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Psicologo in intervista

Il brivido di osare sempre di più, andando più giù, più veloci, più lontano.

Cacciatori di emozioni

Gli amanti di sport estremi dichiarano di sentirsi più vivi affrontando esperienze fuori dall‘ordinario. A colloquio con Nicolas Cazenave, ricercatore di psicologia clinica ed esperto in materia, per cercare di capire chi sono e cosa li motiva a spingersi oltre il limite. →

Come si spiega l’attrazione esercitata dalle discipline più rischiose su certe persone?

Nicolas Cazenave: Lo sport è considerato una pratica fondamentalmente benefica. Permette di mettersi alla prova e migliorare le proprie capacità fisiche. Porta vantaggi a breve e lungo termine quali una migliore fiducia in sé stessi e conoscenza del proprio corpo. Per la società ha connotati perlopiù positivi; i rischi incorsi sono spesso legati al contesto competitivo e alla particolare tipologia di attività e nascono dalla logica inerente agli sport: la sfida viene vissuta come confronto con sé stessi e l’avversario che spinge a volersi superare (motocross, downhill), mentre l’impegno fisico e le chance di fallire sono determinati dai luoghi scelti e dall’imponderabilità (alpinismo, paracadutismo). Gli sport estremi creano un legame privilegiato tra l’uomo e la natura e si nutrono di un misto di antagonismo e armonia. Chi li pratica è motivato dalla voglia di infrangere i limiti del possibile e compiere imprese sempre più strabilianti. Tutto il mondo diventa allora terreno d’avventura dove andare sempre più in alto (alpinismo), in profondità (immersioni in apnea), lontano (spedizioni polari), più veloce (giro del mondo), generalmente in solitaria. Ad accomunare gli atleti è la passione che li sprona.

Perché alcune persone sono pronte a tutto pur di godere sensazioni forti, incuranti del pericolo per la propria incolumità, talora a costo della vita?

Probabilmente non rincorrono il rischio per il puro gusto del rischio ma piuttosto per sperimentare emozioni più intense. Per loro, il quotidiano non offre sensazioni abbastanza forti. D’altronde si è riscontrato che soggetti inclini a sentire emozioni negative tendono ad adottare comportamenti più spericolati. Con il loro approccio provocatorio e trasgressivo all’ambiente fisico e sociale sembrano volersi rassicurare costantemente sul valore della propria esistenza: invece di interrogarsi, in modo magari brutale e sofferto, sul senso della vita, preferiscono buttarsi nell’azione. Non è quindi per sfidare la morte quanto piuttosto il desiderio di sentirsi pienamente vivi che si espongono al pericolo. Non è, in altre parole, il pericolo a motivarli quanto le sensazioni che ne ricavano.

Oggi viviamo in un mondo molto sicuro. Forse l’uomo ha bisogno di uscire dalla sua zona di comfort?

Le attività fisiche e sportive a rischio fanno parte della società contemporanea, che le accetta. Potrebbe sembrare paradossale, pervasa com’è dalla sicurezza. Ma la sicurezza impone un rigidismo che ormai condiziona profondamente i nostri rapporti psico-affettivi, a scapito della spontaneità e della libera espressione. Al tempo stesso e quale reazione al conformismo imperante, più il pericolo viene codificato e l’imprevisto eliminato dall’esistenza umana, più il rischio diventa chiave di sensazioni forti per sfuggire ad una normalità che percepiscono come piatta. Alcuni vogliono evadere da una vita professionale e sociale poco gratificante lanciandosi in sport estremi. Il pericolo affascina e il base jumping o il free climbing e l’apnea libera seducono non solo per i loro aspetti più spettacolari ma anche per i valori intrinsechi che rappresentano.

La pratica di sport estremi non può creare dipendenza?

