior partecipazione della rappresentanza ticinese negli organi centrali: nel Consiglio di Amministrazione troviamo l’avv. Nello Celio, l’avv. Emilio Censi e l’avv. Franco Bonzanigo, e nell’Ufficio direttivo centrale il presidente ticinese avv. Riccardo Rossi; 6) i soci superano i 7’000 e dall’anno seguente in avanti lo sviluppo progressivo sarà di 1’000 e poi, dopo il 1960, di 2.000 nuovi membri all’anno. È giusto ricordare la composizione del comitato in questi anni di massima espansione:


presidente Riccardo Rossi, vice-presidente Emilio Censi, tesoriere Gino Nessi, membri: Giacomo Alberti, Giacomo Grignoli, Franco Bonzanigo, Stelio Molo, Giovanni Torricelli, Oviedo Bernasconi, Eugenio Buletti, Emilio Ferrari. Il tesoriere Nessi segnerà un record rimanendo in Comitato 38 anni. Nel 1959 qualche novità: si delibera di premiare annualmente i migliori apprendisti automeccanici, e nell’organizzazione sezionale ci si avvia definitivamente alla formazione del gruppi locali. I soci sono molti, e quantità vuol dire potenza e sicurezza. Bisogna impedire che la sicurezza si trasformi in inerzia. Scopo dei gruppi locali è lo snellimento della sezione; i gruppi sono tre, vale a dire Mendrisiotto, Lugano, Sopraceneri e Valli, costituiti e funzionanti nel 1959. (Al servizio del pubblico) Nel 1962 - finalmente - il consuntivo di questo intenso periodo di dodici anni può essere riassunto approssimativamente come segue, Riorganizzazione: istituzione di un segretario permanente; gruppi locali; pubblicazione del giornale Touring; potenziamento degli uffici; istituzione di una assemblea di delegati invece dell’assemblea generale dei soci, che non è neppur convocabile a causa del grande numero. Servizi: controlli tecnici; assistenza stradale mediante i pattugliatori; rilascio dei documenti doganali (trittico); gite turistiche a lungo raggio per la durata di più giorni. Azioni nel campo delle questioni stradali e del traffico: interventi per il miglioramento della circolazione stradale; lotta contro i rumori; lotta per la prevenzione degli incidenti; preparazione di pattugliatori scolastici; energica azione d’accordo con il Touring Svizzero nel referendum popolare sul prezzo della benzina; aperta battaglia per un’aggiornata politica stradale svizzera in fatto di autostrade e di trafori stradali alpini (San Gottardo - San Bernardino). (Presidenza dell’avv. Emilio Censi) Nel 1962 Rossi cede la presidenza all’avv. Emilio Censi che fino a quel momento era vice-presidente. Il Comitato è ora composto, accanto al dott. Censi, di questi signori: sono vice-presidenti l’ing. Giuseppe Bernasconi e l’avv. Augusto Bolla che è anche presidente del Gruppo Bellinzona e Valli; tesoriere, Sergio Grandini; l’avv. Riccardo Rossi rimane nel Comitato con la qualifica di presidente onorario. Gli altri membri sono: l’arch, Giacomo Alberti, l’avv. Franco Bonzanigo, e l’avv. Giovanni Torricelli che hanno la maggiore anzianità; prof, Francesco Bertola, sig, Guido Bizzini, avv. Carlo Bonetti, prof, Rolando Fedele presidente del Gruppo di Lugano, sig, Emilio Ferrari, ing. Giacomo Grignoli, avv. Emilio Induni presidente del Gruppo del Mendrisiotto, avv. Vincenzo Jacomella, dott. Stelio Molo, La redazione


del giornale è tutt’ora affidata ai signori Alberto Bianchi e Aldo Giudici, il segretario permanente è l’avv. Fiorenzo Perucchi, il capo degli uffici è il signor Pietro Rebsamen; revisori dei conti i signori Dario Quadri e Bruno Pagnamenta. (Rapporti con il TCS centrale) Tra le più importanti operazioni compiute sotto la presidenza del dott. Emilio Censi è notevole la sistemazione dei rapporti con gli organi centrali del TCS Svizzero. Nella Commissione speciale per la revisione degli statuti il presidente ticinese ha rivendicato il diritto per la Svizzera italiana di un rappresentante suo nel Consiglio di direzione. Dopo le inevitabili discussioni la rivendicazione venne accolta allo scopo di garantire la partecipazione delle tre regioni linguistiche svizzere nei due organi centrali, e ora per norma statutaria disponiamo di un rappresentante nel Consiglio di Amministrazione e un altro rappresentante nel Consiglio di Direzione centrale, come terzo vice-presidente. Per il resto il Touring ha continuato lo sviluppo di quanto già abbiamo trovato negli anni precedenti; dal punto di vista organizzativo è da notare l’apertura di due nuovi uffici a Bellinzona e a Locarno. A questo punto tutta l’opera del Touring Ticino è distinta chiaramente su due piani: gli uffici si occupano delle pratiche amministrative quotidiane, i documenti doganali, l’assistenza stradale, i libretti ETI di assistenza internazionale turistica, tutto l’apparato tecnico; dal canto loro la Sezione ticinese e i Gruppi locali curano l’impostazione della «politica generale» del Touring, le questioni stradali, i rapporti con le Autorità, le feste, la stampa, le manifestazioni turistiche. Qui riteniamo opportuno attirare in modo speciale l’attenzione del lettore su tale ramo dell’attività del Touring che ha acquistato crescente importanza negli ultimi anni: i viaggi collettivi a lunga distanza, della durata di più giorni, anche fuori d’Europa, evidente occasione di fare conoscenza con altri popoli, altre civiltà, altri problemi umani e altri modi di risolverli, ciò che del resto costituiva uno degli scopi della nostra associazione fin dai suoi inizi. Possiamo concludere costatando come il Touring Ticinese sia forte di esperienza, di strutture organizzative, di frequenza di membri, che alla fine del 1963 erano 15’071 pari al 3,75% del totale svizzero (401’980). In tutto il Cantone in una sola località, Locarno, un’altra associazione turistica può dichiararsi più estesa del Touring. Del resto il TCS Sezione Ticino svolge nel suo ambito una funzione tanto evidente da non richiedere - ci pare altre illustrazioni dopo quanto abbiamo succintamente rilevato scorrendone gli annali. Il rimanente non è né storia né cronaca, ma attività in corso.


Elenco comitati TCS Sezione Ticino 1897

Primo socio: Jasef Minigiotti, banchiere, Lugano. Secondo socio: Itala Farinelli, commerciante, Bellinzona, 1908 Consiglio di amministrazione del TCS: primo ticinese nel Consiglio di amministrazione (C.A.): Rinaldo Rusca, spedizioniere, Chiasso. 1914 Presidente: Riccardo Lucchini, Lugano; Vice-presidente: Pio Soldati, Lugano; Segretario: Rinaldo Rusca, Chiasso; Tesoriere: Pietro Molinari, Lugano. Membri: Alessandro Balli, Locarno; Giuseppe Velia, Faido; Italo Farinelli, Bellinzona; Evaristo Garbani-Nerini, Lugano; Giuseppe Baragiola, Riva San Vitale; Francesco Bertola, Vacallo; Giovanni Thiele, Lugano. Revisori: signorina Emmy Bemasconi, Bellinzona; Giorgio Crescionini, Lugano. 1915 Esce: Giuseppe Vella. Subentra: dott. Emilio Sacchi, Bellinzona. 1916-17 Escono: Pio Soldati; Garbari-Nerini, Subentrano C. Donini, Gentilino; Giuseppe Souvrier, Lugano. 1918 Presidente: Riccardo Lucchini; Vice-presidente: Giuseppe Sonvico; Segretario: Rinaldo Rusca; Tesoriere: Pietro Molinari. Membri: Francesco Bertola; Battista Gargantini; Plinio Cornetti; Francesco Airoldi; Mario Guindani; Bernardo Augustini. 1922 Assemblea generale ordinaria: aggiunta art. 6 statuti: «I presidenti delle sezioni del TCS fanno parte di diritto del Consiglio di Amministrazione.» In caso di cambiamento del presidente, il nuovo sostituisce l’uscente nel C.A. 1924-25 Assemblea 3 febbraio. Presidente: Carlo Censi, Lugano; Vicepresidente: Enrico Biaggi, Lugano; Tesoriere: Gino Nessi, Lugano; Segretario: Rinaldo Rusca, Chiasso. Membri: Arturo Bernasconi, Lugano; dott. Emilio Bianchi, Lugano; arch, Luigi Luvini, Lugano; Henri Morel, Lugano; dott. Antonio Solari, Cassarate. Revisori: avv. Bruno Manzoni, Mendrisio; Pietro Primavesi, Lugano. Soci onorari: Riccardo Lucchini; Pietro Molinari. 1926 6 giugno. Esce: Pio Soldati. Subentra: dott. Guglielmo Franzoni, Locarno. Assemblea generale del TCS: partecipano Censi, Nessi e Rusca.


1927-29 Invariato. Entrano nel Consiglio di Amministrazione del TCS: Carlo Censi (come presidente sezione cantonale); R. Rusca (già membro del C.A.). 1930 1º giugno. Presidente: Carlo Censi; Vice-presidente: Enrico Biaggi; Segretario e cassiere: Gino Nessi. Membri: Guglielmo Franzoni, Locarno; Bernardo Caverzasio, Chiasso; Henri Morel, Lugano; Antonio Solari, Lugano; Arturo Bernasconi, Lugano; Silvio Cattaneo, Lugano; Alfredo Vella, Lugano; Emilio Barchi, Lugano, Revisori: Primavesi; Manzoni. 1931 Esce: Guglielmo Franzoni. Subentra: Giorgio Giacometti, Locarno (Ass. 4. 6.) 1932 13 giugno. Esce: Giacometti. Dimissioni: Caverzasio e Solari. Proposti: ing. Giudici, Bodio, esce; avv. Antonio Bolzani, Lugano; ing. Alessandro Antonietti (che sostituisce Giudici). 1933 28 maggio. Esce: Enrico Biaggi, vice-presidente, che diventa membro onorario. Subentrano: avv. Antonio Balzani, che è eletto vice-presidente; Eugenio Buletti, Bellinzona; Antonio Antognini, Lugano. Riassumendo, il comitato è ora così composto: Censi, Balzani, Nessi, Antonietti, Bernasconi, Barchi, Cattaneo, Antognini, Buletti. 1934 Revisori: Primavesi e Manzoni dimissionano. Subentrano: dott. De Mattei; Giuseppe Signorini, al quale subentra l’ing. Giorgio Paleari. 1935 16 giugno. Esce: Alberto Vella. Subentrano: on. Francesco Rusca, Chiasso; Luigi Maspero, Giornico. 1936-38 20 giugno. Esce: Luigi Maspero. Subentra: avv. Franco Bonzanigo, Bellinzona. 1939 25 giugno. Esce: Antognini. Subentra: avv. Riccardo Rossi, Mendrisio. 1940-44 Comitato invariato, Emilio Barchi incaricato della funzione di segretario. 1945-49 24 giugno. Escono: S. Cattaneo; Emilio Barchi, che diventa definitivamente segretario. Subentrano: arch. Giacomo Alberti; avv. Giovanni Torricelli. Revisori: muore Signorini. Subentra ing. Giorgio Paleari. 1950 25 giugno. L’avv. Carlo Censi viene nominato presidente onorario. Nuovo presidente: avv. Balzani; Vice-presidente: avv. Rossi. Nuovo membro: Emilio Censi. Muore l’avv. Balzani, subentra in carica l’avv. Rossi.


1951-52 17 giugno. Presidente: confermato avv. Riccardo Rossi; Vicepresidente: dott. Emilio Censi. Nuovo membro: Stelio Molo, Riassumendo, la composizione del comitato è la seguente: Presidente: Riccardo Rossi; Vice-presidente: Emilio Censi; Tesoriere: Nessi; Segretario: Barchi, Membri: Eugenio Buletti; Franco Bonzanigo; Giovanni Torricelli; Francesco Rusca; Alessandro Antonietti; Giacomo Alberti; Oviedo Bernasconi; Stelio Molo. 1953-54 Esce: Antonietti. Subentra: ing. Giacomo Grignoli, Massagno. 1955-56 3 luglio. Esce: Francesco Rusca. Subentra: avv. Ulisse Bianchi, Chiasso. 1957 Comitato invariato: avv. Censi e avv. Bonzanigo nel Consiglio di Amministrazione; avv. Rossi nel Bureau Centrale. 1958 22 giugno. Esce: Bianchi, Subentra: Emilio Ferrari, Chiasso, Riassumendo: Presidente: Rossi; Vice-presidente: Censi; Tesoriere: Nessi. Membri: Alberti, Grignoli, Bonzanigo, Molo, Torricelli Bernasconi, Buletti, Ferrari. 1959 5 settembre. Escono: Oviedo Bernasconi; Eugenio Buletti, Subentrano: avv. Vincenzo Jacomella; prof. Francesco Bertola, Ing. Giuseppe Bernasconi e avv. Carlo Bonetti, quali presidenti dei gruppi locali del Mendrisiotto e del Sopraceneri, Vicepresidente: dott. Emilio Censi; avv. Carlo Bonetti; Segretario: avv. Fiorenzo Perucchi, Lugano. 1960 Entra: Guido Bizzini, Biasca. 1961 Comitato invariato. È riconosciuto di diritto al Ticino un secondo rappresentante nel Consiglio di Amministrazione. 1962 29 aprile. Riconfermato il Comitato. Entra: Sergio Grandini, tesoriere a.i. Revisori: Dario Quadri; Giovanni Pessina. Revisori supplenti: De Vecchi; Mademi. Onorario: avv. Riccardo Rossi. 1962 24 novembre. Nuovo Presidente: dott. Emilio Censi. Nuovi membri: avv. Augusto Bolla, presidente Gruppo locale del Sopraceneri; prof. Rolando Fedele, presidente del Gruppo locale del Luganese. 1963 12 maggio. Comitato riconfermato. Entra: avv. Emilio Induni, quale presidente del Gruppo locale del Mendrisiotto. 1964 Composizione attuale del comitato: Presidente: dott. Emilio Censi, Lugano; Vice-presidenti: avv. Augusto Bolla, Bellinzona; ing. Giuseppe Bernasconi, Mendrisio; Tesoriere: Sergio Grandini,


Lugano; Presidente on. avv. Riccardo Rossi, Lugano. Membri: arch, Giacomo Alberti, Lugano; prof. Francesco Bertola, Lugano; sig. Guido Bizzini, Biasca; avv. Carlo Bonetti, Bellinzona; avv. Franco Bonzanigo, Bellinzona; prof, Rolando Fedele, Lugano; sig. Emilio Ferrari, Chiasso; ing. Giacomo Grignoli, Lugano; avv. Emilio Induni, Ligornetto; avv. Vincenzo Jacomella, Bellinzona; dir. Stelio Molo, Lugano; avv. Giovanni Torricelli, Lugano. Segretario: avv. Fiorenzo Perucchi, Lugano. Direttore Uffici TCS: Pietro Rebsamen, Cassarate. Redattori «TOURING»: Alberto Bianchi-Demicheli, Massagno; Aldo Giudici, Ginevra.

Il secondo «Permesso di circolazione per Automobili» rilasciato al Signor Jean Morel di Lugano il 25 settembre 1902. Anche la firma del Battaglini (Quale capo del Dip. costruzioni) dice qualcosa…


Una ÂŤclassicaÂť delle corse automobilistiche agli inizi del secolo. Allora il traffico ancora lo permetteva.

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La prima autorizzazione a passare il Sempione con una vettura automobile rilasciata a Jean Morel il 29 giugno 1906.

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Avv. Dott. Argante Righetti Procuratore Pubblico sopracenerino

Studio storico-giuridico sul disciplinamento della circolazione nel nostro Cantone I. La regolamentazione cantonale (Le leggi e i decreti dell’ottocento) Il «Regolamento per gli automobili» del 28 settembre 1901 costituisce il primo atto con il quale l’autorità cantonale ha disciplinato la circolazione dei veicoli a motore nel Ticino. È infatti solo negli anni alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento che il problema di questo disciplinamento si pone, nel Ticino come negli altri Cantoni svizzeri. Automobili e motociclette fanno la loro prima apparizione, preludio alla marcia trionfale della motorizzazione. Pochi grattacapi ha dato nel secolo scorso all’autorità cantonale il problema della circolazione. Il Cantone compie un notevole sforzo per dotarsi di una rete di strade, sulle quali procedono i carri e corrono carrozze e diligenze, Gran Consiglio e Consiglio di Stato detteranno però poche norme in materia di circolazione, e generalmente non si tratterà di vere e proprie norme di comportamento, bensì di disposizioni sull’uso dei veicoli, motivate dalla preoccupazione di non arrecar troppo danno alle strade così faticosamente costruite e curate. Conteneva norme di circolazione il decreto 25 settembre 1842 del Consiglio di Stato «sui carri e sulle vetture che impediscono il corso delle diligenze», che sanciva in pratica un diritto di precedenza per le diligenze imponendo ai conducenti di vetture e carri, sotto comminatoria di multa, «a vista della diligenza o dei legni della posta o avvertiti dell’avvicinarsi con suono o altrimenti» di «lasciar prontamente libero lo spazio necessario pur conservando la loro diritta», e prevedeva inoltre multe per «qualunque vetturale o conducente che lascerà andare sbandati sulla pubblica via la sua vettura o il suo carro» oppure «sarà trovato ubriaco o addormentato sui medesimi», a dimostrazione, quest’ultima norma, che il circolare in stato di ebbrezza è fenomeno anteriore all’avvento della motorizzazione. Il 27 giugno 1820 il Gran Consiglio aveva promulgato una legge intitolata «Prescrizione della misura delle ruote» con la quale, allo scopo di evitare


eccessivi danni alle strade, regolava la larghezza del cerchi dei carri, prescriveva il numero dei cavalli o buoi, il tutto sotto comminatoria di multe proporzionate secondo il numero delle bestie in eccesso. La legge del 1820 veniva sostituita dalla legge del 29 maggio 1847, la quale prescriveva anche che a partire dal lº gennaio 1848 tutti i carri avrebbero dovuto portar scritto il nome, cognome e domicilio del proprietario. Doveva trattarsi un po’ di gride spagnole perché molti sono negli atti ufficiali cantonali del secolo scorso decreti e ordinanze che denunciavano le violazioni di queste leggi e minacciavano tuoni e fulmini ai contravventori. Il 5 agosto 1861 il Gran Consiglio promulgava infine la legge intitolata «Discipline per le strade cantonali e circolari», che non conteneva però norme di circolazione, e che doveva restare in vigore sino al 1928. (Il regolamento del 1901) Sul finire del secolo comparivano sulle strade svizzere i veicoli a motore e si poneva il problema del loro disciplinamento. Nel Ticino il problema era affrontato, occorre riconoscerlo, sollecitamente poiché il già menzionato «Regolamento per gli automobili» reca la data del 28 settembre 1901. Trattavasi di un regolamento emanato dal Consiglio di Stato e non di una legge o di un decreto del Gran Consiglio. Per alcuni anni infatti il potere esecutivo ritenne di poter disciplinare la materia procedendo motu proprio senza interpellare il legislativo. Così anche il primo concordato intercantonale del 1904 fu messo in vigore nel Cantone, come si vedrà, con un semplice decreto del Consiglio di Stato. Si ebbe la prima legge cantonale in materia il 2 dicembre 1909. II problema della legalità dei decreti del Consiglio di Stato fu trattato molto brevemente nella seduta del Gran Consiglio del 24 novembre 1909. I deputati Fusoni e Elvezio Barella espressero un velato rimprovero per il fatto che il concordato del 1904 non era stato sottoposto al Gran Consiglio. Il rappresentante del Consiglio di Stato, Cattori, si limitò a rispondere che il concordato «contiene solo misure di polizia di esclusiva competenza del potere esecutivo». Il messaggio del Consiglio di Stato accompagnante il progetto di legge del 1909 s’era limitato sotto questo profilo a rilevare «l’opportunità di regolare legislativamente la materia». Verosimilmente l’esecutivo ritenne di poter trovare un fondamento, fragile, alla sua tesi nella citata legge del 1861.


Prescindendo da queste considerazioni di ordine giuridico-costituzionale è doveroso rilevare che venne compiuto un buon lavoro per regolare una materia sulla quale non s’erano certo fatte molte esperienze. Il regolamento del 1901 regge infatti bene il confronto con il primo concordato intercantonale, approvato tre anni più tardi. Ricapitoliamo brevemente le più importanti disposizioni del regolamento del 1901, che dovette apparire allora veramente rivoluzionario. L’art. 1 stabiliva il campo di applicazione («La circolazione sulle strade pubbliche, sia cantonali che circolari o comunali, dei veicoli con motore meccanico, all’infuori di quelli che servono per l’esercizio delle strade ferrate, è sottoposta alle disposizioni generali delle leggi e regolamenti di polizia sulle strade pubbliche, nonché alle disposizioni del presente regolamento»). L’art. 2 prescriveva per ogni conducente di automobile un

permesso di circolazione, da rilasciare dal Dipartimento delle pubbliche costruzioni, dopo esame, da parte di una commissione nominata da detto Dipartimento, sulle «attitudini del richiedente a guidare l’automobile senza pericolo per la sicurezza pubblica».

Fig. 9. Il «garage» Morel nella Casa Airoldi sul «Quai», ai primissimi del Novecento, Jean Morel a cassetta della macchina del colonnello Fama che poi sarà sua. In secondo piano le prime motociclette che fan effettivamente pensare a certe motoleggere attuali


Fig. 10. Jean Morel sulla stessa automobile, ormai divenuta di sua proprietà

Fig. 11. Velocipedi infiorati per accompagnare gli sposi: l’abito da cerimonia si adegua al nuovo mezzo meccanico. Siamo davanti all’Hotel du Parc, attuale, Grand Hotel Palace a Lugano


Fig. 12. Le belle gite dei «Velo Club»: qui una «festa centrale» a Locarno, in piazza Grande, davanti al Palazzo Marcacci

L’art. 4 prescriveva che ogni automobile doveva essere munita di una placca dai colori cantonali portante un numero d’ordine e fornita dal citato Dipartimento «al prezzo di Fr. 5.-», dopo approvazione dell’automobile da parte di una commissione dipartimentale. L’art. 7 era la norma fondamentale in quanto regolava minuziosamente la velocità, e pertanto lo si riproduce integralmente in calce («Il conduttore dell’automobile deve sempre dominarne la velocità. Egli deve rallentarne la corsa o fermarlo ogni qualvolta l’automobile possa essere causa di accidenti, di disordini o di impedimento alla circolazione. La velocità sarà ridotta a quella di un uomo al passo nei passaggi stretti o ingombranti. Durante il percorso nelle città, villaggi ed altri abitati dovranno essere ossequiate le speciali prescrizioni di polizia locale, regolanti la corsa dei carri, cavalli, ecc. nell’interno degli abitati, là dove sono con pubblici avvisi indicate. In ogni modo la velocità sulle strade lungo gli abitati non può sorpassare i l0 chilometri all’ora. In aperta campagna la velocità non eccederà i venti chilometri all’ora.»)

Rileggendo questa norma chiaro appare il cammino da allora percorso dalla tecnica e dalla legislazione. L’art. 8 prescriveva di tenere la destra e sorpassare a sinistra. L’art. 9 stabiliva che ogni veicolo doveva essere munito di «una tromba a voce grave quale mezzo di avvertimento e due fanali, uno rosso e uno azzurro.» L’art. 10 proibiva la circolazione delle


automobili sui «marciapiedi e sui viali riservati ai pedoni». L’art. 11 prescriveva che si doveva richiedere un’autorizzazione per le corse. L’art. 13 faceva obbligo di esibire le licenze a ogni richiesta degli agenti di polizia. L’art. 15 attribuiva alle Municipalità il perseguimento delle infrazioni. L’art. 16 prescriveva il ritiro della licenza per chi «si dimostra incapace a condurre oppure contravviene in modo grave e ripetuto al regolamento», Infine l’art. 19 abrogava le prescrizioni di polizia comunali relative alla circolazione delle automobili. Il 19 dicembre 1901 il Consigliere di Stato Antonio Battaglini, direttore del Dipartimento delle pubbliche costruzioni, firmava la prima licenza di circolazione cantonale, che veniva rilasciata al signor Lodovico De Pedroni di Locarno, dopo un esame del veicolo e del guidatore, le cui modalità e risultanze erano riassunte in un pittoresco verbale, Come il Ticino altri Cantoni andavano apprestando il loro ordinamento giuridico per disciplinare il sorgente fenomeno. È da rilevare che la circolazione dei veicoli a motore in quegli anni urtò, specie nelle regioni agricole del paese, contro una vivacissima e talvolta esuberante - non mancarono gli atti di violenza – opposizione. Il pericolo insito nei nuovi mezzi di locomozione, i disturbi arrecati alla popolazione, specie ai bambini fino allora padroni delle strade, e al bestiame, il rumore, il puzzo, la polvere alimentarono per anni questa resistenza («Da noi si cominciò - nel pubblico - a odiare l’automobile prima che avesse osato mostrarsi per le strade. Le cronache della terza pagina dei giornali avevano annunciato il suo ingresso nel mondo come foriero di morte e strumento diabolico della volontà sfrenata di qualche testa calda in cerca di emozioni» (ALEARDO PINI, «La responsabilità civile dell’automobilista con speciale riguardo alle persone responsabili ed al sistema della nuova legge federale sulla circolazione degli autoveicoli del 15 marzo 1932», tesi, Losanna, 1932. pag. 53)).

(La giurisprudenza) Gli incidenti della circolazione provocarono le prime cause civili e i primi procedimenti penali, di cui dovettero occuparsi i tribunali. Sono interessanti le prime sentenze emanate dal Tribunale federale, anteriori all’entrata in vigore dei concordati intercantonali, indice di una giurisprudenza attenta e rigorosa. Una citazione meritano per illustrare la giurisprudenza di quel tempo due tra le prime sentenze apparse sulla raccolta ufficiale delle decisioni della nostra massima corte (volumi 29 n 273 e 31 II 461). La prima sentenza, emanata il 9 maggio 1903, ebbe per oggetto un incidente avvenuto il 29 agosto 1900 sul quai du Léman a Ginevra. Una carrozza incrociò un’automobile che procedeva a una velocità di «almeno 15/18 km all’ora» e al centro della strada. All’atto dell’incrocio il cavallo si


imbizzarrì per la vicinanza dell’automobile e si lanciò in una corsa sfrenata, facendo a pezzi la carrozza e provocando il ferimento del cocchiere e del proprietario. Ne seguirono una procedura penale e una procedura civile. In sede penale l’automobilista fu condannato a 80 franchi di multa dal tribunale di polizia ginevrino che lo riconobbe colpevole di velocità eccessiva, pari almeno al doppio di quella massima - otto km/h - prescritta dal regolamento ginevrino sulla sicurezza e sulla circolazione sulla via pubblica del 2 febbraio 1900. Nella causa civile il Tribunale federale giudicando in ultima istanza condannò l’automobilista al risarcimento dei danni in base alle norme del Codice delle obbligazioni sugli atti illeciti (art. 41). Il Tribunale federale affermò l’esistenza di una colpa del convenuto, per inosservanza dei regolamenti di polizia, e l’esistenza del nesso causale tra questa colpa e l’evento dannoso, prevedibile per la pericolosità rappresentata dal nuovo mezzo di locomozione («Dans l’état actuel des choses l’automobilisme constitue un moyen de locomotion relativement dangereux pour autrui; véhicule rapide et bruyant, obligé d’emprunter la voie publique que sont en droit d’utiliser également piétons, cavaliers, cyclistes, chars et voitures, son conducteur doit être tenu à une grande prudence, il doit être constamment maître de sa machine et à même de l’arrêter dès que l’on peut craindre ou même simplement prévoir la survenance d’un accident.»)

La seconda sentenza, emanata il 15 settembre 1905, si riferì a un incidente accaduto nel 1903 nel Canton Soletta. Un’automobile stava superando due mucche sorvegliate da una donna, All’approssimarsi dell’automobile le bestie si imbizzarrirono, e buttarono a terra la donna provocandone il grave ferimento. Ne seguì la causa civile della vittima contro l’automobilista per il risarcimento del danno sofferto. Il caso era più interessante di quello precedentemente citato in quanto, diversamente da Ginevra, e dal Ticino, il Canton Soletta non aveva ancora nel 1903 norme regolanti la velocità dei veicoli a motore su cui fondare quindi una precisa responsabilità. Il Tribunale federale condannò però l’automobilista - la cui velocità di 15 km orari fu definita «rasches Tempo» - affermando che, anche se non è violato uno specifico regolamento, è in colpa chi viola il precetto generale di non mettere in pericolo con il proprio agire la sicurezza dei suoi concittadini. Ora - sempre secondo la sentenza - si deve richiedere dall’automobilista una prudenza e una diligenza del tutto speciali, perché l’automobile procede con velocità e impeto, perché le nostre strade sono strette e molto percorse, perché l’automobile infine è un meccanismo nuovo e straordinario per buona parte della popolazione. Questa giurisprudenza enunciava così il concetto della pericolosità insita nell’uso del veicolo a motore (Betriebsgefahr) che trent’anni più tardi doveva indurre il legislatore a introdurre il principio della responsabilità


causale del detentore di veicoli a motore, della responsabilità cioè non più vincolata alla colpa. II. I concordati intercantonali (Il concordato del 1904) Nel 1902 esistevano in Svizzera 387 automobili, di cui 187 nel solo Canton Ginevra, e 126 motociclette. A quell’anno risalgono i primi tentativi per conseguire un disciplinamento uniforme della circolazione dei veicoli a motore sul territorio svizzero. Si era presto avvertito che la diversità delle regolamentazioni cantonali avrebbe creato una situazione assurda e insostenibile. Competenti al disciplinamento della circolazione essendo in quel tempo esclusivamente i Cantoni si doveva, in attesa di una riforma costituzionale che attribuisse alla Confederazione la facoltà di legiferare in questa materia, cercare di giungere allo scopo attraverso la via del concordato intercantonale. Il 2 aprile 1902 si svolgeva a Berna, promossa dal Dipartimento federale dell’interno, una conferenza dei rappresentanti dei Dipartimenti cantonali di polizia e delle associazioni interessate. Studi e trattative sfociavano nel «Concordato per il regolamento uniforme della circolazione degli automobili e dei velocipedi sul territorio svizzero» del 13 giugno 1904, stipulato fra quattordici Cantoni e sei semicantoni, e approvato dal Consiglio federale («I Cantoni di Berna, Lucerna, Argovia, Svitto, Alto e Basso Untervaldo, Glarona, Zugo, Friborgo, Soletta, Basilea Città, Basilea Campagna, Appenzello Esterno, Appenzello Interno, San Gallo, Ticino, Vaud, Vallese, Neuchâtel e Ginevra, persuasi della necessità di regolare con disposizioni uniformi la circolazione degli automobili e dei velocipedi nella Svizzera hanno risolto di emanare il seguente regolamento...»)

