Bimestrale
diretto da Fabrizio Ponciroli
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Calcio 2OOO
GIU
LUG
BE €8,00 | F €11,50 | PTE CONT €7,50 | E €7,50 | CHCT fch 8,50
prima immissione 01/05/2019
3,90€
INtervista esclusiva ESCLUSIVA
MAttia De SCIGLIO
“Ecco i miei tre desideri da qui a 10 anni” INtervista esclusiva ESCLUSIVA
KEVIN LASAGNA
“Farò di tutto per andare ad Euro 2020”
TALENTI ALLA RIBALTA Alla scoperta di Zaniolo
GIGANTI DEL CALCIO Il bomber di nome Spillo
JUVE, DOMINIO ASSOLUTO!!! Speciale Otto volte Campione d’Italia
Grandi Giornalisti
Il calcio secondo Gianni Brera
CALCIO FEMMINILE
Boattin, la Furia Ceca della Juventus
Edizione speciale
CON LE FIGURINE DI FIFA WOMEN’S WORLD CUP FRANCE 2019
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FP
LA LEGGE DEL BIANCONERO…
L
e mode cambiano, non in Italia, almeno a livello calcistico. Anche quest’anno, lo Scudetto si è tinto di bianconero. Per l’ottava volta consecutiva, la Juventus si è fregiata del titolo di Campione d’Italia. C’è chi ha tentato di sminuire l’importanza di questo, ennesimo, tricolore bianconero. Un errore grave: uno Scudetto non è mai scontato, neppure se hai per le mani uno squadrone come quello guidato dall’eccellente Allegri. Complimenti alla Vecchia Signora per un’impresa storica. La vostra/nostra rivista ha pensato di rendere omaggio allo strapotere bianconero, con uno speciale che ripercorre le otto meraviglie consecutive sfornate dalla società più titolata d’Italia. Un affresco, a tinte bianconere, per celebrare quello che, tra qualche decennio, verrà ricordato come un dominio assoluto (sempre che la Juventus non abbia intenzione di prolungare la propria tirannia, sportivamente parlando, sul suolo italico). A supportare lo speciale, una bellissima e profonda intervista a Mattia De Sciglio. A volte criticato (ingiustamente), l’esterno bianconero è un ragazzo speciale, di quello che ogni allenatore vorrebbe con sé (e, infatti, Allegri l’ha voluto alla Juventus, dopo averlo allenato al Milan). Da Mattia a Lisa. Eh sì, abbiamo de-
editoriale
Ponciroli Fabrizio
ciso di dare voce anche alle donne del calcio. La scelta è ricaduta su Lisa Boattin, giocatrice della Juventus e della Nazionale (impegnata, a breve, al Mondiale). Un entusiasmo che ti rapisce quello di Lisa, la dimostrazione che il calcio femminile ha, finalmente, un suo status. Brave, bravissime… Il numero è ricco di sorprese. Siamo andati fino a Udine per saperne di più di uno dei Pirati del Mincio. Di chi si tratta? Di Kevin Lasagna, asso dell’Udinese e volto nuovo della nostra Nazionale. Poi spazio alla tagliente ma saggia lingua di Paolo Casarin, un Arbitro vero… Intrigante l’approfondimento su Zaniolo, nuova speranza azzurra. Sempre stimolante parlare di calcio con un grande esperto come Daniele Faggiano, attuale direttore sportivo del Parma. Ma l’offerta non finisce certo qui. Da Spillo Altobelli, protagonista della rubrica Giganti del Calcio, a Gianni Brera, giornalista unico ed inimitabile. Non vi annoierete con il racconto dello Scudetto dell’Inter del 1980 e neppure con il ricordo di Paul Elliott, difensore inglese visto a Pisa. Basta con le chiacchiere, vi lascio alla lettura della vostra/nostra rivista… Chiudo con un consiglio: il calcio va vissuto con tanta passione ma anche con enorme rispetto…
Il successo non viene solo con la vittoria, ma talvolta anche già col voler vincere.
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SOMMARIO
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Calcio2OOO
Anno 22 n. 4 GIUGNO / LUGLIO 2019 ISSN 1126-1056
BOCCA DEL LEONE 6 LA di Fabrizio Ponciroli VOLTE CAMPIONI 8 OTTO SPECIALE SCUDETTO di Luca Gandini, Sergio Stanco e Daniele Perticari
Registrazione al Tribunale di Milano n.362 del 21/06/1997 Prima immissione: 01/05/2019 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 18246
PLATE 56 RIVER MAGLIE STORICHE di Gianfranco Giordano
64 ALTOBELLI GIGANTI DEL CALCIO di Stefano Borgi
BOSELLI 72 MARIO EROI PER UN GIORNO di Thomas Saccani
di Fabrizio Ponciroli
di Fabrizio Ponciroli
BRERA 76 GIANNI IL CALCIO SECONDO... di Luca Gandini
1979/1980 80 INTER SCUDETTIAMO di Stefano Borgi
FAGGIANO 44 DANIELE INTERVISTA ESCLUSIVA di Sergio Stanco
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LISA BOATTIN intervista esclusiva di Fabrizio Ponciroli
Hanno collaborato Thomas Saccani, Sergio Stanco, Luca Gandini, Gianfranco Giordano, Pierfrancesco Trocchi, Stefano Borgi, Giorgio Coluccia, Luca Savarese, Luca Manes, Davide Orlando, Daniele Perticari, Patrick Iannarelli ,Carletto Nicoletti Realizzazione Grafica Francesca Crespi Fotografie Image Photo Agency, Agenzia Aldo Liverani, Federico De Luca, Mascolo/Photoview.
Contatti per la pubblicità e-mail: media@calcio2000.it
di Davide Orlando
di Patrick Iannarelli
Diretto da Fabrizio Ponciroli
Statistiche Redazione Calcio2000
AZZURRI 32 TALENTI GRANDI ARBITRI AZZURRI 38 TALENTI SPECIALE
DIRETTORE RESPONSABILE Michele Criscitiello
Redazione Marco Conterio, Luca Bargellini, Gaetano Mocciaro, Chiara Biondini, Simone Bernabei, Lorenzo Marucci, Pietro Lazzerini, Tommaso Maschio, Lorenzo Di Benedetto.
DE SCIGLIO 18 MATTIA INTERVISTA ESCLUSIVA LASAGNA 24 KEVIN INTERVISTA ESCLUSIVA
EDITORE TC&C srl Strada Setteponti Levante 114 52028 Terranuova Bracciolini (AR) Tel +39 055 9172741 Fax +39 055 9170872
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PAUL ELLIOT L’ALFABETO DEI BIDONI di Thomas Saccani
90 INTER-MILAN
GARE DA RICORDARE di Luca Savarese
DA 98 SCOVATE CARLETTO
Stampa Tiber S.p.A. Via della Volta, 179 25124 Brescia (Italy) Tel. 030 3543439 - Fax. 030349805 Distribuzione Mepe S.p.A. Via Ettore Bugatti, 15 20142 Milano Tel +39 0289592.1 Fax +39 0289500688 Calcio2000 è parte del Network
Il prossimo numero sarà in edicola il 10 luglio 2019 Numero chiuso il 27 aprile 2019
bocca del leone
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Massimo, mi spiace, ma non sono d’accordo con te. Non c’è scritto da nessuna parte che, con CR7, la Juventus avrebbe vinto la Champions League. è un valore aggiunto e lo è stato (si pensi al ritorno con l’Atle-
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JUVE, SOLITA DELUSIONE Buongiorno Direttore, ancora una volta la mia Juventus mi ha deluso. Abbiamo preso CR7 per vincere la Champions League e siamo andati a casa ai quarti di finale. Abbiamo speso più di tutti per farci buttare fuori da ragazzini che guadagnano briciole rispetto a Cristiano Ronaldo. Non siamo una grande squadra, siamo forti solo in Italia dove non c’è nessuno ma in Europa solo schiaffi. è colpa di Allegri? No, è colpa di Agnelli che non capisce che la Juventus deve essere rifondata. Massimo, mail firmata
UN PICCOLO GRANDE TORNEO
Grande successo per il 4° Memorial Davide Lo Sardo – Olmedo Cup 2019. Il torneo giovanile (organizzato dall’Associazione Sportiva Dilettantistica Celtic Boys Pratina 2016), con ben 12 squadre professionistiche Under 14, è andato in scena a Cavriago (RE) durante la giornata del 1° maggio. Nei tre gironi composti da quattro squadre l’uno, erano presenti società professionistiche di Serie A come Lazio, Fiorentina, Chievo e Parma.
tico Madrid). Altri club hanno speso più della Juventus (PSG e Manchester City, tanto per fare due esempi) e sono usciti anch’essi dalla Champions. è un torneo difficile, complicato dove i dettagli fanno tutta la differenza del mondo. L’Ajax ha meritato di vincere ma questo non significa che la Juventus vada rifondata. Se così fosse, tutte le squadre andrebbero rifondate…
GRANDE STANKOVIC… Egregio Ponciroli, l’intervista a Stankovic mi è piaciuta moltissimo. Queste sono le interviste che andrebbero fatte. A giocatori veri, che sanno di calcio, che non dicono banalità. Complimenti anche per Ritratti in Bianconero. L’ascolto su Radio Bianconera e ho sentito Magrin, mio vecchio idolo, anche se è andato alla Juventus e non all’Inter. Federico, mail firmata Grazie Federico, concordo con te. Purtroppo, non è sempre festa… Intervistare un “gigante” come Stankovic aiuta molto. Diciamo che è un uomo di grandi qualità, quindi è automatico che l’intervista sia uno spasso. Purtroppo, non sono tutti come Stankovic… Grazie per i complimenti!!! ICARDI ALLA JUVE? NO DAI… Direttore, mi aiuti lei. Tutti continuano
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di Fabrizio Ponciroli
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UN LIBRO DAVVERO INTERESSANTE… Da una parte i vincitori, sul gradino più alto del podio, con la Coppa in mano e la medaglia al collo. Dall’altra gli sconfitti, che piangono lacrime amare e non sanno se capiterà un’altra occasione. Matteo Bruschetta ci racconta in modo inedito e agrodolce, le dieci peggiori nazionali della storia dei Mondiali di calcio, le facce, le difficoltà e le speranze vane di chi non ce l’ha fatta. L’autore spezza dunque le catene della narrazione ufficiale, per fare spazio a personaggi poco conosciuti al grande pubblico del calcio… Storie di uomini e di sognatori, prima che di atleti e classifiche. Dieci avventure inedite e tragicomiche raccontano il gioco più bello del Mondo, attraverso i capitoli più curiosi e meno celebrati.
a dire che Icardi possa venire alla Juventus. Io sono un grande tifoso della Juventus e non credo che Icardi sia la soluzione per vincere la Champions League. Via Dybala per Icardi? No, dai, non credo sia una buona idea. Pensa che andrà davvero così? Complimenti per la rivista, la leggo sempre. Giuliano, mail firmata Caro Giuliano, Icardi alla Juventus? Un’ipotesi, come tante altre in questo periodo. Sicuramente Maurito sta riflettendo sul proprio futuro. Onestamente, non lo vedo molto in bianconero, soprattutto se, per avere Icardi, la Juventus dovesse privarsi di Dybala. Nonostante la stagione negativa, io Dybala lo terrei comunque.
STANCO DELLA VAR Direttore, non ne posso più della VAR. Ormai si discute sulla tecnologia e non più di calcio. Forse si stava meglio quando non c’era, quando ci si azzannava al bar per un fuorigioco non visto o un fallo da rosso non fischiato. Che idea si è fatto lei della VAR? Grazie per l’eventuale risposta… Carlo66, mail firmata Carlo, io sono favorevole al VAR, da sempre… Il problema è che non è facile insegnare agli arbitri come sfruttarla al meglio e non farsi “schiacciare” dalla sua ingombrante presenza. Si legga l’intervista a Casarin e ne capirà ancor di più…
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SPECIALE
Un ciclo storico a cui è finora mancata la consacrazione più grande. di Luca Gandini
è
tempo di aggiornare nuovamente la tabella dei record, per questa Juventus salita sull’8volante e destinata a mantenere ancora a lungo la propria egemonia sul calcio italiano. 8° Scudetto consecutivo, dunque, un primato mai toccato in precedenza da nessuno, non solo qui in Italia, ma nemmeno nei principali campionati europei. In Spagna si è fermato a 5 successi di fila il Real Madrid, una volta all’inizio degli anni ‘60 e una volta alla fine degli anni ‘80. In Germania il Bayern Monaco sta dettando legge dal 2012/13, un anno dopo, cioè, l’inizio del grande ciclo bianconero. Sensazionale anche la prodezza del Lione, 7 volte consecutive re di Francia dal 2001/02 al 2007/08, mentre è storicamente più difficile confermarsi al vertice in Inghilterra, vi-
TRA RECORD E TABÙ sto che Huddersfield Town, Arsenal, Liverpool e Manchester United non sono andati oltre i 3 titoli di fila. Tornando alla Juventus, un applauso, in particolare, lo meritano Giorgio Chiellini e Andrea Barzagli, gli unici sempre presenti nella rosa bianconera dal 2011/12 a oggi. Non viene invece eguagliato, almeno per quest’anno, il record di Gianluigi Buffon, il solo calciatore ad aver vinto per 9 volte il titolo tricolore. Massimiliano Allegri diventa inoltre il primo allenatore a conquistare 5 Scudetti consecutivi, battendo così l’impresa di un’altra istituzione juventina, quel Carlo Carcano che tra il 1930/31 e il 1933/34 guidò la “Vecchia Signora” al trionfo in 4 campionati di fila. Per Allegri, contando anche il successo sulla panchina del Milan nel 2010/11, fanno 6 Scudetti totali: ora davanti ha solo Giovanni Trapattoni, l’unico tecnico 7 volte campione d’Italia (6 volte con la Juve e una con l’Inter). L’auspicio del popolo juventino è che all’indiscutibile dominio in Italia faccia finalmente seguito quella grande affermazione internazionale che in casa bianconera manca ormai da più di 20 anni.
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CLASSIFICA ASSIST - dal 2011 al 2019 CALCIATORE ASSIST Pirlo Andrea 27 Dybala Paulo 21 Pogba Paul Labile 20 Lichtsteiner Stephan 20 Pjanic Miralem 20 Cuadrado Juan Guillermo 17 Vucinic Mirko 14 Vidal Arturo Erasmo Pardo 14 Mandzukic Mario 13 Alex Sandro Lobo Silva 12
CLASSIFICA MARCATORI - dal 2011 al 2019 CALCIATORE gol Dybala Paulo 57 Higuain Gonzalo Gerardo 40 Tevez Carlos Alberto 39 Vidal Arturo Erasmo Pardo 35 Mandzukic Mario 30 Pogba Paul Labile 28 Llorente Fernando Torres 23 Marchisio Claudio 23 Khedira Sami 21 Vucinic Mirko 21
CLASSIFICA Minuti in campo - dal 2011 al 2019 CALCIATORE Buffon Gianluigi Bonucci Leonardo Chiellini Giorgio Barzagli Andrea Lichtsteiner Stephan Marchisio Claudio Pirlo Andrea Pogba Paul Labile Vidal Arturo Erasmo Pardo Asamoah Kwadwo
minuti totali 20609 20050 18600 15782 15733 15177 10760 10433 10226 9418
CLASSIFICA reti decisive- dal 2011 al 2019 CALCIATORE gol Dybala Paulo 23 Vidal Arturo Erasmo Pardo 18 Higuain Gonzalo Gerardo 15 Mandzukic Mario 14 Pogba Paul Labile 13 Vucinic Mirko 12 Tevez Carlos Alberto 12 Ronaldo Cristiano 9 Marchisio Claudio 8 Matri Alessandro 8
Dati Tetractis aggiornati al 27/04/2019
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di Sergio Stanco e Daniele Perticari
STAGIONE
CAPITANO MIO CAPITANO
Dopo due settimi posti consecutivi, l’arrivo del condottiero Antonio Conte dà una sferzata a tutto l’ambiente bianconero. Ma da qui ad immaginare che la Juventus potesse vincere lo Scudetto al primo anno della nuova era... Eppure, è andata proprio così: contro ogni pronostico la Vecchia Signora tiene il passo di un Milan stra-favorito, sfruttando al meglio la solidità difensiva (e gli episodi) per operare il sorpasso e festeggiare un titolo davvero inaspettato. LA TATTICA L’intenzione di Conte era quella di riproporre un iperoffensivo 4-2-4, marchio di fabbrica dei precedenti successi. In realtà, il tecnico si accorge presto che i giocatori non si adattano e vira su un 3-5-2 più abbottonato e compatto. È la mossa vincente. IL MOMENTO CHIAVE Proprio quello in cui Antonio Conte decide di cambiare modulo e adottare il 3-5-2. Lo fa nella trasferta di Napoli del 29 novembre, mettendosi a specchio rispetto agli azzurri di Mazzarri e strappando un importantissimo 3-3 in rimonta. Da quel momento sarà una cavalcata. LA SORPRESA Arturo Vidal era arrivato tra lo scetticismo generale: pescato dal Bayer Leverkusen, il cileno non è stato certamente celebrato come un grande acquisto, ma con il passare dei giorni è diventato un elemento fondamentale del centrocampo bianconero.
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L’UOMO IN PIÙ Pirlo dove lo metto? Questo, probabilmente, l’interrogativo che sarà frullato in testa al tecnico pugliese quando ha analizzato la rosa messagli a disposizione dalla dirigenza. Qualche difficoltà in avvio, ma quando Andrea si è messo in cabina di regia come vertice basso, la squadra ha cominciato a volare. LA FOTOGRAFIA Il giro di campo di addio di Alessandro Del Piero nella sua ultima gara contro l’Atalanta del 13 maggio rimarrà nella memoria di tutti i tifosi bianconeri e non solo. Lo Stadium si è letteralmente fermato (compagni, avversari, tifosi) per salutare un campione unico, una delle ultime bandiere del calcio italiano. I RECORD Un campionato vinto senza nemmeno una sconfitta è già di per sé un record, ma non è l’unico. Striscia di 43 risultati utili consecutivi tra Serie A e Coppa Italia, 20 giocatori complessivamente a segno, soltanto 20 le reti incassate (minimo storico nei tornei a 20 squadre). LA FORMAZIONE IDEALE (3-5-2) Buffon; Barzagli, Bonucci, Chiellini; Lichtsteiner, Vidal, Pirlo, Marchisio, Pepe; Vucinic, Quagliarella. All. Conte
LO SCUDETTO DELLE POLEMICHE Il secondo Scudetto consecutivo dell’era Conte non è nato sotto una buona “stella”: già, perché fin dall’inizio del campionato le frizioni tra Juventus e FIGC sulla terza stella da apporre sulla divisa hanno alzato la tensione. La squalifica del tecnico per omessa denuncia relativa a partite del Siena finite nell’inchiesta sul calcioscommesse, non ha certo rasserenato gli animi. La squadra, però, è riuscita a isolarsi e a conquistare un titolo tutt’altro che scontato e, forse anche per tutte queste ragioni, anche più intenso ed emozionante. LA TATTICA Antonio Conte ormai ha virato definitivamente sul 3-5-2, che in questa stagione trova interpreti perfetti anche nei nuovi arrivati. Il tecnico pugliese, infatti, converte Asamoah in un perfetto esterno sinistro del centrocampo a cinque, che con Lichtsteiner arriva a formare una delle coppie di laterali meglio assortite del panorama mondiale. IL MOMENTO CHIAVE Curiosamente, il momento chiave della stagione è la prima sconfitta interna della storia dello Juventus Stadium: è il 3 novembre 2012 e l’Inter vince in rimonta proprio nello stadio bianconero. Sembra l’inizio di una nuova elettrizzante sfida, in realtà proprio dopo quella vittoria i nerazzurri si perdono e lasciano campo libero alla Juve. LA SORPRESA Non possiamo non citare Paul Pogba: arrivato a parametro zero dal Manchester United, il talento francese era accompagnato da
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ottime recensioni, ma probabilmente neanche il più ottimista dei tifosi bianconeri poteva immaginare la qualità e la classe capace di esprimere. L’UOMO IN PIÙ Andrea Barzagli è arrivato in silenzio alla Juventus, pagato meno di 500mila euro, ma si atteggia e gioca come se incarnasse da sempre i valori bianconeri. In questa stagione è stato il giocatore più impiegato in assoluto da Antonio Conte, con risultati inimmaginabili. Una colonna. LA FOTOGRAFIA Quell’Antonio Conte leone in gabbia, nella migliore delle ipotesi nei box e nella peggiore addirittura sugli spalti degli stadi italiani per via della squalifica, è l’immagine simbolo di questo Scudetto. Forse la rabbia e il senso di ingiustizia avvertito, sono stati un’ulteriore molla per compiere l’impresa. I RECORD Nelle prime dieci partite di campionato la Juve ottiene nove vittorie e un pareggio, fino a quel momento il miglior inizio della storia dall’era dei tre punti. La sconfitta contro l’Inter interrompe una striscia di imbattibilità di 49 gare totali e 29 casalinghe (di cui 24 nello Juventus Stadium). LA FORMAZIONE IDEALE (3-5-2)
Buffon; Barzagli, Bonucci, Chiellini; Lichtsteiner, Vidal, Pirlo, Marchisio, Asamoah; Vucinic, Quagliarella. All. Conte
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IL RECORD DEI RECORD
Centodue punti, che solo a scriverlo fa un certo effetto. Un record che probabilmente rimarrà irraggiungibile a lungo, forse per sempre. È questo il pesante fardello che Antonio Conte lascerà al suo successore Massimiliano Allegri. Già, perché dopo aver compiuto un’impresa storica vincendo il terzo scudetto di fila, il tecnico pugliese sorprende tutti a pochi giorni dall’inizio della nuova stagione e lascia la Juve. Le emozioni vissute, però, rimarranno certamente indelebili nel cuore e nella mente dei tifosi bianconeri. LA TATTICA Il 3-5-2 resterà il modulo vincente della Juve di Antonio Conte, un po’ come la copertina di Linus: dà sicurezza e serenità, non si riesce più a farne a meno. Anche con gli arrivi di Tevez e Llorente, il tecnico pugliese preferisce incastonarli in un ingranaggio che funziona piuttosto che studiare qualcosa di nuovo in base alle loro caratteristiche. Scelta vincente. IL MOMENTO CHIAVE Anche in questo caso, la svolta della stagione bianconera arriva dopo una sconfitta. Clamorosa e pesante: è il 20 ottobre del 2013 e la Juve a Firenze sta vincendo 2-0 a Firenze all’intervallo. Nulla fa presagire la rimonta, che però arriva fragorosa nella ripresa. Tripletta di Pepito Rossi e 4-2 finale. Da quel momento Conte registra la difesa e i bianconeri cominciano a volare.
