Calcio2000 n.245

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diretto da Fabrizio Ponciroli

Bimestrale

Calcio

MAR

245 APR

BE €8,00 | F €11,50 | PTE CONT €7,50 | E €7,50 | CHCT fch 8,50

prima immissione 01/03/2020

3,90€

intervista esclusiva ESCLUSIVA

IBRAHIMA MBAYE

“Ho il Bologna nel cuore” giganti del calcio ESCLUSIVA

INTERVISTA ESCLUSIVA

RAFAEL LEAO

IO ASCOLTO IBRA

I fratelli Fontolan Silvano e Davide IESCLUSIVA campioni si raccontano

Amauri Spirito guerriero

ALFABETO DEI BIDONI Il bianconero Miloš Krasić

GARE DA NON DIMENTICARE Valencia-Napoli e la cinquina di Fonseca

EROI PER UN GIORNO

Lima, portiere improvvisato

LEGGENDE DEL CALCIO Il teutonico Rudi Voeller


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FP

GIOVANI ALLA RIBALTA

M

i sono sempre chiesto: ma cosa accadrà quando Messi e CR7 decideranno che è giunto il momento di farsi da parte? Che sia chiaro, entrambi mi sembrano intenzionati a dominare la scena ancora a lungo, eppure è normale ragionare su come sarà il calcio quando non ci saranno più loro a dettare le regole. In tanti stanno provando a mettersi in luce, cercando di dimostrare di essere all’altezza dell’arduo compito, ossia raccogliere un’eredità pesantissima e complicatissima. Neymar, Mbappé, Dybala e tanti altri. Giocatore speciali, unici ma, non me ne vogliano, non sembrano, almeno per il momento, avere le carte in regola per salire al trono. Due del calibro di Messi e CR7, tra l’altro nello stesso periodo storico, sono merce rarissima. Forse ci toccherà attendere decenni prima di avere un duopolio tanto fantasmagorico. Nel frattempo, è doveroso dar fiducia alle nuove leve, sperando che ci sia qualcuno che riesca ad emergere in modo chiaro e netto. Tra i numerosi prospetti che sognano di sedersi al tavolo dei più grandi c’è anche un certo Rafael Leao. Classe 1999, sta iniziando a capire cosa significhi giocare

editoriale

Ponciroli Fabrizio

al Milan. Per sua fortuna, ha la ghiotta occasione di guardare e farsi consigliare da Ibrahimovic, uno che, nonostante l’età, è ancora in grado di fare la differenza, in campo e fuori. Ho scelto lui per la nuova cover di Calcio2000. Un’investitura, sperando che gli sia da stimolo per continuare a crescere… Amici, questo numero non vi deluderà, ne sono certo! Consiglio, caldamente, di leggere l’intervista a Ibrahima Mbaye. Mi ha accolto a casa sua, a Bologna, ho conosciuto un ragazzo d’oro che conosce il valore della parola sacrificio. Bellissimo anche colloquiare di calcio con Silvano e Davide Fontolan. Due fratelli che hanno lasciato un segno nel mondo del calcio e che si stuzzicano da quando erano dei bambini (e lo fanno tutt’ora). Da non perdere anche il racconto di Amauri, un altro che si è fatto in quattro per conquistare ogni gioia nella sua carriera. Ci siamo divertiti a tratteggiare una leggenda come Rudy Voeller e un’impresa come quella di Fonseca contro il Valencia. Insomma, tanti spunti per una rivista che vuole continuare ad essere diversa da tutto e tutti! La tecnologia ci permette di sapere ogni ultim’ora, eppure ci sono storie che vanno solo lette…

Il giovane cammina più veloce dell’anziano, ma l’anziano conosce la strada

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SOMMARIO

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Calcio2OOO

Anno 23 n. 1 marzo/aprile 2020 ISSN 1126-1056

BOCCA DEL LEONE 6 LA di Fabrizio Ponciroli

8 LEAO INTERVISTA ESCLUSIVA di Fabrizio Ponciroli

16 MBAYE INTERVISTA ESCLUSIVA di Fabrizio Ponciroli

VOELLER 42 RUDI LEGGENDE DEL CALCIO di Stefano Borgi

48 BESIKTAS MAGLIE STORICHE di Gianfranco Giordano

56 REGGINA SPECIALE SERIE C di Segio Stanco

62 FONTOLAN GIGANTI DEL CALCIO di Fabrizio Ponciroli

LIMA 70 FRANCISCO EROI PER UN GIORNO di Patrick Iannarelli

74 MARCHESI 24 RINO GRANDI ALLENATORI

ALEX PINARDI DOVE SONO FINITI? di Sergio Stanco

Registrazione al Tribunale di Milano n.362 del 21/06/1997 Prima immissione: 01/03/2020 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 18246

EDITORE TC&C srl Strada Setteponti Levante 114 52028 Terranuova Bracciolini (AR) Tel +39 055 9172741 Fax +39 055 9170872 DIRETTORE RESPONSABILE Michele Criscitiello Diretto da Fabrizio Ponciroli Redazione Marco Conterio, Luca Bargellini, Gaetano Mocciaro, Chiara Biondini, Simone Bernabei, Lorenzo Marucci, Pietro Lazzerini, Tommaso Maschio, Lorenzo Di Benedetto. Hanno collaborato Sergio Stanco, Luca Gandini, Gianfranco Giordano, Patrick Iannarelli, Daniele Perticari, Mirko Di Natale, Alessandro Guerrieri, Stefano Borgi, Carletto Nicoletti Realizzazione Grafica Francesca Crespi

di Luca Gandini

30 INTER-MILAN REPORTAGE

Fotografie Image Photo Agency, Agenzia Aldo Liverani, Federico De Luca, Mascolo/Photoview.

di Sergio Stanco

GOLEADOR 36 PORTIERE FOCUS ON

Statistiche Redazione Calcio2000

di Daniele Perticari

Contatti per la pubblicità e-mail: media@calcio2000.it

ANASTASI 40 PIETRO ADDIO di Fabrizio Ponciroli

78 AMAURI IO CE L’HO FATTA di Mirko Di Natale

KrasiC 86 Miloš L’ALFABETO DEI BIDONI di Gianfranco Giordano

90 VALENCIA-NAPOLI GARE DA RICORDARE

Stampa Tiber S.p.A. Via della Volta, 179 25124 Brescia (Italy) Tel. 030 3543439 - Fax. 030349805 Distribuzione Mepe S.p.A. Via Ettore Bugatti, 15 20142 Milano Tel +39 0289592.1 Fax +39 0289500688 Calcio2000 è parte del Network

di Alessandro Guerrieri

DA 98 SCOVATE CARLETTO

Il prossimo numero sarà in edicola il 10 maggio 2020 Numero chiuso il 27 febbraio 2020



bocca del leone

la

TRIESTINA DA RICORDARE Buongiorno dottor Ponciroli, Trieste è una città particolare, ma questo è il suo fascino. Ancora adesso continua ad essere poco conosciuta. La sua realtà calcistica è molto trascurata dai media nazionali. Io ho intervistato Dario Roccavini, il regista del film. Ho suddiviso l’intervista in due maxi argomenti. Da questa intervista emerge la storia della squadra, emerge la Triestinità. Non siamo molto italiani, ancora adesso abbiamo un confine-non confine molto impegnativo, però amiamo l’Italia e si desidererebbe che gli italiani si ricordassero un po’ di più di Trieste. Il regista Dario Roccavini ha fatto un lavoro tecnico incredibile, perché i filmati degli anni Sessanta e Settanta erano in Super 8. Confidando nella sua attenzio-

ne, Le invio i miei più cordiali saluti Mail firmata, Daniela

introverso. Bell’intervista e bel giornale. Mail firmata Stefano

Ho ricevuto questa mail da Daniela Asaro e ho pensato fosse doveroso condividerla con tutti voi… La Triestina è una società calcistica storica e Trieste è una città meravigliosa. Il resto lo lascio a voi…

Grazie Stefano, i complimenti fanno sempre piacere, ancor di più da un “nuovo lettore”. Spero di riuscire a stupirti e divertirti ancora. Ti consiglio la lettura sui fratelli Fontolan… PS Andrea (Mandorlini) e Ricky (Ferri) sono due amici veri. Si prendono in giro sempre con il sorriso sulle labbra. Anch’io credevo che Andrea fosse molto più riservato e ombroso. Mi sbagliavo di grosso…

NON LO SAPEVO… Caro Ponciroli, devo ammettere che il suo giornale mi piace. L’ho preso per caso e mi sono divertito a leggere l’intervista a Mandorlini e Ferri. Li seguivo da tifoso dell’Inter negli anni ‘80/’90. Non pensavo fossero così uniti. Immagino sia stato bello intervistarli insieme. E dire che Mandorlini mi è sempre sembrato molto sulle sue e molto

MA VIEIRA ARRIVA? Egregio Direttore, la seguo sui social network e ho visto che è stato al Golden Foot. Ho letto l’intervista a Vieira. È stato un grandissimo giocatore, secondo me tra i più forti centrocampisti della sua generazione. Ora me lo ritrovo che vuole fare l’allenatore in Italia. Ma ha le capacità? Non sempre un grande giocatore diventa un grande allenatore, lei lo sa bene. Mi raccomando con la mia Inter che forse è l’anno buono. Grazie per l’eventuale risposta Mail firmata, Daniele

Daniele, come puoi vedere ti ho risposto (sulla rivista). Allora, andiamo con ordine. Vieira mi è parso fin troppo tranquillo e posato. Non so come reagirebbe alle pressioni del cal-

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di Fabrizio Ponciroli

Caro Mario, io non sono un grande fan di Sarri ma lo rispetto. Ha raggiunto livelli eccelsi dopo tanti anni di gavetta e ci ha fatto divertire con il suo Napoli. Ritengo pure io che non sia l’allenatore adatto alla Juventus ma è presto per giudizi definitivi. Molto dipenderà dal finale di stagione. Come ben sa, tutti sono sotto esame alla Juventus, soprattutto gli allenatori. cio italiano. Fare il giocatore è estremamente più semplice che allenare ma è pur vero che ha già “dialogato” con Balotelli, non uno dal carattere semplice. Credo che, prima o poi, un’occasione in Italia l’avrà. Curioso di vedere se farà bene. Ti assicuro che lui è determinatissimo e adora allenare. Potrebbe anche funzionare… INCUBO SARRI Direttore, non so cosa ne pensa lei ma io non vedo niente di vincente in Sarri. Io sono stato abituato a gente come Trapattoni, Lippi e pure Allegri sulla panchina della Juventus. Loro vivevano per la vittoria. Prima si pensava a vincere la partita e poi si pensava a tutto il resto. Sarri non rappresenta il DNA della Juventus eppure viene sempre difeso dai media. Mi dice perché?

GUARDIAMO AVANTI… Direttore Ponciroli, le sottopongo un quesito complicato e forse senza risposta. Cristiano Ronaldo è del 1985, Messi è del 1987. Li vedremo mai giocare entrambi in Serie A e, se sì, dove? E chi prenderà il loro posto? Io credo che solo Mbappé sia al loro livello. Grazie Direttore Mail firmata, Gianmarco

Gianmarco, ti ho risposto in privato ma condivido con tutti i lettori le miei idee in proposito. Non credo che torneranno a giocare nello stesso campionato e, in questo caso specifico, in Serie A. Messi è troppo legato al Barcellona e il Barcellona è troppo legato a Messi. Se proprio dovesse arrivare un clamoroso divorzio, ritengo che ci siano più chance di rivederlo insieme a Guardiola, magari al Manchester City (caos con l’Uefa permettendo). Non sono dei ragazzini ma, almeno per un paio d’anni, domineranno il calcio come hanno fatto per oltre un decennio. Eredi? No, Mbappé è un potenziale campione ma ne deve fare ancora di strada e poi gioca in Ligue 1, torneo di livello medio. Mi auguro che qualcuno abbia la forza (e il talento) di prendere il loro posto ma sarà difficile, difficilissimo, forse impossibile… Due così celestiali nascono una volta ogni 30 anni… Magari ci toccherà attendere qualche anno!

» LA PASQUA SECONDO ICAM

»

Tanti saluti Mail firmata Mario

Come ogni anno, per i fan del calcio, la Pasqua è super con Icam!!! Uova al cioccolato, ovetti e sorprese ufficiali di Juventus, Milan, Inter, Lazio, Roma, Fiorentina, Torino, Sampdoria, Genoa e Hellas Verona!!! A voi la scelta!!!

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I S U L C S E A T INTERVIS Leao

di Fabrizio Ponciroli

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VELOCIDADE FURIOSA Servizio fotografico: Daniele Mascolo

L Faccia a faccia con Rafael Leão, il pupillo di Ibra che sogna in grande…

a nuova politica del Milan del fondo Elliott è chiara: giovani di grande prospettiva. L’emblema di questa condivisibile strategia è Rafael Leão. Classe 1999, l’attaccante portoghese è un diamante grezzo, di quelli che vanno intagliati al meglio per farli brillare ancor di più. Lo incontriamo al Masseroni, centro sportivo milanese. Si presenta in tuta, con musica hip hop nelle orecchie. È un campioncino ma gli atteggiamenti sono quelli di un ragazzo tranquillo. Si presenta con un sorriso che conquista. Lo shooting fotografico lo diverte. Segue le indicazioni del fotografo con partecipazione e naturalezza. Quando gli viene chiesto di fare due tocchi col pallone, decide di testarlo con un tocco felpato che si stampa sulla traversa. Terminato lo spazio dedicato alle foto, è l’ora dell’intervista. “Va bene se ti faccio domande in italiano e tu mi rispondi in portoghese?”, esordisco. “Va benissimo, come preferisci”, mi risponde cordialmente. Tutto chiarito, è arrivato il momento di saperne di più sul giovane Rafa… Rafa, quando ti sei innamorato del pallone? “Ho sempre avuto una grande passione per il calcio, sin da piccolino è quello che volevo fare da grande. È stato il mio più grande amore”. Chi erano i tuoi idoli da piccolo?

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intervista

esclusiva

Leao

“Essendo portoghese e poi giocando nello Sporting, ho avuto idoli i tanti campioni che hanno vestito quella maglia, come Cristiano Ronaldo”. Hai iniziato a giocare, a 9 anni, nello Sporting Club de Portugal… Una maglia prestigiosa, indossata da tanti campioni… “È stato un grande onore. Per me iniziare la mia carriera nelle fila dello Sporting, è stato davvero motivo di orgoglio. Ricordo la prima partita: un momento molto emozionante che non dimenticherò mai”. Quanto è stata importante la tua famiglia nella tua crescita professionale? “Tantissimo, mi hanno sempre appoggiato, in qualsiasi scelta. La famiglia è la base di tutto. Avere alle spalle una famiglia che ti sostiene è fondamentale per poter perseguire i tuoi sogni. Io ho sempre voluto fare il calciatore e mi ha supportato in ogni momento, anche e soprattutto nei periodi più difficili e complicati”.

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Ti ricordi la tua giornata tipo quando eri un ragazzino con il sogno di diventare un campione? “Studiavo e mi allenavo, ogni giorno. Cercavo di impegnarmi in tutto quello che facevo. Mi allenavo anche di sera per migliorarmi”. Cosa ti hanno detto i tuoi genitori quando hai deciso di accettare l’offerta del Lille e volare in Francia? “La mia famiglia mi è sempre stata d’aiuto. È stata una decisione molto difficile da prendere. Io non mi aspettavo di lasciare il mio Paese, il Portogallo, così giovane. Non è stato affatto facile lasciare tutte le persone vicine a me”. Ma credi ti sia servito l’anno al Lille, giusto? “Sicuramente, è stato molto importante nella mia crescita. Ho potuto apprendere tanto. Ci sono state tantissime persone che mi hanno aiutato in quel periodo e le ringrazierò sempre. Un anno che mi ha formato tantissimo, come giocatore e come persona”.


LE NUOVE PREDATOR

Leao mentre firma la seconda maglia del Milan

Il direttore Ponciroli insieme al giovane portoghese del Milan

la mitica maglia bianca del milan Il kit Away 2019/20 dell’AC Milan, “confezionato” da PUMA è molto apprezzato dai tifosi del Diavolo. Utilizzato dall’AC Milan per la prima volta nel 1910 come colore alternativo, il kit bianco è stato poi scelto per alcune delle finali più importanti della storia del Club. Indossando il kit bianco, il Milan ha vinto 6 Champions League, 1 Supercoppa Europea, 1 FIFA Club World Cup e 1 Coppa Intercontinentale, guadagnandosi il rispetto e l’ammirazione del mondo calcistico e il soprannome di “The Lucky One”. L’ultima versione dell’Away kit s’ispira al design classico. Conserva il suo look puro e minimal, mentre sulle spalle è rappresentata la stessa proporzione di rosso e nero dell’AC Milan, preservando il DNA del Club: 50% Rosso, 50% Nero, 100% AC Milan. La maglia è stata realizzata con la tecnologia dryCELL di PUMA che mantiene la pelle sempre asciutta per massimizzarne le performance e aumentarne il comfort.

Il nome è altisonante: Predator 20 Mutator. Si tratta della prima scarpa da calcio, griffata adidas, a integrare DEMONSKIN, uno strato innovativo progettato per migliorare il grip e la rotazione del pallone. DEMONSKIN è una tecnologia rivoluzionaria sviluppata da adidas Football: si tratta di uno strato texturizzato composto da piccole punte, applicato sulla tomaia di Predator 20 Mutator. Le punte di DEMONSKIN sono state appositamente realizzate per avvolgere la parte anteriore e laterale della scarpa, con una disposizione che consente l’allineamento tra i principali punti di contatto e il pallone: i giocatori otterranno così migliori prestazioni in termini di controllo e tocco della palla, favorendone al tempo stesso la rotazione. La configurazione a doppia piastra dei tacchetti riduce il peso della scarpa e consente di ottenere un design a 360° in cui il materiale della tomaia si estende fin sotto al piede. Questa struttura – unita al collo Sockfit, che tiene fermo il piede e ne asseconda la forma – assicura una calzata anatomica, per un supporto ineguagliabile. Completano il tutto i tacchetti Hybrid, che amplificano ulteriormente le caratteristiche di rotazione e aderenza della scarpa.

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intervista

esclusiva

Leao

Un anno in Francia e poi è arrivata la chiamata del Milan? Hai pensato ad uno scherzo? (Ride, n.d.r.). “Onestamente, all’inizio non ci ho creduto. Poi però, quando ho parlato con Maldini, una leggenda del Milan e del calcio mondiale che ha vinto tantissimi titoli, ero felicissimo. Incredibile aver ricevuto la chiamata del Milan, è stato un altro di quei momenti che non scorderò mai”. Come ti trovi al Milan? “Benissimo. Sono orgoglioso di far parte di questa squadra e di poter giocare con questi colori. Sono felice e grato al Milan che ha puntato su di me”. Chi ti ha aiutato maggiormente nel tuo ambientamento? “In tanti mi sono stati vicini. Mi sono trovato bene con Bennacer, Paquetà, Kessiè e Calhanoglu che mi hanno aiutato e mi aiutato tutt’ora. Poi, sicuramente, anche Ibra. Da quando è arrivato, mi dà preziosi consigli”. Parliamo di Ibra. Lui 38 anni, tu 20… Non ti fa paura quando ti rimprovera? “No, io non lo vedo in questa maniera. So perfettamente che mi vuole aiutare a crescere e migliorare. Sono sicuro che, ascoltando i suoi consigli, farò sempre meglio. Potermi allenare con lui tutti i giorni è un grande vantaggio”. In cosa ti sprona a far meglio il tecnico Pioli? “Soprattutto sull’aspetto difensivo del mio gioco e credo che i risultati comincino a vedersi. Ogni giorno lavoro proprio per migliorare alcuni aspetti del mio gioco. La fase

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intervista

esclusiva

Leao

varmi ancora faccia a faccia con CR7. Sarà emozionante e spettacolare allo stesso tempo”. Come ti trovi a Milano? È la città che fa per te? “Si tratta di una città fantastica e bellissima. Sono tutti molto gentili con me, mi sento a casa”. Parliamo del Rafael ragazzo di 20 anni… Che musica ascolti? “Mi piace ascoltare musica Hip Hop”. Un film che ti è piaciuto particolarmente? “Velocidade Furiosa, conosci?”. Intendi Fast and Furious?

CARRIERA IN RAMPA DI LANCIO

I consigli di Ibra sono preziosissimi per il giovane portoghese

difensiva è molto importante per un attaccante nel calcio d’oggi”. Sei all’inizio della tua carriera al Milan. Cosa ti piacerebbe vincere con il Diavolo? (Ride, n.d.r.). “Beh, sarebbe fantastico riuscire a vincere lo Scudetto e poi magari portare a casa anche la Champions League…”. Intanto siete in corsa per la Coppa Italia… “Ci teniamo molto ma dobbiamo pensare ad una partita alla volta, senza guardare troppo avanti. È comunque una competizione alla quale teniamo parecchio e un’occasione che vogliamo sfruttare. Faremo di tutto per arrivare fino a giocarci la finale”. Ora vi giocherete l’accesso alla finale contro la Juventus del tuo connazionale Cristiano Ronaldo… “È un giocatore che ammiro molto, da sempre… Sarà bello sfidare la Juventus e tro-

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La sensazione è di trovarsi di fronte ad un predestinato. Nato ad Almada, città portoghese nel distretto di Setubal, si avvicina sin da bambino al pallone che diventa, immediatamente, la sua passione. Entra a far parte dello Sporting Club de Portugal e, il 12 ottobre 2017, a 18 anni, fa il suo esordio in prima squadra nella sfida di Coppa del Portogallo contro l’Oleiros. Resta una sola stagione con i biancoverdi, togliendosi la soddisfazione di segnare la sua prima rete da professionista, con un bel destro, contro il Porto (2-1 il finale per i dragoni). Nell’agosto del 2018 si trasferisce in Ligue 1, al Lille. Si destreggia al meglio, chiudendo l’annata con otto reti in 26 presenze. Il Milan decide di interessarsi a questo funambolico portoghese e, il 1 agosto 2019, arriva la fumata bianca. Rafael Leão passa al Diavolo per circa 23 milioni di euro (contratto quinquennale). La sua prima gioia in rossonero arriva contro la Fiorentina. Il desiderio è di continuare a crescere, grazie anche ai consigli di Ibrahimovic, per prendersi tutto, anche la maglia della nazionale portoghese. Ad oggi ha giocato in tutte le giovanili della Seleção das Quinas. Alle porte c’è Euro 2020…


“Esatto, è il genere di film che piace a me”. Hai anche un supereroe preferito? “Beh, non è facile. Direi che Flash non è male, visto che corre veloce (ride, n.d.r.)”. E, invece, c’è un piatto della cucina italiana che hai scoperto e al quale non riesci a dire di no? Rafa ci pensa un attimo, poi, in perfetto italiano, risponde: “Risotto alla milanese, davvero buonissimo”. Come va con i videogames? “Beh, ci gioco. Mi piacciono abbastanza”. Tre giocatori che inseriresti nella tua formazione tipo da giocatore di videogames… “Cristiano Ronaldo, Mbappé e Neymar”. Tre giocatori niente male… “Beh, se vuoi fare una squadra forte, devi prendere quelli forti”. Cosa ti fa arrabbiare e cosa, invece, ti rilassa nella tua quotidianità? “La mancanza di fiducia che, a volte, mi assale. Cosa mi rilassa? Direi guardare Netflix (ride, n.d.r.)”. Qualche serie in particolare su Netflix? “La casa de papel (La casa di carta, n.d.r.) mi ha preso molto”. C’è una città che ti piacerebbe visitare? “Beh, ci sono tanti posti che vorrei visitare ma direi New York”. Magari per andare a vedere qualche sport americano? “Sono un appassionato di NBA. Mi piacciono i LA Lakers. Sono un fan di Lebron James e lo ero di Kobe Bryant. La sua scomparsa mi ha toccato molto”. Torniamo a parlare di calcio… Chi vince la Champions League quest’anno? “Io punterei sul Real Madrid”. Ci sarebbe anche un certo Liverpool e pure la Juventus punta ad alzare al cielo il trofeo… “Come finale, vedo Real Madrid-Liverpool. La Juventus non è la mia favorita numero uno”. Ultima domanda: a breve ci sarà Euro 2020. Speri di far parte della spedizione

