Amalgama - Milanomultipla

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Vita dei lavoratori immigrati a Milano tra integrazione e conflitto identitario

di Luca Toscano

Matricola 6555D Nuova Accademia di Belle Arti / Milano Diploma Accademico di 1° livello / Product Design Relatore Claudio Larcher A.A. 2016-2017



Vita dei lavoratori immigrati a Milano tra integrazione e conflitto identitario


Luca Toscano Otto Amalgama: Milanomultipla

Diritti di riproduzione e traduzione riservati per tutti i paesi @ 2017 Amalgama Publishing Contro la norma della legge sul diritto d'autore e del codice civile, è vietata la non riproduzione, totale o parziale, di questo volume in qualsiasi forma, originale o derivata, e con qualsiasi mezzo a stampa, elettronico, digitale, meccanico per mezzo di fotocopie, microfilm, film o altro, anche senza il permesso scritto dell'editore. Per informazioni contattare: Luca Toscano Otto tel. 3468700187 www.toscanotto.com La produzione, la stampa e la rilegatura sono state eseguite in Italia. Stampato da SEF DI MAINARDI MASSIMILIANO (124, Via Candiani Giuseppe - 20158 Milano) Finito di stampare nel mese di Novembre 2017 Copia 1/1

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A mamma, papĂ e Sara, le tre persone piĂš importanti della mia vita. A Fabiano, Agostino, Antonio, Michele e Zaccaria, senza la cui abilitĂ non sarei arrivato lontano A Claudio che ha sempre dimostrato interesse nel progetto aiutandomi a svilupparlo Agli imprevisti, che mi hanno reso una persona piĂš saggia Grazie

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Indice Prefazione Brief 10 Abstract 11 Premessa Premessa: caro lettore 13 Good Design: principio n° 11 17 Capitolo 1 / Introduzione Introduzione: parabola storica 19 Capitolo 2 / Macrotemi Macrotemi: tre principi chiave 25 Identità sospesa: il pluralismo e la memoria 26 Metisságe: ibridazione culturale 30 2e Generazioni: i nuovi italiani 34 Capitolo 3 / Caso studio: Toronto (CA) Caso studio: Toronto (CA) 38 Comparazione statistica Milano-Toronto 41 Risultati di un approccio multiculturale 43 Capitolo 4 / Milano: città pluri-etnica Milano: città pluri-etnica 45 Distribuzione delle principali etnie a Milano 46 Capitolo 5 / Pareri a confronto: parlano gli esperti Pareri a confronto: parlano gli esperti 51 Andrea Staid: antropologo e scrittore 52 Corrado Fumagalli: ricercatore e statista 56

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Capitolo 6 / Cross reference: il ruolo del design Cross Reference: il ruolo del design 61 Anticipazioni al cross reference 63 Didascalie progetti 70 Intermezzo Introduzione al progetto e scelta delle etnie 74 I Cinesi: la comunità operosa I Cinesi: la comunità operosa 78 I Cinesi: intervista a Xuli 84 Amalgama: la teiera 88 I Filippini: la comunità discreta I Filippini: la comunità discreta 104 I Filippini: intervista a Maria Elena 110 Amalgama: la scopa 114 I Nordafricani: la comunità eclettica I Nordafricani: la comunità eclettica 130 I Nordafricani: intervista ad Abdel 136 Amalgama: l’oliera 140 Capitolo 7 / Identità: logo ed immagine coordinata Identità: logo ed immagine coordinata 156 Il manifesto 166 Campagna di comunicazione 168 Capitolo 8 / Backstage: sei mesi di dietro le quinte

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Credits fotografici 196 Bigliografia e sitografia 198

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«Siamo sempre lo straniero di qualcun altro» . (Tahar Ben Jelloun, Fès, 1944)

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Brief “La strada, il cinema, la tv... sono i luoghi dove si impara a osservare criticamente i gesti ovvi, gli atteggiamenti conformisti, le forme scontate. Per scoprire cosa? Per scoprire che si può fare altro..” Achille Castiglioni Il brief per questa sessione di tesi consiste nel progettare qualcosa di Superlocal. Local è Milano, local sono i materiali della zona, le produzioni artigianali del territorio, i laboratori e gli spazi di lavoro che da decenni costituiscono il substrato creativo e produttivo di Milano e dintorni. L’obiettivo primario è quello di progettare qualcosa che non parli soltanto della città, ma che la rappresenti in uno o più dei suoi aspetti caratteristici. Il metodo può essere iconografico, attraverso il recupero di riferimenti palesi ed immediati del panorama cittadino. Oppure di osservazione e reinterpretazione di stimoli concettuali. Le architetture, la segnaletica stradale, le vetrine, i monumenti e le persone sono alcuni degli spunti possibili su cui strutturare un’indagine. Progettare Superlocal significa in sintesti raccontare Milano da una nuova prospettiva.

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Abstract

Abstract Lo scopo di questa tesi è quello di indagare l’identità sospesa delle ultime due generazioni di immigrati nella Milano di oggi, attraverso la progettazione di artefatti che riflettano il processo di metissàge culturale e che raccontino l’intima natura ibrida della città. Tali artefatti rappresentano ed incarnano il rapporto duplice ed ambivalente che sussiste nel vissuto delle tre principale macro-etnie di Milano (Cinese, Filippina e Nordafricana) e rappresentano un ideale, ovvero quello della mescolanza culturale, del quale dobbiamo farci promotori.

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01 / Hard cover journal - dot grid Moleskine Milano - dal 1997

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Premessa Caro lettore Vorrei raccontarti dove tutto è nato e perchè tra i tanti, io abbia preso a cuore proprio questo argomento. Vorrei spiegarti e se non chiedo troppo, convincerti, che quello che ti sto raccontando non è solo il mio punto di vista, ma il mondo di eventi in cui siamo immersi. Vorrei infine lasciarti con una riflessione, che ti faccia pensare davvero al valore della diversità di cui ti parlerò. Spero che la cura e l’attenzione messi nel comporre e documentare questo lavoro siano uno stimolo per accogliere una storia nuova, sotto un punto di vista nuovo.

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«La qualità più universale è la diversità» . (Michel de Montaigne, Bordeaux, 1533-1592)

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na sera, saranno state le 19:30, sedevo ad uno di quei tavolini alti di uno spazio di coworking, in centro a Milano. Mi ero recato lì poiché credevo e credo ancora fermamente che lo spazio in cui ci si trova possa influenzare direttamente il nostro lavoro, la nostra capacità di giudizio, i discorsi che siamo portati a fare e la propensione con cui ci rivolgiamo alle cose di tutti i giorni. Sedevo dunque ad un tavolino posto difronte ad una di quelle grandi vetrate continue, in stile razionalista che davano direttamente su una strada, ma non una strada qualsiasi. Era una di quelle tipiche strade che vengono in mente quando si pensa a Milano: ai lati, marciapiedi butterati dai segni dei cavalletti di motocicli che nei mesi estivi affondano i loro artigli nel terreno. Al centro un doppio viale alberato solcato dai binari di un tram che con passo devoto assolve la sua quotidiana routine. Sulle pareti, scritte di writer poco creativi e non poco egocentrici e tutt’intorno passanti di ogni varietà e foggia. Come avevo spesso letto nei libri e visto nei film, mi recai in quel luogo perché cominciavo ad avvertire l’impellenza di occuparmi della tesi, ormai divenuta uno spettro non più eludibile. Ero convinto che guardando da quella grande finestra ed osservando le strade di Milano, avrei trovato un’indizio capace di suggerirmi, anche se in modo discreto, il percorso da intraprendere. In poche parole, stavo silenziosamente pregando il dio urbano di svelarmi il segreto racchiuso tra i suoi palazzi di cemento, quando

una delle cameriere mi distolse dal mio soliloquio riportandomi alla realtà dei fatti: «chiudiamo fra 5 minuti». Questa volta le mie ferme convinzioni non avevano influenzato la mia logica e così, preparato lo zaino, salii sul primo tram in direzione di casa e mi sedetti vicino al finestrino. Guardando fuori continuavo a pensare che se la strada non mi avrebbe aiutato, magari lo avrebbero fatto le persone, e così fu. Pensai infatti che una città è tale perché è popolata da migliaia di anime brulicanti, i cui fili che tendono al proprio passaggio si intersecano creando una fitta rete di esperienze che risulta essere la città stessa. «Ok, le persone sono un punto di partenza, ma proviamo a restringere il campo» pensai. «Di quali categorie di persone una città non può fare a meno? Innanzitutto i baristi. Se non ci fossero loro nessuno avrebbe voglia di alzarsi la mattina ed andare al lavoro senza esser prima passati a bersi un caffè. I netturbini. Senza il loro lavoro la qualità della vita nella città sarebbe di gran lunga inferiore e questo di sicuro ci influenzerebbe. Anche i fiorai. Senza i fiorai come potremmo regalare mazzi di fiori alle persone che amiamo facendo si che l’amore reciproco mantenga i rapporti umani e sociali in uno stato pacifico? E poi ci sono gli spedizionieri che ci consegnano le cose che acquistiamo, i ristoratori che ci rifocillano durante la pausa pranzo e le badanti che si occupano di chi a causa di questi ritmi da 3° millennio non possiamo più permet-

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Premessa: caro lettore

terci di accudire.» Straordinariamente tutte queste figure chiave, che rendevano vivibili le nostre giornate, erano spesso incarnate da persone che paradossalmente avevano ben poco a che fare con la “milanesità” di cui tanto ci vantiamo. Ebbene, rileggendo tra gli appunti scritti mezz’ora prima davanti alla grande finestra figuravano alcune frasi che giustificavano un certo radicamento di questa idea in me: “fruttivendolo sudamericano”, “negozio di alcolici dell’indiano”, “merceria cinese”.

ho deciso di utilizzare questa tesi come strumento di studio e di divulgazione del multiculturalismo (o pluralismo culturale), il cui valore in tempi di paura ed incertezze è il primo a cadere. Pablo Picasso una volta disse “Non giudicare sbagliato ciò che non conosci, cogli l’occasione per comprendere” 3 ed è questo che vorrei fosse in grado di fare questo volume: raccontare ciò che in fondo non conosciamo poiché se ne possa apprezzare veramente il valore. D’altronde se è vero che i designer sono dei cantastorie moderni, è importante che sia proprio il design a farsi carico del ruolo di raccontare storie chiare e sincere, soprattutto in un tempo in cui la comunicazione verbale sembra apparentemente impossibile.

Io che ho sempre avuto una predilezione concettuale e progettuale per gli ossimori e per le contraddizioni sentivo che quest’aspetto stimolava non poco la mia curiosità. «Che ridere» pensavo «raccontare la “gran Milàn” 1 come il vero prodotto degli sforzi di quella silente marea umana costituita dai lavoratori immigrati». Credo che il tema dell’immigrazione e del lavoro siano oggi due degli argomenti più scottanti e difficili sui quali un designer possa lavorare. Nascondono insidie, profondi radicamenti storico-culturali e soprattutto non hanno ancora raggiunto quello stadio in cui il dato storico viene visto a posteriori senza più possibili interpretazioni, facendone così un campo minato di ipotesi in corso d’opera. La riflessione che fa Montaigne nella citazione in incipit, “si colloca in un momento di profondi rivolgimenti nella cultura e nella storia europea, ed egli può dirsi testimone per eccellenza della crisi dei valori e del sistema di conoscenze scientifiche e filosofiche avvertita nell’Europa della seconda metà del Cinquecento. (…) Lo sconvolgimento dell’orizzonte culturale convince Montaigne che il cambiamento non è uno stato provvisorio cui possa succedere un assestamento definitivo del mondo umano: la mutevolezza si rivela infatti espressione tipica della condizione umana, impossibilitata a raggiungere verità e certezze definitive.” 2 Anche oggi assistiamo a grossi sconvolgimenti culturali ed il confronto tra i popoli non è mai stato così delicato e lungi da una definitiva risoluzione. Ecco dunque che interrogarsi sul rapporto che abbiamo con il “diverso” è diventato per me di primaria importanza ed ecco perché

Quali sono gli obiettivi chiave di questo volume? • Raccontare delle realtà di cui si sente spesso parlare, ma delle quali conosciamo soltanto gli aspetti più superficiali e marginali. • Instillare un sentimento di propensione al multiculturalismo e promuovere una mentalità al passo con i cambiamenti contemporanei. • Dare valore alle classi di lavoratori immigrati rimarcandone l’importante ruolo sociale ed il contributo generato dal loro coinvolgimento culturale.

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“Milan l’è on gran Milan”. Frase tratta dalla canzone “Lassa Pur Ch’el Mund El Disa”, Giovanni D’Anzi e Alfredo Bracchi, 1939. La geografia del desiderio. Mappa dei mille volti di un concetto. Paolo Pellegrino, Manni Editore, Lecce, 2004. 3 Pablo Picasso, Malaga, 1881-1973. 2

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02 / Dieter Rams Gary Hustwit (regista) Wiesbaden (Germania) - 2016

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Premessa: caro lettore

Good design Principio n° 11

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he cosa è da considerarsi oggi come good design 4 ? Dipende da che accezione diamo al significato di good. Un prodotto è “buono” perché soddisfa degli standard e perché è percepito come qualcosa per il quale vale la pena spendere dei soldi? Oppure un prodotto è “buono” perché compie del bene?

Tutti questi punti di vista differenti però convergono nel sostenere che ciò che è considerabile come buono ha l’effetto di farci sentire bene e di trasmettere questo sentimento ai nostri simili, ispirandoci verso dei valori di cui l’oggetto diventa portatore. Il designer, inteso come mente che elabora idee e concepisce nuove esperienze, non può sottrarsi dall’affrontare la sfida di ispirare bontà attraverso ciò che crea. Ecco dunque che un oggetto diventa di good design se è stato creato con lo scopo principale di generare un benessere contagioso. Fin dall’antichità gli oggetti si sono caricati di significati che andassero al di là della loro realtà contingente, spesso raccontando storie in grado di suscitare ispirazione e venerazione. Dovremmo riprendere a pensare agli oggetti come a dei simboli capaci di raccontare con delicatezza e grande intelligenza storie che mettono in discussione le convinzioni e i preconcetti tramandati e che sappiano metterci con sagace entusiasmo nella posizione di voler ascoltare ciò che accade al di là del velo che frapponiamo tra noi e gli altri.

Credo che un prodotto sia “buono” quando è sufficientemente ben disegnato da ispirare bontà nell’utilizzatore verso i suoi simili. Oggi infatti si fa sempre più fatica ad assegnare con certezza il riconoscimento della bontà alle cose. Tutti abbiamo i mezzi per poter produrre qualcosa di artistico a livelli qualitativamente elevati. Tutti abbiamo la libertà di esprimere le nostre opinioni con mezzi democratici che gestiscono la bontà di un contenuto in base alla quantità di volte con cui viene condiviso online. Il “buono” è stato infatti assimilato a ciò che ci fa sentire bene, poiché in un mondo sempre più difficile e sempre più violento non possiamo permettere che ci venga vietato il diritto di avere delle convinzioni di questo o quel tipo. Buono è ciò che ci piace, in cui crediamo e a cui aspiriamo e chiaramente ognuno di noi ha una percezione differente della bontà delle cose.

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Oggi più che mai il design ha il dovere di rimescolare le carte in tavola e di porsi come mezzo principale di intermediazione tra le forze del cambiamento e l’istinto ad averne timore. A cosa serve la nostra sensibilità nel creare un bel prodotto se non puntiamo come fine ultimo all’impatto che quella bontà emanata avrà su chi lo usa?

Ten Principles for Good Design. Dieter Rams, Germania, 1970s.

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03 / Via Orefici, Duomo www.blog.urbanlife.org Milano - 1970/1980

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Introduzione Parabola storica Il primo compito che sento di dover affrontare è quello di delineare un’analisi storica del percorso che le categorie immigrate hanno definito dal loro arrivo nel nostro paese intorno agli anni ‘70/’80 del 900 fino ad oggi. Studiare le ragioni che li hanno spinti a partire un tempo, il modo in cui si sono insediati e i lavori che hanno svolto è infatti fondamentale per capire perchè oggi si comportino in un certo modo, come abbiano influito sulla trasformazione dei nostri spazi cittadini e di fatto perchè Milano oggi non sarebbe la stessa senza di loro.

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«Reperire dati analitici ed organici sulla presenza degli stranieri a Milano, ma anche in Italia, anteriormente agli anni ’80 è cosa assai ardua. Fino a tale data il fenomeno migratorio non era oggetto di particolare attenzione nel nostro paese se non con riferimento degli italiani all’estero. Forse per questo motivo, in genere, si approccia il fenomeno dell’immigrazione (…) come un fenomeno contingente ed emergenziale mentre andrebbe considerato sempre più come elemento strutturale e di sistema nella nostra dinamica sociale ed economica» 1 .

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a storia dei flussi migratori nella Milano degli anni ’80 è caratterizzata dalla concomitanza di diversi elementi. Innanzitutto un ridimensionamento del rapporto tra la popolazione inurbata e quella residente al di fuori della città. A partire dal 1981 infatti si registra uno spostamento della manodopera agricola verso una progressiva terziarizzazione di cui la città diviene il fulcro principale. Milano rimane punto di riferimento storico per gli unici processi migratori di cui fino a quel momento l’Italia è mai stata partecipe, quelli tra sud e nord. Salgono l’aspettativa di vita media e la disponibilità economica si assesta sugli standard europei garantendo alle famiglie una percezione del benessere pari a quella delle altre grandi capitali oltre confine. Lo sviluppo del terziario, il dinamismo di alcuni settori produttivi e la

rinnovata competitività dei prodotti italiani sui mercati internazionali sono sintomi di vitalità del tessuto sociale e giustificano un certo ottimismo sulle prospettive di crescita del Paese. La Milano degli anni ’80 infatti, in futuro nota come la Milano da bere 2 diventò il fulcro di un processo di identificazione dell’italiano all’estero con i concetti di stile, buon gusto e “bella vita”. Il substrato culturale era sufficientemente ricco da riuscire a rendere la città appetibile sia per il suo patrimonio storico-artistico, sia per la nascita sempre più crescente di sotto-culture giovanili legate a fenomeni di stile e musicali (una su tutte quella dei paninari 3 ). Aumentando la domanda di lavoro in diversi settori produttivi ed il prestigio internazionale di Milano che si riconferma come principale metropoli nel panorama ita-

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Estratto da “Stranieri a Milano: evoluzione della presenza straniera nel comune di Milano dal 1979 ad oggi” di Ornella Boggi, Milano, 2007. Giovanni Tesoro, Comune di Milano, Responsabile del Servizio Statistiche Sociali dal 2004 al 2006. 2 Espressione d’autore contenuta in un celebre slogan pubblicitario ideato nel 1985 da Marco Mignani per la réclame dell’Amaro Ramazzotti. Si farebbe durare l’epoca della Milano da bere dal 1981 al 1992, anno dello scoppio dello scandalo Tangentopoli. 3 Sottocultura giovanile caratterizzata dall’ossessione per l’abbigliamento griffato ed uno stile di vita improntato al consumismo di matrice statunitense. Il nome farebbe riferimenti infatti all’abitudine di quei giovani di ritrovarsi davanti alle nuove paninoteche aperte a Milano in quegli anni, tra cui la catena Burghy, il cui primo negozio in Italia aprì proprio a Milano nel 1981 in Piazza San Babila.

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Introduzione: parabola storica

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453 446 439

420.000 416 382

360.000

358

349 277

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2004

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* Aumento complessivo del 158,86%

Cittadini stranieri 2004-2016 / città metropolitana di Milano FONTE: Provincia di Milano - Dati ISTAT 1° gennaio 2016 - elaborazione personale. Popolazione straniera residente nella città metropolitana di Milano al 1° gennaio 2016. Sono considerati cittadini stranieri le persone di cittadinanza non italiana aventi dimora abituale in Italia. Gli stranieri residenti nella città metropolitana di Milano al 1° gennaio 2016 sono 446.462 e rappresentano il 13,9% della popolazione residente.

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Valore espresso in migliaia (x mila)

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Un altro importante aspetto da considerare nell’equazione è come le diverse etnie abbiano sviluppato approcci insediativi differenti. Negli anni ’80 l’area compresa tra Stazione Centrale e Stazione Vittoria, era quella a maggior concentrazione di stranieri (fatta eccezione per il quartiere di Canonica-Sarpi). La tipologia dei lavori richiesti in determinate aree, spesso di manovalanza o di attività assistenziale a domicilio per famiglie milanesi benestanti, hanno determinato per alcune categorie immigrate come quella Filippina o quella Eritrea, una progressiva concentrazione in aree residenziali spesso vicine al centro città. Tuttavia il processo di immigrazione nel capoluogo lombardo è stato tale da evitare la creazione di vere e proprie enclave, generando al contrario la creazione di un panorama etnico diffuso e geograficamente sovrapponibile. L’odierna multientnicità intrinseca di Milano è quindi dovuta a modelli insediativi che non hanno mai risentito della presenza di un vero e proprio ethnic management dell’edilizia pubblica. I bassi indici di segregazione hanno evitato infatti una marginalizzazione delle categorie etniche (fatta eccezione per la comunità cinese) che si sono perciò distribuite secondo criteri legati piuttosto alla presenza di spazi pubblici o esercizi commerciali. L’imprenditorialità etnica ha infatti contribuito non solo ad un rinnovamento del mercato del lavoro, bensì anche ad una vera e propria riqualificazione urbana e di «alcuni percorsi stradali specializzati nell’offerta di consumi legati a consuetudini e a esigenze culturali e religiosi specifiche» 7 . Guardando la questione da un altro punto di vista, mettersi in proprio significa la volontà di avviare un serio processo di stabilizzazione oltre che la volontà di crescita professionale legata ad un sentimento di riscatto, cosa che accomunerà tanto le prime quanto le successive generazioni di immigrati.

liano, si registra un intenso processo d’immigrazione che tra il 1980 ed il 2007 porterà ad un aumento del numero di stranieri nel nostro paese da poco più di 20 mila a circa 170 mila unità. Oggi la popolazione straniera in Italia supera il milione e mezzo. Nel 1994 la Lombardia è la regione italiana con la più alta percentuale di stranieri sul proprio territorio, dato che tuttavia non si riconfermerà negli anni a venire. Nel 2001 la popolazione straniera residente a Milano scende di quasi 1 punto percentuale rispetto al 1991 4 , dato confermato anche dalla riduzione del numero di permessi di soggiorni richiesti. Questo dato è interessante perché attesta una stabilizzazione delle categorie di immigrati, che una volta trovato lavoro cominciano a fare progetti a lungo termine mettendo in atto un percorso di sederentarizzazione che darà alla luce le famose seconde generazioni milanesi. I generi si riequilibrano, le rimesse diminuiscono, le vecchie coppie si ricongiungono e le nuove coppie (miste e miste miste 5 ) crescono. Il lavoro, sopratutto nel terziario, continua ad essere la motivazione principale accompagnata alla richiesta di soggiorno. La famiglia straniera, che vive e lavora a Milano, in molti casi mantiene relazioni sociali significative con la rete familiare nel paese d’origine, svolgendo un ruolo di supporto economico per i soggetti che non hanno intrapreso il progetto migratorio. Col tempo tuttavia anche le tipologie di immigrati cambiano. In particolare, se fino ai primi anni ’90 la presenza straniera in Italia era statisticamente dominata dal binomio Nord Africa - Asia centro-orientale/meridionale, a partire dal XX secolo i nuovi emigrati appartengono sopratutto all’Europa dell’Est e all’America Latina. A conferma di questo ad oggi la comunità straniera più numerosa è quella proveniente dalla Romania con il 14,4% di tutti gli stranieri presenti sul territorio, seguita da Albania ed Ucraina, che si posizionano rispettivamente al 5° e 7° posto. I cittadini provenienti dal Sudamerica rimangono comunque all’interno dei primi 10 posti per numero di immigrati nel nostro paese.6

Le conclusioni di questa breve analisi sono dunque differenti. In primis, come citato al punto (1), dobbiamo continuare a considerare il fenomeno migratorio come

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Fonte: ISTAT, 13° e 14° Censimento della popolazione. Coppie in cui i coniugi provengono da flussi migratori provenienti da luoghi di origine differenti. 6 Fonte: Dati Istat 1° Gennaio 2016 - www.istat.it 7 Il modello insediativo egli immigrati stranieri a Milano. Patrizia Motta, ACME, Volume LVIII - Fascicolo I - Gennaio/Aprile 2005. 5

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Introduzione: parabola storica

un fenomeno strutturale. Si tratta di un processo, come sostiene Giovanni Tesoro «che risponde a bisogni che in primis esprime la popolazione italiana e che, in assenza della componente straniera, difficilmente potrebbero essere soddisfatti.(…) Superare la dicotomia “noi” e “loro” consentirebbe di porsi nei confronti del fenomeno migratorio (…) considerandolo come una risorsa in termini umani, sociali e culturali». Il secondo aspetto da considerare è che la difficoltà ad affrontare il tema del multiculturalismo nel nostro paese, come sostiene Corrado Fumagalli, ricercatore presso la Statale di Milano ed esperto in multiculturalismo, sia legata ad una relativa recenza di tale fenomeno in Italia rispetto ad altri paesi europei, oltre che alla mancanza di un’etnia di provenienza specifica e ad un’istituzione non pronta a gestirne gli esiti, tanto più se eterogenei in termini di nazionalità e necessità 8 . Infine un altro aspetto interessante riguarda come la concezione degli spazi urbani da parte degli immigrati abbia contribuito ancor più ad accentuare la natura ibrida della città, dimostrandosi per certi versi molto più predisposta allo scambio culturale di quanto non sia stata la nostra. È interessante notare come Milano, da sempre considerata la “città dei giardini nascosti”, con l’avvento dei fenomeni migratori sia diventata contemporaneamente anche la città della “socialità stradale” in cui gli stranieri usano la piazza, la chiesa ed il quartiere come «importanti risorse nel processo di socializzazione». Come sosteneva infatti Edward Hall, antropologo americano «il modo di percepire e di pensare lo spazio influisce sulla fruizione da parte delle varie culture» 9 .