Questo primo concordato - il secondo fu concluso nel 1914 - constava di 33 articoli. L’art. l lo dichiarava applicabile alle automobili, alle motociclette e a «tutti gli altri veicoli a motore meccanico». Il primo capitolo era dedicato ai veicoli a motore. Esso prescriveva che ogni veicolo a motore, prima di essere ammesso a circolare, doveva essere esaminato da un esperto cantonale (art. 2); che ogni conducente di veicoli a motore doveva possedere una licenza da rilasciare dal Cantone di domicilio dopo aver accertato «l’idoneità del richiedente a condurre il veicolo senza pericolo per la sicurezza pubblica» (art. 3); che ogni veicolo doveva essere munito di targhe (art. 4), di un corno di suono cupo (art. 6), di due freni (art. 7), di due fanali davanti, di cui uno di luce verde a sinistra e l’altro di luce bianca a destra, e di un fanale rosso dietro (art. 8).


L’art. 9 era la norma fondamentale del concordato con le sue prescrizioni sul comportamento prudente e sulla velocità, («Il conduttore di un’automobile ne dovrà continuamente padroneggiare la velocità; esso rallenterà la corsa o anche arresterà il motore ogni qualvolta il veicolo potesse essere causa di accidenti o ingombrare la circolazione, o se animali da sella, da tiro o da soma o una mandra di bestiame dessero segni di spavento. Nell’attraversare città, villaggi o borgate, nonché sulle strade di montagna aperte dalle autorità cantonali alla circolazione degli automobili la velocità non potrà in nessun caso superare i dieci chilometri all’ora, ossia la corsa di un cavallo al trotto. Questa velocità deve essere ridotta a quella di un cavallo al passo, ossia a sei chilometri, sui monti, nei passaggi, nelle strade strette, alle voltate, nelle forti pendenze e in generale dovunque l’autorità competente avrà prescritto - per esempio mediante cartelli indicatori collocati bene in vista - una velocità ridotta per tutti i veicoli. La velocità non potrà mai superare, nemmeno in aperta campagna, i trenta chilometri all’ora. Sulle strade di montagna il conduttore di un’automobile fermerà la sua vettura ogni volta che incontri la posta federale e userà la maggior prudenza anche quando voglia passarle avanti.»)

Questa non doveva superare trenta km/h in aperta campagna e dieci km/h negli abitati, in particolari contingenze era prescritta la velocità di un cavallo al passo. Quest’ultima disposizione spiega l’esistenza, sempre più rara, di qualche scritta indicante: «veicoli al passo» o «automobili al passo». Gli articoli successivi vietavano la circolazione dei veicoli a motore sulle strade riservate ai pedoni, sui marciapiedi e sulle banchine (art. l0); prescrivevano che occorreva tenere la destra e sorpassare a sinistra (art. 11); sancivano l’obbligo di fermarsi dopo un incidente, di esibire le licenze agli agenti di polizia (art. 14 e 16). Il secondo capitolo del concordato era dedicato ai velocipedi, Erano obbligatori la licenza di circolazione (art. 18), la targhetta di controllo cantonale (art. 19), un apparecchio avvisatore (art. 22), il freno (art. 23), il fanale davanti (art. 24), L’art. 27 vietava al ciclista di superare gli 8 chilometri all’ora «ai crocicchi, alle svolte delle vie e in generale dovunque sian agglomeramento di persone o di vetture». L’art. 31 gli prescriveva di fermarsi «se il suo avvicinarsi è causa di spavento ad animali da sella, da tiro o da soma, o a mandre di bestiame… e se incontra su una strada di montagna la posta federale». Il concordato riservava ai Cantoni il diritto di vietare la circolazione delle automobili e dei velocipedi su determinate strade o di limitarla soltanto a date strade, e di stabilire le penalità per le trasgressioni. Il primo concordato, come del resto il secondo, non raccolse l’adesione di tutti i Cantoni. Si aggiunsero ai contraenti Zurigo e Sciaffusa, ma si tennero in disparte Uri, Grigioni, Turgovia. Il Canton Grigioni anzi proibì assolutamente la circolazione dei veicoli a motore sul suo territorio. Il «proibizionismo» grigionese durò parecchio. Solo nel 1923 alcuni tratti di


strada furono aperti al traffico dei veicoli a motore. Con il 21 giugno 1925 infine automobili e motociclette poterono circolare su tutte le strade principali del Grigioni. (La legge cantonale del 1909) Il Consiglio di Stato ticinese si affrettava, con suo decreto del 28 ottobre 1904, a mettere in vigore il concordato nel Cantone con effetto dal 1º dicembre 1904, e ad abrogare il regolamento del 1901 salvo le norme di competenza e di procedura. Come già indicato il governo non riteneva che l’adesione al concordato richiedesse una decisione del Gran Consiglio. L’applicazione del concordato dava comunque filo da torcere all’autorità cantonale, come si può desumere dal decreto 25 aprile 1905 «in punto alla circolazione di automobili, motocicli e velocipedi nel Cantone», che richiamava al rispetto di automobilisti, motociclisti c ciclisti alcune norme del concordato, in particolare quelle relative a esami, licenze e targhe, integrandole con disposizioni di esecuzione. Quattro anni più tardi il Consiglio di Stato riteneva «opportuno» di regolare legislativamente la materia, e presentava a tale scopo al Gran Consiglio un progetto di legge con messaggio 9 novembre 1909. («Nella faraggine delle nostre leggi stradali non ve ne ha una che disciplini la circolazione degli automobili, motocicli e altri veicoli a motore, motocicli e macchine similari. Alcune leggi statali abbiamo che hanno la veneranda età di quasi un secolo, ma non ne abbiamo nessuna che regola i più moderni sistemi di locomozione.»)

Il progetto si fondava beninteso sul concordato, opportunamente completato, Il rilascio delle licenze veniva vincolato a una tassa annua proporzionata all’importanza del veicolo. Confrontandole con quelle in vigore in Italia il messaggio definiva le tasse proposte «assai più modeste» e tali soltanto «che sopperiscano alle spese di cancelleria, di stampa delle licenze, di acquisto delle targhe e delle targhette e di una polizia stradale più attiva». Il messaggio aggiungeva espressamente che eventuali maggiori introiti sarebbero stati destinati al miglioramento della viabilità, nell’interesse quindi dei conducenti dei veicoli. II testo governativo veniva esaminato con celerità dalla Commissione della gestione e dal Gran Consiglio. La Commissione accettava il testo con poche varianti. Il rapporto commissionale indicava che era stata accolta «con simpatia» l’introduzione della modica tassa annuale e dava atto al governo che non aveva «gravato la mano oltre misura». Il 2 dicembre 1909 il Gran Consiglio dava pure un suo chiaro voto favorevole. La legge cantonale del 2 dicembre 1909 «disciplinante la circolazione degli automobili, motocicli e velocipedi» poneva naturalmente la circolazione sulle strade pubbliche dei velocipedi e dei veicoli a motore sotto il


concordato intercantonale, confermando in ciò il decreto esecutivo del 1904. L’art. 2 prescriveva un’attiva sorveglianza sulla circolazione «dei veicoli predetti esigendo che siano condotti da persone idonee e in modo da garantire la sicurezza del transito sulle pubbliche vie, nonché da prevenire ogni causa d’infortunio» da parte dei commissari distrettuali, dei gendarmi, degli impiegati del Dipartimento delle pubbliche costruzioni e delle municipalità. Seguivano quindi le norme sulle licenze e sulle targhe rilasciate dal Dipartimento delle pubbliche costruzioni (art. 4/7); sulle tasse, da 2.- a 3.- franchi per i velocipedi, da 5.-a 10.- franchi per i motocicli, da 20.- a 100.- franchi per le automobili (art. 8); sul ritiro delle licenze (art. 12); sul diritto di ricorso al Consiglio di Stato contro le decisioni dipartimentali (art. 14); sulle multe per le trasgressioni, da 2 a 100 franchi, da pronunciare in base alla legge di procedura sulle contravvenzioni (art. 18). (Il concordato del 1914) Il concordato del 1904 era stato salutato come uno strumento valido per fronteggiare il nuovo fenomeno. Ma il rapido aumento del traffico non tardava a porre nuovi problemi, e faceva apparire chiaramente la necessità di una revisione del concordato. La soluzione ideale, quella di una legge federale regolante la materia, era ancora ben lontana quando si poneva mano a questa revisione attraverso una conferenza intercantonale riunita a Berna nel marzo del 1911. Il secondo concordato intercantonale sulla circolazione delle automobili e dei velocipedi in Svizzera, che porta la data del 7 aprile 1914, giorno della sua approvazione da parte del Consiglio federale, veniva concluso fra dodici Cantoni e quattro semicantoni (Berna, Lucerna, Uri, Svitto, Basilea Città, Basilea Campagna, Sciaffusa, Appenzello Esterno, Appenzello Interno, San Gallo, Argovia, Ticino, Vaud, Vallese, Neuchâtel e Ginevra).

Si presentava come un vero e proprio codice della circolazione: i 33 articoli del testo del 1904 facevano posto a 75 articoli nel testo del 1914. Un primo capitolo (art. 1/49) concerneva i veicoli a motore. - Le automobili prima di circolare dovevano essere riconosciute idonee dalle autorità competenti previa visita fatta «da periti specialisti» (art. 2). Dovevano esser munite di meccanismi di sicuro funzionamento: sterzo, due freni indipendenti, un congegno atto a impedire anche sulle salite ripide qualsiasi movimento all’indietro, ecc. Per i veicoli erano rilasciate le licenze di circolazione, da rinnovarsi ogni anno (art. 7/8), e le targhe (art. 23).


Fondamentale innovazione del secondo concordato era l’introduzione dell’assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile al duplice scopo di garantire il risarcimento del danno per le vittime degli incidenti e di evitare la rovina economica dei detentori di veicoli a motore responsabili. Il rilascio della licenza di circolazione era infatti subordinato alla prova dell’esistenza, presso una compagnia di assicurazioni riconosciuta, di un’assicurazione di responsabilità civile «di almeno 20’000 franchi se si tratta di un’automobile e di almeno l0’000 franchi se si tratta di una motocicletta per il danno che potesse derivare dalla morte o dal ferimento di terze persone da un infortunio causato dal veicolo» (art. 11). Si stabiliva però che per ogni infortunio un decimo del danno causato, e in ogni caso almeno 100 franchi, doveva essere sopportato dall’assicurato stesso. Ogni conducente doveva essere provvisto del permesso di condurre, da rilasciare solo a chi avesse compiuto i 18 anni e godesse di buona reputazione, da rifiutare per determinate ragioni di ordine fisico o morale (art. 12). Il rilascio del permesso, da rinnovare ogni anno, era subordinato al superamento di un esame teorico e pratico (art. 13). La revoca temporanea o definitiva doveva essere pronunciata in caso di ripetute contravvenzioni o di grave infrazione ai regolamenti sulla circolazione o al sopraggiungere di determinate infermità (art. 16). I Cantoni erano autorizzati a riscuotere tasse annuali per automobili e motociclette (art. 20) e a proibire la circolazione su determinate strade (art. 40). A loro era affidata la competenza di rilasciare i certificati internazionali previsti dalla convenzione internazionale dell’11 ottobre 1909, di cui si parlerà nell’ultimo capitolo. Ai conducenti erano dettate prescrizioni sulla illuminazione dei veicoli (art. 30) e sull’uso del segnali acustici (art. 31). Si imponeva loro di evitare rumore e fumo molesto, stabilendo in particolare il divieto dell’uso dello scappamento libero. Della massima importanza erano le norme sulla padronanza del veicolo e sulla velocità. All’unico articolo dedicato a questa materia dal concordato del 1904 facevano riscontro nel nuovo concordato ben cinque articoli, con norme estremamente dettagliate (Art. 33: «Il conduttore di un’automobile o di una motocicletta deve sempre padroneggiare il veicolo». Art. 34: «Il conduttore deve rallentare la corsa o, al bisogno, fermare subito il veicolo, se questo potesse ingombrare la circolazione o esser causa di infortunio. Il simile dicasi quando un animale da sella o da tiro o una mandria di bestiame desse segno di spavento.» Art. 35: «Nell’attraversare città, villaggi o borgate la velocità non può in nessun caso superare l’andatura di un cavallo al trotto (18 chilometri all’ora). Sui ponti e sulle strade angusti, alle svolte e dovunque l’autorità cantonale avrà prescritto, mediante cartelli indicatori bene in vista, un’andatura ridotta per tutti i veicoli, questa velocità deve essere


diminuita in modo che il veicolo possa essere frenato di colpo. Lo stesso vale quando il veicolo incontra dei cortei o delle truppe di soldati. Sulle vie molto battute la velocità dev’essere diminuita in modo che il pubblico non sia seriamente molestato dal fango o dalla polvere.» Art. 36: «La velocità non può mai superare, nemmeno in aperta campagna, 40 chilometri all’ora. Di notte o in tempo di nebbia o nell’incrociare altri veicoli questa velocità dev’essere ridotta a 25 chilometri l’ora.» Art. 37: «Sulle strade di montagna, come pure su tutte le altre strade anguste o pericolose, la velocità non può superare 18 chilometri l’ora, e dev’essere ridotta a 6 chilometri nelle voltate. Il conduttore diminuirà ancora questa velocità e, occorrendo, fermerà il veicolo se incrocia una vettura o una mandria di bestiame. Anche nell’oltrepassare egli deve procedere colla velocità strettamente necessaria e usando tutte le cautele richieste per evitare infortuni.»)

I limiti massimi di velocità venivano elevati: negli abitati si consentiva una velocità sino a 18 km/h, in aperta campagna si tolleravano 40 km/h! Era sancito l’obbligo di tenere la destra e di oltrepassare a sinistra, con la precisazione che occorreva prendere le voltate a destra strette e a sinistra larghe (art. 42); riaffermato l’obbligo di fermarsi dopo un infortunio, anche senza colpa (art. 45); richiamati i doveri verso la polizia (art. 46). Il secondo capitolo del concordato del 1914 (art. 50/56) si intitolava «Disposizioni speciali per i carri automobili da trasporto e per gli omnibus automobili». Conteneva norme sul peso, che non doveva superare le nove tonnellate (art. 51); sulla velocità, che non doveva superare 20 km/h per gli omnibus automobili, 15 per i carri automobili da trasporto fino a sei tonnellate, 10 per quelli oltre le sei tonnellate (art. 52); sulle ruote e sui cerchioni. Il terzo capitolo (art. 57/71) concerneva i velocipedi. Stabiliva l’obbligo della licenza di circolazione con pagamento di tassa (art. 57), della targhetta di controllo numerata (art. 58), dell’apparecchio avvisatore, del freno e del fanale (art. 62). Conteneva norme di circolazione tra cui la proibizione di abbandonare il manubrio, di attaccarsi a veicoli, di montare in due su velocipedi a un posto solo (art. 65) e il limite di velocità di 10 km all’ora ai crocicchi e alle svolte (art. 66). Menzionava i doveri in caso di infortunio (art. 70). Il quarto capitolo (art. 72/73), relativo alle disposizioni penali, rinviava alla legislazione cantonale. Infatti i Cantoni concordatari potevano stabilire ad libitum le disposizioni penali per le contravvenzioni, con l’unica inflessione del divieto della devoluzione di una percentuale sulle multe all’agente che aveva accertato l’infrazione. Il quinto capitolo infine riservava ai Cantoni l’emanazione di norme complementari (Tutti i Cantoni, salvo Appenzello Interno, emanarono, con modalità diverse, norme per vietare parzialmente la circolazione delle automobili nei giorni festivi.


Nel Ticino il Consiglio di Stato emanò in tal senso due decreti esecutivi, il 18 febbraio 1922 e il 6 marzo 1924, che chiusero al transito del veicoli a motore talune strade nelle regioni di Lugano, Locarno e Bellinzona nei pomeriggi dei giorni festivi durante il periodo dal lº aprile al 30 settembre di ogni anno).

Anche il concordato del 1914 non poté spiegare i suoi effetti su tutto il territorio della Confederazione. Raccolse ancora qualche adesione dopo la stipulazione (ultimo Glarona nel 1920), ma non fu ratificato dai Cantoni di Zugo, Soletta e Grigioni, e dai semicantoni di Nidvaldo e Obvaldo. Ebbe comunque il valore di atto fondamentale per il disciplinamento della circolazione in Svizzera durante quasi venti anni, cioè fino alla codificazione federale. Un confronto fra il concordato del 1914 e la legge federale del 1932 indica in modo evidente come la legge federale attinse largamente al concordato che, opportunamente integrato (in particolare con le norme sulla responsabilità civile, su cui il concordato non poteva statuire non potendo derogare al diritto civile federale) ed emendato (in particolare con l’abbandono delle ormai superate norme sulla velocità massima) ne costituì veramente l’ossatura. Determinanti nell’elaborazione della legge furono le esperienze fatte vigente il concordato. (La legge cantonale del 1914) Nel nostro Cantone il Consiglio di Stato non perse tempo per avviare la procedura di adesione al concordato. Con messaggio del 15 maggio 1913, un anno prima della ratifica del Consiglio federale, presentava il relativo messaggio al Gran Consiglio, rilevando che, se al primo concordato il Cantone aveva aderito con un semplice decreto governativo, occorreva dopo la legge del 1909 il placet del legislativo. Il messaggio metteva in risalto le principali innovazioni del concordato. Nella seduta del 27 maggio 1913 il Gran Consiglio autorizzava il Consiglio di Stato ad accettare il secondo concordato e gli dava contemporaneamente mandato di proporre le opportune modificazioni della legge cantonale del 2 dicembre 1909. L’adesione del Ticino al concordato veniva così pronunciata dal Consiglio di Stato con decreto 6 maggio 1914 - si era dovuto attendere la ratifica del Consiglio federale - e l’entrata in vigore del concordato fissata al 1º gennaio 1915. Con messaggio 1º maggio 1914 il governo cantonale presentava al Gran Consiglio un progetto integrale di nuova legge sulla circolazione dei veicoli a motore e dei velocipedi. Esso conteneva norme sulle licenze di circolazione, sugli esami dei veicoli e dei conducenti, sulle tasse, sul ritiro delle licenze, sulle autorizzazioni per


le gare e sulle penalità (multa da 3.- a 500.- franchi, da applicare dal Consiglio di Stato con facoltà di ricorso al Tribunale penale). Il progetto di legge incontrava un’inattesa opposizione in Gran Consiglio, perché ritenuto «fiscale». Il Consigliere di Stato Martinoli contestava questa accusa affermando che la nuova legge avrebbe procurato una maggior entrata di circa 18’000.- franchi, somma con la quale non si poteva certo sperare di rimediare alle esigenze della situazione finanziaria dello Stato. Non riusciva però a salvare la legge, che nella seduta del 9 luglio 1914 cadeva con 36 voti negativi contro 34 affermativi. Il Consiglio di Stato presentava appena due mesi dopo, il 12 settembre 1914, un nuovo progetto che rispetto al precedente prevedeva ben poche modifiche. La tassa per le automobili veniva fissata sulla base di un importo iniziale fisso cui si doveva aggiungere un importo unitario per cavallo di forza. Lo scoppio della prima guerra mondiale aveva indubbiamente attenuato le obiezioni di natura fiscale, e la nuova legge era votata dal Gran Consiglio dopo brevissima discussione il 29 settembre 1914 e messa in vigore il 1º gennaio 1915, contemporaneamente al concordato. La legge cantonale sulla circolazione dei veicoli a motore e dei velocipedi del 29 settembre 1914, foggiata sul secondo concordato, disciplinò la materia nel Cantone sino al 1934. Essa subì però alcune modifiche e fu inoltre completata da parecchie norme esecutive. Vengono qui ricordati brevemente: il decreto legislativo 2 dicembre 1920 che aumentava le tasse per le licenze di circolazione (per le automobili fr. 200.- fino a 8 cavalli, indi Fr. 20, per ogni cavallo in più; per le motociclette da 75.- a Fr. 100.-; per i velocipedi Fr. 5.-) e le multe per le contravvenzioni (massimo Fr. 1’500.-); il decreto esecutivo 13 dicembre 1921 / 9 ottobre 1928, che disciplinava il trasporto di persone con autoveicoli e autocarri; il decreto legislativo 30 maggio 1927 che vietava la circolazione di veicoli a motore con ruote a gomme piene; il decreto legislativo 22 maggio 1928 che istituiva il perito unico cantonale per i veicoli a motore; il decreto legislativo 21 dicembre 1928 che aumentava del 10% le tasse dei veicoli a motore con il l° gennaio 1929; il decreto legislativo recante la stessa data con il quale lo Stato assumeva l’assicurazione responsabilità civile per i possessori di biciclette; il decreto esecutivo del 4 marzo 1929 che aumentava i minimi dell’assicurazione responsabilità civile per i veicoli a motore fissandoli per le automobili in Fr. 20’000.- per persona e in fr. 50’000.- per catastrofe, rispettivamente per le motociclette in Fr. 10’000.- e Fr. 30’000.-; il decreto esecutivo 28 dicembre 1929 che stabiliva in metri


2,20 la larghezza massima dei veicoli a motore e a trazione animale e prescriveva che i veicoli a motore fossero provvisti di un silenziatore per impedire ogni eccesso di rumore, di uno specchietto retrovisivo, di luci anabbaglianti per gli incroci. L’autorità cantonale dovette naturalmente rivedere anche il disciplinamento della circolazione dei veicoli a trazione animale, cui non erano applicabili le norme dei concordati. Con messaggio 6 novembre 1909 il Consiglio di Stato proponeva nuove norme sulla larghezza dei cerchi delle ruote e sul peso dei carri per ovviare all’inconveniente che tanto aveva già preoccupato nel secolo precedente. La larghezza dei cerchi delle ruote doveva determinarsi secondo il peso e non più secondo il numero degli animali da tiro attaccati. Il carico veniva limitato in base alla larghezza delle strade e non più in base alla distinzione tra strade cantonali e strade circolari. Venivano previsti permessi di libera circolazione da rilasciare dietro pagamento di tasse annue per i carri con portata eccedente i quaranta quintali e per i veicoli di lusso (omnibus degli alberghi e carrozze signorili). La Commissione della gestione rinviava tuttavia il progetto al Consiglio di Stato che lo ripresentava con poche modificazioni 1’11 ottobre 1912. Il nuovo messaggio affermava che la legge si sarebbe applicata anche ai carri provenienti dall’estero per non far loro «una posizione privilegiata di fronte a quelli ticinesi mentre contribuiscono in egual misura a deteriorare le strade». La Commissione della gestione estendeva l’obbligo di ottenere il permesso di libera circolazione e di pagare la tassa annua a tutti i carri indistintamente e inseriva nel progetto alcune norme di circolazione. La prima innovazione suscitava molte ostilità contro la legge, definita così fiscale e lesiva degli interessi dei contadini per cui invano s’era chiesto l’esonero dalle tasse. Dopo uno stiracchiato voto affermativo il Consiglio di Stato chiedeva la seconda lettura ed era allora decisa l’esenzione dalle tasse dei veicoli adibiti principalmente a scopi agricoli. La nuova «legge sulla circolazione stradale» era così votata il 2 ottobre 1914 dal Gran Consiglio. Una nuova legge sulla circolazione dei veicoli, in sostituzione di quella del 2 ottobre 1914, veniva emanata il 26 novembre 1923, Era stata proposta essenzialmente per adeguare le tasse alla mutata situazione. Infine il 17 settembre 1928 veniva adottata una nuova legge sulla polizia stradale, in sostituzione della vecchissima legge sullo stesso oggetto


emanata nel 1861. Conteneva tra altro norme sull’illuminazione dei veicoli posteggiati, sull’arresto dei veicoli, sul loro carico, su mandre e greggi.

III. La riforma della costituzione e il primo tentativo di codificazione federale (I primi passi) Come già rilevato, il rapido diffondersi dei nuovi mezzi di locomozione, la facilità e la frequenza degli spostamenti al di là dei confini del Cantoni e degli Stati, fecero presto apparire la necessità di un disciplinamento uniforme per evitare una situazione di vera e propria anarchia. Nel nostro paese, competenti a legiferare sulla materia essendo i Cantoni, fu dapprima saggiamente e celermente seguita la via del concordato intercantonale. Ma le menti più avvedute riconobbero che solo una legislazione federale nella materia avrebbe potuto dare completa soddisfazione, e avviarono pazientemente i loro sforzi su questa via, che richiedeva quale primo passo la riforma della costituzione federale per attribuire la necessaria competenza all’autorità centrale. Che il cammino fosse tormentato lo dimostra il fatto che ci vollero trent’anni perché giungesse in porto la legge federale del 1932. La prima azione parlamentare per sollecitare un intervento federale nella materia risale al 1902 e concerne solo il particolare settore della responsabilità civile. Discutendosi la legge federale sulla responsabilità delle strade ferrate, delle imprese di battelli a vapore e delle poste il Consigliere nazionale Scherrer-Füllemann chiedeva che il principio della responsabilità causale fosse esteso anche ai veicoli a motore. Non se ne faceva nulla per l’opposizione del Consiglio degli Stati. Nel 1907 la società dei giuristi svizzeri riunita a Sciaffusa per l’assemblea annuale votava una risoluzione in questi termini: «Il Consiglio federale è invitato a presentare un rapporto e delle proposte sulla questione a sapere se non sia necessario riformare la costituzione federale al fine di creare una base legale federale per la regolamentazione di tutto ciò che si riferisce alla circolazione delle automobili». (L’articolo costituzionale 37 bis) Il passo decisivo si aveva attraverso la mozione del Consigliere nazionale lucernese Walther, presentata il 9 dicembre 1908 e sviluppata nella seduta del 26 marzo 1909, chiedente la riforma della costituzione per consentire


alla Confederazione di legiferare sulla circolazione delle automobili. Il Consiglio federale, accolta la mozione, presentava il 22 marzo 1910 il messaggio proponente la riforma costituzionale. Il messaggio proclamava la necessità di una legislazione federale in materia per diverse ragioni. Il concordato intercantonale era insufficiente perché alcuni Cantoni non vi avevano aderito, perché solo parte della materia era dallo stesso regolata, perché sorgevano conflitti tra i Cantoni, perché inefficace era il perseguimento delle infrazioni. Vi era poi il problema posto dalla circolazione internazionale. L’anno prima era stata stipulata a Parigi una convenzione internazionale, che stabiliva le condizioni da adempiere dai veicoli e dai loro conducenti per poter circolare, e istituiva il certificato internazionale, le targhe nazionali, ecc. L’adesione della Svizzera era opportuna ma, finché la materia era di competenza del Cantoni, poteva avvenire solo con riserva. Il governo federale assicurava che si sarebbero in larga misura riprese le norme del concordato. Il messaggio concludeva rilevando che contemporaneamente occorreva dare alla Confederazione la competenza di legiferare sulla navigazione aerea, e proponeva così un nuovo articolo 37 bis della costituzione federale del seguente tenore: «La Confederazione ha la facoltà di stabilire disposizioni di polizia sugli automobili e sui velocipedi. La legislazione sulla navigazione aerea è di competenza della Confederazione.» Mentre il Consiglio nazionale aderiva alla progettata riforma, il Consiglio degli Stati dava voto contrario, non intendendo rinunciare alla sovranità cantonale e ritenendo sufficiente una legge che regolasse la responsabilità civile e contemplasse disposizioni penali. La competente commissione del Consiglio nazionale chiedeva allora un rapporto complementare che il Consiglio federale presentava il 3 novembre 1916. Nello stesso il governo esponeva quali sarebbero stati i punti essenziali della nuova legge, ricordava che neanche al secondo concordato intercantonale nel frattempo stipulato avevano aderito tutti i Cantoni, e proponeva due articoli costituzionali distinti per la circolazione degli autoveicoli (art. 37 bis) e per la navigazione aerea (art. 37 ter). L’articolo sulla circolazione degli autoveicoli assumeva una più generica formulazione. Riconosceva ai Cantoni la facoltà di vietare la circolazione sulle loro strade, fatta eccezione per i veicoli federali e per le strade di grande traffico, e prevedeva la sostituzione delle tasse cantonali con una tassa federale da versare ai Cantoni per il miglioramento delle strade. Ancora una volta però il Consiglio degli Stati, sia pure solo con il voto decisivo del presidente, diceva di no il 21 marzo 1918. La commissione dei Consiglio nazionale


cercava una soluzione conciliativa attraverso una più prudente formulazione dei diritti della Confederazione e lo stralcio della tassa federale. Finalmente l’accordo tra le due Camere poteva essere raggiunto nel febbraio 1921. Undici anni eran passati dal primo messaggio governativo e le difficoltà prima di giungere alla sospirata legge federale eran ben lungi da finire. Il 22 maggio 1921 comunque il popolo e i Cantoni (Si 206’297, no 138'876. Cantoni favorevoli 15 ½, contrari 6 1/2. Risultato nel Ticino; si 3'799, no 1’239)

approvavano il nuovo articolo costituzionale 37 bis, del seguente tenore: «La Confederazione ha facoltà di stabilire disposizioni sugli automobili e i velocipedi. Resta garantito ai Cantoni il diritto di limitare o di vietare la circolazione degli automobili e dei velocipedi. Tuttavia la Confederazione può dichiarare aperte interamente o in misura limitata certe strade necessarie al grande transito. Resta riservato l’uso delle strade per il servizio della Confederazione». Contemporaneamente era accettato il nuovo articolo costituzionale sulla navigazione aerea. (Il progetto di legge federale de1 1922) Il 3 novembre 1922 il Consiglio federale presentava alle Camere il messaggio accompagnante il disegno di legge sulla circolazione delle automobili e dei velocipedi, che era stato già sottoposto a una commissione di esperti. Il messaggio rilevava che il progetto era presentato nella forma il più possibile completa per vincere la diffidenza dei cittadini ed evitare un eventuale referendum. Constava di 60 articoli ed era suddiviso in sei capitoli: licenze di circolazione, norme di polizia concernenti la circolazione, responsabilità civile, disposizioni penali, delimitazione delle competenze federali e cantonali, disposizioni transitorie e finali. Il progetto introduceva il principio della responsabilità causale per i veicoli a motore, prevedeva l’assicurazione responsabilità civile obbligatoria, istituiva il diritto di ricorso all’autorità federale contro le decisioni cantonali sul rilascio delle licenze. Quattro articoli del progetto erano dedicati alla regolamentazione della velocità. Accanto a una norma generale di comportamento disposizioni particolari prescrivevano una velocità massima assoluta di 50 km/h per le automobili, da 20 a 35 km/h per gli autocarri; una velocità massima di 30 km/h nelle località; la riduzione della velocità sotto i 25 km/h in determinati casi. Dalla lunga deliberazione parlamentare, che rimaneggiava il testo governativo, ma confermava le norme sulla responsabilità causale e sulla velocità, la legge usciva il 10 febbraio 1926. Veniva però promosso il


referendum che raccoglieva 91’781 firme e nella votazione popolare del 15 maggio 1927 il progetto cadeva (Si 230’287, no 343’387. Nel Ticino invece i si erano 10’575 e i no solo 2’175, anche perché lo stesso giorno si votava sui sussidi per le strade alpine).