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LA SORPRESA Non è certo un carneade quel Fernando Llorente arrivato alla corte di Conte nell’estate del 2013, forse sottostimato solo perché giunto a Torino a parametro zero. L’ariete spagnolo consente al tecnico pugliese un’alternativa tattica, quella del pallone alto a scavalcare il primo pressing avversario, che spesso si è rivelata vincente. L’UOMO IN PIÙ Con Carlitos Tevez per la prima volta la Juve società dimostra di essere disposta ad alzare il livello. Dopo Pirlo, Pogba, Fernando Llorente arrivati però a parametro zero, l’argentino è il primo fuoriclasse fortemente voluto e che dà il via ad una nuova era. E l’Apache ripaga alla grande: miglior marcatore bianconero in A e in stagione. LA FOTOGRAFIA La neve di Istanbul, il campo bianco e lo sgomento dei giocatori al termine della partita contro il Galatasaray che li estromette dalla corsa Champions. Forse la stagione e lo Scudetto dei record nasce in quel momento, perché - fosse rimasta in corsa per la coppa più prestigiosa - probabilmente con quel dispendio di energie fisiche e mentali l’impresa sarebbe stata impossibile. I RECORD Non solo 102 punti, che pure non sono un dettaglio: 19 vittorie su 19 partite giocate allo Stadium, 11 vittorie consecutive in Serie A, 33 vittorie su 38 gare totali giocate, miglior difesa del campionato (23 reti incassate) e ovviamente anche miglior attacco (80 realizzate). LA FORMAZIONE IDEALE (3-5-2) Buffon; Barzagli, Bonucci, Chiellini; Lichtsteiner, Vidal, Pirlo, Pogba, Asamoah; Llorente, Tevez. All. Conte
UNA NUOVA ERA A pochi giorni dall’inizio della nuova stagione, la Juve si ritrova orfana del suo condottiero: Antonio Conte se ne va e lo fa in maniera inaspettata, quasi sbattendo la porta. “Con 10 euro non si mangia al ristorante da 100”. Allegri non è d’accordo e non solo accetta la sfida, ma vince il quarto scudetto di fila e porta la Juve alla finale di Champions, poi persa (con onore) a Berlino al cospetto del Barça di Messi. LA TATTICA Intelligentemente Massimiliano Allegri cambia poco, soprattutto in avvio di stagione. Per non destabilizzare la squadra, si riparte dal 3-5-2 di contiana memoria, per poi nel corso dell’anno virare su un 4-3-1-2 che il tecnico toscano ritiene più adatto e moderno, in particolare per dare l’assalto all’Europa. IL MOMENTO CHIAVE La vittoria per 3-0 a Dortmund negli Ottavi di Finale di Champions (dopo il 2-1 dell’andata) probabilmente dà la definitiva consapevolezza alla Juve di essere “big” non solo in campionato ed alza l’asticella delle ambizioni bianconere. La semifinale contro il Real Madrid (2-1 a Torino e 1-1 al Bernabeu) è la consacrazione. LA SORPRESA Il reparto offensivo con Llorente e Tevez è ben presidiato, eppure Marotta e Pa-
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ratici decidono di puntare con decisione su un virgulto spagnolo che, al tempo, si era appena affacciato sulla scena del grande calcio. Alvaro Morata arriva in punta di piedi, ma col tempo soffia il posto da titolare al connazionale Llorente e finirà per rappresentare una delle armi vincenti a disposizione di Mister Allegri. L’UOMO IN PIÙ Proprio Mister Allegri, perché rileva una patata bollente e la gestisce con grandissima maestria, senza mai scomporsi o farsi travolgere. Accolto non proprio con affetto dai tifosi bianconeri, per usare un eufemismo, risponde sempre con grande classe e, soprattutto, con i risultati sul campo. LA FOTOGRAFIA Chiellini, che alza la Coppa Italia il 20 maggio del 2015, può sembrare un dettaglio rispetto a quanto di buono fatto vedere dalla Juve in stagione, ma in concreto rappresenta il sorpasso virtuale della squadra di Allegri rispetto a quella di Conte, che mai era riuscita a fare il “double”. Senza contare la finale di Champions… I RECORD Il quarto scudetto di fila è già un risultato eccezionale visto che nessuno ci era mai riuscito nel dopoguerra. Anche la vittoria in Coppa Italia è storica, perché è la decima nell’almanacco, primo club in assoluto a riuscirci. Per i bianconeri è anche la terza doppietta Scudetto-Coppa Italia della loro storia. LA FORMAZIONE IDEALE (4-3-1-2) Buffon; Lichtsteiner, Bonucci, Chiellini, Evra; Marchisio; Pirlo, Pogba; Vidal; Morata, Tevez. All. Allegri
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LA MANITA DI ALLEGRI
Lo Scudetto del 2015/2016 per la Juve è forse quello più difficile, quello che più in bilico, più a rischio. I bianconeri, infatti, partono malissimo nella nuova stagione e soltanto una clamorosa rimonta consente loro di superare tutti e aggiudicarsi il quinto titolo consecutivo. Una “remuntada” storica, che dà ancora maggior prestigio al filotto bianconero. Juve del quinquennio d’oro (cinque scudetti di fila tra il 1930 e il 1935) eguagliata! LA TATTICA Il grande rinnovamento nella rosa e la partenza ad handicap consigliano ad Allegri di ritornare alle vecchie certezze: si riabbraccia il 3-5-2 che consente ai bianconeri di inserire il pilota automatico e superare le avversità. Non c’è più Pirlo a guidare la manovra, né un Tevez a finalizzare, dunque c’è bisogno di blindare la difesa e fare di necessità virtù. IL MOMENTO CHIAVE Il goal di Zaza nel finale di Juventus-Napoli allo Stadium il 13 febbraio sancisce il definitivo sorpasso sui partenopei ed è probabilmente il gol Scudetto, ma nulla di tutto questo sarebbe accaduto se al 93’ del derby del 31 ottobre del 2015 Cuadrado non avesse segnato il 2-1. Era il momento più buio della stagione bianconera, che da quel momento svolta. LA SORPRESA Mario Mandzukic è un altro di quegli acquisti sottotraccia della coppia Marotta-Paratici, ma alla fine si rivelerà un elemento determinante per lo spogliatoio, ma anche nello scacchiere tattico di Allegri per la sua duttilità tattica. Molto più del celebrato nuovo gioiello Paulo Dybala.
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L’UOMO IN PIÙ Mai come quest’anno la leadership di Gianluigi Buffon è stata fondamentale: il capitano bianconero ha tenuto insieme i pezzi quando la squadra si stava sfaldando e ha fatto da guida nei momenti più difficili. Non a caso, è sua la parata Scudetto nel 2-1 di Firenze del 24 aprile 2016, quando dopo il gol di Morata all’83’ respinge il rigore di Kalinic al 90’. LA FOTOGRAFIA Il gol di Sansone su punizione nella gara del Mapei Stadium del 28 ottobre 2015 non sancisce solo una storica vittoria per il Sassuolo, ma rappresenta anche il momento più basso della stagione bianconera. “Sono schiaffoni che ci hanno fatto bene”, la considerazione ex-post del saggio Buffon. I RECORD A proposito di Buffon, il portierone bianconero arriva a 974’ senza subire gol (10 gare consecutive, record assoluto), ma in questa stagione pur vincente, la Juve deve registrare anche record negativi: prima sconfitta nella storia all’esordio in casa, mai due sconfitte nelle prime due in Serie A. Poi, però, una striscia di 24 vittorie in 25 partite, seconda vittoria in Coppa Italia e secondo double di fila, che diventa tripletta con la vittoria in Supercoppa. LA FORMAZIONE IDEALE (3-5-2) Buffon; Barzagli, Bonucci, Chiellini; Cuadrado, Khedira, Marchisio, Pogba, Evra; Mandzukic, Dybala. All. Allegri
IL GRAFFIO DEL PIPITA Il sesto Scudetto di fila nasce in estate, quando gli uomini mercato bianconeri decidono di saccheggiare le concorrenti, scippando loro gli uomini migliori: vero che la Juve perde Pogba (ceduto al Manchester United a peso d’oro) e Morata (“ricomprato” dal Real Madrid), ma dalla Roma e dal Napoli arrivano niente meno che Pjanic e Higuain, per i quali Marotta e Paratici versano la clausola. Dimostrazione di superiorità che poi si paleserà anche in campo. LA TATTICA La Juve vince, ma non convince. Supera gli avversari grazie alla classe dei suoi uomini, ma senza gioco di squadra. Queste le principali critiche mosse dagli osservatori. Ma tutto cambia quando Allegri decide di abbandonare il 3-5-2 e abbracciare il 4-2-3-1. Da quel momento gli scettici sono messi a tacere. IL MOMENTO CHIAVE È il 22 gennaio 2017 quando Allegri azzarda: dentro tutti gli elementi di maggior classe per una Juve a trazione anteriore: Mandzukic esterno a sinistra si rivela una mossa azzeccatissima, perché il croato fa splendidamente le due fasi. Dybala e Higuain possono dedicarsi alla fase offensiva e Cuadrado è la scheggia impazzita che fa girare la testa agli avversari. LA SORPRESA L’arrivo del fenomeno Dani Alves è la conferma della bontà del progetto bianconero, che adesso i campioni non deve più andarli a cercare, ma li attira “naturalmente”. Ciò che sor-
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prende del brasiliano è l’umiltà con la quale si cala nel progetto bianconero e nell’ottima annata della Juve c’è tanto della sua mentalità vincente. L’UOMO IN PIÙ Non si può non citare Gonzalo Higuain, che terminerà la stagione come giocatore più utilizzato in campionato (38 su 38) e nell’intera stagione (55). Determinante anche il suo apporto di reti: 24 in campionato e 32 in totale. Insomma, 90 milioni ripagati alla grande dal bomber argentino. LA FOTOGRAFIA Corre il 70’ minuto di un “tranquillo” Juventus-Napoli del 29 ottobre 2016 quando Higuain decide di spezzare l’equilibrio e dare la vittoria ai bianconeri (si era sull’1-1). Il Pipita non esulta, ma questo non gli eviterà il rancore eterno dei tifosi partenopei. È solo l’inizio di una grande cavalcata che poi culminerà con il sesto Scudetto consecutivo. I RECORD Prima squadra a raggiungere le 1500 vittorie in A, 100 punti nell’arco solare, terza vittoria di fila in Coppa Italia e terzo double consecutivo Scudetto-Coppa Italia. Solo la sconfitta di Cardiff nella finale di Champions League contro il Real Madrid (1-4), “sporca” la fantastica annata bianconera. LA FORMAZIONE IDEALE (4-2-3-1) Buffon; Dani Alves, Bonucci, Chiellini, Alex Sandro; Khedira, Pjanic; Cuadrado, Dybala, Mandzukic; Higuain. All. Allegri
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IL MITO È DI CASA ALL’ALLIANZ
Sette vuol dire mito, anzi “my7h”. Ed è proprio in questo modo, utilizzando un escamotage grafico ben riuscito, che i bianconeri continuano l’opera di dominio assoluto sul territorio nazionale esportando calcio e brand fuori dai confini per confermare la totale supremazia tecnica e psicologica. Di tutti quelli ottenuti con Allegri in panchina è stato il tricolore più “sudato”, ma il merito va soprattutto ad un grande Napoli. LA TATTICA Difesa a quattro in linea con binari laterali ben presidiati anche in fase offensiva, centrocampo fondato sulla certezza Pjanic, Mandzukic inarrestabile in supporto dei mediani e da terminale guerrafondaio quando si guarda davanti assieme ad Higuain e Dybala, Douglas Costa e Bernardeschi nuove ali “potenzafantasia” che vanno ad aggiungersi a Cuadrado. IL MOMENTO CHIAVE È sabato 28 aprile, stadio San Siro, risultato Inter 2, Juventus 1. Qualche giorno prima Koulibaly aveva mandato in visibilio Napoli, allo Stadium, portando gli azzurri ad un metro dalla gloria tricolore. Niente di tutto questo. Un autogol di Skriniar e Higuain, preciso come l’arrivo della bolletta della luce, a spegnere ogni ardore. Inter 2, Juventus 3. LA SORPRESA 20 presenze e anche se solo 5 da titolare, fanno di Rodrigo Bentancur l’elemento di novità del campionato dei bianconeri. Diligenza e corsa, posizione e mentalità, maturità sottovoce. Sono caratteristiche dei grandi centrocampisti, quelli più esperti.
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L’UOMO IN PIÙ Essere decisivi, in una squadra che ha campioni anche nell’angolo più nascosto dello spogliatoio, è dura, durissima. Non per Sami Khedira, capace di dare corsa, fisico, equilibrio ai suoi e distruggere le certezze altrui. Con nove gol, tutti decisivi. LA FOTOGRAFIA La coreografia a lui dedicata. Diciassette stagioni in prima linea, pardon, primissima. Un campionato di serie B. Scudetti, coppe, il rimpianto Champions. Il saluto a Gigi Buffon nella gara in casa, l’ultima, contro il Verona è un doveroso tributo. Perché tutti leggono la storia, ma solo pochi la scrivono. E lui è stato uno di quelli. I RECORD L’avversario stagionale è il Napoli e si capisce la diversità di filosofia di gioco da un dato. Quello della percentuale di realizzazione legata ai tiri. I bianconeri, con la media migliore della serie A, hanno il 21,4%. 86 gol con 402 tiri. Gli azzurri il 15% con 515 tiri, ben 103 in più. Non sono bastati. LA FORMAZIONE IDEALE (4-2-3-1) Buffon; Lichsteiner, Benatia, Chiellini, Alex Sandro; Pjanic, Khedira; Douglas Costa, Dybala, Mandzukic; Higuain. All. Allegri
CR…8 BALLANDO CON MOISE È dominio totale, psicologico, tecnico-tattico. E non avrebbe potuto essere altrimenti dopo aver tramortito già in estate ogni rivale con l’arrivo di Cristiano Ronaldo. Eppure, ancora una volta, Max Allegri ha saputo ritagliare spazi e copertine ad altri suoi talenti, senza mettere mai in discussione la supremazia in classifica. Sì, possiamo dirlo, la lotta scudetto 2018/19 non è mai iniziata. LA TATTICA Gioca molto sugli equilibri offensivi, Allegri, specie perché il ritorno a casa di Bonucci non modifica lo schieramento difensivo, che rimane a 4 (con Cancelo nuovo Dani Alves) e si trasforma solo in caso di necessità nella vecchia muraglia a 3. Davanti, Ronaldo ama allargarsi e lascia a Mandzukic il ruolo di centravanti, Bernardeschi esplode con passo e idee. IL MOMENTO CHIAVE Teoricamente e praticamente, il titolo non è mai stato in discussione. E si capisce da subito, dalla prima vittoria a Verona contro il Chievo. Soffrendo, stringendo i denti, ma arrivando ai tre punti. La partita che “toglie il tappo”? Quella del primo gol di CR7, all’Allianz, contro il Sassuolo. Pardon, dei primi gol, perché si tratta di doppietta… LA SORPRESA Allegri respinge al mittente qualsiasi offerta di prestito nel mercato invernale. E alla fine ha ancora ragione lui, perché in primavera sboccia un nuovo talento che farà divertire juventini e tifosi della nazionale. A chi somiglia Moise Kean? A nessuno, è Moise Kean. Mortifero in area, potente fuori, un eletto del Signore. L’UOMO IN PIÙ Come puoi non citare il capocannoniere della squadra, il giocatore più influente al mondo dentro e fuori dal campo? Uno come Cristiano Ronaldo non è solo l’uomo in più dentro al campo. Lo è ovunque. Un plauso, in ogni caso, lo merita anche il connazionale João Cancelo. Un regista che corre sul binario.