04 / Burghy Getty Images San Babila, Milano - 1985

Quello che da alcuni intellettuali della fine del 900 era considerata come “l’utopia di uno scambio alla pari” oggi non è quindi più in alcun modo giustificabile, in virtù del fatto che la potenza dei mezzi tecnologici riesce ormai a spazzare via ogni forma di barriera linguistica, lasciando agli individui la pura e semplice libertà d’espressione.

8 3

Da questa analisi dunque si può dedurre che i fattori di divisione etnica si basano fondamentalmente sulla predisposizione ad affrontare positivamente un percorso di mescolanza piuttosto che sull’ intrinseca impossibilità a confrontarsi dovuta da dogmi culturali e che l’integrazione è un processo che si conquista un passo alla volta.

Milano ha un grosso problema coi musulmani. VICE Italia, Alberto Mucci, Milano, 4/03/2015. La dimensione nascosta. Edward Twitchell Hall, Bompiani, Milano, 1968.

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05 / I am an immigrant - Lupita Nyong’o Welcome.us (non-profit organization) USA - 2016

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Macrotemi Tre principi chiave Prima di scendere nei dettagli del progetto di tesi è necessario cominciare a prendere dimenstichezza con i termini ed il linguaggio che caratterizza il mondo dell’immigrazione. Non si potrebbe infatti apprezzare a pieno il progetto sviluppato previa una breve analisi su tre dei principi cardine su cui si dipana l’intero discorso affrontato in questo volume: l’identità sospesa, il metisságe e le 2e generazioni. Affrontare tali macrotemi permetterà infatti di capire senza grosse perplessità le scelte operate nelle varie fasi di sviluppo del progetto.

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Identità sospesa Il pluralismo e la memoria

P

er spiegare questo primo tema cardine della mia ricerca vorrei partire da una metafora, ovvero quella della sospensione. In particolar modo mi interessa soffermarmi sull’idea di sospensione in chimica, argomento che ad alcuni potrebbe risultare familiare poiché legato a quelle lezioni di scienze che da piccoli abbiamo pressoché tutti frequentato. La sospensione chimica, in parole povere, consiste nella “dispersione di un corpo solido in una sostanza allo stato liquido”. Mi interessa parlarne poiché credo si avvicini in maniera sufficientemente fedele al processo di frammentazione identitaria a cui è soggetto un individuo che intraprende un progetto migratorio. Questa persona, il solido, come tutti possiede valori, conoscenze e opinioni, oltre che un personale bagaglio di esperienze accumulate nel tempo. Nel momento in cui viene eradicato dal suo ecosistema, sperimenta un cambiamento di stato e proprio come il solido, tende a disperdere i granelli che ne costituiscono l’identità all’interno del fluido, che per convenzione assoceremo al suo nuovo contesto. Il fluido rappresenta uno stato diverso della materia, un nuovo bagaglio di conoscenze, valori ed opinioni con i quali il solido deve necessariamente amalgamarsi. In questo processo di dispersione identitaria, nella fitta foschia della sospensio-

ne, il solido perde alcuni valori, quelli a lui legati meno saldamente, mentre ne mantiene degli altri, quelli a cui è “chimicamente” davvero legato. Alcuni sarà destinato a re-incontrarli, altri invece non gli si riavvicineranno più. Quando parliamo di identità sospese in Italia ci riferiamo al numero sempre crescente di giovani immigrati (un milione circa, secondo le stime ISTAT 2014 1 ) che come si dice in gergo, pur senza alcuna allusione, “tengono un piede in due scarpe”. Una scarpa poggia sulle coste oltre oceano (spesso oltre Mediterraneo) e l’altra poggia sul nostro Stivale. La duplice natura di questi individui, intrinsecamente provenienti da luoghi lontani, ma concretamente facenti parte del nostro tessuto sociale, vivono ormai da anni questo rapporto talvolta conflittuale tra origine e attualità, costretti a confrontarsi con due nuclei culturali spesso agli antipodi. L’aspetto più interessante di queste identità sospese si colloca nel mezzo, ovvero in quel punto focale in cui essi riescono a sintetizzare i criteri di passato e presente in un prodotto ibrido e nuovo che rispecchia oggi forse il vero concetto di contemporaneità. Si parla sempre infatti del rapporto tra due identità, quando forse sarebbe il caso di cominciare a parlare di una identità terza, vista non solo come prodotto casuale delle prime due, ma come realtà sistematica in grado

1

Secondo l’Istat, dal 1993 al 2014 in Italia sono nati quasi 971 mila bambini stranieri, con un trend di crescita che si è invertito solo negli ultimi due anni. Per stimare la consistenza nel 2015 dei ragazzi con un background migratorio occorre sommare ai nati in Italia i minori giunti insieme ai genitori o per ricongiungimento familiare. Nel complesso si arriva a un milione, ma questa cifra è al netto di quanti nel frattempo sono diventati cittadini italiani.

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IdentitĂ sospesa

06 / Pleasure and terror of levitation Aaron Siskind (Fotografo) Jerome, Arizona - 1954

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07 / Andrew Daniel Martin (Pittore) Leiden, Netherlands - 2013

di rispecchiare a pieno l’immagine di uomo globale che rappresenta quest’epoca. Secondo lo scrittore Jonas Hassen Khemiri «non ci può essere identità senza memoria» 2 ed è giusto e vero che queste identità per uscire dallo stato di sospensione hanno bisogno di riaffermarsi come realtà coscienti di sé.

importante. La dialettica Hegeliana segna un interessante passaggio dalla logica identitaria alla logica del riconoscimento 3 . Secondo Hegel infatti per sapere chi sono “io” devo pormi necessariamente in relazione, ho cioè bisogno che ci sia qualcun altro che mi riconosca come un “io” ed è esso stesso la vera condizione del mio comprendermi. Non posso conoscere se non sono stato prima “riconosciuto” da altri, che hanno reso possibile “me stesso” come coscienza. Di qui, il passo per comprendere la difficoltà che ha un immigrato nel riconoscersi in una nazione come l’Italia, ancora mossa da accessi nazionalistici, è breve e non stupiscono le affermazioni dei giovanissimi tra gli immigrati che hanno difficoltà a capire

Ma allora perché risulta così difficile per noi riuscire a comprendere ed accettare che esistano delle realtà variegate alternative alla nostra? Oltre a riprendere quanto detto nell’introduzione a proposito dell’unicità del caso italiano (cfr. nota su Corrado Fumagalli), c’è da considerare anche un aspetto di matrice filosofica forse ben più

2 3 4

Tutto quello che non ricordo. Jonas Hassen Khemiri, Iperborea, Milano, 2017. Enciclopedia delle scienze filosofiche, § 155. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Berlino, 1817. Rapporto Istat, Roma, 20/05/2016.

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Identità sospesa

da che parte stare. «L’indagine sull’integrazione delle seconde generazioni, condotta nelle scuole medie e superiori, fa emergere una quota di ragazzi stranieri che si sentono italiani prossima al 38 %; il 33 % si sente straniero e poco più del 29 % non è in grado di rispondere alla domanda» 4 . Anche se i dati migliorano leggermente tra i nati in Italia il problema di fondo rimane. Generare inclusione non è semplice, sia perché il vissuto di un immigrato è soggetto a naturali sbilanciamenti ora verso le tradizioni ora verso la novità, sia perché l’Italia non riesce a garantire in fondo quel ruolo di riconoscimento reciproco dell’io di cui parla Hegel.

core nere 7 , quattro giovani donne nate in Italia ma da genitori stranieri che attraverso una collana di otto racconti, trascrivono l’incrocio dei mondi che le seconde generazioni vivono in Italia, a cavallo tra integrazione e diversità, accoglienza e rifiuto. Sulla scia di questa letteratura, per concludere il racconto sulle identità, vorrei citare Amartya Sen, filosofo indiano e premio Nobel per l’economia nel 1988, secondo il quale:

«la speranza di armonia nel mondo contemporaneo risiede in una comprensione più chiara delle pluralità dell’identità umana, e nel riconoscimento che tali pluralità sono trasversali»8 .

Ecco dunque che in un’ottica che viene definita come “transnazionale” 5 l’unica opzione possibile per ottenere degli esiti positivi è quella di accettare il pluralismo indentitario, senza lasciare che la «legge gestaltica del raggruppamento», come dice Alessandro Bellan, ci spinga a voler a tutti i costi incasellare l’estraneo, classificandolo in base ad origine e provenienza, «come se l’arché, (dal greco: origine), potesse raccontarci tutta la sua storia o potesse esaurire la sua identità» 6 . Negli ultimi anni si sono perciò moltiplicate le testimonianze di giovani scrittori “sospesi” che hanno trovato nella possibilità di raccontare il loro dualismo un modo di dare forza alla comunità immigrata oltre che di spiegare a noi bianchi quanto fosse complesso convivere con il peso di sentirsi costantemente fuori posto. A questo proposito emergono riflessioni interessanti nel romanzo di Kaha Mohamed Aden Fra-intendimenti (Nottetempo, 2010), quando il suo vibrante passato in Somalia, fatto di antiche tribù, animali totemici e faide arcaiche, si scontra con il piattume dei pregiudizi e della burocrazia Italiana, annientando ogni speranza di poter ricostruire a Pavia il senso di casa che avvertiva a Mogadiscio. Colpiscono inoltre i racconti delle autrici del libro Pe-

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Transnazionalismo: termine che si riferisce a un coinvolgimento simultaneo dei migranti nella società di origine e in quella di accoglienza; società di origine con cui si continua a interagire sistematicamente anche dopo l’avvio del percorso migratorio, senza per questo vivere da estranei la propria esperienza nel Paese di destinazione. Estratto da “Vite transnazionali? Peruviani e peruviane a Milano”. Marco Caselli, ISMU, Milano, 2008. 6 Pensare la pluralità. Il pluralismo culturale nell’epoca della “politica dell’identità”. Alessandro Bellan, Prismi, 17/07/2010. 7 Pecore Nere. Gabriella Kuruvilla, Ingy Mubiayi, Igiaba Scego, Laila Wadia - Laterza, Roma, 2005. 8 Identità e violenza. Amartyra K. Sen, Laterza, Roma, 2008.

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Metisságe Ibridazione culturale

L

a civiltà umana si è sviluppata solo attraverso un costante processo migratorio. Come esseri umani abbiamo contribuito a colonizzare il nostro pianeta tramite migrazioni che si sono protratte nel corso di interi millenni. I motivi che hanno spinto gli uomini a migrare sono stati di natura di volta in volta differente: dalla volontà di conquista al sentimento di curiosità, dall’espulsione forzata alla fuga per motivi di sopravvivenza. E sono proprio gli spostamenti che i nostri antenati hanno compiuto nei secoli passati a rendere la società contemporanea così com’è oggi. Quando parliamo di metisságe, o “meticciamento” ci riferiamo ad un processo di mescolanza e di fusione progressiva tra due o più culture differenti. Soprannominabile anche ibridazione, il concetto di fusione non vede tuttavia una perdita delle caratteristiche originali degli elementi mescolati, bensì una convivenza di questi sullo stesso piano. Se perciò immaginiamo una coppia di persone provenienti da due parti del mondo completamente diverse per usanza e cultura, il prodotto di questa non sarà soltanto la fusione dei geni di entrambe bensì sarà anche il portatore della somma delle loro culture. Per questo motivo possiamo dire che «Il migrante è il miglior…narratore dei nostri tempi» 1 , poiché se le qualità di un buon narratore si basano sulla sua conoscenza di storie e tradizioni, un “meticcio” ne ha almeno due del tutto diverse da cui at-

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tingere. Di conseguenza i risultati che può produrre un simile individuo sono statisticamente molto più interessanti rispetto alla media e quasi sicuramente più insoliti. Guarda caso poi sono proprio le idee più insolite ed inaspettate ad innescare i processi innovativi più efficaci. Il meticciamento dei popoli non è qualcosa che sia sempre avvenuto in maniera pacifica. Cristallizzati nella nostra monolitica identità e dominati da una visione del mondo egocentrica, per nostra natura siamo portati ad avvertire un avvicinamento imprevisto come un’intrusione. Tuttavia sarebbe superficiale pensare che della migrazione di un popolo sia solo l’ospite a doverne pagare i conti. Come scrive Franco Cambi «l’emigrazione esige volontà di integrazione e di confronto» 2 , sentimenti che proprio il migrante è in primo luogo portato a dover sviluppare, considerando sopratutto che in un universo parallelo nulla lo avrebbe mai voluto spingere ad abbandonare sogni, patria, obbiettivi ed affetti. Inoltre appare relativamente ipocrita come si cerchi costantemente di sfruttare a proprio piacere i vantaggi di una società globalizzata, cercando di essere virtualmente visibili al resto del mondo, quando è poi il resto del mondo a bussare alla nostra porta chiedendo sostentamento, non di certo per motivi di semplice vanità. Le ironie toccano poi l’apice se pensiamo che il poema che canta la fondazione di

Creoli, meticci, migranti, clandestini e ribelli. Armando Gnisci, Gli Argonauti, Milano, 1998. Intercultura: fondamenti pedagogici. Franco Cambi, Carocci, Roma, 2001.

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Metisságe

Roma, l’Eneide, racconta proprio le vicende di un popolo sfuggito alla distruzione di Troia che emigra in centro Italia, ne prende il controllo con la forza fondando poi il più grande impero dell’antichità classica. Volendo poi puntualizzare, L’Italia, che tanto oggi dimostra orrore nei confronti dei flussi migratori trattandoli erroneamente come situazioni emergenziali, non solo è stata la patria di una delle più grandi ondate di emigrati nel ‘900, ma difende oltretutto con poco diritto un’identità nazionale che non è mai stata pienamente raggiunta. Ne sono una prova i campanilismi che ancora oggi sopravvivono dopo ben 500 anni così come la frammentazione socio-economica che fa del nostro paese una nazione ben più multiculturale di quanto ci si ostenti a credere. Oltre agli innegabili effetti positivi di un processo di mescolamento culturale, come la creazione di prodotti ibridi in tutti i settori artistici o il rinnovamento dei punti di vista più ristagnanti, i vantaggi di una società plurale sono anche legati a questioni concretamente economiche. Per quanto i quotidiani italiani, salvo alcune eccezioni, dipingano il migrante come un individuo in fuga dalla miseria, senza alcuna competenza e geneticamente portato alla delinquenza, la realtà dei fatti è ben diversa. Infatti, stando alle statistiche, non soltanto i quotidiani non associano quasi mai il termine immigrazione a quello di impresa/economia 3 , depersonalizzando di fatto singoli individui che scompaiono dietro ad una generica categoria stereotipata, ma raramente diffondono il reale valore economico che questa categoria genera nel nostro paese. In tempi di crisi, «i contributi previdenziali versati dagli occupanti stranieri (ad oggi circa 5 milioni 4 ) arrivano a 9 miliardi di euro, da sommarsi ai quasi 5 miliardi di gettito Irpef e a 2,5 miliardi di altri introiti. Stimando la spesa pubblica per l’immigrazione in 12,6 miliardi di euro,

il saldo risulta in attivo di 4 miliardi». Non contenti, possiamo anche sottolineare come la ricchezza prodotta dagli occupanti stranieri, ovvero il PIL dell’immigrazione, sarebbe pari all’8,8% della ricchezza totale. Questo significa che in media, se un italiano contribuisce con il suo lavoro all’1,5% del PIL, uno straniero contribuisce almeno dello 0,2% in più, e questo sarebbe così almeno dal 2009, anno in cui il rapporto tra numero di immigrati e PIL straniero prodotto si assesta sotto la media dell’1,5% (precisamente 1,3%). Tutto ciò deve però essere contestualizzato per capire come la contribuzione economica degli immigrati rappresenti non solo una buona parte del panorama imprenditoriale italiano bensì una fondamentale risorsa per il nostro sistema previdenziale. Infatti saranno proprio Rumeni ed Albanesi, che secondo un’analisi si collocherebbero agli ultimi posti come etnie meno gradite ai nostri conterranei, a mantenere in piedi a partire dal 2050 buona parte del nostro sistema pensionistico. Entro quella data «il 28% della popolazione europea avrà raggiunto l’età del pensionamento» 5 e considerando che nel nostro paese il tasso di invecchiamento medio della popolazione è in aumento e i giovani scappano all’estero in cerca di lavoro, gli immigrati saranno un lusso del quale non potremo fare a meno. Se vogliamo goderci gli ultimi anni di vita senza troppe preoccupazioni e affanni, dobbiamo scendere a patti con il fatto che avremo bisogno degli immigrati più di quanto non loro non avranno bisogno di noi. Ci sarebbero poi tante puntualizzazioni da fare. Ad esempio è ormai attestato che l’immigrazione non ha un effetto significativo sulle retribuzioni degli italiani 6 , oppure che più lungo è il soggiorno nel nostro paese, maggiore è il contributo in termini di sostenibilità di sistema. La realtà è che l’Italia non è mai stata in grado di predisporre un proprio modello di integrazione, barricandosi

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Solo il 22% degli articoli mensilmente scritti dal Sole 24 associano il termine “immigrazione” a quello di “economia”. Per La Repubblica i dati si attestano sul 2% e per il Corriere della Sera sullo 0%. Fondazione Leone Moressa, dati aggiornati al 2015. 4 Dati Istat aggiornati al 1° Gennaio 2016. 5 Proiezioni Eurostar aggiornate all’11/07/2017. 6 Fonte: CRELI (Centro di ricerca per i problemi del lavoro e dell’impresa), www.centridiricerca.unicatt.it/creli.

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dietro futili rimpalli di responsabilità e ciclopici ritardi nel dare risposte. Ancora oggi pressochè tutti gli aspetti che concernono la realtà migrotoria vengono poi strumentalizzati da tutti i fronti politici per farne uno strumento di raccolta dei consensi. Viene trattatto come un mezzo per il raccimolamento di voti piuttosto che come un effettivo problema di cui occuparsi. A conferma di questo infatti ci sono innumerevoli casi documentati in cui tragedie quotidiane che hanno come soggetto la comunità straniera in Italia, vengono condivisi e commentati da osservatori ignoranti e faziosi che, cercando di fare colpo sugli istinti più bassi e animaleschi dell’uomo, cercano di far aderire in maniera strategica l’opinione delle folle alla propria corrente di pensiero. La realtà è anche che le

categorie immigrate e le cosiddette seconde generazioni ricoprono mansioni di bassa qualità, sotto-retribuite, che li condannano all’immobilità sociale oltre che economica, nonostante la Commissione Europea, nel Piano d’Azione Imprenditorialità 2020 7 , abbia attribuito agli imprenditori migranti un ruolo importante per il rilancio dell’Unione e del suo sistema economico-produttivo. Dovremmo lasciare tuttavia le speculazioni economiche a chi di competenza e dovrebbe bastarci sapere che ci sono scambi il cui valore si apprezza solo con la fiducia, o come meglio disse Jacques Le Goffe, che «la ricchezza culturale non deriva dalla purezza ma dalla mescolanza» 8 .

08 / The changing face of America - black/biracial Martin Schoeller (Fotografo) Monaco di Baviera, Germania - 2013 09 / The changing face of America - dominican/korean Martin Schoeller (Fotografo) Monaco di Baviera, Germania - 2013

7 8

Commissione Europea, Bruxelles, 9/01/2013, COM(2012) 795 final. Il Medioevo. Alle origini dell’identità europea. J. Le Goffe, Laterza, Roma, 2006.

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Metissรกge

10 / The changing face of America - black & white/biracial Martin Schoeller (Fotografo) Monaco di Baviera, Germania - 2013

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e

2 Generazioni I nuovi italiani «Possono passare senza difficoltà dal napoletano alla lingua senegalese. O dal milanese a uno dei tanti dialetti cinesi. Le loro mamme sanno cucinare la pasta al forno, ma anche lo zighinì, piatto tipico dell’Eritrea, o il cuscus alla marocchina. In tv guardano film indiani o filippini, ma poi comprano i cd di Tiziano Ferro e Nek. Sono i figli e le figlie degli immigrati. Immigrati di seconda generazione, li definiscono i sociologi. Italiani con il trattino, hanno cominciato a chiamarli giornali e tv. Italiani-cinesi, italiani-marocchini, italiani-filippini, italiani e chissà quante altre cose»1.

1

Immigrati: la carica della seconda generazione. Sabrina Barbieri, www.meltingpot.org, 2004. Melting Pot Europa è un progetto di comunicazione indipendente nato nel 1996 e frutto dell’impegno collettivo di associazioni, esperti, avvocati, docenti, attivisti, giornalisti, fotografi, videomakers, che mettono a disposizione il loro lavoro per la realizzazione di questo spazio di informazione e approfondimento libero, autonomo e gratuito.