LA CLASSE DEL 1999 La lista di talenti nati nel 1999 è lunghissima. Rafael Leão è in buona compagnia. Per il ruolo di portiere, non bisogna allontanarsi da casa Milan. Gigio Donnarumma è il top, senza discussioni. Per la difesa, tante opzioni. Da Mattijs De Ligt a Diogo Dalot, passando per Dan-Axel Zagadou. A centrocampo c’è l’imbarazzo della scelta. Gente come Nicolò Zaniolo, Kai Havertz, Matteo Guendouzi, Brahim Diaz o Gedson hanno tutte le carte in regola per un futuro roseo. Per l’attacco, c’è da sbizzarrirsi. Joao Felix è già una star all’Atletico Madrid ma tanti altri puntano a conquistare un posto nella lista dei migliori. Dal giallorosso Justin Kluivert a Jonathan Leko e, ovviamente, quel Rafael Leão consigliato da un certo Zlatan Ibrahimovic. L’era dei classe 1999 è già iniziata. È il loro tempo, il calcio che conta si è già accorto del loro arrivo…

portoghese? “Sì, mi piacerebbe tantissimo. Sono al Milan proprio per migliorare e conquistare la maglia della nazionale portoghese. Sarebbe un passo molto importante per la mia carriera”. A giudicare dai mezzi fisici e tecnici, la sensazione è che la sua chiamata in nazionale maggiore sia solo una questione di tempo. Il tempo a nostra disposizione è terminato. L’inviato dell’Equipe sta aspettando il suo turno. Mi immortalano insieme a lui, una foto da social. La posto immediatamente e, nel giro di qualche minuto, arriva il “like” dello stesso Rafael Leão… Oltre a destreggiarsi al meglio col pallone, rilassarsi con Netflix e ascoltare buona musica, è anche “immerso” alla perfezione nel mondo social. Nel calcio 3.0 di oggi, uno come Rafa (come lo chiamano i fan) ci sta alla grandissima…

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I S U L C S E A T INTERVIS Mbaye

di Fabrizio Ponciroli

IBRAHIMA, UN RAGAZZO GENTILE Servizio fotografico: Daniele Mascolo

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intervista Mbaye

esclusiva

L’

appuntamento è fissato alle 14.30. Bologna è splendida. Nonostante sia febbraio, la luce del sole è calda e rassicurante. Arriviamo sotto casa di Ibrahima Mbaye prima del previsto. Un caffè per ingannare il tempo e poi saliamo al sesto piano di un bel complesso in zona centro. Ad aspettarci c’è Valeria, la fidanzata di Mbaye. Gentilissima, ci offre immediatamente un caffè: “Già preso, grazie”. Mentre attendo l’arrivo di Ibrahima, noto tanti particolari nel salone. Oltre ad una sua maglietta da gioco del Bologna in stile opera d’arte, adocchio anche l’album Calciatori Panini: “Sì, è mio -mi confidasono andato a prendere i pacchetti all’edicola all’angolo. Per fortuna mi sono trovato (ride, n.d.r.). Della mia squadra me ne mancano solo tre. Essere sull’album Calciatori è il massimo”. Parliamo delle rispettive passioni per il collezionare. “Mi piacciono i bearbreak e li tengo in bella vista proprio qui in salone. Sono bellissimi, il problema è che ce ne sono un botto…”. Ibra è un ragazzo semplice, lo si vede dalla sin-

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cera gentilezza nei nostri confronti. Lo shooting fotografico lo diverte. Si fa immortalare anche con l’amico Niccolò (“Ci siamo conosciuti quando avevo 14 anni, a scuola. Siamo amici da allora, lo aiutavo in matematica”, scherza Ibra) e pure con la fidanzata Valeria: “Anche lei, come Niccolò, l’ho conosciuta quando stavo a Milano. Poco a poco, li sto portando tutti a Bologna”. Appunto, Bologna. Ibrahima ci è arrivato nel 2015 ed è stato amore a prima vista. Decidiamo di realizzare l’intervista in uno dei tanti Bar Cafè della zona. La giornata è troppo luminosa per restare nel pur splendido appartamento di Ibra… Ibra, il tuo primo ricordo con un pallone tra le mani… “Non ho un ricordo preciso ma so che mi trovavo in Africa, in Senegal, fuori da casa mia. Ho giocato per tantissimo tempo insieme ai miei amici. Bastavano delle pietre per fare le porte e poi si giocava senza mai fermarsi. Solo quando non c’era più luce, rientravo in casa. Era il gioco che amavo di più e che amo ancora oggi. Ho


LA CARRIERA Stagione Squadra Totale Pres Reti 2012-2013 Inter 2 0 2013-2014 Livorno 25 2 2014-gen. 2015 Inter 7 0 gen.-giu. 2015 Bologna 11 1 2015-2016 Bologna 16 0 2016-2017 Bologna 17 0 2017-2018 Bologna 25 1 2018-2019 Bologna 25 2 2019-2020 Bologna 13 0 Dati aggiornati all’11/2/2020

Mbaye ha già superato quota 100 presenze con la casacca del Bologna

sempre giocato a calcio, non c’era altro nella mia testa”. Chi erano i tuoi idoli quando eri un ragazzino in Senegal? “Ho guardato sempre con ammirazione a tanti giocatori. In particolare, ho sempre avuto un debole per Vieira e Drogba ma, ripeto, mi è sem-

pre piaciuto osservare tutti i campioni e provare ad imparare qualcosa da ognuno di loro”. A 14 anni arriva la chiamata dall’Italia. L’Inter ti vuole… Una scelta, immagino, non semplice… “Guarda, in realtà, quando sono arrivato in Italia, sarei dovuto restare solo per 10 giorni. Era un provino. Terminati quei 10 giorni, sarei dovuto tornare dalla mia famiglia in Senegal. Invece, dopo una settimana, mi hanno detto che potevo restare in Italia o, se preferivo, tornare in Senegal per salutare la famiglia e gli amici e poi trasferirmi in Italia. Io ho sentito la mia famiglia e ho deciso di restare subito. Non li ho rivisti per quattro anni”. Quattro anni senza vedere la tua famiglia, i tuoi amici. Non proprio una passeggiata di salute… “No, davvero… Non li ho rivisti fino ai miei 18 anni. Ci sono stati momenti difficili. C’era il supporto di mio padre, ma non lo vedevo quasi mai, perché lavorava. Ho anche sofferto, non parlavo una parola di italiano, volevo tornare a casa ma, alla fine, il calcio ha vinto sempre e sono rimasto”. A distanza di tanti anni, a chi devi dire grazie? “A tante persone ma, soprattutto al mio procuratore Beppe Accardi e a sua moglie. Mi hanno aiutato tantissimo in quel periodo e continuano a farlo ancora oggi”. Hai giocato nelle giovanili dell’Inter. Tanti giovani campioni. Sei rimasto in contatto con qualcuno di loro? “Vero, eravamo giovani e c’era tanta amicizia tra noi. Ci siamo divertiti tanto insieme. Mi sento con Duncan e Bessa soprattutto. Tanti di quel gruppo hanno fatto una carriera nel calcio”. È in quel periodo che diventi esterno di difesa, corretto? “Sì, esatto. Inizialmente ho provato a fare il centrocampista. Poi Stramaccioni, che aveva un problema con un esterno, mi ha messo a sinistra anche se io sono destro. Per fortuna è andata bene”. L’esordio con l’Hajduk Spalato, nel 2012, è stata la conferma che il sogno di diventare calciatore professionista era vicino?

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intervista

esclusiva

Mbaye

“È stato bellissimo. Quando ho giocato con la maglia dell’Inter a San Siro, in Europa League, contro l’Hajduk Spalato ho capito che ero davvero vicino al mio grande sogno. Me l’hanno detto il giorno prima che avrei giocato e posso assicurati che non ho dormito (ride, n.d.r.). È stata una grandissima emozione. San Siro ti dà delle sensazioni uniche. Io ci sono stato da spettatore, poi da raccattapalle, poi ancora da giocatore dell’Inter e da avversario dell’Inter. Non c’è nulla di più magico di San Siro”. Poi vai a Livorno… “Un anno molto importante per la mia crescita professionale. Ho giocato diverse partite, ho trovato tanta fiducia nei miei confronti. Devo ringraziare Nicola. Mi ha fatto crescere tanto, sia come giocatore che come persona”. Hai mai pensato a cosa avresti fatto se non fossi riuscito a diventare un professionista? “Onestamente non ci ho mai pensato. Sicuramente sarei andato avanti con gli studi”. Nel 2014 torni all’Inter. Qualche presenza… Forse potevi fare di più? “Sicuramente potevo fare di più. Non mi sono

gestito bene. Ero giovane e ho commesso degli errori. Ricordo che, in quell’anno, quando non giocavo, mi abbattevo. Un errore che ho capito solo con il passare del tempo. Mi è servito tanto come insegnamento”. Ti è servito anche a Bologna? “Certo. Qui sono arrivato nel 2015. Ho giocato tanto ma ho avuto anche momenti in cui ho giocato meno, però non mi sono mai fatto prendere dalla tristezza. Ho sempre continuato ad impegnarmi per migliorarmi. Anche nei giorni liberi”. È stato amore a prima vista con la città di Bologna? “Assolutamente sì. Ci sto da cinque anni, mi trovo benissimo. Ho casa qui, moltissimi amici e le persone le sento molto vicine a me. È una bellissima città e poi si mangia anche benissimo”. Su questo non ci sono dubbi… Piatto preferito? “I tortellini che mi prepara Dino della trattoria Nonna Rosa. Sa che non mangio tanta carne e me li fa apposta per me. Sono davvero speciali, il top dei top”.

Un giovanissimo Mbaye con la maglia dell’Inter al fianco di Guarin, Ranocchia e Samuel

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intervista

esclusiva

Mbaye

Credi che il Bologna di quest’anno abbia la rosa più forte di tutte le precedenti in cui hai giocato? “Già lo scorso anno eravamo un grande gruppo, infatti siamo arrivati decimi. Sicuramente quest’anno siamo ancora più forti. Il presidente sta facendo ottime cose, ha fatto grandi investimenti”. Ibra, cosa ti ha insegnato il percorso che ha affrontato Mihajlovic per lottare per la sua vita? “Mi ha insegnato che, nella vita, tutto può accadere e non bisogna mai smettere di lottare. Lui ci ha insegnato che nulla è impossibile. Bisogna solo avere la forza di lottare”. Sei un ragazzo di colore in un Paese come l’Italia dove, ancora oggi, il fenomeno del razzismo è, purtroppo, una piaga… “Purtroppo, nel 2020, vediamo ancora episodi di razzismo. Sinceramente non capisco il perché di un’offesa ad un ragazzo di colore. Il mio miglior amico è bianco e italiano. Per me, se una persona è buona, è buona, a prescindere dal colore della pelle. Se non sei una persona buona, non sei amico mio, sia che tu sia bianco o nero. Non capisco come si può giudicare se una persona sia buona dal colore della pelle”. Parliamo di argomenti più leggeri. Cosa ti rilassa e cosa ti innervosisce? “Mi rilassa starmene a casa mia. Magari sul divano a guardarmi qualche serie televisiva. Mi innervosisce quando uno continua a parlarmi e non la smette mai. Se uno mi riempie la testa di parole, alla fine sbrocco”.

Il Direttore Ponciroli mentre si appresta ad intervistare Mbaye

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Ah, sei un fan di Netflix… “Potrei stare chiuso due giorni interi a guardare serie televisive. Casa di carta, Narcos, le ho viste tutte. Purtroppo, ogni tanto devo accontentare Valeria e devo uscire (ride, n.d.r.)”. Videogames, musica, film? “Videogames non tanto, anche film non sono un super appassionato. Ho un cinema vicino a casa. Ci sono andato una volta in cinque anni e solo perché volevo dei popcorn. Mentre mi piace ascoltare la musica. Rap, R&B anche canzoni italiane”.

la carriera di ibra Nato a Guédiawaye, in Senegal, il 19 novembre 1994, Ibrahima Mbaye approda in Italia a 14 anni. L’Inter decide di scommettere siuquesto diamante grezzo che, in breve tempo, dimostra di saperci fare. Vince, con le giovanili dell’Inter, il campionato Primavera 2011/12 e le NextGen Series, sempre nella stagione 2011/12 e sempre con Stramaccioni in panchina. Nell’agosto del 2012 arriva anche il debutto ufficiale con la Prima squadra nerazzurra, in Europa League contro l’Hajduk Spalato. Nell’estate del 2013 va, in prestito, al Livorno dove debutta in Serie A (contro la Roma) e segna i suoi primi gol nella massima serie (due reti in 25 presenze totali, entrambi alla Sampdoria). Rientra all’Inter dove resta per una stagione trovando poco spazio ma continuando ad apprendere. Nel gennaio del 2015 si trasferisce al Bologna. Conquista immediatamente la promozione nella massima serie (11 presenze, una rete). Diventa una risorsa preziosa dei felsinei. Il numero di gettoni aumenta, tanto da raggiungere il traguardo (al quale tiene molto) delle 100 presenze in maglia rossoblù. Da quando è al Bologna, ha assaporato anche la gioia di indossare la casacca della nazionale del Senegal. Per ora le presenze con i Leoni della Teranga sono tre ma, ne siamo certi, il tassametro è destinato a correre.


Valeria e Niccolò, fidanzata e amico di Mbaye. Due punti fermi nella sua vita

Qualche artista italiano in particolare? “Mi piacciono le canzoni di Fedez e, quando sono arrivato in Italia, ascoltavo Tiziano Ferro insieme ai miei compagni di allora. Sono stato ad un solo concerto, di Ligabue. È stato bellissimo”. C’è una serie televisiva in cui ti sarebbe piaciuto essere protagonista? “La casa di carta. È la mia serie TV preferita”. Giochiamo ancora un po’… Un superpotere che vorresti avere? “La possibilità di teletrasportarmi da un posto all’altro del mondo. Potrei finire le partite e andare a trovare la mia famiglia in Senegal in un lampo e poi tornare a casa a Bologna”. La tua famiglia guarda le partite del Bologna in televisione? “Mia mamma e mia nonna non mi guardano mai. Hanno paura che mi faccia male o che faccia male a qualcuno. Tutti gli altri, invece, mi guardano e ne sono felice”. Obiettivi personali a livello sportivo? “Finire bene questa stagione e provare a migliorare il decimo posto della passata annata, cercando di giocare il più possibile. E poi voglio riuscire ad indossare ancora la casacca della nazionale del Senegal. Ci tengo tanto”. Che ne pensi di questa Serie A? Credi sia migliorata ultimamente? “Sicuramente è migliorata. Quest’anno il campionato è bellissimo. Può accadere di tutto. Per ogni obiettivo, ci sono tante squadre coinvolte. L’ultima in classifica può battere la prima della

classe. È pazzesco e fantastico. Ogni partita è una battaglia”. L’avversario più complicato da affrontare e il compagno più forte con cui hai giocato… “L’avversario più difficile da affrontare? Non ho dubbi, Douglas Costa. Ha il baricentro basso ed è velocissimo. Non sai mai cosa farà. Un incubo. Per quanto riguarda la seconda domanda, ho giocato con tanti campioni, quindi dovrei citarli tutti. Ti dico Franco Brienza, che ho avuto come compagno al Bologna. Quando lo vedevo allenarsi mi sono sempre chiesto perché uno come lui, così forte, non abbia mai giocato in un top club. Era incredibile quello che faceva con il pallone”. Ultima domanda: ti chiedono spesso l’autografo, a quale sportivo lo chiederesti? “A Patrick Vieira. Lui è un grandissimo, mi è sempre piaciuto moltissimo. Anche se sono timido e quindi credo che non avrei il coraggio”. È tempo di saluti. L’ultima risposta dà il via ad una serie di riflessioni. Gli chiedo se e con chi ha scambiato la sua maglia… Mi vergogno, quindi non chiedo mai. Le scambio con i miei amici o con chi ho giocato. Ho solo quella di Higuain. Ci siamo beccati per tutta la partita, è stato uno scontro duro ma vero. A fine partita ci siamo abbracciati ed è venuto naturale scambiarsi la maglia. è stato bello”. Anche da quest’ultimo aneddoto si comprende come Ibra sia un ragazzo gentile, di quelli che offrono sempre il meglio di se stessi. Un bravo ragazzo…

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i r o t a n e l l grandi a Rino Marchesi di Luca Gandini

LE SINFONIE DI MARCHESI Il garbo e la cultura al servizio del calcio di qualità. Ritratto di Rino Marchesi, gentleman in campo e in panchina.

Credit Foto: Liverani 24


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poi dicono che “quello” era un altro calcio. È questo di oggi, semmai, ad essere “altro”. Tutto meno autentico, tutto più artefatto, dove la genuinità e la semplicità sono quotidianamente sacrificate sull’altare dell’apparenza e dell’ostentazione. Prendiamo Rino Marchesi. Come si troverebbe un personaggio umile, colto e garbato come lui nel carrozzone mediatico di oggi, tra procuratori senza scrupoli e ragazzini attaccati più allo schermo del proprio telefonino che non ai colori della propria squadra; tra un campionato-spezzatino, un “like” messo a sproposito e un presidente che magari sta dall’altra parte del mondo? Farebbe certamente notizia, anzi, sarebbe quasi una mosca bianca. Eppure, nonostante abbia superato da un po’ l’ottantina e nonostante manchi dal mondo del calcio da ormai un quarto di se-

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tori

ena grandi all Rino Marchesi

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

colo, il buon vecchio Rino non è tipo da crogiolarsi nel ricordo dei tempi andati. Ancora oggi, benché da semplice spettatore, continua a coltivare quella che, insieme alla musica classica, all’enigmistica, agli scacchi e a un buon sigaro, resta la grande passione della sua vita: “el fòlber”, come dicono dalle sue parti. L’ASSO DI COPPE Già, perché Rino Marchesi nasce a San Giuliano Milanese l’11 giugno 1937, ma in realtà è un po’ un figlio d’Italia, portato qua e là dal rotolare del “balùn”. Mediano o libero elegante e grintoso, anche se un po’ lento, debuttò in Serie A all’alba dei vent’anni con la maglia dell’Atalanta il 27 ottobre 1957, tuttavia fu con la Fiorentina che visse la fase migliore della carriera, tanto da legare il suo nome ad alcuni dei momenti più importanti nella storia della società gigliata. Nella stagione 1960/61, seppur con una sola presenza nella semifinale di ritorno contro la Dinamo Zagabria, contribuì alla vittoria della Coppa delle Coppe, primo titolo UEFA conquistato da un club italiano, impresa seguita a ruota dal successo in Coppa Italia ai danni della Lazio. L’anno dopo la Viola tentò il bis in Coppa delle Coppe, ma fu travolta in finale dall’Atlético Madrid. Rino Marchesi fu, però, uno degli ultimi ad arrendersi, come puntualmente segnalato dalle cronache dell’epoca. Concluse l’esperienza a Firenze nella stagione 1965/66. Ormai ai margini della squadra, non scese mai in campo in occasione della vittoriosa Coppa Italia, ma prese parte attiva, in giugno, al successo nella Coppa Mitropa, una competizione tra squadre ita-

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liane, cecoslovacche, jugoslave, ungheresi e austriache magari non più prestigiosa come prima della guerra, ma pur sempre affascinante. Si trasferì quindi alla Lazio. Cinque stagioni in cui non riuscì mai a coronare il sogno-Scudetto, ma in cui si tolse la soddisfazione di alzare, da capitano biancoceleste, la Coppa delle Alpi a Basilea. Era il 25 giugno 1971. La Lazio era appena retrocessa, tuttavia quel trofeo di consolazione fu il suo regalo d’addio al club capitolino. Andò a chiudere a Prato una carriera più che dignitosa, che l’aveva anche visto giocare due partite in Nazionale. La prima nel 1961, un’amichevole contro l’Argentina; la seconda nel 1962, altra amichevole di lusso contro la Francia, a coronamento di un percorso calcistico sempre all’insegna dell’impegno e della serietà. LA SCUOLA MILANESE Ripartì dunque dalla panchina. Tre stagioni di gavetta in Serie C, una con l’Aquila Montevarchi e due con il Mantova, poi il Supercorso di Coverciano, tappa quasi obbligata al fine di arricchire il proprio bagaglio tecnico-tattico. Nel 1977/78, ecco l’approdo in Serie B alla guida della Ternana, con un buon quinto posto finale. Era un periodo particolarmente propizio, quello, per diversi allenatori provenienti come lui da Milano e provincia: il giovane Giovanni Trapattoni, guida sicura di una Juventus grande in Italia e in Europa; Gigi Radice, condottiero dello storico ultimo Scudetto del Torino; Pippo Marchioro, uno dei primi tecnici italiani ad introdurre la difesa a zona. Poco più tardi sarebbe balzato agli onori delle cronache Osvaldo Bagnoli, il “mago della Bovisa”. Rino


Marchesi ebbe la sua grande occasione nel 1978/79, quando venne chiamato al debutto in Serie A sulla panchina dell’Avellino. Trascorse in Irpinia due stagioni coronate da altrettante salvezze e nobilitate da pesantissime vittorie casalinghe ai danni di Inter, Milan e Juventus. Venne perciò ingaggiato dal Napoli di Corrado Ferlaino, che nell’estate della riapertura delle frontiere decise di regalare al tecnico un autentico asso come Ruud Krol, libero di classe e personalità già protagonista sia nell’Ajax che nell’Olanda al fianco di Johan Cruijff. La prima stagione fu esaltante, con un Napoli costantemente nei quartieri alti e alla fine meritatamente terzo alle spalle di Juventus e Roma. Convincente anche la stagione successiva. Nonostante la prematura eliminazione al primo turno di Coppa UEFA contro gli jugoslavi del Radnički Niš, la squadra di Marchesi riuscì a riconfermarsi ai vertici in campionato, con un brillante quarto posto. Gli ottimi risultati ottenuti in Campania gli valsero quindi

l’approdo all’Inter di Ivanoe Fraizzoli. Marchesi trovò in quella squadra ben sei elementi della Nazionale fresca di titolo mondiale: il portiere Ivano Bordon, i difensori Beppe Bergomi e Fulvio Collovati, i mediani Lele Oriali e Gianpiero Marini e l’attaccante Alessandro Altobelli, a cui si sommavano pedine di provata affidabilità come il fantasista Evaristo Beccalossi, il nazionale tedesco Hansi Müller e l’inesauribile centrocampista Salvatore Bagni. Fu un’annata in chiaroscuro, con i nerazzurri mai veramente in lotta per lo Scudetto e con una bruciante eliminazione ai quarti di finale di Coppa delle Coppe per mano del Real Madrid. A far precipitare del tutto le cose furono, in piena estate, le deludenti performances al Mundialito, e così, puntuale, arrivò l’esonero. Lo ritrovammo sulla breccia nel febbraio del 1984, quando un Napoli in piena crisi decise di affidarsi di nuovo al tecnico milanese, il quale, con estrema saggezza, seppe ripagare la fiducia centrando una tranquilla salvezza.

Seduto sulla panchina della Juventus, ha gestito campionissimi tra cui l’immenso Scirea

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ena grandi all Rino Marchesi

Nel frattempo, il presidente Corrado Ferlaino e il direttore generale Antonio Juliano portarono a termine uno tra i più clamorosi colpi di mercato nella storia del calcio italiano. L’acquisto per 13,5 miliardi di Diego Armando Maradona, fantasista argentino reduce da due tribolate stagioni con la maglia del Barcellona. Marchesi riuscì a costruire con pazienza intorno al genio del “Pibe de Oro” una squadra quadrata che all’inizio di quel 1984/85 visse non poche difficoltà, ma che nel girone di ritorno fiorì insieme alla sua stella. L’ottavo posto finale fu però giudicato insoddisfacente dalla società partenopea, che decise di scaricare Marchesi. Con il solito garbo, il tecnico voltò pagina nella speranza di trovare l’occasione del riscatto. IL MARCHESI DELLA SIGNORA Le porte del grande calcio si riaprirono nel novembre del 1985. Oddio, grande è un termine magari esagerato per un Como che in

Ai tempi di Napoli, ha allenato un certo Maradona.