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LA FOTOGRAFIA Le lacrime di Marchisio, che ha scelto Juve-Roma del 22 dicembre scorso per salutare i propri tifosi dopo undici meravigliose stagioni insieme: “Sono emozionato perché penso a quello che vi ho dato - ha detto il Principino - ma soprattutto a quello che mi avete dato voi”. Una standing ovation meritata. I RECORD Difficile batterne altri, vista la strada e la gloria degli anni precedenti. Subire la prima sconfitta alla 28/a giornata dopo aver collezionato solo vittorie e 3 pareggi dà la sensazione che sì, quest’anno, la Juventus ha giocato ad un altro sport… LA FORMAZIONE IDEALE (4-3-3) Szczesny; Cancelo, Bonucci, Chiellini, Alex Sandro; Matuidi, Pjanic, Bentancur; Bernardeschi, Mandzukic, Ronaldo. All. Allegri
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i s u l c s e a t intervis Mattia De Sciglio di Fabrizio Ponciroli
MATTIA SOGNA IN GRANDE…
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Dalla passione per la pesca al sogno Champions, a firma De Sciglio… Servizio Fotografico di Marco Canoniero
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n campo è sempre concentrato e difficilmente, si lascia andare. In realtà, nella vita quotidiana, Mattia De Sciglio è un ragazzo dalle mille sorprese. Come il suo supereroe preferito, ossia Spider-Man, ha valori significativi, reali, tangibili. Sogna di vincere quella maledetta Champions League che continua a sfuggire a lui e al popolo bianconero ma è anche curioso di visitare il mondo, conoscere culture diverse e immortalarle con la sua amata macchina fotografica… Facciamo un salto indietro nel tempo… Sempre stato un esterno di difesa o hai sperimentato altro da giovanissimo? “No, direi che ho sempre giocato in difesa. Fino ai 16 anni, ho giocato come centrale difensivo, poi sono stato spostato ad esterno di difesa. Ho anche provato, in qualche occasione, a fare la mezzala ma, in realtà, sono sempre stato un terzino”. Quale è stato il momento in cui hai capito che la tua passione per il calcio sarebbe diventato un mestiere? “Guarda, io ho sempre voluto diventare un calciatore professionista. Anche quando mi chiedevano cosa volessi fare da grande, rispondevo che volevo fare il calciatore. E’ sempre stato il mio obiettivo”. Quindi non c’è mai stato un piano B? “(Ride, n.d.r.) No, onestamente no. Per fortuna è andata bene e sono diventato un calciatore professionista come sognavo da piccolo”. A soli 18 anni, fai il tuo esordio in Champions League… “Mi ricordo perfettamente di quella partita. Prima dell’inizio della sfida con il Viktoria Plzen, Abate, che era il titolare in quel Milan, aveva sentito un fastidio. Mi è stato chiesto di prepararmi e io così
ho fatto. Mi sono scaldato tantissimo e, quando sono entrato, a pochi minuti dalla fine, ero già stanchissimo (Ride, n.d.r.). È stata una grandissima emozione. Avevo lo stomaco in subbuglio”. Sei rimasto al Milan per sei anni. Il momento più bello e quello più difficile? “Di momenti belli ce ne sono stati tanti. Oltre all’esordio in Champions League, dico la prima in Serie A e quella con la Nazionale. Anche fare la Confederation Cup è stata una grande emozione. Momenti difficili? Il secondo anno ho avuto un po’ troppi problemi fisici e direi l’ultimo periodo in rossonero in cui ho subito tante critiche che mi hanno anche fatto male. Forse non me l’aspettavo, visto che ci ho messo sempre tutto me stesso”. Critiche che ti hanno fatto maturare… “Sicuramente, grazie a quelle critiche, ho fatto un grande lavoro su me stesso e sono cresciuto tanto”. Devi essere sincero, quanto ci hai pensato prima di dire di sì alla proposta della Juventus? “Poco… Innanzitutto stavo vivendo un periodo negativo al Milan, quindi avevo bisogno di cambiare aria e poi la Juventus è la Juventus”. Come è stato l’impatto con il mondo Juventus? “Ho trovato una società pazzesca, molto organizzata. Si avverte immediatamente la voglia di vincere che c’è nell’ambiente Juventus. È una mentalità che ti pervade, sin dai primi giorni in cui entri a far parte del gruppo bianconero”. Alla Juventus, arriva il tuo primo gol in Serie A. Segni al Crotone e sembri quasi stupito della tua prodezza… “In effetti, è così… Dopo tanti anni, finalmente sono riuscito a fare gol. Ero entrato in campo da pochi minuti, appena è arrivata la palla, non ci ho pensato sopra, è ho calciato immediatamente. Non so è stata una coincidenza ma, qualche
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Mattia De Sciglio giorno prima della partita, mi ero fermato a provare dei tiri da fuori area. Ha portato bene quell’allenamento supplementare”. Un gol che ha cambiato la percezione di De Sciglio in bianconero… “Io credo che, soprattutto in Italia, c’è questo modo di ragionare. Ad alcuni giocatori, vengono concessi più errori, ad altri meno. Non so perché sia così, ma è la sensazione che avverto. Io, comunque, resto sempre concentrato su quello che devo fare, cercando di vivere ogni momento, bello o brutto che sia, con equilibrio”. Mattia, sei sfortunato… Sei nato nell’era in cui gli esterni di difesa devono offendere, dribblare e fare gol. Tu sei uno “da vecchia scuola”… “Onestamente il calcio è cambiato. Quando io ero nel settore giovanile, l’esterno aveva determinati compiti, soprattutto difensivi. Oggi va di moda l’esterno che attacca e, in questo aspetto, gli stranieri sono più portati a questo tipo di
Il Direttore Ponciroli durante l’intervista con De Sciglio
Simpatico e aperto allo scherzo, De Sciglio ha grande stima di CR7
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gioco. Comunque, fa parte dell’evoluzione del calcio…”. Tu hai un rapporto speciale con Allegri… Un pregio e un difetto? “Sono legato a lui perché ha sempre creduto in me sin dall’inizio della mia carriera. Ha avuto il coraggio di darmi spazio, nonostante fossi giovane e fosse un anno di transizione per il Milan. Difetti? Mi tartassa molto. Io mi innervosisco sul momento ma poi, a mente fredda, capisco che ha ragione e seguo sempre i suoi consigli”. Parliamo di un altro ragazzo che ha iniziato a calcare il grande calcio da giovanissimo, ossia Kean… “Ha delle qualità fisiche impressionanti, soprattutto per l’età che ha. Deve essere bravo a mantenere un suo equilibrio. In Italia è importante non farsi condizionare dai media. Bastano un
paio di gol per diventare un fuoriclasse ma, alla prima difficoltà, sono tutti pronti ad attaccarti. Lui deve restare sereno e deve poter fare i suoi errori, come è normale che sia. Certamente ha delle doti importanti”. Tra i compagni hai anche un marziano… Delle sue doti calcistiche sappiamo tutto ma negli spogliatoi, che tipo è CR7? “A vederlo da fuori dà l’impressione di avere una sorta di aureola attorno a sé ma, una volta conosciuto, viene fuori la sua vera persona. È un tipo che parla con tutti. È molto simpatico, sa stare allo scherzo. Trasmette anche la sua grande professionalità, sempre e comunque”. Quindi è umano? “(Ride, n.d.r.) Sì, è umano anche lui”. Parliamo un po’ di quest’ultimo Scudetto. Per tanti è sembrato scontato… “Non è mai facile vincere uno Scudetto. Purtroppo, sembra che vincere lo Scudetto o la
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LA CARRIERA DI MATTIA Nato a Milano il 20 ottobre 1992, a soli 10 anni, entra a far parte delle giovanili del Milan. A partire dalla stagione 2011/12, accede alla Prima squadra rossonera. Fa il suo esordio, con la casacca del Diavolo, a San Siro, il 28 settembre 2011, nella gara di Champions League (fase a gironi) contro il Victoria Plsen. La “prima” in Serie A arriva il 10 aprile 2012 contro il Chievo. Al Milan resta per sei stagioni, conquistando due edizioni della Supercoppa Italiana. Nel luglio del 2017, ecco il passaggio alla Juventus. Il 26 novembre 2017, nel match contro il Crotone (3-0 il finale), va a segno per la prima volta in Serie A. La sua prima stagione in bianconero si conclude con la vittoria dello Scudetto e della Coppa Italia. Quest’anno rivince lo Scudetto e la sua Supercoppa Italiana. Fa parte del giro della Nazionale dal 2013 (esordio con il Brasile). Ha già partecipato ad un Mondiale (2014) e ad un Europeo (2016).
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Mattia De Sciglio Coppa Italia sia qualcosa di scontato e, invece, vincere l’ottavo tricolore di fila è qualcosa di incredibile. Posso assicurare che riuscire a portarsi a casa uno Scudetto non è mai facile, anche quando sei il favorito. Quest’anno abbiamo avuto un filotto di vittorie che ci hanno permesso di staccarci. Siamo stati bravi a sfruttare quel momento”. Colpa di quella Champions League che continua a sfuggire… “Ci riproveremo il prossimo anno… La Champions League è un torneo magnifico in cui un dettaglio o un episodio possono fare tutta la differenza del mondo. Soprattutto nelle sfide ad eliminazione diretta. La desiderano tutti, noi compresi, ma è complicata. Sicuramente la delusione per essere usciti contro l’Ajax è stata forte ma, come detto, ci riproveremo il prossimo anno”. Tra i tuoi obiettivi ci sono anche gli Europei, giusto? “Certo, poi mi piace l’idea che saranno itineran-
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ti. Dopo la delusione di non esserci qualificate per il Mondiale, è tanta la voglia di esserci agli Europei”. Sbaglio o in Nazionale c’è un’atmosfera diversa rispetto al recente passato? “Vero, il CT Mancini ha chiamato diversi giovani che hanno portato entusiasmo e più freschezza. C’è la voglia di far bene, tutti insieme. È una Nazionale che si aiuta, c’è una convinzione diversa”. Parliamo di te… Sei un tipo equilibrato, misurato, riflessivo. Da pesca sportiva… “(Ride, n.d.r.) In effetti mi piace pescare. A gennaio, quando ho avuto la settimana di vacanza, ho sperimentato la pesca d’altura per la prima volta nella mia vita. Ho trascorso sei ore in barca. Avrei potuto prendere un Marlin o un tonno, invece mi sono dovuto accontentare di un pesciolino, ma è stato comunque emozionante. Della pesca mi piace l’idea che, da un momento all’altro, può abboccare qualcosa. Vivi per l’adrenalina di quell’attimo,
sperando che arrivi…”. A livello di videogames… “Mi piace giocare a Fifa. Soprattutto on-line. Mi piacciono anche i giochi di ruolo”. Quindi grandi partite online… “Sì, mi diverte molto e le sfide sono decisamente accese… Non ci si risparmia mai”. Che altre passioni hai? “Vado pazzo per la fotografia. Adoro i paesaggi, la natura. Scelgo le mie vacanze anche in relazione a quello che posso scoprire e fotografare”. Il luogo che ti ha affascinato di più ad oggi? “Ho amato la Thailandia. Ci sono stato dopo l’Europeo del 2016. L’ho girata completamente, muovendomi il più possibile e visitando più luoghi che potevo. L’ho vissuta nella maniera più vera possibile. È stato bellissimo. Mi ha affascinato il suo misticismo. Ora mi sto preparando ad un viaggio, ‘on the road’, negli Stati Uniti, tra parchi e luoghi magnifici”. Domanda complicata: un film in cui ti sarebbe piaciuto essere protagonista? “Io sono un amante dei fumetti, soprattutto dei supereroi Marvel. Li ho visti tutti i film dedicati ai supereroi del mondo Marvel. Il mio preferito è sempre stato Spider-Man, quindi credo un film sull’Uomo Ragno”. Ultima domanda: tre desideri da qui ai prossimi 10 anni… “Il primo, sicuramente, vincere la Champions League. Non deve diventare un’ossessione ma, certamente, è il mio grande obiettivo. Ovviamente poi vincere altri trofei e, a livello personale, mettere su famiglia. Direi che sono questi i miei obiettivi, ai quali aggiungo il voler visitare più luoghi possibili al mondo”. Il tempo per l’intervista è scaduto… Spazio a qualche scatto fotografico. Chiacchierando, ecco che viene svelata un’altra passione di Mattia: “Mi piace molto l’NBA, spero di riuscire a vedere una gara dal vivo il prima possibile. Lebron o Curry? Sono più da Steph Curry”. Mille passioni e una dedizione totale al calcio. Mattia De Sciglio non è un ragazzo qualunque, ormai si è capito…
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i s u l c s e a t intervis Kevin Lasagna di Fabrizio Ponciroli
Un cognome che si presta a giochi di parole non gli ha impedito di agguantare la Nazionale‌
TUTTO OK‌EVIN
Servizio Fotografico di Diego Petrussi
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n viaggio da Milano a Udine è impegnativo, soprattutto se, durante il tragitto, ci si imbatte in un incidente drammatico che coinvolge tre camion dalle proporzioni gigantesche. Tuttavia, a Udine ci devi andare se, ad aspettarti, c’è Kevin Lasagna. Attaccante dell’Udinese, nel giro della Nazionale ma con un passato tratteggiato da sacrifici (tanti) e gavetta (tantissima). Lo abbiamo incontrato in una Dacia Arena deserta e incredibilmente affascinante. Una “caramellina” come suggerito da uno dei presenti all’intervista… Si parte Kevin: primo ricordo con un pallone tra i piedi… “Quello che ricordo è che, ogni volta che chiedevo un regalo, io volevo sempre un pallone da calcio. Non mi interessavano giocattoli o macchinine ma sempre un pallone da calcio per giocare. Avevo sempre in mente il calcio”. Chi sono stati i tuoi primi idoli? “Io ho sempre ammirato Ronaldo, il Fenomeno… Soprattutto quando era all’Inter visto che, da piccolo, io ero un tifoso nerazzurro. Vederlo in quel periodo è stato incredibile. Poi, crescendo, direi che il giocatore che mi è piaciuto maggiormente è stato Cristiano Ronaldo. Il fatto di poterlo affrontare oggi in Serie A è fantastico”. Da piccolo hai sperimentato altri ruoli, oltre a quello dell’attaccante? “Ho sempre giocato in fase offensiva. Inizialmente come esterno d’attacco, poi mi hanno accentrato e sono diventato una punta centrale”. Chi ha avuto l’illuminazione di spostarti al centro dell’attacco? “È stato un allenatore che ho avuto a Cerea. Mancavano delle punte, il mister ha deciso di
provare me ed è andata bene. Da quel momento in poi, ho sempre giocato come punta centrale”. Quando hai cominciato a capire che il calcio, oltre che una grande passione, poteva diventare il tuo lavoro quotidiano? “Direi quando sono stato preso dal Carpi (estate 2014). Avevo fatto bene, in Serie D, con l’Este ma avere un’occasione dal Carpi, società di Serie B, è stato grandioso. Io sono arrivato in prova al Carpi. Quando mi hanno detto che sarei stato integrato in rosa e, quindi, che ero confermato, beh quella è stata la svolta”. Un percorso complicato il tuo… Hai lasciato le giovanili del Chievo per andare a giocare al Suzzara… “Avevo 16 anni e, ogni domenica, tornavo a casa
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Kevin Lasagna triste perché non giocavo. Mi mettevo a piangere, non giocavo mai. Insieme a mio papà, abbiamo preso la decisione di andar via. Preferivo andare in una squadra dove poter giocare, piuttosto che dire che ero un giocatore del Chievo, ma senza mai scendere in campo. Io, allora, pensavo a divertirmi. Volevo giocare a calcio. Così, a metà anno, sono andato al Suzzara dove sono rimasto per due anni”. E da lì inizia il tuo girovagare tra campi di periferia che poco hanno a che fare con quelli che frequenti ora… “Ho davvero girato tante squadre. Dopo due anni al Suzzara, sono andato alla Governolese, in Serie D. Ho fatto anche dei provini per altre squadre ma non sono andate a buon fine. Poi, nel 2012, sono andato al Cerea dove ho faticato per il salto di categoria. Non è mai facile passare da Promozione a Serie D. L’anno seguente sono andato all’Este, sempre in Serie D, dove è andato tutto alla grande. Ho segnato 21 reti che
I PIRATI DEL MINCIO Nella stagione 2011/12, il 19enne Lasagna indossa la casacca della Governolese, società dilettantistica allora in Promozione (attualmente milita in Eccellenza e, quest’anno, festeggia i 100 anni di vita, essendo stata fondata nel lontano 1919, come ricorda il link del sito ufficiale della società, ossia www.usgovernolese1919. com). L’impatto del giovane bomber, in quell’unica stagione con la maglia della Governolese è devastante: segna 21 reti in 32 gare, confermando di avere delle doti eccezionali e un fiuto per la porta raffinato. Entra così a far parte dei Pirati del Mincio nella maniera più eclatante: “È come viene chiamata la Governolese. Il soprannome deriva dal fatto che il paese è molto vicino alle rive del Mincio. Poi c’è il carattere piratesco che contraddistingue, da sempre, quella società. Sono i Pirati del Mincio e sono contento di averne fatto parte”, rivela Lasagna. “Piratesco è il carattere di questa squadra, piratesco è il nostro calcio! Non i pirati di Capitan Uncino, rancorosi e buffi mascalzoni nossignori… ma i sanguigni, irriducibili, Pirati malesi di Salgari che combattono contro forze più grandi e potenti di loro!”, si legge nella sezione “storia” sul sito ufficiale del club US Governolese… Insomma, Lasagna è stato anche un Pirata del Mincio…
mi hanno portato a Carpi”. Forse un altro avrebbe mollato, tu non ti sei mai arreso… “Io ho sempre avuto una grande passione. Ho sempre voluto fare il calciatore. Inoltre, è statofondamentale l’appoggio della famiglia che mi ha sempre aiutato, soprattutto a livello morale. Mi hanno sempre sostenuto”. Ma se non avessi fatto il calciatore? C’era un piano B? “Guarda, l’anno che sono stato a Cerea, sono comunque riuscito, nonostante i tanti impegni calcistici, a prendere il diploma da geometra.
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Quindi, probabilmente, avrei fatto il geometra. Inizialmente, direi che fare il geometra era il piano A. Anche perché, avendo fatto degli stage, mi piaceva anche molto come lavoro”. Torno al concetto di prima… Altri avrebbero pensato più a fare il geometra che a continuare con il calcio… Soprattutto dopo le tante promesse non mantenute… “Vero. Penso al Lumezzane. Ormai il mio passaggio a loro era cosa fatta… Invece non si è concretizzato nulla. Mi è capitato in altre occasioni. Mi sono ritrovato spesso a sentirmi dire che l’accordo era stato trovato per poi, invece, ritrovarmi senza contratto. Tuttavia, non ho mai mollato. Ho sempre creduto di poterci riuscire”. Poi è arrivato un certo Giuntoli che, per circa 75.000 euro, ti porta al Carpi… “Se sono qui, il merito è suo. Giuntoli è stato importantissimo per la mia carriera. Ha dato un’occasione a tanti giovani di serie inferiori.
LA SUA CARRIERA Kevin Lasagna nasce a San Benedetto Po, paesino di poche migliaia di abitanti, in provincia di Mantova, il 10 agosto 1992. Sin da piccolo, mostra eccellenti doti. Il piede mancino fa meraviglie. Nel 2005 viene inserito nelle giovanili del Chievo. Ci resta sino al 2009, anno in cui decide, non trovando spazio tra le fila clivensi, di andare a giocare al Suzzara. Ci resta per due stagioni poi, nel 2011, entra a far parte della Governolese, squadra di Promozione. Lascia il segno, con 21 reti in 35 gare. Sale così di categoria, firmando per il Cerea, in Serie D. Nei primi mesi fatica ma, nella seconda fase della stagione, mostra di saperci fare. Passa all’Este, altra squadra militante in Serie D. È l’anno della svolta: trova la rete in 21 occasioni, confermandosi bomber di razza. Giuntoli lo chiama, insieme ad altri giovani promesse, al Carpi dove si guadagna, con l’impegno sul campo, un posto in squadra. Debutta, in serie cadetta, contro il Crotone, fornendo l’assist che vale l’1-1 finale. Il tecnico Castori, nonostante sia giovane e ancora abbastanza acerbo per la categoria, decide di dargli fiducia. Il suo apporto (cinque gol) per la storica promozione nella massima serie italiana è significativo. Resta a Carpi dove, il 23 agosto 2015, fa il suo esordio in Serie A (2-5 sul campo della Sampdoria). Il 24 gennaio segna la sua prima rete in Serie A. La sua vittima? L’Inter (1-1, decisivo il suo gol nei minuti di recupero). Nel gennaio del 2017, l’Udinese decide di acquistarlo (resta, in prestito, alla società emiliana fine al termine della stagione, sfiorando la risalita in Serie A). Il 17 settembre 2017, a San Siro, va in rete contro il Milan nella sconfitta, per 1-2, della compagine friulana. Conclude la sua prima stagione all’Udinese con 12 gol nella massima serie (14 complessivi). L’inizio della stagione 2018/19 è in salita. Viene, spesso, limitato dagli infortuni, ma si fa comunque notare con gol pesanti. Ne sanno qualcosa Napoli, Juventus e Milan… Lasagna è anche nel giro della Nazionale. Il suo esordio avviene il 14 ottobre 2018, contro la Polonia. Il Ct Mancini ha un debole per lui…
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Kevin Lasagna
Ne ha presi sette dalla Serie D, dandogli una chance e io l’ho colta al volo”. Ti senti ancora con Giuntoli, ora che è al Napoli? “Ogni tanto, ma chiamate meglio di no (Ride, n.d.r.)”. Al Carpi segni e conquisti pure la Serie A… “Era un gruppo fantastico. Eravamo una famiglia. Castori ci ha aiutato tantissimo in quel bellissimo viaggio che ci ha portato a vincere il campionato cadetto”. Parliamo di Serie A e del tuo primo gol nella massima serie. Hai scelto bene, no? “(Ride, n.d.r.). Me lo ricordo benissimo. Ho segnato a San Siro, con il Carpi, contro l’Inter. è stato un gol che è anche valso un punto preziosissimo per noi. Ho pareggiato a tempo quasi scaduto. è stato pazzesco per me. Ho ripensato a tutto quello che avevo fatto per arrivare fino lì, alla Scala del calcio. E segnare è stato fantastico”. Tra l’altro, San Siro ti porta bene. Ne sanno
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qualcosa anche i tifosi del Milan… “Direi che a San Siro vado piuttosto bene (Ride, n.d.r.). Segno sempre anche nella stessa porta… Mi porta molto fortuna, lo ammetto”. Fai benissimo al Carpi ed ecco che arriva la chiamata dell’Udinese… “Non ci ho pensato un attimo. La storia dell’Udinese è una garanzia per qualunque giocatore. è una società top, con una struttura davvero ben organizzata. Qui a Udine è tutto perfetto. Non ci fanno mancare nulla. Puoi giocare a calcio al meglio delle tue possibilità”. Quest’anno si è visto il miglior Lasagna a sprazzi, non credi? “Vero, ho avuto qualche infortunio di troppo. All’inizio ho fatto fatica ad entrare in condizione, poi mi sono ripreso. Diciamo che segnare a Juventus, Napoli e Milan è stato comunque importante”. Ci sono dei tuoi gol ai quali sei legato particolarmente… “Beh, quello fatto al Milan è stato molto bello.