IV. La legge federale del 15 marzo 1932 (Il progetto di legge federale del 1930) Lo scacco subito non scoraggiava i partigiani della soluzione federale. Vari fattori, tra cui l’opposizione degli automobilisti al principio della responsabilità causale e alle restrittive norme sulla velocità, avevano determinato il risultato della votazione del 15 maggio 1927. Ma ogni giorno più appariva evidente l’insufficienza e l’anacronismo del concordato, incapace di fronteggiare i cambiamenti subentrati nel campo della circolazione stradale, e pertanto la necessità della legge federale. Dopo l’intermezzo di un’iniziativa popolare per la riforma dell’art. 37 bis della Costituzione federale - secondo i promotori la Confederazione doveva estendere la sua competenza a tutta la circolazione stradale, e inoltre assumersi la costruzione e la manutenzione delle strade di transito, o parteciparvi - respinta nettamente nella votazione popolare del 12 maggio 1929, il Dipartimento federale di giustizia e polizia, dando seguito a una nuova mozione delle Camere, allestiva un altro avanprogetto di legge federale sulla circolazione, che nell’autunno 1930 era sottoposto a una commissione di esperti. Il 12 dicembre 1930 il Consiglio federale metteva a punto il progetto e lo trasmetteva alle Camere. Il relativo messaggio esponeva i punti essenziali della riforma sulla quale influivano le esperienze del tentativo naufragato nel ‘27: legge-quadro che regolava le questioni essenziali e rinviava invece per quelle di dettaglio alle ordinanze di esecuzione, permettendo con ciò di meglio seguire l’evoluzione della motorizzazione; disciplinamento della circolazione degli autoveicoli e dei velocipedi con inserimento di norme per gli altri utenti della strada solo nella misura in cui l’esigeva l’esecuzione razionale delle disposizioni concernenti i precitati veicoli; stralcio dei limiti massimi di velocità, con mandato tuttavia al Consiglio federale di fissare nell’ordinanza quelli dei veicoli pesanti e con facoltà di farlo eventualmente anche per gli altri veicoli; conferma del principio della responsabilità causale e dell’assicurazione obbligatoria, completata con l’azione diretta del danneggiato contro la compagnia assicuratrice e l’aumento delle somme minime assicurate.


Ancora una volta la discussione si accendeva particolarmente sul capitolo della responsabilità causale e soprattutto sull’art. 25 relativo alla velocità. I circoli facenti capo agli automobilisti sostenevano una formulazione generale. I circoli vicini alle imprese svizzere di trasporto e all’agricoltura chiedevano limiti di velocità per le varie categorie di veicoli e le diverse condizioni di traffico. La soluzione di compromesso, già propugnata dal Consiglio federale, e che comunque instaurava nella legge il concetto di relatività della velocità, finiva per prevalere. (La legge federale sulla circolazione degli autoveicoli e dei velocipedi) Il voto finale delle Camere aveva luogo il 15 marzo 1932. Era lanciato un referendum, ma questa volta non raccoglieva neppure il numero di firme sufficiente. Il lº gennaio 1933 entrava in vigore la legge federale sulla circolazione degli autoveicoli e dei velocipedi del 15 marzo 1932. L’unificazione del diritto della circolazione era conseguita. La natura di questo studio esclude evidentemente un esame di dettaglio delle singole disposizioni della legge del 1932, notissima per essere stata in vigore sino al l° gennaio 1963. Delle principali innovazioni già si è detto, di altre si dirà brevemente trattando dei lavori che hanno portato all’elaborazione della legge del 1958. Parecchie sono state le disposizioni d’applicazione promulgate dall’autorità federale, Fondamentale è l’ordinanza d’esecuzione della legge, emanata il 25 novembre 1932. Di particolare rilievo sono anche l’ordinanza sulla segnalazione stradale del 17 ottobre 1932, il decreto concernente le strade principali con diritto di precedenza del 26 marzo 1934, l’ordinanza sulla durata del lavoro e del riposo dei conducenti di professione del 4 dicembre 1933. Nel trentennio in cui è stata in vigore la legge del 15 marzo 1932 altri atti legislativi federali hanno tuttavia spiegato effetti in materia di circolazione, ad esempio la legge del 29 marzo 1950 sulle filovie. Ma una citazione particolare merita il codice penale svizzero del 21 dicembre 1937 entrato in vigore il 1º gennaio 1942. Oltre alle norme nel capitolo dei reati contro la vita e l’integrità della persona (omicidio colposo, lesioni colpose) che trovarono purtroppo sempre più frequente applicazione per il moltiplicarsi degli incidenti della circolazione con tragiche conseguenze, il legislatore federale inseriva una disposizione che si riferiva specificamente alla situazione di pericolo che i veicoli a motore erano idonei a creare. Si tratta dell’art. 237 del Codice penale sul perturbamento della circolazione pubblica, reato punito, anche nella forma colposa che quasi esclusivamente occupò i tribunali, con severità maggiore della semplice contravvenzione


alle prescrizioni della circolazione prevista dall’art. 58 della legge del 1932. L’art. 237 del Codice penale colpiva le più gravi infrazioni alle norme di comportamento imposte ai conducenti di veicoli a motore. (La legge cantonale del 1934) Le autorità cantonali dovevano pure adeguare le loro disposizioni alla nuova legge. Nel Ticino il Consiglio di Stato fronteggiava dapprima la situazione emanando il decreto esecutivo del 14 febbraio 1933. Indi il 17 febbraio 1934 presentava il messaggio accompagnante il disegno di legge cantonale sulla circolazione con veicoli a motore e velocipedi, che doveva sostituire la legge del 1914. Al Cantone, avvertiva il messaggio, «non spetta che lo stabilire le tasse e l’applicazione della legge federale». La Commissione legislativa, dopo aver rilevato che il disegno veniva a dar forma legislativa al decreto del 1933 di dubbia legalità, scindeva tuttavia il progetto in due atti separati, il primo di attuazione della legge federale, il secondo relativo alle tasse. Il Gran Consiglio adottava così la legge sulla circolazione con veicoli a motore e velocipedi del 26 giugno 1934, tuttora in vigore, e la legge sulle tasse di circolazione dei veicoli a motore e velocipedi del 15 gennaio 1935. La legge del 26 giugno 1934 conteneva norme sulle licenze di condurre e di circolazione; sull’assicurazione; sulla responsabilità civile per ogni possessore di bicicletta; sulle gare; sulle contravvenzioni e multe. Con decreto legislativo del 18 febbraio 1937 l’ufficio della circolazione veniva trasferito dal Dipartimento delle pubbliche costruzioni al Dipartimento di polizia, cui venivano così assegnate le competenze in materia esercitate dall’altro Dipartimento sin dall’inizio del secolo. Con risoluzione 6 ottobre 1959 il Consiglio di Stato istituiva, sempre alle dipendenze del Dipartimento di polizia, uno speciale servizio, il servizio giuridico della circolazione, cui attribuiva, con regolamento 19 aprile 1960, una duplice competenza: istruire e decidere le contravvenzioni alla legge sulla circolazione e relative ordinanze, con riserva delle competenze dell’autorità giudiziaria penale; e pronunciare i provvedimenti di rifiuto e revoca della licenza di condurre. La legge sulle tasse di circolazione subiva varie modificazioni. Era sostituita dal testo unico del 6 luglio 1953 che a sua volta cedeva il passo alla legge «sulle imposte e tasse di circolazione dei veicoli a motore» del 7 febbraio 1961. V. La legge federale del 19 dicembre 1958


(La necessità della revisione) «Nel suo insieme la legge federale del 1932 ha dato soddisfazione. Ma ciò non significa ch’essa non debba essere riveduta. Il progetto di nuova legge non intende far tabula rasa delle vecchie disposizioni: non sarebbe né desiderabile né possibile. Se la legge richiede una revisione totale ciò è dovuto alla molte modificazioni di dettaglio e alle aggiunte cui si deve procedere.» Queste parole si leggono nel messaggio con il quale il 24 giugno 1955 il Consiglio federale presentava alle Camere il progetto di una nuova legge sulla circolazione stradale. Il messaggio indicava quale primo fattore della revisione l’intensità della circolazione, a seguito di una impressionante marcia ascensionale, dopo la flessione inevitabile degli anni della seconda guerra mondiale, che aveva radicalmente mutato la situazione esistente nel 1932 (Prescindiamo dall’indicare dati statistici e rinviamo a quelli contenuti nello studio del sig. Legobbe (capitolo H. pag. 138-140; e tabelle. pag.168-169)).

L’intensità crescente del traffico era andata di pari passo con l’evoluzione della tecnica automobilistica: perfezionamenti dei veicoli con tra altro raggiungimento di più alte velocità, moltiplicazione degli usi. Le conseguenze si sono duramente avvertite anche per l’innegabile ritardo con il quale il paese ha affrontato la costruzione di una moderna rete autostradale. Gli stati vicini ci hanno largamente superato in questo campo. L’esclusiva sovranità cantonale in materia ha fatto posto solo pochi anni fa a una forma di intervento federale, l’unica che potesse venire a capo del problema, una soluzione razionale potendo essere pensata e attuata solo su scala nazionale. C’è voluta l’iniziativa popolare a favore del miglioramento della rete stradale deposta nel febbraio 1956 per muovere le acque. Il Consiglio federale ha allora elaborato il controprogetto di riforma costituzionale, che, ritirata a suo favore l’iniziativa, è stato trionfalmente accolto nella votazione popolare del 6 luglio 1958. Ne è seguita l’emanazione della legge federale dell’8 marzo 1960 sulle strade nazionali, e ha avuto inizio la fase di esecuzione, che richiederà molto tempo. Sempre più sentito era anche il bisogno di una disciplina internazionale. Il 19 settembre 1949 era stata conclusa a Ginevra una nuova convenzione internazionale sulla circolazione stradale con norme di comportamento. Era necessario per la Svizzera mettere la sua legislazione in armonia con detta convenzione. Questi i motivi essenziali della riforma, che prendeva l’avvio nel 1948.


L’avanprogetto del Dipartimento federale di giustizia e polizia era pronto nel 1952. Dopo l’esame dello stesso da parte di una commissione di esperti, presieduta dal giudice federale Strebel, il 24 giugno 1955 veniva inviato alle Camere il messaggio con il progetto del Consiglio federale. I lavori commissionali e parlamentari duravano sino al 19 dicembre 1958, giorno in cui le Camere approvavano in votazione finale la nuova legge federale sulla circolazione stradale, legge che, come il titolo stesso indica, disciplina il comportamento di tutti gli utenti della strada. Ancora una volta l’articolo chiave della legge è stato quello sulla velocità, specie per l’accesa discussione sulla limitazione della velocità nelle località. Il progetto del Consiglio federale prescindeva, seguendo in ciò la commissione di esperti, da un limite massimo nelle località, limitandosi a lasciarne la facoltà al governo. La Commissione del Consiglio nazionale proponeva di fissare il limite di velocità nelle località a 50 km/h, ottenendo l’adesione del plenum della Camera il 14 ottobre 1956. Il Consiglio degli Stati si pronunciava invece per un limite di 60 km/h.

Fig. 13. Henri Morel col padre Jean (che aveva guidato nella salita) quasi clandestinamente sulla strada del Bre prima dell’ufficiale inaugurazione


Fig. 14. Un «taxi» del primo dopoguerra (sullo sfondo il Palazzo Civico di Lugano). L’apparizione d’un di questi veicoli era ancora oggetto, allora, di una tal quale curiosità


Fig. 15. La giovane unione sportiva Ceresio in gita domenicale, intorno al 1914: il traguardo era stato allora, come spesso si dava, Varese; ma sul tardo pomeriggio tutti poi s’eran ritrovati per lo spuntino (qui nella foto) in un bel ristorante di Sorengo

Fig. 16. Un reparto di «truppe motorizzate» della ‘14 - ‘18 a Bellinzona

Riportato l’oggetto davanti al Consiglio nazionale, la commissione proponeva di aderire alla decisione dell’altra Camera, rilevando tra altro che le due grandi organizzazioni automobilistiche, Touring Club Svizzero e Automobil Club Svizzero, avevano nel frattempo accettato tale soluzione. La proposta del Consigliere nazionale Grendelmeier di confermare la precedente decisione cadeva nella seduta del 18 giugno 1958 (44 si, 94 no). Così l’art. 32 della legge stabilisce che nelle località la velocità non deve superare i 60 km/h con riserva di prescrizioni speciali. Altro punto di frizione tra le due Camere è stato quello relativo alle limitazioni di peso e di larghezza. Il Consiglio degli Stati propugnava una soluzione di più ampio respiro, meglio aderente alla lettera e allo spirito della convenzione internazionale del 1949. Il Consiglio nazionale sosteneva una soluzione più restrittiva. Prevaleva la tesi del Consiglio degli Stati.


Per quanto concerne le licenze la legge ha stabilito la loro durata illimitata sopprimendo la formalità burocratica del rilascio annuo e ha inasprito le disposizioni sulla revoca. Si è inserito nel capitolo delle norme della circolazione un precetto fondamentale (l’art. 26) fondato sull’art. 7 della convenzione internazionale. Le norme di comportamento sono state precisate e adattate alle mutate condizioni del traffico: basti ricordare al riguardo la codificazione della preselezione. Il principio della responsabilità causale del detentore introdotto con la legge del 1932 è stato confermato, i minimi di assicurazione sono stati considerevolmente aumentati per tener conto del deprezzamento della moneta intervenuto in trent’anni e il capitolo assicurativo completato per tener conto dei vari rischi. Le sanzioni per le infrazioni alle norme della circolazione sono state inasprite. Una norma speciale (art. 90 cfr. 2) applicabile alle gravi infrazioni alle norme della circolazione sostituirà praticamente nella quasi totalità dei casi l’art. 237 del Codice penale relativo al perturbamento della circolazione pubblica. La repressione di uno dei più frequenti e pericolosi reati in questa materia, il reato di circolazione in stato d’ebbrezza, è facilitata dalla più severa pena prevista e dalla introduzione dell’obligatorietà della prova del sangue. Mentre la legge del 1932 era stata messa in vigore meno di un anno dopo, la legge del 1958 è entrata in vigore solo con il gennaio 1963. È da deplorare che l’entrata in vigore della legge si sia fatta attendere così a lungo. Ed è altresì spiacevole il fatto che talune disposizioni e le relative norme d’esecuzione siano state messe in vigore anticipatamente senza un criterio preciso e a date diverse, determinando un accavallarsi di vecchie e nuove norme, non certo a favore della sicurezza giuridica. La legge è stata del resto emendata ancor prima d’essere messa in vigore. Ciò è capitato per gli art. 33 e 49, relativi ai doveri verso i pedoni rispettivamente ai doveri di questi, come al voto delle Camere in data 23 giugno 1961, conseguente al messaggio governativo 3 marzo 1961 (Si è tornati a una sola specie di passaggi pedonali in luogo delle due ore viste nel testo del 1958). Il limite di velocità negli abitati è entrato in vigore il 1º giugno 1959, in forza del decreto 8 maggio 1959 del Consiglio federale. Tra i vari decreti e ordinanze emanati dal governo federale in esecuzione della legge dev’essere citata l’ordinanza sulle norme della circolazione stradale del 13 novembre 1962, estremamente dettagliata, e sicuramente tale da lasciare meno campo libero alla giurisprudenza in materia.


Purtroppo l’intera materia non è disciplinata. Un anno dopo l’entrata in vigore della legge mancano ancora certe norme di esecuzione, ad esempio quelle sulla procedura per il prelievo del sangue e sulla valutazione tecnica dell’analisi del sangue, previste dall’art. 52 cpv. 3 della legge. (Le norme di applicazione cantonali) L’autorità cantonale che nel 1959 aveva innovato nel campo della repressione contravvenzionale delle infrazioni e della revoca delle licenze mediante l’istituzione del Servizio giuridico della circolazione, che ha fatto buona prova, ha emanato il 28 dicembre 1962 il decreto esecutivo che designa le autorità competenti in materia di circolazione stradale. Chiaro è che la legge cantonale del 26 giugno 1934 sulla circolazione con veicoli a motore e con velocipedi è superata. Finora l’adeguamento alle nuove situazioni e alle nuove leggi e ordinanze federali è avvenuto ad opera del Consiglio di Stato, che può invocare a tale scopo la delega di competenza di cui all’art. 14 di detta legge, che lo autorizza tra altro a emanare le disposizioni «di adattamento ad ulteriori leggi od ordinanze federali sulla circolazione dei veicoli a motore e velocipedi». Ma evidentemente solo la soluzione legislativa può soddisfare. Non appena emanate le ultime ordinanze d’esecuzione federali si dovrà quindi mettere in cantiere una nuova legge cantonale. Il compito del legislatore non sarà invero molto difficile. La regolamentazione federale è così dettagliata che riserva essenzialmente ai Cantoni norme di competenza e di procedura. (Gli scopi e i mezzi) È troppo presto - non è trascorso un anno dall’entrata in vigore della legge - per tracciare un primo e anche affrettato bilancio, sia pure nel campo che particolarmente era a cuore del legislatore, quello della sicurezza stradale. I dati statistici pubblicati nel corso dell’anno sul numero degli incidenti sembrano indicare una flessione ma non devono trarre in inganno. La legge da sola non basta, anche se indubbiamente le norme sulla circolazione sono razionali e dettagliate. Occorre un’opera paziente di educazione e di informazione per radicare ovunque una coscienza stradale; una vigilanza continua, esercitata dalla polizia del traffico potenziata con uomini e mezzi; una repressione inesorabile e severa delle infrazioni in sede penale (condanna) e in sede amministrativa (revoca delle licenze). VI. Le convenzioni internazionali (La convenzione del 1909)


Il fenomeno automobilistico non conosce frontiere: è dilagato in ogni parte del mondo, superando qualsiasi ostacolo, Il suo rapido espandersi ha mostrato la necessità di una disciplina giuridica internazionale. La suscettibilità delle sovranità nazionali ha però intralciato la marcia verso questo obiettivo. I primi tentativi per giungere a una regolamentazione internazionale in materia risalgono già all’inizio del secolo. Da una conferenza diplomatica promossa dal governo francese scaturiva la convenzione di Parigi dell’11 ottobre 1909 relativa alla circolazione delle automobili. La prima convenzione di Parigi non conteneva vere e proprie norme di circolazione, rinviava anzi espressamente su questo punto alle legislazioni nazionali. Stabiliva invece le condizioni da adempiere dalle automobili per essere ammesse a circolare sulla strada pubblica e dai conducenti; istituiva i certificati internazionali; assegnava ai vari Stati le targhe nazionali; creava i primi quattro segnali internazionali (cunetta, curva, incrocio, passaggio a livello). Il Consiglio federale con suo messaggio 24 maggio 1910 chiedeva alle Camere l’autorizzazione a ratificare la convenzione, che già era stata ratificata dai governi di Francia, Germania, Italia, Belgio, Spagna, Monaco, Romania e Serbia. Il messaggio rilevava che i Cantoni interpellati non avevano sollevato alcuna obiezione e illustrava la necessità dell’adesione alla convenzione per evitare l’esclusione dalla circolazione internazionale. Occorreva tuttavia tener conto del fatto che in Svizzera la regolamentazione della circolazione era di competenza cantonale e che, fondandosi su questa competenza, uno dei Cantoni, il Grigioni, aveva vietato la circolazione dei veicoli a motore sul suo territorio. Nell’impossibilità di ottenere dal Canton Grigioni l’abrogazione di questo divieto di natura generale che il governo federale giudicava evidentemente incompatibile con lo spirito della convenzione, la ratifica non poteva avvenire che con riserva del diritto dei Cantoni di vietare la circolazione dei veicoli a motore su talune strade o totalmente. In tal senso decidevano infatti le Camere federali il 9 dicembre 1910, e il Consiglio federale dichiarava l’adesione della Svizzera a far tempo dal lº maggio 1911 con la precitata riserva. (La convenzione del 1926) Nell’aprile 1926 si riuniva a Parigi, grazie anche agli sforzi spiegati dalla Società delle Nazioni, una nuova conferenza con delegazioni di 53 Stati dalle cui deliberazioni usciva la seconda convenzione internazionale di Parigi per la circolazione degli autoveicoli del 24 aprile 1926.


Purtroppo ancora una volta nessuna norma di comportamento veniva adottata e si confermava pertanto su questo punto il rinvio alle leggi nazionali. Erano invece effettivamente migliorate e precisate, in funzione dell’evoluzione della tecnica automobilistica, le disposizioni sulle attrezzature dei veicoli nella circolazione internazionale, sui requisiti dei conducenti e sui segnali. Il sistema del vecchio «certificat international de route» valido per veicolo e conducente era abrogato e sostituito da certificati internazionali distinti. La seconda convenzione, che raccoglieva un numero di adesioni notevolmente superiore, veniva ratificata dalla Svizzera senza riserve, come a decreto 26 settembre 1930 dell’Assemblea federale c con effetto dal 21 ottobre 1931. Nel 1925 infatti il Canton Grigioni aveva abbandonato la sua posizione di intransigente rifiuto del traffico motorizzato. Il 30 marzo 1931 a Ginevra era poi stipulata una convenzione sull’unificazione della segnalazione stradale, che entrava in vigore per la Svizzera il 19 aprile 1935, come a decreto 27 settembre 1934 delle Camere. (La convenzione del 1949) Cessata la seconda guerra mondiale e assunta a forme impressionanti la circolazione internazionale, le Nazioni Unite davano vita al primo tentativo di disciplinamento internazionale che abbracciasse anche le norme di comportamento. La conferenza, riunitasi a Ginevra, portava alla firma, in data 19 settembre 1949, di una nuova convenzione sulla circolazione stradale, detta appunto di Ginevra, che abrogava la convenzione del 1926, e di un protocollo relativo alla segnalazione stradale. Il 16 settembre 1950 veniva firmato anche un accordo europeo integrativo della convenzione di Ginevra e del protocollo sulla segnalazione stradale. La convenzione di Ginevra è entrata in vigore il 26 marzo 1952. Oltre cinquanta Stati di tutti i continenti vi hanno già aderito. Essa consta di 35 articoli suddivisi in sette capitoli (Norme generali, norme applicabili alla circolazione stradale, segnalazione, norme applicabili ai veicoli a motore nella circolazione internazionale, conducenti di veicoli a motore nella circolazione internazionale, norme applicabili ai velocipedi nella circolazione internazionale, disposizioni finali) e di l0 allegati (Disposizione addizionale relativa alla definizione dei veicoli a motore, precedenza, numero di immatricolazione dei veicoli in circolazione internazionale, sigla distintiva dei veicoli in circolazione internazionale, contrassegni di identificazione del veicoli in circolazione internazionale, condizioni tecniche relative all’equipaggiamento dei veicoli a motore in circolazione internazionale, dimensioni e pesi dei veicoli in circolazione internazionale, condizioni d’ammissione dei conducenti di veicoli a motore nella circolazione internazionale, modello della licenza di condurre, modello della licenza di condurre internazionale) facenti parte integrante della stessa. L’art. 2 della


convenzione consente tuttavia agli Stati contraenti di dichiararsi non vincolati dagli allegati 1 e 2. II preambolo della convenzione riassume lo scopo che si è con essa ricercato: favorire lo sviluppo della circolazione stradale internazionale e promuoverne la sicurezza, stabilendo a tal fine delle norme uniformi. Per quanto riguarda il secondo capitolo, quello delle norme di comportamento, che costituisce la novità della convenzione, ci si è dovuti limitare, di fronte alle molteplici difficoltà per giungere a un accordo, a realizzare un programma minimo, ad adottare cioè alcune disposizioni di carattere fondamentale, sulle quali indirizzare le codificazioni nazionali. La convenzione malgrado ciò ha il vantaggio d’aver tenuto conto d’una vastissima, universale esperienza in materia di circolazione, raccolta durante decenni. Ha inoltre una struttura elastica che permette l’emanazione delle legislazioni nazionali, senza rovesciare usi e tradizioni dei paesi firmatari. Così non è stato risolto in quella sede il contrasto fra i paesi in cui si circola a destra e quelli invece in cui si circola a sinistra. Il capitolo delle norme di comportamento contiene un precetto generale di prudenza valido per tutti gli utenti della strada; un precetto di moderazione della velocità; disposizioni sulle manovre d’incrocio e di sorpasso, sul comportamento alle biforcazioni, sullo stazionamento, sul carico dei veicoli, sull’illuminazione, sulla condotta dei ciclisti. La convenzione si è dimostrata elemento di primaria importanza nella riforma delle legislazioni nazionali sulla circolazione. Molti paesi infatti hanno adottato nuove leggi dopo la convenzione del 1949 sforzandosi di realizzare un ordinamento moderno, in ossequio ai principi fondamentali accolti a Ginevra. Il codice della strada italiano è del 15 giugno 1959, il codice francese del 15 dicembre 1958, il codice germanico del marzo 1956, il codice belga dell’aprile 1954, il codice lussemburghese del novembre 1956, il codice austriaco del luglio 1960, la nostra legge del 19 dicembre 1958. La volontà di adeguare quest’ultima alla convenzione di Ginevra è stata chiaramente illustrata nel messaggio governativo e nelle deliberazioni parlamentari, («La Suisse, pays de tourisme, ne saurait rester à l’écart de la législation routière internationale, si elle ne veut pas faire de notre territoire un endroit où les conducteurs de véhicules à moteur étrangers seraient astreints, à des règles qui sont partiellement vétustes et surtout qui ne correspondraient plus aux données de la technique routière actuelle» (Guinand, relatore, nella seduta del Consiglio nazionale del 21 giugno 1956)). Come rileva esattamente il dr. Bussy (Bussy, «La legislation suisse et les conventions internationales», Touring. 28 giugno 1956) uno dei più attenti studiosi

svizzeri di questi problemi, se c’è una materia sulla quale non dovrebbe


essere difficile arrivare a una intesa fra gli Stati è proprio quella della circolazione stradale, poiché non sono le concezioni politiche a ispirare le norme della circolazione, Malgrado ciò penose sono le difficoltà che incontrano gli sforzi per una migliore disciplina internazionale. Un tentativo per la revisione della convenzione di Ginevra è stato fatto nell’ambito del Comitato dei trasporti interni della Commissione economica per l’Europa, che è una commissione regionale dell’organizzazione delle Nazioni Unite. Un testo del giugno 1962 prevedeva alcune riforme sostanziali della convenzione, in particolare sulla circolazione sulle autostrade, sulla circolazione dei veicoli pesanti, sulla manovra d’immissione nella circolazione, sul carico del veicoli, sui permessi di condurre. Nello stesso tempo è stato allestito un progetto di emendamento del protocollo relativo alla segnalazione stradale. Il tentativo di revisione non ha però potuto essere portato a termine non essendo adempiute le condizioni per la convocazione di una nuova conferenza. (Gli accordi europei) Sforzi nella stessa direzione sono stati compiuti dalla Conferenza europea dei ministri dei trasporti (CEMT), in collaborazione del resto con l’organizzazione mondiale del turismo e dell’automobile (OTA). Non si è trattato finora dell’elaborazione di un vero e proprio codice europeo della circolazione ma della ricerca di un accordo su determinati principi da inserire poi nelle legislazioni dei singoli Stati. Riuniti a Parigi il 3 aprile 1962 i ministri di Germania, Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Svezia e Svizzera hanno approvato un documento suddiviso in 21 capitoli enunciante una serie di principi in materia di circolazione e si sono impegnati ad agire affinché detti principi siano il più presto possibile inseriti nella loro legislazione nazionale. Queste raccomandazioni hanno servito nell’elaborazione dell’ordinanza sulle norme della circolazione stradale, la più importante ordinanza d’esecuzione della nuova legge federale, adottata nel novembre dello scorso anno (Si legge a questo riguardo nel rapporto 10 luglio 1963 della delegazione svizzera alla conferenza europea dei ministri dei trasporti: «Bei der Ausarbeitung der Verordnung über die Strassenverkehrsregeln vom 13. November 1962 (VRV) haben die schweizerischen Behörden den auf internationaler Ebene festgelegten Grundsätzen, mit einigen wenigen Ausnahmen, die später noch berücksichtigt werden sollen, Rechnung getragen. Nachdem die VRV zusammen mit dem neuen Strassenverkehrsgesetz auf den 1. Januar 1963 in Kraft getreten ist, hat die Schweiz die Empfehlungen der Ministerkonferenz der CEMT, die festgelegten Grundsätze in die nationale Gesetzgebung einzubauen, praktisch bereils verwirklicht»).