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quel periodo si trascinava con fatica all’ultimo posto della classifica. Con la solita pazienza, l’artigiano Marchesi ridiede fiducia all’ambiente e valorizzò un formidabile attaccante come Stefano Borgonovo. E così, mentre l’Italia seguiva con il fiato sospeso il duello in vetta tra Juventus e Roma, il Como costruiva domenica dopo domenica una prodigiosa salvezza di cui Marchesi fu probabilmente l’artefice principale. In quell’estate del 1986 arrivò dunque il giusto premio alla carriera per il valido e sempre pacato Rino: la chiamata della Juventus campione del mondo. C’era da sostituire l’amico Trapattoni, ma soprattutto c’era da gestire una situazione ambientale non facile, per via di un Michel Platini arrivato con le batterie scariche dal Mondiale messicano e per via di un insolito immobilismo sul mercato da parte della società. Marchesi cercò di fare buon viso a cattivo gioco, consapevole che quel gruppo carico di gloria e di acciacchi avesse ormai imboccato il viale del


tramonto. Il primo segnale arrivò a novembre, con l’eliminazione agli ottavi di Coppa dei Campioni contro il Real Madrid. Poi ci fu il progressivo abbandono delle ambizioni tricolori a vantaggio dell’inarrestabile Napoli di Maradona. Solo uno scatto d’orgoglio permise a Marchesi e alla Juve di salvare la stagione, con il conseguimento del secondo posto conclusivo. L’anno dopo fu un tracollo su tutta la linea. L’addio al calcio di Platini obbligò la società a mettere mano al portafogli nella speranza di pescare oltreconfine l’asso in grado di colmare l’enorme vuoto lasciato da “Le Roi”. Per 7 miliardi venne dunque prelevato dal Liverpool il celebre bomber gallese Ian Rush. La stagione iniziò male, con una disastrosa eliminazione ai sedicesimi di Coppa UEFA con i greci del Panathinaikos, e proseguì peggio, con la squadra a vivacchiare ai limiti della zona-Europa. Marchesi, che era sì un valido direttore d’orchestra ma non un trascinatore di uomini, non riuscì mai a dare la scossa giusta a un ambiente insolitamente sfiduciato. Non bastò, a fine stagione, la qualificazione alla Coppa UEFA dopo un infuocato spareggio con il Torino. Il deludente Rush venne accompagnato alla porta, ma nemmeno il tecnico di San Giuliano Milanese riuscì a guadagnarsi la riconferma.

precipitò in ultima posizione e finì in Serie B. Nel 1989/90 le cose non migliorarono granché. Stavolta fu lui a subentrare in corsa alla guida dell’Udinese. Nonostante una situazione di classifica deficitaria, la squadra lottò fino all’ultima giornata ma alla fine si arrese alla retrocessione. Marchesi venne confermato, tuttavia una partenza a rilento nella stagione successiva gli costò la panchina. Non furono fortunate neppure le esperienze nel Venezia di Maurizio Zamparini e nella nobile decaduta S.P.A.L., mentre fu addirittura disastrosa la stagione 1993/94. A novembre venne chiamato a sostituire Nedo Sonetti in un Lecce malinconicamente ultimo e non poté fare altro che traghettare la squadra verso l’inevitabile retrocessione. E così, quel 1° maggio 1994, una domenica incancellabile nella memoria di tutti gli sportivi per via della tragica morte di Ayrton Senna, Rino Marchesi dirigeva per l’ultima volta una squadra di calcio. Fu una dolorosa sconfitta casalinga contro il Cagliari, un film già visto in un’annata da dimenticare. Chiudeva la carriera da allenatore con il rammarico di non aver mai conquistato un titolo, ma anche con l’orgoglio di aver diretto fuoriclasse del calibro di Diego Maradona, Michel Platini, Ruud Krol, Antonio Cabrini e Gaetano Scirea. Oggi risiede non lontano da Firenze, segue ancora il calcio e ha ripreso a coltivare una vecchia passione di gioventù: la musica classica. E così può capitare che insieme alle note del suo pianoforte ispirate alle immortali sinfonie di Beethoven, di Mozart e di Bach, riaffiorino i ricordi del tempo che fu. Quando era proprio lui ad impugnare la bacchetta e a dirigere l’orchestra del pallone, realizzando, non di rado, pregevoli ed indimenticabili capolavori.

“Rino Marchesi ebbe la sua grande occasione nel 1978/79, quando venne chiamato al debutto in Serie A sulla panchina dell’Avellino”

IL RIMPIANTO E L’ORGOGLIO Da quel momento la carriera di Rino Marchesi iniziò ad imboccare la parabola discendente. Non sempre per colpa sua, intendiamoci. Nel 1988/89, ad esempio, venne richiamato alla guida del Como. Con la squadra ancora in piena corsa per la salvezza fu immeritatamente esonerato a dieci giornate dalla fine. Risultato: il Como, affidato ad Angelo Pereni,

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reportage inter-milan di Sergio Stanco

Le lacrime del Diavolo

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Abbiamo assistito ad uno dei derby più belli della storia del calcio meneghino. Ve lo raccontiamo visto dagli spalti. Emozione unica.

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n giorno potremo dire ai nostri nipoti “Io c’ero”. Già, perché il derby del 9 febbraio 2020 rimarrà per sempre scolpito nella storia. Qualcuno obietterà che qualsiasi derby è storico. Vero, ma qualcuno un po’ di più. Come quello del 6-0 a tinte rossonere del lontano (ma indimenticato dai tifosi milanisti) 2001, o quello – anche in questo caso in rimonta – del 3-2 (dallo 0-2) colorato sempre di rossonero del 2004 (con bolide di Seedorf a 6’ dalla fine). Beh, questa volta i nerazzurri si sono presi la rivincita. E con gli interessi. Perché nulla, forse, è più eccitante di andare all’intervallo in svantaggio di due reti e, poi, tornare sotto la doccia avendo ribaltato tutto. Non a caso, “chiuso per orgasmo” recitava uno striscione esposto in Curva Nord a fine partita. E speriamo che nessuno si scandalizzi. Ma se preferite possiamo dirla con le parole di Lele Adani: “Perché non c’è nessuno sport sulla faccia del pianeta che regali più emozioni del calcio”. Dopo aver assistito – per di più dal vivo – a questo Inter-Milan, non possiamo che essere d’accordo. E il fatto che la gara fosse ancor più carica di tensione rispet-

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reportage inter-milan to a un derby “normale” (ammesso che ne esistano di derby “normali”), aggiunge ulteriori meriti alla “banda” capitanata da Mister Conte. Eh sì, perché la Juve il giorno prima aveva perso a Verona, concedendo all’Inter il più classico dei match point. E come se non bastasse, la Lazio pochi minuti prima dell’inizio della gara di San Siro aveva espugnato il Tardini, mettendoci il carico. Insomma, c’erano tutte le condizioni perché le gambe dei giocatori nerazzurri tremassero prima dell’ingresso in campo. E in effetti questa è stata la sensazione in avvio di partita. Ma procediamo con ordine: il 9 febbraio a Milano è la classica giornata invernale, fa freddo e scende una pioggerellina fine, di quella che ai bambini viene descritta come le “lacrime degli angioletti”. E di bambini verso San Siro ce ne sono tanti, chi con la sciarpa nerazzurra, chi con i vessilli rossoneri. Arriviamo un po’ prima, perché è sempre bello godersi l’atmosfera del derby e annusare la tensione. “Sai cosa ci vorrebbe stasera?”, chiede un tifoso interista al suo “collega”. “Una bella doppietta di Brozović. O se no sai cosa? Un bel gol di De Vrij. Da quanto non segna il muro olandese? Quest’anno ne ha fatti pochi…”. Che dire? A questo tifoso nerazzurro il premio Nostradamus. Ma la Vox Populi è davvero competente: “Ci può salvare solo Ibra. Speriamo stia bene fisicamente, perché è la nostra unica speranza”, gli fa eco un tifoso rossonero. Vero a metà, perché l’altra freccia all’arco del Milan è un signor allenatore, uno che si presenta al derby con quattro giocatori d’attacco, un pressing ultraoffensivo e un’intensità straordinaria che, almeno per 45’, fa perdere la bussola ad una squadra con diciannove (sì, diciannove!) punti in più in classifica. C’è chi parla di un Milan più difensivo perché Calhanoglu viene preferito a Leao, ma a destra c’è Castillejo e a sinistra – a sorpresa – un certo Rebić. Insieme al turco in marcatura su Brozović, il laterale croato è la mossa vincente dei primi 45’. Poi, ad inizio ripresa, proprio Calhanoglu si dimentica di seguire Brozović

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sull’azione dell’1-2 e da quel momento tutto cambia, ma questa è un’altra storia. Tornando a noi, entriamo in un San Siro ribollente di entusiasmo, attesa e tensione. Sull’ascensore incrociamo il bomber David Suazo che sbuffa, è teso anche lui come se la dovesse giocare. Il figlio lo guarda stranito. Per altro, ironia della sorte, incontriamo proprio l’honduregno, che qualche anno fa fu protagonista di un clamoroso derby di mercato. Promesso all’Inter, ma venduto da Cellino al Milan. Anche in quel caso, alla fine, la spuntarono i nerazzurri per volontà dello stesso giocatore che alla fine non firmò il contratto rossonero. Dovevamo capirlo, anche questo era un segno del destino su come sarebbe andata la gara. Ma lo stadio è pieno di VIP, come il CT della Nazionale Mancini, praticamente tutta la schiera degli gli ex interisti del Triplete e, ovviamente, la dirigenza rossonera, che in quanto a successi in bacheca non è da meno. Il derby non se lo vuole mai perdere nessuno, tanto meno uno così impor-

INTER-MILAN 4-2 Stadio San Siro – Milano INTER (3-5-2): Padelli; Godin, de Vrij, Skriniar; Candreva (80’ Moses), Vecino, Brozović, Barella, Young (94’ Biraghi); Sanchez (72’ Eriksen), Lukaku (Handanović, Stanković, D’Ambrosio, Ranocchia, Asamoah, Borja Valero, Agoume, Sensi, Esposito). All. Conte MILAN (4-4-1-1): Donnarumma; Conti, Kjaer, Romagnoli, Hernandez; Castillejo (80’ Leao), Kessié (81’ Paquetà), Bennacer, Rebić (84’ Bonaventura); Calhanoglu; Ibrahimović (Begović, A. Donnarumma, Musacchio, Gabbia, Calabria, Laxalt, Saelemaekers, Biglia, Brescianini). All. Pioli MARCATORI: 40’ Rebić (M), 45’ Ibrahimović (M), 50’ Brozović (I), 52’ Vecino (I), 60’ de Vrij (I), 92’ Lukaku (I) ARBITRO: Maresca AMMONITI: Vecino, Skriniar, Barella, Lukaku; Kessie NOTE: 75.817 spettatori


tante. Curiosità nella curiosità: a bordo campo ci sono anche due Stanković, uno fa il tifoso insieme all’amico Materazzi, l’altro siede sulla panchina nerazzurra. Si chiama Filip e si dà il caso che sia proprio il figlio di Dejan. L’infortunio di Handanovic gli spalanca le porte di una serata magica, che difficilmente dimenticherà. In porta, infatti, ci va Daniele Padelli: la sua partita non sarà indimenticabile, ma dopo tre anni di panca, il suo primo derby da titolare (alla veneranda età di 34 anni) non se lo scorderà comunque. Proprio l’estremo difensore nerazzurro è uno dei primi a calcare il campo di San Siro, accolto da un caloroso applauso d’incoraggiamento dei suoi tifosi. Non può sperare in altrettanto affetto Ibrahimovic, che ovviamente viene subissato di fischi dei suoi ex tifosi non appena il suo testone spunta dal tunnel degli spogliatoi. Zlatan fa finta di nulla, ma dopo il 2-0 avrà modo di vendicarsi posando da “Dio”, come lui stesso ha ribattezzando la sua esultanza, proprio sotto la sua vecchia Curva Nord. Il problema del Milan è che la benzina del 38enne svedese finisce troppo

presto. Chissà, magari con un Ibra di dieci anni in meno sarebbe finita diversamente. I se, però, nel calcio non fanno gol. Ibra ne fa uno, ne fa fare un altro e colpisce anche un palo, non si può dire che il suo non l’abbia fatto. Ma anche qui stiamo anticipando i tempi. Eravamo ancora alla tensione pre-gara, con le tifoserie che si apprestavano a giocare la loro partita. Le coreografie sono pronte, prima però c’è uno spettacolo di luci da far andare in scena. San Siro diventa completamente buio. Ci pensano i tifosi rossoneri a riaccenderlo con l’aiuto dei loro smartphone e la Curva Sud si illumina a giorno con la scritta “Inter merda”. Ci scuseranno i suscettibili, ma è cronaca. Un’iniziativa non elegante, ma che non si può non definire “geniale” in ottica di sfottò. La sfida sugli spalti continua con una scenografia interista che ristabilisce la verità – ovviamente

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reportage inter-milan secondo la visione nerazzurra – della battaglia di Sant’Ambrogio con serpente e Diavolo (che fa il verso alla coreografia dei cugini esposta all’andata): “Nella tua blasfema versione della leggenda – il messaggio dei tifosi nerazzurri recapitato ai dirimpettai - qualcosa non torna. La storia di Milano insegna, Sant’Ambrogio sconfisse il diavolo che nella colonna perse le corna”. Per chiudere la scritta “Vipereos mores non violabo”, motto della Dinastia Visconti usato allo scopo di ribadire la supremazia cittadina. Dal primo al terzo anello, praticamente un colossal. Dall’altra parte, invece, si accusano i “colleghi” di zabetteria (per i poco avvezzi, l’arte di farsi gli affari altrui e di sparlarne) con un disegno in stile fumettistico. Sempre un gran bel vedere: ancora una volta i tifosi rossonerazzurri offrono uno show nello show. E infatti i tantissimi tifosi stranieri, decisamente meno abituati a questo genere di spettacoli rispetto a quelli autoctoni, restano letteralmente a bocca aperta. È il momento dell’inno nerazzurro, che come al solito raggiunge l’apice di decibel alla strofa “Io non rubo il campionato e in Serie B non son mai stato”. Ogni riferimento non è puramente casuale. La partita inizia, ma dei diciannove punti di distacco non c’è nemmeno l’ombra. Il Milan stordisce gli avversari, li inibisce con un

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pressing a tutto campo, li sfianca per poi colpirli nel finale dei primi 45’, prima con Rebiće poi con Ibra (per altro autore anche dell’assist sul primo gol). È apoteosi rossonera. Dei cugini non c’è traccia. Lukaku prova a strapparsi le vesti come Hulk, ma i compagni sembrano addirittura impaurirsi ulteriormente davanti a così tanta veemenza. Il condottiero Conte in panchina capisce il momento di difficoltà e guida pure i raccattapalle: “Vai piano, tienila lì quella palla, facci andare negli spogliatoi a riordinare le idee”, sembra dire alla ragazzina fin troppo solerte a bordo campo. E ancora una volta il mister nerazzurro ci ha visto lungo, perché dalla pancia di San Siro esce un’altra Inter per il secondo tempo: Brozović, Vecino, De Vrij ribaltano tutto. L’ebbrezza è tanta, al punto che anche lo speaker perde le misure: il secondo gol lo attribuisce a Lukaku anziché a Vecino (e lo stadio gli va dietro celebrando il belga anziché l’uruguagio), poi


sostituisce Sanchez con Moses (ma in realtà entra Eriksen, che da lì a poco rischia di buttare giù la traversa con un missile su punizione da cinquanta metri!). Poco male, perché alla fine ci pensa proprio Hulk Romelu a mettere la ciliegina sulla torta saltando sulla testa di Kjaer. Al triplice fischio è un delirio nerazzurro, estasi collettiva, tifosi in lacrime, bambini sollevati come trofei. Lukaku si inginocchia a terra e dalla gioia rischia di spaccarsi la mano tanto è la forza con cui tira pugni al terreno di San Siro. Gli spalti ballano al ritmo di “Chi non salta rossonero è”. Fa lo stesso la squadra sotto la Curva Nord proprio laddove poco prima Conte aveva sfogato tutta la tensione, andando anche a fare il pieno di applausi. Il passato da nemico è ormai soltanto un lontano ricordo, ora è proprio lui ad incarnare l’interismo più acuto. Prima di svuotarsi, la curva la Nord non ha alcuna pietà dell’avversario e intona un “Non vincete mai” che sa di vendetta, visto che era il coro preferito dei cugini quando dominavano il giuoco (come lo pronunciava il Cavaliere), l’Europa e il Mondo. Ri-

maniamo ancora un po’ a goderci lo spettacolo, perché serate come queste per chi ama il calcio vanno vissute fino all’ultimo respiro. Restiamo praticamente gli ultimi sugli spalti di San Siro, finché un inserviente gentilissimo ci chiede la cortesia di lasciargli fare il suo lavoro. Quasi dispiace lasciare la postazione, ma di fatto lo spettacolo si è solo trasferito. I tifosi nerazzurri continuano a festeggiare sulle rampe che li portano dal secondo anello fino al piazzale. I cori non sono proprio da educande, ma vabbè, ci sta, fa parte del copione. “Non ci credo, che goduria. Non avrei scommesso un euro a fine primo tempo”. Già, forse nessuno. Eppure, è successo davvero, un’Inter epica (proprio come “EpicInter”, il titolo della Gazzetta dello Sport del lunedì) ribalta tutto e fa la storia. Al Milan e ai tifosi rossoneri non resta che leccarsi le ferite. Fuori da San Siro partono addirittura i caroselli dei cugini nerazzurri. E, guarda caso, riprende a scendere quella pioggerellina fine. Questa volta, però, è il Diavolo a versare lacrime amare.

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focus on

Portiere goleador di Daniele Perticari

PORTIERE GOLEADOR 36


Sono nati per parare ma, a volte, si trasformano in attaccanti…

U

n pallone. Che è quasi sempre l’ultimo. E il traffico, bestiale, delle palle inattive del duemila venti. Non ci sono molti altri scenari capaci di accogliere quella che è la storia che vogliamo raccontarvi, quella di un ragazzo cresciuto come attaccante, divenuto poi portiere, che con un balzo neanche troppo felino, Madre Natura gli ha dato già sufficienti centimetri di altezza e spalle, è riuscito a far sì che ancora una volta, di sicuro non l’ultima, alla voce “Marcatori” di una partita ufficiale di un nostro campionato, sia finito un portiere. La zuccata del pari di Ivan Provedel al Del Duca, minuto 95’ di Ascoli-Juve Stabia, è solo l’ultima di una lunga serie di gesti tra il tecnico ed il disperato, che ridanno speranza a chi non vuole rassegnarsi al fatto che il calcio di oggi sia quasi esclusivamente tatticismo e atletismo. Sì, c’è ancora spazio per un po’ di sana follia, non sappiamo quanto lucida e indipendentemente dal colore della maglia adorata, è bello poter pensare che in un momento qualsiasi, di una partita qualsiasi, gli equilibri possano essere mandati all’aria da uno che, dentro l’area avversaria, dovrebbe andare solo a fine partita per salutare il suo dirimpettaio. Dovrebbe. Di precedenti con portieri capaci di andare a segno è pieno ogni almanacco del calcio, eppure ci sono piccole storie e curiosità che andrebbero raccontate, scovate, capite e soprattutto viste con una lente d’ingrandimento diversa dalla semplice ricerca del risultato. È strano: i portieri goleador più famosi provengono, ovviamente, dal Sudamerica (Rogerio Ceni- uno 120 gol in

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FOCUS ON

Portiere goleador

CI PENSO IO Proprio al Cino e Lillo Del Duca, ormai diciassette anni fa, un altro portiere salì agli onori della cronaca per un gol. Ascoli-Catania del campionato 2002-2003 fu infatti decisa da un calcio di rigore realizzato dall’argentino Christian Sebastian Cejas, estremo difensore bianconero che, sul risultato di 1-1, si incaricò di calciare dal dischetto andando a “sottrarre” l’incombenza ad un vero maestro e “totem” nel Piceno, il capitano Gaetano Fontana. “Avevo da poco sbagliato un penalty sul risultato di 1-0 per noi – ci ha raccontato l’ex regista dell’Ascoli, oltre che di Napoli e Fiorentina – ed il Catania dopo poco pareggiò i conti. Per me quella partita arrivò al termine di una settimana davvero difficile dal punto di vista personale, per alcuni problemi che la resero davvero tormentata. Sebastian arrivò nella sorpresa generale, anche mia devo dir la verità, e mi disse fermamente ‘Ci penso io’. E io, consapevole del momento che stavo vivendo, mi sono fatto da parte. L’esecuzione non è stata, a dirvi la verità, perfetta. Ma la palla finì in fondo al sacco. Castellazzi non riuscì neanche a toccarla e quello fu il gol decisivo”. Oggi Fontana è un allenatore, come avrebbe preso da tecnico una situazione non pianificata come quella? “C’è da dire che ai tempi le gerarchie erano stabilite già da due anni e c’era grande buon senso da parte di tutti. Da tecnico, però, non accetterei nessuna insubordinazione. Perché gli allenatori vengono giudicati per le loro scelte e pianificano tutto, anche la ‘scaletta’ dei calciatori che devono tirare i rigori. Ma nel mio caso andò diversamente: Seba ebbe grande tranquillità, capì il mio stato d’animo. E tutto andò per il verso giusto…”.

una vita al São Paulo- José Chilavert, Rene Higuita su tutti), ma non solo. Il primo nome “europeo” è ovviamente quello di Hans Jorg Butt, vicecampione del mondo (da terzo portiere) con la maglia della Germania al mondiale del 2002, capace di timbrare il cartellino ben 32 volte, tutte su calcio di rigore. La vera curiosità, però, è che il suo score di 3 reti in Champions League, realizzate progressivamente con le maglie di Amburgo, Bayer Leverkusen e Bayern Monaco, siano state messe a segno tutte e indistintamente contro la Juventus. La prima, battendo Van der Saar, le altre due violando la rete di Gigi Buffon. Non sarebbero, ma qui il condizionale è d’obbligo, le uniche occasioni in cui il campione del mondo e capitano (oddio, a noi chiamarlo “ex” non riesce proprio, finché indosserà i guantoni con la maglia della Juventus) della Vecchia Signora ha dovuto raccogliere la palla in fondo al sacco per “merito” di un collega. Anche se i replay post-partita chiusero ogni sorta di discussione: la mega carambola che por-

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tò all’1-1 Inter-Juventus del 19 ottobre 2002, non vide Francesco Toldo essere l’ultimo a toccare la sfera. Il gol fu attribuito a Christian Vieri con buona pace di chi avrebbe visto Gigi in testa alla classifica speciale dei “portieri battuti dai portieri”. I precedenti in Italia, comunque, non mancano. Ma siamo sicuri che a voi non interessi un elenco dei gol italiani di questo genere, piuttosto ci piace raccontarvi i gesti tecnici. Perché soprattutto per quelli della “nuova era” calcistica, quella fatta di schemi provati e riprovati, coppie stabilite già durante la settimana e movimenti codificati, un po’ di magia e di sana follia ce l’hanno. Al di là di Provedel, il cui assoluto merito è stato quello di credere su di un pallone forte, calciato perfettamente da Jack Calò, e sui suoi centimetri (oltre che sull’uscita un po’ incerta di Leali dell’Ascoli), non è difficile dare ad Alberto Brignoli il premio di gol più bello in assoluto tra quelli che si sono registrati nella massima serie e anche in cadetteria. L’incornata da almeno quindici metri con palla ar-


rivata in rete a parabola, alle spalle di Gigio Donnarumma in Benevento-Milan del 2017, oltre ad essere valso il primo punto del suo Benevento in Serie A dopo 14 (avete letto bene, anche se sicuramente lo ricorderete) sconfitte consecutive, è stato veramente un mix di tecnica individuale, potenza, fortuna, opportunismo e magia. Un tuffo perfetto, una deviazione perfetta, un tempismo perfetto, in barba a Musacchio che ha provato ad anticiparlo. Sicuramente il più bello di tutti, anche se le reti di Massimo Taibi e Michelangelo Rampulla, rispettivamente in RegginaUdinese ed Atalanta-Cremonese, sono comunque cariche di significati. Quella dell’ex portiere, tra le altre, del Manchester United, è bella perché la palla colpita di testa, nei secondi di recupero della partita del Granillo, termina in gol “dritto per dritto” come direbbe il simpatico telegiornalista Mario inscenato da Maccio Capatonda nell’omonima serie tv. Quello di Rampulla, invece, perché arriva dopo anni di “silenzio” dal punto di vista delle scorribande dei portieri nelle aree avversarie. Una zuccata altrettanto bella, da vero rapinatore, sul secondo palo, pronto a trasformare in oro un traversone dalla destra. Pasciullo, della Dea, all’inizio prova a guardarlo con la coda dell’occhio, ma niente da fare. Il portiere grigiorosso spacca il secondo e batte Ferron, è il 23 febbraio del 1992 e sulle maglie dei calciatori non ci sono ancora i cognomi. Non si tratta dei primi gol di un portiere in Serie A, però, perché quello che poi sarebbe diventato il fedele dodicesimo di Angelo Peruzzi alla Juventus ha due predecessori importanti: il primo, più vicino nella linea temporale, è Antonio Rigamonti, capace di andare a segno 6 volte su calcio di rigore (3 in Serie A, 3 in Serie B) con la maglia del Como a metà degli anni ‘70. Ma la vera storia curiosa che abbiamo scovato negli archivi è quella di Lucidio Sentimenti, un nome-garanzia per quel che riguarda gli estremi difensori. A ridosso della Seconda guerra mondiale era del tutto incon-

sueto trovare un portiere andare sul dischetto in una partita di campionato, eppure lui riuscì per ben cinque volte ad esultare per un gol. Basterebbe già così per guadagnarsi un posto nella storia, e invece no. Uno di questi cinque rigori, calciato in un Napoli-Modena del 1942, finì alle spalle indovinate di chi? Di suo fratello Arnaldo, portiere dei partenopei reduce da nove (nove!) parate consecutive dal dischetto. Risalendo la linea temporale va ricordato anche il bel gol di Marco Amelia in Partizan Belgrado-Livorno di Europa League, ma non solo. Perché anche la Serie C italiana ha regalato giornate di gloria ai “guardameta”. Simone Aresti, portiere cresciuto nel Cagliari, ha mostrato fiuto da vero bomber con la maglia del Savona. Un gol su rinvio e uno in spaccata sul primo palo da vero padrone dell’area di rigore in un match contro il Renate. Non era un rinvio, quello di Mirko Bellodi, ma una punizione che in MantovaFiorenzuola finì nella porta di Gianluca Pegolo, per un’altra esultanza italica di un portiere goleador. Storie ognuna da raccontare, come quelle di Peter Shilton, Edwin Van der Saar, Claudio Bravo, Artur Boruc, Bruce Grobbelaar, Claudio Garella, Fernando Muslera, Jens Lehmann, Peter Schmeichel e oltre cento altri colleghi (fate un salto su Wikipedia, non ve ne pentirete!) tra i quali gli italiani Giuseppe Valsecchi (che in Salernitana-Barletta del ‘73-’74 sbaglia un rigore ma segna sulla respinta) o Enzo Magnanini (autore di due gol con la maglia del Parma negli anni ’60). Oppure Andrea Paroni, che andando a segno in Virtus Entella-Casale ha permesso ai liguri di giocarsi la finale Playoff per l’accesso alla Lega Pro, fino ad arrivare a Mirko Pigliacelli, portiere dell’CSU Craiova divenuto rigorista due stagioni fa. Portieri che fanno parte della schiera di quelli che, per una volta, il gol lo hanno segnato, piuttosto che subìto o evitato. Perché in fondo, la vera gioia del calcio, per tutti, è urlare a squarciagola per un gol. Da sempre.