Tutto in velocità, davvero un gran gol. Poi mi ricordo anche quello, l’anno prima, al Bologna, al termine di una grandissima azione di squadra. Ce ne sono stati tanti. Diciamo che, essendo uno che punta molto sulla velocità, mi piacciono quelli in cui posso mostrare anche la mia progressione”. Udine meravigliosa ma cos’hai provato quando ti hanno convocato in Nazionale? “Direi che, al momento, è il punto più alto della mia carriera. Qual è il bambino che inizia a giocare a calcio e non sogna di diventare, un giorno, un giocatore della Nazionale? Io l’ho sognato migliaia di volte e, alla fine, il sogno è diventato realtà. Quando sono stato chiamato, ero a Mantova, con la mia famiglia. Ricordo che mi sono venute le lacrime. Ho pensato a tutti i sacrifici fatti…”. A questo punto il prossimo sogno è partecipare ad Euro 2020? “Direi di sì. Farò di tutto per essere convocato. Sarà complicato, perché ci sono tanti grandi at-
taccanti, ma io ce la metterò tutta per esserci”. Parlando di pari ruolo, che ne pensi di Kean? “Kean ha una forza fisica notevole. Sicuramente allenarsi con i campioni della Juventus lo sta aiutando tantissimo, sia a livello mentale che a livello di gioco”. Che ne pensi di questa Nazionale? “Mi piace moltissimo questa Nazionale. Mancini ha un’idea di gioco molto bella. Siamo un bel gruppo, c’è voglia di far bene e credo che ci siano anche tanti talenti”. Parliamo di avversari. Chi è il difensore che proprio non sopporti di affrontare? “Quando incontro Chiellini, tutto si complica. Sembra lento ma non lo è affatto. Ti marca stretto, non ti lascia mai un attimo di respiro”. E di questa Juventus che domina da otto anni, che ne pensi? “Guarda, già quando sento le loro interviste, si percepisce che sono di un’altra categoria. Pensano solo a vincere. Inoltre, sono tutti campioni, con un mister, come Allegri, che li fa giocare e
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INTERVISTA
ESCLUSIVA
Kevin Lasagna rendere al meglio. Erano già forti nelle passate stagioni, poi hanno preso CR7, probabilmente il più forte al mondo… L’ho visto in azione contro l’Atletico Madrid e sono rimasto senza parole. Sono stati impressionanti”. Ne parlavamo prima, che effetto ti ha fatto affrontarlo in campo? “Un effetto incredibile… È come se avesse un’aurea attorno a sé. Trasmette una sicurezza incredibile ai suoi compagni”. Ora spostiamo l’attenzione al tuo mondo fuori dal calcio… Che sport segui? “Non c’è uno sport in particolare, mi piacciono tutti. Non ho la passione per uno sport nello specifico”. Ma, in TV, segui spesso altre gare di calcio? “Certamente. Seguo tanto il calcio in televisione… La Champions League e l’Europa League non me le perdo mai. Mi piacciono il calcio inglese e quello spagnolo”. Come ti rilassi, quando hai del tempo libero?
LA Carriera di KEVIN Stagione 2011-2012 2012-2013 2013-2014 2014-2015 2015-2016 2016-2017 2017-2018 2018-2019
Squadra Pres. Reti Governolese (Prom) 32 21 Cerea (D) 35 7 Este (D) 33 21 Carpi (B) 30 5 Carpi (A) 39 5 Carpi (B) 47 14 Udinese (A) 32 14 Udinese (A) 28 6
* Dati aggiornati al 12/04/2019
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Lasagna con il Direttore Ponciroli durante l’intervista
“Mi piace giocare alla Play Station con i miei compagni di squadra”. Quali sono i videogames che preferisci? “Gioco poco a calcio… Sono più per gli sparatutto. Al momento, direi che Call of Duty è il gioco per eccellenza. Giochiamo tutti online, ci divertiamo insieme. È un modo per staccare un po’ e pensare ad altro. Gioco insieme a diversi miei compagni di squadra… Mi diverte”. A livello di musica come siamo messi? “Ascolto di tutto… Ultimamente la mia ragazza (Arianna, n.d.r.) mi sta facendo ascoltare reggaeton”. Quindi sei anche un ballerino? “(Ride, n.d.r.) Non scherziamo… Assolutamente no. Lasciamo stare, penso di muovermi meglio in campo”. Passiamo al cinema… Cosa ti piace? “Sicuramente sono per l’azione… American Sniper mi è piaciuto molto, è uno dei miei film preferiti”. Mare o montagna? “Mare”.
Un luogo che ti piacerebbe visitare? “La Polinesia”. Tre obiettivi da qui ai prossimi 10 anni? “Sicuramente provare a conquistarmi un posto ad Euro 2020, migliorare il mio bottino di gol e, fuori dal calcio, mettere su famiglia”. Arianna, la tua compagna, è molto importante per te, vero? “A giugno saranno nove anni di fidanzamento. Spero che sia lei la persona con cui passerò la mia vita e metterò su famiglia. Siamo cresciuti insieme. Mi sopporta tutti i giorni, anche quando sono nervoso. Mi aiuta tantissimo”. È appassionata di calcio o si è appassionata al tuo fianco? “Si è appassionata… Ora mi segue sempre, anche in trasferta, insieme ai miei genitori. C’erano anche per la Nazionale. è molto importante per me il loro supporto”. Ti ricordi come ha vissuto Arianna il momento in cui ti hanno convocato per la prima volta in Nazionale? “Era esaltatissima. Sapeva che ci tenevo moltissimo ad indossare la casacca della Nazionale. Ci speravo già lo scorso anno, per fortuna la chiamata è arrivata quest’anno”. Soffermiamoci, infine, anche sul tuo cognome che può dare adito a diversi giochi di parole… “Guarda, attorno al mio cognome si è detto e scritto di tutto, nel bene e nel male. Ad esempio, quando segnavo, spesso hanno messo la foto del mister sconfitto con la scritta: ‘Lasagna è stata indigesta’… Ormai ci sono abituato. Mi hanno fatto sempre sorridere”. E Kevin è davvero un ragazzo che sorride. Terminata l’intervista, si concede all’ottimo fotografo Diego, dimostrando di essere un ragazzo disponibile, ben conscio di quanto sia stato abile e fortunato a ritagliarsi un posto tra i grandi del calcio. La sua spontaneità deriva dal suo passato, dal suo essere stato capace di superare ogni avversità. Aveva un sogno da bambino: giocare a calcio e ora lo fa tutti i giorni, sempre con il sorriso sulle labbra. E ben vengano i giochi di parole sul cognome…
O T T E I H C S I F I ASSI DEL
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Paolo Casarin di Davide Orlando
UN SIGNORE DEL CALCIO D’ALTRI TEMPI A scuola del leggendario arbitro Paolo Casarin tra aneddoti e consigli…
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Credit Foto: Liverani
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ra un rigore assegnato con la VAR e un goal annullato dalla Goal Line Technology, l’arbitro rimane una figura fondamentale del calcio di oggi. Nonostante l’avvento della moderna tecnologia sui campi di calcio, la categoria degli arbitri rimane protagonista negli stadi d’Italia e d’Europa, soprattutto nel calcio nostrano, dove gli arbitri, da sempre, sono considerati tra i migliori nel mondo. Abbiamo avuto il piacere e l’onore di far due chiacchiere con Paolo Casarin, ex arbitro molto apprezzato a livello nazionale e internazionale e oggi stimato opinionista sportivo in tv, radio e sui giornali. Tra una domanda e l’altra abbiamo ripercorso la sua carriera sportiva ascoltando curiosamente le sue impressioni e il suo pensiero sul calcio dei nostri giorni, la tecnologia nel calcio e, ovviamente le sue opinioni sulla nostra classe arbitrale che, ogni dome-
nica, calca i campi della Serie A. Dall’esordio nel campionato italiano al mondiale spagnolo del 1982… una carriera ad altissimi livelli e una professionalità e un’eleganza d’altri tempi. Buongiorno signor Casarin, è un piacere avere la possibilità di poter far due chiacchiere con uno dei fischietti italiani più apprezzati e competenti della storia del nostro calcio. Ripercorriamo insieme le tappe principali della sua carriera. Prima di tutto le chiedo come sta e di cosa si occupa oggi? “Buongiorno a lei, bè a parte il mio impegno settimanale al programma Quelli che il calcio, da circa 17 anni scrivo sul Corriere della Sera come opinionista sportivo e, da molti anni, partecipo in RAI a una trasmissione trasmessa alle nove del mattino del lunedì che si chiama Radio Anch’io Sport. Dopo aver terminato la mia carriera sportiva, comunque, in questi anni ho
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ISCHIE F L E D I S S A GLI Paolo Casarin
preso parte a varie trasmissioni sempre con ruoli più o meno analoghi. Ho arbitrato per circa trent’anni, dal 1958 al 1988, dopodiché per due anni mi sono occupato del mondiale di Italia Novanta. Poi dal 1990 al 1997 ho fatto il designatore di Serie A e Serie B (ndr: in questo periodo valorizzò diversi arbitri importanti come Cesari, Collina, Nicchi e diventò membro delle commissioni arbitrali di UEFA e FIFA, ricevendo anche prestigiosi riconoscimenti) e, dal 1997 al 2000, ho avuto un incarico importante a Coverciano. A quel punto, però, ci fu uno dei tanti scontri disciplinari che ebbi con l’AIA e decisi di dare le dimissioni, uscendo completamente dai quadri arbitrali. Dal 2000, essendo libero da ogni vincolo, compreso quello di poter parlare come tutte le persone, ho fatto diverse cose”. Come mai ha deciso di diventare arbitro? “Non c’è mai stata una vera e propria passione che mi portò a diventare arbitro. Decisi di intraprendere questa carriera perché, nel 1958 a 18 anni, a Mestre, la città in cui sono nato, mi iscrissi, insieme alla mia classe di allora, a un corso dove c’era una sezione Arbitri molto rinomata e piena di arbitri già molto affermati. Io non avevo le qualità per diventare calciatore, inoltre dovevo e volevo finire la scuola per andare a lavorare: diventare arbitro era l’unica strada per poter rimanere dentro il mondo del calcio. Diventare arbitro, per me, non è stata una vocazione: per me la vocazione non esiste, insomma posso dire che casualmente ho fatto l’arbitro. Piano piano poi ho iniziato la mia carriera professionale, sono partito dalle serie minori, in Veneto, per cinque anni. Nel frattempo, avevo iniziato a lavorare per una nota azienda di petroli che mi portò a trasferirmi a Milano, dove vivo ancora oggi. Questo lavoro quindi diventò il mio obiettivo e accantonai l’arbitraggio per un po’, dirigendo solo qualche partita la domenica. Ho dovuto poi fare il militare in Sardegna per un anno e mezzo, periodo durante il quale arbitrai poco, circa una decina di gare. Fino al 1965 ho fatto una gavetta senza una vera vocazione, con grandi sacrifici, che mi hanno portato ad affe-
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zionarmi veramente al mestiere di arbitro. La vedevo come una sfida, maggiori erano i sacrifici, più grandi erano le soddisfazioni. Nella mia vita, infatti, ho sempre fatto due cose: ho lavorato e ho arbitrato. Tra un impegno di lavoro e l’altro, nel 1965 sono andato in serie C, nel 1968 in serie B e nel 1971 in serie A dove arbitrai con grande orgoglio la mia prima partita, Bologna – Torino”. Proprio a proposito di partite da ricordare: ripercorrendo la sua carriera, qual è la gara che ricorda con maggior piacere? “Durante i miei trent’anni di carriera non posso dimenticare le gare arbitrate al mondiale spagnolo del 1982 e il periodo degli Europei, nel 1988. Nel 1977 sono diventato arbitro internazionale e da allora iniziai ad arbitrare partite importanti: ho in mente Torino – Cesena, partita durante la quale il Toro vinse lo scudetto, e sempre nella stessa stagione, arbitrai Milan – Inter e Juventus – Torino nel giro di soli otto giorni. Al mondiale del 1982 arbitrai, per esempio, Spagna – Germania, una gara importante che significò l’eliminazione degli spagnoli dal mondiale. Ricordo con piacere anche l’ultima
Casarin, ancora oggi, è un fine conoscitore del mondo calcistico
partita della mia carriera, Olanda – Inghilterra agli Europei del 1988. Durante i miei anni di arbitraggio ad alti livelli, tuttavia, sono stato squalificato per aver fatto articoli, in seguito ai quali presi una prima volta nove mesi di squalifica e una seconda volta altri sei mesi… insomma ogni tanto mi prendevo delle vacanze, che devo dire mi davano volentieri!”. Durante la sua carriera ha incontrato qualche giocatore che la faceva arrabbiare particolarmente? “In trent’anni di carriera è stato inevitabile ma devo dire che i rapporti coi giocatori, da parte mia, erano estremamente buoni. Non ero assetato di potere, non amavo comandare ma mi piaceva vedere il bel calcio e mi piacevano i calciatori, che erano quelli che mi facevano emozionare, fin da quando ero piccolo”. Lei ha arbitrato anche un certo Diego Armando Maradona. La leggenda dice che era un calciatore che non cadeva mai… “Sì, è vero, confermo. Con Maradona avevo un buon rapporto tanto che, quando smisi di arbitrare, mi invitò ad andare a Buenos Aires al suo matrimonio ma a quei tempi ero già impegnato a fare il designatore e quindi la cosa non fu possibile. Me lo ricordo con molto piacere. Lui aveva una struttura fisica e una muscolatura straordinaria, non cadeva mai e non lo prendevano mai, era un calciatore che non faceva simulazioni. L’ho arbitrato anche col Barcellona, quando era ancora ragazzino: un calciatore incredibile”. Oggi secondo lei esiste un calciatore paragonabile a Maradona? “In ogni stagione c’è il calciatore migliore ma essere il migliore assoluto non è semplice. Credo che come lui oggi non ci sia ancora nessuno. Messi e Cristiano Ronaldo sono giocatori di grande talento ma probabilmente per quello che ha fatto, Maradona rimane insuperabile”. Parlando del calcio di oggi, qual è il suo pensiero sulla nostra classe arbitrale? “La classe arbitrale di oggi è diversa da quella dei miei tempi. Oggi ci sono professionisti con
un’attività molto più intensa di quella che avevamo noi. Prepararsi attentamente, conoscere le regole e i giocatori, oggi è molto importante per durare a lungo e per avere grandi soddisfazioni (anche economiche). Arbitrare è sempre stato difficile, oggi c’è molta più velocità, una volta c’era un gioco più forte e molti più grandi giocatori rispetto al calcio di adesso. Se si confrontano le formazioni italiane e straniere passate e attuali… è una bella lotta. La difficoltà, oggi, può essere concentrata sicuramente sulla grande pressione dei media nei confronti dell’arbitro”. È d’accordo sul fatto che gli arbitri non possono rilasciare interviste o dichiarazioni postpartita per spiegare o chiarire il loro operato? “No, non sono d’accordo neanche un po’ e non lo ero neanche allora, tanto che presi due anni di squalifica proprio per questo motivo. Bisogna riconoscere che l’arbitro immediatamente nel post-partita non sarebbe nelle condizioni di analizzare il suo operato ma si potrebbe seguire l’esempio dell’UEFA che, dopo le partite, emana un comunicato per chiarire gli episodi. Oggi, purtroppo, da parte di chi comanda non
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ISCHIE F L E D I S S A GLI Paolo Casarin
c’è la volontà di portare avanti un discorso del genere, anzi, mi sembra una cosa osteggiata e temuta”. Proprio per limitare errori e le sviste arbitrali è stata introdotta la tecnologia nel calcio, dalla Goal Line Technology alla VAR. Nelle vesti di ex arbitro, come giudica questo avvenimento? “Nei miei anni trascorsi alla UEFA e alla FIFA se ne parlava già: si cominciò con l’auricolare tra arbitro e guardalinee e in Coppa Italia, per esempio, ci furono partite arbitrate da due arbitri. Inevitabilmente il progresso ha portato all’avvento della tecnologia anche nel calcio. È probabile che l’arbitrò sarà sempre meno determinante rispetto a una volta, il calcio non perde nulla con la VAR, anzi, acquisisce la verità del risultato. Lo abbiamo visto anche in Champions League tra rigori confermati o errori clamorosi che il VAR ha aiutato a chiarire. La Goal Line Technology, per esempio, da quando è stata introdotta è stata parecchio determinante, non si
Casarin ha coltivato una sana amicizia con Maradona
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può mettere in dubbio una cosa del genere”. Secondo lei quindi la classe arbitrale è ancora migliorabile? “Quello sicuramente, l’arbitro è e rimarrà una figura importante nel corso di una partita. La VAR può intervenire in certe situazioni, ma non totalmente quindi la gestione di una gara è una capacità che l’arbitro può esercitare positivamente o negativamente ancora oggi. C’è anche chi il VAR non lo accetta ma, per esempio, in Juventus – Atletìco Madrid, se non ci fosse stata la tecnologia in campo, sarebbe stato un risultato ingiustamente diverso”. C’è qualche fischietto italiano che apprezza particolarmente in Italia? “Rocchi, Orsato, Irrati sono dei buonissimi arbitri capaci a interpretare in maniera perfetta una doppia funzione, sia come arbitri che come addetti al VAR. Svolgono compiti importanti e mi auguro che nei prossimi anni ci saranno arbitri come loro, sempre all’altezza anche nelle par-
LA CARRIERA DI CASARIN Paolo Casarin nasce a Mestre il 12 maggio 1940. All’età di 18 anni entra far parte della sezione arbitri di Mestre e dopo una faticosa ma formativa gavetta sui campi di provincia tra serie B e serie C, approda in serie A nel 1971 arbitrando Bologna – Torino (1-0) il 23 maggio 1971. Ben presto diventò di livello internazionale e nel 1982 arbitrò alcune gare del mondiale spagnolo, in particolare Francia – Cecoslovacchia (1-1) e Germania Ovest-Spagna (2-1) che vide i padroni di casa della Spagna uscire clamorosamente dal mondiale. Paolo Casarin ebbe non poche soddisfazioni a livello internazionale, dove arbitrò numerose gare. Arbitrò, tra e altre, la finale di Coppa delle Coppe tra Everton e Rapid Vienna nel 1985 a Rotterdam (terminata 3 a 1 per l’Everton), mentre nel 1985/86 diresse la semifinale di Coppa Campioni Barcellona – Goteborg e la semifinale di Coppa UEFA tra Tottenham e Hajduk Spalato. Partecipò anche agli Europei nel 1988, in Germania dove diresse la partita tra Paesi Bassi e Inghilterra (finita 3 a 1 per i Paesi Bassi). In Italia arbitrò quattro finali di Coppa Italia: nel 1984 la doppia finale tra Roma e Verona, nel 1986 la finale tra Roma e Sampdoria, nel 1988 la gara tra Sampdoria e Torino. Nel suo palmarès figurano, inoltre, numerosi big match di serie A, tra i quali cinque derby della Mole, un solo derby di Milano (a causa della sua appartenenza alla sezione arbitrale di Milano), il match scudetto Fiorentina – Juventus nel 1982. Nel 1981 e nel 1983 concesse alcune interviste non autorizzate alla stampa e per questo motivo fu sospeso per alcuni mesi. La sua carriera di designatore iniziò, invece, nel 1990 quando fu chiamato a designare gli arbitri di Serie A e Serie B, compito che portò avanti per circa sette anni, fino al 1997. Grazie alle sue forti competenze, entrò a far parte della commissione arbitrale UEFA e FIFA, partecipando come designatore anche al mondiale USA 1994. Nel 1996 la Fifa assegnò a Paolo Casarin il premio Fifa Special Award, prestigioso riconoscimento internazionale. Da sempre fautore del libero pensiero per la classe arbitrale, Casarin si dimise definitivamente dall’AIA nel 2000, quando a causa di un’ulteriore intervista non autorizzata concessa alla stampa, il maggior organo della classe arbitrale decise di condannarlo sportivamente. Dopo una breve parentesi come dirigente sportivo del Parma nel 2003, uscì dagli organi sportivi competenti nel 2004 quando iniziò la sua carriera extra-sportiva, durante la quale l’ex fischietto ebbe (e tutt’ora ha) numerose collaborazioni con radio, tv e giornali. Dalla RAI a LA7, dove partecipò a diversi programmi come opinionista sportivo, fino al Corriere della Sera dove ancora oggi scrive come opinionista. Dal 2006 al 2010 fu, invece, ospite fisso al programma televisivo Controcampo, in onda su Rete 4 in cui l’ex arbitro partecipò come opinionista sportivo dando il suo contributo sulle analisi tecniche di tutte le partite di Serie A. Dal 2015 partecipa come ospite fisso alla nota trasmissione Quelli che il calcio, in onda ogni weekend sulla RAI, dove l’ex fischietto si schiera spesso in difesa della classe arbitrale.