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2 e Generazioni

I

si contesti di appartenenza ed il loro rispettivo campo magnetico. Un secondo aspetto di considerevole portata è il ruolo che i 2Gen si trovano a ricoprire all’interno del nucleo familiare, nel momento in cui cominciano ad incarnare il ruolo di «mediatori-traduttori tra la famiglia e il mondo esterno» 3 . Questo, come a ragione sostiene la Fondazione Andolfi, è un fattore che genera iper-responsabilizzazione in individui la cui età per maturare viene improvvisamente accorciata, rischiando di generare così conflitti tra il loro voler essere “uguali agli altri” e la “lealtà familiare” che gli viene richiesta. Sentendo interviste e leggendo diversi articoli quello che traspare è che la società italiana venga percepita come propria e che spesso molti giovani in età adolescenziale non si riconoscano nelle idee dei genitori, pur conservandone abitudini e valorizzandone il modo di affrontare la vita. La scuola, la chiesa e lo sport non sempre svolgono un ruolo di aggregazione sociale come nel caso dei giovani italiani appartenenti alla stessa fascia d’età. Le differenze religiose e di abitudini familiari incidono sul rapporto che spesso i più piccoli hanno con i loro coetanei, favorendo in alcuni casi anche a fenomeni di marginalizzazione. Come detto già in precedenza, non è importante solo che la società ospitante sia predisposta all’accoglienza, ma che sopratutto la famiglia immigrata sia aperta alla possibilità di lasciarsi coinvolgere.

l mondo delle seconde generazioni, definito da Sabrina Barbieri in modo un simpatico come «armata dai mille colori» rappresenta un fenomeno davvero curioso della nostra epoca. In effetti vedere un ragazzo come Il China, giovane youtuber italo-cinese noto online per i suoi gameplay, inveire in milanese durante uno streaming mentre gioca a Call of Duty è qualcosa che fa specie. Così come vedere una ragazza musulmana di Napoli tenere sul comodino una copia del corano e appesa alla parete un’immagine di Padre Pio. La cosa che stupisce della 2Gen, come viene anche chiamata, è tuttavia la totale scioltezza con cui questi giovani, nati in Italia ma di origini straniere, riescano a condensare i tratti caratteristici di culture apparentemente incompatibili. D’altronde perché dovrebbero sceglierne una? Il senso di appartenenza improvvisamente si sdoppia, ma raramente e se non per cause di forza maggiore, una parte prende il sopravvento sull’altra.

Il modello genitoriale non è necessariamente un paradigma da cui prendere spunto. I genitori di questi ragazzi infatti hanno vissuto e vivono lo status di immigrati secondo una lente d’ingrandimento del tutto differente: hanno compiuto un iter diverso, per motivazioni diverse, in tempi diversi. Questi giovani infatti spesso «non si limitano a ricalcare itinerari noti e precedentemente battuti» 2 ma spesso vedono nella loro situazione l’occasione per riscattare le sofferenze e i sacrifici che i genitori hanno vissuto. La loro percezione del rapporto tra nativo e migrante non viene avvertita con la stessa intensità dei genitori poichè a differenza loro, non hanno dovuto compiere per esempio il percorso di ottenimento della cittadinanza. Tuttavia il loro dualismo, se da una parte favorisce il loro inserimento sociale fin dall’infanzia, al contrario può talvolta rivelarsi come un’arma a doppio taglio. La sospensione identitaria, non è infatti un presupposto facile da assimilare per un giovane che a casa vive in un mondo e fuori in un’altro. Non sempre risulta facile poi gestire il continuo passaggio tra i diver-

Infine c’è la questione dei titoli. Oggi disponiamo di un’ampia varietà di termini con cui indicare i “non-autoctoni” e ognuna detiene una particolare sfumatura di significato che può contribuire a segnare o ad elevare individui apparentemente simili tra loro: stranieri, immigrati, profughi, richiedenti asilo e rifugiati. E se per tutti questi casi la confusione di significati può causare problemi di interpretazioni, anche per le 2Gen l’appellativo comincia ad andare stretto:

2

Le seconde generazioni e il problema dell’identità culturale: conflitto culturale o generazionale? Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, Roma, 4/04/2011. 3 Fondazione Andolfi, 2001.

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11 / Karima 2G, cantante italo-liberiana Irene Tamagnone Vogue Italia - 2014

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2 e Generazioni

«Continuano a definirci immigrati di seconda generazione. Lo vedo scritto ovunque in questi giorni. Immigrati da dove? Dal ventre di nostra madre? Gabriella Kuruvilla me lo chiede sempre: “Ma da dove siamo migrate, Igiaba?”, e io penso che sì, ho un po’ migrato da Roma nord a Roma est, il più grande spostamento della mia vita, a pensarci bene. Sembra quasi che l’immigrazione sia una tara genetica, qualcosa che si passa di generazione in generazione e che, come l’ergastolo, paghi per tutta la vita»4.

Come anticipato, se assumiamo l’immigrazione come fenomeno strutturale, perde di significato anche la necessità di contraddistinguere a quale nuova generazione di immigrati gli uni o gli altri appartengano, come se il giorno dello sbarco, già abbastanza difficile in sé da dimenticare, dovesse diventare l’anno 0 di un calendario migratorio. Noi stessi siamo frutto di antiche migrazioni, eppure oggi non diciamo di vivere un milione e ottocento mila anni dopo che l’Homo ha varcato le soglie dell’Africa.

4

Siamo ancora pecore nere. Igiaba Scego, Internazionale, Roma, 21/01/2015.

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12 / Toronto Skyscrapers Victor Porof (Ingegnere informatico) Berlino (Germania)

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03

Caso studio Toronto (CA) La scelta di prendere in analisi un caso studio nasce dalla volontà di avvallare la tesi secondo cui la crescita economica di una città ed il suo arricchimento culturale sono direttamente proporzionali al livello di integrazione delle minoranze etniche nel suo tessuto sociale. Ho volutamente scelto una città che avesse un numero di etnie sul proprio territorio pari a quello milanese, con una storia autoctona alle spalle, che ricoprisse una posizione chiave a livello geografico nei flussi di spostamento e che infine fosse internazionalmente riconosciuta come uno tra i migliori esempi di pluralismo etnico. L’analisi tende a mostrare i vantaggi connessi alle politiche sull’immigrazione adottate dalla città in esame, pur riconoscendo le diversità sostanziali tra questa stessa e Milano. Tuttavia, benché i numeri avvalorino la tesi, l’aspetto che mi preme sottolineare riguarda l’approccio adottato dai funzionari pubblici canadesi, piuttosto che un’esclusiva comparazione di dati statistici che per ovvie ragioni pongono l’accento su differenze strutturali evidenti tra le due città messe a confronto.

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13 / Immigrant Family - statua in bronzo Tom Otterness (Artista) 18 Yonge Street, Toronto - 2007

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Caso studio: Toronto (CA)

TORONTO

MILANO

Superficie

630,2 km2

181,8 km2

Abitanti totali

2.809.000

1.350.000

1.400.000 (50% del totale)

289.000 (21,5% del totale)

Etnie

200

160

Lingue parlate

140

n.d.

Etnie più numerose

Cinese, Italiana, Sudamericana

Egiziana, Filippina, Cinese

Popolazione sopra i 65 anni di età

14% (del totale)

25% (del totale)

Abitanti stranieri

I

numerosi quartieri e gli edifici della città canadese ricevono vita dalla presenza di oltre cinque milioni di abitanti (compresi i residenti nell’area metropolitana) appartenenti a ceppi etnici differenti, che convivono pacificamente, e che nel tempo, sono andati amalgamandosi, raggiungendo un sorprendente livello di integrazione e rendendo la città una melodia ricca di note diverse, raffinandone la sensibilità di fiutare e cavalcare trend e mode metropolitane. Toronto è una città il cui passato è intrinsecamente legato all’esperienza migratoria. Se pensiamo infatti alla Great Famine, ovvero la devastante carestia che piegò l’Irlanda tra il 1845 ed il 1852, ricorderemo come un enorme esodo di cittadini irlandesi si riversò sulla città, la quale tuttavia non si lasciò cogliere di sorpresa. Furono infatti realizzati «un sistema fognario molto ampio, un innovativo sistema di illuminazione a gas in grado di servire la intera rete stradale e nuove ed importanti linee ferroviarie. In particolare, queste ultime

1 2

diedero un forte impulso sia alle ondate migratorie che allo sviluppo dei traffici commerciali, facendo di Toronto una via d’accesso privilegiata per il Nord America» 2 . Anche Milano d’altronde ha ricoperto questo ruolo di crocevia dei flussi migratori, essendo geograficamente posizionata in uno dei punti di passaggio per il raggiungimento delle altre grandi nazioni europee. Le tangenze tra Milano e Toronto sono tutt’altro che poche o casuali. Oggi infatti Toronto ospita ben due zone “italiane” (una su College Street e una su St. Clair Avenue) totalizzando tra le sue Little Italy circa 430.000 cittadini di origini nostrana 2 . Con solo un quarto dei suoi abitanti a rimanere canadese, Toronto rappresenta un chiaro esempio di come la mescolanza etnica sia facilmente convertibile in fonte economica oltre che in un mezzo per il miglioramento delle condizioni di vita cittadine.

La storia di Toronto, trionfo di multiculturalismo. www.allianz-assistance.it Italiani in Canada. www.gostudycanada.it, 6/04/2014

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immigrati, sopratutto se questi una volta arrivati a pochi chilometri dalle coste entrano inevitabilmente nel radar dei problemi a cui dobbiamo porre rimedio. D’altra parte però, bisogna anche dare atto del fatto che con l’esperienza acquisita in questi anni di cattiva gestione del fenomeno, dovremmo quantomeno aver maturato una conoscenza del problema tale da poter proporre soluzioni all’altezza. Fino a quando l’idea di un’integrazione finalizzata tarderà ad innestarsi nella coscienza comune, difficilmente avremo i giusti strumenti intellettuali per creare degli ecosistemi urbani soddisfacenti per chi ci vive e per chi ci arriva.

L’esempio di Toronto rappresenta chiaramente come una certa lungimiranza e predisposizione nell’amministrare le politiche interne, possano convertire un potenziale problema in una fonte certa di risorse che contribuiscono a rendere unica una città. Questo dovrebbe spingere gli organi competenti in Italia a «prevedere flussi di immigrati più consistenti, dando la precedenza a cittadini di Paesi più “integrabili” - minor tasso di delinquenza, maggiore compatibilità culturale» oltre che ad «investire sull’integrazione delle seconde generazioni (…) e a cercare competenze in aree dove abbiamo o avremo carenze. Dovremmo utilizzare la rete di rappresentanze all’estero per attirare questa immigrazione qualificata» 3 . Quello che infatti potrebbe apparire come cinismo, il realtà è soltanto buon senso e da anni nazioni come l’Australia e la Nuova Zelanda adottano sistemi di valutazione delle richieste attuando poi corsi di formazione su abitudini e costumi locali una volta garantito il via libera all’accesso. Soltanto creando occasioni di confronto e sviluppando strutture preposte al mescolamento possiamo assicurarci che le diversità possano essere effettivamente capitalizzate in una risorsa chiave per il paese. Come dice Patricia McCarney, direttore del Global Cities Institute presso l’Università di Toronto:

«la diversità mantiene veramente la nostra popolazione giovane ed è un boom per l’economia. (….) La diversità è parte della nostra identità e del nostro lascito» 4 . Lungi dall’essere la Soluzione, dobbiamo da una parte essere molto consapevoli che all’Italia non viene sempre offerta la facoltà di scegliere quando e come ammettere

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14 / Justin Trudeau, Primo Ministro Canadese REUTERS / Chris Wattie (Fotografo) Ottawa, Canada - 2016

Un viaggio di testa, un viaggio di pancia. Diversi Autori Provvisoriamente Anonimi (DAPA), 7 Corriere della Sera, n°22, 1/06/2017. Www.metronews.ca, Gilbert Ngabo, Metro Published, 17/04/2016.

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Caso studio: Toronto (CA)

Quali sono i risultati pratici di un approccio di apertura a lungo termine al multiculturalismo?

RICONOSCIMENTO INTERNAZIONALE

CHIARO PIANO DI INTEGRAZIONE

Più del 30% dei residenti parla una lingua in più rispetto all’inglese e al francese. Questo e altri fattori di rilevanza sono bastati perché Toronto ricevesse nel 2016 la palma dell’UNESCO come “città in assoluto più ricca di contrasti” oltre che la nomina da parte della BBC di “città più multiculturale al mondo”. Ad oggi, secondo il Places Rated Almanac (David Savageau, Ralph D’Agostino, IDG Books Worldwide, 2011) si riconferma inoltre come la più sicura città metropolitana del Nord America.

A partire del 1970 il Canada ha intrapreso una politica sull’immigrazione volta a decidere con attenzione i migranti da ammettere nella nazione, basandosi sulle loro credenziali educative, sull’abilità nel parlare Inglese e Francese, sulla loro esperienza lavorativa e sull’età. Tale politica permette ad un nuovo cittadino inoltre di portare con sé le persone a proprio carico. FACILITA LA GESTIONE DELLE RISORSE

RENDONO LA CITTÀ APPETIBILE PER INVESTIMENTI ECONOMICI

VERE SPERIMENTAZIONI POLITICHE

MAGGIORE COESIONE TRA I CITTADINI

Il consiglio cittadino ha chiesto alla sede del governo provinciale di approvare una legislazione che permetterebbe ai cittadini non residenti in maniera permanente di votare durante le elezioni municipali di Toronto. Se la legislatura dovesse venire approvata, potrebbe entrare in vigore già a partire dalle elezioni del 2018. (Fonte: Pittsburgh Post Gazette. Mark Roth, 11/08/2017)

Nel Giugno del 2017 il consiglio di Toronto ha votato per 29 a 8 la proposta per eleggersi come “città santuario” per gli immigrati Canadesi senza documentazione. La città dunque provvederà a fornire servizio agli immigrati, a prescindere dal fatto che siano entrati illegalmente nella nazione. «La dichiarazione d’Indipendenza» dice Mr. Billinger, ufficiale alle politiche sociali «definisce la città come una corporazione di abitanti, non di cittadini, quindi ho il dovere di comportarmi egualmente sia nei confronti degli abitanti di Toronto, che nei confronti degli stranieri».

INCENTIVANO TERZE PARTI A FARE DELLA CITTÀ UN POLO SPERIMENTALE A 360°

MIGLIORA LA QUALITÁ DELLA VITA

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15 / Venditore di rose Milo Ventura (Fotografo) Bari - 2007

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04

Milano Città pluri-etnica Dopo aver esaminato il caso studio, possiamo ora confrontare i valori individuati con la città di Milano, sul rapporto che essa ha con le categorie immigrate e nella contaminazione spaziale generata da tre decenni di pluralismo etnico. La relazione città-abitanti è poliforme e tutt’oggi in divenire. Molte discussioni in materia religiosa, abitativa e lavorativa sono attualmente fonte di dibattito e scontro. L’analisi che ne deriva quindi definisce i contorni di una città divisa tra la valorizzazione e l’allontanamento di un substrato multietnico variopinto. Traspare infine come Milano abbia a disposizione un grande potenziale umano, senza tuttavia aver ancora capito come poterlo mettere veramente a frutto.

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Distribuzione delle principali etnie a Milano La mappa mostra in maniera indicativa la distribuzione delle quattro principali etnie nella città di Milano. La strutturazione della mappa si basa sulle indagini svolte dal Corriere della Sera in una pubblicazione del 29/12/2010. Benchè i numeri ad oggi siano differenti, tuttavia le aree abitative sono da considerarsi come tendenzialemente consolidate e confrontabili con la distribuzione odierna.

Cinesi Filippini Egiziani Peruviani

(Villapizzone / Sarpi / Affori / Quarto Oggiaro) (Loreto / Padova / Viale Monza / Bande Nere) (Selinunte / Giambellino / Dergano / Corvetto) (Mecenate / Gallaratese / Rogoredo / Bovisasca)

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Milano: città pluri-etnica

«Essersene andati dal Cairo e ritrovarsi a vivere al Cairo, sì, ma in una traversa di viale Monza»1.

L

a legge dell’attrazione dice che individui con caratteristiche simili tra loro sono naturalmente portati a sviluppare interesse reciproco e talvolta anche comportamenti omologhi che ne rafforzano il legame. Credo che la legge dell’attrazione però sia anche applicabile ad elementi di scala maggiore e potenzialmente inanimati poiché se parliamo di duplice identità quando ci riferiamo alle seconde generazioni, non possiamo riconoscere che tra questi e la città che abitano non ci siano forti sintonie. Milano in effetti è un ecosistema che vive visibilmente questa natura bifronte. Da un lato è la capitale dei cittadini non comunitari regolari (12,1% del totale nazionale 2 ), dall’altra è il palcoscenico sul quale si esibiscono alcuni dei più ostili comportamenti nei confronti delle minoranze etniche. Se infatti è la città in cui gli immigrati registrano il maggior numero di imprese indipendenti, è anche la rocca di un’amministrazione che non appare sempre chiara nei propri intenti. Uno su tutti è il caso delle moschee. Un’articolo di Vice del 2015 titola “Milano ha un grosso problema con i musulmani” 3 , ed è vero. La Lega Nord, che in Lombardia gode ancora di un discreto appoggio, il 27 gennaio 2014 emanò la legge “anti-moschee” 4 imponendo ai fedeli di religione musulmana che volessero cimentarsi nell’impresa di costruire un luogo di culto, che avrebbero dovuto «dotarsi di un sistema di telecamere e parcheggi per una superficie pari al 200 percento di quella dell’immobile adibito a servi-

zi religiosi». Ora, soprassedendo sulla questione delle telecamere che francamente a questo punto dovrebbe essere applicata a qualsiasi altro luogo di culto in Italia, l’idea anche solo remota di riuscire a far costruire un parcheggio in una città nella quale esistono delle app specifiche per la prenotazione fulminea di quei pochi posteggi ad oggi liberi, sembra la cosa francamente più utopistica. Ma non dovrebbe sorprendere, infatti questa come tante altre leggi in merito al mondo etnico dimostrano lo sgraziato tentativo di tardare un processo di trasformazione della città già del tutto incontrovertibile. «In realtà non è una moschea» dice Leija nel romanzo della Kuruvilla, «ma un ex palazzina dell’Enel che alcuni islamici si sono comprati e poi hanno chiesto al Comune il permesso per ristrutturarla. Non gliel’hanno dato quindi alcuni di loro se lo sono preso: adesso hanno un edificio su più piani, con un enorme spazio per pregare che ha i pavimenti in marmo e i tappeti persiani. 4 » La realtà edilizia infatti è forse quella più rappresentativa del concetto di “mescolamento culturale”. Le palazzine e i condomini milanesi diventano veri e propri formicai brulicanti di vita, all’interno dei quali si stanno cominciando a sedimentare dei veri e propri processi di stratificazione etnica: «vedo, tocco, annuso, assaggio e ascolto. Impossibile non farlo, in questo palazzo, dove tutto si mescola» 5 . Gli appartamenti, schiacciati gli uni contro gli altri, diventano soprattutto durante la stagione estiva dei teatri

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Estratto dal libro “Milano, fino a qui tutto bene” di Gabriella Kuruvilla, Laterza, Bari, 2012 Milano capitale dei non comunitari regolari. Radio Popolare, 13/06/2017. 3 Milano ha un grosso problema coi musulmani. Alberto Meucci, Vice, 4/03/2015. 4 Www.repubblica.it. 9/12/2014. 5 Estratto dal libro “Milano, fino a qui tutto bene” di Gabriella Kuruvilla, Laterza, Bari, 2012. 2

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a cielo aperto, affacciandoci sui quali possiamo ammirare il mondo in un cortile. Una delle realtà più rappresentative a Milano in questo senso è quella di Via Padova. Via Padova, oggi in parte anche conosciuta con l’appellativo di NoLo (North of Loreto) sta vivendo un paradossale processo di trasformazione che proprio per il suo carattere variegato e multietnico porta l’intera area ad essere considerata come una delle prossime “Isola” di Milano. La vivacità di quartieri come questo infatti attende solo di essere riscoperta e a partire dal quel momento cominciano a comparire uno dopo l’altro locali, spazi di aggregazione, officine e laboratori creativi. Quella che prima era vista come la banlieu milanese domani sarà il posto più cool e trendy in cui andarsi a bere un aperitivo. La realtà è che, come già raccontato nei primi capitoli di questo volume, l’ibridazione culturale è uno dei mezzi più potenti per la ri-valorizzazione di aree che nell’arco di pochi anni possono cambiare completamente il loro volto in meglio.

Via Padova è anche il divertente soggetto dell’omonimo film “Via Padova” 6 nel quale uno scanzonato Antonio Rezza nelle vesti di intervistatore oltre che di regista e attore, intervista i passanti di Via Padova ricordando nel modus operandi e nelle sembianze il più noto Filippo Roma delle Iene. Anche se quest’ultimo è tendenzialmente abituato a ricevere percosse durante quasi ogni sua indagine, le rivelazioni che emergono dal docufilm sono altrettanto disturbanti. Le persone intervistate, mediamente anziani italiani e giovani mediorientali, tentano invano di comunicare in una baraonda di suoni ed affermazioni a volte più incomprensibili per la parlata dialettale che per le frasi in arabo, lasciando trasparire l’assenza di alcun fondamento alle motivazioni di coloro che rifiutano con intransigenza qualsiasi forma di “contaminazione”. Fortunatamente noi italiani abbiamo quella dote eccezionale di essere simpatici anche quando siamo ignoranti, cosa che facilita la digestione di un film che se non avesse avuto noi come soggetti sarebbe stato etichettato come dramma piuttosto che come commedia. Le riflessioni che ne emergono sono due fondamentalmente: da un parte chi si occuperebbe di far funzionare gli ospedali o tagliare l’erba nei prati se gli immigrati non se ne occupassero? Dall’altro lato perché, se assumiamo che per molti aspetti un immigrato è simile ad un neonato, siamo pronti a perdonare qualsiasi biascicamento incomprensibile del secondo ma non del primo? Sollevare questioni che prevedono l’aspetto occupazionale è uno dei punti chiave perché, checchè se ne dica, un cittadino non comunitario non si fa grossi problemi a svolgere dei lavori per i quali noi inorridiremmo, seppur magari quella stessa persona in patria abbia conseguito il nostro stesso titolo. La riflessione di carattere “linguistico” poi è di per sé assolutamente interessante. Chiunque abbia mai viaggiato su un regionale alle sette di sera seduto davanti ad una donna musulmana al telefono può capire di cosa si stia parlando.

«Fino a poco tempo fa qui c’era un parrucchiere italiano che si faceva chiamare “consulente d’immagine”: per marcare la differenza con tutti i parrucchieri cinesi di via Padova, che ti chiedono al massimo otto euro. Per questa cifra dal consulente d’immagine non mi lavavo neanche i capelli. Infatti ha chiuso: il consulente d’immagine».

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Non bisogna al contrario fare di tutta l’erba un fascio infatti Milano ha per tutta una serie di aspetti sempre dimostrato grande interesse ad aprirsi ad altre culture.

Milano Via Padova. Antonio Rezza, Flavia Mastrella, Milano, 2016.

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Milano: città pluri-etnica

Ne è una dimostrazione il ricchissimo panorama di sperimentazione culinaria a cui ci possiamo sottoporre quotidianamente. Il mercato dell’alimentazione etnica è uno dei settori più redditizi per l’intera città ed è anche uno dei grandi motivi di distinzione e richiamo che fanno di Milano la città più cosmopolita d’Italia. Torino ha un forte primato in questo senso, ma anche il capoluogo Lombardo vanta un ampio ventaglio di possibilità che vanno dalla proposta gourmet al mercato rionale, dallo street food al ristorante stellato. Dovrebbe quindi ancor più sconvolgere il fatto che, nonostante il cibo occupi per l’italiano medio una posizione più alta nella scala dei valori rispetto alla quella occupata dalla Chiesa, quello stesso italiano è in genere molto più ostile all’idea di avere una moschea in città piuttosto che di mangiare kebab due volte alla settimana.