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Addio

Pietro Anastasi

40 Credit Foto - Liverani


“B uo ng ior no P iet ro , sc us i il di st un gio va ne gio rn al ist a. S o ch e è imur bo … S on o Fa br iz io P on cir oli , de di ca rm i du e mi nu ti de l su o tem pe gn at o ma vor re i sa pe re se pu ò N on sa ra nn o le es at te pa ro le ch e po pe r un a br evi ss im a in ter vis ta …” . con ta tta to, tel efo ni ca me nt e, P iet ho us at o la pr im a vol ta ch e ho la mi a evi de nt e ag ita zi on e e l’i nc rero A na st as i ma , vi po ss o con fer ma re pa rt e di un ver o e pr op ri o mi to. di bil e tim or e di un se cco ri fiu to da Io , un gio va ne ra ga zz o ch e mu ove va i pr im i pa ss i ne ll’ af fa sc in an te ma com pl ica to me st ier e de l gio rn al as so lu to. N on ri cor do le mi e, tit ist a sp or tiv o, lu i, un fu or icl as se ma i la su a ri sp os ta : “G ua rd i, soub an ti, pa ro le ma no n di me nt ich er ò S e mi la sc ia un su o re ca pit o, la no im pe gn at o in qu es to mo me nt o. ci av evo pr ova to… U n ge nt ile “no , ri con ta tto io ap pe na mi lib er o”. B eh , M e lo sa re i do vu to as pe tta re … Ngr az ie” … Q ua lch e mi nu to più ta rd i, un col ien t’a ffa tto … ar tic olo e mi di ce: “F ab ri , c’è un leg a mi st ra pp a da lla st es ur a di un an cor a tem po di sm ar th ph on e, Pcer to P iet ro su lla 2… ”. N on er a con sid er at o da mi o pa dr e un su pe iet ro A na st as i, un ca mp ion e ver o, re ro e, mi av eva ri ch ia ma to com e pr om es so … U n pic col o an ed do to ch e di mo st ra se mp re tem po pe r tu tti , an ch e pe r la gr an de zz a di un uo mo ch e av eva un a pic col a re al tà gio rn al ist ica . il più in sig ni fic an te ra ga zz in o di D op o qu ell a pr im a in ter vis ta , ce se nt ir e un pa re re au tor evo le su ll’ ne so no st at e ta nt e al tr e. S e c’e ra da er a un o de i pr im i de lla mi a “li st aar go me nt o ca lci o, P iet ro A na st as i ma la tti a, ho pr efe ri to no n di st ur sp eci al e”. S ap ut o de lla su a La su a sc om pa rs a mi ha ra ttr istba rl o. N on mi se mb ra va ele ga nt e… un ca mp ion e in ca mp o, so pr at tu tto at o mo lti ss im o. O ltr e ad av er pe rs o uo mo di un a ge nt ile zz a pr ez ios a e ci ha sa lu ta to, tr op po pr es to, un il mi gl ior A na st as i su l re tta ng sin cer a. N on ho po tu to am mi ra re olo ver de , lo ri cor do ne lla su a cr ep us col ar e av ven tu ra con la ca sa av ut o il pr ivi leg io di pa rl ar e di ca cca bia nc on er a de ll’ A sc oli ma ho lci o con P iet ro , un uo mo ch e no n di me nt ich er ò ma i! Q ue st a be lli ss im a fot o cr ed o di ca mo lto di ch i sia st at o P iet ro … C on af fet to Fa br iz io

Grazie Pietro


di Stefano Borgi

del

LEGGENDE calcio Rudi Voeller

Rudi Voeller, così bravo, così forte, che “riempiva” l’Olimpico…

Credit Foto: Liverani

ER TEDESCO CHE... “STÀ A GIOCÀ DA SOLO”

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“V

ola, tedesco biondo vola, sotto la curva vola, il cuore della Roma... tedesco vola”. Così cantava la curva sud, sulle note de “la notte vola” della Cuccarini, quando Rudi Voeller (ribattezzato appunto, il tedesco volante) correva verso i tifosi, dopo un gol, dopo un assist, comunque dopo una prodezza della quale solo lui era capace. Eh già perché, Rudi Voeller aveva un bagaglio tecnico (e vedremo anche umano) non indifferente. Addirittura unico nel suo genere. Un esempio? Il doppio passo. Lo inventò Amedeo Biavati a cavallo degli anni ‘40, anche se qualcuno dà la primogenitura a Mumo Orsi, oriundo argentino campione del mondo nel ‘34, e Rudi Voeller ne è stato probabilmente l’interprete migliore. Uno dei pochi che faceva la finta e la portava a termine, lasciando l’avversario sul posto. Fermo, basito. In molti si sono compiaciuti dell’eleganza di quel gesto, della sua armoniosità, così diversa da tutti gli altri dribbling. Ma difficil-

mente facevano altrettanto. Da quel momento cominciava una sorta di favola, che mandava in estasi il pubblico romanista. E a proposito di favole... Rudi Voeller nasce ad Hanau il 13 aprile 1960, il paese natale dei fratelli Grimm. Ahimè, nonostante il DNA condiviso, nessuna delle loro fiabe si attaglia al carattere del tedesco: Rudi Voeller non è stato una Cenerentola del calcio (anzi...) e neppure di indole ingenua come Biancaneve. Tanto meno uno tra Hansel e Gretel (non ci risulta che il padre facesse il taglialegna), oppure il “Principe ranocchio”. A maggior ragione non sarebbe mai stato Cappuccetto Rosso (che nel suo caso sarebbe stato giallorosso) vista la fine che fa il lupo... o lupa, che dir si voglia. MI MANDA MARADONA RRudi Voeller (all’anagrafe Rudolf) arriva a Roma nell’estate del 1987, ed era già vice campione del mondo. Nel suo palmares il gol del provvisorio pareggio nella finalissima contro l’Argentina, da vero opportunista, sfruttando un’asse curiosamente romanista: ponte di Berthold, testa di Rudi e Pumpido è battuto. Poi ci penserà Valdano a mettere d’accordo tutti, su assist di Maradona, unico ed incontrastato mattatore della competizione. In precedenza, Rudi aveva militato nei Kickers di Offenbach, ad appena 20 anni approda al Monaco 1860, per poi esplodere nel 1982 nel Werder Brema dove, nella prima stagione, sarà capocannoniere con 23 gol. Era la squadra di Otto Rehagel, di Bruno Pezzey (un fortissimo centrale austriaco, oggi purtroppo scomparso), Miroslav Votava e Franck Neubarth, un undici che in quegli anni (appena neopromosso) raggiungerà costantemente l’Europa. La maglia del Werder Brema coincise anche con l’esordio in nazionale, datato 17 novembre 1982, all’indomani della sconfitta nella finale spagnola contro l’Italia. Con i bianchi di Germania Rudi ha vinto un mondiale nel 1990 (nella sua Roma), conquistando il rigore decisivo trasformato da Brehme. È stato vice campione del mondo

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LEGGENDE calcio

Rudi Voeller

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1990

Totti. Successiva a quella di Eriksson, precedente a quella di Mazzone. Contemporanea al sevince Coppa UEFA e condo (e meno scintilCoppa Italia con la Roma lante) Liedholm, ed Ottavio Bianchi. Sacrificato presenze in nazionale, poi sull’altare di Vujadin Boskov che non riteneva il gol realizzati tedesco funzionale al suo progetto tecnico. Come reti con la Roma vediamo grandi nomi, almeno in panchina, da allenatore della però risultati... In campo succedeva altrettanto: nazionale è vicecampione Tancredi, Collovati, Brudel mondo no Conti, Manfredonia, Boniek, Pruzzo, grandissimi nomi ahi loro a fine carriera. Figure buone ma intermedie (parliamo d’età, ma anche di valore) MEGLIO RUDI come Giannini, Gerolin, O MEGLIO ROMA? Nela, Carboni, Desideri e Ci spieghiamo meglio... Di Mauro. Bidoni d’autore Lo abbiamo detto, Rudi come Andrade e Renato Voeller arriva nella CapiPortaluppi (da cui lo stritale da vicecampione del scione dei laziali: “forza mondo. Mentre è nella Roma, forza lupi, son torcapitale vince un monnati i tempi... cupi”). Giodiale. Va via dalla capitale vani emergenti come Pee disputa una finale euroruzzi, Cappioli, Rizzitelli, pea, un’altra finale monScharchilli e Piacentini. diale, vince uno scudetto Ripetiamo il dibattito è ed una Champions Leaaperto, però l’impressiogue col Marsiglia. E menVoeller alza, con orgoglio, la Coppa del Mondo ne era che Rudi Voeller tre gioca nella Roma? Il vinta nel 1990 fosse capitato nel posto minimo sindacale di una giusto al momento sbagliato. Tutt’altra cosa, Coppa Italia ed una finale di Coppa Uefa. Tutinvece, il rapporto con la città. Con i romani, to nell’anno di grazia 1991. Il dilemma è: uno con i romanisti, con la gente comune. Questo, come Rudi Voeller era sprecato nella Roma di in qualche modo, andava a compensare il gap quei tempi? Il dibattito è aperto. Tanto che in professionale, però vuoi mettere? Comunque curva riecheggiava il motto: “ahò, er tedesco lui stesso ha sempre detto: “cinque anni a stà a giocà da solo”. Come a dire... Voeller è Roma, i più belli della mia carriera”, i tifosi lo troppo per questa squadra. Del resto, era una consideravano uno di loro, pronto a prendersi Roma a cavallo tra l’era Liedholm e l’epopea nel 1986, vice campione d’Europa nel 1992. Soprattutto ha messo insieme 90 gettoni realizzando 47 gol, 4° cannoniere di sempre dopo gli irraggiungibili Klose e Gerd Muller (rispettivamente 71 e 68), a due lunghezze da Podolski. Alla pari con Jurgen Klinsmann. E, particolare da non sottovalutare, sopra a Karl Heinz Rummenigge, autentica icona del calcio tedesco e mondiale. Insomma, Rudi Voeller in patria non si è fatto mancare niente. Mentre con la maglia della Roma...

campione del mondo con la Germania

1991

90

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2000


la squadra sulle spalle. In qualsiasi momento. Rudi ci metteva il cuore, e questo la “sud” gliel’ha sempre riconosciuto. IL PUPILLO DI VIOLA Eppure le cose non erano cominciate bene. Un gol alla seconda giornata contro il Cesena (20 settembre 1987), poi l’infortunio ed un rientro affrettato. Troppo affrettato: “Stavo male. Dicevano che la Roma aveva comprato un giocatore rotto. Questo mi ferì molto. Se sono rimasto alla Roma lo devo al presidente Dino Viola”. Voeller, da tedesco orgoglioso e consapevole del suo valore, chiese la cessione già a gennaio: “Ci ho provato, ma il campionato italiano non fa per me”. Per fortuna intervenne l’uomo della provvidenza, il presidente Viola, che prese le difese del suo pupillo e gli disse: “Tu non ti muovi da qui”. E finalmente il tedesco cominciò a volare. Il primo squillo è contro il Partizan di Belgrado: tre pali ed un gol. Quasi a dire... sono arrivato. La prima stagione si chiude con 28 presenze e 5 gol. La seconda (‘88-’89) Rudi totalizza 42 gettoni e 15 gol, quella successiva 38 partite ufficiali e 16 gol. C’è da dire che questa era la Roma del “mezzo Olimpico”, con uno stadio “working progress” (si gioca, infatti, al Flaminio per i lavori di ristrutturazione di Italia ‘90) e la squadra soffre, fa fatica. La migliore di Voeller in giallorosso è però la stagione ‘90’91. Il tedesco ha appena spento 30 candeline, un anno prima ha vinto da protagonista il mondiale italiano, Ottavio Bianchi in panchina chiude il cerchio per lui e per la squadra. Alla fine, le presenze saranno 52 e le reti 25, delle quali 10 in coppa Uefa. Memorabile il gol nella semifinale di ritorno contro i danesi del Brondby: mancano tre minuti alla fine, tiro mancino di Desideri, respinge il portiere, si avventano sul pallone Rudi e Ruggero (Rizzitelli), ma è il tedesco a dare la zampata finale. La panchina si catapulta in campo, l’arbitro (lo spagnolo Soriano Aladren) è costretto ad allontanare il massaggiatore Alicicco, portandolo fuori di peso. Certo la sconfitta in finale contro l’Inter

Voeller ha giocato e allenato la Roma, una delle squadre del suo cuore

di Trapattoni fa ancora male, ripensando alla gara di ritorno quando un gol di Rizzitelli non bastò a ribaltare (quantomeno a pareggiare) lo 0-2 dell’andata. A parziale consolazione arriva la Coppa Italia, vinta in finale contro la Sampdoria fresca campione d’Italia, per un “double” mancato che avrebbe fatto storia. In quel trofeo c’è la firma anche e soprattutto di Rudi Voeller, autore di due gol nel doppio confronto: entrambi su rigore, uno all’Olimpico, uno Marassi. GRAZIE RUDI L’ultima stagione, come spesso capita, vede il “sunset boulevard” italiano (e precisiamo... italiano) del campione. 37 presenze ufficiali, appena 7 gol, tutti in campionato. Magra consolazione gli ultimi, che servirono alla Roma per qualificarsi all’ennesima Coppa Uefa. Chi, però, pensava che la carriera di Voeller fosse al capolinea si sbagliava di grosso. Certo

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LEGGENDE calcio

Rudi Voeller

non aveva la forza dei 30 anni, l’energia dei 25, l’entusiasmo dei 20, ma... il doppio passo continuava ad “entrare”, il colpo di testa era ancora da “tedesco volante”, la voglia di arrivare, di sbalordire... era quella di sempre. Da calciatore arriva una finale europea, una “Ligue 1”, una Champions col Marsiglia. Da allenatore una finale mondiale persa col Brasile di Ronaldo. A proposito, ci ha provato anche con la Roma... in panchina. Stagione 2004-2005, Cesare Prandelli lascia causa malattia della moglie, subentra Rudi Voeller. Quattro partite, una vittoria, un pareggio, due sconfitte, quella decisiva a Bologna per 3-1. Quindi il cambio con Del Neri. Dal 2005 è tornato al Bayer Leverkusen con la carica di dirigente. Che dire

ancora di Rudi Voeller? Forse che Thomas Bhertold (anch’esso proveniente dalla zona di Francoforte) lo chiamava “Thante Kate” (Zia Kathy), soprannome che i bambini davano alle signore con la permanente grigia? Oppure che Rudi Voller è una delle tre persone, insieme a Mario Zagallo e Franz Beckenbauer, ad aver raggiunto una finale mondiale sia da calciatore che da allenatore? E ancora... Rudi Voeller, dal 2014, è inserito nella “Hall of Fame” della società giallorossa. Una sorta di marchio, di patente d’immortalità cucita addosso dal popolo romanista. Per noi basta e avanza. E allora, parafrasando l’inno di Antonello Venditti, diciamo: “Grazie Rudi, che ci hai fatto piangere, abbracciati ancora”.

MANUEL IL COMPAGNO DI SQUADRA Gerolin ha condiviso con Voeller quattro dei cinque anni che Rudi ha trascorso alla Roma. Chi meglio di lui può raccontarci il tedesco volante? “Innanzitutto, ricordo il carattere molto poco teutonico. Nel senso... Rudi era un allegrone, faceva scherzi e li riceveva. Ricordo che io, l’ultimo anno che abbiamo giocato insieme, vedendo che la capigliatura cominciava ad imbiancarsi, gli dicevo: “cos’è, il nuovo colore della Mercedes? Grigio metallizzato?” E lui rideva, anche perché non ero l’unico a prenderlo in giro. Ricordo Berthold che lo faceva morbido...” Il suo ricordo da calciatore... “Calciatore completo, e non è un modo di dire. Molto tecnico, ottimo in acrobazia (non a caso lo chiamavano il “tedesco volante”), si adattò subito al campionato italiano. Anche se la sua prima stagione fu difficoltosa per un infortunio. Poi però, in un attimo, diventò uno di noi. Lo vedevi in partita, ci sentiva quasi come se fosse nato a Trastevere. E poi era molto furbo in area di rigore. Intendiamoci, non parlo di scorrettezza, però... una spintina, un calcetto... Spesso stuzzicava l’avversario, per poi anticiparlo e fare gol”. Ci dica del doppio passo... “Beh, io ho giocato con tanta gente, e tanti di loro hanno provato a fare il doppio passo. Ma molti rimanevano lì, mulinavano le gambe senza avanzare, senza saltare l’uomo. Rudi, invece, faceva quel tipo di dribbling e ti saltava. Anche in allenamento era difficilissimo contenerlo. Io lo chiamo il “doppio passo orientato”, cioè finalizzato a creare superiorità numerica. In questo Rudi era il numero uno”. Nel ‘90 torna a Roma da campione del mondo. Differenze col Rudi di prima? “Nessuna. Anzi... era più amicone e giocherellone di prima. Era lo stesso trascinatore, con una certa consapevolezza in più, ma a noi dava tanto. Non a caso, quella stagione (‘90-’91 n.d.r.) vincemmo la coppa Italia ed arrivammo in finale di Coppa Uefa. Rudi, poi, l’ho rivisto a Leverkusen in una trasferta europea con l’Udinese. L’ho ritrovato quello di sempre, una grande persona”.

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“In molti si sono compiaciuti dell’eleganza del suo doppio passo, della sua armoniosità, così diversa da tutti gli altri dribbling”

A SINISTRA: Insieme al suo grande amico e compagno di nazionale Matthaus IN BASSO: Un’istantanea di Voeller con la casacca della Germania nella finale del Mondiale del 1990 contro l’Argentina

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In Turchia, il Besiktas è un club unico. La sua maglia un segno distintivo…

LE AQUILE NERE

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ittà assurda, città strana, così la definì Guccini. Città dai tanti nomi, crocevia di imperi, religioni e continenti, Istanbul è senz’altro la capitale calcistica della Turchia. In realtà le cronache narrano che la prima partita di calcio nell’Impero Ottomano fu giocata a Salonicco nel 1875 (al tempo la città greca faceva parte dell’Impero), da britannici residenti in città. Due anni più tardi il calcio approda a Smirne

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(Izmir in turco e Smyrna in inglese), importante porto sul Mar Egeo, qui nel 1894 venne fondato il Football Club Smyrna, che viene considerata la prima squadra di calcio turca. Al tempo le autorità locali impedivano ai cittadini ottomani di praticare il calcio, le partite di football vedevano come protagonisti, oltre ai britannici, i membri delle minoranze greca, armena ed ebrea. Il primo turco a cimentarsi nel gioco del football fu Fuat Hüsnü Kayacan,


un giovane cadetto navale di stanza a Smirne nel 1898. Nel frattempo, alcuni inglesi avevano portato il calcio a Istanbul e nel 1897, 1898, 1899 e 1904 selezioni delle due città si incontrarono, la vittoria arrise sempre alla squadra della città egea. Nel 1901 Fuat Hüsnü Kayacan fondò insieme ad alcuni amici il Black Stockings FC, la prima squadra composta da giocatori turchi. Il 26 ottobre, pochi giorni dopo la fondazione, il club giocò la sua prima partita contro una squadra greca perdendo 1-5. Al termine della partita i giocatori vennero arrestati, le autorità sostenevano che l’intenzione dei soci era fare un colpo di stato. Nei primissimi anni del secolo numerose squadre vennero fondate a Istanbul, molte sopravvissero solo alcuni anni. Nell’autunno del 1902 un gruppo di 22 persone si radunarono a Serencebey, una zona del quartiere di Beşiktaş, nel giardino della villa di Osman Pasha per eseguire esercizi ginnici. Al tempo le adunate non autorizzate erano proibite e presto la polizia intervenne arrestando il gruppo di giovani, venne rapidamente chiarito che i giovani non intrattenevano interessi politici, inoltre tra loro c’erano personaggi di spicco quali il maestro del sultano e il pugile Kenan Bey. Da queste prime riunioni di ginnastica e lotta, nel marzo 1903 nacque il Bereket Jimnastik Kulübü, successivamente nel 1909 la denominazione cambiò in Beşiktaş Osmanl Jimnastik Kulübü, il 26 gennaio 1911 divenne il primo club turco ad ottenere la registrazione come società sportiva. Nei primi tempi non si ritenne necessario avere dei colori sociali, ma con il crescere dell’interesse e l’aumento dei soci nel 1906 Mehmet Şamil Bey (uno dei 22 fondatori e primo presidente del club) riunì il comitato fondatore. Durante la riunione il presidente mostrò lo stemma della scuola francese che aveva frequentato, venne deciso di adottare i colori del collegio che rappresentavano le tinte principali della natura completamente contrapposte: il bianco e il nero. Nell’agosto del 1911 venne fon-

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dato il Valideçeşme e quasi contemporaneamente nacque anche il Basiret, entrambi nella zona di Beşiktaş, queste due entità si unirono nel giro di poco e successivamente confluirono nel Beşiktaş, fautore di questa operazione fu Ahmed Şerafettin Bey. Presto, a causa di alcuni dissidi interni, Ahmed Şerafettin Bey lasciò il club con alcuni giocatori, fondò un nuovo club denominato Sebat Club, sconfisse il Beşiktaş per 3-2 e subito dopo rientrò nei ranghi. La squadra del Beşiktaş ha sempre indossato i colori bianconeri, nel corso degli anni si sono alternate maglie dai disegni diversi, alcune con la prevalenza del bianco altre con la prevalenza del nero, spesso davvero originali. Alcune fonti parlano di colori bianco e rosso fino al 1912 ma non ci sono riscontri storici di alcun tipo per queste affermazioni. La prima divisa risalente al 1911 era composta da maglia a strisce verticali bianconere con collo a camicia chiuso da bottoni, pantaloncini bianchi e calzettoni neri. Poco dopo questi eventi scoppiò la Guerra dei Balcani (1912-1913) e a ridosso la Prima Guerra Mondiale, le attività sportive vennero interrotte e gli atleti arruolati e spediti al fronte. Nel 1915 Mustafa Kemal Atatürk, il padre della Turchia moderna, viveva vicino alla sede del Beşiktaş, in previsione degli incarichi che gli sarebbero stati affidati durante la guerra, affidò la madre ad alcuni membri del club, questo a dimostrare il legame che esisteva tra il futuro leader politico e il sodalizio. Dopo la guerra i giocatori

superstiti ritornarono in patria (molti atleti del club perirono durante il conflitto), la città era occupata da forze straniere e c’era un clima oppressivo. Il club dovette cambiare sede e subì un saccheggio da parte dei soldati greci, molte coppe e medaglie vinte negli anni passati vennero perse per sempre. Nel 1919 il Beşiktaş chiese l’ammissione alla Cuma Ligi ma la richiesta venne respinta, a seguito di questo rifiuto i Bianconeri fondarono, insieme ad altre nove squadre, l’Istanbul Türk Idman Birliği Ligi. Il campionato era formato da due gironi di cinque squadre, il Beşiktaş vinse il girone A e sconfisse il Darussafaka, leader del girone B, per 2-1 il 23 luglio 1920, vincendo il suo primo titolo nella storia. Al tempo a Istanbul c’era un solo campo di calcio che ospitava tutte le partite, era l’Union Club Field che nel 1929 venne acquistato dal Fenerbahce. La divisa nel 1920 è composta da maglia a strisce fini bianconere con colletto a camicia nero chiuso da laccetti, pantaloncini bianchi e calzettoni neri con doppio bordo bianco. La stagione successiva il Beşiktaş vince nuovamente il torneo, questa volta a girone unico, e partecipa anche alla Pazar Ligi che vincerà nella stagione successiva rimanendo imbattuto. Nella stagione 1923/24 viene riformata la Istanbul Futbol Ligi e ne fa parte anche il Beşiktaş che vince il campionato battendo in finale il Galatasaray per 2-0. In questa stagione la maglia è a strisce un po’ più larghe, il collo chiuso da laccetti è bianco


e il resto della divisa rimane invariato. Questa vittoria rappresenta l’ingresso dei Bianconeri sul grande palcoscenico del calcio cittadino, ormai il calcio in città è dominato dal Galatasaray esponente dell’aristocrazia, Fenerbahçe rappresentante della parte asiatica della città e Beşiktaş che è la squadra del popolo. A partire dalla stagione 1925/26 il nero diventa il colore principale della maglia con collo a camicia bianco chiuso da laccetti, l’allacciatura presenta un inserto bianco più o meno vistoso a seconda delle stagioni. Comincia in questi anni l’alternanza di maglie di stili diversi durante la stessa stagione, a seconda delle condizioni climatiche e dalla convenienza di acquisto delle forniture. Nella seconda metà degli anni 20 i calzettoni sono bianconeri a righe spesse e i calzoncini sono quasi sempre neri. Per tutti gli anni 30 il nero è il colore dominante, la maglia è completamente nera oppure nera con collo bianco, a girocollo con o senza laccetti, e maniche bianche, il resto della divisa è nero. Il Beşiktaş torna alla vittoria nella Istanbul Futbol Ligi nel 1933/34, ottenuta la qualificazione vince anche le fasi finali nazionali per la prima volta. Nel gennaio 1933 venne inaugurato il Sefer Stadium nel quartiere di Beşiktaş, dotato di due tribune era finalmente la prima casa esclusiva del club bianconero. A partire dalla stagione 1938/39 i Bianconeri infilano una striscia di sette vittorie in otto stagioni nel campionato cittadino, in questi stessi anni vincono due volte le finali nazionali. Secondo la leggenda il 19 gennaio 1941 nasce il soprannome delle Aquile Nere, avversario di giornata il Küçükçekmece SK. Il Beşiktaş, in completa divisa nera, sta vincendo ma continua ad attaccare senza sosta, a quel punto dagli spalti si comincia a sentire un incitamento che prosegue fino alla fine della partita: “Avanti Aquile Nere, attaccate Aquile Nere”. La partita finirà con la vittoria del Beşiktaş per 6-0 e da quel giorno Aquile Nere sarà il soprannome ufficiale della squadra. A