tite più difficili. Anche se potrebbe essere che, in futuro, la figura dell’arbitro sia sempre meno incidente rispetto ai fischietti di questa o della mia generazione. Vede, il calcio ha una storia ben precisa, non è nato con gli arbitri ma è nato con il fair-play. I primi arbitri, infatti, furono quelli che guardavano le linee del campo e davano per scontato che la gestione della partita spettasse soltanto ai giocatori. Ovviamente, con il tempo, il calcio si è sviluppato attraverso la
competizione, sempre più dura e combattuta, e ciò ha portato alla nascita della figura dell’arbitro che oggi ha ancora un’autorità assoluta su tutti novanta minuti”. E allora ci auguriamo che i giovani arbitri che verranno potranno avere le competenze e la professionalità di Paolo Casarin, direttore di gara che nel corso della sua carriera ha dimostrato di essere un arbitro preparato, rispettoso ma soprattutto un amante del calcio autentico.
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SPECIALE
Talenti Azzurri di Patrick Iannarelli
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Alla scoperta del talento italiano che ha stupito il mondo del calcio…
L’insostenibile leggerezza
dell’essere Nicolò
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isicamente parlando, il punto di rottura è il limite, in termini di forza o sollecitazione esterna applicata, oltre il quale un materiale risulta definitivamente inservibile. Il momento in cui non si torna più indietro. Si sprigiona un’energia che si dissipa nell’ambiente circostante, poi rimettere insieme i pezzi diventa complesso. Ma tutto questo cosa c’entra con Nicolò Zaniolo? Per capire la connessione tra il calcio e la fisica bisogna prima fare un passo indietro. 28 maggio 2017, stadio Olimpico. Perotti ha appena calciato un pallone (con una certa violenza) che porta la Roma direttamente in Champions League. Ma il punto di rottura vero e proprio arriverà qualche minuto più tardi, quando uno stravolto Francesco Totti guarda in lacrime la sua gente. Sarà l’ultimo saluto con gli scarpini stretti, il cuore gonfio di emozioni e la maglia numero 10 sulle spalle. Da quel momento in poi mancherà sempre qualcosa. Il popolo giallorosso non vuole ancora elaborare la fase più importante di un lutto (sportivo in questo caso), l’accettazione. Manca un accentratore, qualcuno in gra-
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SPECIALE
Talenti Azzurri
NEGLI ANNI DELLA VIOLA Un giocatore che ha potenzialità e può fare male. Anche se bisogna migliorare qualcosa a livello mentale. Ma la stoffa del campione c’è, anche per la sua umiltà fuori dal campo. A raccontare Nicolò Zaniolo è Cristiano Masitto, ex giocatore della Florentia Viola ed ex tecnico degli Allievi Nazionali della Fiorentina, il quale ha raccontato la sua esperienza con l’attuale numero 22 giallorosso (dal 2010 al 2016, ha indossato la casacca viola): Chi era Nicolò Zaniolo nella sua squadra? “L’anno che è stato con me è maturato molto. All’inizio aveva poca cultura del lavoro, si fidava molto delle sue qualità. Con lo staff abbiamo lavorato molto dal punto di vista fisico, ma soprattutto sulla testa. Quando arrivi a certi livelli devi avere la cultura del lavoro, sennò torni indietro”. Abbiamo notato che in alcuni momenti è ancora troppo irruento. Era così già nelle giovanili? “Lui è un ragazzo di pancia, il problema è che mette in campo le emozioni negative. Magari un rimprovero dell’allenatore o un momento particolare della partita. Rivedo questo suo modo di assimilare le emozioni quando va a contrasto, spesso arriva troppo forte. Ma questo fa parte della crescita, con il tempo riuscirà a gestirsi”. E il suo atteggiamento fuori dal campo? “È uno spettacolo, un divertimento puro. È un ragazzo che racconta molti aneddoti, soprattutto con i compagni. Poi è molto umile. Ha questa particolarità del mancino, con una giocata in grado di anticipare ben tre tempi di gioco. Tutto quello che ha ottenuto se lo è guadagnato. Anche la non riconferma nella Fiorentina e la cessione dell’Inter. Anche nelle situazioni negative ha tirato fuori il meglio”. Le ricorda qualche giocatore in particolare? “Sì, mi ricorda tantissimo Nicolò Zaniolo. È difficile fare un paragone, ha molte caratteristiche che richiamano più di qualche giocatore. Potrei dire il dinamismo di Tardelli, l’aggressività di Strootman. Ma quando gioca esterno offensivo aggredisce lo spazio, quello che fanno gli attaccanti puri. Ha una particolarità tutta sua, è molto alto e nonostante la fisicità ha una buonissima velocità di
do di infiammare il pubblico quando la Roma sorniona scende in campo e annoia, quasi infastidisce. Quella scossa che soltanto il Capitano sapeva dare ad una tifoseria sempre più distante da una proprietà fondamentalmente mai accettata da nessuno, o quasi. Forse l’origine dei paragoni affonda le sue radici in questo concetto: serve qualcuno in grado di ricordare, anche lontanamente, Francesco Totti. Classe, talento, voglia di lottare per la maglia. In poche parole, qualcuno che sia in grado di fare da collante, in grado di far scattare nuovamente quella scintilla. Conflitto generazionale - Età, cattiveria agonistica, ma soprattutto maturità e piedi per terra. E un’età perfetta, che incarna quel
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conflitto generazionale da sempre tipico dello spirito italico. Nicolò Zaniolo piace a tutti anche per questo motivo: il numero 22 giallorosso è l’esatto opposto dei pregiudizi che tutti nutrono nei confronti della new generation, costantemente snobbata e denigrata. Ma che in realtà racchiude un potenziale enorme che può far ripartire un paese, non solo un movimento bloccato a due generazioni fa. Pacato nelle risposte, aggressivo in campo: oltre alle caratteristiche tecniche il numero 22 colpisce proprio per questi motivi. Quando qualcuno azzarda il paragone con il numero 10 giallorosso per antonomasia, lui arrossisce e fa soltanto una cosa: rimanda
esecuzione. Ovviamente è un giocatore che deve ancora trovare una sua posizione ma quando ci riuscirà potrà migliorare ancora”. Secondo lei qual è la sua posizione ideale? “Secondo me dietro le due punte, è un giocatore che salta l’uomo e vede continuamente la verticale, anche a 70 metri di distanza. Contro il Porto sulla palla persa stava già aggredendo lo spazio. È un mancino, gioca d’anticipo rispetto a chi usa il piede destro, ha anche un gran tiro”. Primo gol in serie A contro il Sassuolo, una perla rara. Segnava in questo modo anche nella sua squadra? “Sì, anche in allenamento. In quel campionato avevo tutti i ‘99, ma giocavamo contro i ‘98. Si confrontava con i ragazzi più grandi di un anno, non è una cosa semplice. Ha fatto una miriade di assist, si è evoluto. Ti dirò di più: una delle sue caratteristiche migliori è il colpo di testa, ha uno stacco impressionante. Al momento ancora non lo hanno sfruttato al meglio sui calci piazzati”. Ranieri può valorizzarlo di più? “Quando in alcuni casi era in difficoltà mi chiamava. Io gli ho sempre detto che deve fare il giocatore di calcio con qualsiasi allenatore. Un giocatore forte si vede da questo. Con Ranieri dovrà trovare lo spazio, ma sicuramente non sarà legato a certe dinamiche difensive. Potrebbe trarre qualche vantaggio”. Zaniolo extra-campo: ha qualche aneddoto curioso da raccontarci? “Ne ho mille da raccontare su Nicolò. A me piaceva spesso parlare con loro nel viaggio di ritorno, si toccava qualsiasi argomento per conoscere meglio i ragazzi. Con lui si finiva sempre a parlare di ragazze e su come conquistarle. Un’altra curiosità rimane il suo impiego nelle prime cinque partite negli allievi, ovvero zero minuti. Volevo spronarlo, ma doveva essere più convinto in allenamento. Non lo schierai nemmeno un minuto, poi durante un allenamento lo mandai a fare la doccia prima. Lui chiamò la mamma e si mise a piangere, poi lei mi richiamò e mi disse questa cosa. Allora pensai: ‘Ah, finalmente un cenno di vita, qualcosa si sta smuovendo’. Poi sappiamo tutti come è andata a finire”.
Zaniolo ai tempi in cui si affacciava al grande calcio con la casacca della Virtus Entella
i complimenti al mittente, ringraziando tutti ma evidenziando un fattore molto importante. “Ho ancora molta strada da fare”, dice lui. Alla faccia del diciannovenne. Talento – Il carattere lo abbiamo apprezzato nelle varie interviste, anche extra campo. Ma ciò che stupisce del giocatore sono le peculiarità tecniche. Sull’attacco della profondità non ne parliamo, per maggiori informazioni chiedere al Porto sul secondo gol subito. Tra le linee domina, le lunghe leve e la facilità di dribbling gli permettono di fare ciò che vuole con il pallone posizionato ai 30 metri. Qualcosa si era visto al Bernabeu, ma anche nelle gare successive. Un paio di tiri da lontano ad incrociare, quei rasoterra velenosi che
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hanno fatto tremare parecchi portieri. Ma qui il punto di rottura rimane il gol contro il Sassuolo: esteticamente perfetto, ma tecnicamente spaventoso. In un momento simile, un diciannovenne che gioca con la maglia della Roma potrebbe avere qualche timore nel calciare: lui si ferma, alza la testa, manda a terra un paio di avversari e deposita in rete un pallone morbido, un bel cucchiaio. E se il primo gol in Serie A lo segni con il marchio di fabbrica di chi ha scritto una storia lunga più di vent’anni, i paragoni sono sì affrettati, ma inevitabili. Notte di coppe e di campioni – Il calcio è fatto di momenti e sicuramente la gara che ha consacrato Zaniolo è stata quella con il Porto. Una doppietta a coronare una partita perfetta, fatta di movimenti e sponde, giocate ma soprattutto intuizioni. Ma il paradosso non è soltanto una sfida europea che può servire da benedizione, ma quel debutto in uno degli stadi più iconici d’Europa, probabilmente del mondo. Non dimentichiamo che il numero 22 giallorosso è stato mandato in campo durante Real Madrid-Roma. Un ingresso nel mondo del calcio dalla porta principale, in un campo difficile da far rientrare in qualsivoglia definizione. Il paragone scomodo con chi ha scritto la storia recente di Roma è automatico. Quelle giocate di puro istinto, un brivido che scuote una tifoseria. Un tocco, una frazione di secondo che scalda il cuore. Dare una maglia pesante, cercare una figura su cui appoggiarsi per poter rimpiazzare un leader ormai lontano dal campo e sperare in qualcosa di trascendentale potrebbe snervare chiunque. Non sappiamo se Nicolò Zaniolo riuscirà a mantenere le promesse, ma è difficile non sognare. Anche per chi non indossa i colori giallorossi. E dunque «Che sarà sarà, noi sempre ti sosterrem, ovunque ti seguirem, che sarà sarà». Chi ha qualche anno di più conosce questo coro: per chi ne ignora l’origine, fu
Mancini crede tantissimo nelle qualità del giovane fuoriclasse della Roma
cantato la prima volta il 20 marzo 1985, durante un Roma-Bayern Monaco. Molti spiegarono la sua origine, indicando l’imminente eliminazione dalla Coppa delle Coppe come causa scatenante. Quella preghiera laica gridata a gran voce fu l’energia dissipata nell’aria, che commosse anche chi in quel momento stava giocando. Ma la Roma aveva perso nell’ordine: finale di Coppa dei Campioni, Niels Liedholm e Agostino Di Bartolomei. Punti di riferimento persi, perché la storia è fatta di corsi e ricorsi. E allora anche per Nicolò Zaniolo, “che sarà, sarà”. Per parafrasare un altro genio, della musica questa volta, “quest’altr’anno giocherà con la maglia numero 10?” Non possiamo ancora saperlo, ma siamo convinti che le linee di continuità, nonostante i punti di rottura, saranno sempre lì. A disegnare il destino di tutti noi.
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I S U L C S E A T INTERVIS Daniele Faggiano di Sergio Stanco
Chiedimi se sono felice
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A Intervista Esclusiva al Direttore Sportivo del Parma Daniele Faggiano, uno dei principali protagonisti del ritorno ad alti livelli dei gialloblu.
vete presente il film “L’uomo dei Sogni”? Quello in cui il protagonista, uno splendido Kevin Costner, ritiratosi in campagna per fare l’agricoltore, sente una voce ripetergli assiduamente: “Se lo fai lui ritornerà”. Non ha idea di cosa debba fare, ma si fida del suo istinto e - tra lo stupore e l’incredulità generale - costruisce un campo da baseball sacrificando parte del suo terreno e dunque del suo potenziale sostentamento. E su quel campo grandi fuoriclasse cominceranno a giocare partite “eccezionali”. Ecco, parlando con Daniele Faggiano, direttore sportivo del Parma, nonché il più giovane di tutta la Serie A con i suoi soli quarantuno anni, ci è venuto naturale questo accostamento col protagonista di quella storia. Per una serie di motivi: uno - perché ce lo siamo immaginati come Kevin Kostner sotto il pergolato di una casa sulle splendide colline parmigiane a ragionare sui colpi di mercato da realizzare; due - perché li accomuna un istinto che spesso gli ha fatto prendere decisioni impopolari, ma che poi si sono rivelate vincenti; tre - perché ha riportato alla luce, diciamo così, campioni che si erano un po’ persi, scatenando le invidie di chi non ci aveva creduto e ora farebbe di tutto per strapparglieli; quattro - perché da un po’ di tempo al Tardini (e non solo) si vedono partite “eccezionali”; cinque - perché questo è di fatto il coronamento del sogno di una città intera e un’altra tacca sulla cintura da professionista di uno dei migliori dirigenti sportivi in circolazione. E non lo diciamo noi, parlano i fatti: l’età, i colpi, i risultati. “Cosa mi rende felice? Sono le piccole cose - ci ha raccontato ai nostri microfoni Daniele Faggiano - anche fare questa intervista con voi, per fare un esempio. Perché so da dove sono partito e quanti sacrifici ho fatto per arrivare qui”. Già, perché prima di arrivare a Parma di gavetta ne ha fatta tanta e tutta a testa altissima: “Da calciatore, e portiere in particolare, non sono mai riuscito ad arrivare a categorie importan-
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Daniele Faggiano ti, ho sempre onorato la maglia con grande dignità - ci racconta - soprattutto in partita, perché in realtà non è che avessi molta voglia di allenarmi (ride, n.d.r.). Ero uno a cui in partita riuscivano prestazioni eccellenti anche se in settimana non mi impegnavo granché. Ricordo il mio allenatore che mi diceva sempre: “Pensa dove potresti arrivare se solo ti allenassi”. Ero giovane, ma forse avevo anche capito che più di tanto non avrei potuto fare. Per cui ho smesso presto, prendendo una decisione che in molti non hanno condiviso, ma io in cuor mio ero convinto fosse quella giusta. E poi i fatti mi hanno dato ragione. Ho pensato al mio futuro, sarei potuto andare avanti qualche anno, racimolare qualche ingaggio e qualche soldo, ma avrei perso tempo prezioso”. Invece, una volta appesi i guantoni al chiodo, il giovane Daniele si rimbocca le ma-
Gervinho, uno dei tanti colpi del Parma di quest’anno
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Orgogliosamente “terrone” La carriera da calciatore di Daniele Faggiano non è stata indimenticabile, come lui stesso ha ammesso, eppure un giorno una sua “prestazione” è arrivata fino alle prime pagine dei giornali. Aveva solo 21 anni e giocava in Prima Categoria, nel Peglio, formazione della provincia di Pesaro. Stanco dei continui insulti provenienti dagli spalti, il giovane Daniele ha tirato fuori il carattere e l’orgoglio. Di fatto, è stato il primo calciatore dilettante a scendere in campo la maglia nominativa. Solo che, al posto del nome, ha deciso di scriverci “Terrone”. Una scelta ironica, ma anche forte, che ha convinto tutti, anche gli arbitri, che non si sono opposti nonostante il regolamento parlasse chiaro: “Ero un portiere e dovevo richiamare i compagni – ci racconta Faggiano - l’accento pugliese mi ha tradito e tutti i tifosi avversari hanno cominciato ad urlarmi contro. Così ho pensato di fare questo gesto per far capire loro che per me era un vanto, non certo un insulto. Quello che non mi aspettavo, è che la mia decisione creasse tutto questo scompiglio: addirittura interviste, servizi speciali, prime pagine. Incredibile, era diventato un caso nazionale”. Una performance talmente bella che, se la cercate ancora oggi su Google, ne troverete traccia, nonostante si parli addirittura di un episodio del ’99, ma purtroppo ancora tremendamente attuale…
niche, si iscrive all’Università di Scienze Motorie e si laurea, con l’idea fissa di rientrare nel mondo del calcio dalla porta principale: “Originariamente pensavo di fare l’allenatore dei portieri, ma poi ho capito che era un ruolo poco stimolante per come sono fatto io. Quindi ho sostenuto e superato l’esame da agente di calciatori e infine ho cominciato la carriera da Direttore Sportivo in Puglia, la mia terra”. A 24 anni, infatti, Faggiano era già dirigente del Manduria calcio, poi con il Grottaglie arriva
fino ai play-off validi per nessuno mi ha mai racCredit Foto: Parma Calcio 1913 la promozione in C2 (poi comandato, tutto quello persi). L’ottimo lavoro, che sono riuscito ad otperò, non passa inostenere me lo sono guaservato e il Noicattaro, dagnato col sudore, col che già giocava in C2, lavoro, senza mai pianlo chiama. Da lì a Bari germi addosso. Non ho è stato un attimo: “Per fatto sempre le scelte me già arrivare così giogiuste, ma non mi sono vane al Noicattaro era mai arreso davanti ad come realizzare un soun errore. Da bambino gno: mai avrei pensato, ero quello che organizin così poco tempo, e zava i tornei sotto casa, così giovane, di arrivare ce l’avevo nel DNA. Si ad un ruolo così imporgiocava dalla mattina tante in una squadra alla sera e dovevi scarprofessionistica. Figutare anche le macchine rati quando sono arrivache passavano. Fin da to a Bari! Lavorare con allora ho sempre penPerinetti, poi, per me è sato che un giorno avrei stata una vera scuola di lavorato nel mondo del vita: certo, era esigente calcio. E, ora, eccomi e tante volte sono stato lì per scoppiare, ma qua”. A Bari, Faggiano non lavora solo con Peripensandoci oggi, se sono arrivato qui è merinetti, ma anche con un giovanissimo Antonio rito di quegli insegnamenti. E infatti oggi ai Conte: “Sono di parte, perché il rapporto con miei ragazzi ripeto le stesso parole di Giorgio Antonio ormai va oltre il professionale. A chi che tanto mi facevano arrabbiare a quei temlo vede da fuori può sembrare scontroso, mapi: stare sempre sul pezzo, se perdi tempo a gari anche non troppo simpatico, ma chi lo respirare c’è chi ti camminerà in testa, lavoconosce bene sa perfettamente che splendiro, lavoro, lavoro. E tanta passione, perché da persona sia, di un’umanità straordinaria. senza di quella non si va da nessuna parte. Il professionista, poi, non si discute, è sicuCi aggiungo anche caparbietà e determinaramente uno dei migliori al mondo, ma lo si zione, perché non sopporto quelli che si pianera capito subito, fin dagli inizi. È uno che ha gono addosso: se sentite qualcuno lamentarsi idee e che trasmette a tutti, giocatori, staff, perché in Italia non ci club e ambiente, la sua sono possibilità, perché infinita voglia di vinceal Sud ci sono poche re. Io comunque ho gesquadre, perché nesneralmente buoni rapsuno investe su di loro, porti con gli allenatori. fatemi fare uno squillo. Anche con D’Aversa, ad Se, invece, sono a cacesempio, ho un feeling cia di soldi facili, cambispeciale che ci aiuta a no mestiere. Sono figlio superare i problemi nei di papà impiegato statamomenti di difficoltà”. le e mamma casalinga, Con in panchina Serse
“Da calciatore, e portiere in particolare, non sono mai riuscito ad arrivare a categorie importanti, ho sempre onorato la maglia con grande dignità ”
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Daniele Faggiano Cosmi, che almeno caratterialmente a Conte somiglia (e forse non è un caso che Faggiano l’abbia scelto per tentare quell’impresa), a Trapani il Direttore va ad un passo dalla clamorosa promozione in Serie A, sfuggita solo nella ormai famosa (tristemente per i tifosi siciliani) finale play-off contro il Pescara (siamo nel giugno 2016): “Diciamo che doveva andare così, ma ovviamente non l’ho ancora digerita perché continuo a viverla come un’ingiustizia: aver dovuto giocare più di metà partita in dieci l’andata ha condizionato tutto. E con un po’ di sensibilità in più l’arbitro avrebbe potuto comprendere lo sfogo di un calciatore che, ammonito da diffidato, aveva avuto un gesto di stizza perché avrebbe saltato la finale di ritorno. Sono convinto che senza quell’episodio, staremmo qui a raccontare un’altra meravigliosa storia di calcio”. Già, come quella del Parma, raggiunto in C1 e riportato in due stagioni direttamente in Credit Foto: Parma Calcio 1913
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Serie A. Con il Parma ma anche con Parma è stato praticamente amore a prima vista: “Conoscevo già la città perché ci lavorava un amico che spesso venivo a trovare e devo dire che mi è sempre piaciuta.