Una seconda serie di raccomandazioni in nove capitoli è stata adottata in


una successiva conferenza svoltasi essa pure a Parigi il 5 aprile 1963, con la partecipazione dei rappresentanti di 13 nazioni, essendosi aggiunti i delegati di Gran Bretagna e Spagna. Inoltre i ministri competenti di Grecia e Turchia hanno dichiarato di accettare senza riserve i principi così stabiliti. La conferenza ha dato mandato agli esperti di intraprendere lo studio degli oggetti non ancora regolati, dedicando particolare attenzione agli studi per una segnaletica uniforme. Gli esperti dovranno inoltre far rapporto sull’opportunità di dare alle decisioni prese la forma di uno strumento giuridico e sulle modalità di un tale strumento. Questi risultati non devono affatto essere ignorati, ma non possono far dimenticare che l’obiettivo fondamentale cui devono tendere gli sforzi in questa materia è l’unificazione del diritto della circolazione attraverso un codice internazionale. Dev’essere questo il proposito di tutti quanti hanno a cuore un disciplinamento efficace della circolazione che tenga conto delle esigenze essenziali: sicurezza in primo luogo, ordine, fluidità. La meta purtroppo appare ancora lontana, gli ostacoli sono innumerevoli. Ma il potenziamento delle organizzazioni internazionali, il miglioramento delle relazioni, l’aumento degli scambi, il formarsi di una più aperta coscienza pubblica sono altrettanti fattori di progresso. Dicembre 1963


Basilio M. Biucchi Le strade nell’economia e nelle finanze del Canton Ticino (Le strade: storia e gloria del nostro paese) Le strade, o meglio il confluire delle grandi vie delle genti sulle nostre terre, hanno segnato il destino e le avventure, i tempi felici e le lunghe epoche tristi e grigie della nostra storia politica; dal punto di vista più ristretto dell’economia e delle finanze pubbliche è ancora il problema stradale che sovrasta di gran lunga tutti gli altri aspetti, come costante storica determinante dello sviluppo economico del nostro paese. Oggi siamo soliti a classificare le strade fra le «infrastrutture» dell’economia, per indicare il settore e la funzione intermedi, fra gli operatori economici privati e lo Stato, che riassume e incorpora globalmente il cerchio perenne della produzione e del consumo. Per il Canton Ticino le strade appartengono alle strutture vitali e fondamentali dell’economia: ne costituiscono l’essenza, la condizione preliminare e predominante di tutte le nostre attività economiche. Se non fossero le strade ragion di vita e di speranza di ciascuno e di tutti, non si spiegherebbe nemmeno l’estrema sensibilità, con la quale, nel corso dei secoli e nell’avvicendarsi degli eventi, delle istituzioni e dei partiti politici, il problema stradale è stato sentito ed anche risolto. Sentito e risolto come res publica, ragion d’essere comune, con un operare e cooperare non inglorioso di governanti e governati. Gli statuti medievali che regolano i trasporti nelle alte valli sono nel loro genere un modello mirabile di sensibilità giuridica ed economica: la ragion privata e la ragion pubblica, l’interesse individuale e l’interesse comunitario si incontrano e si fondono armonicamente, a creare un’istituto nel contempo stabile ed elastico, che protegge gli interessi dei singoli, ma anche della comunità, con vincoli corporativistici e monopolistici, temperati però sempre da un senso superiore del bene comune. I migliori uomini politici, dagli antichi reggenti e podestà o consoli ai consiglieri di Stato del Ticino diventato repubblica autonoma e confederata, hanno legato il loro nome e parte della loro fama alle opere stradali e nemmeno le passioni e le polemiche politiche di parte riescono a cancellarne il ricordo ed i meriti. Come accadde a Giovan Battista Quadri, alzato sugli altari e poi vituperato, proprio per la sua politica stradale, ma al quale poi serenamente il suo antagonista, Stefano Franscini, non può misconoscere la grandezza di idee e di opere per il San Gottardo.


(Il binomio strada-economia) Che la vita e lo sviluppo economico del nostro paese si identificano e coincidono con le vicende e gli sviluppi delle nostre strade, è una constatazione o evidenza che possiamo ritrovare risalendo fino ai primordi e alle antiche origini della storia e memoria delle nostre terre, Bellinzona, terza nel rango delle porte e stazioni doganali del regno carolingoLongobardo, dopo Susa nel Piemonte e Bard in Val d’Aosta, seguita da Chiavenna e da altri valichi secondari dello spazio italico, già nel decimo e undecimo secolo vive dei dazi e pedaggi di un traffico e transito che avrà poi un costante sviluppo: bestiame, tessuti, metalli ed armi (nel 1882 il primo treno merci che attraversa la nuova galleria sarà un carico d’armi, dalla Germania al Piemonte!). Nella gloriosa e per le nostre terre materialmente e culturalmente ricca epoca comunale, sono ancora il grano, il sale, i vini, i tessuti, il bestiame, la legna e le armi, che ravvivano la scarsa e scarna documentazione della nostra storia economica, negli accenni statutari, nelle cronache, negli atti e nei patti delle nostre comunità cittadine e rurali. Non è, spero, profanazione delle consacrate tavole interpretative della nostra storia, affermare che il Ticino è diventato svizzero, perché forti e tangibili ragioni e interessi economici spinsero, nel Trecento e nel Quattrocento, le leghe dei primi Cantoni confederati, specialmente di quelli attorno al San Gottardo, ad assicurarsi il possesso, la protezione strategica e giuridica, delle vie, dei valichi, delle fortezze e delle terre subalpine ticinesi, attraverso le quali passava e si alimentava il flusso di beni importati ed esportati dai Quattro, dai Sette e poi dai Tredici cantoni confederati. Il miracolo economico e il segreto della potenza economica svizzera risalgono ad un sistema e ad una rete di comunicazioni stradali dell’epoca romana, risorgenti nel periodo monacense (la topografia dei conventi e delle antiche abbazie clunacensi non coincide forse con quella delle antichissime e moderne arterie stradali?). Ma la vera e propria potenza economica svizzera nasce nel Quattrocento da una saggia e lungimirante decisione delle Leghe confederate: rinunciare alla politica di potenza militare e di espansione territoriale, per «vivere e lavorare in pace», secondo l’esortazione di Nicolao della Flüe, sostituendo al mercimonio del sangue umano traffico pacifico e redditizio di merci. Tutte le idealizzazioni e prefigurazioni dei manuali di storia patria e dei discorsi del Primo Agosto sono gratuite e decorative, in quanto ignorano o vogliono sopprimere una realtà, che poi sempre riaffiora nel quadro di una convivenza politica federativa, nella quale, non più baliaggio o soggetto, il nostro Cantone si trova sempre di fronte alle identiche convergenze e divergenze di interessi


economici. Riconoscere questi interessi e conflitti di interessi, nella loro cruda realtà, significa, mi pare, ricomporli e risolverli nel quadro degli ideali comuni, come toccherebbe alla politica, cantonale e federale. Dal 1300 innanzi, appena sorto il primo nucleo confederato, lega a carattere e scopo nettamente gottardista, i Cantoni elvetici mirano sistematicamente e tenacemente ad assicurarsi la porta dei traffici verso sud e ad ottenere privilegi di dazi e pedaggi. Già nel 1336 Lucerna, Uri, Orsera, Unterwaldo e Svitto ottengono l’esenzione del pedagium comitis Vernovensis (Eidg, Abschiede, 1 p.19.) percepito a Como e a Bellinzona. Negli Eidgenössische Abschiede si trova ad ogni piè sospinto la dimostrazione della identità fra politica economica e politica stradale dei Cantoni svizzeri. E si legge anche, fra le righe di quei documenti, la gelosa cura, degli enti pubblici e della popolazione, di conservare e perfezionare l’asse dei traffici e transiti che passa attraverso il San Gottardo e le terre ticinesi. Nel 1407, nel patto con i de Saxo di Mesocco, si stabilisce tassativamente l’obbligo di «tener ponti e strade in onore» («Steg und Weg in Ehren halten» (Ibidem, Pag. 120)). Nel 1419 le comunità di Uri e Obwalden offrono ai de Saxo 2’400 fiorini renani per «comperare» Bellinzona, fortezza militare e piazza doganale (Ibidem). Nel 1419 un carico di balle di lana è fermo a Lucerna, Lucerna e Uri intervengono sollecitamente, per ottenere a quelle merci giacenti il passo attraverso il San Gottardo, temendo la concorrenza di altri passi e transiti («damit die Strassen uns nicht abgeworffen werden») (Abschiede, 3, l pag. 37).

Le strade, specialmente i valichi alpini, caratterizzano, fin dalle lontane origini delle nostre terre, l’economia di una regione e ne determinano le attività: dal commercio di transito, al turismo o industria forestiera (dalle locande medievali ai camping di oggi), dai molteplici servizi (trasporti, credito, ecc.) alle attività artigianali (riparazioni, officine di fabbri e maniscalchi). Le funzioni intermediarie, di importazione e riesportazione di sale, vino, grani, bestiame e legna appaiono quasi sempre, nel lungo corso dei secoli, predominanti. Che l’industria tessile serica sorga ed emigri poi, e che più tardi né l’industria della lana, del cotone, né altre industrie, pesanti, non riescano a gettare profonde radici, sono fatti da ricollegare e spiegare in un contesto di ragioni, dove il fattore strada e comunicazioni evidentemente non è la sola determinante. Ma ciò non toglie nulla al fatto storicamente fondamentale che sempre, per il Ticino, il problema economico si identifica col problema delle vie di comunicazione. La strada è in funzione dell’economia e le attività economiche sorgono e si


sviluppano, fioriscono o decadono sempre in connessione con l’intensificarsi e perfezionarsi delle strade, delle vie fluviali e ferroviarie. (Il binomio Strada-finanza pubblica) L’interesse pubblico e generale delle strade si traduce fatalmente in spesa pubblica. Il binomio strada-economia diventa un binomio strada-spesa pubblica, Tener le strade in «alto onore» diventa onere tanto più grave quanto più piccole e relativamente povere sono le comunità, che debbono provvedere alla costruzione e al mantenimento delle strade, e quanto più vasta, impervia e molteplice è la rete delle nostre comunicazioni: dai valichi alpini alla pianura di Magadino, dove la strada si inerpica ancora sul Monte Ceneri e dove il fiume e il lago offrono solo apparentemente uno sbocco più ampio, facile e lontano alle some che cavalli, uomini e carri hanno trasportato dai passi del Lucomagno, del San Bernardino e del San Gottardo. Fin che Bellinzona e le altre terre ticinesi rimangono il primo baluardo di difesa dei Duchi italici, l’interesse militare e le molteplici possibilità di dazi e pedaggi, da percepire ad un punto obbligato di entrata giurisdizionale, fanno risolvere assai agevolmente l’onere della spesa stradale. Ma appena i traffici e transiti dei Cantoni elvetici ottengono dai Duchi di Milano il privilegio dell’esenzione daziale, e tanto più quando, perduti i possedimenti subalpini, la spesa stradale tende a gravare interamente ed esclusivamente sulle piccole e povere comunità, baliaggi svizzeri per tre secoli, durante i quali lo spazio e l’economia mediterranei decadono, l’onere della spesa stradale sembra sopraffare e soffocare i pochi o meno evidenti vantaggi economici. E la spesa stradale sarà il primo grande dilemma del Ticino, diventato indipendente e autonomo. Dal 1803 al 1848 la politica ticinese della spesa stradale, con estrema arditezza di opere e di finanziamento, fa ricorso essenzialmente al debito pubblico e può contare sugli introiti dei dazi e pedaggi. Infatti dal 1803 al 1815 il 70% circa delle entrate cantonali è costituito dai dazi e pedaggi e la spesa stradale ne assorbe circa il 40%. Nel 1829 gli introiti daziari sono di 528’313 lire, le spese per costruzioni dello stesso anno raggiungono le 565’000 lire, ma gli interessi del debito pubblico sommano già a quasi 200’000 lire. Nel 1845 a 641’567 lire di entrate daziarie (metà della somma totale di bilancio) corrispondono uscite, alle costruzioni, per 704’000 lire. Spesso sono le catastrofi naturali, che vengono a distruggere opere recenti e costose, come accadde al ponte di Montecarasso magnificato «totius Lombardiae pulcherrimus», nelle cronache del tempo, costruito dai Duchi di Milano nel Quattrocento e sommerso e travolto, con tutto il sistema idroviario di allora, dalla famosa Buzza di Biasca.


La spesa stradale, per le comunicazioni essenziali, è così gravosa che spesso altri arditi e antichissimi progetti - il collegamento con l’Adriatico, la Greina, un collegamento col Lago di Como attraverso la Val Morobbia, quello col Vallese attraverso la Vallemaggia e altri ancora - rimangono speranze e illusioni, non utopiche, perché le idee ed i progetti risorgono e urgono tuttora, come soluzioni attuali ed impellenti del problema delle comunicazioni e dei trasporti. Ma l’ardimento delle idee e delle opere riesce anche spesso a concretarsi, lasciando nella storia delle strade testimonianze del genio civile del Ticino: la diga di Melide, la strada del San Gottardo dell’ing. Meschini, il traforo di Stalvedro e della Schöllenen. Se è pacifico che le strade sono res publica e di interesse economico generale, ticinese ed elvetico, contrastato e spesso contestato è l’obbligo a provvedervi. E in questo conflitto di oneri e di competenze, purtroppo, è quasi sempre il Ticino, politicamente debole, che soggiace, soprattutto quando alla spesa stradale vengono a mancare i cespiti d’entrata propri. E quando il nostro Cantone esce dalla soggezione di baliaggio, la ripartizione della spesa stradale fra i diversi utenti (nel senso di economie che ne usufruiscono), solo dopo un secolo e mezzo si avvicinerà ad un criterio di equità e di vera giustizia distributiva. Ma nel frattempo, come vedremo subito, l’onere della strada si è accumulato, per il Ticino, in un debito pubblico ingente e gravoso. (Il Ticino pioniere della rete stradale svizzera) Il Ticino, con altri Cantoni periferici, ha fatto opera da pioniere nello sviluppo della rete stradale svizzera. Il nostro Cantone, entrato nella Confederazione poverissimo economicamente, senza patrimonio e tesoro pubblici accumulati invece dagli altri Cantoni grazie alle capitolazioni militari contribuì immediatamente e con tenacia e sacrifici straordinari alla «unificazione economica svizzera», offrendo allo sviluppo dell’economia svizzera un sistema stradale e di comunicazioni, inteso come primo compito della conquistata autonomia politica. Se il nostro Cantone si fosse limitato, come era suo stretto obbligo, ad investire nella spesa stradale solo una parte degli introiti per dazi e pedaggi, i Cantoni confederati avrebbero dovuto attendere a lungo la soluzione del problema delle comunicazioni transalpine. E invece con un ardimento e una spregiudicatezza quasi sbalorditivi i primi reggenti politici del nostro Cantone affrontano un vasto e sistematico piano di costruzioni di strade e di ponti. Il problema del finanziamento, che poteva parere insolubile, è risolto, in un primo tempo, poiché le casse cantonali erano letteralmente vuote, appaltando i dazi, e poi, contro tutti i canoni dei benpensanti amministratori di quei tempi,


iniziando una vera e propria politica di sbilancio o di indebitamento sistematico, a favore delle opere stradali. Oggi, i teorici della nuova finanza pubblica, più non paventano, anzi in certe situazioni economiche di depressione, postulano il deficit spending sistematico. Ma quale altra amministrazione pubblica cantonale avrebbe osato tanto, pagando poi di persona, sul terreno politico, quando l’onere finanziario appare, soprattutto agli occhi degli avversari di partito, insopportabile? Ad onor del vero, nell’altalenarsi dei due partiti storici al governo, a parte le accese ed effimere polemiche pre-elettorali, coscienza e responsabilità della politica stradale non mutano. Il Governo uscito dalla rivoluzione e nuova costituzione del 1830 («il primo grande amore» del popolo ticinese), memore delle asperrime critiche al Landamanno Quadri e all’ing. Meschini, fa proponimenti di moderazione. Ma poi gli inconvenienti di una politica parsimoniosa si fanno palesi e nel 1840 il Governo emana una legge (un programma decennale di costruzioni stradali) e lo giustifica affermando nel messaggio: «Il commercio e l’industria, tanto interni che esterni, come anche l’agricoltura, altamente reclamano che il nostro sistema stradale sia completo» (Prima raccolta generale delle leggi e decreti, vol. III, pag. 192). Alla vigilia della Costituzione federale del 1848, cioè di una unificazione economica e politica che veniva a togliere al nostro Cantone i dazi e pedaggi - spina dorsale della sua finanza pubblica - il Ticino con circa 300 km di strade è alla testa di tutti gli altri Cantoni, come ampiezza di rete stradale. I tronchi cantonali di collegamento fra città e valli sono compiuti. Il valico del San Gottardo è dotato di una via di comunicazione, costruita fra il 1827 e il 1830 dal Landamanno Quadri (opera dell’ing. Meschini che Stefano Franscini stesso dovette riconoscere costruttore insostituibile ed impareggiabile), con la spesa, favolosa per i tempi e per il nostro bilancio statale, di un milione e 650 mila lire (la somma totale di bilancio, per il 1830 era di circa un milione!). Naturalmente nel frattempo il debito pubblico e il suo onere per interessi sono ingigantiti. Nel 1830 il debito pubblico ha già varcato i 5 milioni di lire. Nel 1848 è salito a 7'344’366 franchi. Nessun altro Cantone aveva a quell’epoca, od era insignificante, un vero e proprio debito pubblico consolidato. Quello della Confederazione stessa farà la sua apparizione alla vigilia della prima guerra mondiale. Questa nostra politica del deficit spending ante litteram dal punto di vista economico generale e della creazione di redditi individuali è stata sicuramente positiva per lo sviluppo economico. Ma dal punto di vista finanziario essa grava come una cappa di piombo sulle finanze cantonali e crea dilemmi o scelte veramente cruciali. Giustamente Eligio Pometta, in


un suo bel libretto dimenticato sui «Moti di libertà nelle terre ticinesi», osservava che «gli avi nostri, nel 1803, posti dinnanzi al dilemma se prima creare le scuole o le strade, dopo ponderata riflessione si decisero per quest’ultime e costruirono innanzitutto, a prezzo di incredibili sacrifici, la strada maestra del Canton Ticino», La scelta e la priorità della spesa stradale impongono sacrifici e rinunce ad altre spese, pure indispensabili, la quota per ammortamenti ed interessi del debito pubblico arriva in certi anni di bilancio (nel 1833) ad assorbire quasi la metà delle entrate. Riconoscere alla spesa pubblica, particolarmente a quella di investimento nelle strade, un suo benefico effetto economico ed affermare che essa ha contribuito largamente, creando redditi e creando soprattutto le basi di alcune attività economiche fondamentali nella nostra economia, come il turismo ed i trasporti, non deve significare, però, ignoranza o dimenticanza dei problemi e dei conflitti che sorgono, per lo sviluppo economico di un paese, dal giro vizioso, fra finanze oberate, pressione fiscale e produttività economica, quando si varcano certi limiti di sopportabilità fiscale. Non è esagerato affermare che la storia della nostra finanza pubblica e della nostra economia, in un secolo e mezzo di autonomia cantonale, si muovono un po’ entro questo giro vizioso. Le «Semplici verità ai Ticinesi», di Stefano Franscini hanno indicato, con estrema lucidità e modernità di analisi economico-finanziaria, questo problema della nostra politica. Nemmeno gli anni dell’abbondanza che viviamo o l’illusione, basata su dati formali transeunti, di essere assurti, nel rango dei Cantoni a potenza finanziaria «media», possono farci chiudere gli occhi di fronte alla realtà di una finanza gonfiata soprattutto da fattori di congiuntura. Rendiamoci conto, noi e Berna, di essere, tutt’al più, «halbstark», con tutti gli inconvenienti che può avere questa forza che ci deriva da una pubertà economica e finanziaria, che non è ancora né maggiore età né equilibrio fisiologico. (I sussidi federali per le strade) Il giro vizioso «finanze oberate-economia debole» entro il quale ancora oggi si muove la nostra finanza e la nostra economia trova indubbiamente le sue origini nella spesa stradale che il Cantone ha dovuto sopportare da più di un secolo e risale, in modo particolare al periodo 1848-1924, durante il quale la costituzione e la politica federale solo lentamente c faticosamente prendono coscienza di quel fatto, pur già riconosciuto, rispetto ad Uri, dalla Dieta del 1480, che le strade ed i passi alpini del


Ticino «servono a tutti» («da doch die Strassen zu unser aller Gebrauch sind»). Nel 1848 il Ticino perde, come già ho rilevato, la sua fonte tributaria principale, i dazi, e non ha pronto un sistema o una legge di tassazione diretta per sostituirla, La costituzione del 1848 dal punto di vista, economico è un atto di unificazione od integrazione di 23 economie cantonali. Ma in questo atto e processo di integrazione il Canton Ticino veniva fatalmente a far la figura e la fine dei vasi di terracotta viaggianti in compagnia dei vasi di ferro, tanto più che l’isolamento geografico e geofisico e il protezionismo doganale della vicina Italia lo tagliavano fuori quasi totalmente da una sua possibile partecipazione - avendo già tre secoli di ritardo sulla evoluzione dell’economia confederata - allo sviluppo economico di oltre San Gottardo. Non è qui il caso di soffermarci a considerare i lati positivi e negativi, per farne un bilancio, di questa unificazione economica, operata con la Costituzione del 1848. Limitiamoci ad una spassionata analisi del fatto finanziario. La gravità del problema venne compresa esattamente dagli uomini politici di allora. Alle Camere la deputazione ticinese, condotta dall’avv. Jauch, nella seduta del 27 giugno 1848, chiedeva; in caso di incorporamento dei dazi, il «pieno risarcimento»: «C’est dans le refus d’une indemnité vraie, équitable et égale, que vous devez rechercher les motifs de la conduite actuelle du Tessin». Nel dibattito granconsigliare a Bellinzona cadono parole amare: «Le migliori risorse ci vengono rapite da questo patto». Si parla di un «olocausto di nude speranze». Stefano Franscini, favorevole alla Costituzione, ammetteva pubblicamente che «Il Ticino non fu troppo bene indennizzato e non si ebbe nessun riguardo alla sua condizione speciale» (Atti del Gran Consiglio, sessione straordinaria 1848, pag. 39 e pag. 67).

Le ripercussioni sul Bilancio dello Stato del Cantone Ticino apparirono a prima vista non allarmanti né inique, perché l’indennità fissa federale (380’000 lire), più i diritti di consumo lasciati al Ticino (209’000 lire), più l’elemosina (è il caso di dirlo) accordata per la strada jemale del San Gottardo (21’000 lire) compensano la media degli introiti effettivi del Cantone dal 1845 al 1850 e sono superiori agli incassi effettivi di quegli anni delle dogane federali nel circondario ticinese. Ma il Franscini stesso non intravvedeva l’insidia di questa indennità fissa e statica, calcolata in base ad anni di crisi e depressione economica, come furono quelli attorno al 1848, Alla luce del travolgente sviluppo economico e finanziario, che prende inizio dopo il ‘70 per continuare quasi ininterrottamente fino al 1913, l’indennità fissa versata alle finanze cantonali si svaluta e


rimpicciolisce e non può certamente risolvere i problemi delle finanze ticinesi. Si ricorre, in un primo tempo, all’espediente delle espropriazioni dei beni delle corporazioni religiose, che fruttano al bilancio cantonale circa 5 milioni e 200 mila lire. Nel frattempo si prepara l’introduzione della imposta diretta. Ma il dissesto finanziario del Cantone diventa inevitabile e suscita le appassionate perorazioni delle «Semplici verità ai Ticinesi sulle finanze e altri oggetti di bene pubblico» di Stefano Franscini, per una «sincera conciliazione» per un embrassons-nous dei due partiti nemici. (Ma l’altalena continua e al rovesciamento del regime conservatore dei landamanni e al periodo liberale seguirà poi, dopo il 1855, un nuovo regime respiniano, e non è errato intravvedere, in questi mutamenti, oltre le ragioni ideali ed ideologiche, il motivo finanziario e tributario, come movente della nostra storia politica.) Nel periodo dal 1848 al 1874 sarà ancora la spesa stradale a gravare in modo determinante sulle finanze pubbliche ticinesi. Il 20,70% della spesa pubblica totale è assorbito dalle costruzioni (ma si deve tener conto anche del 16,66% assorbito dal servizio del debito pubblico). Per la scuola nel medesimo periodo il Cantone può spendere solo il 7,5%. La «strada maestra», secondo il decreto per la strada cantonale del 1804, era stata compiuta nella prima metà del secolo. È aperto, pure dal 1831, il San Gottardo, con una via, per allora, moderna e ardita. Nel 1848 si è collaudato il ponte-diga di Melide e si è aperta la strada del San Bernardino. Nel periodo dal 1848 al 1874 si trattava di aprire le «strade circolari» o distrettuali, per legge a carico dei comuni, ma che poi lo Stato, giustamente, sovvenziona sempre più. È interessante segnalare come la politica e la spesa stradale, con una intuizione moderna, siano considerate nella loro funzione economica: «Procurare comunicazioni comode e convenienti alle località che ne difettano e alleviare le conseguenze del blocco austriaco e dell’eccessivo caro dei cereali, procurando lavoro e mezzi di guadagno alla popolazione povera del Cantone» (Conto Reso del C.S., 1854, pago 163). La spesa complessiva totale dal 1848 al 1874 può sembrare relativamente esigua: circa due milioni e mezzo di spesa, di cui circa 850’000 a carico del Cantone (il resto a carico dei comuni). Sussidi federali, in questi venticinque anni ne entrano pochissimi: solo 142’571 franchi. Il Cantone in questo periodo è devastato ripetutamente dalle alluvioni (nel 1869 nel 1872 c nel 1874). Ma lo sviluppo economico e il progresso tecnico già fanno chiaramente capire, nei bilanci del 1873 e 1874, come la spesa stradale torni necessariamente a predominare (nel 1874 sono nuovamente 666’700 franchi di spese di costruzione, un terzo circa delle entrate tributarie totali).