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partire dalla stagione 1942/43 la maglia è prevalentemente bianca con collo a girocollo, pantaloncini neri e calzettoni neri con bordi bianchi. In alcune partite viene indossata anche una maglia bianca con collo e maniche nere oppure una maglia bianconera a scacchi. Il 27 novembre 1947, un’amichevole tra Beşiktaş e AIK Solna inaugurò lo Stadio Dolmabahçe, progettato dall’italiano Paolo Vietti Voli, la capienza iniziale era di 16 mila spettatori, portata in seguito a 40 mila. Nel 1973 lo stadio verrà intitolato a Ismet Inönü, secondo presidente turco e fervido sostenitore del club. Nel 1949 sbarca a Istanbul Giuseppe Meazza, guiderà la squadra bianconera per cinque mesi e sarà il primo allenatore italiano all’estero. Gli anni 50 vedono le Aquile Nere indossare una maglia candida, impreziosita da un collo a camicia nero nelle ultime stagioni del decennio. La federcalcio turca decide di organizzare un torneo nazionale per la prima volta nel 1956/57, si tratta della Cop-

I tifosi del Besiktas sono innamorati pazzi del proprio club

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pa della Federazione, un torneo che prevedeva qualificazioni regionali e successivamente un girone finale nazionale, il Beşiktaş vince il torneo e si impone anche l’anno successivo. Nel 1959 la federazione istituisce finalmente un vero campionato nazionale, si gioca nell’anno solare con 16 squadre divise in due gruppi, bianco e rosso a evocare i colori della bandiera turca, i Bianconeri finiscono secondi


nel gruppo bianco. La stagione successiva, 1959/60, sempre 16 squadre ma campionato a girone unico vinto dal Beşiktaş, la divisa è composta da maglia bianca con collo a camicia nero con scollo a V e stemma sul petto, pantaloncini neri e calzettoni neri con doppio bordo bianco. Fino alla stagione 1968/69 le Aquile Nere occuperanno stabilmente i primi tre posti del campionato, indossando sempre lo stesso stile di divisa. Gli anni 70 vedono un calo della squadra che scivola in posizioni di secondo piano, in compenso in campo si vede una varietà di maglie belle e originali, sempre con il bianco come colore dominante, è un fiorire di strisce verticali e trasversali nere, singole o doppie, sottili o larghe, che impreziosiscono la casacca bianca. A metà decennio cominciano a comparire i primi loghi degli sponsor tecnici, Adidas e Umbro forniscono le divisa ma non c’è ancora un fornitore unico e capita di vedere divise composte da maglia della Umbro accompagnata a pantaloncini della Adidas. Nella stagione 1977/78 compare il primo sponsor commerciale sulla maglia del Beşiktaş, si tratta della fabbrica di profumi Pereja. Gli anni 80 vedono i Bianconeri affacciarsi di nuovo al vertice del calcio turco, la maglia è bianca con collo a V nero accompagnata da pantaloncini e calzettoni bianchi, dalla stagione 1987/88 la tedesca Adidas diventa il fornitore unico delle divise, anche se continua l’alternarsi di modelli durante il campionato. Nella stagione 1997/98 compare un po’ di rosso nella parte anteriore del colletto a V della maglia. A partire dalla stagione 1998/99 la fornitura del materiale tecnico passa alla Reebok, le maglie continuano ad essere bianche ma aumenta la presenza del nero con strisce sulle maniche oppure sul petto. Nel nuovo millennio si succedono la Puma, la Umbro e infine la Adidas a partire dalla stagione 2009/10, tutti questi fornitori ogni tanto mettono un po’ di rosso sulla maglia e ripropongono come maglie alternative delle divise riprese dal passato.

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LA MAGIA DI CALCIATORI CONTINUA Ancora una volta, la collezione CALCIATORI ha fatto centro! Tantissimi i collezionisti che si stanno divertendo con una delle raccolte Calciatori più ricche di sempre!!! Ben 128 pagine, su cui incollare le 832 figurine che compongono la raccolta. Tantissime le novità, con importanti arricchimenti anche per la parte dedicata alle squadre della Serie A TIM - dove il divertimento e la scoperta iniziano già a partire dalle caselle destinate ad ospitare le figurine dei calciatori - e della Serie BKT che, come la massima serie, ospita nelle proprie pagine una Calciatoripedia dedicata ai 90 anni della Serie A a girone unico. Le immancabili sezioni speciali dedicate alla Serie A Femminile, al Film del Campionato e al Calciomercato sono poi affiancate da una grande novità: la doppia pagina riservata ai Mister di Serie A e della Serie B. Una meritata celebrazione per la nazionale qualificata per l’Europeo è invece la pagina “Sogno Azzurro” con figurine speciali per gli Azzurri della Nazionale in collaborazione con FIGC, e poi due attesi ri-

Non p il Pan erdert UP! i2ni Touri 020

torni il Calendario della Serie A TIM e gli scudetti della Serie C. Nuove sezioni speciali sono invece quelle dei Top Performer della Serie A, con il loro indice Calciatori Panini e il Grand Galà del Calcio AIC, con le figurine effetto metal dei migliori giocatori e giocatrici dei campionati italiani. Ogni bustina CALCIATORI 2019-2020 è ricchissima di sorprese: le figurine degli stemmi, delle prime maglie, degli allenatori, dei top performer... e tante altre ancora sono realizzate su materiali e con trattamenti speciali innovativi. Ciascuna, inoltre, contiene un buono Calciatori GOL 2019-20 che dà la possibilità di vincere 1 bustina o 3 bustine Calciatori GOL 2019-20; inoltre il buono riporta un codice alfanumerico che vale 1 punto CalcioRegali 2020. Ma c’è un’ulteriore novità: da non perdere le prossime tappe del Panini Tour UP! 2020… Per informazioni sul tour, basta collegarsi al sito www. paninitourup.it!!! E attenzione a non dimenticarsi degli aggiornamenti con i colpi del mercato invernale…


La seconda maglia del Beşiktaş tradizionalmente era di colore opposto alla maglia principale, in caso di maglia a strisce bianconere veniva proposta una maglia in tinta unita bianca oppure nera e si verificava anche il caso inverso, ovvero una maglia bianconera in alternativa a una maglia a tinta unita. Nel 1992/93 la Adidas propone per la prima volta una maglia rossa con maniche bianche, a richiamare i colori nazionali, le maglie rosse saranno usate spesso come alternative negli anni successivi. Nel 1993/94 sempre la Adidas fornisce una divisa interamente lilla con una vistosa striscia trasversale bianca e nera come terza divisa, molta accattivante ma completamente estranea alla tradizione. L’11 aprile 2016 viene inaugurato il nuovo stadio, il Vodafone Arena che successivamente diventerà Vodafone Park, dopo che il presidente Erdogan aveva deciso di vietare la parola “arena” (26 maggio 2017). Il nuovo stadio è sorto nello stesso posto del precedente impianto BJK İnönü, demolito nel 2013, nel periodo in cui il club era senza casa ha giocato prevalentemente nell’Olimpico Atatürk. La maglia dei portieri del Beşiktaş nei primi decenni era bianca oppure nera, a partire dagli anni 60 hanno cominciato ad essere indossate anche casacche verdi e grigie. Dagli anni 70 in poi largo uso di giallo, arancio e azzurro. Uno stemma compare per la prima volta sulle maglie nel 1938/39, uno scudo con cinque strisce verticali bianconere e al centro la bandiera turca, concessione al club in quanto è stato il primo sodalizio ufficialmente registrato. Dopo sporadiche apparizioni negli anni 40 lo stemma riappare in maniera stabile a partire dalla stagione 1956/57. Nel catalogo HW del Subbuteo il Beşiktaş non compare, ma secondo lo stile del periodo il club potrebbe essere rappresentato dalla ref numero 7, maglia bianconera a strisce verticali abbinata a pantaloncini neri e calzettoni neri con bordi bianchi, e dalla ref numero 178, completo bianco con bordi neri.

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di Sergio Stanco

Credit Foto: Lillo D’Ascola (Reggina 1914)

Vi portiamo a Reggio Calabria, dove la Reggina di due vecchie conoscenze della Serie A come Reginaldo e Denis (e molti altri) ha nuovamente l’entusiasmo dei tifosi amaranto.

La Reg(g)ina della Passione 56


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hiamatelo, se volete, amore a prima vista. È quello che unisce i tifosi amaranto e la Reggina. Quello che ti travolge non appena metti piede al Granillo. Quello che assapori ogni singolo giorno che passeggi per Reggio. Perché chi ha inventato la frase “una città che vive di calcio”, probabilmente pensava a Reggio Calabria. E anche quando i palcoscenici non erano più quelli della Serie A, quando al Granillo non passavano più Buffon, Del Piero, Kakà o Ibrahimović,

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Mimmo Toscano, l’uomo che guida la Reggina dalla panchina - Credit Foto: Lillo D’Ascola (Reggina 1914)

ma colleghi decisamente meno famosi, la passione non è mai venuta meno. È facile essere tifosi, quando le cose vanno bene, andare allo stadio in sedicimila (già, sedicimila! Avete letto bene…) in Lega Pro è semplicemente... Reggina. Si dice che Cristiano Ronaldo abbia scelto la Juve per l’ovazione che lo Juventus Stadium gli ha tributato dopo il gol in rovesciata che di fatto ha eliminato i bianconeri dalla Champions League del 2018, beh qualcosa di simile è successo ai protagonisti del nostro viaggio in terra calabrese: “Sono qui per un debito di riconoscenza con questa città e con questi tifosi - ci racconta il Direttore Sportivo Massimo Taibi - Perché qui ho giocato soltanto un anno (nel 2001/2002 n.d.r.), poi per problemi personali sono dovuto andare via, ma l’affetto che mi ha tributato questa gente non l’ho mai dimenticato. E mi son sempre detto che un giorno sarei tornato per

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terminare il lavoro e aiutare questo club”. L’ex portiere, tra le altre, di Milan, Manchester United e Atalanta, a Reggio si è pure tolto la soddisfazione di segnare un gol (Reggina-Udinese 1-1, 1 aprile 2001), oggi è il Deus ex machina della società e dei successi reggini: “Quando c’è stata la possibilità di poter tornare a lavorare qui, non ho esitato un attimo. E la situazione era molto diversa rispetto a quella attuale, la società non navigava in buone acque. Abbiamo anche rischiato il fallimento. Quello di cui vado più orgoglioso è di non aver mai perso la fiducia che le cose potessero sistemarsi e di essere stato lucido anche nei momenti più difficili. Poi, quando è arrivato il Presidente Gallo si è aperta una nuova fase e la Reggina è come rinata, ma all’inizio è stata dura: siamo arrivati a due giorni dallo sciopero dei giocatori, sull’orlo del burrone. Per fortuna poi la nuova proprietà ci ha salvati”.


A quel punto il Direttore ha potuto dare sfogo al suo estro. Già, perché portare gente come Denis (ma anche Reginaldo, Mastour, Bellomo, Rivas, Marco Rossi e molti altri ex di Serie A) in Lega Pro è una magia: “Ricordo le notti insonni, le telefonate in Argentina, in Perù (dove il bomber argentino stava giocando, n.d.r.) per raccontargli il progetto. Ma German è un grande professionista e un grandissimo uomo, quando ha capito che stavamo facendo le cose seriamente, non ha avuto esitazioni”. E questo, come vi raccontavamo, è il filo conduttore della storia del rilancio della Reggina, perché è il tema ricorrente di ogni nostra chiacchierata: “Ero in Brasile - ci racconta Reginaldo, una carriera spesa in Italia calcando anche i campi della Serie A con Siena, Treviso, Parma, Fiorentina - e i miei procuratori mi hanno prospettato la possibilità di venire qui a Reggio. Io ci avevo giocato da avversario al Granillo, ricordavo la passione dei tifosi, per cui ho detto loro di procedere e chiude-

re il prima possibile, che non vedevo l’ora di cominciare. La categoria non era importante, mi son detto che mi sarebbe piaciuto riportare questa città e questi tifosi nel grande calcio e spero davvero di riuscirci. Sapevo che se fossimo riusciti a fare bene fin dall’inizio, saremmo riusciti a scatenare

Grande l’apporto alla causa della Reggina del direttore sportivo Massimo Taibi - Credit Foto: Lillo D’Ascola (Reggina 1914)

Mister Promozione Domenico (per tutti Mimmo) Toscano è nato a Cardeto (provincia di Reggio Calabria) nel 1971. Ovviamente, il Mimmo calciatore cresce nel settore giovanile della Reggina, di cui è per altro tifosissimo. È un buon centrocampista, anche se probabilmente la sua carriera non si è sviluppata secondo le aspettative. Con la maglia amaranto conta una settantina di presenze, ma poi matura altrove (Cosenza, Lucchese, Lodigiani, Nocerina, per poi chiudere nel Rende). Da allenatore comincia sempre in terra calabra (proprio a Rende). Passa poi al Cosenza, club con il quale ottiene una doppia promozione (dalla D alla Lega Pro Prima Divisione). Approda poi alla Ternana nel 2011, con cui vince il campionato di Lega Pro e conquista la Serie B. Altro giro altra promozione nel 2014, questa volta a Novara (dalla Lega Pro alla B, con annessa vittoria della Supercoppa di Lega Pro). Prima del ritorno a Reggio, una stagione alla Feralpisalò. Nel giugno scorso la fatidica e attesa chiamata che un tifoso reggino DOC non poteva proprio rifiutare. Un ritorno che ha alimentato l’entusiasmo e lo spirito di appartenenza di un popolo che, forse, non aspettava altro per esaltarsi. Uno che conoscesse bene l’ambiente, la passione e le ambizioni dei tifosi della Reggina, delusi ma mai rassegnati. Complici anche gli ottimi risultati, Mister Toscano e i suoi ragazzi sono riusciti a riportare Reggio allo stadio: in più di 15mila hanno assistito al derby contro il Catanzaro il 12 ottobre scorso, addirittura in oltre 16mila hanno affollato il Granillo nel big match del Girone C contro il Bari (altra nobile decaduta della Serie C) il 26 gennaio scorso. Partita per la cronaca terminata 1-1, con gol (neanche a dirlo) di German Denis. Un altro passo (forse proprio quello decisivo) verso il sogno…

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l’entusiasmo dei tifosi e che, poi, loro avrebbero trascinato noi. È proprio quello che sta succedendo e vedere così tante persone felici, è davvero una gioia. E non parlo solo di quelli che possono venire allo stadio: io vivo a Reggio, in città, e uno dei momenti più belli delle mie giornate è quando posso chiacchierare di calcio e della Reggina con i vecchietti del bar vicino casa mia. La Reggina qui è davvero una religione”. Nessuno può saperlo meglio di chi a Reggio c’è nato, cresciuto e ha pure giocato. Mancava solo una tappa a Mister Mimmo Toscano per chiudere il cerchio. Per questo quando è arrivata quella tanto attesa telefonata ha mollato tutto per tornare a casa: “Per me, essere l’allenatore della squadra della squadra della mia città è il coronamento di un sogno: io sono cresciuto a pane e Reggina, sono tifoso amaranto da sempre e poter contribuire ai successi di questo club è semplicemente fantastico. Non c’è voluto molto per convincermi (sorride, n.d.r.), anche perché, seppur da lontano, le vicende della società e della squadra le seguivo e sapevo perfettamente che il progetto era serio. Ma al di là di questo per me è stata una scelta di cuore”. E il cuore, quello dei suoi tifosi, dei suoi protagonisti in panchina e in società, sta trascinando la Reggina laddove il pubblico del Granillo meriterebbe di stare: “È presto per trarre conclusioni continua Mister Toscano - anche perché il campionato di Serie C è molto complicato, soprattutto il Girone C, con squadre e club importanti come Bari e Ternana che hanno il nostro stesso obiettivo. La squadra però mi sta piacendo, mi ha sorpreso la velocità con cui ha messo in pratica quello che proviamo quotidianamente in allenamento, la vorrei solo un po’ più spensierata in campo, più consapevole nella gestione dei momenti difficili, ma si vede che ci tiene a fare bene. C’è la giusta tensione, ma la cosa di cui sono più fiero è il gruppo che siamo riu-

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sciti a creare. Ci sono tutte le condizioni per fare bene, ma il campionato è tosto, il livello medio è alto e non solo nelle squadre che lottano per la promozione”. E a proposito di gruppo, ci pensano Denis e Reginaldo a dare l’esempio: “Sono due ragazzi molto seri, che hanno messo la loro esperienza a disposizione della squadra. Sono leader

UNA ROSA DA SERIE A Abbiamo detto che l’obiettivo della Reggina di quest’anno è tornare in Serie B, ma anche che nelle intenzioni (magari non esplicitamente dichiarate) della società la volontà è quella di riportare la città e la squadra nella massima serie. E per farlo il Presidente Gallo non sta lesinando impegno e risorse. Di German Denis (ex Napoli, Udinese e Atalanta, attualmente ancora miglior marcatore straniero della storia della Dea) e Reginaldo abbiamo già detto, ma poi ci sono altri calciatori esperti come il portiere Enrico Guarna, Nicola Bellomo (talento e fantasista ancora non totalmente espresso, che ai tempi di Bari era accostato a Cassano), Rigoberto Rivas (argentino scuola Inter), Marco Rossi (ex Parma e Sampdoria con esperienze anche in Europa League). In amaranto il Direttore Taibi ha portato anche Hachim Mastour, che la Reggina sta provando a rilanciare dopo alcune stagioni buie. Ai tempi delle giovanili del Milan era considerato un potenziale fenomeno, tanto che nel 2015 il “Guardian” lo aveva inserito nella lista dei 50 migliori prospetti nati dopo il 1998 e a soli 16 anni ha addirittura esordito nella Nazionale del Marocco, paese di cui è originario. Eppure, nonostante questo, quando al Direttore si chiede quale sia stata l’operazione di cui va più fiero, lui non ha alcun tentennamento: “Non è un giocatore, ma il Mister. Non avrei potuto fare scelta migliore. Il suo entusiasmo è trascinante e nessuno come lui incarna i valori e la passione di Reggio e della Reggina”.


nati e inevitabilmente trascinano i compagni a dare sempre il massimo, alzare l’asticella e migliorare giorno dopo giorno”. E Fare bene da queste parti significa solo una cosa: “Tornare in Serie B è il nostro obiettivo - ci spiega apertamente il Direttore Taibi - Non ci possiamo, né vogliamo nasconderci, ma questo non significa che sia facile. La società è giustamente ambiziosa, la piazza esigente e il Presidente ha dimostrato di avere grande entusiasmo: sono convinto che riuscirà a portare il club dove merita di stare”. Come a dire che la Serie B è solo una tappa di passaggio, perché il Granillo è uno stadio da Serie A, come conferma Mister Toscano: “Farei di tutto per essere l’allenatore che, un giorno, riuscirà a riportare Reggio in A. Davvero, sarebbe un sogno, ma non bisogna pre-

Credit Foto: Lillo D’Ascola (Reggina 1914)

correre i tempi e perdere di vista l’obiettivo. Tutti ci danno per favoriti, ma poi le partite bisogna vincerle sul campo e non è semplice come dirlo”. La A, però, è un tarlo fisso: “Con o senza me come Direttore Sportivo, prima o poi questa società, questa squadra e questi tifosi, torneranno in Serie A, perché se lo meritano”, fa eco al Mister il Direttore Taibi. “A 37 anni non puoi fare progetti a lungo termine - chiude Reginaldo - ma da quando sono venuto qui mi sono posto due obiettivi: il primo è riportare questa squadra in Serie B, poi giocare ancora il prossimo anno. Ho due anni di contratto, ma se poi dovessimo riuscire a tornare subito in Serie A, mi piacerebbe fare l’ultimo anno e chiudere alla grande la carriera qui a Reggio. Sarebbe il massimo”. I tifosi della Reggina non sognano altro…


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di Fabrizio Ponciroli

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Silvano ha vinto lo Scudetto con l’Hellas Verona, Davide ha alzato due volte la Coppa Uefa con l’Inter…

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appuntamento è al Centro Sportivo della Lainatese. Una società dilettantistica storica che, curiosamente, ha a che fare con entrambi. Dario Zanotto mi presenta Silvano Fontolan: “Come al solito mio fratello Davide è in ritardo… Lui è fatto così. Non risponde mai al telefono, faccio fatica anche io a trovarlo”. In realtà Davide è già presente. Sta lavorando per “i suoi ragazzi”. Tra scartoffie e smorfie, interrompe il fratello, più grande di lui di 11 anni, mentre mi mostra la maglia dell’Hellas Verona dello Scudetto firmata da tutta la squadra di Osvaldo Ba-

gnoli: “Ah, vero che ai tempi dei dinosauri hai vinto qualcosa…”. I due si stuzzicano senza sosta: “Ricordami cosa hai vinto tu? La Coppa del Nonno e poi?”… Lo show è divertente, metterli seduti per dare il via all’intervista non è affatto semplice ma, alla fine, i Fontolan accettano di chiacchierare di calcio con il sottoscritto… Come è nata la vostra passione per il calcio? Silvano: “Io lavoravo alla mattina, facevo il lattoniere a 13/14 anni e il pomeriggio andavo poi ad allenarmi a Como. è stata una lunga trafila per arrivare poi a fare davve-

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CA GIGANTI DEL Fontolan

ro il calciatore professionista. Diciamo che erano altri tempi”. Davide: “Ho fatto il calciatore perché avevo lui come esempio… negativo. Volevo fargli vedere come si giocava davvero a calcio”. Alla prima domanda, è già botta e risposta tra i due: “Da piccolo, Davide è venuto da me e mi ha detto che voleva fare il calciatore. Gli ho detto di lasciar stare”… Davide non ci sta e replica: “Hai fatto il lattoniere, giusto? Perché hai smesso?”. Dopo grasse risate, si torna a parlare, seriamente (eufemismo) di calcio… Davide hai mia chiesto consigli sul calcio a Silvano quando hai cominciato? “No. Difficilmente ascolto, preferisco guardare. Se proprio devo sbagliare, meglio che capiti perché ho deciso con la mia testa… Comunque, a parte le battute, ho sempre voluto fare il calciatore. Andavo a veder giocare Silvano. Partivo da Garbagnate e andavo a vederlo ai tempi in cui militava nel Como. Ho sempre voluto giocare a calcio e quello ho fatto”. Chi sono stati vostri idoli? Silvano: “Io sono cresciuto con i giocatori dell’Inter. Gente come Mazzola e Corso. Poi, quando ho smesso di giocare, ho seguito Davide. Lo andavo a vedere spesso a Milano quando giocava nell’Inter”. Davide: “Prima di giocare seriamente, amavo Platini e Zico…”. Interviene Silvano: “Io Zico l’ho avuto come avversario…”. Davide risponde prontamente: “Pensa che l’Udinese, quando è andato via Zico, ha preso me…”. Sarà un’intervista lunga… Quando avete capito che il calcio sarebbe diventato il vostro mestiere? Silvano: “Ai miei tempi, non c’era tanto da pensare a diven-

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tare un calciatore professionista. Giocavi e facevi del tuo meglio. Oggi è tutto diverso, sono i genitori che spingono i figli a diventare campioni. Anzi, esagerano pure nell’esaltarli. Io, come detto già, lavoravo e giocavo a pallone”. Davide: “Per me non è mai stato un mestiere, è sempre stata solo una passione. Infatti, quando è diventato un lavoro, ho smesso. L’8 marzo 2001 ho detto basta perché non mi divertivo più. Non riuscendo a stare zitto, ho preferito farmi da parte”. Silvano, parliamo con il leggendario Scudetto vinto con l’Hellas Verona nel 1985 “Mai più avremmo pensato di vincere lo Scudetto. Arrivavamo da un buon campionato, chiuso al sesto posto. Poi abbiamo avuto anche la fortuna di trovare le grandi un po’ in difficoltà. Quando si sono accorte di noi, era tardi. Onestamente, hanno provato in ogni maniera a non farcelo vincere ma eravamo una squadra talmente forte che siamo riusciti a non farci più riprendere. Ricordo la gara di Firenze. Eravamo a marzo. Abbiamo vinto per 3-1, ho pure segnato anche io. A fine partita ci siamo abbracciati e ci siamo detti che potevamo farcela. Pensieri che non piacevano al grandissimo Bagnoli che, in dialetto milanese, ripeteva sempre: ‘fiò, tranquil, disem minga bagianàa’… E’ stata una grande emozione”. Davide ricordi come hai festeggiato lo Scudetto di Silvano? “Hanno vinto nel 1985? Ero giovane. Giocavo nel Legnano. Sono passati tanti anni, parliamo di preistoria”. Altro aneddoto… “Preistoria? Intanto io uno Scudetto l’ho vinto mentre tu eri ancora un ragazzino…”. Davide replica: “Quando sono arrivato

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini


io, hanno capito come si giocava a calcio”. Tra battute a ripetizione, torna alla mente di entrambi l’unica occasione in cui si sono affrontati da professionista. Il racconto è di Silvano: “Io giocavo all’Hellas Verona e lui all’Udinese. Ci siamo affrontati in una gara amichevole. Faceva un po’ troppo il brillante e quindi gli ho rifilato una bella legnata… Mi ha gridato: ‘Ma sei scemo?’. L’ho fatto per svegliarlo e infatti, dopo la legnata, ha iniziato a giocare bene”. Pronto il carico di Davide: “Io ho cominciato a giocare ma tu hai smesso perché non ce le facevi più. Infatti, sei andato a giocare all’Ascoli”. Si torna a parlare dello Scudetto con Silvano… “Più passano gli anni e più quell’impresa aumenta di valore. Ogni volta che vado a Verona, mi trattano come un re. E’ davvero qualcosa di incredibile. Abbiamo fatto qualcosa di irripetibile e ne sono molto orgoglioso”. Silvano mi mostra una foto della sua maglietta da gioco dell’Hellas Verona con lo Scudetto che custodisce nella sua taverna, firmata da tutti i giocatori che fecero l’impresa. “Quello Scudetto vale 10 titoli vinti da una grande squadra”, afferma, a sorpresa, Davide, a conferma di quanto sia legato al fratello… Silvano va oltre: “Avevamo una squadra davvero fortissima. Pensa che, quando abbiamo vinto il tricolore, abbiamo perso Fanna e Marangon che sono andati all’Inter. Eppure siamo arrivati agli ottavi di Coppa dei Campioni, perdendo contro la Juventus. E non dico altro…”.