«Hai sollevato il lenzuolo tessuto in cotone, fibra scoperta per la prima volta in India nel VI secolo a.C., poi ti sei infilato le ciabatte, calzature degli indiani algonchini, poi hai fatto colazione in una scodella di ceramica, realizzata con un processo inventato in Cina, in cui hai messo del caffè che arriva dall’Abissinia o del tè che arriva dalla Cina o del cacao che arriva dal Sud America. Poi sei uscito, hai comprato un giornale stampato su carta, processo inventato in Cina, stampato con caratteri mobili, processo inventato in Europa, e l’hai pagato con una moneta, invenzione della Numidia, e a seconda delle notizie hai ringraziato o bestemmiato una divinità mediorientale di averti fatto nascere americano. 7 »

16 / Mariú - Kebabberia Gastronomica www.foodnation.it Viale Sabotino 9 - Milano

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Il Diverso come icona del male. M. Aime, E. Severino, Bollati Boringheri, Torino 2009, pp. 29-30

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17 / Rich Benjamin (social observer) “My road trip through the whitest towns in America” TEDWomen - 2015

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Pareri a confronto Parlano gli esperti Nelle seguenti pagine ho deciso di raccogliere le testimonianze di due esperti, così che potessero raccontare il loro punto di vista sul tema del multiculturalismo. La scelta è ricaduta su due figure che avessero esperienze e punti di vista volutamente differenti, così da poter fornire una panoramica più ampia e completa possibile sull’argomento. Le interviste si sono svolte seguendo un intinerario di domande prestabilito e identico per entrambi gli intervistati così da poter operare un confronto tra le risposte ad una stessa domanda. Le parole degli esperti vengono qui riportate nell’esatta maniera in cui sono state pronunciate durante l’intervista, senza modifiche o traslitterazioni da parte dell’autore di questo volume.

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Andrea Staid Antropologo e scrittore

Profilo: Andrea Staid è docente di Antropologia culturale e Teoria e metodo dei mass media presso la Naba, dirige per Meltemi la collana Biblioteca / Antropologia. Per Milieu ha scritto Abitare illegale 1 , I dannati della metropoli 2 e Gli arditi del popolo 3 . È autore anche dei saggi Le nostre braccia (Agenzia X) e I senza Stato (Bebert). I suoi libri sono tradotti, in Grecia e Spagna, e adottati in varie facoltà universitarie.

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Abitare illegale. Andrea Staid, Le Milieu, Milano, 2017. I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità. Andrea Staid, Le Milieu, Milano, 2014. 3 Gli arditi del popolo. Andrea Staid, Le Milieu, Milano, 2015. 2

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Pareri a confronto: parlano gli esperti

che riescono ad uscire dal settore della ristorazione o della sartoria. Di solito quei pochi che riescono ad uscire da questo incatenamento, ritornano in Cina e fondano là la loro attività. I Filippini poi sono molto portati ai new media e quindi molti lavorano nella new economy e ben poche 2e generazioni filippine rimangono legati al lavoro del padre o della madre. Tendenzialmente la colf ha guadagnato mediamente bene, ha messo da parte tanto e ha investito sulla cultura dei figli e sulla loro possibilità di emancipazione.»

C’è una diversificazione degli immigrati in base a delle categorie lavorative precise? Perché? «La diversificazione è reale. Ogni popolo poi si impiega in attività che costituiscono un riflesso del proprio portato culturale. Per le etnie che hai scelto, non bisogna pensare che ci sia un substrato culturale che li renda predisposti ad essere cuochi o colf, ma piuttosto che negli anni, a causa dello spostamento delle masse, si sono creati dei vuoti spinti da determinati settori commerciali per essere riempiti dalle categorie etniche. Questo modo di integrare le persone all’interno della società, porta quindi ad una gestione e ad un controllo più facile sull’attività di quella etnia specifica. La ristorazione i cinesi sapevano farla bene, in modo veloce e sopratutto “auto-sfruttandosi” quindi sono riusciti ad accaparrarsela come settore. Non soltanto poi noi occidentali facciamo business sulle loro vite, bensì spesso i cinesi stessi tra loro si sfruttano, così come egiziani e filippini. La presenza di contatti residenti in Italia ma appartenenti allo stesso gruppo etnico genera delle dinamiche di sfruttamento tali per cui questi datori di lavoro non autorizzati, attraverso degli uffici di collocamento fittizi, trovano lavoro ai loro connazionali trattenendone parte del salario sotto forma di una tangente per il ruolo di “mediazione”. Gli egiziani, a differenza di queste ultime due comunità, sono riusciti ad applicarsi su frangenti tra loro diversi.»

È possibile dire che i lavoratori immigrati ricoprono un ruolo socialmente ed economicamente fondamentale nella Milano di oggi? «Da un punto di vista è importante, dall’altro è pericoloso come già ti dicevo perché crei un welfare etnico, ovvero una catena di mutuo-appoggio che se ti da lavoro e la possibilità di vivere in modo dignitoso in questo paese, dall’altro canto ti costringe. Da questo punto di vista infatti stiamo vivendo un ritorno al razzismo biologico. Per quello che riguarda le critiche di oggi all’accoglienza, molto spesso sono d’accordo con chi dice che sia assurdo un dispendio così grosso per l’accoglienza e soprattutto che ci siano moltissimi italiani non preparati che lavorano guadagnando sulla pelle di questi che arrivano, ma sono altrettanto convinto che gli uomini siano tutti uguali, che non ci siano soggetti di “seria A” e di “serie B” e che il reato sia individuale e non comunitario. Quello che io darei è la possibilità di avere la libertà di circolazione e credo che per abbattere le categorie professionali bisognerebbe abbattere questi confini politici che servono per creare queste neo schiavitù e la possibilità di avere la pizza a 3.50€ tutta la notte, perché né io né tu tendenzialmente saremmo disposti a farlo.»

Quanto le nuove generazioni sono soggette ad una autonomia decisionale dal punto di vista lavorativo e quanto invece sono costrette a continuare la medesima attività lavorativa dei genitori? «Con le seconde generazioni sta cambiando tutto. Primo perché c’è la consapevolezza di parlare la lingua, secondo perché c’è una strutturazione scolastica italiana perciò tu hai un bagaglio culturale e di possibilità di creazione di immaginari che escono fuori dalla tua derivazione etnica. Gli italiani di seconda generazione a NY, si sentivano americani proprio come gli egiziani nati in Italia si sentono italiani, e proprio per questo hanno più possibilità di uscire dall’incatenamento professionale. Credo che per i cinesi sia molto più difficile e che la pressione etnica sia molto più forte perché il business è molto più grosso. Gli egiziani sono quelli che hanno più mobilità sull’aspetto professionale. Conosco pochissimi cinesi invece

Come cambierebbe il volto della città se da un momento all’altro non ci fossero più immigrati? «L’economia crollerebbe. Quando mi intervistano e mi dicono che gli immigrati sono troppi io rispondo che hanno ragione, ma mi piacerebbe vedere cosa succederebbe se tutti gli immigrati italiani indicessero uno sciopero. Se tutti i lavoratori, anche quelli in nero, smettessero di lavorare, domani la nostra economia crollerebbe e saremmo costretti a pregare gli immigrati di tornare al

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lavoro perché noi non saremmo mai disposti a lavorare nelle loro stesse condizioni. Credo che una cosa importante sarebbe quella di avere una regolamentazione di massa dei permessi di soggiorno così come la creazione di agevolazioni per le assunzioni. Il problema è che un datore di lavoro per assumere un immigrato arrivato in Italia dovrebbe assicurarsi che questo abbia già un lavoro, un contratto di almeno un anno e una casa in affitto con residenza. Questa legge quindi sancisce di fatto l’impossibilità di movimento alle persone e le fa arrivare illegalmente per poterle pagare prezzi irrisori.»

si è abbandonata. Il cibo è qualcosa che si cerca di non lasciare, ma che è molto soggetto al meticciamento. I vestiti e quindi l’apparire esterno è qualcosa che cambia in maniera repentina tant’è vero che praticamente nessuno indossa più abiti tradizionali.» Come credi si evolverà il rapporto tra gli immigrati di oggi e la Milano di domani? «Io mi auguro che questa Milano sia capace di prendere il meglio da questo incontro e sono convinto che saranno proprio le seconde e terze generazioni a salvarci. Quando vai in una scuola infatti e vedi un bambino cinese, uno italiano ed uno cingalese nella stessa classe, loro non si accorgono nemmeno quasi della loro differenza epidermica. Mi auguro quindi che queste nuove generazioni sappiano costruire una milanesità nuova e transculturale.»

Il processo di integrazione di un immigrato segue delle consuetudini che valgono per tutti o ci sono etnie che si integrano meglio e più velocemente? «Il bacino mediterraneo sicuramente ci ha unito molto. Con gli Egiziani, i Marocchini, gli Algerini e Libici in realtà condividevamo cibo, cultura e stili di vita. Addirittura c’era una lingua che accomunava tutti i paesi di porto, da Tanger a Palermo, il sabyr. La lingua sabirica era la lingua del porto, un po’ di italiano, un po’ di siciliano, un po’ di greco e univa le possibilità di comunicazione nel Mediterraneo. Alcune comunità hanno sicuramente molta più difficoltà ad integrarsi. Per alcuni abitanti della Polinesia o delle isole Neozelandesi è impensabile che noi non ci prendiamo cura dei nostri anziani, ma che a farlo siano delle badanti e quindi delle sconosciute. Infatti i cinesi, che da questo punto di vista sono molto orientali, si sono chiusi a riccio. Quando l’interazione diventa integrazione e meticciamento le possibilità sono aperte per tutti.»

Quale valore fondamentale l’immigrazione in Italia ci dovrebbe insegnare o far riscoprire? «Anche quest’anno ci sono stati più migranti italiani che immigrati arrivati in italia e lo dice la Questura stessa. Quindi credo che l’immigrazione posso restituirci la consapevolezza che dalle pratiche si possa arrivare a dei sistemi più efficienti, cioè che vivendo quotidianamente il cambiamento, si possa riuscire a produrre delle teorie e dei programmi politici e culturali migliori per tutti.» (di Luca Toscano)

Nella Milano di oggi, quanto di ciò che gli immigrati si portano dietro (cultura, riferimenti, storia, religione) viene conservato e quanto viene meticciato? «Tutte le culture sono in transito permanente e sono ibride, d’altro canto è vero che quando si emigra il fattore dello spostamento ti porta ad attaccarti di più ad un’identità che hai lasciato. Io conosco molti magrebini che sono partiti laici e sono diventati islamici in Italia perché la riscoperta della religione avveniva quando avevi completamente slegato sentimenti ed emozioni dalla tua comunità. Attraverso una scuola coranica ci si re-incontra e si cerca di ricostruire una comunità che

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Pareri a confronto: parlano gli esperti

18 / Intervista ad Andrea Staid Sara Monacchi (fotografa) Milano - 22/09/2017

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Corrado Fumagalli Ricercatore e statista

Profilo: Corrado Fumagalli è il co-fondatore di A-id: Agenda for International Development 1 e, dopo un dottorato in teoria politica presso l’Università degli Studi di Milano, lavora come Ricercatore per l’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni a Pechino. Negli anni ha svolto attività di ricerca in India, Cina, Germania e Stati Uniti e collaborato con UNICEF-Bolivia e il Centre for the Study of Developing Societies di Delhi. I suoi interessi di ricerca riguardano le teorie della giustizia contemporanea, la filosofia dello sviluppo internazionale e le questioni normative legate all’integrazione politica e sociale.

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A-id: Agenda for International Development / www.a-id.org

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Pareri a confronto: parlano gli esperti

informale. In alcuni casi poi, come quello della comunità Sikh impiegata nel pontino e nel cremonese, all’intermediazione informale si unisce una competenza specifica (nella fattispecie quella dell’allevamento del bestiame).»

C’è una diversificazione degli immigrati in base a delle categorie lavorative precise? Perché? «Certo! L’immigrazione è un fenomeno molto sfaccettato in cui è possibile individuare almeno tre tipi di categorie: Lavoratori molto qualificati; Lavoratori qualificati; Lavoratori poco-qualificati. Nel mondo occidentale l’Italia rappresenta un caso importante perché, nonostante un’economia di servizi, non attrae lavoratori molto qualificati dall’estero e ha un tasso piuttosto alto di lavoratori molto qualificati che emigrano in cerca di migliori stipendi e opportunità. Poi è utile scomporre la popolazione straniera in Italia per paese di origine. Un primo gruppo che viene identificato è quello dei lavoratori della Unione Europea, che hanno sostanzialmente le stesse opportunità degli italiani sul mercato del lavoro. E infine ci sono i migranti extra-comunitari, che si concentrano nei lavori a bassa qualifica. Buona parte dei migranti extra-comunitari che si stabiliscono in Italia svolgono attività dipendente come operai, infermieri, camerieri, addetti alle pulizie, assistenti domestici per persone non autosufficienti. Per esempio, un rapporto ISTAT del luglio 2017 mette in evidenza che i migranti sono sovra-rappresentati nella categorie degli operai. Allo stesso tempo sono aumentati sia i lavoratori autonomi sia i lavoratori domestici. Si può dire che ci sia un’ulteriore differenziazione tra le diverse comunità che decidono di stabilirsi nel nostro paese. Per esempio, buona parte della comunità filippina è impiegata in forme di lavoro manuale non qualificato – soprattutto servizi domestici alla persona. L’Istat riporta che i bengalesi vengono impiegati soprattutto negli alberghi e ristorazione, marocchini (la comunità marocchina è anche la prima per numero di imprenditori) lavorano in prevalenza nel settore dell’industria e molti lavoratori albanesi (uomini) si concentrano nel settore delle costruzioni. I migranti extra-comunitari in Italia riescono a stabilirsi in questi settori grazie alla loro maggior disponibilità al movimento (da una città all’altra), al passaparola e al fatto che spesso gli italiani sono poco inclini a svolgere queste attività.»

Quanto le nuove generazioni sono soggette ad una autonomia decisionale dal punto di vista lavorativo e quanto invece sono costrette a continuare la medesima attività lavorativa dei genitori? «E’ difficile dare una risposta definitiva e valida per tutte le comunità che si sono stabilite con successo in Italia. Molto dipende dal tipo di professione dei genitori (dipendente/autonomo) e dal settore di occupazione.» È possibile dire che i lavoratori immigrati ricoprono un ruolo socialmente ed economicamente fondamentale nella Milano di oggi? «Credo che il loro ruolo sia fondamentale e una risorsa importante per Milano - soprattutto considerando l’apporto fondamentale nei servizi alla persona, nella ristorazione e nel settore alberghiero.» Come cambierebbe il volto della città se da un momento all’altro non ci fossero più immigrati? «Una Milano senza immigrati? Data la lunga storia di arrivi a Milano, una Milano senza immigrati sarebbe una città vuota. Poi se con “immigrati” intendi “stranieri”, sarebbe come avere una Ferrari in garage, tenerla a secco e senza olio.»

«Una milano senza immigrati? (...) una Milano senza immigrati sarebbe una città vuota. »

Quali sono i fattori che hanno potuto concorrere al radicamento di queste categorie lavorative? «Credo che il fattore più rilevante sia l’intermediazione

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bilità (contenimento degli affitti, fitta rete di mezzi pubblici, spazi verdi, luoghi di culto e mediazione culturale, servizi occupazionali e per il tempo libero), rimane forte il rischio che questa crescita internazionale possa espellere i più vulnerabili, lasciandoli ai margini della città.»

Il processo di integrazione di un immigrato segue delle consuetudini che valgono per tutti o ci sono etnie che si integrano meglio e più velocemente? «Ci sono tantissime variazioni che possono dipendere da una miriade di diversi fattori (lingua, religione, presenza di altri membri della stessa comunità, conformazione urbana, quartiere di insediamento, propensione all’integrazione da parte della cittadinanza, mezzi pubblici, costo della vita, e così via). Tutti questi fattori influenzano la partecipazione di una comunità nella vita cittadina. Poi bisogna ricordare che il fenomeno migratorio non è un fenomeno “comunitario” ma riguarda “persone” che decidono di andare da un posto all’altro. Queste persone hanno storie, attitudini e ambizioni diverse.»

Quale valore fondamentale l’immigrazione in Italia ci dovrebbe insegnare o far riscoprire? «Il pluralismo. Con pluralismo indico la valorizzazione della co-esistenza virtuosa tra diversi stili di vita ed il loro coinvolgimento nei processi di decisione collettiva. Credo che “il pluralismo” possa condurre a decisioni migliori, rinforzare un’etica di discussione e favorire la problematizzazione del senso comune.»

Nella Milano di oggi, quanto di ciò che gli immigrati si portano dietro (cultura, riferimenti, storia, religione) viene conservato e quanto viene meticciato?

(di Luca Toscano)

«Tutti i migranti si portano delle storie importanti, sacrifici economici, riferimenti culturali – partendo dal cibo fino alla religione e ai programmi tv preferiti. Poi la negoziazione di questi aspetti dipende ancora da caso a caso. Si può dire che più giovani sono i migranti, più si riscontra porosità. Certo, la scuola è senza dubbio un fattore importante per favorire l’integrazione – sia per gli studenti sia per i loro genitori.» Quali sono gli aspetti di Milano che influiscono maggiormente sulle abitudini degli immigrati? Quali disorientano e quali sono maggiormente assimilabili e/o digeribili? «Mi viene da dire: i quartieri di insediamento, il costo degli affitti, e i prodotti alimentari. Come per tutti noi, è molto difficile cambiare le proprie abitudine alimentari.» Come credi si evolverà il rapporto tra gli immigrati di oggi e la Milano di domani? «Io credo che Milano continuerà a essere una città di migranti, con una spinta internazionale capace di attrarre studenti, talenti e cervelli da tutte le parti del mondo. Questo non è tutto però! Milano deve anche imparare dagli errori. Senza una mediazione tra sviluppo e sosteni-

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19 / A-id Team www.a-id.org job@a-id.org

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20 / Moulding Traditions Formafantasma (Designer) Eindhoven, Olanda - 2009

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Cross Reference Il ruolo del design In questo capitolo andrò ad analizzare le motivazioni fondamentali secondo cui ritengo che il design possa ricoprire un ruolo chiave nella comunicazione e nel racconto del tema: “multicultualismo”. Il pluralismo etnico infatti ben si presta ad incontrare la progettazione nella misura in cui una moltitudine di storie hanno bisogno di un narratore per essere trasmesse. Il design e le arti in senso esteso hanno il compito di rappresentare la nostra epoca in tutte le sue sfaccettature e in tal modo si arrogano di diritto il ruolo di trasporre i valori della contemporaneità. La ricerca viene quindi sostenuta con la presentazione di alcuni progetti selezionati che ben rappresentano il connubio tra arte e tradizione-pluralità-etnicismo.

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erché il design dovrebbe, più di altre discipline, giocare un ruolo fondamentale nel favorire la mescolanza di culture tra loro diverse? Questa è la mia personale raccolta di risposte:

lasciando raccontare agli oggetti la propria storia in maniera imparziale e senza filtri. Affidare dunque al design il ruolo di narrare il multiculturalismo significa permettergli di raccontare con chiarezza l’importanza di una mescolamento culturale, bypassando tutti gli ostacoli intellettuali e politici che di solito rendono l’approccio a questo tema difficile da assimilare. L’oggetto non mente, rappresenta solo quello che le sue fattezze possono raccontare e non aggiunge al discorso più di quanto non sia in grado di esprimere nel suo silenzio. Credo quindi che lasciar parlare gli oggetti sia il modo più giusto di raccontare delle storie perché essi sono più sinceri nel raccontarsi di quanto non saremmo noi nel farlo.

Design è sintesi. È insito nel “fare design” sintetizzare diversi concetti. Quasi sempre infatti, quando si progetta e lo si fa in maniera innovativa, si cerca di abbinare riferimenti diversi affinché dialogando nella forma, possano offrire un nuovo punto di vista. È abitudine del designer quindi partire da tanti elementi diversi e riuscire a produrre un singolo oggetto in grado di raccontarne il legame comune. Quello che ne risulta, nelle sue versioni più raffinate, rappresenta poi la fusione di questi elementi, piuttosto che la loro semplice somma. Raccontare la mescolanza impone quindi sia sintesi sia conservazione degli elementi etnici fondamentali di una cultura.

Nello studio di cosa il design contemporaneo abbia prodotto mi sono imbattuto nell’enorme varietà di modi con cui un tema come la diversità culturale possa essere approcciato progettualmente parlando. Studi come i Formafantasma sono maestri nell’accostamento di realtà materiche molto diverse tra loro per creare suggestioni visive e sensoriali inedite. MartinelliVenezia dimostrano invece una grande attenzione e passione per le realtà artigianali italiane e per la loro trasposizione nei linguaggi più misurati del design contemporaneo. Colpisce la capacità dei progettisti nel raccontare in maniera nuova ma fedele il risultato e le conseguenze del rapporto tra metodi di produzione antichi e moderni. Fortemente rappresentativa poi l’attitudine di designer come Hector Serrano o Elena Salmistraro che scelgono di raccontare con incredibile efficacia in un caso l’appartenenza ad una realtà nazionale e nell’altro l’appartenenza ad un contesto globale. Parlare di diversità può dunque essere fatto inscenando volutamente un contrasto, reinterpretando antiche usanze, raffinando linguaggi artigianali oppure riflettendo in modo più concettuale sul legame che sussiste tra i diversi elementi dell’equazione. Nelle pagine seguenti ho voluto raccogliere diversi esempi di come l’arte, la fotografia ed il design abbiano saputo ritrarre e raccontare con efficacia la diversità culturale che esiste nel mondo. I progetti selezionati sono interessanti perché scelgono un ambito d’indagine e lo esplicitano con genuinità, lasciando che la combinazione di diversi materiali e colori crei un legame nuovo tra spunti di per sé noti e consolidati. Quasi tutti i progetti scelti cercano inoltre di valorizzare la realtà artigianale e tradizionale di mondi che hanno subìto

Design è scoperta. Il progettista deve essere uno spirito curioso e deve cibarsi di conoscenza perché è proprio dal vasto mondo della storia, dell’arte e dei costumi contemporanei che ricava gli strumenti necessari ad elaborare esperienze per noi sempre nuove. La facilità con cui accediamo oggi all’informazione ci rende passivi ad un’attitudine alla ricerca. Spetta quindi ai designer, figure chiave in questa società dell’immagine, scavare nel grande bagaglio culturale umano ed usare proprio l’immagine come mezzo per riaffermare il valore della scoperta e della conoscenza. Design è imparzialità. Un oggetto è più rappresentativo di mille parole e in un mondo in cui l’informazione è spesso manipolata, l’oggetto diventa il portatore di una franchezza senza eguali. Il progettista ha quella sensibilità per raccontare storie che affascinano e che colpiscono nel segno. La bravura comunicativa di un buon designer sta soprattutto nel saper condensare un messaggio chiaro e trasmetterlo ai più senza che il suo significato venga alterato o distorto nel processo. Nel buon design non c’è interpretazione, ma solo immediata comprensione del messaggio. Dunque, volendo rispondere alla domanda in una singola frase, il design ha un ruolo fondamentale perché sarebbe capace di sintetizzare l’immaginario di diverse etnie in modo immediatamente comprensibile,

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Cross Reference: il ruolo del design

Incertezza / Schemi / Approfondimenti

Ricerca

Chiarezza / Focus

Concept

una trasformazione nel tempo, senza tuttavia scadere in un giudizio morale riguardo tali cambiamenti. L’aspetto fondamentale appare piuttosto quello di confrontare diverse situazioni per far emergere in che direzione si stiano evolvendo le tradizioni e quale sia il nostro legame con esse. Cosa più importante forse, è constatare come in ciò che facciamo ci sia sempre traccia di un passato che in modo più o meno consapevole ci portiamo dietro e dalla conoscenza del quale non possiamo prescindere. Da questa ricerca emerge dunque come la storia dell’uomo, fatta di usanze, valori e suggestioni, sia essa stessa un percorso che non ci stanchiamo mai di indagare. È per questo che siamo sempre tesi nella speranza di scovare un dettaglio fino a quel momento ignoto ad altri, perché come specie amiamo raccontarci ma soprattutto riscoprirci.