“Da bambino ero quello che organizzava i tornei sotto casa, ce l’avevo nel DNA” Ho sempre pensato che fosse l’ambiente ideale per costruire qualcosa di davvero interessante e devo dire che non mi sono sbagliato. Diciamo che, poi, questa cavalcata è stato un mix di situazioni, alcune razionali altre meno, diciamo una combinazione di serietà e follia, che ci hanno portato fin qui. Più che la promozione dell’anno scorso, credo che il momento fondamentale sia stata la finale play-off per la promozione in B contro l’Alessandria (giugno 2017, n.d.r.). Io difficilmente mi faccio prendere dalla tensione, ma ricordo la vigilia di quella sfida. Mi ripetevo ossessivamente: “Io in C non ci torno (ride, n.d.r.)”. Per fortuna è andata bene e da lì è cominciato - o se volete ricominciato - tutto. E non è finita qui...”. Già, perché Faggiano non riesce proprio a stare fermo un secondo, nemmeno per festeggiare: “Sono fatto così, più vinco e più so che le aspettative, le pressioni e anche i nemici aumenteranno. Per questo probabilmente non riesco ancora a realizzare cosa siamo riusciti a fare. Siamo nella storia del Parma e del calcio italiano, ma forse me ne renderò conto soltanto quando smetterò (sorride, n.d.r.)”. E il Direttore non si è fermato, allestendo un Parma con grandi giocatori e che sta disputando un altro campionato eccezionale. Ma non chiedetegli segreti e nemmeno quale sia il miglior colpo della sua carriera: “Segreti non ce ne sono, ognuno è se stesso: non è che se domani vado a vedere
Faggiano sta lavorando benissimo a Parma
Guardiola per tre mesi poi riesco a far giocare la squadra come fa lui. Ci vuole ovviamente tanta passione e tanto lavoro. Io mi definisco come un padre che deve riuscire a far andare avanti tutta la famiglia in armonia, fino a portarla al pranzo domenicale, come si usa da noi al Sud, che sia serena e tranquilla. Se è così, sarà certamente un bel pranzetto (sorride, n.d.r.). Fuor di metafora, è chiaro che il mio ruolo è quello di mettere a disposizione del mister un gruppo fatto di giocatori di grandi qualità tecniche e umane, che possa amalgamarsi bene e rendere al meglio. E soprattutto che abbia tanta fame, perché senza quella non si va da nessuna parte. Io, per esempio, dico che il miglior colpo di mercato è sempre il prossimo e penso più a quelli che mi sono sfuggiti che a quelli che sono riuscito a concludere. Per esempio, quest’estate ho provato a prendere due giocatori che nessuno considerava e che, invece, adesso stanno disputando un campionato eccezionale, oltre
ogni attesa. E questo rimpianto mi spinge a fare ancora meglio per il futuro”. Certo meglio di così è dura, però... “Gervinho e Bruno Alves, ma ci metto anche Kucka, sono stati acquisti davvero azzeccati, ne sono felice. Sono il frutto di una rete di relazioni che un dirigente deve crearsi se vuole operare con profitto su un mercato difficile come il nostro. Sono contento di averci creduto e che abbiano reso, ma sono anche consapevole che non tutte le scelte che farò si riveleranno così produttive. L’importante è sbagliare il meno possibile”. Ma Faggiano sa come si fa ad evitare scivoloni: “Mi piacciono tanto i giocatori veri, quelli di carattere, con personalità, i leader: penso a professionisti come Quagliarella, ad esempio, o Chiellini, gente che dà l’esempio con i fatti. Un altro che mi è sempre piaciuto è Borja Valero, per fare un altro nome, anche se non me lo sono mai potuto permettere (sorride, n.d.r.)”. E, allora, attenzione, perché l’Uomo dei Sogni è già tornato in azione...
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i s u l c s e a t intervis Lisa Boattin di Fabrizio Ponciroli
LA (NUOVA) FURIA CECA Siamo stati a Vinovo per parlare con Lisa Boattin, una delle stelle del calcio femminile‌
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hi l’avrebbe mai detto? Il calcio femminile, al tempo di un battito d’ali, si è conquistato rispetto, visibilità e, soprattutto, credibilità. L’accesso, dopo 20 anni di assenza, al Mondiale ha portato interesse attorno alla Nazionale di calcio femminile e, di conseguenza, ecco che i riflettori si sono accesi sull’intero mondo calcistico in rosa. Siamo andati a Vinovo per incontrare Lisa Boattin, giocatrice delle Juventus Women e della Nazionale, e saperne di più sull’esplosione del calcio femminile… Lisa, raccontami come ti sei avvicinata, da bambina, al gioco del calcio… “Credo di essere sempre stata appassionata di calcio. Mio fratello giocava a calcio e mio padre è sempre stato un tifoso sfegatato della Juventus. Diciamo che il calcio ha fatto parte di me sin da quando ero piccolina. Ho anche provato a fare altro, tipo nuoto e ginnastica artistica, un mese per l’esattezza, ma, alla fine, è sempre stato il calcio il mio sport”. Immagino che anche tu abbia avuto degli idoli calcistici… “Certamente. Sono sempre stata juventina, quindi direi che Nedved è il mio idolo. Quando, lo scorso anno, l’ho incontrato per la prima volta, sono rimasta di sasso. Non mi veniva neppure una parola. Inoltre, quando ero più giovane, giocavo come esterno d’attacco. Giocavo con i capelli sciolti, biondi, poi mancina… Così, mi chiamavano Furia Cieca, proprio come Nedved. Ora è spettacolare vederlo qui alla Juventus, dove gioco pure io”. Bambina che gioca a calcio, non sarà stato facile… “Guarda, fino ai 14 anni ho giocato con i maschi e mi sono sempre divertita tanto. Infatti, quando sono passata al calcio femminile, mi
è mancato molto quell’ambiente. Erano tutti miei amici. Indubbiamente, giocare a calcio, per una ragazzina, risulta sempre un po’ strano. In tantissimi hanno provato a dissuadermi. Mi dicevano che non avrei mai avuto un futuro nel calcio, mi consigliavano di fare altro nella vita. Per fortuna non li ho ascoltati e sono andata avanti per la mia strada che mi ha portato fino alla Juventus”. Nel 2014, a soli 17 anni, indossi la casacca del Brescia. È il momento della svolta? “Credo che il Mondiale disputato con l’Under 17 in Costa Rica sia stato, probabilmente, il momento in cui ho capito che il calcio sarebbe potuto diventare ancor più importante per me. Ho giocato davanti a 35.000 persone al Mondiale, nella sfida Costa Rica-Italia. Per me è stato incredibile, visto che, solitamente, giocavo davanti a mamma e papà… Lì ho creduto ancora di più che il mio sogno si potesse realizzare. Il passaggio al Brescia ha, ulteriormente, aumentato la fiducia in me stessa e nel mio sogno. A Brescia c’è tanta passione per il calcio femminile. Un ambiente straordinario”. A Brescia fai benissimo ed ecco la chiamata della Juventus. Come l’hai vissuta? “(Ride, n.d.r.). Sono impazzita. Mio padre, tifoso bianconero, è andato fuori di testa. Ho solo pensato: ‘Ditemi dove devo firmare e lo faccio subito, non mi interessa altro’… Arrivare alla Juventus è stato incredibile. Impensabile per me. È stata un’emozione fortissima”. Scudetto col Brescia e, due anni più tardi, vinci il tricolore con la Juventus, segnando un rigore proprio alla tua ex squadra nella gara decisiva… “Beh, è stato bellissimo perché ho vinto lo Scudetto con la Juventus, squadra per cui
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Lisa Boattin
faccio il tifo da sempre. Un po’ amaro perché ho battuto le mie ex compagne…”. Che significa indossare la casacca della Juventus? “È il top. Una società favolosa. Ti permette di allenarti al meglio. Basta guardare i campi di allenamento. C’è un’attenzione totale. È il massimo, lo si avverte dal primo giorno in cui entri a farne parte. Non c’è paragone con il resto. La Juventus è la Juventus”. Parliamo di questo calcio femminile che cresce a dismisura, sia tecnicamente che come movimento… “La crescita è sotto gli occhi di tutti. Tecnicamente siamo cresciute moltissimo. La differenza con le altre nazionali è decisamente meno evidente. Ce la giochiamo con tante squadre importanti, a conferma che siamo migliorate tantissimo. Ci alleniamo meglio, siamo più focalizzate su quello che facciamo. C’è più attenzione ai dettagli”. Tanto interesse anche a livello mediatico… “È arrivato tutto in brevissimo tempo. Penso all’album di figurine della Panini. L’ultima volta che ci siamo trovate, tutte cercavano la propria figurina. È la conferma che il calcio femminile ha svoltato. SKY ha aiutato tantissimo, anche essere presenti in TV è qualcosa
La Nazionale azzurra è pronta ad essere protagonista al Mondiale
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di fantastico”. Lo si è capito anche dall’affluenza all’Allianz Stadium per la gara Scudetto Juventus-Fiorentina… “Ho pianto dall’inizio alla fine… Vedere tutta quella gente allo stadio per noi mi ha emozionato tantissimo. Siamo orgogliose di quello che abbiamo fatto e continuiamo a fare”. Eppure, c’è ancora qualcuno che snobba il calcio femminile… “A loro dico di venirci a vedere, così da poter giudicare con i propri occhi come siamo migliorate negli anni. Il livello medio del calcio femminile si è alzato notevolmente”. Lisa, che fai quando non pensi a calcio? “Io seguo tutti gli sport… Guardo di tutto”. A livello di film… “Mi piacciono molto gli horror…”. Davvero? Quale è stato il film horror che ti ha maggiormente terrorizzato? “Sicuramente The Ring. Anche perché, dove abitavo, c’era un pozzo nelle vicinanze, quindi tremavo al solo pensiero. Poi l’ho visto quando ero più piccola, quindi me lo ricordo benissimo. Mi ha sempre terrorizzata, anche adesso”. Appassionata di musica? “Sono una fan di Vasco Rossi… Lui è un mito,
Juventus Campione d’Italia 2018-19, terzo Scudetto per Lisa Boattin
IL SOGNO MONDIALE Dal 7 giugno al 7 luglio, in Francia, andrà in scena il Mondiale di calcio femminile, edizione 2019. Tra le 24 squadre partecipanti, presente anche la Nazionale, inserita nel gruppo C insieme a Brasile, Giamaica e Australia. L’Italia non partecipava ad una fase finale di una Coppa del Mondo dal 1999. “L’ultima volta che l’Italia si è qualificata ad un Mondiale ero una neonata (ride, n.d.r.). Guarda, è qualcosa di pazzesco. Difficile trovare le parole – spiega Lisa Boattin – Siamo un bellissimo gruppo. Quando abbiamo iniziato le qualificazioni, sembrava un traguardo impossibile ma, con il passare delle partite, ci siamo rese conto che potevamo farcela e, in effetti, ce l’abbiamo fatta. Già vestire la casacca della nazionale è un sogno, l’idea di giocare con la maglia azzurra ad un Mondiale è più di un sogno…”. Nessuna paura delle avversarie del girone? “Quando ti qualifichi al Mondiale, non è importante chi affronti. L’importante è esserci. Diciamo che affrontare il Brasile è qualcosa di speciale. Cercheremo di fare del nostro meglio”. La Boattin ha le idee chiare sulle favorite alla vittoria finale in terra francese: “Credo che gli Stati Uniti siano la squadra più forte. Direi che anche la Francia è un’ottima squadra, così come la Germania e il Giappone”. E l’Italia? Dove può arrivare? “Noi dobbiamo andare avanti il più possibile. Se dovessimo passare il primo turno, sarebbe già un successo. Comunque, sono partite secche, può accadere di tutto”, chiude Lisa.
anche per tutta la mia famiglia”. Tre desideri… “Innanzitutto, andare più avanti possibile in Champions League con la Juventus. Stesso discorso per quanto concerne il Mondiale. Il terzo? Mi piacerebbe partecipare alle Olimpiadi”. Oggi siamo qui a celebrare il calcio femminile, non hai paura che possa scoppiare tutto come fosse una bolla di sapone? “Certo, un pizzico di timore c’è. Piace a tutti avere dei tifosi ed essere seguita. Dopo aver faticato tantissimo per conquistare un posto prestigioso, sarebbe un peccato se tutto dovesse finire. L’ho capito a Juventus-Fiorentina all’Allianz Stadium. Vedere così tanto pubblico è qualcosa di indescrivibile. È una conquista. Spero che il calcio femminile sia solo all’inizio della sua crescita. Nonostante tutto, siamo sempre le ragazze di sempre. Lo si capisce anche dagli abbracci a fine partita. È uno sport ancora molto sano, puro direi. Ci possono essere dei momenti tesi durante il match ma, alla fine, siamo tutte amiche. E accade la stessa cosa tra le tifoserie. È il bello del nostro sport”.
Complimenti a Lisa Boattin. Il suo sorriso è la dimostrazione di quanta bellezza ci sia nel calcio femminile. Uno sport in rampa di lancio, uno sport in cui i valori sono veri, reali, sinceri, proprio come Lisa Boattin, giocatrice della Juventus e della Nazionale… Una ragazza che ha coronato il suo sogno: giocare a calcio, zittendo tutti coloro che le intimavano di cambiare strada e dedicarsi ad altro… La passione vince sempre!
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INTERVISTA Lisa Boattin
ESCLUSIVA LA Carriera di LISA Stagione Squadra 2011-2012 Venezia 1984 2012-2013 Pordenone 2013-2014 Pordenone 2014-2015 Brescia 2015-2016 Brescia 2016-2017 AGSM Verona 2017-2018 Juventus 2018-2019 Juventus * Dati aggiornati al 09/04/2018
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Totale Pres Reti 24 0 24 1 22 0 18 1 21 1 25 5 26 3 20 0
SPAZIO AL GIRO… In edicola l’album di figurine ufficiale Giro d’Italia 102 Ci siamo, ecco la 102a edizione del Giro d’Italia. Panini non si lascia scappare l’occasione e lancia la nuovissima collezione “Panini Giro d’Italia 102”, realizzata su licenza ufficiale RCS e dedicata alle squadre e ai protagonisti della mitica Corsa Rosa. La raccolta, dopo il successo delle precedenti due edizioni, è molto attesa dagli appassionati delle due ruote e dai collezionisti in tutta Italia. Quest’anno è composta da 414 figurine adesive e 73 card bifacciali: per le figurine c’è un coloratissimo album di 64 pagine, ricco di informazioni e statistiche sulla storia della manifestazione e sull’edizione 2019, mentre per le card è previsto un pratico astucciocontenitore, che può funzionare anche da porta-doppie. La copertina dell’album è dedicata al vincitore dell’edizione 2018, Chris Froome, e riporta anche la riproduzione delle figurine di alcuni big delle 22 squadre in gara, tra cui grandi campioni come Vincenzo Nibali del team Bahrain - Merida, già trionfatore in Rosa nel 2013 e 2016, il campione italiano Elia Viviani della Deceuninck - Quick-Step ritratto in maglia tricolore, il campione iridato Alejandro Valverde della Movistar Team e un altro dei recenti vincitori del Giro, Tom Dumoulin del Team Sunweb. La collezione “Panini Giro d’Italia 102” dedica due pagine ad ognuno dei 22 team con le figurine di 14 corridori e della squadra schierata al completo. Ogni figurina è una vera e propria “carta d’identità” del corridore riferita al Giro d’Italia: contiene infatti, oltre al nome e all’immagine dell’atleta con indosso la maglia ufficiale del team, anche i principali dati personali
(altezza, peso, data di nascita) e una serie di ulteriori informazioni (nazionalità, anno di debutto al Giro, numero di partecipazioni, miglior piazzamento e – novità di quest’anno – il numero di vittorie di tappa ottenute in carriera nella Corsa Rosa). La raccolta contiene poi diverse sezioni speciali. Grande novità di quest’anno è la sezione dedicata a tutte le località italiane che ospiteranno partenze e arrivi di tappa: 36 figurine ritraggono un monumento o un punto d’interesse simbolico di ogni singola località, illuminato di rosa per celebrare la partecipazione al Giro d’Italia 2019. Altre sezioni speciali sono dedicate ai record storici e al percorso 2019, per arrivare alle fasi salienti della corsa dell’anno passato. Una sezione è poi riservata al “Giro d’Italia Hall of Fame”, in cui si rende omaggio ad uno dei più grandi campioni della storia Rosa, il leggendario Vittorio Adorni, premiato proprio nell’aprile di quest’anno con il “Trofeo Senza Fine”, che entra tra altri miti come Merckx, Gimondi, passando per Moser fino ad arrivare al grande navarro Miguel Indurain, premiato lo scorso anno. La collezione “Panini Giro d’Italia 102” è anche arricchita da 73 card, dedicate a tutte le tappe e alla planimetria generale, alle maglie delle 22 squadre e alle biciclette ufficiali dei team in gara, queste ultime complete di scheda tecnica. Alla raccolta è abbinato inoltre lo straordinario concorso a premi “Panini Giro 102”: per partecipare basta inviare 10 bustine vuote della collezione, seguendo le indicazioni contenute all’interno dell’album. In palio, per i più fortunati, ci saranno ben 75 Maglie Rosa ufficiali Castelli al giorno.