Davide lo incalza: “Perché? Cosa è successo contro la Juventus?”. Silvano non si tira indietro: “Abbiamo giocato la gara di ritorno a Torino, a porte chiuse. L’arbitro ha fatto tantissimi danni. C’è un aneddoto legato a quella partita. Quando siamo rientrati negli spogliatoi, eravamo nervosi e arrabbiati. Facevamo casino. Sono arrivati i carabinieri che hanno bussato. Ha risposto il grande Bagnoli che, in dialetto milanese, ha affermato: ‘I ladri sono nell’altro spogliatoio…’. Bagnoli era così, un uomo sanguigno e diretto”. Torno da Davide… Davide, come mai hai scelto l’Inter? Ti volevano tutti in quell’anno… Dalla Juventus al Napoli, passando per Roma e Milan… “A dire il vero sono andato all’Inter perché, tra le squadre top che mi cercavano, era quella con gli attaccanti con l’età maggiore. C’erano Klinsmann e Serena che non erano più giovanissimi, quindi mi è sembrata una buona idea per poter giocare. Purtroppo, appena mi hanno preso, mi sono rotto il crociato”. Un infortunio che ti ha condizionato tanto nel prosieguo della tua carriera? “Assolutamente sì. Non sono più tornato ad essere quello di prima. Sempre molto forte (Ride, ndr) ma non più come quello di prima. Comunque, tutti gli allenatori che ho avuto, mi hanno sempre dato grande fiducia. Sai perché? Perché io andavo in campo e correvo, pensando sempre al bene della squadra, prima che al mio tornaconto”. Infortunio e l’etichetta di mi-

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CA GIGANTI DEL

Mandorlini ntiolean Forr Fe

Davide Fontolan con la casacca dell’Inter, club in cui ha giocato per sei anni - Liverani

ster 10,5 miliardi… “Se pensi che Roby Baggio è stato pagato 11,5 miliardi dalla Juventus… Tutti si aspettavano tantissimo da me. Il primo anno all’Inter sono rimasto fermo per infortunio, il secondo dovevo nascondermi per non essere insultato poi, per fortuna, le cose sono andate sempre meglio e mi sono La maglia dell’Inter firmata da Davide sotto gli occhi di Silvano tolto delle belle soddisfazioni”. Davide, un gol al quale sei legato particoe l’avversario più rognoso? larmente? Silvano: “Ho giocato con tantissimi gran“Ne ho fatti tanti, forse quello che mi ricordi campioni, fatico a dirne uno. Se proprio do di più è quello segnato alla Sampdoria devo scegliere, direi Elkjaer. Era devastancon Vierchowod che mi marcava. Al venerdì te. In campo era cattivo come una bestia hanno chiesto a Vierchowod: ‘Dovrai vederferoce, mentre, nella vita di tutti i giorni, tela con Aguilera e Fontolan, sei pronto?’… era tranquillissimo e molto generoso. Si Lui ha risposto: ‘Fontolan chi?’. Capire che trasformava quando giocava… Avversario? il gol è stata una grande soddisfazione…”. Ho dovuto marcare i più forti, ero stopper, Il giocatore più forte con cui avete giocato mi toccava sempre il migliore della squadra

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Silvano Fontolan con la casacca dell’Hellas Verona, squadra con cui ha vinto lo Scudetto nel 1985- Liverani

avversaria. Diciamo che Ramon Diaz mi ha fatto venire il mal di testa. Piccolo, sgusciava via e aveva grandissima rapidità”. Davide: “La lista di compagni forti è lunghissima… Scelgo Bergkamp per il potenziale. In Italia non abbiamo visto di cosa era capace ma posso assicurarvi che, in allenamento, faceva del- Silvano firma la maglia con cui ha vinto lo Scudetto le cose spettacolari. Non parla- con l’Hellas Verona va mai, era molto introverso ma sapeva giocare a calcio in maniera divina. fenomeno. Mi ha costretto a mangiare, tutti L’avversario che mi ha legnato di più l’ho i giovedì sera, con lui, la moglie e l’ammitrovato ai tempi del Legnano. Mi ha preso a nistratore delegato. Era incredibile e anche schiaffi e si chiamava Pioli”. un po’ superstizioso”. Silvano interviene: “Beh, ha giocato con me Silvano: “Beh, ovviamente Bagnoli, anche a Verona. Era uno della mia scuola, ha fatto se ne ho avuti tanti altri bravi, come Cabene”. Altre risate dei presenti… stagner o Bersellini. Comunque, Bagnoli Un allenatore che vi è rimasto nel cuore… è stato il massimo. Dopo mio padre, c’era Davide: “Ulivieri, fuori dal campo, era un lui… Mi parlava in dialetto milanese e mi di-

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CA GIGANTI DEL Fontolan

LEGATI ALLA LAINATESE

Le carriere di silvano e davide

Silvano e Davide Fontolan sono, entrambi, legati alla Lainatese. Non è un caso che l’intervista sia stata organizzata nella sede della società ora presieduta dal presidente Luca Borsatti. “Ho cominciato proprio alla Lainatese. Martino Perfetti è stato il mio primo allenatore ed era molto preparato. Ho fatto le giovanili qui, prima di andare a Como. Quindi sono legato molto ai colori di questa società. La mia carriera è cominciata proprio alla Lainatese. Da qui sono poi andato al Como ed è cominciato tutto”, spiega Silvano. A distanza di tanti anni, Davide è diventato il responsabile del settore giovanile della Lainatese: “Mi trovo bene ad allenare i bimbi e qui alla Lainatese c’è l’ambiente giusto. Sono delle spugne e imparano tantissimo. E’ una società che sta crescendo molto e mi piace fare parte del progetto. Li coinvolgo e mi faccio coinvolgere”. La presenza di Davide è fondamentale per Luca Borsatti, presidente della Lainatese: “Sono presidente della società dal luglio 2019. E’ stato Davide Fontolan a stimolarmi e a farmi fare questo importante passo. Con lui, il settore giovanile è cresciuto enormemente. Sa il fatto suo e i risultati si vedono. Ora dobbiamo migliorare come società e organizzazione”.

Silvano, classe 1955, cresce nelle giovanili della Lainatese. Passa poi al Como dove gioca per otto stagioni (dal 1974 al 1983), con una sola parentesi, nella stagione 1978/79, quando si trasferisce a Milano, sponda Inter (collezionando 13 presenze). Nel 1983 passa all’Hellas Verona allenata da Osvaldo Bagnoli e diventa immediatamente un perno della difesa degli scaligeri. è lui lo stopper titolare. Con l’Hellas conquista, da assoluto protagonista, lo Scudetto nella stagione 1984/85. Rimane un gialloblù sino al 1988 quando passa all’Ascoli. Gioca una stagione da libero poi, a 34 anni, dice basta con il calcio giocato. Si dedica immediatamente alla carriera di allenatore. Si dedica soprattutto ai giovani e, in particolare, lavora a Como dove ha la fortuna di imparare tanto da Favini, grande osservatore (noto per i miracoli fatti soprattutto con il settore giovanile dell’Atalanta). “Gli bastava uno sguardo per capire se un giovane era buono o no. Un fenomeno”, ricorda Silvano. Davide cresce, calcisticamente parlando, nel Legnano. Nel 1986 passa al Parma dove mostra un talento non indifferente (sei gol in 31 gare). Nell’estate del 1987 viene acquistato dall’Udinese dove resta una sola stagione, mostrando qualità importanti. Viene acquistato dal Genoa dove resta per due stagioni (segna anche nel Derby della Lanterna). Dopo 15 reti in 67 gare con il Grifone, accetta la proposta dell’Inter che, strapparlo alla concorrenza, investe 10,5 miliardi di lire. Appena arrivato a Milano, sponda nerazzurra, si infortuna, gravemente, al crociato durante un’amichevole estiva. Resta fuori per l’intera stagione 1990/91. Si riprende e diventa un jolly importantissimo per i nerazzurri, segnando anche nel Derby della Madonnina. Vince, per ben due volte, la Coppa Uefa (1990/91 e 1993/95) poi, nel 1996, passa al Bologna. Resta ai felsinei per quattro anni, prima di chiudere la carriera al Cagliari. Oggi è il responsabile del settore giovanile della Lainatese. Una curiosità: Silvano e Davide sono nati, entrambi, il 24 febbraio, ma a 11 anni di distanza l’uno dall’altro.

Il Direttore Ponciroli con i fratelli Fontolan

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I due fratelli sul campo della Lainatese, loro comune denominatore

ceva di spiegare agli altri le sue idee. Uno come lui non potrebbe più esistere nel calcio d’oggi. Erano come dei padri di famiglia, oggi è tutto diverso”. Vi piace ancora il calcio d’oggi? Silvano: “Posso restare a guardare partite di calcio per tutta la giornata ma, indubbiamente, è tutto diverso rispetto ai miei tempi. Da allenatore, vedo errori incredibili. Non si difende più. Ormai si pensa solo alla linea, non c’è più nessuno che sa marcare. Mancano gli allenatori giusti, che sappiamo insegnare ai giovani le basi del gioco. Infatti, in Serie A, ci sono giocatori che, ai miei tempi, non avrebbero visto il campo neanche con il binocolo. Negli anni ’80 gli stranieri erano fortissimi, oggi ce ne sono diversi che sono sopravvalutati ma ormai è così…”. Davide: “No, il calcio a certi livelli non mi piace più. Mi diverto ad allenare i giovani. Ho scoperto di essere anche bravo a farlo

ed è quello che voglio continuare a fare. Il resto non mi interessa, lo lascio agli altri”. Vi siete sempre punzecchiati a vicenda? Davide: “Certo, poi con uno come lui è facile…”. Silvano: “Cosa posso dire, se hai un fratello così, te lo tieni”. Starei ore ad ascoltare i fratelli Fontolan parlare di calcio e delle loro vite. Il divertimento è assicurato, gli aneddoti si susseguono senza sosta. La chiosa è dedicata al ciclismo, una delle passioni di Silvano: “Ora ho una bici Canyon, posso arrivare a costare anche migliaia di euro”. “Una che???”, ribatte Davide che ricorda quando il fratello è stato investito mentre era in bici… “Un bigolo non mi ha visto e mi è venuto addosso. Per fortuna non mi sono fatto nulla ma mi ha dovuto riportare a casa in macchina e si è caricato su anche la bici. Ci ha messo una giornata”, chiude Silvano. Magistrali, infiniti, fratelli…

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O N R O I G N U EROI PER Francisco Lima di Patrick Iannarelli

VAI

IN PORTA

TU

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Credit Foto: Liverani

Lima, centrocampista di quantità e qualità, si improvvisa portiere per il bene del Lecce…

S

i può essere eroi per un giorno anche non trovando il gol. Un gesto, un lampo che fa scattare qualcosa a livello emozionale nel cuore dei tifosi. Quello spunto che fa pensare a tutti ‘ma questo è matto’, ma che poi stupisce e trasforma l’incredulità in applausi. Lo sa bene Francisco Lima, centrocampista brasiliano che in Italia ha vestito le maglie di Roma, Bologna, Brescia, Taranto e Lecce. Proprio con la divisa giallorossa dei pugliesi si rese protagonista di un match contro la Reggina, ormai vent’anni fa. Dalle parti del Via del Mare ricordano ancora quel giocatore tutto fiato che dava l’animo in campo, anche se i piedi erano quelli che erano. La maglia del Lecce l’ha indossata 35 volte, mettendo a segno l’unico gol in Serie A contro la Juventus e decisivo per la vittoria finale. Questa, come al solito, è un’altra storia, ma già poco dopo il capoluogo pugliese aveva scoperto il suo eroe per un giorno. Dieci minuti per chiudere un match e finire sotto una curva in festa, osannato dai compagni e applaudito dai 15.000 spettatori che quel giorno hanno assistito al classico scontro salvezza degli anni ‘90. Il Lecce torna in Serie A dopo un anno di purgatorio in Serie B. La stagione 1997-1998 non va nel migliore dei modi, con tre allenatori e una retrocessione inevitabile dopo i soli 26 punti conquistati. In cadetteria non arrivano molti elementi, ma i giallorossi riescono ad inserirsi nel treno promozione composto da

Hellas Verona, Torino e Reggina. Per il ritorno nel massimo campionato il Lecce parte con l’esordiente Cavasin in panchina, dal Valencia arriva un bomber di tutto rispetto come Cristiano Lucarelli. Le premesse per far bene in quel campionato ci sono tutte, visto che alla prima giornata il Milan si ferma al Via del Mare con uno spettacolare 2-2. Non solo, al quarto turno arriva il successo interno con la Juventus firmato da Lima e Conticchio, autore del gol che chiuderà il match in pieno recupero. Le partite dei giallorossi sono divertenti, con diversi gol fatti ma anche subiti, soprattutto fuori casa: normale in questi anni avere un andamento diverso tra partite interne ed esterne. Le ‘piccole’ costruiscono la salvezza davanti al proprio pubblico, con una spinta in più si riesce sempre a far bene. Ovviamente gli scontri diretti diventano decisivi per tutti, soprattutto sul terreno di gioco favorevole. Il 17 ottobre 1999 arriva a Lecce un’avversaria importante per la permanenza in A, ovvero la Reggina. Una partita da vincere a tutti i costi, senza se e senza ma. I giallorossi, dopo il successo interno con i bianconeri, cadono a Bologna sotto i colpi di Signori e compagni, ad aprire le marcature ci pensa Savino che sbaglia porta e beffa Chimenti. La squadra di mister Cavasin deve dunque riscattarsi immediatamente, non ci sono scuse in grado di giustificare la compagine leccese. Prima di arrivare al match è necessario fare un salto indietro fino a Manaus, in Brasile. Qui

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RNO

GIO EROI PER UN Francisco Lima

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

nasce Francisco Govinho Lima, centrocampista molto fisico e poco tecnico. Il brasiliano cresce calcisticamente a Fortaleza, nel Ferroviário Atlético Clube. Poi il trasferimento al San Paolo, dove arrivano poco più di 6 presenze e il viaggio verso l’Europa. S’inizia in Turchia, sponda Gaziantepspor, poi un anno allo Zurigo in Svizzera. Gli osservatori del Lecce lo notano e pescano bene, per una squadra che deve salvarsi un centrocampista come Lima può far comodo. Inoltre, è brasiliano e quell’epoca lì è caratterizzata dal mito verdeoro, visto che in Italia gira un certo Ronaldo. Francisco non è Luis Nazario e non ha gli stessi piedi, anzi. Nelle sue prime avventure non è nemmeno un centrocampista, bensì un portiere. Non ha molta fortuna nel ruolo anche per via dell’altezza, ma se la cava comunque bene. In Svizzera gioca e segna anche, per chi vuole salvarsi un giocatore simile può essere una manna dal cielo. In Italia il suo adattamento viene reso più veloce da quel gol alla Juventus che ovviamente fa impazzire tutto il pubblico di fede giallorossa. Un giocatore normale che si adatta bene al 3-5-2 di Cavasin, un centrocampista che deve fare il lavoro sporco e quando può metterla anche dentro con il classico inserimento a fari spenti. Il match è comunque uno di quelli in cui non si risparmiano colpi di nessun genere. Gli scontri salvezza in quel periodo sono duelli rusticani senza vincitori né vinti, tutti sanno quanto può essere difficile scendere su un campo infuocato in cui i rimbalzi del pallone non vengono mai contati, anzi. Espulsioni, rigori e tanto altro ancora. Proprio da qui inizia

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la storia di uno scontro diretto che entrerà negli annali del calcio non solo per il risultato, ma soprattutto per quanto visto in campo nei minuti finali. In un Via del Mare praticamente stracolmo, Lecce e Reggina si giocano già una bella fetta di promozione diretta. I moduli contano poco, sappiamo benissimo che in questi casi vince chi arriva prima sul pallone. Gli schieramenti sono speculari, 3-5-2 con i soliti terzini tutta fascia a sacrificarsi un po’ per tutti e i centrocampisti ad aiutare nel lavoro sporco. Si inizia subito forte con Pralja che prova una rovesciata da posizione improbabile, Chimenti in qualche modo rispedisce al mittente il tentativo. La partita è comunque divertente, Lucarelli si vede annullare un gol di testa per fuorigioco: le occasioni non mancano da entrambe le parti, soprattutto nella prima frazione di gioco. Al 41’ Possanzini entra in area di rigore e dà una svolta alla partita, procurandosi la massima punizione: sul dischetto va Baronio che prima trema - Chimenti aveva intuito l’angolo giusto - e poi tira un sospiro di sollievo. Lecce sotto a pochi minuti dall’intervallo e una partita che si complica inevitabilmente. In pieno recupero arriva però una buona notizia per la squadra di Cavasin: Cirillo non tiene le mani a posto e regala il secondo rigore di giornata, Sesa va dagli undici metri e non sbaglia. La partita, come tutte quelle in cui c’è qualcosa di pesante in palio, vive il classico momento di stanca. Solite sostituzioni - in campo entrerà anche Andrea Pirlo - e poche opportunità per sbloccare la partita. La mossa giusta arriva al 67’ quando il Lecce man-


IL TABELLINO DELLA PARTITA Stadio del Mare – 17/10/1999 Lecce - Reggina 2-1 (1-1) Lecce: Chimenti, Juarez, Viali, Savino, Balleri, Conticchio, Lima, Piangerelli (dal 67’ Bonomi), Colonnello, Sesa (dal 72’ Marino), Lucarelli (dal 72’ Biliotti). Allenatore: Alberto Cavasin Reggina: Orlandoni, Oshadogan, Cirillo, Stovini, Martino, Brevi (dal 44’ Poli), Baronio (dal 67’ Die), Pralja, Morabito, Reggi (dal 67’ Pirlo), Possanzini. Allenatore: Franco Colomba Arbitro: Serena di Bassano del Grappa Marcatori: 41’ Baronio (R), 47’ pt Sesa (L), 76’ Bonomi (L) Spettatori: 14.060 Note - Ammoniti: Bonomi, Lima, Sesa (L), Brevi, Pralja, Possanzini, Martino, Cirillo (R) Espulsi: 85’ Chimenti (L) e 89’ Bonomi (L) per doppia ammonizione

da in campo Bonomi al posto di Piangerelli. Dieci minuti più tardi il numero 16 si inventa un gran sinistro su calcio piazzato e supera Orlandoni con una traiettoria perfetta. Il Lecce conduce, ma a quattro minuti dal termine Chimenti cade nella provocazione di Cirillo e si fa espellere per aver tirato il pallone contro la testa del proprio avversario. Rosso diretto e Lecce senza più cambi. Il portiere in campo però c’è ed è Francisco Lima, che i guantoni li aveva indossati qualche anno fa in Brasile. Peccato che parecchi tifosi del Lecce non conoscevano minimamente questa storia, l’iniziativa del giocatore non è ben vista dai tifosi di casa. In porta ci va il brasiliano con la maglia di Chimenti nell’incredulità generale: Viali e Cavasin si lanciano sguardi increduli ma nessuno osa dire qualcosa, anche perché lo sguardo del centrocampista non è propriamente diplomatico. Il direttore di gara assegna sei minuti di recupero, tutti ovviamente trattengono il fiato. Bonomi nel frattempo pensa di farsi espellere

Lima ha preso il posto di Chimenti tra i pali della porta del Lecce

lasciando i suoi in nove uomini. La Reggina ci prova da lontano, ma Lima si distende senza nessun problema. Prima un intervento a mano aperta su un pallonetto, poi una parata su un tiro rasoterra insidiosissimo. Dieci minuti in cui il pubblico del Lecce intuisce che non tutto ciò che sta accadendo non è un caso e aiuta il giocatore, già galvanizzato di suo, con un boato ad ogni intervento. I calabresi ci provano, ma Lima è insuperabile. Arriva il triplice fischio finale con il brasiliano portato in trionfo dai compagni, diventando così il nostro eroe per un giorno. Il Lecce porterà a casa la salvezza e il giocatore verdeoro troverà il suo unico gol in Serie A proprio con la maglia giallorossa, quello messo a segno con la Juventus. Una rete ai bianconeri e dieci minuti di pura follia, tanto è bastato per poter entrare nel cuore dei tifosi.

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TI I N I F O N O S DOVE Alex Pinardi

Credit Foto: Feralpisalò

di Sergio Stanco

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Abbiamo fatto una bella chiacchierata con Alex Pinardi, ex indimenticato (tra le altre) di Atalanta, Cagliari e Modena. Appese le scarpette al chiodo, l’ex fantasista si sta ritagliando un nuovo ruolo nel mondo del calcio.

“E

sordisce in Serie A nel 2000 e proprio in quell’anno si afferma come uno dei talenti emergenti della Serie A”. Così recita la pagina che Wikipedia dedica ad Alex Pinardi. Talento fulgido, fantasista geniale, ma centrocampista moderno ed anche attaccante esterno all’occorrenza. Poi arretrato vertice basso alla Pirlo, spesso capitano delle sue squadre, leader silenzioso proprio come il suo concittadino Andrea. Presenza costante nelle rappresentative azzurre fino all’Under 21, ma la maglietta della Nazionale A rimarrà solo un sogno. Il perché ce lo racconta proprio lui: “Diciamo che non ho avuto un percorso di carriera lineare. O, meglio, ci sono state delle situazioni della mia vita privata che in qualche modo hanno condizionato la

la rivalità che c’è tra Brescia e Atalanta, per cui sono sempre stato accompagnato da un po’ di scetticismo. All’Atalanta però mi hanno trattato benissimo e sono cresciuto con i valori di un settore giovanile eccezionale, guidato da un maestro come Mino Favini. Prima il rispetto delle regole, dei ruoli, dell’avversario. Ognuno al proprio posto, con le proprie responsabilità: genitori, procuratori e società che lavorano in un’unica direzione: la maturazione del ragazzo, prima del calciatore. Poi veniva tutto il resto. A Bergamo ho vissuto 15 anni, sarò sempre riconoscente all’Atalanta, che mi ha trattato come un figlio. Mi ha anche aspettato più di un anno, quando a causa di un morbo ho dovuto operarmi e stare fermo. È stata davvero una seconda famiglia”. All’Atalanta Alex comincia

Mister Tecnica mia professione. Io sono sempre stato molto schivo e ho preferito tenere tutto per me, ma ora che ho chiuso con il calcio giocato, posso finalmente spiegare. E forse si comprenderà il motivo di alcune scelte che in molti non hanno capito”. Ma partiamo dall’inizio, Alex Pinardi nasce a Chiari, è un classe ’80 e pur essendo bresciano, cresce nel settore giovanile dell’Atalanta, di cui fa tutta la trafila, fino ad esordire prima in B e poi in A. E già questo non è proprio facile come dirlo… “Tutti conoscono

a muovere i primi passi e a farsi notare, in particolare con un gol alla Juventus. E in porta c’è un certo Buffon. In quell’azione tocca il pallone Capitan Doni, l’assist è di Dabo, ma l’esterno all’incrocio è tutto di un giovanissimo Pinardi (finirà 1-1): “è un bellissimo ricordo, che porterò sempre con me, ma non mi piace vivere al passato. Ho un DVD con tutti i miei gol, ma lo guardano i miei figli. A loro dico sempre che si deve essere orgogliosi di quanto di buono fatto, ma si deve sempre puntare al prossimo

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DOVE SONO

FINITI?