Design

21 / The “Design Squiggle” Process Damien Newman (Professore) California - 27/05/2016

Anticipazione al Cross Reference Gli esempi raccolti nelle pagine seguenti, rappresentano il frutto di una ricerca incrociata di progetti appartenenti a diversi ambiti artistici, con particolare attenzione, per ovvi motivi, al mondo del design. I progetti selezionati rappresentano per me un tentavivo da parte dell’autore o di raccontare una realtà antropologica poco nota o di evidenziare aspetti culturali che necessitano di essere passati sotto la lente delle convenzioni contemporanee. Altri progetti infine cercano di mettere in comunicazione un’anima tradizionale delle cose, fatta di luoghi e saperi, con approcci e significati totalmente attuali o viceversa. Tutti i riferimenti ai singoli progetti (indicati “RX”) verranno disposti al termine della galleria di immagini così da rendere possibile la contestualizzazione di ciascuno di essi nel caso vi fosse l’interesse ad approfondirli. 63


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Texere / Agustina Bottoni / 2016 / @Miro Zagnoli Ispirata dalle antiche tecniche di intreccio artigianali per la realizzazione di tappezzerie, Agustina sfrutta la tecnologia del taglio a macchina dell’azienda Atom per realizzare un modulo in feltro che attraverso la concatenazione di singoli pezzi genera un unico prodotto.

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4decimi / MartinelliVenezia / 2015 / @Angelo Cirrincione, Carolina Martinelli 4decimi è una collezione di dodici lampade a pendant in acciaio ispirate alla semplicità dei tradizionali contenitori appartnenti alla cultura Siciliana. Ogni parte della lampada è curvata, piegata e saldata dalle mani dell’artigiano 86enne Nino Ciminna. 4decimi è una parte della collezione di oggetti di Officine Calderai.

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Colored Vases / Ai Weiwei / 2006 “Quei vasi Neolitici hanno almeno 4,000 anni e sono stati immersi in una vernice industriale prodotta da un’azienda Giapponese, cambiando completamente la propria immagine e nascondendo l’immagine originale al di sotto degli strati di colore. Se copri qualcosa in modo che non sia più visibile, pur rimanendo ancora lì, accade che ciò che è sulla superficie c’è anche se non dovrebbe esserci.”

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Romania Moods / Dare to Rug / 2015 La prima collezione di Dare to Rug, Romanian Moods, è un collage di sensazioni sovrapposto a pattern tradizionali romeni. Ogni tappeto si ispira all’estetica delle differenti regioni storiche della Romania - Oltenia, Maramureș, Transilvania, Moldova, Basarabia, Bucovina, Dobrogea, Muntenia, Banat and Crișana. Ogni design proviene da un processo di reinterpretazione dei pattern usando dei filtri creativi così da conferirgli un look contemporaneo. Hanno usato infatti dei colori per comunicare uno stile forte e alla moda.

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Fur Rugs / Valerio Sommella / 2016 Collezione di 6 tappeti che combinano pattern legati alla tradizione iraniana del 16° sec. con una stampa digitale ad altissima definizione su fibre sintetiche. I tre villaggi sono Heriz, Shiraz e Lilihan mentre il cliente per cui è stata realizzata la collezione è Moooi.

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The changing face of America / Martin Schoeller / 2013 Il futuro dell’umanità dall’incrocio di razze. È su questo che il fotografo tedesco Martin Schoeller ha realizzato la sua serie di ritratti per la National Geographic. Nel 2000, quando l’Ufficio di censimento degli Stati Uniti ha permesso di selezionare la propria “origine”, quasi 7 milioni di persone hanno scelto lo stato “misto”. Questo stato è aumentato del 32% in 10 anni. Questi sono i volti dei meticci americani.

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Bottle Up / Dutch Designers / 2015 A Zanzibar il turismo è un arma a doppio taglio. Costituisce una fonte vitale di reddito per l’isola, ma con essa arriva anche una grossa produzione di scarti, specialmente in vetro. Come risultato, sei giovani designer Olandesi hanno deciso di traformare questi scarti in un contributo significativo, creando Bottle Up. Collaborando con artigiani locali, hanno trasformato gli scarti di vetro in prodotti belli e funzionali. I prodotti poi sono stai venduti entrando a far parte di un ciclo continuo. L’esito è stato che i fondi raccolti dalla vendita degli oggetti sono stati investiti nel creare soluzioni migliori per lo smaltimento di tutti i rifiuti dell’isola.

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Cross Reference: il ruolo del design

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Balance / BCXSY / 2011 “Balance è il risultato della nostra collaborazione con Sidreh e con le donne che lavorano la maglia di Lakiya. Lakiya Negev Weaving è un colletivo di artigiani Beduini, fondata da Sidreh, un’organizzazione no-profit, concentrata sul miglioramento della situazione socio-economica delle donne Beduine che vivono nel deserto Israeliano del Negav. Balance consiste in una serie di sette tappeti intrecciati secondo la tradizione Beduina dalle donne di Lakiya, Israele. Ogni coperta è tessuta a mano utilizzando lana locale.”

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Hybrid / Seletti / 2011-2015 / © Seletti 2017 Ispirandosi al progetto artistico CeramiX Art questa collezione avvicina l’arte alla vita di tutti i giorni. Hybrid è prodotta in finissima porcellana Cinese dalla compagnia Italiana Seletti e si compone di svariati oggetti per la cucina. Gli oggetti nella collezione sono graficamente divisi tra est ed ovest attraverso una linea colorata che marca il confine tra due stili e paradossalmente, rafforzandone il rapporto al tempo stesso. La collezione Hybrid guarda al presente mente riflette sull’ironia della storia, proponendo poi un’evocativa interpretazione contemporanea.

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Mate Craft / Agustina Bottoni / 2013 / © Roberto Nino Betancourt Una caraffa realizzata in ceramica e ricoperta in pelle naturale. Combina usanze artigianali locali con un design contemporaneo. Il prodotto si ispira al Mate, una coppa realizzata appositamente per bere infusi di erbe in Sudamerica. È di solito realizzata partendo dalla zucca da vino essiccata, un frutto capace di contenere liquidi. Una semplice struttura autoportante e una maniglia generata dalla modellazione naturale della pelle attorno ai contorni arrotondati della ceramica in seguito rinforzati da alcune cuciture.

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La Siesta / Hector Serrano / 1999 / © Racky Martinez Una borraccia in terracotta per trasportare l’acqua, che combina il look della bottiglia in plastica con i vantaggi del tradizionale “botijo”. La speciale terracotta bianca mantiene l’acqua al suo interno fredda anche sotto il sole diretto. Può essere usata sia come bottiglia sia come caraffa. Il botijo è un contenitore per liquidi, in ceramica, diffuso in Spagna. Ha un manico e due fori, uno più grande per riempire il contenitore e un più piccolo per spillarne il contenuto. Costruito in terracotta ha la proprietà di rinfrescare il liquido che contiene grazie all’evaporazione del liquido stesso che traspira dalla porosità della terracotta non smaltata.

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PorrónPompero / Hector Serrano / 2011 L’evoluzione del Porrón tradizionale. PorronPompero si inserisce direttamente dentro ad una bottiglia di vino standard e si può bere direttamente da lì in maniera igienica rimandando così all’idea della condivisione. Serve inoltre ad ossigenare il bicchiere di vino grazie alla sua ampia imboccatura. Il porron è una caraffa da vino tradizionale che contiene 0.75 litri, tipica di molte regioni della Spagna. Rappresenta una fusione tra una bottiglia di vino ed un innafiatoio. Il collo della bottiglia è stretto abbastanza da essere chiuso con un tappo in sughero. È fatto così per far sì che il vino all’interno abbia il minimo contatto con l’aria, ma sempre pronto all’uso.

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Beyond Black / Monica Förster / 2017 Lo studio di design Monica Förster ha esteso la sua collaborazione con il marchio di arredamento Bosniaco Zanat con Beyond Black, un’elegante ed appasionante mostra che mescola l’artigianalità Bosniaca con lo spiritualismo Sami. Gli intagli nel legno accennano alle techinche tradizionali Bosniache mentre i ricami in fil di peltro si avvolgono attorno alla struttura lignea. La combinazione dei due materiali risulta inaspettata, ma conduce ad un accopiamento interessante che dona alla collezione un tocco contemporaneo.

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Moulding Traditions / Formafantasma / 2010 / @Studio Formafantasma Moulding Tradition si ispira alla tradizione ceramica siciliana della realizzazione delle Teste di More, copie delle grottesche rappresentazioni Moresche della Caltagirone del 17° sec.. I mori invasero la Sicilia introducendo la tradizione delle Maioliche. Oggi, dopo aver fatto la fortuna di Caltagirone continuano ad arrivare, ma come immigrati. Lo studio indaga le contraddizioni legate all’immigrazione e al problema identitario. I prodotti raccontano i mestieri che gli immigrati compiono oggi e ricordano le fasi del viaggio nel Mediterraneo.

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TAN TAN / Elena Salmistraro / 2016 Tan Tan è un tajine realizzato in terracotta smaltata, disegnato da Elena Salmistraro e Serena Confalonieri per Bitossi Home. Questo progetto deriva dalla necessità di esplorare il mondo del food che oggi è il riflesso di una società multietnica, arricchita da influenze provenienti da posti e culture tra le più differenti. Il Tajine gioca un ruolo centrale nella cultura culinaria Nordafricana: Tan-Tan è la reinterpretazione di quest’oggetto ridefinito attraverso forme lineari, geometrie essenziali e colori accesi.

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Rocca dei Vasi / MartinelliVenezia / 2016 Il progetto Rocca dei Vasi racconta la doppia natura della città di Caltagirone che storicamente ha sempre rappresentato l’eccellenza nella produzione e decorazione delle ceramiche, ma che oggi, a parte alcuni laboratori artigianali, vede buona parte della sua realtà più industriale senza vita. La collezione racconta quindi questo legame che sussiste tra l’anima artigianale e creativa dei maestri di caltagirone e l’aspetto di una produzione massiva che ha la possibilità di ridare vita anche alle piccole-medie imprese.

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The Kan dynasty / Elena Salmistraro / 2015 L’arte Maya e specialmente la grande stele che raffigura le “divinità reali”, ha influenzato questa collezione di oggetti per la tavola. Disegnati da Elena Salmistraro per Massimo Lunardon, il quale li ha realizzati con esprienza in vetro borosilicato. Due bottiglie, un vaso, una scodella ed una campana che prendono i loro nomi dalla Dinastia Kan (del serpente): K’abel, una delle più importanti regine della cultura Maya, la principessa Ikoom, il re K’inich Bahalam, il vassallo della Dinastia Chak Took Ich’aak e suo filgio Tikal. I prodotti rimandano iconfondibilmente alle linee e alla narrative dell’antica civilità Mesoamericana.

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Fake in Italy / Paolo Cardini / 2016 Fake in Italy è una collezione di Ispirazioni; oggetti sperimentali basati sul mix tra le tipiche eccellenze produttive Italiane e gli stereotipi globali. Ogni oggetto quindi “odora e assomiglia” a qualcosa che normalmente ricolleghiamo con delle tradizioni e abitudini specifiche, appartenenti a differenti culture ma prodotte in Italia attraverso un know-how e dei materiali di origine italiana. Risulta abbastanza difficile definire gli elementi che rendono un prodotto appartenente ad un luogo specifico. Sono forse i materiali? Le abilità umane? Entrambi o forse nessuno dei due?

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Palma / Oigen x Jasper Morrison / 2016 / @ Nacása & Partners Mizusawa (Oshu City, Iwate) è una delle aree che fu colpita dal grande terremoto nel Giappone Orientale. La gente in quest’area ha dato il via alla produzione di utensili in ferro attorno al VII secolo e molti artigiani lavorano ancora il ferro Nambu. La nostra produzione si concentra nella fornace Oigen. Il designer è Jasper Morrison, il quale è noto per aver disegnato oggetti di uso quotidiano di alta qualità. Morrison ha compiuto una dettagliata ricerca sulle abilità artigianali di Oigen. Ha poi trascorso molto tempo lavorando sui dettagli e creando dei progetti per una collezione di prodotti moderni ed in armonia con lo spazio abitativo quotidiano.

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Cross Reference: il ruolo del design

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Drinking Tea / Lei Xue / 2004 - 2009 Per la serie dal titolo Drinking Tea, l’artista cinese Lei Xue ha creato delle lattine in porcellana, decorate con le tradizionali pitture della dinastia Ming. Queste opere vogliono essere una riflessione sull’ossessione che noi uomini moderni abbiamo verso gli oggetti usa e getta oltre che essere una provocazione verso l’immagine che la nostra civiltà lascerà ai posteri, tra inquinamento e prodotti effimeri.

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Nazca / Elena Salmistraro / 2016 Un tavolino da caffè con un forte significato simbolico, ispirato dalle linee Nazca in Perù. Il piano in legno è asimmetrico e tre lati - diversi, rotondi e senza engoli acuti - creano una forma armoniosa che ricorda vagamente le sensazioni del Sudamerica. Per concludere, la superficie di questo meraviglioso pezzo d’arredamento è decorata con motivi geometrici incisi tramite laser.

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Tokyo Tribal / Nendo / 2017 / @Akihiro Yoshida Lo studio giapponese Nendo ha trasformato dei cestini in bamboo intrecciato in schienali per sedie ed in contenitori per tavoli in questa collezione di arredi. Disegnati per la Industry+ di Singapore, questi pezzi sono realizzati in solido legno di quercia e alcune parti della loro superficie sono stati smlatati con un plaster all’interno del quale è disciolta una sabbia vulcania grigio scura. Le parti in bamboo sono incise con delle marcature chiare e marrone scuro, intrecciate da alcuni artigiani nelle filippine. Lo scopo concettuale è quello di creare una piccola e fortemente unita tribù di oggetti che sia più comunicativa e migliore della somma delle singole parti .

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The Delocalizer / Paolo Cardini / 2014 Nel 2012 Ikea ha aperto i battenti in Qatar creando immediatamente una sorta di frizione e di disallineamento tra il brand svedese e l’ambiente Doha. Supercar parcheggiate fuori dall’iconico stabilimento blu e giallo, una scarsa inclinazione locale al DIY e un colorato e luccicante catalogo Nord Europeo fortemente in contrasto con gli sforzi nazionali nel preservare il patrimonio estetico Medioeuropeo. Qual è dunque il ruolo del design? Deglobalizer è un progetto di “hackeraggio” dei prodotti IKEA dove oggetti standard venduti su scala globale sono stati sottoposti ad un processo di trasformazione culturale, contaminati dall’artigianato locale.

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Iri & Narin / V. brandl + J. Kantorski / 2017 In tempi come questi, dove le persone devono migrare per trovare un luogo sicuro in cui vivere e costruire il proprio futuro, ognuno è chiamato a confrontarsi con tradizioni e abitudini estranee alle proprie. Siamo tutti chiamati a comprendere e a tollerare. Le nostre sciape Iri & Narin sono realizzate a mano ed il materiale principale con cui sono fatte sono i capelli umani. Per Iri abbiamo fatto girare il filato ed intrecciato un tessuto, mentre Narin ha delle frange pelose. Sono degli oggetti provocatori e sucitano anche disgusto.

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Amalgama Amalgama è una collezione di tre oggetti, una teiera, un’oliera ed una scopa, che raccontano il fallimentare processo di autentica integrazione lavorativa delle tre etnie più presenti nella città di Milano: cinesi, egiziani e filippini. Amalgama, attraverso il linguaggio del design, denuncia la cristallizazione di queste tre etnie in lavori stereotipati (bar cinesi, pizzerie egiziane e colf filippine) e la difficoltà per le nuove generazioni ad uscire da questo incasellamento lavorativo. I prodotti sono disegnati con lo scopo di amalgamare, attraverso materiali e processi produttivi differenti, la città e i suoi lavoratori, speculando su come l’integrazione sia troppo spesso un fenomeno di facciata che passa attraverso un costante conflitto identitario.

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Bar cinesi I cinesi di Milano trovano spesso come attività redditizia l’apertura o l’acquisto di bar e ristoranti in cui, grazie ad un fitto sistema di crediti e prestiti familiari, lavorano per anni con ritmi ed orari ai quali nessun tipo di concorrenza riesce a resistere. A questo bisogna poi aggiungere la grande collaboratività e l’abilità nel diversificarsi.

Pizzerie egiziane L’associazione egiziano-pizzeria è ormai un cliquet consolidato nell’immaginario milanese. Ad oggi infatti le pizzerie che vantano le abili mani di uno chef egiziano sono moltissime a Milano. La loro capacità di manovrare la materia prima e la loro grande forza di voltontà li rende tra le etnie meglio integrate nel tessuto urbano.

Colf filippine Più della metà dei milanesi ha in casa una domestica di origine filippina, senza contare tutti quei servizi assistenziali ed ospedalieri nei quali queste operose ed instancabili lavoratrici operano, contribuendo alla cura di anziani, malati ed invalidi. Tutto ciò però ha un costo sociale molto alto che non tutte riescono sempre a sopportare.


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I Cinesi La comunità operosa «Tutto esiste a Milano. Milano è la scansìa d’ogni possibilità, d’ogni idea che possa diventare industria, o commercio»1.

uomo magro e di bassa statura, avvolto in eleganti abiti scuri che, ventiquattrore in una mano e collane di perle nell’altra, si appostava nelle principali piazze del nord Italia portando con sé quei “doni” cinesi che l’Italia non aveva ancora mai incontrato. Le cosiddette “cineserie” inizialmente consistevano in centinaia di statuette scolpite in una pietra morbida, la pirofillite, raffiguranti persone e animali di taglio dichiaratamente orientale. Anche se questi curiosi oggetti raccolsero subito l’interesse dei nostri avi, il vero amore per i prodotti cinesi sarebbe ancora dovuto sbocciare. Nel 1926 i cinesi che abitavano il “borgo degli ortolani” (ai tempi chiamato burg de scigulatt), appena fuori Porta Volta, diventarono infatti il primo intermediario commerciale di riferimento a Milano per l’acquisto delle famose perle finte di produzione

Così Gadda scriveva a proposito di Milano alla fine del 900 e mi piace pensare che tra le righe facesse un velato riferimento anche a quella comunità cinese di Milano che ancora oggi incarna il miracolo imprenditoriale degli stranieri in Italia. I cinesi italiani, oggi circa 330 mila 2 , rappresentano la quarta comunità di stranieri in ordine di numerosità nel nostro paese. Arrivarono più di un secolo fa, durante la prima grande migrazione europea del 1906, dalla regione dello Zhejiang. Erano «commercianti che si spostavano per le grandi fiere internazionali e trattavano sopratutto tè e piccoli oggetti d’arte» 3 . L’Esposizione Universale di Milano, e i primi contatti diplomatici con la Cina poi, intorno al 1930, sono da considerarsi come l’inizio dei veri flussi migratori diretti in italia. Ai tempi l’immagine del “cinese tipo” era quella di un

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Saggi, giornali, favole e altri scritti. Carlo Emilio Gadda, 1991. Cinesi in Italia, i numeri di una comunità molto speciale. La Stampa, R. Giovannini, 1/07/2016. 3 Chinamen, un secolo di cinesi a Milano. Rocchi, Demonte, MUDEC, Milano, 2017. 2

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I Cinesi: la comunitĂ operosa

22 / Chinese old man Urivaldo Lopes Zhejong rivers - 2015 79


23 / Copertina “L’Espresso” Redazione L’Espresso Italia - 20/06/2013

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I Cinesi: la comunità operosa

franco-nipponica. Spesso senza alcuna licenza per la vendita ambulante, questi signori orientali in doppio petto, vendevano collane e monili alle dame dell’alta borghesia milanese la cui ricerca per questi artefatti divenne tanto spasmodica da generare un vero e proprio fenomeno di costume attorno a tale commercio. Dopo numerose accuse di concorrenza sleale e di spionaggio industriale, esauritasi la bolla delle perle finte, «gli ambulanti più indipendenti cominciarono a rifornirsi presso grossisti italiani di cravatte, bretelle, cinture e mercerie varie». È probabile infatti che chiedendo a qualche parente vissuto nella Milano di quei giorni, questo si ricordi di aver acquistato una delle economiche cravatte cinesi per 5 lire.

con il suo senso del rispetto e dell’onore per cui tutti sono impegnati a restituire il debito e ricambiare i sacrifici, tutto andrebbe in crisi» 5 . Di qui il fatto che buona parte delle prime generazioni di immigrati non siano interessate all’ottenimento della cittadinanza 6 e che il numero di matrimoni misti nella comunità sia uno dei più bassi tra le minoranze etniche in Italia. Ma con le nuove generazione le cose stanno cambiando. Oggi sempre più giovani cinesi frequentano le università italiane, ottenendo spesso un rendimento scolastico tale da consentirgli di inserirsi velocemente nel mondo lavorativo. Le attività maggiormente gestite dai cinesi sono il commercio all’ingrosso e al dettaglio, seguito da attività manifatturiere o legate alla ristorazione. Nonostante si sentano spesso voci a favore dell’immagine che i cinesi farebbero tutto “sotto banco”, stando all’Agenzia delle Entrate 7 , nel 2015 92 mila contribuenti cinesi hanno versato quasi 250 milioni di Irpef. Un altro luogo comune da sfatare è che siano tutti imprenditori. Almeno 18 mila sarebbero dipendenti presso aziende italiane. La figura dell’impresario cinese rimane tuttavia un affascinante emblema dell’approccio commerciale cinese, di cui Boquing Wu, ne è un chiaro esempio. Originario di un piccolo paesino della municipalità di Wenzhou, dopo una laurea in ingegneria al Politecnico di Milano, si fa battezzare prendendo il nome di Francesco Saverio. Oggi è presidente Uniic e coordinatore lombardo di Associna 8 e, intervistato dalla rivista Tempi, dichiara che per i cinesi «produrre diventa una questione di sopravvivenza e adattamento consolidata nei secoli». Il passato contadino di molti di loro gli avrebbe insegnato che, in assenza di un sistema pensionistico, sanitario e scolastico pubblici, tutto ciò di cui hanno bisogno se lo devono guadagnare con il sudore. Conclude quindi dicendo che di solito «i cinesi sono più spaventati dalle miriadi di certi-

I cinesi costituiscono di fatto la componente “storica” dell’immigrazione straniera a Milano e la più radicata sul territorio urbano ed il loro modello insediativo ha sempre dato enorme importanza a quello che ancora oggi è considerata la risposta a molti dei comportamenti della loro comunità in Italia: le guanxi 4 . Trasportabile nel concetto italiano di capitale sociale, le guanxi rappresentano quei rapporti di solidarietà economica e sociale che si instaurano nelle comunità di immigrati appartenenti allo stesso luogo di origine. A tale fattore si farebbe poi anche risalire il perché la comunità cinese appaia così restia all’integrazione nel tessuto urbano milanese. La loro proverbiale imprenditorialità si basa fondamentalmente su un fitto meccanismo di prestiti e finanziamenti che un membro della famiglia chiede ai parenti e alla comunità di appartenenza, la quale ne esige con il tempo la restituzione, incentivano così nell’individuo emigrato la voglia di portare a termine l’impresa generando i profitti necessari a ripagare i suoi creditori. Infatti è proprio a questo sistema di relazioni che la comunità cinese «deve la sua forza e la sua solidità (…). Venisse meno la famiglia,

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Guanxi indica, nella società cinese, un sistema di relazioni molto profonde, una trama di rapporti sociali ed economici, in un network interpersonale di contatti a cui un individuo può fare riferimento quando ne necessita: es. per velocizzare pratiche burocratiche, per ottenere informazioni importanti o per conseguire altri favori. 5 Estratto dell’intervista a Francesco Wu. Tempi, Caterina Giojelli, Milano, 23/11/2014. 6 Sole 2545 richieste tra il 2010 e il 2014. Fonte: Indagine Coldiretti 2016. 7 Fonte: Agenzia delle Entrate, 2015. 8 Uniic: Unione imprenditori Cina Italia (www.uniic.it). Associna: Associazione di seconde generazioni italio-cinesi (www.associna.com).