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Tutti i segreti della leggendaria maglia del River Plate…
LA BANDA DEL FIUME
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taliani che parlano spagnolo e si credono inglesi, così vengono definiti gli argentini, proprio un gruppo di italiani ha fondato una squadra di calcio con un nome inglese che andrà a conquistare un continente che parla spagnolo. Il calcio è arrivato in Argentina grazie agli inglesi, impegnati principalmente nella costruzione della rete ferroviaria oppure a marinai che si dilettavano nel gioco una volta scesi a terra. La prima partita di cui si ha un resoconto scritto risale al 20 giugno 1867, quando i fratelli Thomas e James Hogg organizzarono una partita, otto contro otto, nel campo del Buenos Aires Cricket Club. Giocarono due squadre composte da inglesi, cappelli bianchi contro cappelli rossi (al tempo era uso distinguere le squadre grazie all’uso di cappelli o di sciarpe, le maglie dovevano ancora arrivare), la partita
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di uno sport misto di rugby e football durò due ore. Negli ultimi anni del XIX secolo molte squadre vennero fondate a Buenos Aires, tra queste il Football Club Rosales, in precedenza denominato Juventud Boquense, e il Santa Rosa Football Club. Non è dato sapere la data di fondazione e neanche i colori sociali, unica cosa certa è l’origine italiana dei fondatori dei due club del quartiere della Boca. I membri dei due sodalizi decisero di unirsi in modo da poter competere con le squadre più forti della città, i nomi proposti dai soci per la nuova formazione erano La Rosales, Juventud Boquense, Forward e River Plate (proposto da Pedro Martinez che aveva visto al porto alcune casse con la scritta River Plate, traduzione di Rio de la Plata in inglese), dopo una votazione prevalse il nome River Plate per pochi voti rispetto a Forward. Dopo pochi giorni, i sostenitori di Forward proposero di giocare una partita di calcio contro i sostenitori di River Plate per decidere la denominazione del club, vinsero i sostenitori di Forward, che nel frattempo avevano deciso che River Plate era più bello. La storia ufficiale del club fissa la data di fondazione al 25 maggio 1901, il 25 maggio è un omaggio alla data di indipendenza dell’Argentina.
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In realtà questa data è contestata da molti storici del calcio argentino che fanno risalire la vera data di fondazione al 15 maggio 1904, a favore di questa tesi il fatto che Santa Rosa e Rosales continuarono l’attività agonistica fino al 1904 e soprattutto un articolo del giornale La Nación del 22 maggio 1904, che per la prima volta fa menzione del Club Atlético River Plate. Il 30 aprile 1905 il River gioca la sua prima partita ufficiale nel campionato di Tercera División, perdendo 2-3 con la Facultad de Medicina. Il futuro premio Nobel per la medicina, nel 1947, Bernardo Houssay segnò due reti per la squadra vincitrice. Bisogna aspettare una settimana per la prima vittoria, 4-3 contro il General Belgrano “A” il 7 maggio. Il campo dove si esibisce il River si trova nella zona della darsena sud del porto, dietro un deposito di carbone. La divisa in questi primi anni è composta da camicia bianca accompagnata da pantaloni e calzettoni neri. Nel 1906 il River si iscrive al campionato di Segunda División e nel 1908 ottiene la promozione in Primera División, la partita decisiva si gioca il 13 dicembre 1908 sul campo del Racing Club con vittoria per 2-1, ma a causa di un’invasione di campo dei tifosi del River in occasione del secondo gol il Racing ottiene la ripetizione. Il 27 dicembre il River vince, questa volta senza appello per 7-0, ed entra nel calcio che conta. In questa stagione si vedono per la prima volta le bande rosse sulle camicie dei giocatori, ci sono diverse motivazioni per questa scelta cromatica, tutte possibili e diverse tra loro. La più simpatica narra che alcuni ragazzi della squadra abbiano deciso di pren-
dere un drappo rosso che ornava un carro del carnevale, al fine di dare un tocco di originalità alle loro casacche. Una seconda versione, forse più attendibile, parla di un omaggio alla bandiera di San Giorgio, croce rossa in campo bianco, che è anche la bandiera della città di Genova. La maggior parte degli abitanti della Boca e quindi dei giocatori del River erano originari della città ligure. Una terza ipotesi è legata alla massoneria, alcuni dei soci del River, tra questi il primo presidente e capitano Leopoldo Bard, erano massoni e la maglia bianca con la banda rossa richiamerebbe il grembiule usato durante le riunioni delle logge. In ogni caso da quel momento comincia l’epopea di una delle maglie più originali e riconoscibili nel panorama del calcio mondiale. Nel 1909 il River gioca in Primera División con una maglia a strisce verticali biancorosse intervallate da una striscia nera più sottile, è la maglia definita “tricolor” che verrà indossata fino al 1930 in varie versioni, i tre colori si alternano su collo e bordi e, a seconda della fornitura, le righe nere diventano più importanti oppure spariscono, pantaloncini e calzettoni rimangono neri. In questi anni le maglie erano fornite dalla ditta inglese ST. Margaret e da Gath & Chaves, un grande magazzino bonaerense che al tempo vendeva abbigliamento di qualità. In seguito ad alcuni problemi con le autorità portuali, nel 1909 il club deve spostarsi a Sarandì per ritornare nel quartiere di Boca nel 1912 ma l’anno successivo avviene un ulteriore trasloco forzato sul campo del Ferrocarril Oeste, nel 1915 si ritorna a Boca dove viene allestito un
campo di calcio di dimensioni importanti per l’epoca con due tribune. Il 24 agosto 1913 si gioca la prima partita contro il Boca Juniors, vince il River per 2-1, in precedenza sembra ci siano stati incontri amichevoli di cui non risulta traccia scritta. Con il passare degli anni questo diventerà il Superclásico, uno derby più appassionanti e a volte anche più violenti del mondo. Nel 1920 il River vince il primo titolo nazionale, superando in finale il Quilmes per 2-0. Nel 1923 i proprietari del terreno dove sorge il campo di gioco non rinnovano l’affitto al River, costringendo la squadra a trasferirsi nel quartiere Palermo, il 23 agosto viene inaugurato un nuovo impianto da 40.000 spettatori con due grandi tribune. Nel 1932 il River torna a vincere il campionato nazionale, in questa stagione ritorna anche la camicia bianca con la banda rossa, curiosamente in alcune partite i giocatori hanno indossato una camicia con banda trasversale inversa, da sinistra a destra. In questa stagione nasce il soprannome Los Millonarios a causa dei numerosi acquisti eccellenti fatti dalla dirigenza del club, tra tutti Bernabé Ferreyra, acquistato dal Tigre per una cifra ai tempi incredibile pagata prevalentemente in oro. La divisa è composta da camicia bianca con banda rossa, pantaloncini neri e calzettoni bianchi oppure grigi, rimarrà in auge fino agli anni ‘60, a metà anni 30 compare lo stemma sociale sul petto. Nel 1937 era necessario trovare un nuovo terreno, la proprietà del campo in Avenida Alvear y Tagle non aveva intenzione di rinnovare l’affitto. Il 25 maggio 1938, un’amichevole con il Peñarol inaugurò lo stadio El Monumental che rimarrà la casa del River fino ai tempi moderni. Nel 1952 compare per la prima volta una maglia più moderna, usata nel periodo invernale, in cotone pesante con collo a girocollo. Negli anni ‘60 alla camicia bianca con banda rossa, nei mesi invernali sempre maglia a girocollo, vengono abbinati pantaloncini bianchi e calzettoni biancorossi
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a righe. Bisogna arrivare al 1972 per vedere delle maglie più moderne con un collo a camicia e scollo a V, nei periodi freddi si usano sempre le maglie a girocollo, i pantaloncini sono neri o bianchi, ma in alcune partite si vedono pantaloncini rossi con bande larghe bianche sui fianchi, mentre i calzettoni sono biancorossi o grigi, il fornitore è la Textil Sport di Buenos Aires, dal 1973 i pantaloncini saranno neri. Nel 1979 comincia a vedersi saltuariamente il logo del fornitore, la ditta argentina Olimpia. Nel 1982 compaiono le prime divise griffate Adidas, maglia a girocollo bianca con banda rossa accompagnata da pantaloncini neri e calzettoni bianchi, tutto siglato dalle tre strisce. L’anno successivo maglia con collo a V e colletto a camicia e nel 1984 arriva una maglia bellissima con colletto a camicia rosso chiuso davanti da un triangolo rosso, è la prima volta che la maglia presenta un collo rosso, maglia ancora più bella nella versione da trasferta, unico caso di maglia rossa con banda bianca. Nel 1986 compare per la prima volta sulla maglia il nome di uno sponsor commerciale, si tratta della fabbrica argentina di pneumatici Fate. A partire dagli anni ‘80 ci sarà una nuova maglia ogni anno, spesso con variazioni minime rispetto alla stagione precedente, mantenendo uno stile tradizionale e riprendendo per le seconde e le terze maglie le tante anomalie usate dal River nel corso dei decenni, all’inizio del nuovo secolo è comparso in alcune stagioni il collo nero. Se la maglia del River è stata quasi sempre uguale a sé stessa, eccetto la maglia
tricolor negli anni 20 e 30, i Millonarios hanno spesso usato delle maglie anomale, in omaggio a club amici o prese in prestito per necessità. La prima anomalia risale al 1931 quando, avversario di giornata il Tigre, il River scende in campo con una maglia a righe bianche e blu. Nel 1942 si ricorre alla maglia del San Lorenzo, blu con collo rosso, in una partita contro la Liga Cordobesa de Fútbol. Nel 1944 i Bonaerensi giocano due partite amichevoli nella provincia di Tucumán, indossando le maglie biancocelesti di Atlético Concepción e biancorosse di San Martín de Tucumán. Nel 1965, amichevole casalinga con i Cileni del Colo Colo, il River scende in campo con le maglie a strisce bianconere del Club Cipoletti. Nel 1969 un’inusuale maglia viola veste i giocatori della Banda in una partita contro il Deportivo Morón, non ci sono dati certi su questa maglia ma sembra che sia un regalo della Fiorentina ricevuto un paio di anni prima. Nel 1975 partita contro l’Athletic Bilbao nel corso di un tour di amichevoli in Europa, per ovviare ai problemi cromatici il River indossa una maglia biancoblu prestata dal Recreativo Huelva. Passano cinque anni e a Barcellona il River affronta il PSV nel Trofeo Gamper indossando la bellissima maglia di riserva del Barça, gialla con banda trasversale blu e granata. Nel gennaio del 1948 il River è la prima squadra argentina ad affrontare una tournée in Brasile, visto il successo dell’iniziativa dopo pochi giorni anche il Boca decide di andare in trasferta in Brasile. Le due squadre argentine si trovano
negli stessi giorni a San Paolo, la locale federazione propone una partita tra una selezione paulista e una combinata River-Boca. La partita diventa un grande evento sportivo ma al momento di scendere in campo l’amichevole rischia di saltare, i giocatori del River rifiutano di indossare le maglie del Boca e viceversa, il problema si risolve grazie al giocatore argentino Bóvio che intercede presso i suoi connazionali convincendoli a scendere in campo con le divise della sua squadra, il Palmeiras. Nei primi anni la maglia da trasferta era semplicemente bianca, negli anni ‘20 vengono usate maglie blu in onore del Club Belgrano de Córdoba e giallonere a strisce verticali in onore del Peñarol di Montevideo, club con cui c’era una forte amicizia. Nel 1932 viene nuovamente indossata la maglia con la banda, le maglie tricolor vengono usate come maglie di riserva insieme a maglie a strisce biancorosse. A partire dagli anni ‘50 largo uso di maglie rosse, granata e rosse con le maniche bianche, divise ricevute in dono dal club francese del Reims. Dagli anni ‘80 vengono indossate maglie rosse oppure tricolor, negli ultimi vent’anni è diventato popolare il nero. Il 4 maggio 1949 cadde a Superga l’aereo che trasportava il Grande Torino, la notizia ebbe grande rilievo in tutto il mondo e commosse gli sportivi tutti e non solo. Il 25 maggio, su iniziativa del presidente Antonio Liberti, il River si imbarcò su un aereo per giocare a Torino un’amichevole al fine di devolvere l’incasso a favore delle famiglie delle vittime, il tutto spontaneamente e gratuitamente. La partita si giocò il giorno dopo, 2-2 il risultato, e suggellò la nascita di una Eterna Amistad che legherà il due club nei decenni a venire. Da allora spesso le due squadre hanno indossato i colori degli altri come divisa alternativa, il Torino in bianco con banda rossa e il River in granata. I portieri del River hanno indossato per i primi decenni maglie gialle oppure azzurre, a partire dagli anni ‘70 ven-
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I MONDIALI FIFA
DI CALCIO FEMMINILE…
IN FIGURINE!!! Le figurine Panini si tingono di rosa. In edicola la nuovissima collezione “FIFA Women’s World Cup France 2019”, dedicata ai prossimi Mondiali FIFA di calcio femminile in Francia. Per la prima volta, l’album conterrà anche le immagini delle calciatrici della Nazionale azzurra. La raccolta è articolata in 480 figurine (di cui 36 in materiale speciale foil), che possono essere raccolte in un fantastico album da 56 pagine. La copertina dell’album vede un’immagine iconica di una calciatrice in fase di attacco, che corre con al piede il pallone ufficiale di questa manifestazione. La collezione sarà presentata ufficialmente alla Nazionale femminile italiana e alla delegazione della FIGC lunedì 8 a Reggio Emilia, alla vigilia della partita amichevole contro l’Irlanda che si svolgerà il giorno successivo allo stadio “Città del Tricolore”. La raccolta uscirà dunque due mesi prima della partita inaugurale del Mondiali femminili di Francia, in programma il 7 giugno prossimo a Parigi. La collezione “FIFA Women’s World Cup France 2019” si apre con una pagina istituzionale con 5 figurine sui loghi della manifestazione e con altre tre pagine con 18 figurine dedicate alle città e agli stadi francesi che ospiteranno le partite. Segue poi la sezione sulle 24 Nazionali del torneo: ad ogni squadra sono riservate due pagine contenenti le figurine di 17 giocatrici, oltre al logo della federazione e al team schierato. Per l’Italia, in attesa delle convocazioni ufficiali della Ct Milena Bertolini, la Panini ha “convocato”, tra le altre: il capitano Sara Gama, il portiere Laura Giuliani, la centrocampista Valentina Bergamaschi e l’attaccante Valentina Giacinti. La raccolta si chiude con due sezioni: una dedicata al programma della manifestazione, contenente la figurina del pallone ufficiale, ed un’altra con
Per la prima volta nella raccolta anche la Nazionale azzurra
i 10 maggiori record del torneo, sia di squadra che singoli. “Questa collezione è anche un modo per celebrare il crescente successo del calcio femminile in Italia, che già da alcuni anni ha uno spazio dedicato anche all’interno della celebre collezione ‘Calciatori’ e che ha visto negli ultimi mesi un interesse sempre più forte da parte di media, aziende e grande pubblico”, ha dichiarato Antonio Allegra, direttore Mercato Italia di Panini La collezione “FIFA Women’s World Cup France 2019” è stata realizzata da Panini su licenza ufficiale FIFA. E’ la terza raccolta che la casa editrice di Modena dedica ai Mondiali di calcio femminile, dopo quelle per i tornei di Germania 2011 e Canada 2015. Ulteriori informazioni su www.panini.it.
nero usati con prevalenza grigio e nero e a seguire anche il viola. Lo stemma sociale compare per la prima volta sulle casacche dal 1933 al 1945 solo sulla prima maglia, è il semplice acronimo CARP di forma circolare e di colore rosso. Nel 1964, questa volta solo sulle divise da trasferta, compare il nuovo logo, uno scudo bianco con banda rossa e al centro l’acronimo CARP in nero. Nel 1966 il River perse un’incredibile finale di Copa Libertadore contro il Peñarol, da allora gli avversari cominciarono a definire il club e i tifosi i “Polli”, nel 1984 divenne presidente del River Hugo Santilli che decise di rinnovare l’immagine del club a cominciare da un nuovo stemma più accattivante. Venne indetto un concorso e vinse il progetto di Carlos Loiseau detto Caloi, popolare caricaturista argentino, si trattava di un leone con la maglia della squadra seduto al centro dello stadio. Quando Santilli lascerà la presidenza il leone venne accantonato, in ogni caso questo stemma è legato alla mitica stagione 1986 in cui il River vinse campionato, Libertadores, Intercontinentale e Interamericana. Il Leone rimarrà sulle maglie della Banda dal 1985 al 1989, dal 1993 verrà cucito sul petto lo stemma classico che resiste ancora oggi. Nel catalogo HW del Subbuteo il River Plate è rappresentato dalla ref. numero 59, maglia bianca con banda rossa (in due versioni: orizzontale e trasversale), pantaloncini neri e calzettoni neri con bordo rosso. Nel 1923 a Belle Ville, provincia di Córdoba, venne fondata una squadra di calcio. I fondatori erano tifosi di River e Boca, litigarono a lungo per decidere nome e colori sociali e alla fine decisero di tirare a sorte. Misero in un cappello due fogli di carta con i nomi delle due squadre famose, con l’accordo che il primo sorteggiato avrebbe dato il nome al nuovo club e il biglietto rimanente avrebbe assegnato i colori sociali. Così venne fondato il Club Atlético River Plate de Belle Ville, con colori sociali azzurro e giallo.
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C L A C L E D I T GIGAN Altobelli
di Stefano Borgi
IL CALCIO IN PUNTA DI... SPILLO Alto, magro, bomber puro, Campione d’Italia e del mondo. Altobelli (che non perdona Trapattoni) si racconta così...