Il Cantone si prepara ad aprire il Lucomagno e le Centovalli. E non dimentichiamo che nel contempo si affaccia il problema delle comunicazioni ferroviarie. Per la costruzione della ferrovia del San Gottardo sarà ancora il nostro Cantone, non solo a far opera di pioniere, ma altresì ad offrire la sovvenzione maggiore a fondo perso. Sui 20 milioni della quota svizzera, il Ticino ne sottoscrive immediatamente 3 milioni (segue Zurigo, con un milione e mezzo, Berna, Lucerna, Svitto e Uri e Argovia con un milione ciascuno. Basilea con 1'200'000 franchi) e deve coprirli con un prestito ferroviario, così che nel 1874 il debito pubblico raggiunge già la cospicua somma di 7 milioni e 250 franchi. La Costituzione federale del 1848 non prevedeva sussidi stradali ai Cantoni. Però motivi particolari, specialmente militari, permettono a Berna di sussidiare largamente opere stradali di altri Cantoni. Per la strada del Gran San Bernardo nel 1854 la Confederazione si dichiarò disposta a versare una sovvenzione di 200’000 franchi, Per la strada del Brünig (1856) la Confederazione versò 400’000 franchi di sussidio. Per la strada del Furka (1860) 1'200’000 franchi, Sussidi analoghi sono versati per l’Oberalp, per l’Axenstrasse, per il Bernina, per il Grimsel. I sussidi quasi sempre son versati prendendo ragione o pretesto da interessi militari. Ma la ragion militare vien negata al Ticino, per le Centovalli e per il Lucomagno. Sono accordati al Ticino 133’000 franchi per il Lucomagno - è la sovvenzione maggiore concessa in lunghi anni pari però ad un settimo della spesa, mentre rispetto al sovvenzionamento delle altre strade alpine dei Cantoni confederati si supera spesso il 50% della spesa (e a proposito delle spese militari Stefano Franscini scriverà di una «monomania» della politica federale!; e amaramente, in una sua lettera a Severino Guscetti osserva: «Dopo il fiasco riguardante il sussidio stradale chiesto dalle terre montanine del mio circolo, è pur sopraggiunto quello per la strada di Bedretto. È superfluo entrare in discussione sul più o sul meno di utilità che ci si potrebbe ripromettere da tale o tal altra opera. Nel Consiglio federale una maggioranza compatta è ormai d’avviso che già si è fatto troppo per sussidi a favore della popolazione ticinese» (Epistolario. Pag. 436). (Le sovvenzioni per le strade alpine) Con la revisione della Costituzione federale del 1874, all’art. 30 e all’art. 37, si introduce il principio delle sovvenzioni speciali per le strade alpine. Ma già fa capolino, in quell’articolo, una clausola capziosa, che viene a porre in termini di concorrenza - meglio di monopolio - i rapporti fra strada e ferrovia del San Gottardo: «I Cantoni di Uri e del Ticino ricevono un’annua indennità di 40’000 franchi, per la rottura delle nevi sul San


Gottardo, e ciò sino a tanto che alla strada di quel passo alpino non sia stata sostituita una via ferrata». Infatti appena la ferrovia inizia il suo esercizio la sovvenzione invernale - di 26’630 franchi! - viene soppressa. Concessa, in base all’art. 30 della Costituzione, l’indennità speciale di franchi duecentomila a favore delle strade alpine, la Confederazione pensa evidentemente, come già annotava il Franscini per gli altri sussidi, di aver fatto fin troppo. Nel complesso della spesa stradale a partire da quell’anno la somma delle sovvenzioni diventa irrisoria. Come al tempo dei Landfogti la Confederazione, che si serve delle strade per le poste, diventa esigentissima, quasi arrogante, come i sindacatori di un tempo. Negli anni 1880-85 il Dipartimento federale delle poste minaccia ripetutamente il Governo ticinese di far sospendere il versamento dell’indennità perché la manutenzione della strada sul tratto di Biasca lascia a desiderare. Saranno le prime e le seconde Rivendicazioni ticinesi a sollevare il problema nei loro memoriali del 1924 e del 1938. Già nel 1872, discutendosi la revisione e l’applicazione dell’art. 30, la deputazione ticinese alle Camere si era associata alla dichiarazione del deputato di Uri on. Arnold, il quale osservava giustamente che le «indennità erano evidentemente troppo piccole e bastavano appena a pagare gli interessi del capitale investito per la manutenzione, estremamente costosa di quelle strade alpine».


Fig. 17. Tra i maggiori motociclisti ticinesi del primo dopoguerra spicca Alfredo Carmine di Bellinzona, che perirà tragicamente. Qui, vincitore di tutte le categorie, alla ThunHeiligenschwendi, il l° luglio 1923


Fig. 18. Ricordo di una Olivone-Acquacalda motociclistica, vinta da Alfredo Carmine

Fig. 19. La «Quattro-ruote» - Qui una «Bugatti» - seduce ormai Alfredo Carmine, La foto lo ritrae a Bellinzona, davanti alle «Scuole sud»


Fig. 20. Tra le più appassionanti gare automobilistiche d’un tempo, quella del Monte Ceneri: qui ghiaia e polvere sulla via di un «bolide» scatenato, nel 1926

Il Ticino, nel suo slancio e sacrificio per le strade alpine, faceva notare il primo memoriale sulle Rivendicazioni, aveva speso più di sette milioni e mezzo di franchi fino al 1874. Nel 1920-22 il costo annuo di manutenzione si aggirava su di un milione e centomila franchi. Nel 1927, con effetto retroattivo al 10 gennaio 1925, a tutti i Cantoni alpini vien aumentato il sussidio straordinario, per il nostro Cantone a 400 mila franchi. E questa somma vien fatta apparire come una grande «condiscendenza verso il Ticino» e come un limite massimo, rivolgendo al Ticino il facile e farisaico monito di «fare ulteriori sforzi per pareggiare il suo bilancio». La delegazione del Governo, che discute questo «favore eccezionale», ben sapeva gli oneri stradali ticinesi, e non appare entusiasta, ma la si consola, menando il can per l’aia, promettendo «altre compensazioni, in altri campi». La sorte toccata a qualcuno di questi altri «campi», per es., la scuola o le tariffe ferroviarie, è nota. (Continua cecità nei confronti del Ticino) Sono ancora le Nuove rivendicazioni (1938) a porre sul terreno politico federale l’insoluto problema dell’isolamento del Ticino e a sollevare con estrema chiarezza il problema del San Gottardo, da aprire tutto l’anno.


Innanzitutto si cerca giustamente di presentare il problema dei valichi ticinesi nel suo complesso: San Gottardo, Lucomagno, Centovalli, Gambarogno, San Giacomo. Per la prima volta un Governo cantonale rende attenta la Confederazione sul pericolo che sovrasta il San Gottardo: «Il San Gottardo, a malgrado del suo primato nei secoli, sta per essere minacciato da altri valichi: siano essi il Brennero, la galleria sotto il Monte Bianco o altri». Il Ticino ha bisogno di «un valico effettivo, anche durante la stagione invernale», perché all’era tecnica nostra è assurdo che il passo rimanga chiuso sette mesi all’anno. E il Governo ticinese fa allestire un progetto di massima per un traforo stradale, Airolo-Göschenen. Ci vollero vent’anni prima di ottenere, su terreno federale, il riconoscimento di questo postulato ticinese. Non è recentissima ancora l’idea della «rolllende Strasse»), ultima fisima della paura delle FFS di perdere il loro monopolio di fatto? È bene ricordare queste estreme incomprensioni della politica federale, tenaci e sempre all’agguato (pensiamo alla Greina o all’idrovia Locarno-Venezia!), anche per rilevare come sia fragile la serietà o sicumera tecnica vantate dai nostri cari confederati. Nel 1939 l’Alto Ispettorato federale delle costruzioni respinge sdegnosamente, come assurda, l’idea della galleria stradale AiroloGöschenen ed arriva ad ammettere, come estrema ipotesi, una galleria di 34 km al valico. Nelle decisioni finali sulle nostre Nuove rivendicazioni, nel 1943, si respingono categoricamente le sovvenzioni chieste per Gambarogno e per il San Giacomo, naturalmente per ragioni «strategicomilitari» da applicare, per il Ticino, alla rovescia, sottendendo, forse, che in caso bellico le terre ticinesi, dovranno essere abbandonate al loro destino o difese solo sul baluardo alpino. Nel frattempo, era stata costruita la strada del Susten, sussidiata al 80-90%. Fino all’ingresso delle nostre terre nella comunità elvetica come baliaggi, alla fine del Quattrocento, il problema della spesa stradale trova, pur essendo già allora fra le preoccupazioni più assillanti dei comuni, una sua naturale e relativamente facile soluzione, per la coincidenza con l’interesse e la spesa militare - dei Duchi di Milano e per l’esistenza di dazi, pedaggi e contributi, imposti e destinati alla strada. La condizione di baliaggio pone le nostre terre in una situazione difficilissima, per due ragioni: cadono, per i privilegi acquisiti dagli Svizzeri, i dazi veri e propri, per il transito delle merci e per l’esportazione verso l’Italia, ed i Cantoni confederati diventano esigentissimi in materia di manutenzione stradale, caricandone tutta la spesa sulle comunità soggette. Anche qui gli Abschiede offrono una larga documentazione di questa


dolorosa storia, di lagnanze elvetiche per lo stato delle strade e di lamentele dei nostri comuni per l’impossibilità materiale di assumerne il gravame finanziario. È uno dei molteplici aspetti che appartiene al capitolo triste dei nostri tre secoli di sudditanza. Ed è tanto più triste, questa estrema esigenza confederata, quanto più si constata come Uri, per esempio, riesca sempre abilmente ad ottenere dalle Diete una compensazione straordinaria per le sue spese stradali. Nel 1480, per es., i delegati urani ottengono dalla Dieta un contributo «per la ricostruzione della strada del San Gottardo rovinata». E il contributo è concesso senza discussione dalla Dieta «da doch die Strassen zu unser aller Gebrauch sind» (Abschiede, 3.1 pag. 81). Uri otterrà un secolo dopo dalla Dieta il permesso di rialzare i dazi per coprire le gravose spese stradali (Ibidem, 6.1 pag. 424). Negli stessi secoli i comuni ticinesi si trovano costantemente di fronte a difficoltà e quasi all’impossibilità di finanziare la spesa stradale. Contone, con gli altri piccoli e poveri comuni del Ceneri chiede alla Dieta di chiamare Lugano a contribuire alla manutenzione della «strada francesca» sul Ceneri. Severissimi ed esigenti sono invece i sindacatori elvetici, se appena le riparazioni stradali lasciano a desiderare. Rampogne severe negli Abschiede e mezzi coercitivi efficacissimi: i delegati elvetici o sindacatori straordinari rimarranno nel Ticino, a spese della comunità, fino a che il comune incriminato non provvederà alle riparazioni (Ibidem, 6. 2 pag. 2150). Il tema della «perequazione finanziaria» non è dunque nuovo nella convivenza confederata elvetica. Il federalismo, malinteso, può giuocare alla rovescia, se il problema viene posto, formalmente, solo sul piano delle competenze e della giurisdizione territoriale. Ma tutta la storia e tutto lo sviluppo delle comunicazioni e dei trasporti attraverso il nostro Cantone ci dimostrano che il problema stradale del Ticino è un problema politico ed economico svizzero e che la spesa stradale può trovare una sua equa ripartizione solo se si tien conto di questi aspetti generali, politici ed economici. Evidentemente per ragioni militari! Analogamente nel 1891-98 era stato costruito il Klausen, con 3 milioni e mezzo di sussidi federali, cioè all’80%. Nello stesso periodo le Centovalli ricevono un sussidio del 40%. Il veto, tacito ma fattivo, delle FFS al traforo stradale riesce ad imporsi fino allo scorso anno, in sede di commissione, dove, al voto finale, brilla per la sua assenza, o per marcare il suo dissenso, il delegato particolare presso il Dipartimento federale delle Poste e Ferrovie. Se è lecito citare se stessi, mi pare che le mie osservazioni del 1958 abbiano conservato tutta la loro attualità, a malgrado dell’idea, che ha fatto breccia, della galleria


autostradale e a malgrado delle sovvenzioni, del 95% concesse alle strade nazionali di prima categoria. «Nel programma delle strade nazionali, sia in ordine di tempo che di importanza, l’asse nord-sud, cioè l’arteria vitale, tradizionale, storica, che passa per il San Gottardo, non ha la preminenza. L’asse nord-sud potrà avere tutta la sua efficienza solo se sarà data alla galleria stradale del San Gottardo la precedenza e la preminenza su qualsiasi altro progetto. Ormai sappiamo che le gallerie del Gran San Bernardo, del Sempione, presto forse dello Spluga e del Brennero, sono una realtà, mentre le FFS mantengono il loro veto, tacito, ma fattivo, ad ogni soluzione di traforo stradale, sviando il problema sul binario morto della seconda galleria ferroviaria. L’asse nord-sud potrà avere tutta la sua efficienza solo se, a lato della sistemazione del San Gottardo, si rafforzeranno le ali, cioè si procederà ad una sistemazione e ad un ampliamento del Lucomagno e del San Bernardino. Nel Ticino poi il collegamento a sud dovrà essere logicamente esteso ad un allargamento di tutti i nostri sbocchi verso la Strada del Sole e il Porto di Genova» (Perché il Cantone Ticino chiede alla Confederazione una coraggiosa politica di sviluppo stradale, in: San Gottardo strada d’Europa, NSE, 1959).

(Problemi di ieri, problemi di oggi) In questo nostro scorcio storico sulla spesa stradale in relazione all’economia e alle finanze del Cantone Ticino, gli sforzi fatti per aggiornare la rete stradale e delle altre comunicazioni allo sviluppo dell’economia e al progresso tecnico, assumono quasi il carattere di una fatica di Sisifo, perché le urgenze si rinnovellano, la spesa aumenta e mai il bilancio dello Stato ci consente una larghezza di spesa, pari ai bisogni economici del paese. Fatica di Sisifo, perché il problema strade e finanze diventa, e lo è ancora oggi, un dilemma cruciale. Sorgono ogni tanto voci di allarme, che invocano dal governo economie e bilanci equilibrati. Per le strade le economie sono impossibili. Ne fece l’esperienza il Franscini, critico acerbo del Quadri dispendioso, ma poi nelle «Semplici verità» anche il Franscini deve ricredersi. A malgrado delle economie conclamate ed sperimentate «l’esperienza non tardava a dimostrare che lo squilibrio delle finanze, anziché cessare, facevasi maggiore», Un’economia nella spesa stradale è impossibile e controproducente, è ancora il Franscini nelle «Semplici verità» che lo afferma, perché le «strade sono condizione oggimai assoluta e indispensabile di prosperità e ricchezza per la popolazione» (Semplici verità, pag. 54 e 68). Possiamo ricalcare


ed aggiornare il giudizio conclusivo: del Franscini: «Il nostro cantone possiede una rete di più di mille km di strade, tutte costruite con denaro dello Stato. Pochi cantoni posseggono di più o altrettanto. E pure, per quel che riguarda il Ticino, tutta la vasta rete di comunicazioni interne ed esterne, tutta è opera di appena un secolo e mezzo di libertà e indipendenza» (Ibidem, pag. 67). L’onere esclusivo a carico delle finanze cantonali, è durato, non dimentichiamolo, fino a poco più di un trentennio fa. Il bilancio della spesa stradale dal 1925 ad oggi, se facciamo dei confronti statistici, con altri cantoni svizzeri di montagna o di pianura, ci rivela una media generale di spesa stradale più alta di tutti. Il Canton Ticino, con 5,60 m di strada per abitante, subito dopo i Grigioni, che ne hanno 8,98 m e il Vallese (6,35 m) è fra i cantoni che hanno una rete stradale estesissima (la media generale svizzera è di 3,22 m), costosa, per la configurazione geografica e geofisica delle nostre terre. L’onere stradale diventa, per km, notevolmente più alto. Il Canton Ticino ha un indice di motorizzazione elevatissimo e già nel 1958 aveva raggiunto Zurigo (un autoveicolo ogni 9 abitanti) e una rete stradale principale che serve un traffico motorizzato internazionale in impressionante aumento. Se la rete principale costituisce l’ossatura di tutta la nostra economia (per il turismo ed i trasporti), il collegamento di essa con tutte le vallate diventa logica conseguenza, tanto più nel quadro di una politica di sviluppo delle regioni rurali e di montagna, in costante regresso demografico, e di una politica di creazione di un turismo invernale, che ancora manca al Ticino, nonostante alcune favorevolissime premesse. Il progresso tecnico e lo sviluppo economico, del nostro paese, della Confederazione e dell’Europa integrata, aggravano l’importanza, l’urgenza ma anche i problemi di finanziamento delle nostre strade e comunicazioni. Alcune cifre ce lo dimostrano, in modo impressionante: dal 1925 a1 1958 la spesa stradale per abitante sale da Fr. 7,72 a Fr. 91,57 (a Zurigo da 10,67 Fr. a 51,46 Fr. mentre la media generale svizzera nel 1957 è di Fr. 67,62). Per km di strada la spesa sale nello stesso periodo da Fr. 1’297 a Fr. 15'560. Nelle uscite totali del nostro bilancio cantonale la spesa stradale è scesa, dalle percentuali altissime del secolo scorso (50-40%) a proporzioni molto inferiori (circa il 13%): ma non dimentichiamo che nel frattempo la somma di bilancio è cresciuta da 12 milioni nel 1926 ai più di 100 milioni negli ultimi anni. In nessun altro cantone confederato, in cifre assolute e relative, la spesa stradale rimane così gravosa. A Zurigo, per esempio, la spesa stradale nel 1958 rappresentava solo l’8,56 e la stessa media generale


svizzera (11,8%) è notevolmente inferiore alla nostra (Una più ampia documentazione si può leggere nei due volumi che ho pubblicato per l’Ufficio delle ricerche economiche 1961).

La più recente perequazione federale ha dato ai cantoni di montagna, in modo particolare anche al Ticino, una compensazione più equa. Ma ciononostante, le sovvenzioni federali finanziano solo in modo sussidiario la spesa stradale e il nostro cantone, pur nella floridezza dei bilanci attuali, corre sempre il pericolo di gravi indebitamenti e squilibri finanziari, perché, sensibilissima alle fluttuazioni internazionali, la nostra economia ed i suoi redditi di congiuntura non offrono garanzie di stabilità alle entrate, mentre le uscite seguono notoriamente una legge di crescita, e mai di diminuzione. (Le Strade del Ticino e l’economia svizzera) Le strade e le comunicazioni del Ticino e attraverso il Ticino servono tutta l’economia svizzera e sono state conquistate, mantenute e sviluppate in funzione degli interessi economici svizzeri. Il problema delle strade, delle comunicazioni e dei trasporti attraverso il Ticino è un problema di integrazione della nostra economia nella economia svizzera. Ma è anche un problema di integrazione della economia svizzera nella economia europea e, sopra tutto, un problema di collegamento della Svizzera con lo spazio mediterraneo. L’illusione delle FFS, di poter mantenere un monopolio di fatto, tenendo chiuso il San Gottardo alla motorizzazione e di poter sobbarcarsi da sole un volume di traffico e di transito di merci e di persone in aumento costante e impressionante, ha già fatto perdere al Ticino e alla Svizzera più di un decennio e nel 1938 si irrise al Governo ticinese, per la sua «utopica» idea di una galleria stradale. È probabile che la seconda galleria ferroviaria, di base, Erstfeld-Bodio, arriverà ad un’epoca, nella quale altre importanti vie di comunicazione europee e transalpine saranno compiute. Né questa seconda galleria deve essere considerata come soluzione unica e definitiva dei problemi del traffico e sarebbe perciò nuovamente cieco e pericoloso combattere altre idee ed altri progetti, come quello della navigazione fluviale LocarnoVenezia o quello della Greina-Todi. Anzi il Canton Ticino avrebbe tutto l’interesse a sostenere ambedue questi progetti - che sono logicamente e geograficamente connessi - perché aprirebbero il nostro paese ad una nuova grande via di traffico internazionale e nel contempo apporterebbero sviluppo a regioni nostre e confederate, finora non toccate dal «miracolo economico svizzero». La politica economica svizzera è imbrigliata da visioni e concetti tradizionali, è rivolta a conservare posizioni acquisite, è


pervasa dalla concezione di cicli di depressione ricorrenti, durante i quali avremo tutto l’agio di eseguire opere pubbliche. Non abbiamo ancora compreso che ciò che occorre alla Svizzera non è una semplice politica anticongiunturale, ma invece una politica di crescita e sviluppo equilibrato. Fatta su misura dei cantoni industriali e delle finanze prosperose e ricche dei grossi cantoni, la politica economica federale, unitaria e dettata da forti gruppi di pressione e di interessi, non ha la visione dei problemi e degli squilibri regionali. Sono state queste le ragioni che per più di un secolo hanno impedito un vero federalismo economico e che hanno sacrificato gli interessi del Ticino ad interessi particolari, dimenticando che l’interesse particolare del Ticino, economicamente, coincide con quello confederato e, politicamente, deve trovare il suo riconoscimento nel patto di alleanza di una patria comune. La storia e le vicende finanziarie delle nostre strade, considerate in questo orizzonte politico ideale, sono un titolo di gloria del Ticino, ma sono spesso una pagina nera della politica federale. Il voltafaccia dell’opinione confederata rispetto al problema degli oleodotti quando si trattava del Ticino e quando si trattò di loro - ci consiglia ad aver fiducia negli ideali comuni, ma a diffidare degli egoismi e interessi altrui, che contrastano il nostro, e a porre incessantemente la massima attenzione e la massima energia ed azione politica, perché la voce di una minoranza è debole, sempre, anche in uno stato federativo, ed ai poveri si dicono spesso bene parole, ma non si fa credito. (Pianificazione e strade) Il problema della pianificazione o programmazione venne posto ufficialmente nella politica del nostro cantone e il Governo ne ha fatto una sua promessa esplicita. Evidentemente pianificazione o programmazione significano studio, impostazione e soluzione dei problemi di sviluppo e di equilibrio della nostra economia, visti a lunga scadenza e da risolvere nel quadro di un’evoluzione europea di integrazione, entro la quale il nostro piccolo spazio economico assurge, in un certo senso, a posizione strategica. Il nostro paese viene a trovarsi fortunatamente in un punto di passaggio obbligato dei traffici continentali e marittimi della nostra epoca. Come ai tempi della sua prosperità comunale, dal Duecento al Quattrocento, le grandi correnti di traffico tendono naturalmente a passare attraverso i valichi alpini, che collegano il Mediterraneo e l’Atlantico. I porti mediterranei, dell’Adriatico e del Tirreno, ravvicinati a noi dalle autostrade e dai canali navigabili in costruzione, sono a portata di mano. Cadranno con l’integrazione europea i punti doganali: ma continueranno a sopravvivere come grandi empori commerciali, di smistamento delle merci,


di deposito, di affari di transito e triangolari. La posizione aurea del franco svizzero e la tradizionale fiducia bancaria, di cui gode il nostro paese, hanno già dato enorme sviluppo al settore bancario e creditizio. Ma i grandi porti italiani già si interessano del nostro paese, come punto franco: Chiasso, Biasca, la pianura di Magadino, collegata con una via fluviale all’Italia, potrebbero diventare domani il retroterra dei porti mediterranei. L’industrializzazione, che sembrava un’utopia e che urtava contro l’isolamento geografico e doganale, è una realtà ed è benissimo conciliabile col turismo e l’industria di forestieri, se alla base di una programmazione economica metteremo anche la pianificazione regionale, cioè la delimitazione delle zone turistiche, agricole, industriali. È ovvio che in queste prospettive di sviluppo programmato e di equilibrio regionale e settoriale, le strade e le comunicazioni vengono a porsi nuovamente come premessa fondamentale di qualsiasi pianificazione. Esse appartengono non solo alle infrastrutture generali della nostra economia, ma alla struttura particolare del turismo e dei trasporti. Sono, in un certo senso, se pensiamo alla funzione delle gallerie autostradali, delle idrovie e dei punti franchi, vere e proprie condizioni sine qua non di un’espansione industriale, basata su fattori nuovi e su nuovi rami industriali. La teoria moderna dello sviluppo economico ben conosce l’importanza determinante dei «pool di crescita», cioè dei centri o nuclei che esercitano una funzione di pilota, di polarizzazione e irradiazione dello sviluppo economico. La pianificazione ticinese dovrà essere rivolta a creare questi pool di sviluppo. Mancata la grande occasione dell’oleodotto si corra almeno ai ripari, non più remorando la navigazione fluviale e la costituzione di punti franchi, per superare gli ingorghi noti del traffico merci, a Chiasso, a Genova e altrove, e per creare nuovi centri di propulsione per le attività economiche. Ma si pone anche un altro problema, strettamente connesso alla politica stradale, per non ripetere gli errori e le carenze di una politica idroelettrica, di costruzioni di grandi impianti e di produzione di energia, che poco lasciano all’economia del paese e che danno gli utili di distribuzione di questa immensa ricchezza ai consorzi pubblici e privati di oltre San Gottardo. Non è stato fatto il calcolo né è mai stato posto il problema (Il problema è accennato nei due vol. Spese stradali (Vol. 2. Pag. IX). Ufficio ricerche economiche), di quanto resti nel cantone della spesa stradale. E certo che

l’effetto moltiplicatore della spesa stradale, come già aveva intravvisto il Governo ticinese dopo il 1848, ha avuto per il cantone una benefica


conseguenza, di miglior impiego e di creazione di redditi. Ma di quanto l’economia stradale ticinese è ancora tributaria all’estero o ad altri cantoni, per tutte le materie prime, per tutti i prodotti semilavorati, per cementi, bitumi, manodopera specializzata, per attrezzature, di cui le nostre industrie e le nostre imprese e la nostra produzione cantonale non sono dotate? Indirizzare la futura spesa stradale verso un miglior equilibrio fra ciò che il paese spende e ciò che di questa spesa resta effettivamente nel paese, sarà pure un problema di «pianificazione» e la programmazione dovrà mettere in atto tutti gli incentivi che la politica idroelettrica e la politica fiscale e la politica della manodopera sono in grado di offrire in una legislazione e in una politica moderna. Pianificare la spesa pubblica, specialmente quella stradale, significa stabilire un ordine di priorità, di urgenza, di necessità generale e regionale delle strade ed assicurarne anche lo svolgimento e il finanziamento. L’aver ottenuto il 95% di sovvenzione federale per le strade nazionali di prima categoria non significa, per le nostre finanze pubbliche, aver risolto il problema della spesa stradale, perché al sistema delle strade nazionali dovrà essere allacciata tutta la nostra vasta rete di strade «circolari» o distrettuali, e se vorremo pianificare lo sviluppo delle nostre vallate che si spopolano, offrendo possibilità di turismo invernale e di industrializzazione, dovremo impegnarci in un vasto programma di apertura di nuove strade e collegamenti fra le valli (fra la Leventina e Blenio, fra la Vallemaggia e la Leventina) e di infrastrutture sciistiche e turistiche (filovie, seggiovie, sci lift). Né si possono considerare risolti i problemi stradali delle città e delle sponde dei laghi, specialmente quelli verso il Verbano e le zone turistiche di quelle regioni italiane. Il Ticino non potrà mai dormire sonni placidi in materia di strade e di spesa stradale, perché questo secolare, storico e arduo problema si rinnovella e si ripresenta, in ogni epoca, con aspetti nuovi ed esigenze nuove. Sorge, legittimo, il dubbio, che la nostra storia di un secolo e mezzo di indipendenza tuttora ci fa paventare: sono i nostri mezzi adeguati ai fini, o non c’è una evidente sproporzione fra i grandi problemi e il nostro piccolo paese? Ancora una volta la storia del passato ci conforta, ci consola e ci ammonisce che l’economia, per la spesa pubblica stradale, non sta nello spender poco, ma nello spendere bene. Il dubbio o la constatazione delle nostre forze, impari alle alte mete da raggiungere, dovrebbe anche stimolarci a cercare la soluzione di questi problemi, facendoci una volta ancora pionieri, sul terreno della politica economica federale, di un’idea che ancora non illumina il brain trust dei nostri consiglieri federali: che la


Svizzera della super congiuntura e del surriscaldamento potrebbe trovare un salutare intiepidimento, impiegando i sovraredditi, economici e finanziari, di questi anni dell’opulenza a favore di un miglior equilibrio regionale e cantonale. Come a dire, una politica di sovvenzioni sostituita da una politica di sussidi e finanziamenti di piani regionali di sviluppo.

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Bruno Legobbe Evoluzione del traffico stradale e possibile contributo al turismo di montagna nel Ticino I. Breve premessa (Turismo: origini) Il turismo moderno è il prodotto di una evoluzione sociale che trova alle sue origini tre elementi: lo sviluppo economico generale, lo sviluppo delle vie di comunicazione e lo sviluppo del mezzi di comunicazione. Lo sviluppo economico generale è alla base del resto. La rivoluzione industriale, accentuatasi particolarmente nella seconda metà del XIX secolo, ha permesso di creare i mezzi materiali per sviluppare il turismo. E, a questo riguardo, una coincidenza mette in evidenza quanto affermiamo: la culla del turismo moderno è stata l’Europa nord occidentale, la quale ha conosciuto per prima quel processo che, con una brutta parola, usiamo oggi definire «industrializzazione». Non è quindi un puro caso che i primi moderni turisti siano stati gli inglesi: l’Inghilterra è stata la culla, a sua volta, della rivoluzione industriale. Parallelamente quindi allo sviluppo industriale si è avuto lo sviluppo del turismo. L’arricchimento della borghesia europea è un fatto che dipende direttamente dallo sviluppo dell’industria verificatosi lo scorso secolo ed esso ha contribuito in vastissima misura a creare quel fenomeno sociale che è il turismo nella sua moderna espressione. (Turista) Noi parliamo di turismo moderno: vi fu, dunque, un turismo che potremmo definire antico? Dobbiamo risalire alla definizione del turista ed all’esame delle forme turistiche per dimostrarlo: turista è colui che viaggia per uno scopo che non sia quello di procurarsi dei vantaggi materiali. È turista il villeggiante che si reca in montagna due settimane all’anno, è turista lo studioso che visita le grandi metropoli e passa il suo tempo nei musei e nelle biblioteche, è turista il pellegrino che va a chiedere una grazia in un santuario, è turista colui che per ragioni di salute si reca in una stazione termale. Non è turista il viaggiatore di commercio, l’operaio che si sposta per ragioni di lavoro, l’industriale che viaggia per affari. (Forme del turismo)


Questo, stando alla definizione consacrata ormai in campo internazionale dalle varie grandi organizzazioni mondiali (ONU, UNESCO, OCDE ecc.), Quanto alle forme del turismo, abbiamo un turismo di vacanza, un turismo termale, un turismo religioso, un turismo culturale ecc. Per cui, se torniamo agli antichi tempi, dobbiamo riconoscere che un turismo, in una certa misura, doveva pur praticarsi. Avevano evidentemente la prevalenza le forme del turismo religioso e termale. Anche un turismo culturale ed un turismo di spasso, dettato un po’ dallo spirito d’avventura, dovevano pur esistere. E se esaminiamo la lunghissima lista di coloro che, nei secoli, sono transitati attraverso il S. Gottardo - di cui il Motta ci dà l’elenco (MOTTA, EMILIO, Dei personaggi celebri che varcarono il Gottardo nei tempi antichi e moderni, in «Bollettino storico della Svizzera Italiana», a varie puntate nel 1882 e nel 1883. E Personaggi celebri attraverso il Gottardo, in BSSI, pure a varie puntate negli anni 1892 e 1893) - dobbiamo pur convincerci che un certo

turismo già si praticava nei secoli che hanno preceduto la rivoluzione industriale. Ma era ristretto ad una infima minoranza e non appariva certo come un fenomeno sociale di qualche importanza. È appunto la rivoluzione industriale che ha generato quella evoluzione che sfocia oggi nel turismo sociale. Alla fine del settecento ed ai primi del secolo scorso, quando questo grande fenomeno ha preso inizio, naturalmente il numero dei turisti rimaneva ristretto a quelle categorie di gente i cui guadagni nell’industria permettevano il viaggio, la vacanza allora generalmente più lunga di quelle di oggi. (Vie di comunicazione) La seconda premessa che sta alla base del turismo è lo sviluppo delle vie di comunicazione: le ferrovie soprattutto. Ed un’altra coincidenza dobbiamo qui sottolineare: il turismo ha cominciato a svilupparsi di pari passo con la creazione e lo sviluppo delle ferrovie, ciò che dimostra come un fenomeno sia intimamente collegato all’altro. Nei tempi più recenti è la strada che ha dato prevalentemente impulso agli sviluppi turistici: ché ormai non è più da dimostrare che la gran massa dei turisti si sposta oggi su strada. Domani, probabilmente - e già oggi, anzi, accenna ad assumere certa importanza - sarà il mezzo aereo a dominare. Ma, per il momento, è la strada la grande convogliatrice delle masse turistiche. Per riassumere, possiamo quindi sottolineare che lo sviluppo industriale ha creato i mezzi materiali, e che il perfezionamento delle vie e dei mezzi di


comunicazione hanno completato le premesse per portare il turismo all’enorme grado di sviluppo che oggi conosce.