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«Mi tuffo in via Paolo Sarpi, nel cuore del mio quartiere (…) ma è come se mi trovassi nel centro di Pechino. In giro ci sono solo visi gialli e occhi a mandorla. “Và via gialdùn!” gli avrebbe urlato mia nonna. Comunque, solitamente, prima di vederli vengo avvolta dall’odore dei loro cibi fritti e sono trapassata dal volume delle loro voci acute (…) I cinesi se possono, mangiano nei loro locali, che spesso sono anche abitazioni-laboratori-negozi (…) Piano piano hanno aperto molte attività. Supermercati in cui trovi cibi precotti imballati dentro pacchetti colorati come se fossero opere d’arte pop. Macellerie specializzate nel commercio del suino. Erboristerie utilizzate come farmacie e phone center multifunzionali che di notte possono diventare dormitori (…) Questo quartiere sembra una torta multistrato: tutti cinesi quelli che stanno dal piano terra in giù, tutti italiani quelli che stanno dal primo piano in su» 1 1 .

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Milano, fino a qui tutto bene. Gabriella Kuruvilla, Laterza, Bari, 2012.

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I Cinesi: la comunità operosa

ficazioni spesso inutili che servono per aprire un’attività in Italia che dal dover lavorare sodo sette giorni su sette». Ed è vero, infatti benché Milano annoveri la sua Chinatown tra una delle più integrate d’Italia, il rapporto della municipalità con lo storico quartiere di Canonica-Sarpi non è sempre stato facile. La tendenza concentrativa dei cinesi li ha portati a localizzarsi nell’area a nord del centro storico, «la dove il tessuto urbanistico è costituito da una commistione di spazi residenziali, produttivi ed artigianali» 9 . Ed infatti, girando per le vie del quartiere ci sia accorge di come quest’area rappresenti un piccolo ecosistema autosufficiente nel quale gli abitanti provvedono a reperire internamente tutto ciò di cui hanno bisogno. Durante l’amministrazione Moratti la tensione toccò dei picchi fino ad allora soltanto paventati: in seguito alla famosa rivolta di Via Sarpi del 2007, diverse proposte del Comune dimostrarono la volontà di supervisionare l’attività del quartiere decidendo ora l’uso di telecamere ora l’imposizione di dazi per la circolazione di mezzi commerciali nell’area. La situazione ad oggi è decisamente più tranquilla. La comunità cinese di Milano ha guadagnato grazie alla sua

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24 / Chinamen - un secolo di cinesi a Milano Ciaj Rocchi e Matteo Demonte Becco Giallo, Milano - 2017

“anzianità” un rispetto che altre etnie ancora faticano ad ottenere. Se pensiamo inoltre che, stando ai dati dell’anagrafe, Hu è il secondo cognome più usato a Milano (dopo Rossi ma ben più avanti di Brambilla 1 0 ) è inevitabile confutare come un rapporto di così lunga data si esaurisca oggi in un atteggiamento di reciproco rispetto e comprensione tra le parti. Via Sarpi si è quindi trasformata in un punto di richiamo fondamentale per la città, in cui milanesi e non si raccolgono alla ricerca di qualche leccornia da assaporare o di qualche bizzarro pezzo ornamentale da aggiungere alla propria collezione.

Il modello insediativo degli immigrati stranieri a Milano. Patrizia Motta, ACME, 2005. Hu il nuovo Rossi. Il Fatto Quotidiano, 17/08/2014.

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25 / Xuli davanti alla macchina del caffè Luca Toscano (foto) Wang Jiao Milan - Via Padova, 3 (MI) - 2017

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I Cinesi: intervista a Xuli

Xuli Wang Jiao - Via Padova, 3

Profilo: Xuli, o volendola chiamare con il suo nome italiano Serena, è una giovane donna cinese di 35 anni che vive in Italia da quando ne aveva 5. Proviene, come tanti suoi altri connazionali dalla provincia dello Zhejiang e raggiunge i genitori che emigrati prima di lei arrivarono in Italia dopo la metà del ‘900 per cercare fortuna. Xuli è una ragazza speciale, molto affabile ed estroversa e assieme a dei collaboratori dirige una catena di quattro ristoranti cinesi a Milano (il Wang Jiao Milan) che negli anni si è guadagnato un’ottima reputazione sopratutto tra i milanesi per l’elevata qualità del cibo. Xuli mi ha aiutato a capire meglio la comunità cinese a Milano, tutto rigorosamente davanti ad una tazza di tè.

Per loro è stato un grosso cambiamento ed è stato molto difficile integrarsi. Infatti quando arrivarono in Italia non conoscevano la lingua e quindi non capivano come muoversi o come comportarsi. Infatti, per quello che mi ricordo non è stato facile abituarsi alla vita quotidiana. Per esempio i miei genitori trovavano strano il fatto che ci fossero tanti mezzi per spostarsi quando invece in Cina, essendo fatta di comunità rurali isolate, era molto più difficile spostarsi dalle une alle altre. Dal mio punto di vista, credo che vivere a Milano fosse meglio cinque anni fa, perchè sono cambiate le leggi e sono aumentate le difficoltà, sia per portare avanti un’attività sia nel rapporto con le persone.»

Cosa pensavi dell’Italia prima di arrivare? «In realtà non saprei, perchè sono arrivata qui quando avevo cinque anni. Prima sono venuti i miei genitori e poi li ho raggiunti. Loro sono arrivati in Italia per condurre una vita diversa e per garantire ai loro figli un futuro migliore. Mio papà quand’è arrivato qui ha lavorato per tanti anni come cuoco in un ristorante cinese, mentre mia mamma faceva lavoretti casalinghi.» Una volta cresciuta, qual è il primo pensiero che hai avuto dell’Italia? «Pensavo innanzitutto di imparare la lingua. Inizialmente non sapevo se fosse meglio vivere in Cina o in Italia però con il tempo mi sono abituata a questo stile di vita e oggi mi trovo bene vivendo a Milano.»

Secondo te perchè tanti cinesi aprono bar o lavorano nella ristorazione? «Tanti cinesi scelgono di lavorare in questo settore per dare un futuro migliore ai propri figli. Loro infatti hanno magari iniziato da zero, senza soldi e senza parlare la lingua. Adesso invece, chi se lo può permettere, apre un bar o un ristorante, risparmia tanti soldi e li lascia ai figli

Che lavoro facevano i tuoi genitori in Cina e se c’è stato un cambiamento come l’hanno vissuto? «Loro in Cina erano agricoltori e coltivanano la terra.

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così da permettergli di cominciare fin da subito una vita migliore della loro.»

c’è sempre traffico. Mentre la cosa che mi piace di più di questa città è credo il Duomo di Milano, è l’unica scultura venuta bene. Oggi se qualcuno dovesse provare a fare un monumento così bello non ci riuscirebbe, non c’è più l’aspirazione a costruire qualcosa di simile.»

Cosa speri per le nuove generazioni di italo-cinesi? I tuoi figli continueranno a fare il tuo lavoro? «Penso che non vogliano ereditare questo posto, infatti hanno completamente un’altra mentalità. La mentalità cinese è molto attaccata al lavoro e alla famiglia, mentre la mentalità italiana è molto più concentrata sul rendersi indipendente e andar via di casa. Immagino che anche i miei figli proabilmente un giorno decideranno di prendere tutto ed andare a vivere o a studiare da ul’altra parte. I miei figli oggi sono molto integrati con i compagni italiani, mentre quando andavo a scuola io eravamo i primi cinesi a Milano e non riuscivo ad integrarmi perchè mi prendevano in giro.»

Cosa diresti a tutti quegli italiani che dicono che gli immigrati cinesi possono e continueranno solo a lavorare nei bar e nella ristorazione? «Non sono d’accordo, perchè i Cinesi fanno tanti altri lavori ed in generale sono un popolo attivo che sa sempre reinventarsi e trovare qualcosa di nuovo da fare. Inoltre noi cinesi siamo molto bravi ad adattarci a diverse situazioni quindi credo che non sia impossibile staccarsi da questo lavoro anche se non è sempre così facile.» Quale valore fondamentale gli immigrati cinesi in Italia ci potrebbero insegnare o far riscoprire?

Pensi che gli immigrati cinesi oggi siano ben integrati? «Allora diciamo che se i ragazzi cinesi di seconda generazione sono intergati molto bene, hanno amici italiani con cui si divertono ed escono, i cinesi di prima generazione come mio papà non si integreranno mai. Infatti i miei genitori dicono che prima di morire torneranno in Cina per trascorrere gli ultimi anni della vecchiaia.»

«La famiglia. Noi cinesi siamo molto ospitali e vicini a tutti i membri della nostra famiglia. Se per esempio un mio cugino arriva dalla Cina per lavorare, io lo ospito e lo aiuto finchè non trova un’indipendenza lavorativa. Per noi cinesi infatti il valore di una famiglia unita è uno tra i più importanti. Qui in Italia tante famiglie si dividono quando uno dei figli dopo esssersi sposato va a convivere con il nuovo coniuge lasciando da soli i genitori. Per noi questa cosa è inconcepibile infatti dopo un matrimonio gli sposi vivono nella stessa casa con i genitori. I legami sono qualcosa da conservare e che non si possono interrompere o sostituire.»

Cosa ami di Milano e cosa non sopporti? «Una cosa che non sopporto è che ogni mese c’è uno sciopero, non capisco, perchè da noi in Cina non capita praticamente mai. Un’altra cosa che non mi piace di Milano è che non riesci mai a trovare parcheggio e che

«Noi cinesi siamo molto ospitali e vicini a tutti i membri della nostra famiglia (...) I legami sono qualcosa da conservare e che non si possono interrompere o sostituire».

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I Cinesi: intervista a Xuli

26 / Ristorante Weng Jiao Luca Toscano (foto) Wang Jiao Milan - Via Padova, 3 (MI) - 2017

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Amalgama Teiera

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I Cinesi: la teiera

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Teiera Baristi cinesi «Un sorso di Cina, a metà tra un’assolato pomeriggio di novembre in una vetrata di Sarpi ed una tradizione antica quanto il tempo».

La teiera Amalgama nasce dall’incontro di due mondi diversi, il cui confronto può essere rappresentato con diversi significati. Due materiali come la ceramica e la plastica si inseriscono l’uno nell’altro, rimandando alla figura archetipica del vaso Ming, sinuoso e curvilineo. In un rapporto tra il nuovo e l’antico, le forme della tradizione vengono reinterpretate in un oggetto che coniuga lo spirito innovativo della Milano contemporanea con il bagaglio autoctono della comunità cinese, strettamente legata alle proprie tradizioni. La teiera è al tempo stesso un prodotto che fa da ponte tra diversi saperi artigianali e che aspira a diventare un simbolo capace di rappresentare il confronto culturale di due mondi che si trovano a convivere generando un ibrido. L’ibrido contemporaneo è la fusione di impressioni, stilemi e atmosfere che a causa della velocità dei cambiamenti si trovano a cozzare gli uni con gli altri in un costante dialogo di intermediazione.

27 / Teiera in un contesto ambientato Antonio Mocchetti (Fotografo) Milano - 2017

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I Cinesi: la teiera

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28 / Primo disegno del prodotto Inizialmente l’idea di lavorare sui bar mi aveva portato a pensare di ridisegnare una moca in ceramica.

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I Cinesi: la teiera

29 / Evoluzione delle linee del prodotto Quasi fin da subito si è fatta avanti l’idea di lavorare su un prodotto che fosse composto da due parti ed un inserto.

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30 / Primo visual del prodotto L’idea originaria di ispirarsi ai vasi della dinastia Ming mi aveva spinto a lavorare con il classico accostamento bianco-blu.

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I Cinesi: la teiera

31 / Visual successivi del prodotto In uno stadio piÚ avanzato del progetto compare l’inserto come elemento decorativo ma mantengo un tratto grafico.

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32 / Primo modello fisico in scala 1:2 Le prime prove di stampa sono servite ad ottenere un oggetto con cui valutare proporzioni, incastri ed ergonomia.

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I Cinesi: la teiera

33 / Primo prototipo in scala 1:1 Il primo modello pieno in scala reale aveva dei magneti che permettevano lo scambio di diversi beccucci e manici.

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34-35 / Dettagli e utilizzo del prodotto Antonio Mocchetti (Fotografo) Milano - 2017

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I Cinesi: la teiera

36-37 / Bustina e teiera Sara Monacchi (Fotografo) Milano - 2017

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I Cinesi: la teiera

38-39 / La teiera e Michele Puzzo, il ceramista Luca Toscano (Fotografo) Via Caianello 1 ang. via Guerzoni 39 - Milano - 2017

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I Filippini La comunità discreta «Tutti casa e chiesa, discreti, affidabili, onesti fino all´incorruttibilità, lavoratori indefessi, cattolicissimi con una punta di zelo quasi bigotto»1.

concetto di colf. Si stima che almeno il 70% di tutti gli immigrati filippini si dedichi ad attività di tal genere e che, nel complesso almeno l’80% del totale lavori come dipendente in settori sia pubblici che privati. La questione risulta definitivamente soddisfatta se constatiamo che almeno il 94% dei filippini italiani risulta assorbito nel Terziario 2 . Non è un’informazione nuova quando si parla di immigrazione e lavoro in Italia, infatti si sa che il settore dei servizi è quello più facilmente avvicinabile dai cittadini stranieri che decidono di dedicarsi ad un’attività lavorativa nel nostro paese. L’aspetto più di risalto tuttavia è che l’immigrazione filippina sarebbe quasi tutta al femminile e che, nonostante il recente periodo di crisi economica, abbia risentito meno di altre categorie lavorative di problemi occupazionali. I filippini italiani infatti risultano in assoluto come la categoria immigrata

Un articolo de La Repubblica li descrive così i filippini milanesi, immersi in un limbo tra lavoro e chiesa dal quale uscire è difficile ma soprattutto lontano dai loro interessi. Ebbene tale ritratto riassume in maniera fedele anche se un po’ caricaturale la comunità filippina italiana che agli occhi di tutti noi risulta in effetti una tra le più ben accette ed integrate sul nostro territorio. La loro presenza infatti, sopratutto negli ultimi anni, è diventata indispensabile per molte famiglie italiane. L’assunzione di un “Filippino” è spesso paragonabile ad un processo di simil adozione di un nuovo membro familiare che si trova a provvedere ad alcuni dei bisogni più fondamentali del nucleo familiare stesso. Anche se non servono le statistiche a ricordarcelo, i filippini italiani svolgono lavori fondamentalmente relegati alla sfera dei servizi assistenziali e alla persona, qui da noi riassumibili nel

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Filippini, la comunità silenziosa. La Repubblica, Zita Dazzi, 21/10/2009. La comunità filippina in Italia. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Report annuale (2016), www.integrazionemigranti.gov.it.

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I Filippini: la comunità Identitàdiscreta sospesa

40 / Giovanna Verzieri (18 anni, madre filippina, padre italiano) Mondo Creolo, I volti multietnici dell’Italia che cambia Guido Fuà (fotografo) - 2013 105


41 / Ilo Ilo Anthony Chen (regista) Singapore - 2013

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I Filippini: la comunità discreta

più occupata rispetto alla media degli altri non comunitari. Non stupisce poi, se andiamo a vedere nel dettaglio, quanto ogni singola famiglia che intrattiene rapporti lavorativi con un domestico o badante filippino, nel corso del tempo, sia sempre più predisposta a sviluppare fiducia nei suoi confronti, talvolta lasciandogli autonomia gestionale e libertà di compiere scelte al proprio posto. «La lavoratrice» dice Teresa Benvenuto, segretaria nazionale di Assindatcolf 3 « col tempo diventa più autonoma. Sa che deve comprare un certo tipo di prodotti, ma spesso può decidere da sola se scegliere questa o quella marca. Inoltre, è lei a vedere quando ci sono delle promozioni e ad approfittarne, oppure a fare scorte se ci sono offerte legate alla quantità.» Tutti questi apparenti vantaggi lavorativi hanno però un enorme costo. Non è un caso infatti che la quota principale di immigrati filippini sia di sesso femminile. Le donne infatti vengono in Italia affrontando enormi difficoltà come per esempio l’abbandono delle famiglie al di là dell’oceano, con il conseguente rischio di non poter vedere figli e marito a volte per anni, oppure il pesante indebitamento economico che la necessità di inviare rimesse in patria gli impone portando molte di queste lavoratrici a vivere appena sopra la soglia di povertà. Questi gravi fattori emotivi e turni lavorativi talvolta estenuanti, rappresentano il vero sacrificio di un popolo che per garantire una vita agiata alle famiglie a casa è disposto a vivere nella miseria per periodi talvolta molto lunghi.

messe in uscita dall’Italia. In media tali rimesse, nel 51% dei casi sono dovute al mantenimento delle famiglie e in quote minori all’istruzione dei figli, al sovvenzionamento delle loro cure sanitarie e alla costruzione di una casa in patria. Sapendo che le entrate mensili di un dipendente filippino sono mediamente inferiori rispetto alla soglia dei non comunitari, oscillando tra valori lordi di 800-1200 euro (procapite) e considerando che almeno il 30% di quanto guadagnano viene spedito dall’altra parte del mondo, non è difficile immaginare quanto possa essere complesso il rapporto che questi immigrati hanno con il nostro paese. A conferma di questo ci sono poi le richieste di cittadinanza, che sempre rispetto alla media dei non comunitari, non solo sono minori, bensì anche di diversa tipologia. Le richieste più frequenti sono correlate alla residenza sul territorio e alla trasmissione dai genitori. Questo, unitamente alla bassa incidenza di matrimoni multietnici, denota come la specializzazione professionale e i motivi per cui essi emigrano, costituiscono un reale disincentivo a compiere investimenti a lungo termine. Se fossimo in grado di valorizzare le competenze che hanno acquisito in patria (quasi tutti hanno almeno un’educazione secondaria di 2° grado) e se incentivassimo dei modelli migratori favorevoli nei confronti delle famiglie, potremmo sfruttare meglio le loro capacità ed incentivare l’arrivo di nuclei familiari capaci di investire in risorse locali e di integrarsi molto meglio nel nostro tessuto urbano. I filippini infatti vedono nell’Italia anche un altro grande valore, ovvero quello della religione Cattolica, che li porta a percepire la nazione come una meta tra le più ambite in termini di compatibilità religiosa. La fede in Dio, in questo caso permette un’avvicinamento culturale, se per esempio pensiamo al fatto che la Diocesi Ambrosiana abbia dato in concessione ben otto chiese perché venissero svolte messe in inglese e tagallo, la lingua nazionale filippina. Le nuove generazioni inoltre risultano sempre più integrate, partendo dal fatto che au-

«Tu lo sai che l’assenza rende l’amore più forte e che le lacrime sono la sola pioggia che lo fa crescere 4 ». Stando all’Annual Report del Ministero del Lavoro, le Filippine nel 2015 erano la terza destinazione delle ri-

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Assindatcolf è l’Associazione Nazionale dei Datori di Lavoro Domestici. Estratto dall’articolo “Indovina chi fa la spesa”, Mixità, www.etnocom.it, maggio 2016. 4 Estratto della canzone “Crying Time” di Ray Charles, 1966.

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«vedono una colf o un cameriere efficiente, che mantiene un atteggiamento di rispetto e di educazione nei confronti del datore di lavoro, inconsapevoli del fatto che quella colf ha conseguito un diploma di infermiera o di insegnante in patria e che quel cameriere è in realtà un ingegnere meccanico, titoli di studio che qui in Italia sono carta straccia» 6 .

mentano le loro iscrizioni in istituti scolastici nostrani. Infine sono ormai diverse le associazioni che si danno da fare, operando sul campo affinché la comunità filippina possa imparare a gestire in modo più proficuo il loro processo di integrazione. Realtà come il Filipino Women’s Council, il CISP e la ONG filippina Athika sviluppano da anni corsi di formazione per insegnare alle donne filippine a gestire meglio i loro risparmi, «massimizzando i vantaggi e minimizzando i costi sociali dall’emigrazione dalle Filippine.5 » Come sempre, è nostra la responsabilità di trasformare nella percezione comune e nella realtà dei fatti l’immagine che del nostro paese hanno gli immigrati extra europei. Non possiamo più sostenere un modello di mero sfruttamento di persone che ricoprono categorie sociali poco valorizzate e ancor meno tutelate. Dobbiamo renderci conto che questo tipo di immigrazione ha sopratutto dei costi da dover mantenere, non solo in termini economici bensì anche in termini di prospettive migratorie future. Se continuiamo a disincentivare flussi familiari e politiche lavorative serie, gli immigrati reinvestiranno qui sempre meno guadagni e attireranno in futuro immigrati sempre meno qualificati. La cosa triste infatti è che, come dice Allan Moises, nata e cresciuta a Roma da genitori filippini, gli italiani:

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Comunità filippina, il peso dei troppi debiti mentre in patria le famiglie vivono bene. La Repubblica, Adele Lapertosa, 14/03/2011. La comunità filippina in Italia. TPI News, www.tpi.it, Jessica Cimino, 9/07/2013.

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I Filippini: la comunitĂ discreta

42 / Indovina chi fa la spesa MixitĂ - consumi stranieri nel mercato italiano Etnocom - 05/2016

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43 / Maria Elena durante l’intervista Luca Toscano (foto) Palestro - Milano - 2017

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I Filippini intervista ad Maria Elena

Maria Elena Boulakan - Baggio - Palestro

Profilo: Maria Elena ha 44 anni e vive in Italia da 20. Come tante altre donne filippine è arrivata in Italia alla ricerca di un lavoro che le permettesse di guadagnare il necessario a garantire ai familiari in patria un quieto vivere, dovendo rinunciare alla professione stabile di pediatra per provvedere ai bisogni dei figli piccoli e della madre anziana. Grazie ai contatti di alcuni parenti già arrivati nel nostro paese è riuscita a trovare un buon lavoro come domestica ed ormai dice di sentirsi italiana anche se, come ricorda spesso al figlio, è importante non dimenticarsi mai di essere filippini. Maria Elena è una donna dolce, aperta e premurosa, grata all’Italia per averla ospitata, ma ancora alla ricerca del lavoro per cui ha studiato.

Facendo i documenti abbiamo scoperto che non potevo entrare nel paese come infermiera, perchè il visto non lo prevedeva. L’unica posizione con cui mi potevo presentare era quella di domestica perciò mi sono serviti 8 mesi per compilare tutti i documenti e in quel periodo di tempo ho perso l’occasione. Nel frattempo quindi ho dovuto trovare altro da fare. Io avevo studiato in università, ma una volta consegnati i documenti mi hanno detto che per cominciare a lavorare in Italia come infermiera mi mancava il tirocinio e così mi hanno rifiutato la richiesta. Speravo quindi di lavorare come pediatra e non come guardarobiera anche perchè per fare quello avevo studiato quattro anni.»

Cosa pensavi dell’Italia prima di arrivare? «Pensavo che l’Italia fosse un paese dove le cose funzionassero meglio rispetto alle Filippine. Mi aspettavo che ci fosse meno criminalità e che le persone fossero più professionali.» Una volta arrivato, qual è il primo pensiero che hai avuto dell’Italia? «Ho avuto un vero e proprio “culture shock”. Da noi le persone non si baciano per la strada, le donne non si vestono in maniera così scollata...siamo più riservati, o forse più all’antica (ride).»

Secondo te perchè tanti filippini fanno i pizzaioli?

Prima di arrivare che lavoro facevi e se c’è stato un cambiamento come l’hai vissuto?

«Penso che la causa principale sia in genere la povertà. La mia famiglia in realtà non è così povera, siamo 6 fratelli tutti laureati, solo che mia madre è stata per molti anni malata ai reni e ha dovuto sostenere diversi cicli di dialisi. Nella Filippine non c’è l’ASL e la sanità è praticamente privata quindi non potevamo permetterci di pagare le

«Io nella Filippine ero e sono ancora infermiera professionale. È successo che un amico di mia sorella, che era già qui in Italia da tempo, avesse bisogno di un’infermiera professionale per sua mamma e così mi ha presentata.