Alex Pinardi

obiettivo”. È il 2003, Alex ha 23 anni ed è pronto a spiccare il volo, eppure quel gol è stato forse l’apice della sua carriera. Una carriera che, successivamente, non si è sviluppata secondo le attese: “Dopo quattro anni all’Atalanta avevo bisogno di rimettermi in gioco, di staccare il cordone ombelicale e di dimostrare che potevo camminare con le mie gambe. Le sfide non mi hanno mai fatto paura, anche perché io la gavetta l’ho fatta tutta. Ho perso mio papà quando avevo dodici anni e ricordo ancora le serate a lavorare con la mia mamma: la aiutavo a fare calzettoni e non mi vergogno a dirlo. A Lecce incontro Zeman, un personaggio fantastico, di un’ironia coinvolgente. Dal punto di vista calcistico, il numero uno in assoluto, e per distacco, per la fase offensiva. Sebbene fossi un po’ un atipico per il suo famoso 4-3-3, mi consentiva di partire largo e accentrarmi, un po’ come aveva fatto alla Roma con Totti. Mi sono trovato a meraviglia con lui, tanto che poi ha anche provato a portarmi alla Stella Rossa. Mi ha chiamato più volte per convincermi, ricordo ancora che avevo mia moglie a fianco che scuoteva la testa e diceva: “Dappertutto, ma a Belgrado no eh” (sorride, n.d.r.). E per fortuna non sono andato, perché dopo poco l’hanno esonerato, per me lì da solo sarebbe stata dura”. A Lecce Alex conferma quanto di buono si diceva sul suo conto, tanto che in molti provano a strapparlo ai salentini: “C’erano diversi interessamenti, mi volevano squadre importanti, probabilmente era il mio momento, ma evidentemente non era destino”. Da Lecce, infatti, finisce a Modena, tra lo stupore generale: “In molti ancora mi contestano quella mia decisione, ma è stata una scelta consapevole. A Lecce stavo benissimo, e a Modena lo sono stato altrettanto, ma la cosa più importante è che fossi vicino a Bergamo, dove viveva la mia famiglia. Nessuno può capire cosa significhi stare a 1.000 chilometri di distanza quando hai paura di perdere un figlio. Avevo 21 anni e il mio primo bimbo era nato con problemi al cuore. All’inizio vivevamo nel terrore, per tre

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anni io e mia moglie ci siamo dovuti sottoporre a qualsiasi tipo di analisi per scongiurare una diagnosi addirittura più terribile. Ricordo ancora le lacrime di gioia quando il genetista ci chiamò per dirci che non c’era nulla di cui preoccuparsi. In tanti anni non ho mai voluto raccontarlo, un po’ per riservatezza, un po’ per me stesso, per non crearmi alibi, quasi nessuno sapeva a parte i famigliari stretti. Ai tempi ho ricevuto tante chiamate importanti alle quali ho preferito dire di no, adesso in molti capiranno perché l’ho fatto. E no, non ho alcun rimpianto. È stata la scelta giusta. E la rifarei sempre, senza alcuna esitazione”. Passata la paura, a 30 anni Pinardi ritrova la Serie A con il Cagliari, ma probabilmente lo spunto non è più quello di una volta. La voglia, però, non manca e la carriera va avanti fino alla soglia dei 40 anni, passando per società prestigiose come Novara, Vicenza e Cremonese, ma lasciando un ricordo indimenticabile alla Feralpisalò, dove da quest’anno ha cominciato una nuova vita professionale dopo aver vestito anche le maglie della Giana Erminio in Lega Pro e dell’Adriense nel campionato nazionale dilettanti: “Alla Feralpi sono entrato subito in sintonia con tutto l’ambiente, tanto che è un po’ che la società premeva per avermi come collaboratore tecnico. Mio figlio, per altro, gioca qui nella Beretti. Sì, proprio quel bimbo che ci aveva fatto tanto preoccupare (sorride, n.d.r.). Attualmente sono il secondo dell’Under 17 e devo dire che stare sul campo ed insegnare a questi ragazzi quello che in tanti anni di carriera hanno insegnato a me, mi rende molto felice”. Ma c’è di più, perché la Feralpisalò, società molto all’avanguardia, gli ha ritagliato un ruolo speciale. La sua “job description” ufficiale è “Maestro di Tecnica”. E non ci potrebbe essere titolo più azzeccato per uno che il pallone lo accarezzava e lo coccolava: “In aggiunta all’Under 17 svolgo allenamenti volontari una volta a settimana, insegnando ai ragazzi di tutte le categorie i principi base della tecnica.


Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

Negli ultimi tempi nei settori giovanili si è esagerato con la tattica, perdendo di vista quella che secondo me è l’essenza del calcio. Sono contento di questo ruolo, i ragazzi sacrificano il loro tempo libero per fare sessioni supplementari”. E non è una cosa così scontata per i giovani d’oggi: “Eh già, rispetto ai miei tempi sono cambiate tante cose. Non voglio dire che sia meglio o peggio, ma è molto diverso. Ho cercato di mettermi nei loro panni, perché avendo un figlio di quell’età so benissimo che sono io a dover entrare nel loro mondo, perché viceversa loro in quello di noi adulti non hanno nessuna intenzione di entrare. Questi sono ragazzi che hanno tutto, che credono che tutto sia loro dovuto e fanno fatica a capire il motivo per il quale dovrebbero sacrificarsi per un “gioco”. Noi, ai nostri tempi, avevamo solo un pallone e affidavamo a lui tutti i nostri sogni. Avevamo molta più fame e voglia di emergere”. Ma gli ex ragazzi di una volta, cresciuti a pane e pallone non vogliono smettere di sognare: “Ho iniziato questa esperienza con grande entusiasmo, ma anche per mettermi alla prova, per capire se fosse effettivamente la mia strada. E oggi so che è questo quello che voglio fare. Non voglio affrettare i tempi, devo procedere per step e maturare come allenatore. So di poter contare su una società forte e ambiziosa che mi aiuterà in questo percorso. Farò la mia gavetta come ho sempre fatto, quando sarà il momento farò il Master a Coverciano. Fra qualche anno mi vedo su una panchina, questo è certo”. Ad Alex, d’altronde, i maestri non sono certamente mancati: “Ricordo con piacere tutti i

miei ex allenatori, ho avuto buoni rapporti con tutti, ma alcuni mi hanno lasciato il segno. Avrei seguito Zeman ovunque, Vavassori è stato un esempio di professionalità e serietà, ma quello che mi ha fatto innamorare di questa professione è stato sicuramente Beppe Scienza (ex giocatore di Torino, oggi allenatore del Monopoli, n.d.r.). Mi ha voluto alla Cremonese e poi mi ha portato qui alla Feralpi, è stato lui a trasformarmi da trequartista a regista. È un ottimo allenatore, sottovalutato, che ha sempre fatto molto bene dove ha allenato, pur non avendo grandi budget a disposizione. È uno a cui non piace apparire e questo probabilmente lo penalizza”. Vi ricorda qualcuno per caso? Oggi, però, l’esempio è uno solo… “Non c’è squadra che mi diverta più dell’Atalanta. Se sono libero, guardo tutte le partite. E non solo per l’affetto che mi lega all’ambiente. Per me attualmente gioca il calcio migliore non solo in Italia, ma anche in Europa. Quello che mi affascina del gioco di Gasperini e la furia con la quale le sue squadre attaccano. È geniale. Crea superiorità numerica con i difensori centrali, tutti possono attaccare. Certo, poi c’è gente di categoria superiore come Ilicic che fa il fenomeno, ma nel complesso è una macchina perfetta. Uno spettacolo”. Dunque, se fra qualche anno vedrete una squadra che attacca forsennatamente, con uno come Iliic (o come Pinardi) a far da mattatore, e con un tecnico emergente in panchina, saprete già il nome del suo allenatore. O, se preferite, potrete chiamarlo semplicemente Mister Tecnica…

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a t t a f o h ’ l io ce Amauri

di Mirko DI Natale

“LA RICERCA DELLA MIA FELICITà” 78


Amauri, un ragazzo del Sud che ha lottato per realizzare i suoi sogni…

l’

appuntamento telefonico con Amauri è fissato per le ore 20 in punto. In Italia la giornata è quasi del tutto trascorsa ma a Miami, negli Stati Uniti, è primo pomeriggio e il sole splende ancora alto nel cielo. “Tra poco andrò a prendere i bimbi a scuola, ma sono pronto a rispondere ad ogni domanda che farai”, ci svela subito senza tergiversare. A dividerci ci sono circa 7950km, ma la distanza è abbattuta fin dalle prime fasi della chiacchierata. Il tempo trascorre davvero in fretta, i ricordi affiorano nella mente come non mai e i temi affrontati sono davvero tanti: dai primi passi al professionismo, dalla Nazionale alla sua vita. Le porte di casa sua pian piano si aprono sempre più, non è per nulla difficile diventare i co-protagonisti nel racconto della sua storia. Perché tutti lo abbiamo sempre visto e giudicato sul campo, ma nessuno lo ha mai letto nel suo privato. Sapevate, ad esem-

pio, che il suo attore preferito è Will Smith? Oppure che ha rischiato di non essere un calciatore perché voleva intraprendere la carriera militare? Chi è oggi e chi sarà domani Amauri Carvalho de Olivera? “Oggi sono un padre che si occupa dei suoi tre bellissimi figli e della sua famiglia. Vivo a Miami in Florida, sono rimasto qui negli Stati Uniti dopo la mia ultima avventura disputata ai Cosmos di New York. Seguo a piccoli passi la crescita calcistica di mio figlio, ha tredici anni ed è stato convocato di recente nell’U14. Lui cerca sempre di coinvolgermi a giocare qui a casa, ma gli dico di uscire perché la spiaggia e il parco sono a pochi metri. Rivedo me stesso. Domani? Voglio dare un’opportunità ai ragazzi meno fortunati, non solo a quelli brasiliani sia chiaro. Ci sono poche possibilità, per questo voglio creare una società in cui poterli inseri-

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re e far crescere. Non so se vorrei diventare un allenatore, spesso mi sono chiesto come diamine facessero i miei a gestire trenta teste diverse (ride n.d.r.)”. Quali sono i tuoi hobby? “A me piace fare tutto ciò che non potevo far prima, ovvero vivere la mia famiglia. Nel fine settimana adoro guardare tutti i campionati europei, mi piace sempre tenermi aggiornato su ciò che succede. Il mio attore preferito è Will Smith, ho guardato tutti i suoi film e spero un giorno di poterlo incontrare. L’altro giorno era qui e non sono riuscito ad incontrarlo, sto ancora rosicando per questo (ride n.d.r.). Con la mia figlia più grande usciamo spesso insieme a cena, con quella più piccola invece dobbiamo vedere sempre e solo quel che piace a lei su Netflix”. Come ti sei avvicinato al calcio? “Fin da bambino ho sempre coltivato questa passione, il momento più forte è avvenuto nel 1994 quando il Brasile ha vinto Il Mondiale contro l’Italia. Lì sì è accesa ancor di più la passione, perché volevo essere come loro. Non era più come quando avevo 10 o 12 anni che volevo solo divertirmi, a 14 ho capito che dovevo inseguire il mio sogno”. Tanti ragazzi del Sud America crescono in contesti difficili, tu come sei cresciuto calcisticamente? “Il mio papà e la mia mamma non mi hanno mai fatto mancare nulla, ma la vita di tutti i giorni non era così semplice. I miei genitori lavoravano per mandare avanti la famiglia, io rimanevano a casa per accudire i miei fratelli e le mie sorelle. Non ho vissuto nella povertà, ma nemmeno nel lusso più sfrenato. Un paio di scarpe mi doveva bastare per tutto l’anno”. E a differenza di altri tuoi colleghi, prima di diventare professionista hai fatto diversi lavori per mantenerti… “Questa è stata la causa principale per cui non ho mai giocato in un settore giovanile. A differenza di mio figlio e dei suoi coetanei che oggi vivono questa realtà. Io giocavo nella squadra

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Il Torino l’ultima casacca indossata in Serie A da Amauri

della mia città, non ho mai giocato dei campionati né ho affrontato degli allenamenti specifici. Ho lavorato nel settore metallurgico, in una fabbrica di carbonella, in un supermercato, ho fatto il muratore. Anche per pochi soldi, dovevo pagarmi il pullman e dovevo far mangiare la mia famiglia”. L’umiltà che hai dimostrato, a tuo parere, potrà essere utile anche ai tuoi figli in futuro? “Sì, tra poco compirò 40 anni e ciò che ho vissuto me lo ricorderò per sempre. Cindy, Hugo Leonard e Miley, i miei figli, conoscono benissimo la mia storia e quella della loro mamma, sanno benissimo che era una generazione diversa. Loro devono dar valore a quello che possiedono adesso, perché loro possono fare anche meglio. Noi, con niente, siamo riusciti a cambiare il mondo! A loro cerco di insegnare e trasmettere quotidianamente questi valori. Più importanti di tutto il denaro di questo mondo”. Ti ha pesato non frequentare un settore giovanile?


“Non è stato per nulla facile, ricordo che ho fatto tanti provini e tutti mi davano la stessa risposta. Sai quale era? ‘Non hai mai fatto un settore giovanile’. Era diventato un ritornello. Insomma: ero bravo, ma per nulla considerato. Ad un certo punto della mia vita, però, iniziai a pensare anche ad un altro lavoro che non riguardasse il calcio. Non ero un grande fan della scuola, così dissi a mia madre di voler provare a fare carriera nell’esercito, se non avessi sfondato nel calcio”. Credo che qui la risposta la sappiamo tutti, no? “Esatto, non mi presero (sorride n.d.r.). Mia madre mi disse di non preoccuparmi e che per un po’ avremmo stretto i denti. Arrivò un nuovo provino con una squadra di Santa Catarina. Lei fu cruciale per le mie decisioni. Lì andai veramente bene, mi presero e alla veneranda età di 18 anni provai l’ebbrezza del primo ritiro. Si trovava a 10 ore da casa, l’inizio non fu facile ma poi mi sbloccai e iniziai a segnare con continuità nelle ultime giornate di campionato. Gli imprenditori avevano l’idea di costruire una squadra per portarla al torneo di Viareggio, era una bellissima idea ma c’era un problema: non pagavano. Ero in forte dubbio, ma un nuovo consiglio materno mi fece accettare e agli inizi del 2000 mi recai per la prima volta in Italia. Ma c’era una grande paura”. Quale?

17 le reti, in 71 gare, con la casacca bianconera

“Non avevo mai lasciato il mio Paese. Anche qui fu fondamentale il suo parere, mi convinse ad accettare perché era il mio sogno. La mia risposta fu divertente: “Mamma, vedrai che qui non tornerò più. Mi aspetterete per rivedermi solo in vacanza”. Alla fine, mi sembra di aver avuto ragione, perché a parte la parentesi di Bellinzona ho vissuto in Italia per tanti anni”. Come hai vissuto il passaggio che ti ha portato poi a giocare in Europa? “Era proprio un altro mondo, non c’era internet e null’altro. Avevo visto l’Italia solo in televisione. A febbraio ricordo un freddo glaciale, mamma mia mi tremano ancor adesso i denti (sorride n.d.r.). Il torneo andò bene, un sacco di persone mi fecero molte offerte e alla fine andai a giocare in Svizzera. Trovai delle difficoltà perché il calcio europeo era diversissimo da quello brasiliano, tra l’altro mi feci anche male”. LA GRANDE TRUFFA Quando pensa all’Italia, Amauri non può che sorridere. E non solo dal punto di vista calcistico. Perché il belpaese lo ha accolto da ragazzo e lo ha reso un uomo, qui ha conosciuto quella che sarebbe diventata la sua futura moglie e sempre qui sono nati i suoi figli. Solo cose belle. Ma nel suo album dei ricordi, c’è posto anche per una storia profondamente brutta e molto triste: “A Torino persi tutto, documenti e

Tantissimi i campioni con cui ha giocato

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soldi. Non potevo più tornare indietro e sembravo davvero in un vicolo cieco. Ho vissuto da clandestino. Però trovai nel signor Melotti una grande persona, mi accolse facendomi dormire con altre persone. Ho un bel ricordo di lui”. Ma prima c’è da fare un piccolissimo passo indietro. Lo avevamo lasciato, infatti, con indosso la maglia del Bellinzona: “In Svizzera mi dissero che non facevo parte del progetto tecnico della squadra, così mi abbandonarono. Che faccio adesso? Delle persone mi convinsero ad andare in Belgio con la scusa di un futuro contratto con una nuova squadra di calcio. Feci un provino e lo superai, la mia felicità però si tramutò subito in tristezza: tutti scomparvero, c’eravamo solo io e un altro ragazzo italiano di nome Roberto. Una vera e propria truffa. Siamo rimasti chiusi in albergo per una ventina di giorni senza poter uscire, senza poter mangiare, senza poter combinare nulla. Un giorno mi chiamò il mio ex procuratore Vittorio Grimaldi, mi disse che ci eravamo conosciuti

In gol contro il Milan con la casacca della Fiorentina

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al torneo di Viareggio - ma io non ricordavo - e mi rassicurò dicendomi di star tranquillo che aveva saldato tutti i debiti contratti da me e l’altro mio compagno. Ma, specificò, a Napoli il giorno dopo verrai solo tu. Ero felice. Oggi sono sincero nell’affermare che non devono più accadere storie come questa che ho raccontato. Perché nessuno deve rubarti i tuoi sogni”. E poi, come prosegue il racconto? “Dopo Bellinzona arrivai a Napoli, conosco tutta la città perché correvo per la città con il pallone. Non fui aggregato alla prima squadra, la società decise così di farmi allenare con la formazione Primavera. L’allenatore Porta era innamorato di me, io stavo benissimo fisicamente e la mia condizione era migliore rispetto a quella dei miei compagni. Stavo cominciando ad imparare la lingua italiana, ma onestamente ho parlato più dialetto che lingua madre. E il napoletano lo comprendo ancor oggi molto bene. Proprio per questo motivo, potrei esser benissimo definito come un uomo


del Sud (ride n.d.r.). Per sette mesi rimasi senza contratto, ma decisi di tener duro. Mai una lamentela o una parola fuori luogo, ecco perché la società mi diede un premio di circa dieci milioni di lire. Sapevano bene che la mia non era una situazione facile, anzi con il passare del tempo era addirittura disperata. Aiutai, con quei soldi, la mia famiglia”. Qual è il gol che porti di più nel cuore? “Il gol che segnai alla Fiorentina: presi palla al limite, dribblai due giocatori e scaricai una botta imprendibile sul secondo palo. Avevo già fatto bene l’anno prima al Chievo, ma quella fu la situazione che più mi fece conoscere in Italia. Tutti iniziarono a scandire il mio nome. E poi fu una grande gioia, perché il Palermo in quel periodo era in vetta alla classifica. Senza il mio infortunio saremmo riusciti ad andare in Champions League al 100%”. Hai giocato con Alessandro Del Piero, Fabrizio Miccoli e Antonio Cassano… “Del Piero è il monumento, a mio parere il calciatore più forte a livello italiano con cui ho giocato. Lui è differente da tutti: è un fuoriclasse fuori e dentro dal campo. Miccoli è il genio, gli voglio un mondo di bene e tutt’ora ci sentiamo spesso con affetto. Cassano è un genio anche lui, ma ribelle. Non ho mai avuto problemi con lui, abbiamo sempre fatto bene facendo le fortune del Parma. Secondo qualcuno è un difetto quello di dire ciò che si pensa, ma a me piace e dunque lo considero un pregio. Sono stato fortunato ad aver giocato con loro”. L’allenatore con cui conservi i ricordi più belli? “Nonostante i tanti battibecchi avuti, conservo un ricordo bello e piacevole degli allenatori avuti in carriera. Sono stato sempre una persona di rispetto. Ricordo Delneri per la favola del Chievo. Beretta perché è stato l’unico a cui ho veramente mancato di rispetto - e sono consapevole di aver commesso degli errori di gioventù -. Pillon è stato fondamentale per la mia permanenza in Serie A. Guidolin lo adoro per i suoi modi quasi da sacerdote, diceva

poco ma recepivo tutto. Ed è grazie a lui se sono esploso. Con Colantuono c’è stato un grande rapporto. Ranieri è un Signore rigorosamente scritto così. Donadoni lo ammiro, mi ha dato molto come persona e come allenatore. Spesso non mi faceva giocare, per questo gli dicevo con grande rispetto che era peggio per lui (sorride ndr). Lui rideva e diceva che mi avrebbe aspettato, infatti andò proprio così. Ma non posso non citare il mio mentore Germano Chierici, scomparso purtroppo qualche mese fa. Lo porterò per sempre nel mio cuore”. Hai avuto Gigi Delneri a Verona e poi alla Juventus. Differenze? “Lo ritrovai uguale, era la stessa persona perbene e competente di sempre. Nel 2003 trovò un ragazzo, anni più tardi un uomo che aveva già un nome ed era affermato. Alla Juventus mi diede la possibilità di giocare fin dall’inizio, lo ripagai subito segnando nei preliminari di Europa League e disputando delle buone prestazioni in campionato. Purtroppo, ebbi un brutto infortunio e conseguentemente non riuscii più a dare tutto me stesso, ma da stupido feci un’intervista in cui parlai bene del Palermo e la tifoseria iniziò ad avercela con me. E l’ambiente bianconero, dove deve essere tutto perfetto, iniziò ad essere ostile nei miei confronti”. Si vocifera che Delneri decise di tenerti a scapito di Trezeguet… “Ma alla fine però sono andato via anche io (ride n.d.r.). Io lo dico umilmente: non c’era confronto tra me e Trezeguet, lui è stato lo straniero più prolifico a livello realizzativo con la maglia della Juventus. Però tornando al mio addio, non fu facile lasciare la maglia bianconera. Per nulla. A gennaio, infatti, decisi veramente all’ultimo momento di andare al Parma”. Che poi la maglia della Juventus l’hai lasciata nuovamente, questa volta per sempre, un anno dopo… “La seconda volta fu veramente difficile. Perché a Parma mi comportai bene, i miei gol

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contribuirono alla salvezza di una squadra che sembrava spacciata. Mi convinsi a tornare alla Juventus per ritrovare il mio posto, ma l’ambiente fu ancor più furente nei miei confronti. Non capivo il perché. Eppure, non parlai mai male della Juve. Mai. Ebbi una chiacchierata con mister Conte che si era appena insediato in panchina, molto onestamente mi disse che non mi avrebbe garantito il posto da titolare ma considerava importanti le mie qualità. Il suo pensiero però non coincise con quello della società, che fece di tutto per mandarmi via. Dissero un sacco di falsità, come quella che rifiutai tante squadre. Non è vero. L’unica a cui dissi di no fu il Marsiglia di Deschamps, a lui risposi che non me la sentivo di lasciare l’Italia perché mia moglie era incinta. E questo lo pagai caro, non a livello economico bensì a livello sportivo perché non ebbi nessuna occasione di giocare. Passai sei mesi ad allenarmi convinto che magari sarei potuto rientrare in squadra, questo però non avvenne mai. Smentisco categoricamente chi disse che a farmi fuori fu Antonio Conte. No. A mandarmi via fu la dirigenza della Juventus”. Il destino poi ci ha messo del suo, perché quell’anno il tuo gol al Milan fu decisivo per festeggiare il primo degli otto scudetti bianconeri… “È vero, di questo non mi sono mai vantato né lo farò mai. La soddisfazione più grande fu quella di ricevere le chiamate dei miei ex compagni, allora impegnati a Palermo, che mi fecero le congratulazioni. E quello fu l’unico gol segnato con la maglia della Fiorentina, fui contento perché mi consentì di sbloccarmi. A me ricordare tutto questo non provoca nessun tipo di rivalsa o vendetta, anzi questo episodio mi rende ancor oggi felice. Alla Juventus non è consentito fare errori, io forse sbagliai un po’ troppo”. LA NAZIONALE ITALIANA E QUEL MONDIALE DEL 2010 “L’idea della nazionale italiana è nata nel fina-