II. Lo sviluppo del traffico stradale (Traffico stradale) Un’idea dello sviluppo del traffico stradale si ha indubbiamente esaminando le statistiche che riguardano i veicoli a motore. Il lettore che avrà la somma pazienza di seguirci vorrà scusarci se, come è necessario, siamo costretti a ricorrere alle statistiche: egli troverà, anzi, condensati i dati degli sviluppi in tre tavole statistiche che diamo a parte. Pochi e frammentari sono i dati che ritroviamo in quelli che possiamo definire i tempi eroici dell’automobile. Secondo l’annuario federale di statistica, nel 1910, si contavano in Svizzera 2’276 automobili, 326 autocarri e 4’647 motocicli (Vedi tabella statistica pag. 168). Nel 1915, su oltre 78 milioni di franchi di entrate fiscali dei Cantoni, le tasse sulle automobili hanno dato un importo complessivo di fr. 128’043 per tutta la Svizzera, importo che rappresentava lo 0,16% delle entrate fiscali. (Veicoli a motore 1910-1915) Nel Ticino, lo stesso anno, queste tasse ammontarono a Fr. 6’200.-, Questo può darci un’idea della modestia degli sviluppi fino allora verificatisi nel dominio dei veicoli a motore: a titolo di confronto, diremo che nel 1962 le tasse per «velocipedi, automobili, natanti e veicoli» hanno dato al Cantone una entrata di Fr. 8'998’321,28, mentre in tutta la Svizzera il loro importo è stato di Fr. 134'643'000. (1930-1940) Lo sviluppo del parco autoveicoli (Vedi tabelle statistiche relative pago 168-169) è stato influenzato dai vari eventi che si sono succeduti nella storia del paese: guerre e crisi economica. Ma è soprattutto quest’ultima che ha determinato fra il 1930 e il 1940 un ristagno dello sviluppo sul piano nazionale (129’024 veicoli a motore nel 1930, 124’195 nel 1940), Durante questo decennio il Ticino ha visto invece un aumento (4’348 veicoli nel 1930, 4’988 nel 1940) che riteniamo di dover attribuire al fatto che gli effettivi iniziali erano, nel nostro Cantone, estremamente modesti e notevolmente inferiori alla media del resto del paese, per cui, durante il decennio in questione, si è «ricuperata» una parte del distacco,-


Gli sviluppi intervenuti, come s’è detto, sono condensati in tre tabelle statistiche che diamo a parte e che contemplano: - la prima, l’evoluzione verificatasi nel Ticino dai primordi ad oggi (dal momento in cui è stato possibile disporre di dati statistici, e quella intervenuta in Svizzera); (1962) - la seconda, gli sviluppi intervenuti dal 1945 al 1962 nel Ticino e la terza quelli intervenuti nel medesimo periodo in Svizzera, (Sviluppi) Interessanti, ai fini di un confronto, sono gli aumenti percentuali che ci permettono di valutare lo sviluppo verificatosi parallelamente nel Ticino e in Svizzera (Vedi tabelle statistiche pag. 168-169). Partendo dal 1922 (anno in cui abbiamo potuto trovare dei dati più o meno completi sia per il Ticino, sia per la Svizzera) al 1962 abbiamo questi aumenti percentuali: Automobili Autocarri (compresi i veicoli speciali, Camionnettes ecc.) Motocicli Complesso dei veicoli a motore

Ticino 8045%

Svizzera 4122%

2515% 3098% 4681%

1860% 3801% 3566%

Notiamo un sensibile più forte aumento percentuale nel Ticino che in Svizzera. Ma questo aumento non deve dar luogo a deduzioni che, come spesso avviene, non corrispondono alla realtà. Si è detto, ad esempio, prendendo appunto come termine di confronto la diffusione di determinati generi di consumo (automobili, televisori ecc.) che il Ticino è fra i Cantoni della Confederazione quello che più degli altri ha registrato un progresso economico. Non vorremmo invece che ci si illudesse sulla portata dimostrativa di certi indici. Un confronto diretto, su basi di questo genere, fra Ticino e Svizzera Interna, dimentica troppo spesso due elementi: la componente psicologica che determina l’indice e la situazione geomorfologica del paese. Ci sembra ovvio che un confronto sulle preferenze di un luganese (automobile piuttosto del cavallo…) e di un contadino turgoviese o di un paesano del Giura, non sia cosa che possa reggere molto al lume della logica, indipendentemente dalle ragioni psicologiche dettate dall’appartenenza a stirpi diverse. La situazione geo-morfologica del paese determina indubbiamente una maggior diffusione dei mezzi di trasporto in una regione dispersa come


quella del Ticino e priva di mezzi comodi di comunicazioni con le valli e le zone appartate, piuttosto che in un Cantone come Zurigo dove si ha una concentrazione molto più forte degli abitati e una rete di trasporti pubblici molto più, sviluppata. V’è un altro motivo che spiega il maggiore aumento relativo avvenuto nel Ticino: nel 1922 la popolazione del Ticino rappresentava il 3,92% di quella svizzera e nel medesimo anno l’effettivo delle automobili era del 2,2%, delle motociclette del 6,9% e del complesso dei veicoli a motore del 3,3% degli effettivi svizzeri: quindi nettamente sotto la media della popolazione. Si vede da questi dati la modestia degli indici relativi al Ticino, che superava la media svizzera solo nei motocicli, cioè nel veicolo a miglior mercato, ciò che sta a dimostrare, semmai, la povertà del nostro complesso economico e spiega, d’altra parte, l’alta percentuale di sviluppo verificatasi in seguito, determinata essenzialmente dall’estrema modestia della base di partenza. (Situazione relativa 1962) Per il 1962 abbiamo questi indici abitanti automobili camions moto veicoli a motore (complesso)

3,6% 4,2% 5,1% 3,4% 4,0%

della popolazione svizzera degli effettivi svizzeri degli effettivi svizzeri degli effettivi svizzeri degli effettivi svizzeri

Tenute presenti le ragioni di carattere psicologico e la situazione geomorfologica del paese, si vede come il nostro Cantone si tenga press’a poco nella media svizzera (anche in considerazione del fatto che i dati sulla popolazione escludono 50 mila persone che sono qui a lavorare, ma che non entrano nei conteggi). Il maggior aumento percentuale del Ticino non è, quindi, altro che l’indice di un processo di adeguamento a situazioni reciproche che vanno sempre più avvicinandosi. Abbiamo voluto approfittare dell’occasione che ci è data per chiarire questo aspetto di una situazione che provoca spesso, specialmente oltre Gottardo, commenti non sempre favorevoli al nostro Cantone. Ora, per tornare al nostro argomento, vogliamo brevemente esaminare gli sviluppi che si sono avuti dal 1945 in poi e che risultano dalle tabelle 2 e 3. E badiamo precisamente agli indici di aumento che marcano questa progressione:


Base 100: 1945 Anno 1950 1955 1960 1962

Auto TI CH 662% 704% 1220% 1382% 2331% 2555% 3333% 3348%

Camions TI CH 77% 76% 108% 144% 209% 282% 322% 404%

Aumenti percentuali Totale veicoli Motocicli a motore TI CH TI CH 1144% 1732% 386% 472% 2882% 4118% 782% 1078% 3405% 6923% 1342% 1772% 4178% 9072% 1707% 2340%

Questa comparazione dimostra chiaramente come il Ticino si trovi in una situazione che è inferiore a quella media della Confederazione: quindi, certe deduzioni e certe considerazioni appaiono molto facili e prive, in ogni caso, di fondamento. Dimostrato questo, vi è però ragionevolmente da ammettere che un enorme sviluppo è avvenuto nel campo della motorizzazione anche nel nostro Cantone. Di più: si è verificato anche un enorme sviluppo del traffico motorizzato proveniente da regioni che si trovano fuori del Cantone. La prova ci è offerta dai risultati del censimento del traffico che viene fatto annualmente e di cui possediamo i dati a partire dal 1955. Ora, sarà bene osservare che in questo periodo 1955-1963, l’aumento del numero dei veicoli a motore è stato del 105% nel Ticino, del 107% nella Svizzera. (aumento del traffico) Dai dati della circolazione per il medesimo periodo si rilevano questi aumenti del traffico motorizzato nelle varie località: Airolo Mendrisio Centovalli Gandria

198% 191% 269% 139%

Ponte Tresa Gambarogno Brissago

316% 987% 236%

Si vede pertanto come il traffico stradale sia andato aumentando in misura molto più forte del numero dei veicoli a motore. E non ci dilungheremo in altre disquisizioni, ritenendo di aver dimostrato chiaramente l’importanza del fenomeno traffico nel nostro Cantone. Ed è bene avvertire che quando parliamo di traffico, parliamo essenzialmente di traffico stradale. III. Qualche considerazione sul turismo (Turismo)


Parlare di traffico però, è volere, implicitamente, discutere di un altro fenomeno: del turismo, cui abbiamo già accennato all’inizio di questo nostro scritto. Noi riteniamo che la gran parte del traffico che si ha sulle nostre strade sia dovuto al turismo. Nei mesi di punta non crediamo di esagerare se stimiamo che almeno 1’80% del traffico sia di questa natura. Nel dominio specifico del turismo, abbiamo motivi per ritenere che il 70% almeno dei turisti usi l’automobile come mezzo di trasporto: usi cioè il mezzo stradale. Nel 1962 abbiamo registrato, nei nostri alberghi, 780’210 ospiti (di cui 515’351 stranieri) e 3'144’624 pernottamenti (1'981’435 di stranieri). A questi pernottamenti dobbiamo aggiungerne 2'205'136 effettuati in campeggi, camere private, alberghi per i giovani ecc. Complessivamente abbiamo avuto 5'349’760 pernottamenti. (Reddito turistico) L’Ufficio delle ricerche economiche ha stimato l’apporto del turismo, per il 1962 all’economia del Cantone, a 348 milioni di franchi, mentre gli investimenti nel dominio turistico rasentano il mezzo miliardo di franchi. Queste cifre possono darci un’idea dell’importanza che il turismo assume nel nostro complesso economico. (Forme) Se esaminiamo in quali forme si presenta il fenomeno - a prescindere dalle forme usate nella preferenza degli impianti ricettivi come l’albergo, l’appartamento di vacanza, la camera privata, il campeggio o altro dobbiamo constatare che, a seconda della regione, assume due forme diverse: turismo di soggiorno in zone prettamente turistiche, turismo di scorrimento o di transito in altre zone. Si ha la prevalenza del soggiorno intorno ai laghi, nei centri turistici principali e nelle zone a questi vicine. Si ha un turismo di scorrimento prevalente nelle altre zone, soprattutto lungo l’asse S. Gottardo-Chiasso. E gli indici sulla durata media dei pernottamenti permettono una chiarissima discriminazione fra le due zone. Abbiamo infatti: (Pernottamenti per ospite) Numero medio dei pernottamenti Locarno distretto Locarno città e dintorni Vallemaggia Lugano distretto Blenio

5,9 5,6 4,8 4,7 4,7

Lugano città e dintorni Mendrisio Leventina Riviera Bellinzona

4,2 2,5 2,1 1,9 1,4


È facile pertanto concludere che sono zone di turismo di soggiorno tutto il Locarnese, la Vallemaggia, Blenio e tutto il Luganese, che sono invece zone di prevalente turismo di scorrimento Mendrisio, Leventina, Riviera e Bellinzona. Vi è tuttavia da osservare che l’entità del fenomeno turistico è così ridotta in Vallemaggia, Centovalli, Onsernone e Blenio che l’indice di pernottamento finisce coll’avere una importanza relativa: si tratta di zone, per il momento almeno, turisticamente poco efficienti. Le maggiori punte di frequenza si registrano nei mesi estivi, come lo dimostra la statistica del pernottamenti che, nei vari mesi del 1961 sono stati: Pernottamenti per mese, 1961 Gennaio Febbraio Marzo Aprile

50’641 57’863 146’146 309’213

Maggio Giugno Luglio Agosto

331’812 363’148 503’611 609’185

Settembre Ottobre Novembre Dicembre

480’622 279’379 71’772 54’551

La stagione turistica, come meglio dimostra il grafico n. 5, va praticamente da aprile a ottobre, durando così sette mesi. Negli altri mesi il movimento è ridottissimo e uno dei problemi che si pone appunto al nostro turismo è quello della creazione di una seconda stagione nei mesi invernali. IV. L’autostrada (Autostrada) Un altro problema che sin d’ora si pone nei riguardi del nostro turismo è quello dell’autostrada. (Si o no?) I termini di questo problema stanno nel sapere quali potranno essere le conseguenze della costruzione dell’autostrada. Maggior incremento turistico? Diminuzione dell’afflusso per il fatto che l’autostrada permette un più rapido transito su un territorio che, con una viabilità di questo genere, può essere attraversato in due ore al massimo? Da cui, autostrada si o autostrada no? (Vantaggi) Cominciamo da quest’ultimo interrogativo. Rinunciare all’autostrada nel momento in cui si verifica appieno la corsa alle autostrade, nel momento in cui gli altri paesi lavorano intensamente a creare queste arterie anche attraverso le Alpi, ci sembra voler preparare le premesse della definitiva decadenza del nostro movimento turistico. Fra dieci anni o anche prima, gli


altri avranno le autostrade e se non saremo in grado di disporne noi pure, accadrà semplicemente una cosa: che il turista cambierà strada e non attraverserà più il nostro Cantone. Perderemo in tal modo quella grande corrente di traffico che dà al paese rapporto cospicuo che abbiamo visto e chi ne farà le spese saranno soprattutto i nostri centri turistici e le zone a turismo di scorrimento. L’autostrada, invece, garantirà non solo il mantenimento, ma l’ulteriore sviluppo delle correnti turistiche. (Svantaggi) Tuttavia, un inconveniente si produrrà senz’altro: nelle zone intermedie, soprattutto in quelle zone che oggi vivono sul turismo di transito, si verificherà indubbiamente un forte regresso del numero dei turisti, i quali fileranno via diritti, come abbiam detto, puntando direttamente sui centri turistici principali i quali, per conseguenza, avranno tutto da guadagnare dalla costruzione della nuova arteria. Una cosa è quindi indubbia: a sacrificarsi sull’altare dell’autostrada saranno quelle zone che, pur non avendo un grande «attrait» turistico, fanno oggi ottimi affari sul turismo di transito: la Leventina, la Riviera, il Bellinzonese, il Mendrisiotto. Non è questa una mera nostra supposizione: l’autostrada del Sole ha provocato questo fenomeno in tutte le zone intermedie che attraversa; l’apertura parziale dell’autostrada Ginevra-Losanna ha provocato il medesimo fenomeno, come ce lo conferma un articolo apparso nel n. 35/1963 dell’«Hotel-Revue» che raccoglie le lamentele degli albergatori e dei gerenti di ristoranti della zona di Rolle-Versoix, i quali si sono viste notevolmente ridotte le entrate dopo l’apertura dell’autostrada. Qualche cosa di simile si verifica ora a Biasca a seguito della costruzione della circonvallazione. (Necessità dell’autostrada) Perciò l’autostrada favorisce gli uni e torna di danno agli altri. Ma se essa non fosse costruita ecco che il danno si generalizzerebbe a tutto il complesso turistico del Cantone, colpendo in modo preponderante quelle zone che più largamente vivono del turismo. Non si può aver dubbi, quindi, sulla necessità di costruire l’autostrada. Gli aspetti negativi ch’essa presenta per determinate regioni, costituiscono, a nostro giudizio, un problema a sé che occorre esaminare e risolvere a parte e che la comunità stessa, che favorisce l’uno a scapito dell’altro, è tenuta e deve farsi un dovere di risolvere. V. Il problema delle zone a turismo di scorrimento


(Zone turistiche di scorrimento) Queste zone, così danneggiate, hanno certamente diritto a un compenso che potrebbe assumere vari aspetti. Vi sono zone che presentano una certa vocazione turistica (quelle montane) mentre vi sono zone che sfruttano un turismo di transito senza possedere essenziali premesse che le possano portare ad uno sviluppo turistico. In quest’ultime zone (Riviera, Mendrisiotto e, in parte, Bellinzonese) sarebbe inutile cercare compensi in altre forme turistiche. Si tratta di regioni che possono facilmente trovare un largo compenso nello sviluppo di altre attività economiche. Nelle zone montane invece sono note le difficoltà che si oppongono all’introduzione di attività industriali, introduzione che è praticamente impossibile. Queste zone però hanno certe possibilità nel dominio turistico così che, con l’introduzione di appropriate attrezzature, si potrebbe provocare un nuovo incremento mutando la forma del turismo odierno e passando dalla forma di scorrimento a quella di soggiorno. Questa possibilità si ricollega a tutto il problema della montagna che non è solo un problema di organizzazione turistica, ma che involge tutte le attività economiche delle regioni interessate. VI. Il problema delle regioni di montagna (Regioni di montagna) Non staremo ad esporre nuovamente dati statistici e ci limiteremo alla citazione del minimo indispensabile al nostro assunto. Il fenomeno demografico che ha caratterizzato le nostre zone di montagna è lo spopolamento. Questo fenomeno, che non è solo del nostro paese, si verifica però da noi in proporzioni molto più accentuate che altrove e un confronto con i Cantoni che ci circondano prova con somma evidenza quanto più grave e più intenso sia lo spopolamento nelle zone montane nel Ticino piuttosto che in quelle dell’Uri, dei Grigioni e del Vallese. (Spopolamento) Nel Ticino, il 53,8% dei comuni e il 62% del territorio del Cantone si spopolano. Che cosa vuol dire, da uno stretto punto di vista economico, questo fatto? Vuol dire che il 62% della superficie del Cantone perde continuamente di valore, vuol dire che il rimanente 38% è oggetto di un processo di super valorizzazione - ci si scusi il termine - favorito dalla ristrettezza dello spazio a disposizione e acuito dall’infierire di una


speculazione che conosce gli eccessi a tutti noti. Valorizzando, almeno parzialmente, il territorio in decadenza, non solo si reca un contributo positivo al consolidamento economico del paese, ma si oppone un ostacolo all’ondata speculativa, derivato dal fatto dell’apertura di altre zone, della messa a disposizione di altri terreni, che svigorirebbero in parte la speculazione che si accanisce oggi su territori molto ristretti. Non è nostro intendimento - lo spazio ce lo impedirebbe - esaminare a fondo qui il problema dell’economia delle zone di montagna. (Economia montana: economia unilaterale) Questa economia, nel nostro Cantone, è basata quasi unicamente su una sola attività: l’agricoltura. Ora, nello sviluppo dell’economia moderna, l’agricoltura è una attività ovunque decadente, sia per il fatto che l’industria le toglie continuamente delle braccia, sia perché è meno rimunerativa delle altre attività, sia per i moderni mezzi di sfruttamento del suolo che richiedono molto minor impegno di lavoro manuale. Perciò le zone montane, dedite esclusivamente all’agricoltura, si spopolano anche perché una agricoltura di montagna, date le condizioni ambientali di produzione, non sarà mai in grado di tenere efficacemente la concorrenza con una agricoltura intensiva e polivalente come potrebbe essere quella delle zone del piano. Se non è lecito affermare che le numerose misure adottate da molti anni a questa parte a favore dell’agricoltura di montagna siano fallite, è però una realtà il fatto che lo spopolamento non si è arrestato e che, in certi comuni, ci si trovi oramai alla vigilia della fine. E questo, a nostro modo di vedere, è dovuto essenzialmente ad un errore fondamentale nel quale si è caduti, soprattutto da parte delle autorità federali, che è consistito nel fatto di aver sempre considerato, nell’ambito dell’economia della montagna, unicamente l’agricoltura negligendo le altre attività possibili. Se noi esaminiamo la demografia di certe zone montane dove si sono avuti sviluppi turistici, constatiamo quasi ovunque che, invece di diminuire, la popolazione o è aumentata o è rimasta stazionaria. Questi fatti, che siamo andati brevemente esponendo, ci portano alla conclusione nel senso che è solo accoppiando all’attività tradizionale altre forme economiche, che si potrà efficacemente lottare contro lo spopolamento. Ma abbiamo pur visto quali insormontabili difficoltà si oppongano all’introduzione di attività industriali o anche artigianali (qualche cosa nell’ambito dell’artigianato si è tentato soprattutto per cercare di colmare i


periodi «vuoti» di lavoro dei contadini: ma i risultati sono stati poco soddisfacenti). Resta quindi il turismo, che sfrutta avantutto le bellezze naturali, il clima e altri elementi che la natura fornisce in misura cospicua soprattutto ai paesi di montagna, così che «…il turismo appare oggi, a tutti gli specialisti dei problemi della montagna, come il vero salvatore, come la sola attività adatta, per il suo ritmo stagionale, e come la sola attività suscettibile di rinvigorire le altre, particolarmente l’allevamento e l’agricoltura». Questa conclusione è di Germaine Veyret-Verner, redattrice della «Revue de géographie alpine», che è considerata fra i più eminenti specialisti dei problemi della montagna (Eyret-Verner, Germaine: Le plan d’équipement touristique du département des Hautes-Alpes, in «Revue de géographie alpine», Grenoble, n. 2. 1962). E non aggiungeremo altro ad un giudizio tanto autorevole se non per concludere che nel nostro Cantone esistono larghe possibilità potenziali nel senso dello sviluppo di un turismo di montagna. VII. Le premesse di una valorizzazione turistica Diciamo subito che s’ingannerebbe di non poco chi credesse che su tutta la montagna si possa fare del turismo. La montagna non basta, non bastano il sole, i boschi, il clima, l’aria pura e balsamica. Occorre un complesso di premesse che noi abbiamo voluto distinguere in due categorie: delle premesse che vogliamo definire generiche e delle premesse che vogliamo definire soggettive. a) Le premesse generiche (Premesse generiche) Pierre Defert (Defert, Pierre: Pour une politique du tourisme en France, Ed, «Economie et Humanisme», Parigi, 1960) ha insistito su un fatto che sta alla base dello sviluppo turistico e che noi abbiamo già sottolineato: «vi è una relazione tra lo sviluppo di abitudini turistiche e una forma di civiltà tecnicoindustriale». È l’interdipendenza che abbiamo già notato fra lo sviluppo industriale e lo sviluppo turistico. Defert osserva che, per sviluppare il turismo moderno, è necessario che il lavoratore possa disporre: 1. di un guadagno da consumare quotidianamente, 2. di un guadagno che gli garantisca la sicurezza sociale nella forma delle pensioni, dell’assicurazione malattia e infortuni ecc.,


3. d’una eccedenza annua da dedicare alle vacanze e all’occupazione del tempo libero.

(Produttività premessa al turismo) Questo si ottiene soprattutto laddove la produttività è elevata e dove vi ha un grado di rendimento collettivo pure molto alto. A questo grado di sviluppo, tuttavia, possiamo considerare d’essere sin d’ora arrivati in tutte le lavorazioni industriali del settore secondario e in tutta l’attività che si svolge nel settore terziario. (Urbanizzazione) Una seconda premessa generica sta nel grado di urbanizzazione e soprattutto di quella che lo stesso Defert qualifica «l’urbanizzazione patogena che è andata sviluppandosi fra il 1850 e il 1950» e che genera un forte bisogno di evasione: e da qui lo sviluppo del turismo, principalmente del turismo di fine settimana. (Ubicazione) Una terza premessa è data dall’ubicazione del paese nel quale si vuole sviluppare il turismo: in questo senso il Cantone Ticino si trova in posizione quasi ideale ubicato com’è lungo l’asse nord-sud «più abitato» d’Europa, lungo la direttrice di una delle più importanti correnti di traffico e del turismo internazionale e lungo la via di transito transalpino più importante d’Europa. Questo fatto costituisce una premessa di primissimo ordine per lo sviluppo del turismo nel nostro paese. Se poi esaminiamo e analizziamo tutte queste premesse generiche comparandole con la situazione del nostro Cantone, troviamo subito ch’esse si verificano quasi totalmente nei confronti, appunto, della nostra regione. b) Le premesse soggettive (Le premesse soggettive) Si verifica, da noi, un complesso di fattori molto favorevoli ai fini di uno sviluppo turistico: bellezza del paesaggio, clima vario e dolce con giornate di bel tempo e di sole in numero sensibilmente superiore che non al nord delle Alpi; nelle zone dei laghi uno sviluppo delle infrastrutture turistiche molto importante; infine l’ubicazione del paese che, lo abbiamo già rilevato, lo pone in una situazione del tutto speciale. Il Defert, che abbiamo già citato, in altra opera stabilisce tre


«distanziamenti» possibili delle zone-mercato in relazione a una zona turistica (Defert, Pierre: L’accès touristique à la montagne, in «Revue de Tourisme», n. l, Berna, Gennaio/marzo 1960): (Zone-mercato) 1. una distanza di prossimità 2. una distanza continentale 3. una distanza intercontinentale. La maggior parte della clientela è generalmente fornita da una zona di prossimità che si estende nel raggio di circa 150 km dal centro della zona turistica. Ora, se noi esaminiamo la popolazione che gravita entro questo raggio, troviamo che, al sud vi sono almeno dieci milioni di abitanti, e al nord almeno due milioni. Siamo quindi la zona alpina che dispone del più grande mercato turistico posto sulla porta di casa. E, a questo proposito, basti osservare che i francesi - che si sono messi a organizzare seriamente il turismo nella loro zona alpina e stanno creando parecchie nuove stazioni turistiche - nelle loro indagini di mercato fanno esplicitamente conto sulla clientela di Milano e della pianura padana che contano di poter attrarre nei loro centri montani con la creazione della nuova galleria stradale del Monte Bianco. Non vogliamo attardarci in considerazioni sulla clientela che potrebbe esserci offerta dalla zona continentale e da quella intercontinentale: basti anche qui rilevare che il fatto di trovarci su una delle vie transalpine tra le più importanti è tale da mettere in posizione di favore anche nei confronti di queste categorie di clienti. c) Le premesse particolari delle zone di montagna (Le premesse particolari delle zone di montagna) Abbordiamo ora un argomento che non sappiamo se abbia già formato oggetto di trattazione da parte di altri. Abbiamo già detto che non basta avere la montagna, il sole, i boschi, l’aria pura e balsamica per disporre di tutte le premesse atte a valorizzare turisticamente una zona di montagna. Occorrono altre premesse, che analizzeremo, se si vuole effettivamente creare qualche cosa di serio e duraturo. Avantutto, nelle nostre zone di montagna, il problema si presenta sotto due distinti aspetti: abbiamo delle zone nelle quali la forma di gran turismo di


soggiorno non potrà probabilmente essere introdotta, ma dove si potrà creare ugualmente un turismo di passaggio, non in quanto queste zone si trovino lungo una via di transito importante, ma in quanto essendo esse ai margini di zone di gran turismo, possono costituire una attrazione per i turisti che soggiornano nella zona vicina. Invece abbiamo altre zone nelle quali si potrà organizzare un vero e proprio turismo bistagionale. (Piccolo turismo) Nella prima di queste zone possiamo collocare, ad esempio, la Verzasca, la Vallemaggia (almeno fintanto non si avrà il collegamento con la Leventina), l’Onsernone, le Centovalli, la Val Colla e i suoi dintorni, l’Alto Malcantone. (Turismo di vacanza) In questi posti non si potrà spingere verso grandi sviluppi turistici: si potrà però facilmente creare un turismo di vacanza per la popolazione del Cantone, mediante la trasformazione di numerosi stabili, oggi vuoti e decadenti, in case di vacanza e si potrà puntare su quel movimento turistico dato dai forestieri che, soggiornando nelle zone vicine, si recheranno un giorno in quelle regioni a scopo di diporto. Accanto quindi alle case di vacanza si dovrà attrezzare qualche buon ritrovo, soprattutto dei ristoranti, qua e là, i quali dovranno preoccuparsi particolarmente di offrire un ambiente originale, nostrano diremmo, e una ottima cucina casalinga. (Zona di gran turismo) Nelle zone di gran turismo invece, il problema cambia sostanzialmente di aspetto. Ora si deve dire subito che non è possibile parlare di gran turismo se non esiste la possibilità delle due stagioni, e questo per il fatto che una sola stagione non sarebbe sufficiente per rimunerare gli elevatissimi investimenti che la creazione di centri turistici di montagna richiede. È necessario quindi eliminare in partenza, nel caso in cui si voglia tentare la valorizzazione turistica che definiremmo integrale di zone di montagna, quelle regioni che non permettono lo sviluppo della stagione estiva e di quella invernale. A questo punto, il problema non appare arduo dal punto di vista della stagione estiva - ché, generalmente, laddove si hanno possibilità invernali si hanno anche possibilità estive - quanto da quello dell’organizzazione del turismo invernale. E qui si verifica la necessità di un certo numero di premesse che vogliamo brevemente esaminare.