Nonostante si possano individuare, in teoria, funzioni di evitamento negli uni e di compensazione negli altri sport ad alto rischio, nella maggior parte i comportamenti a rischio sono ambivalenti nel senso che assecondano entrambe queste funzioni, ora contemporaneamente, ora ad intermittenza. Non è peraltro possibile stabilire se il coinvolgimento in tali attività serva alla regolazione dei propri stati affettivi, negativi o positivi, oppure se il limite venga vissuto non come traguardo ma punto di partenza di un cammino di crescita, esplorazione o costruzione della propria identità psico-emotiva. Si suppone che alcune caratteristiche individuali come la brama di sensazioni o la disregolazione affettiva possano spingere a sfide fisiche estreme e, tramite il rinforzo, favorire l’insorgere di comportamenti dipendenti. Stimoli analoghi sono alla base dei giochi pericolosi, dove possiamo osservare quattro fasi all’interno del ciclo di dipendenza: presa di rischio, ricerca di emozioni forti, perdita di coscienza nonché risveglio e guarigione. I giocatori compulsivi presentano una sintomatologia depressiva più severa rispetto a chi non vi è dedito. Se certi disturbi dell’umore possono essere pregressi, altri vengono invece indotti dal gioco e rafforzano la dipendenza emotiva e comportamentale. Il pericolo potrebbe agire, similmente alle sostanze tossiche, da catalizzatore ed adempiere una funzione di regolazione affettivo-comportamentale con il rischio che l’eccitazione finisca per autoalimentarsi.

«Per loro la vita quotidiana non offre sensazioni abbastanza forti»

Nicolas Cazenave,

ricercatore di psicologia clinica e psicologo della salute

Gli amanti del brivido vogliono andare sempre più oltre per provare sensazioni nuove?

La motivazione principale per praticare sport estremi è la sensazione travolgente di piacere che regalano. Ma per viverla si devono prima sconfiggere le proprie paure (vertigini, incidenti, velocità…). La gioia e il sollievo sono emozioni che subentrano solo in un secondo tempo dopo aver rilasciato la tensione spasmodica e scaricato l’energia (a valenza positiva o negativa). Il principio delle emozioni opposte (rabbia-gioia, timore-sollievo) e della loro reversibilità è fondamentale nell’insorgere di comportamenti ripetitivi. Ciò spiega perché certe persone si allenano con crescente intensità e aumentando i rischi, adottando comportamenti sempre più off- limits per sperimentare sensazioni ancora più forti fino allo sballo. Parallelamente viene innalzata la soglia di tolleranza al dolore. Ci sono degli indizi che lasciano presumere una situazione critica laddove l’attività viene esercitata in maniera eccessiva tanto da invadere completamente la sfera psichica e la persona si sottrae ai contatti sociali, trascurando la famiglia, la scuola ecc. Sono questi i segnali che possono tradire una dipendenza da brivido che lo psicologo o studioso è chiamato a riconoscere ed indagare.

Stiamo assistendo ad una sorta di esaltazione che incoraggia sfide sempre più pazze?

Sulla scia dei social media il fenomeno ha acquisito una nuova componente narcisistica, che prima mancava. In passato, gli sport ad alto rischio erano riservati ad una ristretta cerchia di iniziati. Oggi, ci si misura a colpi di video che mostrano prodezze sempre più folli. Appena realizzate, vengono diffuse sulla rete ed incitano altri a compiere azioni ancora più spettacolari e rischiose. Apparentemente i protagonisti inseguono un ideale di autodeterminazione, realizzazione di sé ed onnipotenza e il fatto di vincere la paura dà loro l’illusione di essere padroni della propria vita. Il senso di controllo è ancora più forte se le prestazioni vengono filmate e condivise. L’esagerazione mira ad eccitare ed affascinare, conquistare l’attenzione e l’ammirazione dei seguaci facendo presa sulle loro paure e trepidazioni. Pur di impressionare la propria community si è preparati a tutto. Questo bisogno narcisistico di riconoscimento potrebbe essere la molla che li porta ad affrontare delle scommesse sempre più estreme. Il gioco con il rischio è, in fondo, un modo per affermare l’io, enfatizzando la propria attrattività e il proprio potere.

Gli uomini sono più attratti dagli sport estremi delle donne?

Oggi il termine «estremo» viene usato per glorificare le attività spericolate. Si celebra così il mito dell’eroe impavido, figura radicata nell’immaginario collettivo e che ispira comportamenti tipicamente maschili. Il culto della performance lascia poco spazio alle donne, tradizionalmente precluse da pratiche reputate non consone al loro ruolo. I rari studi svolti al riguardo suggeriscono che per le donne la motivazione a dedicarsi ad attività a rischio è un’altra. Mentre gli uomini sono animati primariamente dalla sete di sensazioni inedite e intense, nel gentil sesso la propensione al rischio sembra correlata piuttosto alla noia e all’anedonia. •

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