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spese. Fortunatamente conoscevo qualcuno qua e non è stato difficile reperire i contatti per cominciare a lavorare. Nelle Filippine poi i guadagni non sono così alti. In media prendevo 2000 pesos al mese, ovvero 40 euro. Qui riesco a guadagnare di più.»

eri a posto. Oggi invece devi spendere un sacco di soldi.» Cosa ami di Milano e cosa non sopporti? «L’architettura è la cosa che mi piace di più, ma di tutta l’Italia, non solo di Milano. Il Duomo è veramente bello! Una cosa che non mi piace invece sono i graffiti sui muri così come il fatto che rispetto a qualche anno fa’ ci sia più gente che non lavora, crea disagi o che mettono in piedi delle truffe.»

Cosa hai fatto tuo dell’Italia e cosa proprio non vuoi lasciare del tuo paese d’origine? «Una cosa con cui mi sono dovuta confrontare in Italia è che le persone sono di solito abbastanza informali, quando parlano o quando fanno qualche richiesta. A volte è bello perchè si creano dei legami molto in fretta, a volte meno bello perchè nella loro franchezza possono anche arrabbiarsi altrettanto velocemente. Delle Filippine infatti mi porto dietro un senso di maggiore rispetto, verso gli amici e sopratutto i genitori che qui è poco presente.»

Cosa diresti a tutti quegli italiani che dicono che gli immigrati filippini possono e continueranno solo a lavorare come badanti? «Non è vero perchè conosco un sacco di giovani filippini che non fanno questo lavoro. Sopratutto i giovani si inseriscono bene in altri settori lavorativi e spesso ricoprono posizioni anche di prestigio.»

Pensi che gli immigrati filippini oggi siano ben integrati?

Cosa speri per le nuove generazioni di italo-egiziani? I tuoi figli continueranno a fare il tuo lavoro?

«Secondo me sì e penso che sia dovuto al nostro carattere, perchè siamo molto aperti. Noi teniamo molto agli italiani e preghiamo per loro perchè per noi sono un canale di benedizione perchè siamo qui e guadagnamo. È un paese che ci ha dato il benvenuto e che non ci ha lasciato ai margini. L’italia comunque sugli stranieri ci guadagna. Non so se lo sapevi ma per rinnovare il permesso di soggiorno ci viene chiesto di pagare minimo 200 euro a persona ogni 1 anno e mezzo. Se conti una famiglia di quattro persone è un bel guadagno. Qualche anno fa bastava fare la coda in questura, anche se all’alba, portando una marca da bollo, la certificazione del datore di lavoro ed

«Spero che riescano a dimostrare che noi filippini possiamo fare molto altro. Mio figlio che ha 18 anni sta studiando all’alberghiero e non farà il mio lavoro. Lui poi ormai si comporta praticamente come un italiano, infatti devo ricordargli ogni volta che è filippino (ride).» Quale valore fondamentale gli immigrati filippini in Italia ci potrebbero insegnare o far riscoprire? «Il rispetto per gli anziani e una maggiore educazione.»

«Noi teniamo molto agli italiani e preghiamo per loro perchè per noi sono un canale di benedizione perchè siamo qui e guadagnamo».

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I Filippini intervista ad Maria Elena

44 / Messa filippina Luca Toscano (foto) Jesus Is Lord (Via Bisceglie 91/5) - Milano - 2017

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Amalgama Scopa

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I Filippini: la scopa

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Scopa Colf filippine «Da Manila a Palestro passando per Baggio, a colpi di straccio e scopa. Routine quotidiana di una filippina arrivata in Italia».

La scopa Amalgama incarna bene il concetto di ibridazione culturale in quanto rappresenta l’evoluzione di un oggetto umile attraverso la sua reinterpretazione materica e concettuale. Se infatti da una parte l’accostamento del legno, della plastica e della pelle costituisce il tentativo di approdare ad un prodotto più disegnato rispetto alle scope tradizionali, l’impiego della fibra di cocco non è casuale. Infatti questo materiale, direttamente proveniente dalle Filippine viene utilizzato dagli artigiani locali per la realizzazione di scope semplici ma al contempo robustissime. La scopa quindi racconta sia la matrice etnica di partenza, sia la funzione lavorativa della domestica che utilizza quotidianamente quello strumento. L’oggetto ancora una volta non propone una soluzione nè una prospettiva ma si limita a raffigurare il contrasto esistente tra contemporaneità e tradizione, produzione industriale ed artigianalità. L’unica forma nella quale è ammessa una speculazione riguarda il fatto che come nella progettazione sia possibile far convivere elementi diversi tra loro, così anche nella realtà è realmente praticabile un sincretismo etnico e culturale.

45 / Scopa in un contesto ambientato Antonio Mocchetti (Fotografo) Milano - 2017

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46 / Primi disegni del prodotto Fin da subito mi sono concentrato su quale fosse il modo migliore per tenere assieme tutte le parti.

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I Filippini: la scopa

47 / Evoluzione delle linee del prodotto Il design della scopa doveva essere semplice e lineare pur essendo composto da materiali molto diversi tra loro.

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48 / Walis Tingting La volontà iniziale è sempre stata quella di lavorare con una fibra originaria delle Filippine come quella di cocco impiegata nella manifattura delle tradizionali scope filippine.

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I Filippini: la scopa

49 / Visual successivi del prodotto Nei render ho pensato di lasciar passare le fibre all’interno del giunto intrecciandole cosÏ da formare il manico stesso.

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50 / Primi modelli fisici Le prime prove sono servite ad identificare l’essenza per il manico e la modalità di giuntaggio di questo al fascio di fibre.

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I Filippini: la scopa

51 / Dettaglio del giunto Il meccanismo di giuntaggio è il cuore del progetto poichè permette alle parti di rimanere unite solo tramite un incastro.

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52-53 / La scopa e l’utilizzo Sara Monacchi (Fotografo) Milano - 2017

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I Filippini: la scopa

54-55 / Meccanismo di chiusura delle fibre Antonio Mocchetti (Fotografo) Milano - 2017

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I Filippini: la scopa

56-57 / Dettagli del manico e Antonio Friguglietti, il pellettiere Luca Toscano (Fotografo) Via Balilla 12 - Milano - 2017

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I Nordafricani La comunità eclettica «Ho capito che i soldi finchè non torno in Egitto non mi daranno la vera libertà, certo mi aiutano ma continuo a essere un uomo che si guarda alle spalle, che non può scegliere di fare quello che vuole (...) devo sempre fare i conti con il fatto che io a differenza tua non ho i documenti in regola»1.

e rischiose derive criminali e tra perfetta integrazione e potenziale marginalizzazione. Come accennato, queste due categorie etniche rappresentano parte dell’anzianità migratoria italiana e fecero la loro comparsa tra gli anni ’70 e ’80 del 900 quando i conflitti in Nordafrica cominciarono a susseguirsi con maggiore violenza. Dopo la guerra scoppiata nel 1973 in Egitto 2 molti profughi di guerra cominciarono ad arrivare dalle coste africane del Mediterraneo. L’immigrato-tipo ai tempi era un individuo con livelli d’istruzione più alti rispetto alla media degli immigrati su scala na-

La scelta di parlare di una “comunità nordafricana” a discapito di una singola etnia è da attribuirsi a differenti motivazioni. In primo luogo con il termine comunità nordafricana qui si intende la minoranza etnica milanese costituita da immigrati provenienti dai principali stati dell’Africa settentrionale, in particolar modo egiziani e marocchini. La volontà di operare un’analisi su queste due etnie deriva poi dalla loro presenza di lunga data sul suolo Italiano, dal loro radicamento in settori lavorativi di pubblica utilità e dall’aspetto controverso che raccoglie individui spesso a metà tra un’indefessa laboriosità

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Afrah il fabbro - I Dannati della Metropoli, Andrea Staid, Le Milieu, 2015.

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I Nordafricani: la comunitĂ eclettica

58 / Medhi Benatia Matthias Schrader/Associated Press Juventus - 2/02/2016

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59 / Mahmoud - Ristorante Pizzeria il Moro 2 Giulia Ubaldi - Scattidigusto.it Via Andrea Salaino, 12, Milano

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I Nordafricani: la comunità eclettica

zionale e con una grande voglia di ricominciare da dove si era fermato. È così infatti che per oltre 40 anni le categorie lavorative ricoperte da egiziani e marocchini sono rimaste pressoché invariate così come il loro desiderio di riscatto. Già dal 2011 le percentuali in cui risultavano principalmente occupati erano il terziario e l’industria 3 , e così fondamentalmente si riconferma ancora oggi. Questa facilità iniziale che riscontrarono nell’inserimento lavorativo diede loro una relativa stabilità economica che caratterizzò anche il loro modello insediativo. Liberi da oneri che li legassero al centro città, questa mobilità sociale gli permise di spostarsi alla periferia di Milano dunque con maggiori possibilità nella scelta dell’abitazione. Altri aspetti che confermano l’inserimento delle comunità egizio-marocchina sono la crescente richiesta negli anni di permessi per lungoresidenza, aspetto che denota una progettualità a lungo termine; una progressiva stabilizzazione delle rimesse a partire dal 2013, fattore che indica come i risparmi vengano sempre più impiegati a sostegno del nucleo familiare in Italia; ed infine la nascita di nuove categorie lavorative speciali, come quelle di mediatori culturali, interpreti ed operatori sociali, le quali spesso ricoperte da individui di nazionalità nordafricana, facilitano in molti casi la gestione ed il dialogo con intere comunità urbane 4 . La storia di Egiziani e Marocchini è poi caratterizzata da un altro aspetto che non potremmo tralasciare, ovvero la loro spiccata tendenza all’imprenditorialità. Essi infatti rappresentano tra gli immigrati la categoria etnica con il maggior numero di imprese individuali. Ad esempio, l’impegno imprenditoriale di marocchini ed egiziani si evidenzia sopratutto nel settore dei commerci (almeno per i 2/3) e della ristorazione 5 . Basti pensare che le pizzerie egiziane a Milano sarebbero almeno 120 per verificare che, da una parte la potenziale mobilità sociale non venga sempre applicata e dall’altra che il processo

di integrazione sia arrivato a tal punto da attribuire agli egiziani il sacro ruolo di depositari dei segreti del piatto nazionale per eccellenza. In un’intervista condotta da Linkiesta 6 , Khalil (anche detto Franco), pizzaiolo egiziano di 52 anni e in italia da 25 afferma che:

«La pizza? Noi egiziani la facciamo bene e c’è un motivo: l’Egitto è stato per tanto tempo un grande Paese agricolo, con il Nilo come un dono di Dio, con tradizione e sapienza nel trattare acqua e farina». Fa abbastanza sorridere poi la notizia della visita di Giuseppe Sala, attuale sindaco in carica, presso una panetteria egiziana nel giorno di Ferragosto (2017) in una delle aree soggette alla futura apertura della nuova linea metropolitana. Seppur meteorica e di facciata, la presenza delle istituzioni in simili contesti delinea come ci sia effettivamente una propensione a riconoscere a questa minoranza una sorta di rapporto quasi familiare e di lunga data. Gli Egiziani infatti non sono più ormai solo dei vecchi immigrati, ma dei nuovi italiani a tutti gli effetti, le cui successive generazioni contribuiranno a determinare lo sviluppo imprevedibile della Milano di domani. Tuttavia già oggi alcuni cercano di immaginare come sarà “domani” la nostra città. Secondo Gian Carlo Blangiardo, ordinario di demografia presso l’università

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La guerra del Kippur fu un conflitto combattuto dal 6 ottobre al 25 ottobre 1973 tra Israele e una coalizione composta da Egitto e Siria. Quella dello Yom Kippur fu la più grande guerra combattuta in Medioriente fino a quella del Golfo e portò a alla crisi petrolifera del 1973, un embargo delle esportazioni di petrolio nei paesi occidentali che aggravò molto la crisi economica che in quegli anni aveva cominciato a colpire Europa e USA. 3 Rispettivamente al 50% e al 34%. Dati Eurostat 2011. Frammento da “La comunità marocchina in Italia”, Centro Studi IDOS, Roma, 2013. 4 La collettività marocchina in Italia. Dialoghi Mediterranei, n° 9, Franco Pittau e Antonio Ricci, settembre 2009. 5 Immigrati Imprenditori. A.M. Chiesi, Milano, Egea, 2003. 6 Altro che napoletani la pizza a Milano la fanno gli egiziani. Linkiesta, Stefano Rizzato, Milano, 21/10/2014. 133


Bicocca di Milano, la popolazione italo-egiziana sarà destinata a crescere da 37 a 70 mila unità entro il 2032. La loro tendenza religiosa poi, quella cristiana copta, sarà un fattore con il quale dover fare i conti. Se infatti siamo abituati alle discussioni in merito alla componente mussulmana dell’emigrazioni nordafricane, è possibile che in futuro ci dovremo confrontare sul rapporto tra le diverse chiese nordafricane così come tra le minoranze religiose interne agli stessi gruppi etnici. Se il rapporto con la comunità egiziana si è sempre dimostrato nel complesso positivo, non si può dire altrettanto di quello con la comunità marocchina, spesso segnato da alti e bassi determinati da una costante attenzione dei media sulle abitudini e comportamenti di questa comunità in espansione. Secondo diverse fonti, la rilevazione dell’incidenza sulle denunce penali a carico di cittadini marocchini è molto altalenante e in media raggiunge vette superiori rispetto alla media delle denunce a carico di nostri connazionali. All’alba del 2014 poi, stando ai principali organi che hanno condotto l’indagine 7 , la componente immigrata più presente nelle carceri italiane sarebbe stata proprio quella proveniente dal Marocco. L’intento di questa analisi, così come dell’intera pubblicazione, non è infatti quello di dipingere in maniera partigiana un contesto in cui il fenomeno migratorio non sia correlato anche a fenomeni di criminalità e di mal costume. Al contrario trovo che sia fondamentale sottolineare sia i meriti che le colpe di cui anche gli immigrati si fanno portatori, senza nascondere dietro la promozione di un’idea, un’intero corollario di dati che possano in qualche modo metterne in discussione la prospettiva. L’aspetto però altrettanto fondamentale è che non bisogna limitarsi nemmeno all’elencazione dei misfatti e delle colpe di una qualsiasi categoria umana senza averne analizzato le motivazione ed il percorso di vita che ha condotto a tali comportamenti. Oggi accade sempre più spesso che scrittori, divulgatori, registi e creativi mettano a disposizione i loro mezzi per ripercorrere e spiegare ai più il passato di individui che per arrivare qui hanno dovuto abbandonare tutto. L’importanza di sottolineare il

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percorso a cui le categorie immigrate si sono sottoposte risiede nella possibilità di far luce sul perché essi abbiano deciso di intraprenderlo e su quanto spesso sia di fatti ingiustificato l’odio che gli viene riversato addosso. Fortunatamente, benché il rapporto con la comunità musulmana oggi sia più difficile che mai, alcune realtà cominciano a muovere i primi passi verso un incontro di interessi. Ad esempio in Italia due grandi aziende come Parmigiano Reggiano e Ferrarelle hanno fatto depositare la certificazione halal (in arabo “puro”) sui loro prodotti, arrivando a ripensare all’intera filiera per garantire ai musulmani d’Italia la garanzia di un prodotto conforme alle loro norme alimentari. Nella cultura sportiva Nike ha recentemente lanciato il Pro Hijab, una versione del velo molto più performante, pensata appositamente per tutte quelle atlete che vogliono portare avanti la loro passione senza rinunciare agli aspetti fondanti della loro fede. Sempre in Italia poi ci sono anche realtà che dal basso cercano di far emergere in maniera semplice e divertente i conflitti che la comunità musulmana vive in Italia, rappresentandone gli aspetti salienti e compiendo al tempo stesso un’opera interessante di informazione e sensibilizzazione sul tema. Per citare alcuni canali meno convenzionali, la graphic journalist Takoua Ben Mohamed usa i fumetti per dipingere, come scrive sulla sua prima pubblicazione “Sotto il velo”, «la mia vita con il velo per le strade di Roma 8 ». La compagnia costiera Grandi Navi Veloci scegli invece come testimonial Medhi Benatia, difensore della Juventus, che nelle vesti di un capitano di marina, esorta tutti quei marocchini che si imbarcano alla volta dell’italia, ad amare quel paese ma a non dimenticare mai la loro terra d’origine, lanciando un messaggio al contempo di speranza nel futuro e di fiducia nelle proprie radici. Infine, direttamente dai meandri di YouTube, emerge Arabiscus, web serie italo-musulmana, che attraverso il formato di una lezione di lingua, racconta in modo ironico il significato di alcune parole arabe spesso abusate e distorte, creando così un divertente mix tra un “corso di arabo for dummies” e un ripasso dei principi base nella cultura islamica.

Ministero dell’Interno, Dipartimento di Pubblica Sicurezza, Direzione Centrale della Polizia Criminale, 31/12/2013. Sotto il velo. Takoua Ben Mohamed, Becco Giallo, Roma, 2016.

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I Nordafricani: la comunità eclettica

A conclusione di questa riflessione quello che rimane è dunque una considerazione che lo stesso Blangiardo fa durante l’intervista sopracitata, ovvero che «L’integrazione, quella concreta, avviene solo in un modo: con il tempo». E pensandoci su, mi viene in effetti da chiedermi quale altra cosa al mondo non richieda tempo per poter crescere bene.

60 / GuardaMI, Volti e Storie della Città verso L’EXPO Istituto Italiano di Fotografia - Doc. Massimo Bassano Milano - 2015

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61 / Abdel davanti al forno Luca Toscano (foto) Bakery 59 - Via Canonica, 59 (MI) - 2017

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I Nordafricani intervista ad Abdel

Abdel Bakery 59 - Via Canonica, 59

Profilo: Abdel o Michele è il pilastro portante di Bakery 59, una pizzeria e panetteria nel distretto Canonica-Sarpi di Milano che ogni giorno apre le sue porte a decine di milanesi affamati che lavorano e vivono nella zona. Abdel ha 53 anni ed è in Italia dal ‘92. Nasce in Egitto ad Asyut, l’antica Licopoli che sorgendo sulle rive del fiume Nilo oggi dista circa 400 km dal Cairo. Dopo aver lavorato in patria Abdel decide di trasferirsi in Italia e svolge diversi lavori prima di approdare al ruolo che oggi ricopre. Inizialmente intimorito ed un po’ sulle sue, scambiamo alcune parole nella cucina della sua panetteria e grazie all’aiuto di Lina, giovane ragazza italo-egiziana che mi fa da mediatrice, scopro il suo rapporto con Milano.

«In Egitto ho lavorato per un paio di anni in Comune e mi occupavo di questioni edili. Il mio lavoro era a contatto con i costruttori, i permessi di realizzazione e la supervisione dei lavori. Arrivato in Italia ho invece fatto il manovale, lavorando in cantiere per alcuni anni. Poi, dato che il lavoro era molto faticoso e pesante ho deciso di fare il cuoco e sono andato a lavorare in una cucina. Dopo poco ho cominciato a lavorare in panetteria e da quel momento non ho mai più cambiato. Lavoro qui da parecchi anni, il lavoro mi piace, anche se è un lavoro come altri.»

Cosa pensavi dell’Italia prima di arrivare? «Conoscevo l’Italia perchè alcuni amici erano venuti a viverci, ma non sapevo come fosse la vita qui. Quando avevo 22 anni sono partito e ho cominciato a fare diversi lavori fino a quando non ho imparato il mestiere del panettiere.» Una volta arrivato, qual è il primo pensiero che hai avuto dell’Italia? «All’inzio non è stato semplice perchè ero giovane e non avevo molta esperienza lavorativa. Quando ho cominciato qui la vita era diversa rispetto all’Egitto. Intanto era la mia prima esperienza all’estero, non parlavo la lingua e non sapevo cosa avrei fatto ma avevo bisogno di guadagnare per la mia famiglia così mi sono rivolto ad altri amici egiziani che hanno saputo dirmi da dove cominciare.»

Secondo te perchè tanti egiziani fanno i pizzaioli? «In realtà non so se c’è un motivo preciso. So che a molti interessa un lavoro e basta, non importa di che tipo. Credo che come egiziani siamo portati a questo lavoro, che ci piace e che riusciamo bene a farlo. Poi per me la priorità non è mai stata il tipo di lavoro, ma piuttosto che potessi guadagnare per mandare i mie figli a scuola e fargli avere una buona educazione in Italia. Per questo mi sono sempre adattato ad imparare il lavoro che trovavo.»

Prima di arrivare che lavoro facevi e se c’è stato un cambiamento come l’hai vissuto?

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abbia un lavoro che mi fa guadagnare. Quindi in realtà non c’è qualcosa che non non mi piace, mi va bene un po’ tutto, basta che per ora non cambino le abitudini perchè alla mia età sarebbe difficile trovare altro da fare.»

Cosa speri per le nuove generazioni di italo-egiziani? I tuoi figli continueranno a fare il tuo lavoro? «Spero che cambino in meglio le leggi. Oggi in Italia infatti parlano spesso di questa legge che dice che anche se nasci qui, vai a scuola qui e parli la lingua, non sei comunque cittadino italiano. Non mi sembra giusto perchè un bambino a 13 anni anche se è egiziano di origine è italiano sotto tutti i punti di vista. I miei figli non continueranno a fare questo lavoro e stanno già studiando per fare altro. Mio figlio grande studia ingegneria informatica mentre la piccola ancora non lo sa.»

Cosa diresti a tutti quegli italiani che dicono che gli immigrati egiziani possono e continueranno solo a lavorare nelle pizzerie? «Penso sia vero che molti di noi fanno questo lavoro ma è vero anche che lo facciamo come qualsiasi altro, perchè alla fine l’importante è garantire un futuro migliore per i nostri figli. Credo che chiunque farebbe questo lavoro per dare ai suoi figli la possibilità di studiare e crescere qui perchè da noi anche se hai studiato e hai una laurea in Italia non ha valore. Siamo noi che dobbiamo sacrificarci per loro e se dobbiamo fare la pizza o il pane va bene, perchè loro poi potranno fare altro.»

Pensi che gli immigrati egiziani oggi siano ben integrati? «Non tutti gli egiziani a Milano sono ben integrati. Spesso infatti si creano dei gruppi di soli egiziani che si ritrovano qui in Italia e che rimanendo sempre assieme rendono più difficile la possibilità di inserirsi bene nella città. Molti hanno paura di far entrare i figli nella comunità italiana perchè potrebbero imparare cose diverse da quelle che hanno insegnato a noi in Egitto.»

Quale valore fondamentale gli immigrati egiziani in Italia ci potrebbero insegnare o far riscoprire? «La voglia di sacrificarsi per gli altri perchè io sono sempre stato abituato a fare quello che trovavo per il bene della mia famiglia e non mi sono mai lamentato. Noi egiziani, anche se magari non proprio tutti quanti, forse sappiamo bene che cosa significa il duro lavoro e siamo disposti a sopportarlo per garantire il meglio alle persone che amiamo.»

Cosa ami di Milano e cosa non sopporti? «Ormai vivo in questa zona da molti anni e mi piace il fatto che qui si vive in maniera tranquilla, che ci sono sempre gli stessi ritmi, che le cose non cambino e che io

«Noi egiziani, anche se magari non proprio tutti quanti, forse sappiamo bene che cosa significa il duro lavoro e siamo disposti a sopportarlo per garantire il meglio alle persone che amiamo».

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I Nordafricani intervista ad Abdel

62 / Abdel e Lina al Bakery 59 Luca Toscano (foto) Bakery 59 - Via Canonica, 59 (MI) - 2017

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Amalgama Oliera

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Gli Egiziani: l’oliera

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Oliera Pizzaioli egiziani «Sole Nilo olio acqua farina pomodoro 24/7 forno rovente e sveglia prestissimo. Questa è la ricetta per la vera pizza italo-egiziana».