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Indimenticabile la gioia per la chiamata della Nazionale

le del 2008, ma già l’anno prima iniziarono a chiedermi se i gol segnati erano per Donadoni o Dunga. Io ho sempre cercato di schivare questi discorsi. Dentro di me pensavo di meritare una chance in Brasile ma non mi hanno mai chiamato. Quando mi trasferii alla Juventus ebbi più visibilità. Verso il mese di settembre di quello stesso anno, ricordo di esser stato contattato dalla Federazione su suggerimento dell’allora ct Marcello Lippi. Risposi: ‘Chi? Lippi il Campione del Mondo? Lui davvero vuole parlare con me?’. Ero davvero molto emozionato, il suo scopo era quello di convocarmi per giocare il Mondiale che si sarebbe tenuto 24 mesi dopo in Sud Africa. Ma c’era un piccolissimo problema: ero sprovvisto di passaporto. ‘Ama non ti preoccupare - mi disse -, cercheremo di vedere come fare per trovare una soluzione’. In tal senso fui molto chiaro con il mister, dissi che avrei aspettato l’ultima possibile chiamata da parte dei verdeoro per l’amichevole che si sarebbe disputata a metà novembre. In caso negativo, avrei risposto solo agli Azzurri. E così fu. Ma le ciambelle non escono mai tutte col buco. A causa di una legge cambiata all’ultimo, il passaporto venne slittato di sei mesi e quindi lo presi a 2010 inoltrato. Per me questo fu un enorme danno, perché stavo vivendo un momento negativo con la Juve e in più non avevo mai fatto parte della spedizione che stava partecipando alle qualificazioni. Ebbi


LA CARRIERA DI AMAURI Stagione Squadra Categoria Totale Pres Reti 1999 Santa Catarina B 14 8 2000-gen. 2001 Bellinzona CL 5 1 gen.-giu. 2001 Napoli A 6 1 2001-2002 Piacenza A 11 0 lug.-ago. 2002 Empoli A 0 0 ago. 2002-2003 Messina B 22 4 2003-2004 Chievo Verona A 30 4 2004-2005 Chievo Verona A 24 2 2005-2006 Chievo Verona A 40 14 ago. 2006 Chievo Verona A 2 2 ago. 2006-2007 Palermo A 19 8 2007-2008 Palermo A 38 15 2008-2009 Juventus A 44 14 2009-2010 Juventus A 40 7 2010-gen. 2011 Juventus A 16 3 gen.-giu. 2011 Parma A 11 7 2011-gen. 2012 Juventus A 0 0 gen.-giu. 2012 Fiorentina A 13 1 2012-2013 Parma A 34 10 2013-2014 Parma A 33 10 ago. 2014 Parma A 1 0 2014-2015 Torino A 28 3 2015-feb. 2016 Torino A 2 0 2016 Ft. Lauderdale Strikers NASL 13 5 2017 N.Y. Cosmos NASL 3 0 un altro colloquio con Lippi in cui mi disse che non mi avrebbe potuto portare, lo capii e manifestai la volontà di perseguire la caccia alla maglia azzurra. Occasione che venne sfruttata con mister Prandelli, nella partita con la Costa d’Avorio”. Qual è la squadra a cui sei rimasto più legato? “Rispondo il Palermo, c’è un feeling e un amore che dura tutt’oggi. I tifosi mi ricordano sempre con grande affetto, su Instagram mi mandano sempre dei messaggi molto carini e alcuni di loro mi chiedono di tornare a giocare (sorride n.d.r.). In questo momento non ho più il fuoco dentro, sto bene così ma

nella vita mai dire mai. Non appena avrò risolto dei problemi burocratici, conto di poter tornare in Italia. E una delle prime tappe sarà proprio Palermo”. Attualità: chi vincerà la prossima Champions? “Non voglio portare iella, ma come ripeto spesso mi piacerebbe veder vincere la Juventus. L’ultima tripletta di una squadra italiana manca da ormai dieci anni, penso che soltanto i bianconeri abbiano le potenzialità e le carte in regola di ripetere tutto questo. Vedo la squadra di Sarri una delle favorite del torneo, al pari di Barcellona e Bayern Monaco. Ho la sensazione, invece, che il Real Madrid sia un po’ indietro”.

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n o d i b i e d o Alfabet Miloš Krasicć

di Gianfranco Giordano

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Arrivato alla Juventus con tante speranze, non ha lasciato il segno...

LA FRECCIA SERBA I

l 3 novembre 2009 all’Old Trafford un giovane serbo di 25 anni si impone all’attenzione del calcio europeo, quella sera il Manchester United ospita il CSKA Mosca, partita valida per il girone B della fase a gironi della Champions League. Miloš Krasić è un’autentica spina nel fianco della difesa inglese, il vero protagonista della partita e attira l’attenzione di molti club europei. Nato a Titova Mitrovica (cittadina kosovara con una forte presenza serba) il primo novembre 1984, Krasić ha cominciato a giocare nelle giovanili Rudar Kosovska Mitrovica per approdare successivamente alla Vojvodina nel 1998 insieme al fratello Bojan, più vecchio di un anno. A Novi Sad stringe amicizia con Milan Jovanovic, un altro ragazzo delle giovanili poco più grande di lui, e con Mirjana,

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doni

ei bi Alfabeto d Miloš Krasicć

una ragazza locale che diventerà sua moglie. Dalla stagione 2001/02 gioca in prima squadra nel club di Novi Sad, fino a diventarne il capitano. Tifoso del Partizan da piccolo, Krasić attira le attenzioni della Stella Rossa, ma alla fine passa nelle fila del CSKA Mosca nell’estate del 2004. Con i rossoblù vince due campionati, due Coppe di Russia, tre Supercoppe ma soprattutto il primo trofeo europeo del CSKA, la Coppa UEFA nel 2005, per Krasić nel frattempo si sono aperte anche le porte della nazionale serba. Nel 2009 viene eletto giocatore serbo dell’anno. Nell’estate del 2010 molti club europei, soprattutto inglesi, rincorrono l’ala serba, alla fine la spunta la Juventus che versa al CSKA 15 milioni di euro, al tempo viene considerato un gran colpo di mercato di Marotta. I dirigenti bianconeri sono convinti di aver ingaggiato uno dei migliori centrocampisti europei e i tifosi vedono in questo biondo giocatore dell’Est il nuovo Nedved. Il serbo arriva alla Juventus nel pieno della maturità, ha quasi 26 anni e una vasta esperienza con vittorie a livello nazionale ed europeo, forte fisicamente è un’ala di grande velocità e dinamismo, scatto bruciante, dribbling e buona confidenza con il gol. Per arrivare in tempo al vernissage bianconero di inizio stagione a Villar Perosa, noleggia un aereo privato pagandolo di tasca propria, questo è il biglietto da visita che lo fa subito adorare dai tifosi. L’esordio del serbo in bianconero avviene il 29 agosto a Bari, vittoria dei Galletti per 1-0 e forse il segnale che non sarà una stagione positiva per la Signora. Dalla partita successiva Krasić comincia ad essere protagonista, alla quinta giornata il 26 settembre segna tre reti al Cagliari, ormai i tifosi juventini sono ai suoi piedi mentre i difensori avversari non sanno come arginarlo. Un mese più tardi a Bologna una simulazione plateale regala un rigore alla Juventus, poi sbagliato, Krasić rimedia due giornate di squalifica e una fama di simulatore che non

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si toglierà più di dosso. All’inizio di novembre, in una partita di Coppa UEFA, si procura un infortunio muscolare, segna subito al rientro contro il Genoa e il 12 dicembre segna un gran gol alla Lazio a fine partita. La settimana dopo il serbo è ancora protagonista di un’azione travolgente contro il Chievo, ma il suo tiro si ferma contro la traversa. Qui finisce praticamente l’avventura di Krasić in bianconero, dopo un girone d’andata travolgente in cui nessun terzino riusciva a fermarlo il serbo è vittima di un’involuzione decisiva, reduce da una stagione precedente lunga e stancante e inserito nella Juventus meno brillante degli ultimi vent’anni non riuscirà più ad essere protagonista. La stagione successiva alla Juventus arriva Conte, il cambio di modulo, la concorrenza in squa-

Il tecnico Conte mentre dà indicazioni tecniche a Krasic


dra di centrocampisti del calibro di Pirlo, Liechsteiner e Vidal insieme alla difficoltà di dialogo tra Krasić e l’allenatore spingono il serbo ai margini della squadra. A gennaio lo cercano il Tottenham e lo Zenit, ma Miloš rifiuta il trasferimento, in seguito ammetterà di aver fatto un grosso errore. Il biondo attaccante viene schierato con il contagocce, in totale solo 304 minuti in campionato e le sue prestazioni sono quasi sempre insufficienti, a fine stagione la cessione diventa inevitabile. Nell’estate del 2012 il serbo firma per i turchi del Fenerbahce, le aspettative di tornare ad alti livelli sono tante ma a seguito di un infortunio finisce ai margini della squadra, l’allenatore Aykut Kocaman dopo avergli concesso alcune presenze lo mette fuori squadra dichiarando che ormai

DA VOJVODINA CON FURORE Fondata nel 1914 a Novi Sad, la Vojvodina è una squadra storica di Jugoslavia prima e Serbia poi. Soprannominata Stara Dama (la vecchia Signora, strana coincidenza) espone in bacheca in tutto due campionati e una coppa di Jugoslavia, un trofeo Intertoto e una Mitropa Cup. In questa squadra hanno militato molti giocatori che si sono imposti all’attenzione europea e alcuni sono arrivati in Italia, con alterne fortune. Molto famoso in patria e buon realizzatore, Todor Veselinović gioca nella stagione 1961/62 con la Sampdoria, segnando 4 reti in 15 partite. In quella stagione, gioca con il Doria anche Vujadin Boškov, indimenticabile in Italia per la carriera di allenatore. Trent’anni più tardi la Roma ingaggia Siniša Mihajlović che sarà protagonista di una lunga carriera italiana, prima come giocatore e poi come allenatore. Anche Sergej Milinković-Savić, una delle stelle dell’attuale Serie A, ha giocato una stagione nella Vojvodina provenendo dal ricco vivaio del club, prima di passare in Belgio e poi alla Lazio.

è un ex giocatore. Nella speranza di un rilancio, Krasić viene ceduto in prestito al Bastia per la stagione 2013/14. In Francia Miloš scende in campo 18 volte segnando 2 reti e fornendo delle buone prestazioni, finito il campionato torna al Fenerbahce ma ancora una volta viene messo ai margini della squadra e relegato nella compagine riserve. Nell’agosto del 2015 Krasić si trasferisce al club polacco del Lechia Gdańsk, firmando un contratto triennale. Gli inizi sono difficili a Danzica, l’allenatore Thomas van Hesse sposta il Serbo in una posizione centrale che riduce le sue potenzialità. Dopo pochi mesi, arriva Piotr Novak e con il nuovo allenatore Krasić torna a essere un giocatore fondamentale, fornendo prestazioni importanti accompagnate da reti e assist, nel 2016/17 Krasić sarà anche capitano della squadra. Nell’estate del 2018 il club polacco ingaggia un nuovo allenatore, Pjotr Stokovjec che decide di mettere da parte la vecchia guardia e puntare sui giovani. Dopo essere stato relegato nella squadra riserve insieme ad altri senatori, Krasić rescinde il contratto il primo dicembre 2018. Si parla di un ritorno in Italia, sembra ci sia un interesse del Verona, di una possibile avventura in Australia, la Vojvodina offre un contratto al suo ex capitano ma Krasić decide di appendere le scarpe al chiodo e, in attesa di cominciare la carriera di allenatore che ha sempre indicato come obiettivo a fine carriera, dedicarsi alla famiglia. Nato in Kossovo ma di nazionalità serba, disputa le Olimpiadi del 2004 e gli Europei U21 dello stesso anno con la Serbia-Montenegro (argento nella competizione europea), successivamente con la Serbia gioca le fasi finali degli Europei U21 2006 e 2007 (un bronzo e un altro argento). Il 15 novembre 2006 esordisce nella Nazionale maggiore, amichevole con la Norvegia a Belgrado, in totale 46 presenze, tre reti e la partecipazione ai Mondiali del 2010 con la selezione nazionale.

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e r a d r o c i r Gare da Valencia - Napoli di Alessandro Guerrieri

90 Credit Foto: Liverani


IL POKERISSIMO DI FONSECA Una giornata indimenticabile per il calcio italiano con la cinquina a Valencia del “Coniglio” …

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state 1992, il Napoli di Corrado Ferlaino è ormai al termine di quel ciclo virtuoso che ha regalato due scudetti. Il profeta di quel periodo scintillante è, ovviamente, stato quel genio del calcio che è Diego Armando Maradona, “El Pibe de Oro” venerato dai tifosi partenopei come un dio pagano. L’argentino però non c’è più, ha lasciato la Campania nella stagione 1990/91. Ad essere precisi il 17 marzo 1991 quando, al termine della vittoriosa sfida con il Napoli, venne trovato positivo ad un controllo antidoping. Positivo non ad una sostanza qualunque, ma a quel veleno che è la cocaina. Da quel giorno per i partenopei è l’anno zero, c’è da riscrivere un futuro senza il loro profeta più scintillante. L’anno successivo Ferlaino, già alle prese con grossi problemi economici, provò a far restare il “Ciuccio” nei quartieri alti del campionato nonostante la perdita del dio argentino. In panchina venne chiamato Claudio Ranieri – sì, proprio l’attuale conducator della Sampdoria, l’artefice del miracolo Leicester – ed arrivò un onorevole quarto posto, grazie alle mirabilie di Careca, unico superstite del fan-

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corda GARE DA ri Valencia-Napoli

tastico trio Ma-Gi-Ca (Maradona, Giordano e, appunto, Careca), e Zola, autori rispettivamente di 15 e 11 reti. Un piazzamento che valse la qualificazione alla Coppa Uefa, una coppa che allora vantava ben più appeal dell’attuale Europa League. Già, perchè, a quei tempi, soltanto la compagine scudettata si qualificava alla Coppa dei Campioni, la progenitrice dell’attuale Champions League. L’estate 1992 Un ottimo piazzamento che fece pensare, erroneamente, ad un Napoli di alto bordo anche senza “El Pibe de Oro”. In estate Ferlaino conferma in panchina il buon Claudio Ranieri, rinforzando la rosa con gli acquisti del compassato svedese Thern, dell’arrembante esterno Policano e degli esperti Pari e Nela. Ma il colpaccio è in attacco: l’uruguagio dai denti sporgenti doveva essere l’erede designato di Careca, ormai avviato al crepuscolo di una carriera da copertina. L’idea della società è di rimanere nei quartieri alti

della nostra massima serie e di fare strada, tanta strada, in Coppa Uefa. Immaginatevi il pallore dei partenopei quando dall’urna del sorteggio arriva, al primo turno !!!, una compagine agguerrita come il Valencia. Gli spagnoli Nella stagione precedenti i bianchi di Spagna hanno chiuso al quarto posto, guidati da un autentico guru del calcio mondiale, l’olandese Guus Hiddink. In organico ci sono ottimi calciatori, in primis due atleti provenienti da oltre cortina: la punta bulgara Penev, uno da gol sempre in canna, ed il roccioso difensore rumeno Belodedici, libero della Steaua che, qualche anno prima ha vinto prima la Coppa dei Campioni e poi la Supercoppa europea. Con loro altri ottimi elementi come Camarasa, Roberto, Fernando ed il futuro milanista Leonardo. Insomma, un avversario da prendere con le molle. Lo sa bene Claudio Ranieri che, vedi quanto è strana la vita, pochi anni dopo andrà ad allenare proprio il Valencia.

In quel Napoli orfano di Maradona, c’era ancora il talentuoso brasiliano Careca

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Fondamentale l’apporto del genio di Zola, l’uomo faro degli azzurri

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Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

Sfortuna nera Insomma un sorteggio davvero sfortunato, stiamo pur sempre parlando di un primo turno. Unica nota positiva, il fatto che la gara di andata si giochi in trasferta, nell’inferno del “Casanova”. Chiaro ed evidente l’intento del buon Claudio Ranieri, andare in Spagna a limitare i danni, per poi giocarsi la qualificazione davanti al pubblico amico del “San Paolo”. Il Napoli arriva in terra valenciana dopo aver giocato due partite di campionato: allo scialbo pareggio casalingo con il Brescia della prima giornata, ha fatto seguito la bella vittoria a Foggia, contro la banda di Zeman. A far esultare gli azzurri campani le reti di Careca e Zola e la doppietta di Fonseca. L’uruguagio si è inserito alla perfezione nei meccanismi di Ranieri, può davvero regalare una marcia in più al Napoli. Lo si vedrà dopo pochi giorni…. Le formazioni Per la sfida del “Mestalla”, Ranieri sceglie sì il tridente composto da Careca, Zola e Fonseca, ma si preoccupa di proteggerlo con un centrocampo più di lotta che di governo. Il tecnico romano sceglie, infatti, una mediana composta da Thern, Carbone e Pari, bravi più ad interdire che in fase di costruzione. Evidente l’idea di pensare più a non prenderle che a far male all’estremo difensore Sempere. Nel Valencia, Hiddink risponde affidandosi alla coppia offensiva composta dal bulgaro Penev e da Alvaro Cervera, sup-

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portati dal talentuoso trequartista brasiliano, con passaporto anche italiano, Leonardo; proprio il carioca che in seguito troverà la definitiva consacrazione in Italia, con la maglia del Milan, prima di riciclarsi ottimo dirigente, e allenatore, con le due milanesi ed il PSG. Il quartetto difensivo è composto da Belodedici, all’epoca forse il miglior libero del mondo, Giner, Camarasa e Quique Sanchez Flores, uno che diventerà un ottimo allenatore, arrivando fino alla panchina del Valencia stesso, del Benfica e dell’Atletico Madrid. Un poker che si ricorderà per anni, manco fosse un incubo, della serata del 12 settembre. La Partita Al seguito dei partenopei, al secondo incrocio con una squadra spagnola, dopo quello sfortunato con l’Atletico Madrid di qualche anno prima, ci sono 400 tifosi partenopei, come sempre speranzosi, ma anche preoccupati dal valore del Valencia. Fa caldo, molto caldo e la partita inizia con gli spagnoli che tengono in mano il pallino del gioco, ed il Napoli pronto a far male con velenose ripartenze. È con una di queste che gli uomini di Claudio Ranieri passano all’incasso, al minuto 21. Un’azione fulminea, quella che sblocca il risultato, e tutta mancina: Gianfranco Zola, non ancora “Magic box”, dalla propria metà campo taglia, con un sinistro chirurgico, tutto il campo, servendo in corsa Fonseca. Il “Coniglio”, così soprannominato per i suoi denti sporgenti, controlla alla perfezione con il petto, lascia


sul posto Camarasa, entra in area e fulmina Sempere facendo esplodere di gioia i tifosi partenopei posizionati nell’altra curva. I 400 fanno festa, non sanno ancora che stanno assistendo ad una partita memorabile, destinata ad entrare nella storia dell’italico pallone. Un vantaggio che il Napoli mantiene per tutto il primo tempo, nonostante gli affannosi attacchi della compagine guidata da Guus Hiddink. La ripresa Al ritorno in campo Claudio Ranieri sceglie di sacrificare una punta, lo spento Careca, per inserire un difensore, Claudio Francini, proprio nel tentativo di tacitare le prevedibili sfuriate offensive dei bianchi di casa. Non un cambio azzeccato, a dir la verità. È, infatti, proprio l’ex granata che sbaglia un intervento, di testa, in fase difensiva, topica che costa il pareggio. È il 9’ della ripresa, la rete dei bianchi somiglia molto al vantaggio

Alla guida di quel Napoli c’era un certo Claudio Ranieri

dei partenopei; stavolta il lancio è di Tomas, sembra un pallone innocuo, facile preda di una difesa partenopea schierata alla perfezione. Invece il nuovo entrato commette una incredibile leggerezza, mancando il colpo di testa: alle sue spalle, velenoso come un cobra, c’è Roberto, incredibilmente lasciato solo in mezzo all’area. Stop a seguire di petto, perfetto, e destro rasoterra all’altezza del dischetto che non lascia scampo all’incolpevole Giovanni Galli. 1-1 e tutto da rifare. Sembra l’episodio che può far girare il match, non sarà così. In campo gli animi si scaldano, la partita assomiglia sempre più ad una corrida – del resto siamo in Spagna … -, fioccano i cartellini, ne esce anche uno rosso, è quello che l’arbitro, l’austriaco Forstinger, sventola sotto il naso dello spagnolo Quique Sanchez Flores, punito per una gomitata a Politano, immediatamente dopo il gol del pareggio. L’inferiorità numerica non placa la voglia del Valencia di portare a casa la partita; anziché controllare il match accontentandosi del pari, Hiddink spinge i suoi all’assalto. Mal gliene incoglie… Super Fonseca Già perché 5’ dopo la partita vira di nuovo, e stavolta definitivamente. Penev sulla tre quarti offensiva si fa soffiare palla da Corradini; il difensore serve subito Thern, lo svedese alza gli occhi, vede Fonseca che si lancia verso la porta di Sempere e lo assiste alla perfezione. “El Tigre” scappa via, alle sue spalle l’affannosa rincorsa degli arrancanti Belodedici e Giner, si presenta davanti a Sempere, in disperata uscita, e lo fulmina per la seconda volta con un bel sinistro rasoterra. Inutili le proteste dei padroni di casa, per un inesistente fuorigioco dell’attaccante partenopeo. Doppietta per l’uruguagio, e non è finita qua. Dopo pochi minuti, Daniel scrive anche il tris, coronando l’ennesima ripartenza, allora si chiamava contropiede, partenopea. Gli azzurri recuperano palla

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a centrocampo, Zola si invola sulla corsia mancina, mette al centro un pallone troppo lungo che rimane vivo per la caparbietà di Policano; il capelluto esterno di Ranieri controlla di destro, si beve Camarasa, piantato in terra come un palo della luce, mette al centro e indovinate chi trova? Sì, proprio, lui, Daniel Fonseca da Montevideo, sveltissimo ad infilare, in mezzo ad una difesa ospite da museo delle cere, il 3-1 che mette definitivamente ko i padroni di casa. Poker, e pokerissimo Tripletta da urlo per l’attaccante, all’esordio

Il biglietto della storica partita del Luis Casanova Valencia-Napoli - Credit Charity Stars

IL TABELLINO DELLA PARTITA Valencia (SPA) - 16/09/1992 – Primo turno Coppa Uefa

VALENCIA-NAPOLI 1-5 (1-1) Valencia: Sempere, Quique Sanchez Flores, Camarasa, Belodedici, Giner (24’ s.t. Arroyo), Leonardo; Tomas Gonzalez, Roberto, Penev, Fernando, Alvaro (27’ s.t. Eloy). A disp. Josè Gonzalez, Josè Manuel, Toni. Allenatore: Hiddink Napoli: Galli; Ferrara, Policano, Pari, Tarantino, Corradini; Carbone (28’ p.t. Crippa), Thern, Careca (1’ s.t. Francini), Zola, Fonseca. A disp. Sansonetti, Cornacchia, Mauro. Allenatore: Ranieri Reti: 21’ p.t., 15’ s.t., 19’ s.t., 42’ s.t. e 45’ s.t. Fonseca (N), 9’ s.t. Roberto (V) Arbitro: Forstinger (Austria)

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in campo europeo con la casacca del Napoli. Un’impresa certo, ma non sufficiente per ritagliarsi un posto di rilievo nella storia del calcio continentale. Nel mentre, il Valencia non si arrende, nonostante lo svantaggio e l’inferiorità numerica attacca a pieno organico; al 30’ è la buona sorte a salvare il Napoli. Penev, uno dal goal sempre in canna, si presenta solitario davanti a Giovanni Galli, ma il suo fendente si stampa, a portiere battuto, sulla traversa. È l’ultimo squillo dei bianchi, da lì in poi il protagonista è uno soltanto, il numero 11 partenopeo. A 2’ dalla fine si aprono praterie nella difesa del Valencia, Zola a centrocampo vede la zingarata offensiva di Francini, il terzino si fa perdonare la topica in occasione del pareggio spagnolo e regala al “Conejo” un autentico bijoux, liberandolo in beata solitudine davanti al malcapitato Sempere. Il numero 11 con calma olimpica, controlla, si guarda intorno e giustizia per la quarta volta, ancora con il piede mancino, il portiere di casa per poi esultare accennando ad un passo di danza. I tifosi del Napoli si stropicciano gli occhi, non credono a ciò che stanno vedendo, per una sera l’ombra di Maradona si volatilizza, Fonseca ne sembra il legittimo erede. Sensazione amplificata dal pokerissimo che arriva pochi minuti dopo, sempre secondo lo stesso canovaccio, lancio lungo per la velocità del “Tigre”. Stavolta il lancio – a dir la verità più una ciabattata a sparar via il pallone – è di Corradini, il Valencia ormai in tilt sbaglia il fuorigioco, con Camarasa che anziché salire rimane fermo nella propria trequarti: per Fonseca, in versione Re Mida, è un gioco da ragazzi dribblare il rientrante Camarasa e l’affannato Sempere per poi infilare da distanza ravvicinata il destro del definitivo 5-1. È la rete che chiude la partita, regala al Napoli il passaggio del turno (verrà poi eliminato dal PSG) ed a Fonseca un imperituro posto nella storia di questo meraviglioso sport.


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