Nell’esame di possibilità di questo genere dobbiamo distinguere preliminarmente due generi di fattori: - fattori naturali, - fattori antropici. Fattori naturali (Fattori naturali) Tra i fattori naturali dobbiamo ancora distinguere: 1. fattori climatici, 2. fattori topografici, 3. fattori morfologici. (Climatici) Fattori climatici: Sono evidentemente di natura essenziale. Essi devono genericamente garantire un sufficiente innevamento della zona, una conveniente insolazione, una relativa eliminazione dell’azione dei venti. Dipendono molto dall’altitudine, dall’orientamento e dall’ubicazione della zona. Primo fattore essenziale è la neve. Ci sembra ovvio che le precipitazioni nevose debbano costituire il fattore primordiale, quando si parla di turismo di montagna e di turismo invernale. Nel considerare le possibilità di una regione a tal riguardo, crediamo che si debbano fissare taluni principi che possiamo così elencare: (Precipitazioni) a) Precipitazioni: devono essere equivalenti press’a poco alla media della zona alpina. Il clima delle nostre Alpi è definito come clima di transizione fra quello marittimo e quello continentale. In queste condizioni abbiamo precipitazioni che danno luogo alla formazione di un manto nevoso che può arrivare, secondo Péguy (Péguy, Ch. P.: La Neige. Presses universitaires de France. Parigi. 1960), ai quattro metri di spessore. È il caso delle nostre principali zone di montagna. (Insolazione) b) Insolazione: il sole è certamente una delle «materie prime» indispensabili per garantire il successo di una stazione alpina e ciò specialmente durante l’inverno. «L’exposition de la station toute entière, des pistes et de certains équipements pour lesquels l’ensoleillement est spécialement souhaitable, revêt donc aussi une importance capitale»: questa l’opinione di esperti in uno studio per la creazione della nuova stazione alpina di Flaine in Savoia (Bureau d’études et de réalisations urbaines. BERU: Le marché de la neige. Relazione multigrafata, Parigi. 1960).

(Venti) c) Esposizione al vento: è necessario sottolineare che, in montagna, il vento è un elemento che non è possibile eliminare totalmente. Vi sono zone


fortemente battute e zone meno battute. In generale i versanti vòlti a sud e ad ovest sono quelli sui quali minore è l’intensità del vento, mentre quelli vòlti ad est nord-est e nord sono i più battuti. Se esistono cortine boscose, queste assumono la funzione di sbarramenti frangivento, così che i suoi effetti sono spesso fortemente ridotti. Sulle piste di sci questi effetti possono essere ridotti anche con una adeguata opera di mantenimento delle piste stesse. È però un fatto che il vento dà luogo spesso alla formazione di ghiaccio o di crosta nevosa che rende dure le piste e poco soddisfacente l’esercizio dello sci: è cosa che non deve mai essere dimenticata al momento in cui si deve operare una scelta. Questi che abbiamo brevemente descritti sono i fattori climatici essenziali che si devono considerare quando si voglia prendere una decisione circa la creazione di un centro turistico invernale. Fattori topografici (Fattori topografici:) In questo ordine, i fattori da considerare sono due: l’ubicazione e l’altitudine. (- ubicazione) a) Ubicazione: è fattore importante per il fatto che in una zona dove si verificano delle premesse climatiche favorevoli, ma che sia troppo discosta dalle vie di traffico in modo che l’accesso risulti, se non difficoltoso, almeno troppo lungo nel tempo, è difficile riunire un coefficiente di possibilità tali da garantire il successo. Questo per le nuove stazioni: per quelle tradizionalmente affermatesi da decenni questa considerazione non sta interamente, giuocando a loro favore la tradizione e la notorietà del posto. Per le altre, l’accessibilità, determinata dall’ubicazione relativa delle zone-mercato, è fattore della massima importanza secondo l’opinione presso che unanime degli studiosi del fenomeno turistico, Abbiamo già visto come Defert (Defert Pierre: L’accès touristique à la montagne. op. cit.) distingua tre zone-mercato ed abbiamo sottolineato come la zona di prossimità sia la più interessante: essa è «de loin la plus sensible dans les rapports émissionréception», per cui la località turistica che è vicina ad una zona di prossimità fortemente abitata e con forte sviluppo economico si trova senz’altro favorita. Osserva ancora il Defert che le zone industriali esercitano una grande influenza sulla valorizzazione del rispettivo versante alpino; egli sottolinea inoltre il carattere centripeto del movimento turistico verso la montagna e rileva la grande necessità che esiste di effettuare una


completa analisi delle condizioni di accesso dal duplice punto di vista del costo e del tempo in funzione dei diversi mezzi di trasporto che vengono utilizzati dal turista. L’ubicazione è quindi un fattore topografico fra i più importanti per qualsiasi tipo di stazione alpina. (Tipi di stazioni alpine) Quanto ai tipi, Defert ne distingue tre: 1. la stazione di fondovalle, come Zermatt, St, Moritz, Engelberg, Chamonix, Garmisch·Partenkirchen, Cortina d’Ampezzo ecc.; da noi si potrebbe citare Airolo; 2. quella di colle come Lenzerheide-Valbella, St. Anton, l’Aprica ecc.; 3. quella di terrazzo come l’Alpe de Huez, Wengernalp, Crans-Montana ecc. (da noi, Cari). Crediamo di poter concludere mettendo in evidenza che una ubicazione interessante deve essere tale da rendere facile l’accesso alla stazione prescelta, la quale deve potersi raggiungere in un tempo non eccessivo e deve trovarsi possibilmente lungo una via di grande comunicazione dove la penetrazione umana nella zona alpestre sia intensa, e che si trovi possibilmente prossima a regioni di forte sviluppo industriale, economico e demografico. (Altitudine) b) L’altitudine: più la zona è elevata e più le precipitazioni nevose sono abbondanti: questa è la prima considerazione che depone a favore delle località site ad altitudine elevata. Inoltre, già abbiamo visto che due fattori che concorrono a creare le premesse climatiche necessarie ad una stazione di montagna sono la neve e il sole: elementi che sono sicuramente - in una certa misura - antitetici, in quanto, essendo il sole a sciogliere la neve, l’uno tende ad eliminare l’altra così che, fino a un certo punto, il sole diventa un elemento negativo. L’altitudine è il correttivo di questo aspetto negativo, Se, quindi, si vuol garantire una stagione normale è necessario che la stazione si trovi ad una certa altitudine. Secondo le osservazioni fatte in Svizzera, la variazione di temperatura osservata ogni cento metri di elevazione è in media di 0,52 gradi centigradi, Secondo Blanchard (Blanchard, Raoul: Les Alpes et leur destin. A. Fayard. Parigi, 1958), nelle Alpi francesi è di 0,55 ºC. L’approssimazione è tale che possiamo benissimo adottare l’uno o l’altro dato. Ne consegue che se, a 300 metri di altitudine abbiamo una temperatura media di 12,4 ºC (Osservatorio di Locarno-Monti, anno 1959), a 1300 metri questa


temperatura sarà ridotta a 6,9 ºC se adottiamo l’indice francese ed a 7,2 ºC se adottiamo quello svizzero. Sempre secondo i nostri servizi meteorologici, la differenza di livello corrispondente a un giorno di disgelo delle nevi è di 30 metri al di sotto dei 500 metri di altitudine: in altre parole, la neve scompare in ragione di 30 metri di quota al giorno, così che, se avremo la neve a 300 metri il primo giorno, la troveremo a 330 il secondo, a 360 il terzo giorno ecc. Dai 500 ai 1000 metri di altitudine questo coefficiente si riduce a 20 metri al giorno e oltre i 1000 metri si riduce gradatamente sempre di più, così che a 1500 metri di quota si stima che non superi i l0 metri al giorno. Dato questo fenomeno, se l’innevamento cessa a metà marzo in una determinata località posta a 1500 metri s.m., cesserà solo a metà aprile, cioè trenta giorni dopo, a 1800 metri. Questi dati dimostrano l’importanza che l’altitudine assume nel determinare la durata della stagione. Inoltre, dalla considerazione di questi fattori, deriva la necessità di non scendere al di sotto di una determinata altitudine quando si tratti di stabilire una stazione alpestre. (Altitudine critica) Boisvert (Boisvert. J. J.: La neige dans les Alpes françaises. Grenoble, 1954) osserva che «si stima che l’altitudine critica per stabilire e conservare sul suolo un manto nevoso sufficiente, anche negli anni di scarso innevamento, si possa situare fra i 1300 e i 1400 metri». Cereghini (Cereghini, Mario: Costruire in montagna. Ediz. Il Milione. Milano, 1950) conferma questa opinione: «le mie simpatie personali quando si tratta di costruire casette di montagna ad uso estivo e invernale, sono per la zona fra i 1400 e i 1800 metri, che è l’altitudine migliore per una stazione di sport invernali. Al dì sotto dei 1400 metri la neve è difficilmente buona e la stagione sciatoria si fa più breve». L’altitudine media delle principali stazioni invernali svizzere è di poco superiore ai 1500 metri (Adelboden 1350, Airolo 1200, Andermatt 1450, Arosa 1800, Celerina 1730, Chàteau-d’Oex 1000, Churwalden 1250, Crans 1470, Davos 1870, Einsiedeln 950, Engelberg 1000, Engelberg-Trübsee 1795, Flims 1100, Grindelwald 1050, Gstaad 1100, Jungfraujoch 3470, Kandersteg 1200, Klosters 1200, Lenk 1100, Lenzerheide 1470, Leysin 1200, Maloja 1800, Melchsee-Frutt 1930, Montana 1500, Mürren 1650, Pontresina 1805, Les Rasses 1150, Rigi 1435, Saanen 1010, Saas-Fee 1800, Silvaplana 1815, St. Moritz 1850, Zermatt 1650, Kleine Scheidegg 2060, Verbier 1400). Le stazioni

di grande rinomanza si trovano spesso a una quota superiore, così che la media di dieci fra le stazioni principali (Arosa, Crans, Davos, Engelberg-Trübsee, Lenzerheide, Montana, Mürren, Saas-Fee, St. Moritz, Zermatt) si aggira sui 1650 metri di altitudine,


B.E.R.U. (B.E.R.U.: Le marché de la neige. op. cit.) osserva che, nel passato, «ci si doveva limitare ad una altitudine media, per il fatto che non esistevano mezzi meccanici per trasportare gli sciatori: questi diventano sempre più esigenti e una stazione a 1000 metri di altitudine è oggi considerata insufficiente». (Optimum: 1500 msm) Crediamo di aver così dimostrato, sulla scorta di testimonianze attendibili, come l’altitudine di un centro turistico di montagna trovi il suo optimum intorno ai 1500 metri sul livello del mare. Fattori morfologici Anche in questo capitolo dobbiamo considerare due elementi: la morfologia vera e propria del terreno e i dislivelli. (Morfologia) a) Morfologia: B.E.R.U., da noi già citato (B.E.R.U.: Le marché de la neige. op. cit.), nota in proposito che «l’importanza e la natura del rilievo risaltano ancor più per il fatto che in una stazione invernale, necessari alla sua esistenza sono non i campi di neve orizzontali, ma una morfologia tale che numerose piste possano essere sistemate, con determinati dislivelli, nel terreno. Indubbiamente molti terreni possono essere tecnicamente adatti o resi meglio atti alla pratica dello sci. Vi sono tuttavia dei dati naturali fondamentali che sono imperiosi… Una certa varietà del rilievo permette a tutte le categorie di sciatori, dal debuttante al più esperto, di trovare nella stazione la possibilità di esercitare il proprio talento e di distrarsi grazie alla diversità dello sforzo richiesto a seconda della lunghezza e dei dislivelli delle piste.» (Rilievo) Effettivamente occorre disporre di un terreno che permetta la sistemazione di piste nelle varie gradazioni di difficoltà, In ogni caso, la prevalenza è da dare alle piste facili e medie piuttosto che alle difficili. Laddove i pendii sono troppo ripidi e l’andamento del terreno non consente di tracciare delle piste accessibili a chi è dotato di mezzi tecnici e fisici modesti, il successo appare dubbio. (Piste) Lo sci è ormai uno sport di massa e seppure negli ultimi anni si sia verificato un notevole progresso qualitativo nella preparazione degli sciatori, si constata un fenomeno che è comune e naturale a tutte le forme


dell’attività umana: gli ottimi sono pochi, i buoni in numero crescente, i meno buoni costituiscono tuttora la maggioranza. È perciò necessario che una stazione invernale offra, accanto alla pista per i campioni, le piste per i buoni e i meno buoni: questa è un’altra condizione indispensabile al successo. Il rilievo del terreno deve quindi prestarsi in modo da poter seguire questi principi, elementari se si vuole, ma da mettere assolutamente in atto se si vuol raggiungere lo scopo desiderato: il successo finale. (Dislivelli) b) I dislivelli: con la morfologia, nel senso che abbiamo visto, assumono la più grande importanza. Abbiamo voluto esaminare questo problema sulla scorta di quanto esiste nei migliori centri invernali della Svizzera, Francia e Italia e siamo arrivati alla conclusione che il dislivello di una discesa deve essere di almeno 500 metri. Si tratta, evidentemente, di un minimo. I mezzi di risalita hanno spesso un dislivello inferiore ai 400 metri, come lo prova l’elenco che diamo poco sotto, ma in generale questi impianti offrono delle combinazioni che permettono di raggiungere quasi sempre dei dislivelli notevolmente superiori (sistemi di impianti plurimi a tronchi separati ccc,). Un esame delle attrezzature di ventitré stazioni svizzere e francesi ci ha portati a queste constatazioni: 67 impianti hanno un dislivello inferiore ai 400 metri = 54% 25 impianti hanno un dislivello fra i 401 e i 600 metri = 20% 14 impianti hanno un dislivello fra i 601 e gli 800 metri = 11 % 11 impianti hanno un dislivello fra gli 801 e i 1000 metri = 9% 8 impianti hanno un dislivello superiore ai 1000 metri = 6% La tendenza, nei nuovi impianti, è nel senso di coprire dislivelli sempre più elevati. (Dislivelli inferiori ai 500 m) In ogni caso, è necessario disporre di piste con dislivelli variati, ma con almeno 500 metri di differenza di livello. Con questo non affermiamo che non si possano avere piste con dislivelli inferiori, ma questo può intervenire solo là ove il complesso degli impianti della stazione offre diverse possibilità di dislivelli notevolmente superiori. Nei posti dove non si potrà raggiungere il minimo dei 500 metri si potrà fare dello sci, ma non si avrà mai una stazione invernale che possa definirsi tale. Si potranno ottenere ottime palestre di esercizio, ma non si avranno mai dei centri turistici invernali che possano esercitare un richiamo serio sulla massa dei clienti. Questa ragione dovrebbe imporre una certa cautela negli investimenti in zone invernali di questo genere.


Infine, in materia di dislivelli, è necessario tener presenti anche le necessità della competizione, dello sport agonistico. Le manifestazioni agonistiche direttamente non danno molto alla stazione, ma sono ugualmente necessarie per la pubblicità della stazione stessa: questo il motivo per il quale tutti i centri più importanti organizzano alcune manifestazioni di grido di livello internazionale. Una normale pista di discesa di questo genere, dovrebbe avere un dislivello che si aggira sui 1000 metri. Fattori antropici (Fattori antropici) Sono quelli determinati dalla volontà e dall’azione dell’uomo e li possiamo genericamente elencare così: l. mezzi di accesso; 2. strutture logistiche; 3. attrezzature sportive; 4. attrezzature complementari. (Mezzi di accesso) Mezzi di accesso: Abbiamo già accennato a questi mezzi parlando dell’ubicazione e non ripeteremo i concetti già esposti, Il problema degli accessi viene risolto in modo diverso a seconda della stazione. Molte di queste sono dotate di accessi ferroviari (p. es. St. Moritz, Arosa, Davos, Zermatt, Andermatt ecc.), altre sono dotate di accessi stradali (Adelboden, Flims, Sils, Lenzerheide, Unterwasser, Verbier ecc.). In Italia dispongono di accessi stradali Cervinia, Sestriere, Madonna di Campiglio, S, Martino di Castrozza ecc., e in Francia abbiamo Megève, St. Gervais, Méribel, Alpe d’Huez ecc. Capita qualche volta che la stazione-centro si trovi ad una altitudine relativamente modesta, dove confluiscono i mezzi di accesso. Da questo centro parte poi tutto un complesso di mezzi di collegamento con la parte più elevata della regione (strade, teleferiche, seggiovie, sciovie ecc.) che portano gli sciatori sui campi di neve. Esempi di questo genere ne troviamo un po’ in tutti i paesi. Un esempio tipico è Garmisch-Partenkirchen. Siccome poi il mezzo principale di approccio non sempre arriva nel centro della zona sciatòria, è necessario talvolta stabilire dei collegamenti atti a raggiungere i campi di neve. Un esempio in questo senso lo abbiamo a Carì: la ferrovia arriva a Faido ed i trasporti Faido-Carì avvengono su strada a mezzo autopostali.


La ferrovia è un mezzo importante: però non sempre, - anzi, non spesso essa giunge nel centro della zona, per cui occorre stabilire il collegamento fra questa e la stazione ferroviaria. (Strada e teleferica) Sul mezzo da scegliere i pareri non sono sempre unanimi ed occorre riconoscere che la scelta deve essere fatta sulla base delle condizioni particolari che si presentano caso per caso. In ogni modo i mezzi sono generalmente due: la strada o la teleferica. Taluni preferiscono questa, altri l’altra. (Teleferica) La teleferica, tuttavia, è un mezzo di trasporto di capacità limitata: 200, 300, al massimo 500 persone all’ora. Ora, un fenomeno che si verifica particolarmente nello sci è quello delle punte di fine settimana. Al sabato e, ancor più la domenica mattina, masse imponenti si dirigono verso le stazioni invernali. Se, arrivati al punto ove inizia il collegamento finale, l’attesa - prima di usufruire del mezzo di collegamento - dura pochi minuti o poche diecine di minuti, lo sfollamento avverrà senza troppe difficoltà. Se il tempo dell’attesa supera l’ora, una cosa è certa: che i turisti costretti ad aspettare troppo a lungo non diverranno mai clienti della zona e si faranno, anzi, strumento di una propaganda negativa. La portata media di una teleferica non permetterà mai, quindi, di soddisfare tutti i clienti che si presenteranno nelle prime ore del mattino della domenica. Si deve pensare che questi clienti, nelle zone che raggiungono un certo livello di sviluppo possono facilmente superare il migliaio che si presentano nello spazio di un’ora (in un posto dalle modeste possibilità di Carì si sono verificate domeniche con delle frequenze di oltre 700 persone). Se ne deduce quali difficoltà si avranno per sfollare tutta questa gente con un mezzo come la teleferica che, normalmente - ripetiamo porta sulle 300 persone all’ora. A proposito di teleferiche non bisogna mai dimenticare anche l’aspetto economico del problema: una teleferica che serva da mezzo di accesso più che da mezzo di risalita può dare ottimi esiti finanziari in un centro turistico che può contare su un afflusso di numerosi turisti e di un movimento regolare sia nei giorni feriali, sia in quelli festivi. Ma dove un afflusso in settimana non può essere garantito l’impianto diventa senz’altro deficitario. Una ricerca da noi effettuata su sedici impianti del genere siti nel nostro paese, ci ha permesso di stabilire che le spese di esercizio di questi impianti variano dal 13,24 al 33,03% del rispettivo costo. Per cui, ammessa una


percentuale anche solo del 15%, un impianto che costa un milione - ed è noto che in questo dominio con un milione si fa molto poco - richiederebbe Fr. 150’000 di spese annue: ciò che, in altri termini, vuol dire che occorrono 30’000 clienti a Fr. 5.- per coprire le spese, In queste condizioni una teleferica potrà reggere laddove si ha un forte movimento turistico che permetta di tenerla in esercizio per la gran parte dell’anno; è invece un affare con limitate prospettive dove queste condizioni non si verificano, come è il caso per quasi tutte le regioni del nostro cantone che potrebbero vantare premesse di una valorizzazione invernale. Una categoria di turisti, che diventa sempre più numerosa, raggiunge i campi di sci con l’automobile: ora, non è facile indurre costoro a rinunciare all’automobile, abbandonarla alla stazione inferiore della teleferica, salire con quest’ultimo mezzo, fare interminabili «code» alla sera per riprendere la teleferica e scendere poi a raggiungere la propria macchina in basso. Si tratta di una categoria di clienti che, in condizioni simili, finirebbe per la massima parte a rinunciare alla stazione ed a rivolgersi altrove. Questo, a parte anche l’aspetto finanziario del problema: non sono molte le teleferiche che richiedano meno di Fr. 4.- per un trasporto, per cui il padre di famiglia, con moglie e un paio di figli, dovrebbe spendere facilmente sui 20 franchi per superare qualche chilometro mentre che, con l’automobile, sarebbe in grado di farlo con una spesa di pochi soldi. (Strada) Tutte queste considerazioni ci portano a confermare il parere di moltissimi competenti della materia che ritengono che il miglior mezzo di comunicazione sia la strada, la quale praticamente dispone di una capacità di transito illimitata. E ciò è ancor più vero se si pensa che parecchie stazioni che dispongono di altri mezzi reclamano ora la strada. Per finire vogliamo ricordare che quanto precede riguarda più precisamente gli accessi immediati dalla stazione di fondovalle alle zone turistiche sui 1500 metri. Circa gli accessi non immediati, dalla zona-mercato di prossimità alle stazioni di fondovalle, vi è semplicemente da rilevare che tutta la nostra regione è egregiamente servita da una ferrovia fra le più importanti e da una strada transalpina che è pure fra le più importanti. (Strutture logistiche) Le strutture logistiche. Uno dei fattori capitali del successo di una stazione montana è la sua capacità logistica: con questo termine si deve intendere la capacità di ricovero per la notte, data dalle varie installazioni ma soprattutto dagli alberghi.


Il fenomeno del turismo nelle zone invernali si sviluppa favorevolmente solo se si verifica la convergenza di determinate condizioni, di determinati fattori che, in parte, abbiamo esaminato. La presenza di un fattore richiama necessariamente la presenza di altri: diversamente uno sviluppo turistico non sarebbe possibile. Per quanto riguarda quindi le possibilità logistiche, il problema si pone, almeno nella sua enunciazione, in termini assai semplici: o la regione offre possibilità di alloggio convenienti, ed allora si formerà indubbiamente una corrente turistica permanente, economicamente efficiente e interessante, oppure la regione non offre queste possibilità ed allora il movimento assumerà le caratteristiche che Defert ha chiamato «a dente di sega» con punte di traffico, magari fortissime, alla domenica, per ricadere a zero subito il giorno dopo. Questo regime non rappresenta un interesse economico rilevante, sia dal punto di vista particolare di chi svolge una attività nel dominio turistico della località, sia dal punto di vista generale dell’economia della regione. La soluzione richiede quindi la creazione di strutture che possiamo dividere in tre categorie: l. alberghi; 2. appartamenti o case di vacanza; 3. capanne o rifugi per la gioventù. (Albergo) L’albergo è la forma di struttura che risulta più efficace. Vorremmo dire, anzi, che senza l’albergo è inutile parlare di stazione turistica in montagna, specialmente d’inverno. Ce lo conferma anche B.E.R.U. quando afferma che «a differenza di quanto avviene per il complesso dei soggiorni (compresi il mare, la campagna ecc.) è l’albergo che in montagna ha la prevalenza su ogni altra forma ricettiva. E siccome le statistiche concernono i soggiorni estivi e invernali, noi possiamo "a fortiori" supporre che, per il solo inverno, questa priorità assoluta dell’albergo deve essere ancora più netta perché certe forme ricettive, come il campeggio, non sono possibili d’inverno» (B.E.R.U.: Le marché de la neige, op. cit.). L’efficacia dell’albergo è dovuta soprattutto al fatto che esso presenta una clientela continua, in settimana come nei periodi festivi, e che esso è generalmente occupato durante tutta la stagione: questa occupazione fornisce la clientela a tutte le altre strutture, dagli sci lift al bar, dal dancing al chiosco che vende le cartoline e i ricordi. L’albergo perciò costituisce una delle condizioni essenziali, che sta come premessa del successo della stazione. (Impianti ricettivi extra alberghieri)


La quale viene generalmente completata da un complesso di impianti ricettivi extra alberghieri che, dal punto di vista dell’economia generale della stazione, sono certamente meno importanti e meno interessanti perché vengono occupati soltanto in determinati periodi, senza continuità, spesso nel finale di settimana, e offrono quindi una clientela intermittente e non permanente che si presenta generalmente nei momenti in cui si raggiungono le più alte punte di frequenza e, quindi, quando questa clientela è meno interessante. Da questo fatto appare ancor più l’indispensabilità delle strutture alberghiere. (Strutture sportive) Le strutture sportive. Il successo di una stazione turistica dipende, secondo J. Defert (Defert, J.: Les sports d’hiver. Un aspect de la géographie des loisirs. in «Acta geographica», n. 17, Parigi, 1951), da quello che egli definisce «l’équipement de jouissance». In realtà, fattori naturali, fattori antropici, accessi, strutture ricettive, trasporti ecc., costituiscono i singoli ingranaggi di una grande macchina, ognuno dei quali integra l’altro e diventa così indispensabile. Quando usiamo il termine «attrezzature», noi lo intendiamo nel senso più lato, includendovi tutto il complesso di impianti e di istituzioni che concorrono a formare quello che potremmo definire il patrimonio complementare indispensabile di ogni stazione invernale. La discesa con gli sci è e resterà la più grande gioia, la suprema soddisfazione dello sciatore: prima di discendere si deve però salire. E per salire si possono impiegare due mezzi: l’ascesa che possiamo chiamare naturale, coi mezzi fisici dello sciatore, fatta con gli sci muniti di un dispositivo antisdrucciolevole dato generalmente dalle pelli di foca, e l’ascesa artificiale data dal mezzo meccanico. Quest’ultima, nota J. Defert, «obbedisce alla regola del minimo sforzo come negli altri settori industriali». E siccome i mezzi classici sono in disuso e le nuove generazioni sembrano temere molto la fatica, ecco che il mezzo artificiale ha avuto ovunque il più grande successo. Non è quindi il caso di discutere i due concetti che, al riguardo, hanno sempre fra loro polemizzato: quello dei puri, in continua diminuzione, che sdegnano l’ascesa «artificiale» e che ormai non sono più che una sparuta pattuglia, e quello dei moderni, in continuo aumento, che non salgono se non sono attaccati o appesi a un filo. Basti per noi la constatazione che, ormai, il filo ha vinto la sua battaglia. (Mezzi di salita) I mezzi artificiali di salita sono: l. le funicolari e le ferrovie a cremagliera; 2. le teleferiche; 3. le seggiovie; 4. gli sci lift; 5. le slittovie.