L’oliera Amalgama racconta come i lavoratori egiziani a Milano abbiano in molti casi sfruttato la loro matrice mediterranea per saper comprendere ed interpretare il panorama culinario italiano divenendone di fatto co-proprietari. L’oliera è un simbolo dell’italianità, della tradizione ma è anche un artefatto familiare nella cultura nordafricana che da secoli produce magnifici oggetti lavorati in metallo. L’ispirazione, quella delle cappe metalliche lavorate dalle abili mani di artigiani magrebini si condensa in un oggetto che sceglie l’ottone come materiale preferito per raccontare l’opulenza delle fiabe mediorientali. Il mito dell’oro e dell’incanto si fondono per comunicare come ancora una volta il sincretismo culturale sia uno scontro/abbraccio tra il mondo che un immigrato lascia e quello che poi di fatto trova, spesso dovendosi adattare a ciò che capita nel percorso. Il confronto immediato della plastica, omogenea e candida con il metallo, sottile seppur solido, cerca di raccontare infine una realtà fatta di sovrapposizioni, un’amalgama che non si concretizza mai per davvero, rimanendo sempre una selezione ragionata dei migliori aspetti di due elementi venuti a contatto.

63 / Oliera in un contesto ambientato Antonio Mocchetti (Fotografo) Milano - 2017

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64 / Processo di disegno del tappo L’oliera nasconde diverse complessitĂ da non sottovalutare. Una di queste è il tappo, punto cruciale.

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Gli Egiziani: l’oliera

65 / Evoluzione delle linee del prodotto Il design dell’oliera doveva richiamare il Nord Africa, la lavorazione dei metalli e l’opulenza fantastica Mediorientale.

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66 / Primo visual del prodotto Inizialmente pensavo di lavorare con le parti stampate per sottrazione, realizzando un intarsio che rimandasse ai tipici arabeschi presenti nelle moschee e nelle ville arabe.

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Gli Egiziani: l’oliera

67 / Visual successivi del prododtto L’utilizzo della tornitura ha richiesto una semplificazione delle geometrie per rendere l’oggetto facilmente producibile.

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68 / Tornitura della lamiera La tornitura in lastra dell’alluminio dolce ha permesso di ottenere un prototipo del tutto verosimile e resistente.

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Gli Egiziani: l’oliera

69 / Verniciatura del pezzo Dopo aver escluso una verniciatura per bagno galvanico ho optato per una classica verniciatura a spruzzo metallizzata.

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70-71 / L’oliera e l’utilizzo Antonio Mocchetti (Fotografo) Milano - 2017

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Gli Egiziani: l’oliera

72-73 / Dettaglio del tappo e oliera ambientata Sara Monacchi (Fotografo) Milano - 2017

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Gli Egiziani: l’oliera

74-75 / L’oliera e Agostino Strada, il tornitore Luca Toscano (Fotografo) Via C. Marx 5 - Zibido S. Giacomo - 2017

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76 / Studio grafico per Amalgama Luca Toscano (Designer) Milano - 2017

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L’identità Logo e immagine coordinata Lavorare sull’identità di questo progetto è stato significativo. Avendo infatti cominciato a riflettere all’origine di questo volume proprio sul concetto di identità intesa come rapporto tra il sè e l’altro, trovare un modo di rappresentare quanto sviluppato fino ad ora ha richiesto più di uno sforzo. Dare un nome a qualcosa equivale a farla vivere nel concreto, strappandola al mondo delle supposizioni. Dare perciò un’identità a qualcosa implica un percorso di grande consapevolezza del proprio lavoro e richiede in questo caso una capacità di saper cogliere con sguardo trasversale un tratto comune che sottende realtà di per sè molto differenti. Seguono a questa introduzione le motivazioni ed il percorso che mi hanno portato ad identificare Amalgama così com’è oggi.

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L’identità: logo e immagine coordinata

I

l nome Amalgama nasce come riflessione sull’idea di una Milano multiculturale, varia e multiforme nella quale non sempre le sue parti sono in grado di costituire un insieme omogeneo, ma anzi si scontrano le une con le altre lasciando sulla città stessa una segno del proprio passaggio. L’Enciclopedia Devoto-Oli della lingua italiana, a proposito del concetto di “amalgama” dice che:

un’amalgama dove le singole parti che compongono l’insieme rimangono fondamentalmente indipendenti pur cedendo parte di sè al sistema. A sua volta Milano opera un atto di conversione sugli immigrati che la abitano, cercando di conformarli ad usi e ritmi che prima o poi entrano a far parte del loro vissuto quotidiano. L’idea quindi di usare Amalgama come identità primaria deriva proprio da questa idea di parziale polimerizzazione degli individui, che con il loro bagalio modificano e si lasciano influenzare da tutto ciò che troviamo dentro a questa soluzione alchemica che è la città. Se l’idea di amalgamare si presenta come una visione ed una speranza, il concetto di “milano multipla” rappresenta la realtà ed il contrasto. Se leggiamo metaforicamente l’identità del progetto ci accorgiamo infatti come

«è una fusione di elementi eterogenei o contrastanti in un’unica entità o in un’effetto di funzione d’insieme».

Milano cerca di essere un’amalgama, ma rimane un’entità multipla e frazionata.

In questo senso infatti, se assumiamo come presupposto che il processo di integrazione sia frammentario e fallimentare, Milano rappresenta una fusione incompleta ed

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Ecco dunque come l’unico elemento che arrivi a proporre una fusione concreta sia il simbolo grafico della spirale che, in un atto di mescolamento culinario si propone di lavorare sul concetto di tempo e dedizione necessari ad un buon percorso di integrazione. L’idea del vortice è nata quando mi venne naturale paragonare Milano ad un grande calderone. Noi Italiani siamo spesso dediti ai paragoni culinari, ma in questo caso trovai che l’immagine del minestrone si prestasse bene come metafora del progetto. La città quindi, proprio come una pentola profonda, inghiotte i suoi abitanti i quali, proprio come i diversi ingredienti di un minestrone hanno bisogno di tempo e di un’azione dinamica per amalgamarsi bene tra loro. Un buon minestrone poi si può definire tale quando ogni singolo alimento, attraverso il tempo e la pazienza di uno chef esperto, è in grado di lasciare con naturalezza il proprio aroma pur senza dissolversi nel composto. Il sapore del minestrone infatti è la somma del sapore dei suoi ingredienti che dopo un lungo periodo di mescolamento imparano a convivere gli uni con gli altri prendendo e lasciando in prestito parte della propria identità gustativa e contribuendo assieme al raggiungimento di un ottimo risultato.

È per questo che ho deciso di lavorare sul concetto si spirale, intesa come il lavoro di mescolamento culturale necessario affinchè le categorie immigrate e gli autoctoni riescano ad apprezzare le qualità altrui pur senza perdere la propria identità. La spirale inolte, proprio come simbolo di movimento energetico rappresenta il concetto di rinascita e di sviluppo, di continuità e di rinnovamento che ben caratterizzano a mio avviso il sentimento che vive chi è soggetto ad un processo di integrazione difficile, sperando sempre nel momento della sua rinascita identitaria. L’ultimo concetto legato all’immagine coordinata è quello della cromia e della paletta colori. La scelta è ricaduta inevitabilmente sull’oro inteso come non-colore ma piuttosto come colore portatore di un valore, quello della ricchezza e della preziosità. La somma dello sforzo degli individui, in un processo di reciproco mescolamento conduce alla creazione di un valore condiviso ed oggettivo, che ho deciso di rappresentare attraverso il colore del materiale che in natura più incarna questo archetipo.

77-78 / La metafora del minestrone ed il logo A sinistra un minestrone che rappresenta il concetto dell’amalgama e a destra le varianti colore del logo.

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L’identità : logo e immagine coordinata

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L’identità : logo e immagine coordinata

79-80-81-82 / Campagna di sensibilizzazione e merchandising A sinsitra alcune prove grafiche con il logo di amalgama e in alto un esempio di merchandising con il logo su tshirt. Nelle pagine seguenti codici colore, font e applicazione del logo sull’etichetta del prodotto

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10 14 68 0

64 56 53 56

Moon bold ABCDEFGHILMNOPQRSTUVWXYZ 0123456789 !"#$%&'()*+,-./:;<=>?@[\]^_`{|}~£©

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L’identità : logo e immagine coordinata

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L’identità : logo e immagine coordinata

83 / Il poster come manifesto Il manifesto del progetto diventa uno strumento per porsi delle domande sul ruolo che abbiamo nel rapporto con il lavoro e con l’immigrazione.

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84 / Campagna marketing Il vecchio modo di pensare al multiculturalismo va sostituito, come una vecchia carta consumata aspetta di finire in fondo al mazzo.

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85 / Armadietto con prototipi Luca Toscano (Designer) Milano - Settembre 2017

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Il backstage Sei mesi di dietro le quinte Questo progetto è da considerarsi per durata e per complessità il lavoro più intenso su cui io mi sia per ora cimentato. Non ha soltanto richiesto un discreto sforzo progettuale, ma anche un elevato livello di programmazione e di gestione dei tempi di lavoro e del materiale da raccogliere durante il loro avanzamento. Amalgama è uno di quei progetti il cui vero valore risiede più nel processo che nel risultato ed è per questo che ho ritenuto importante mostrare in queste ultime pagine del volume alcuni scatti inediti che mostrano il percorso che mi ha portato a sviluppare il mio progetto di tesi per la laurea triennale.

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Il backstage: sei mesi di dietro le quinte

86 / Studio della tematica Dopo aver individuato il tema su cui lavorare ho cominciato ad approfondirlo in tutti i suoi aspetti.

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87 / Ultima revisione di Luglio Durante l’ultimo incontro prima della pausa estiva avevo già idea di come sviluppare due prodotti su tre.

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Il backstage: sei mesi di dietro le quinte

88 / Stefano Puzzo mentre modella la teiera Lo sviluppo del pezzo in ceramica è stato rapido e semplice dal momento che c’era giĂ un prototipo su cui basarsi

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89 / Blocco di poliuretano prima della tornitura Per ottenere un prototipo in scala 1:1 della teiera ho preparato per la tornitura un blocco di materiale da modellazione.

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Il backstage: sei mesi di dietro le quinte

90 / Sagome tornite in alluminio La ditta di Agostino Strada si occupa di tornitura di alluminio in lastra per scopi industriali e non.

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91 / Antonio Friguglietti nel suo studio Il lavoro di pelletteria ha costituito una delle ultime fasi nel processo di sviluppo del progetto.

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Il backstage: sei mesi di dietro le quinte

92 / Visual delle scopa Il disegno della scopa prevedeva inizialmente dei fori sul giunto per il passaggio di un laccio che legasse assieme le fibre.

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Il backstage: sei mesi di dietro le quinte

93 / Studio del logo Lo sviluppo del logo ha richiesto diverso tempo e tante prove differenti. Il tema della circolarità è però sempre rimasto centrale.

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94 / Prototipi in ceramica nello laboratorio Puzzo Lo studio Puzzo è specializzato nella realizzazione di pezzi ceramici per l’industria e per il mondo artistico.

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Il backstage: sei mesi di dietro le quinte

95 / Stampi nella torneria Strada Per la tornitura dell’oliera è stato realizzato un master in alluminio pieno 1005 99.5.

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96 / Lavorazione degli inserti in pelle Tutti gli inserti in pelle hanno richiesto un trattamento particolare e sono stati realizzati avvolgendo nella nappa un’anima in cuoio flessibile.

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Il backstage: sei mesi di dietro le quinte

97 / Zaccaria Masrour al trapano a colonna Dopo aver tornito l’oliera è servito praticare dei fori nella lamiera per il giuntaggio degli altri componenti.

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98 / Tecnici della teiera Il modello tridimensionale dei prodotti è stato fondamentale per capire le logiche di assemblaggio.

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Il backstage: sei mesi di dietro le quinte

99 / Laboratorio stampi Ceramiche Puzzo L’abilità nella realizzazione degli stampi contraddistingue la famiglia Puzzo dai molti laboratori ceramici di Milano.

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Il backstage: sei mesi di dietro le quinte

100 / Disegni preliminari per l’oliera Trovare il design adatto per l’oliera è stato uno dei compiti più complessi perchè le possibilità di interpetazione erano tante.

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101 / Tecnici dell’oliera La lavorazione dell’alluminio successiva alla tornitura ha portato con sè particoalri difficoltà.

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Il backstage: sei mesi di dietro le quinte

102 / Modellazione tridimensionale dell’oliera Il modello 3D dell’oliera è stato fondamentale per programmare bene l’ordine delle successive lavorazioni.

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103 / Laboratorio ceramico Puzzo La teiera è stata realizzata in ceramica bianca e smaltata con una cristallina opaca.

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Il backstage: sei mesi di dietro le quinte

104 / Saldatore all’opera Il lavoro di saldatura inizialmente previsto per l’oliera è stato poi sostituito dall’impiego di un inserto.

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105 / Zaccaria Masrour, il fabbro Luca Toscano (Fotografo) Metal Z - Via Alberelle 12, San Rocco al Porto - 2017

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Il backstage: sei mesi di dietro le quinte

106 / Fabiano Morassutti, il modellista Luca Toscano (Fotografo) Fx Model - Via Pitagora 24, Binasco - 2017

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Credits 01 @ Moleskine / 02 @ Gary Hustwit / 03 @ Urbanlife.com / 04 @ Getty Images / 05 @ Welcome.us /06 @ Aaron Siskind / 07 @ Daniel Martin / 08-09-10 @ Martin Shoeller / 11 @ Irene Tamagnone / 12 @ Victor Porof / 13 @ Tom Otterness / 14 @ Chris Wattle / 15 @ Milo Ventura / 16 @ Foodnation.it / 17 @ TED / 18 @ Sara Monacchi / 19 @ A-id / 20 @ Formafantasma / 21 @ Damien Newman / R1 @ Miro Zagnoli / R2 @ Angelo Cirrincione / R3 @ Ai Weiwei / R4 @ Romania Moods / R5 @ Valerio Sommella / R6 @ Martin Shoeller / R7 @ Bottle Up / R8 @ BCXSY / R9 @ Seletti / R10 @ Roberto Nino Betancourt / R11 @ Racky Martinez / R12 @ Hector Serrano / R13 @ Monica Forster / R14 @ Formafantasma / R15 @ Elena Salmistraro / R16 @ MartinelliVenezia / R17 @ Elena Salmistraro / R18 @ Paolo Cardini / R19 @ Nacasa & Partners / R20 @ Lei Xue / R21 @ Elena Salmistraro / R22 @Akihiro Yoshida / R23 @ Paolo Cardini / R24 @ Brandl & Kantorski / 22 @ Urivaldo Lopes / 23 @ L’Espresso / 24 @ Ciaj Rocchi & Matteo Demonte / 25-26 @ Luca Toscano / 27 @ Antonio Mocchetti / 28-29-30-31-32-33 @ Luca Toscano / 34-35-36-37-38 @ Antonio Mocchetti / 39 @ Luca Toscano / 40 @ Guido Fuà / 41 @ Anthony Chen / 42 @ Etnocom / 43-44 @ Luca Toscano / 45 @ Antonio Mocchetti / 46-47-48-49-50-51 @ Luca Toscano / 52-53-54-55-56 @ Antonio Mocchetti / 57 @ Luca Toscano / 58 @ Mathias Schrader Associated Press / 59 @ Giulia Ubaldi / 60 @ Massimo Bassano / 61-62 @ Luca Toscano / 63 @ Antonio Mocchetti / 64-65-66-67-68-69 @ Luca Toscano / 70-71-72-73-74 @ Antonio Mocchetti / 75-76-77-7879-80-81-82-83-84-85 -86-87-88-89-90 @ Luca Toscano / 91 @ Sara Monacchi / 92-93-94-95 @ Luca Toscano / 96 @ Sara Monacchi / 97-98-99-100-101-102-103-104-105-106 @ Luca Toscano

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Bibliografia “Milan l’è on gran Milan”. Frase tratta dalla canzone “Lassa Pur Ch’el Mund El Disa”, Giovanni D’Anzi e Alfredo Bracchi, 1939. (15) La geografia del desiderio. Mappa dei mille volti di un concetto. Paolo Pellegrino, Manni Editore, Lecce, 2004. (15) Pablo Picasso, Malaga, 1881-1973. (15) Ten Principles for Good Design. Dieter Rams, Germania, 1970s. (17) Estratto da “Stranieri a Milano: evoluzione della presenza straniera nel comune di Milano dal 1979 ad oggi” di Ornella Boggi, Milano, 2007. Giovanni Tesoro, Comune di Milano, Responsabile del Servizio Statistiche Sociali dal 2004 al 2006. (20) Espressione d’autore contenuta in un celebre slogan pubblicitario ideato nel 1985 da Marco Mignani per la réclame dell’Amaro Ramazzotti. Si farebbe durare l’epoca della Milano da bere dal 1981 al 1992, anno dello scoppio dello scandalo Tangentopoli. (20) Fonte: ISTAT, 13° e 14° Censimento della popolazione. (22) Fonte: Dati Istat 1° Gennaio 2016 - www.istat.it. (22) Il modello insediativo egli immigrati stranieri a Milano. Patrizia Motta, ACME, Volume LVIII - Fascicolo I - Gennaio/Aprile 2005. (22) Milano ha un grosso problema coi musulmani. VICE Italia, Alberto Mucci, Milano, 4/03/2015. (23) La dimensione nascosta. Edward Twitchell Hall, Bompiani, Milano, 1968. (23) Tutto quello che non ricordo. Jonas Hassen Khemiri, Iperborea, Milano, 2017. (28) Enciclopedia delle scienze filosofiche, § 155. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Berlino, 1817. (28) Rapporto Istat, Roma, 20/05/2016. (28) Pensare la pluralità. Il pluralismo culturale nell’epoca della “politica dell’identità”. Alessandro Bellan, Prismi, 17/07/2010. (29) Pecore Nere. Gabriella Kuruvilla, Ingy Mubiayi, Igiaba Scego, Laila Wadia - Laterza, Roma, 2005. (29) Identità e violenza. Amartyra K. Sen, Laterza, Roma, 2008. (29) Creoli, meticci, migranti, clandestini e ribelli. Armando Gnisci, Gli Argonauti, Milano, 1998. (30) Intercultura: fondamenti pedagogici. Franco Cambi, Carocci, Roma, 2001. (30) Dati Istat aggiornati al 1° Gennaio 2016. (31) Proiezioni Eurostar aggiornate all’11/07/2017. (31) Fonte: CRELI (Centro di ricerca per i problemi del lavoro e dell’impresa), www.centridiricerca.unicatt.it/creli. (31) Commissione Europea, Bruxelles, 9/01/2013, COM(2012) 795 final. (32) Il Medioevo. Alle origini dell’identità europea. J. Le Goffe, Laterza, Roma, 2006. (32) mmigrati: la carica della seconda generazione. Sabrina Barbieri, www.meltingpot.org, 2004. (34) Le seconde generazioni e il problema dell’identità culturale: conflitto culturale o generazionale? Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, Roma, 4/04/2011. (35) Fondazione Andolfi, 2001. (35) Siamo ancora pecore nere. Igiaba Scego, Internazionale, Roma, 21/01/2015. (36) La storia di Toronto, trionfo di multiculturalismo. www.allianz-assistance.it. (41) Italiani in Canada. www.gostudycanada.it, 6/04/2014. (41) Un viaggio di testa, un viaggio di pancia. Diversi Autori Provvisoriamente Anonimi (DAPA), 7 Corriere della Sera, n°22, 1/06/2017. (42) Www.metronews.ca, Gilbert Ngabo, Metro Published, 17/04/2016. (42) David Savageau, Ralph D’Agostino, IDG Books Worldwide, 2011. (43) Pittsburgh Post Gazette. Mark Roth, 11/08/2017. (43)

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Bibliografia e Sitografia

Estratto dal libro “Milano, fino a qui tutto bene” di Gabriella Kuruvilla, Laterza, Bari, 2012. (47) Milano capitale dei non comunitari regolari. Radio Popolare, 13/06/2017. (47) Milano ha un grosso problema coi musulmani. Alberto Meucci, Vice, 4/03/2015. (47) Www.repubblica.it. 9/12/2014. (47) Estratto dal libro “Milano, fino a qui tutto bene” di Gabriella Kuruvilla, Laterza, Bari, 2012. (47) Milano Via Padova. Antonio Rezza, Flavia Mastrella, Milano, 2016. (48) Il Diverso come icona del male. M. Aime, E. Severino, Bollati Boringheri, Torino 2009, pp. 29-30. (49) Abitare illegale. Andrea Staid, Le Milieu, Milano, 2017. (52) I dannati della metropoli. Etnografie dei migranti ai confini della legalità. Andrea Staid, Le Milieu, Milano, 2014. (52) Gli arditi del popolo. Andrea Staid, Le Milieu, Milano, 2015. (52) A-id: Agenda for International Development / www.a-id.org. (56) Saggi, giornali, favole e altri scritti. Carlo Emilio Gadda, 1991. (78) Cinesi in Italia, i numeri di una comunità molto speciale. La Stampa, R. Giovannini, 1/07/2016. (78) Chinamen, un secolo di cinesi a Milano. Rocchi, Demonte, MUDEC, Milano, 2017. (78) Estratto dell’intervista a Francesco Wu. Tempi, Caterina Giojelli, Milano, 23/11/2014. (81) Sole 2545 richieste tra il 2010 e il 2014. Fonte: Indagine Coldiretti 2016. (81) Agenzia delle Entrate, 2015. (81) Uniic: Unione imprenditori Cina Italia (www.uniic.it). Associna: Associazione di seconde generazioni italio-cinesi (www.associna.com). (81) Milano, fino a qui tutto bene. Gabriella Kuruvilla, Laterza, Bari, 2012. (82) Il modello insediativo degli immigrati stranieri a Milano. Patrizia Motta, ACME, 2005. (83) Hu il nuovo Rossi. Il Fatto Quotidiano, 17/08/2014. (83) Filippini, la comunità silenziosa. La Repubblica, Zita Dazzi, 21/10/2009. (104) La comunità filippina in Italia. Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Report annuale (2016), www.integrazionemigranti.gov.it. (104) Assindatcolf è l’Associazione Nazionale dei Datori di Lavoro Domestici. Estratto dall’articolo “Indovina chi fa la spesa”, Mixità, www.etnocom.it, maggio 2016. (107) Estratto della canzone “Crying Time” di Ray Charles, 1966. (107) Comunità filippina, il peso dei troppi debiti mentre in patria le famiglie vivono bene. La Repubblica, Adele Lapertosa, 14/03/2011. (108) La comunità filippina in Italia. TPI News, www.tpi.it, Jessica Cimino, 9/07/2013. (108) Afrah il fabbro - I Dannati della Metropoli, Andrea Staid, Le Milieu, 2015. (130) Dati Eurostat 2011. Frammento da “La comunità marocchina in Italia”, Centro Studi IDOS, Roma, 2013. (133) La collettività marocchina in Italia. Dialoghi Mediterranei, n° 9, Franco Pittau e Antonio Ricci, settembre 2009. (133) Immigrati Imprenditori. A.M. Chiesi, Milano, Egea, 2003. (133) Altro che napoletani la pizza a Milano la fanno gli egiziani. Linkiesta, Stefano Rizzato, Milano, 21/10/2014. (133) Ministero dell’Interno, Dipartimento di Pubblica Sicurezza, Direzione Centrale della Polizia Criminale, 31/12/2013. (134) Sotto il velo. Takoua Ben Mohamed, Becco Giallo, Roma, 2016. (134)

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Lo scopo di questa tesi è quello di indagare l’identità sospesa delle ultime due generazioni di immigrati nella Milano di oggi, attraverso la progettazione di artefatti che riflettano il processo di metissàge culturale e che raccontino l’intima natura ibrida della città. Tali artefatti rappresentano ed incarnano il rapporto duplice ed ambivalente che sussiste nel vissuto delle tre principale macro-etnie di Milano (Cinese, Filippina e Nordafricana) e rappresentano un ideale, ovvero quello della mescolanza culturale, del quale dobbiamo farci promotori.


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