(Funicolari) Le funicolari e le cremagliere, anche se sono abbastanza numerose nel nostro paese, risalgono ad un’altra epoca. Hanno fortissima capacità di trasporto e un esercizio oneroso: servono egregiamente laddove esistono, ma possono essere vantaggiosamente sostituite con mezzi più moderni; per cui oggi non si concepirebbe più la costruzione di impianti del genere. (Teleferiche) Le teleferiche costituiscono un mezzo più moderno, di rapida costruzione, richiedenti investimenti notevolmente inferiori e spese d’esercizio pure inferiori delle funicolari, seppure sempre relativamente forti. Delle teleferiche abbiamo già parlato e non ci ripeteremo. È un mezzo che ottiene indubbiamente successo laddove esistono determinate premesse, di cui già abbiam fatto parola, ma che non è ovunque adatto. (Seggiovie) Le seggiovie sono pure impianti moderni, di costruzione e di esercizio relativamente economici, la cui capacità di trasporto può essere spinta ad indici notevoli. L’impianto, molto schematicamente, è costituito da un cavo portante-traente al quale viene sospesa la serie delle seggiole o addirittura delle cabine. (Sci lift) Gli sci lift sono impianti dotati di un centro motore che aziona un cavo al quale vengono attaccati gli sciatori che sono così trainati in salita, Sono impianti di fortissima capacità e la loro economicità, sia dal punto di vista costruttivo sia da quello dell’esercizio, è notevole. Presenta due vantaggi sostanziali: mantiene lo sciatore in azione anche durante la salita, risparmiandogli così, in parte, il freddo che con altri mezzi non si evita, e - cosa molto importante non esige che lo sciatore si levi gli sci per usufruire del mezzo di trasporto. Lo sci lift è indubbiamente uno dei mezzi di elevazione meccanica migliori. (Slittovie) Le slittovie sono ormai impianti superati che sono scomparsi quasi ovunque, Si tratta di impianti dati da una slitta di forte capacità (20/30 persone) trainata da un cavo, esattamente come le funicolari. A lato degli impianti di elevazione meccanica stanno le piste. (Piste di discesa) Le piste di discesa sono l’indispensabile complemento delle attrezzature di discesa di salita: vorremmo dire, meglio, che un unico impianto si compone precisamente dei mezzi meccanici di salita e delle piste, perché senza queste non si giustificherebbero gli altri impianti, in quanto scopo


dello sciatore è appunto di compiere la discesa. Sui pendii vengono stabiliti determinati tracciati che servono agli sciatori per effettuare la discesa. Generalmente, vengono stabiliti tracciati o piste di tre ordini: ripidi (difficili), di media pendenza (medie), poco ripide (facili). A nostro modo di vedere una pista è da considerare senz’altro difficile se la sua pendenza media supera il 30/35%, è media se rimane nei limiti del 20/30%, ed è facile se la sua pendenza media è inferiore al 20%. (Dislivelli) Un fattore importante è dato dai dislivelli: a nostro giudizio, una buona pista standard di discesa dovrebbe avere un dislivello di 500/600 metri almeno. I 600 metri rappresentano lo standard normale di un percorso di competizione di media difficoltà. Talvolta, troviamo tracciati con dislivello simile anche in gare internazionali, benché le grandi competizioni (Kandahar, Lauberhorn, Parsenn ecc.) presentino percorsi che superano generalmente i 1000 metri. (Segnalazione) Le piste necessitano di segnalazioni che consistono in un seguito di indicatori posti lungo il tracciato a indicarne la direzione, l’andamento, le varianti, le anomalie ecc. Necessitano inoltre di una manutenzione che viene normalmente fatta dagli uomini addetti agli impianti di elevazione. (Posti di soccorso) Inoltre, lungo le piste si installano dei posti di soccorso, dotati di materiale di pronto soccorso, slitta canadese per il trasporto di infortunati ecc., ed esse vengono normalmente percorse da pattugliatori di pista che hanno il compito di mantenerle e di soccorrere gli infortunati. (Attrezzature complementari) Attrezzature complementari: non ci diffonderemo su altre attrezzature, limitandoci a menzionarle: abbiamo avantutto il campo di pattinaggio (patinoire) per il pattinaggio artistico, partite di hockey, curling ecc. È opportuno stabilire qualche pista da slitta, se non addirittura una pista da bob che si ritrova solo nelle grandi stazioni ed esige forti spese. La pista da slitta dovrebbe soprattutto avere lo scopo di togliere le slitte dai posti dove si fa dello sci, in quanto pericolose e ingombranti. I trampolini per il salto, sono speciali impianti che si compongono di una pista d’avvio, del trampolino d’involo e di una pista di atterraggio, per permettere il salto con gli sci. Si tratta di una attrezzatura che non viene molto usata.


La scuola di sci è una istituzione necessaria in ogni località turistica invernale: si ha una organizzazione che provvede alla bisogna e impartisce l’insegnamento secondo la tecnica unificata svizzera. Le lezioni possono essere impartite dagli istruttori autorizzati i quali sono titolari di un brevetto che si ottiene in seguito a determinati esami organizzati dall’Interassociazione per lo sci. In ogni stazione vi possono essere anche altre strutture completive che non menzioneremo limitandoci, anche per ragioni di spazio, all’enumerazione che abbiam fatto. La stazione trova poi dei complementi in tutta una serie di altre attrezzature che non sono di carattere sportivo: bar, caffè, dancing, ristoranti, negozi, cinema ecc. VIII. Le possibilità del Ticino (Possibilità nel Ticino) Abbiamo così esaminato, sia pure affrettatamente, gli aspetti essenziali del problema del turismo nelle zone di montagna. Ora, stabilite delle direttive nel senso che abbiamo esposto, vi è da chiedersi se e dove sarà possibile aprire nuove zone al turismo nel nostro Cantone. Naturalmente, siccome la scelta di queste zone deve, o dovrebbe, essere fatta sulla base di una somma di premesse - che abbiamo viste -, appare subito come non sia facile trovare ovunque le condizioni preliminari indispensabili per poter realizzare dei nuovi centri turistici montani, confermando così quanto abbiamo già detto all’inizio di questa nostra trattazione. Comunque, senza passare ad una elencazione che avrebbe, fra l’altro, il dubbio merito di sollevare sicuramente obiezioni e, magari, risentimenti da parte di chi potrebbe vedere escluse determinate zone, possiamo dire che nel nostro Cantone esistono indubbie possibilità: tuttavia le zone nelle quali tutte le premesse indicate si verificano appieno non sono molte. Al momento stimiamo che si possano contare sulle dita di una mano e che siano localizzate soprattutto in Leventina e in Blenio. Quando determinati problemi di viabilità potranno essere risolti, si potrà probabilmente contare su qualche altra zona che varrebbe la pena di valorizzare a fini turistici: e pensiamo, in questo senso, soprattutto alla valle di Bedretto. (Poli di sviluppo)


Si tratterebbe, in concreto, nell’ambito di chiare direttive di una politica del turismo nei confronti delle zone che hanno delle possibilità di sviluppo, di stabilire appunto dei poli di sviluppo: in un secondo tempo, indubbiamente, seguiranno spontaneamente altri sviluppi, così che il problema di parecchie zone di montagna potrebbe, in diverse regioni, trovare la sua soluzione nel periodo di qualche decennio. IX. Sviluppi e finanziamenti (Sviluppi e finanziamenti) Due quesiti sorgono, dopo l’esposizione che precede, e si possono condensare in due domande: l. I futuri sviluppi saranno tali da giustificare una politica di espansione turistica delle nostre zone di montagna? 2. Quale potrà essere l’entità dei finanziamenti richiesti e come si potranno operare questi finanziamenti? a) Previsioni di sviluppo futuro (Previsioni di sviluppo) Tutte le previsioni, formulate da tutti gli enti che agiscono sia sul piano nazionale sia su quello internazionale, sono concordi nel prevedere che l’espansione del turismo è un fenomeno che durerà per numerosi anni ancora (O.C.D.E.: Le tourisme dans les pays de l’O.C.D.E. 1963, Parigi, 1963). Tali sono le previsioni formulate dal Comitato del turismo dell’O.C.D.E. In Francia, nell’ambito del IV piano economico, si è arrivati alla conclusione che, nei prossimi quindici anni, il movimento turistico sarà raddoppiato e da questa previsione è nato un programma di potenziamento delle strutture turistiche che, anno per anno, si dimostrano sempre più insufficienti a fronteggiare le richieste. Da notare che, precisamente in previsione di questi sviluppi, la quota più elevata di finanziamento accordata nel piano alle attività turistiche è appunto destinata a promuovere la creazione delle strutture e delle infrastrutture di montagna, perché si prevede che è verso la montagna che si avrà il maggiore sviluppo (La documentation française, IV, Plan 1962~1965, Parigi, 1962). In Savoia è in corso la creazione di nuove stazioni turistiche, una delle quali dimensionata su un potenziale di 18’000 letti in corso di costruzione a Flaine. Una seconda, con 27’000, viene attualmente progettata. Courchevel, di recente creazione, conta 6’000 letti (Tissot, Fréderic: Evolution et perspectives


du tourisme moderne, in «Revue de Tourisme», Berna, n. 2/1963). Se consideriamo il numero dei pernottamenti, abbiamo pure una chiara idea di quello che è stato lo sviluppo del turismo invernale negli ultimi anni: in Svizzera siamo passati da l’982’994 pernottamenti nella stagione invernale 1950/51, a 5'338’164 nella stagione 1960/61; aumento del 270%. Significativo un altro dato che ci viene dall’Austria; nel 1945 si avevano 26 impianti meccanici di elevazione, nel 1960 questi impianti erano 595. Si assiste, insomma, a degli sviluppi ingentissimi, tanto da far dire ad uno studioso francese che «lo sviluppo prodigioso degli sport invernali resta un fatto recente, attuale, collegato in buona parte con l’alta congiuntura economica del dopoguerra e col sensibile rialzo del tenore di vita in numerosi Stati occidentali. Nel cuore di un’Europa dinamica, le Alpi diventano insensibilmente il "terreno da giuoco dell’Europa", così come ai tempi era considerata la Svizzera» (Mériaudeau. Robert: Les stations de sports d’hiver en Suisse, en Autriche et en Allemagne méridionale, in «Revue de géographie alpine», Grenoble, n. 4/1963). Tutte le Alpi, insomma, sono coinvolte in questo fenomeno di espansione del turismo che è tipicamente un fenomeno di espansione economica. In Svizzera si nota uno sviluppo importante ovunque e si assiste alla creazione di nuovi complessi come quello di Verbier - quasi inesistente prima della guerra e dotato oggi di 1’000 letti d’albergo e 5’000 letti in appartamenti e case di vacanza - al rinnovo completo o quasi di numerosissime stazioni ed alla creazione recente di nuove stazioni. In Italia, dove lo spirito di iniziativa non manca certamente, nell’ultimo decennio si sono avuti pure sviluppi spettacolari, In tutto l’arco alpino dunque, vi è un fervore di iniziative nuove, di nuove realizzazioni.

b) La situazione nel Ticino (Stazione nel Ticino) In tutto questo fervore di iniziative e di opere, un settore delle Alpi rimane inoperoso: il settore delle Alpi Lepontine che, come è noto, comprende la zona montana del Ticino. Vi sarebbe da chiedersi il perché di un simile stato di cose, e la risposta, a nostro giudizio, dovrebbe mettere in rilievo l’evoluzione storica del turismo nella nostra zona alpina durante gli ultimi sessant’anni. Le cause di questo «vuoto» che si è creato nella nostra regione sono indubbiamente da ricercare non in un passato immediato, ma più lontano. (Leventina)


La Leventina è indubbiamente la zona nella quale esistevano le migliori premesse di successo di una azione di sviluppo delle attrezzature turistiche estive ed invernali, così che una evoluzione come si è prodotta ovunque altrove avrebbe potuto portare questa regione - ma pensiamo che, nella sua scia, sarebbero seguiti Blenio e, in parte, la Vallemaggia - ad un livello di sviluppo turistico come si è verificato altrove anche in zone che erano e permangono meno favorite di questa valle. Le premesse generiche e soggettive esistevano ed erano spesso più favorevoli che altrove: soprattutto l’ubicazione della zona e gli accessi mettevano la regione in una situazione di favore come in pochi altri posti si verificava, data la vicinanza di regioni e centri intensamente popolati e l’esistenza di una ferrovia e di una strada fra le più importanti. Queste sono premesse essenziali e l’autore che abbiamo appena citato lo riconosce molto esplicitamente quando afferma che «malgrado la notevole identità delle condizioni naturali, la localizzazione dei centri sportivi invernali è strettamente legata al fattore comodità di accesso» ( Mériaudeau, Robert: Les stations de sports d’hiver... ecc., op. cit.).

Ora, la Leventina, nei primi lustri del secolo, aveva tentato ed era egregiamente riuscita a dotarsi di una attrezzatura turistica di una certa importanza: ed è attorno a questo nucleo che si era andato formando che avrebbe dovuto svilupparsi poi tutto il complesso di strutture e infrastrutture che avrebbero permesso alla regione di allinearsi fra le altre zone di sviluppo turistico soprattutto invernale. (Crisi nel turismo leventinese) Ma è accaduto che, a seguito della prima guerra mondiale, anche l’attrezzatura turistica e soprattutto alberghiera leventinese ebbe a subire le conseguenze di una crisi che si è estesa a tutta l’industria turistica del paese. Crisi che ha determinato l’adozione di una legislazione e di misure intese a proteggere l’industria alberghiera. Fra queste misure, talune miravano ad eliminare una parte degli alberghi esistenti allo scopo di diminuire la concorrenza e queste misure trovarono in Leventina larga applicazione. A questo riguardo risulta molto interessante il confronto fra le strutture ricettive della valle nel 1913 e nel 1960. (1913-1960) La situazione era la seguente: 1913 1960 Alberghi 22 10 Esercizi con alloggio 62 44


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Chiara appare quindi la decadenza intervenuta: ora, questa decadenza è stata, in notevoli proporzioni, determinata dall’applicazione delle misure adottate dalla Confederazione per combattere la crisi alberghiera, le quali hanno provocato in Leventina la scomparsa di oltre 250 letti. Questa eliminazione è intervenuta proprio nel momento in cui iniziava, nelle zone di montagna, l’affermarsi della seconda stagione con l’incremento dello sci e l’introduzione graduale delle vacanze invernali, cioè dopo il 1925. L’eliminazione del turismo alberghiero ha portato con sé anche l’eliminazione di una parte del turismo extra alberghiero. A questo proposito non si hanno dati per tutta la valle, ma una statistica che abbiamo trovato nell’archivio comunale di Faido ci permette di misurare la portata del processo involutivo che si è verificato anche nel dominio degli appartamenti di vacanza. Nel 1913, Faido metteva a disposizione 89 appartamenti che ospitavano, nella stagione estiva, 490 persone. Oggi, la Pro Faido ha in nota… tre appartamenti. Una valutazione effettuata, stima a un complesso fra i 20’000 e i 25’000 i pernottamenti che, nel 1913, si ebbero a Faido. Attualmente essi variano fra i 6’000 e i 7'000. Questo può darci un’idea della decadenza intervenuta. (Attrezzature invernali) Ciò nonostante, nel dominio delle attrezzature invernali si è ugualmente tentato qualche cosa: una slittovia, trent’anni fa o giù di lì, ad Airolo, iniziativa finita poco felicemente. Uno sci lift ad Airolo recentemente - che è l’unica iniziativa, data l’immediata vicinanza dell’abitato, che abbia potuto tenersi in piedi - un paio di sci lift a Carì, uno a Prato Leventina. Generalmente, queste esperienze sono state negative: la mancanza di installazioni alberghiere elimina la clientela durante la settimana e gli impianti funzionano generalmente solo il sabato o, magari, solo la domenica, In queste condizioni la gestione è deficitaria. (Assenza dell’Ente pubblico) Occorre dire che, in tutte queste iniziative, l’ente pubblico è stato deplorevolmente assente. In un caso che conosciamo molto bene, perfino le infrastrutture di interesse generale hanno dovuto essere create dall’ente costituito per la costruzione e l’esercizio dell’impianto di elevazione meccanica, e lo sgombero della neve, per dieci anni, su un notevole tratto


di strada, è stato a carico di quest’ultimo ente; solo da un paio d’anni a questa parte si è manifestata miglior comprensione con una partecipazione dell’ente pubblico a questo servizio. In numerose occasioni si era reclamato un miglioramento della strada di accesso: regolarmente, per dieci anni, non s’è fatto nulla. Nemmeno di fronte alle statistiche dei trasporti postali che indicavano un afflusso di oltre 40’000 persone all’anno non si è mosso dito, preferendo - nella medesima regione - allargare e sistemare strade sulle quali le statistiche indicavano il trasporto di qualche migliaio di persone. In tal modo, per un decennio, l’ente pubblico ha manifestato una totale assenza, un deplorevole disinteresse, una spettacolosa carenza anche nei compiti che erano chiaramente di sua spettanza. Questo è quello che si deve oggettivamente constatare. La conseguenza è stata di obbligare gli organismi costituiti faticosamente per creare gli impianti ad assumere anche dei compiti che loro non spettavano, col risultato di gravarli di oneri che logicamente toccavano ad altri. Così, gli esercizi sono diventati fortemente deficitari, i debiti sono rimasti impagati e il risultato finale è stato quello di eliminare praticamente l’impianto di Prato Leventina, mentre a Carì la società che si era costituita per lo sci lift ha perso completamente il capitale impiegato ed ha finito, recentemente, per cedere l’impianto ad un privato. Ad Airolo, in questi ultimi anni, si è costituita la teleferica del Sasso della Boggia e un albergo sull’alpe di Pesciüm. Queste iniziative non hanno avuto un successo particolare e la società promotrice degli impianti si è trovata, a un certo momento, in dissesto. Sembra ora, tuttavia, che un risanamento sia stato raggiunto. Questa la situazione che dimostra come i piccoli tentativi, fatti con mezzi modesti seppur con ricchezza di buone intenzioni, non risolvono il problema il quale va affrontato su una base più ampia e con notevole impiego di mezzi. Le possibilità di un futuro sviluppo esistono, le premesse sono spesso largamente favorevoli. Un complesso di circostanze diverse ha finora impedito uno sviluppo che, tuttavia, una più esatta visione del problema, l’esperienza faticosamente compiuta in tentativi per lo più negativi ma ricchi di insegnamenti e una congiuntura economica più che mai favorevole, non mancheranno dal favorire in un prossimo avvenire. c) Il problema dei finanziamenti


(Finanziamenti) È indubbiamente il problema fondamentale. Già abbiamo visto come le piccole iniziative abbiano determinato dei risultati tutt’altro che brillanti. Il problema che si pone potrà essere risolto solo se affrontato con dovizia di mezzi nella sua integrità. Perciò non basta costruire lo sci lift o la teleferica: quando questi impianti sono realizzati siamo al punto di partenza, perché manca sempre la base che deve garantire il loro successo. (Base: attrezzature logistiche) Questa base è data dalle attrezzature logistiche, soprattutto dagli alberghi. Senza tener conto di questa necessità, è perfettamente inutile pretendere di creare un movimento turistico sulle nostre montagne, ed è appunto in considerazione di queste necessità che qualche recente progetto di valorizzazione di qualche nostra regione, prevede la creazione di impianti ricettivi di notevole importanza. (Rischi) Non bisogna perdere di vista il fatto che tutti questi investimenti (alberghi, sciovie, seggiovie ecc.) presentano un margine di rischio generalmente molto più ampio dei normali investimenti in altre attività e questo maggior rischio dipende soprattutto da due elementi: il limitato periodo di utilizzazione degli impianti e delle strutture e il carattere aleatorio di uno dei fattori essenziali, dato dal tempo, dall’innevamento ecc. Secondo le nostre esperienze, il 10% delle stagioni almeno devono essere considerate, dal punto di vista meteorologico, non buone: ne consegue la necessità di adottare particolari accorgimenti, nella costruzione degli impianti, per garantire «la stagione» anche negli anni cattivi: e da qui, aumento degli investimenti. Il 10-20% delle stagioni si possono considerare medie e poco più del 50-60% si possono qualificare di buone con larga tolleranza di oscillazione nella qualifica di «buono». Il pericolo effettivo che grava su tutte queste iniziative è dato dal periodo di avviamento. Si deve calcolare che, per i primi cinque anni, gli impianti e le installazioni rimangono deficitari, mentre per un paio d’anni non realizzano benefici. Un avviamento vero e proprio si può considerare trascorsi solo i primi cinque anni. Quindi il margine di rischio di questi investimenti è molto più largo del normale e questo fatto spiega, almeno in parte, la ragione per la quale le nostre regioni non hanno conosciuto finora uno sviluppo. (Garanzie)


In questa situazione è necessario che chi effettua gli investimenti possa ottenere determinate garanzie che permettano di colmare i deficit iniziali e di disporre della possibilità, in un secondo tempo, di sviluppare le installazioni. In montagna, queste garanzie sono unicamente offerte dalla possibilità di acquistare terreni a condizioni vantaggiose, in misura sufficiente a garantire gli ulteriori sviluppi: sviluppo delle installazioni di trasporto, delle attrezzature alberghiere e commerciali e di quello che potremmo definire «l’abitato». È quanto è avvenuto ovunque altrove e che ha portato numerosissime località ad un successo talvolta grandioso: ed è quello che fatalmente deve avvenire da noi se vogliamo veramente promuovere la valorizzazione di zone che, finora, economicamente valgono poco più di niente e minacciano di diminuire sempre più nella entità del toro valore. Anche a questo proposito deve soccorrerci l’esperienza negativa dei casi che abbiamo citato. Laddove si sono costruiti anche modesti impianti, il valore dei terreni è aumentato sensibilmente: ne hanno approfittato gli enti proprietari dei terreni ed i privati che, di fondi che un decennio or sono valevano forse un franco il metro quadrato, traggono oggi dieci o quindici franchi. In qualche caso non è mancato nemmeno l’agente immobiliare che ha acquistato i terreni per rivenderli a prezzi sensibilmente superiori o per lasciarli inutilizzati in attesa che il rispettivo valore aumenti. Tutto questo, si dirà, rientra nel giuoco normale delle vicende economiche: e non saremo noi, oggi, a negarlo. Ma non appare invece normale, al lume della logica e dell’equità, il fatto che gli enti che hanno provocato questi sviluppi con la costruzione degli impianti siano venuti a trovarsi quasi tutti in situazioni fallimentari… (Azione dei Patriziati) La creazione di un centro turistico ha indubbiamente per effetto di valorizzare tutti i terreni, non solo del ristretto ambito nel quale sorgono gli impianti, ma di una intera zona. Questo è un fatto che i primi interessati, cioè gli enti patriziali e i proprietari dei terreni, non devono o non dovrebbero dimenticare. Una azione molto efficace in questo dominio può, appunto, essere compiuta dai patriziati che sono proprietari di vasti appezzamenti di terreno in montagna, se vogliono appena considerare il fatto che, se non si provocano sviluppi economici nel senso del turismo, i loro terreni andranno fatalmente decadendo e, in un periodo di tempo relativamente breve, saranno ridotti ad un valore assolutamente trascurabile. Vogliamo concludere osservando che una seria azione di potenziamento turistico delle zone montane che posseggono le premesse adatte a


determinare uno sviluppo, deve essere condotta con mezzi molto ingenti: e questo vuol dire investire parecchi milioni di franchi subito nella fase iniziale. Da qui l’importanza del problema e l’estrema difficoltà di attuarne la soluzione. d) Ente pubblico e iniziativa privata (Ente pubblico e iniziativa privata) Quando si parla di azioni di questo genere, si sente spesso dire che lo Stato e gli enti pubblici in genere, dovrebbero fare o almeno partecipare a queste azioni. In Francia, questo avviene normalmente: le stazioni principali (Courchevel, Flaine e parecchie altre che si stanno creando o progettando) sono state o saranno costruite dai Dipartimenti con l’aiuto del potere centrale. In altri casi si sono costituite delle cosiddette «Sociétés d’économie mixte» che hanno assunto l’iniziativa, alle quali partecipano regolarmente gli enti pubblici. Chi scrive, tendenzialmente è favorevole senz’altro all’iniziativa dell’ente pubblico. Vi è però subito da chiedersi se lo Stato, nelle condizioni odierne, possa partecipare ad imprese di questo genere quando rimane alieno da parecchi altri campi di attività che entrerebbero normalmente e più logicamente nell’ambito dell’azione dell’ente pubblico, o che presentano minori rischi. A parte questa considerazione, vi è da rilevare che - e ci ripetiamo - i mezzi richiesti da operazioni di questo genere sono ingentissimi e ci chiediamo se, con la mentalità dominante, sarà mai possibile, in un prossimo futuro, arrivare a determinare l’azione dello Stato in un dominio come quello di cui discutiamo e soprattutto a poter disporre dei finanziamenti necessari. Comunque o lo Stato fa - e sarebbe ora di fare - o lo Stato lascia fare: ci sembra che non si possa arrivare a conclusione diversa. In ogni caso, lo Stato non può disinteressarsi di problemi come questi. Una definizione dei compiti dello Stato e di quelli dell’iniziativa privata è stata enunciata recentemente, in una giornata di studio della Federazione svizzera del turismo. In una relazione di F. Tissot, la ripartizione dei compiti e delle responsabilità fra poteri pubblici e economia privata è stata così definita: (Compiti dei poteri pubblici) 1. Compiti dei poteri pubblici: a) lavori di pubblico interesse come viabilità, sicurezza pubblica, particolarmente le vie d’accesso, le strade nella stazione turistica, i posteggi, acquedotti ecc.


b) tutti i servizi d’igiene pubblica, fognature principali, epurazione delle acque, raccolta, trasporto e distruzione dei rifiuti; c) piani urbanistici, protezione delle bellezze naturali, delle zone verdi, riserve di terreni per l’esercizio degli sport e dello sci. 2. Problemi di economia mista: la cui soluzione dipende dall’appoggio dei poteri pubblici: a) creazione di parchi e giardini, di passeggiate, lavori d’abbellimento, campi di giuoco e di sport, piscine, centri di ricevimento, casino, sale di congressi e di spettacoli; b) organizzazione dei trasporti pubblici, manutenzione delle opere di interesse turistico; c) creazione dei mezzi di salita meccanici laddove l’iniziativa privata non lo può fare o non lo può fare coi mezzi a sua disposizione. 3. Compiti riservati all’iniziativa privata, a particolari o società: a) strutture alberghiere e relativo esercizio; b) organizzazione della ricettività, distrazione, divertimento degli ospiti; c) servizi a favore del personale, distrazioni, corsi di lingue; d) animazione e pratica degli sport; e) propaganda a favore della stazione e ogni compito relativo al promovimento del turismo; f) ogni attività commerciale (Tissot, Féderic: La politique des centres touristiques suisses, Relazione alla giornata di lavoro della Federazione svizzera del turismo, Berna, 28.10.63).

Nel nostro caso, evidentemente, non si tratta per il momento di sviluppare una politica dei centri turistici di montagna, ma si tratta avantutto di creare questi nostri centri turistici. (Intervento dell’Ente pubblico) Perciò crediamo che l’ente pubblico possa intervenire in due modi: l. nel curare, o almeno aiutare, la creazione e il mantenimento delle infrastrutture: viabilità, pubblici servizi, fognature, acquedotti, raccolta rifiuti ecc. 2. nell’incoraggiare l’iniziativa privata a creare le strutture necessarie, mediante incentivi atti a determinare quella che viene definita l’azioneurto, cioè l’azione iniziale intesa a creare nuovi centri turistici. La legislazione in vigore e una legge in preparazione sul turismo possono costituire la base legale all’azione dello Stato così come viene prospettata. X. Conclusioni


(Conclusioni) Crediamo di aver illustrato un problema che, se portato nella fase risolutiva, potrebbe avere per effetto di valorizzare un notevole patrimonio che, diversamente, è certo destinato a perdere continuamente di valore. Il problema deve essere considerato avantutto nella sua portata economica generale: valorizzare ciò che si ha e che sta svalutandosi, ci sembra costituire una azione intesa a migliorare l’intera economia del Cantone, a creare nuove attività, ad aprire nuove possibilità, a promuovere benessere e ricchezza. Ma il problema ha indubbiamente anche un aspetto politico e sociale. (Spopolamento) Da decenni si cerca di attuare una politica intesa a limitare il fenomeno di spopolamento delle zone rurali: da decenni questa politica si avvera sempre più scarsa di risultati. Da decenni si accenna a questo fenomeno, sottolineando la necessità di fare qualche cosa di positivo per eliminarlo o, almeno, per limitarlo: ma il fenomeno continua, si acuisce e finisce per presentare aspetti addirittura impressionanti. (Problema politico) Inoltre è necessario stabilire e mantenere un certo equilibrio fra le varie regioni del paese: v’è un principio dell’equilibrio, in questo senso, che sembrerebbe essere una delle leggi fondamentali della politica. Ora, questo principio dovrebbe rendere evidente la necessità di tentare di offrire alle zone più povere e meno sviluppate qualche cosa che concorra a sminuire lo squilibrio che esiste fra queste e le altre zone del paese. Se poi è pure compito di una politica mantenere l’integrità fisica di questo paese, occorre non perdere di vista il fatto che le minacce che gravano su questa integrità si moltiplicano, soprattutto nelle zone impervie, al momento in cui queste diventano disabitate, per cui, dopo breve periodo toccherebbe precisamente a coloro che sono ammucchiati nei centri e nel fondovalle salvaguardare questa integrità. Infine, i risultati di parecchi decenni di politica di aiuto alle zone di montagna mostrano chiaramente i limiti esigui entro cui questa politica è costretta: e quindi o si riconosce il fallimento o quasi di una politica, o si ha finalmente il coraggio di tentare nuove strade: si noti, nuove strade per noi, perché esse non sono impraticabili ma sono le stesse sulle quali quasi tutti i paesi della zona alpina ci hanno preceduti. E da un punto di vista sociale ci sia lecito richiamare che è nel senso peculiare della democrazia elevare gli umili, è nello spirito non solo, ma


nella lettera della carta fondamentale del paese promuovere la prosperità comune. E in questo senso è pur necessario fare qualche cosa a favore di quelle popolazioni che sono certo fra le meno fortunate del paese. (Problema sociale) Negli sviluppi che si profilano, nell’invadente urbanesimo, occorre anche offrire alle masse del centri la zona verde, la zona dello svago, del tempo libero, della vacanza, della distensione e del riposo: è una politica, questa, ispirata a concetti squisitamente sociali. E perché il ticinese dovrebbe ricercare tutto questo fuori del suo paese, quando disponiamo in casa nostra di tutte le possibilità che abbiamo messo in rilievo? Crediamo che, nel senso di questi principi, sia finalmente necessario passare all’azione.





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Finito di stampare i1 2 ottobre 1964 La composizione, la stampa e la confezione di questo volume sono state realizzate nell’officina dell’Istituto grafico Gianni Casagrande SA a Bellinzona Carta della Cartiera di Locarno SA, Tenero


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