Credit Foto - Liverani
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i Alessandro Altobelli si sa praticamente tutto. Che ha fatto il calciatore, che ha giocato (e vinto) con l’Inter, che ha giocato (e stravinto) in Nazionale. E che da qualche anno fa il commentatore per la televisione araba BeIN sports. In più Altobelli è ricordato come il centravanti che, con Evaristo Beccalossi, fece impazzire i tifosi nerazzurri. E che per lui, Sandro Pertini, rischiò di rompere il protocollo interNazionale alzandosi in piedi e sfidando il cancelliere tedesco Schmidt. Eh già, era l’11 luglio del 1982, e da pochi secondi Altobelli (subentrato dopo 7 minuti all’infortunato Ciccio Graziani) aveva infilato per la terza volta Schumacher, firmando definitivamente il terzo titolo mondiale dell’Italia. “Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo...”. Così urlava Nando Martellini al triplice fischio del brasiliano Coelho, ma tutto nacque (e si concluse) col terzo sigillo di Alessandro da Sonnino, provincia di Latina. “È indubbiamente il gol più importante della mia carriera. Anche se di gol ne ho fatti tanti, forse anche di migliori - ricorda Altobelli -. La grandezza di quel gol sta anche nell’azione: fuga di Bruno Conti, passaggio a centro area, io che stoppo di destro, me la porto sul sinistro, e calcio
to per gli altri campioni del mondo (‘34, ‘38 e 2006 n.d.r.) ma quello dell’82 è il vero Mondiale vinto dall’Italia. Trovatemi voi una Nazionale che in pochi giorni batte Argentina, Brasile, Polonia e Germania...” I SEGRETI DI SPILLO Lo abbiamo detto, di Altobelli sappiamo tutto. O quasi... La provenienza del soprannome “Spillo”, ad esempio. Tutti pensano gliel’abbia dato il primo allenatore, magari mutuando la definizione: “giocare in punta di fioretto”, visto che quel ragazzo magrolino (come uno Spillo, appunto...) sfoggiava una tecnica degna di un fiorettista. O forse glielo affibbiò il primo presidente, suo padre, sua madre, e invece... “Me lo dette il mio maestro elementare a Latina – confessa Alessandro. - Appena mi vide, così magro, lungo e dinoccolato, disse subito:
“Il titolo dell’82 è il vero Mondiale vinto dall’Italia. Con tutto il rispetto, chi ha battuto Argentina, Brasile e Germania?” nell’unico spazio lasciato dal portiere. Con Kaltz e Stielike che mi arrivano addosso. Bastava un attimo e quello spazio non c’era più. Fui bravo e fortunato. E poi il presidente Pertini che esulta come un ultras, che grida: ‘Non ci prendono più, stavolta non ci riprendono più’, insomma... roba che a ripensarci mi si accappona la pelle. Con tutto il rispet-
Tantissimi record in casa Inter appartengono ancora al mitico Spillo
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CA GIGANTI DEL Altobelli
sembri uno Spillo. E così me lo porto addosso ancora adesso. Devo dire che mi ha portato fortuna...” I segreti però non finiscono qui: ad esempio, caro Spillo, lei ha sempre fatto il calciatore? “Assolutamente no. Anzi, non ho fatto come tanti altri che ad un certo punto si sentono arrivati. Io non mi sono mai sentito un calciatore fatto e finito, neppure in Serie A. Mi sono sempre allenato duramente, per migliorare. Come studi ho fatto appena la terza media. Mio padre veniva a vedermi giocare, ma allo stesso tempo mi diceva: ma dove vai? Voleva imparassi un mestiere. E fu così che cominciai a fare il macellaio. Poi vide che col pallone ci sapevo fare...” E poi la storia del barbiere: “Certo, si chiamava Gaspare Ventre, aveva il negozio in centro a Sonnino. Fu lui ad organizzare la prima squadretta del paese, grazie alla quale mi notò il Latina in Serie C. Poi feci un provino per il Cesena, dove c’era anche il presidente Manuzzi, ed invece andai a Brescia. Sembra per merito di Fulvio Bernardini, allora DS delle rondinelle, ma non sono sicuro...” Insomma, uno dei più grandi bomber del calcio italiano che viene soprannominato “Spillo” da un maestro elementare, diventa calciatore grazie ad un barbiere, e per giunta... è un macellaio mancato. Diremmo che non manca niente. Adesso si capisce perché le sue reti si abbattevano come una lama affilata sulle squadre avversarie... ALTOBELLI E L’ORATORIO “Appena posso torno a Sonnino. Lì c’è ancora mia madre, i miei amici di scuola, il campo dove sono cresciuto. Quelle sono le mie origini, e resteranno per sempre con me. Non potrò mai dimenticare la festa che hanno fatto per i miei 60 anni (anno 2015 n.d.r.). È durata una settimana: sono state fatte cene, partite tra ex compagni, iniziative, raccolte di fondi... Ho lasciato tutto alla Chiesa, al parroco. Io mi fido di
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loro, in tutto e per tutto, e appena posso scendo giù ed organizziamo qualcosa insieme”. Tutto... compreso i proventi del libro: “L’Inter ha le ali”. “Certo – aggiunge - è un libro che parla delle cene che facciamo tra compagni, quelli che hanno vinto lo scudetto ‘79-’80. Ci troviamo ogni tanto e ci buttiamo via, tra racconti e aneddoti. Una parte va all’associazione ANDOS (Associazione Nazionale donne operate al seno n.d.r.), un’altra va all’oratorio di Sonnino. Per me è una gioia, ma anche una responsabilità...” ALTOBELLI E L’INTER Domanda secca: undici anni all’Inter, uno scudetto e due Coppe Italia... non è un po’ poco? “Iniziamo col dire che sono sempre stato interista, anche da bambino. La mia Inter era quella del mago, Sarti-BurgnichFacchetti... Poi sì, soprattutto pensando alla squadra che avevamo, abbiamo vinto poco. Tutti grandi calciatori: Bordon, Oriali e Marini, tanto per citare i campioni del mondo. E poi Bini, Muraro, Mozzini, Canuti, Baresi, Caso, Pasinato. Il mister Bersellini. Un uomo duro ma leale, che mi ha aiutato tantissimo. Soprattutto a formarmi fisicamente. Anzi, mi viene in mente un aneddoto...” Prego, siamo qui per questo: “È il 1977, Beltrami e Bersellini vengono a vedermi al Brescia. Passo il provino, convincono Fraizzoli a comprarmi, pagandomi anche abbastanza. La prima volta che il presidente mi vede, se ne esce: ‘e voi mi avete fatto spendere tutti quei soldi per questo qui?’ Effettivamente ero magro, timido, dallo sguardo spaurito, sembravo tutt’altro che un crack. Poi si è ricreduto, ma lì per lì...” Sbaglio o nella lista manca un nome? “Guardi, non me lo sono dimenticato. È che Beccalossi non solo è un mio amico fraterno, ma è anche il più
Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini
sa Spillo, con malcelata amarezza. - Doveva portarmi più rispetto, poteva accompagnarmi in un altro modo. Ok, vuoi privilegiare gente più giovane? Bene, mi dici... guarda, non puoi giocarle tutte, non sarai titolare. Ma non mettermi alla porta in quel modo. Nel 1987 cominciò a preferirmi Ciocci, senza neppure parlarmi. Va bene, il ragazzo era pure bravino (lo chiamavano il nuovo Paolo Rossi n.d.r.) ma Ciocci ha mai vinto un campionato del mondo? Ha mai vinto uno scudetto? E che carriera ha fatto Ciocci? Insomma, c’è modo e modo... Fatto sta che fui costretto a trasferirmi alla Juventus. In bianconero feci una buona prima parte di stagione, poi mi infortunai e... festa finita. Peccato, mi avrebbe fatto piacere far parte dell’Inter dei record (‘88-’89 n.d.r.) e vincere il secondo scudetto. Ma ormai, è andata...”
grande calciatore col quale ho mai giocato. E ne ho avuti di compagni bravi, con l’Inter e con la Nazionale. Eppure gente che sapesse giocare al calcio come il mio amico “becca”... non ce ne sono stati”. E l’Inter di oggi? “Annata contraddittoria. Conosco i cinesi, e dico che hanno grandissime possibilità. Bisogna avere fiducia. Poi bisogna far lavorare Marotta. È un uomo capace, uno che fa valere le regole (ogni riferimento al caso Icardi... è puramente voluto n.d.r.). Lasciamolo agire e vedrete”. UNA DELUSIONE CHIAMATA TRAPATTONI Torniamo agli allenatori. Bene Bearzot, bene Vicini (“che mi ha allungato la carriera convocandomi all’Europeo di Germania ‘88”), benissimo Bersellini. Mentre il Trap? “L’ho avuto per due anni, dall’86 all’88, poi mi ha scaricato. E ci sono rimasto male - confes-
SPILLO E LE CHAT... DEI CAMPIONI Ehi, che avete capito? Stiamo parlando delle due chat che Spillo ha creato, che alimenta, che incoraggia: quella dei campioni del mondo ‘82, e quella dei campioni dell’Inter 197980. “Nelle due chat sono il più attivo. Qualcuno dei miei amici interisti dice perché... non faccio niente dalla mattina alla sera. Sarà che, per fare invidia, gli mando le foto mentre sono sulla spiaggia, al caldo. Capirà, loro sono imbacuccati al freddo dell’inverno milanese, mentre io... Ma non è vero che non faccio niente: a Doha (Qatar n.d.r.) trasmetto 5 sere a settimana, commentando per la televisione BeIN sports tutto il campionato italiano e la Champions League. Torno in Italia quando c’è la Nazionale e quando finisce il campionato. E lì rivedo la mia famiglia, tutti i miei amici...” UNA SPERANZA CHIAMATA NAZIONALE Da uno a dieci, quanto le ha fatto male l’Italia fuori dai mondiali? Può scegliere anche una cifra superiore: “Se parliamo dell’ultima Italia, sbagliamo obiettivo. Diciamo che, dopo
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“Il mio gol più bello? Ne ho fatti tanti. Certo che quello in finale mondiale, con Pertini che esulta, mi fa ancora accapponare la pelle”
il 2006, la nostra Nazionale ha fallito tutti gli obiettivi. Ci siamo salvati all’Europeo 2012 (finale persa 4-0 con la Spagna n.d.r.), poi però: all’Europeo 2016, dove comunque perdendo ai quarti con la Germania, siamo arrivati ottavi. Per il resto, buio completo. Mondiali 2010, 2014 e 2018. E non è detto che ci qualificheremo a quelli del 2022 in Qatar. Insomma, una tragedia. Oggi, però, mi sembra stia rinascendo qualcosa di buono: Chiesa, Barella, Zaniolo, Bernardeschi... Giovani di valore, finalmente un po’ di qualità”. Manca solo un centravanti come Altobelli, aggiungiamo noi... “Guardi, secondo me Ciro Immobile è
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un ottimo centravanti. Lo ha dimostrato in B col Pescara, a Genova, a Torino ed oggi con la Lazio. Lo stesso Belotti è un’altra buonissima punta. No, per me non esiste un problema centravanti. E poi Mancini è uno bravo, ha coraggio, fa delle scelte che domani lo ripagheranno...”. ALTOBELLI ED I FIGLI è sempre più tempo di figli d’arte. Dopo gli esempi storici (e probabilmente irripetibili) di Valentino e Sandro Mazzola, Cesare e Paolo Maldini, oggi è il turno di Federico Chiesa, Giovanni Simeone e Federico Di Francesco.
Il Mondiale vinto nel 1982, il top nella carriera di Spillo Credit foto: Liverani
Qualche anno fa sembrò scoccare l’ora anche di Mattia Altobelli, e invece... “Si, Mattia era un esterno sinistro promettente che giocava nell’Inter primavera. Addirittura, aveva esordito in coppa Italia ai tempi di Lippi e Cuper (stagioni 2000-2003 n.d.r.). Poi fu mandato in giro, come si suol dire, a farsi le ossa: a 19 anni va a La Spezia, e fa bene. L’anno dopo è alla Spal con Allegri, e fa benissimo. Tanto che, dopo una breve esperienza ad Avellino, lo stesso Allegri mi dice che lo voleva con sé al Lecco. Mattia firma per tre anni, ma Allegri va a Sassuolo. Da lì per Mattia comincia la caduta, forse gli fecero pagare il nome Al-
tobelli. Io non sono mai intervenuto per far valere il mio passato, e forse ho sbagliato. Ma non fa parte del mio carattere. Comunque, oggi Mattia lavora nell’Inter Forever, una costola della società nerazzurra, che si occupa di scouting, va in giro per il mondo. È contento. L’altro, invece, si chiama Andrea e fa il perito informatico. Insomma, sono orgoglioso di loro...” C’ERA UNA VOLTA LA GAZZETTA... E chiudiamo col tema della nostra apertura: Alessandro Altobelli, ci dica... si stava meglio quando si stava peggio? “Difficile fare parago-
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Attualmente commenta il calcio italiano per conto di BeIN Sports
ni. Di certo un tempo c’era più rispetto, pensi che io davo del lei ai giocatori più anziani. Ma non solo dell’Inter, anche delle altre squadre. E poi c’era maggior cultura calcistica. Guardi, le do uno spunto e dico: c’era una volta la Gazzetta. Gianni Brera, Gualtiero Zanetti... Uscivo dallo stadio e trovavo Beppe Viola, vuoi mettere? Oggi mi si presenta un ragazzino di 20-25 anni e cosa mi chiede? Mi ha visto giocare? Oggi è difficile parlare di calcio con un giornalista. Altra cosa: le esultanze dopo un gol. Non per fare il moralista, ma perché certi atteggiamenti? Io esultavo con tranquillità alzando il braccio, abbracciando i miei compagni. Io dico sempre che, con tutti i gol che ho fatto in carriera, se mi fossi messo ad esultare come un pazzo la mia carriera sarebbe durata la metà...” (ride n.d.r.). E allora, via col fuoco di fila: il difensore più forte che lo ha marcato? “Dico Sergio Brio e Vierchowod. Però scelgo lo Zar, duro, deciso ma non cattivo”. Andiamo avanti: Altobelli che deve scegliere il
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“miglior” Altobelli. Tre possibilità: campione d’Italia 1980 con l’Inter, Campione del mondo 1982 con l’Italia, capocannoniere ai mondiali di Messico ‘86. “Mamma mia, che domanda – Spillo è in chiara difficoltà. - Allora: nel 1980 feci 15 gol e vinsi lo scudetto. Nel 1982 vinsi il titolo mondiale segnando in finale. Nel 1986 realizzai 5 gol (unico marcatore italiano di quell’edizione n.d.r.) ed ero al top della carriera. Si, dico Messico ‘86. Probabilmente quello è stato l’Altobelli migliore”. Finale col botto: ha più dato o più ricevuto dal calcio? “Alla pari: ho dato, ho ricevuto. Ho guadagnato, sono stato osannato, applaudito, celebrato... non mi lamento. La delusione, semmai, l’ho avuta dopo, quando ho provato a fare il dirigente. Lasciamo stare, non c’è gratitudine, non c’è riconoscenza. Guardi i miei vecchi compagni all’Inter, l’unico che si è salvato è Lele Oriali. Gli altri sono tutti fuori. Diciamo che il calcio era meglio un tempo. Quando si giocava... in punta di Spillo”.
L’UOMO DEI RECORD Alessandro Altobelli, ovvero l’uomo dei record. Almeno per quanto riguarda la sua esperienza all’Inter. Con i nerazzurri, infatti, ha militato dal 1977 al 1988, disputando 466 partite e segnando 209 reti – secondo in assoluto alle spalle di Giuseppe Meazza con 284. Vince anche uno scudetto e due coppe Italia. È il miglior marcatore nella storia del trofeo nazionale grazie alle 56 reti realizzate, nonché il miglior cannoniere italiano in Coppa Uefa con 25 gol. Inoltre, risulta essere il massimo cannoniere dell’Inter nelle competizioni Uefa per club con 35 reti. Soprannominato “Spillo” per la struttura longilinea, Altobelli nasce a Sonnino in provincia di Latina il 28 novembre 1955. Centravanti dal repertorio completo: tendenzialmente di piede destro ma abile anche col mancino, fortissimo tecnicamente e nel gioco aereo, nonché fornito di “scatto bruciante” e spirito di sacrificio. Pietro Vierchowod (che lo stesso Altobelli definirà il difensore più forte mai affrontato) lo annovera tra i più forti attaccanti di sempre.
nel trofeo nazionale nell’edizione 1981-82, con un’altra rete in finale, questa volta al Torino. Terminata l’esperienza in nerazzurro, si trasferisce ai rivali della Juventus. Rimane in bianconero per una sola stagione (15 reti), e chiude la carriera tornando al Brescia. Si ritira alla conclusione del campionato cadetto del 1989-1990. LA CARRIERA IN NAZIONALE Il nome di Altobelli è legato, in maniera indissolubile, con l’Azzurro. Il primo a credere nelle sue potenzialità è Enzo Bearzot che lo chiama in Nazionale, al posto di Paolo Rossi (squalificato), per gli Europei del 1980, organizzati proprio dall’Italia. Gioca sia con il Belgio (suo esordio assoluto) che con la Cecoslovacchia. Il primo gol, anzi una doppietta, arriva, sempre nel 1980, nell’amichevole con il Portogallo (3-1). Partecipa alle Qualificazioni ai Mondiali del 1982. Il suo apice lo raggiunge nella finalissima della Coppa del Mondo, a Madrid, contro la Germania Ovest, dove, subentrando a Graziani, segna anche la rete del definitivo 3-1. Parteciperà anche al Mondiale del 1986, quello del grande Maradona, e agli Europei del 1988. In totale, annovera 61 presenze con la casacca della Nazionale, con 25 gol all’attivo (l’ultima, contro la Danimarca, proprio ad Euro 1988).
“Per la Nazionale vedo nuova luce. Mancini è bravo e coraggioso, e dietro stanno nascendo giovani di qualità”
LA CARRIERA NEI CLUB Altobelli cresce nel settore giovanile del Latina, viene notato dal Brescia, segnatamente da Fulvio Bernardini, allora DS delle rondinelle, che lo acquista per farlo esordire in Serie B. A Brescia disputa tre campionati, segnando 26 reti. Nell’estate del 1977 Beltrami e Bersellini lo portano all’Inter: esordisce, in Serie A, l’11 settembre, nella sconfitta interna (0-1) col Bologna. Al termine della stagione conquista la Coppa Italia, segnando un gol in finale al Napoli. Nella stagione 1979-80 vince lo scudetto, realizzando 15 reti (vicecapocannoniere alle spalle dello juventino Bettega, autore di 16 gol). Bissa il successo
LA CARRIERA DA DIRIGENTE E COMMENTATORE È stato, dopo il suo ritiro, direttore sportivo del Padova (dal 1995 al 1998). Ha svolto anche il ruolo di osservatore della sua amata Inter. Oggi si diverte a commentare il calcio per conto di BeIN Sports (ex Al Jazeera), ha due figli (Mattia ed Andrea), e risiede a Doha in Qatar.
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O N R O I G N U EROI PER Mario Boselli di Thomas Saccani
IL “RETROCESSORE” Un gol indimenticabile, la rete che mandò la Samp in Serie B. Il capolavoro di Boselli…
“S
ei bella come un gol di Boselli al 96”. Una “dedica” che, a Genova, ha fatto scuola… Per comprenderla a fondo, è necessario parlare di un certo Mario Boselli. Da non confondere con il noto sceneggiatore di Tex, il calciatore Mario Boselli è, per il popolo del Grifone, un’istituzione (gli è stata anche intitolata una via, anche se non in maniera ufficiale). Al suo nome è legato uno dei momenti più gioiosi del tifo genoano. Con la memoria bisogna tornare all’8 maggio 2011. Al Ferraris è in programma il Derby della Lanterna numero 111 (se si contano tutte le manifestazioni). La classifica del campionato è decisamente singolare. Il Genoa non ha più nulla da chiedere al torneo: troppo lontano dai quartieri nobili, altrettanto distante dalla zona retrocessione. Insomma, la squadra allenata da Ballardini sta solo contando i giorni che la separano dalle vacanze estive. Decisamente diversa la situazione in casa Samp. I blucerchiati stanno vi-
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vendo un autentico dramma sportivo. A tre giornate dalla fine del torneo, stanno duellando con il Lecce per evitare una clamorosa retrocessione. Le palpitazioni dei doriani sono bel oltre la soglia di tolleranza. Vincere il Derby è vitale per continuare la corsa verso la permanenza nella massima serie. Cavasin, tecnico della Sampdoria, punta sul duo offensivo formato da Biabiany e Pozzi. Il Genoa, allenato da Ballardini, ha solo una gran voglia di “fare bella figura” davanti al pubblico amico. Il primo scossone al match arriva al 45’ con Floro Flores che regala l’1-0 al Genoa. La Sampdoria reagisce a, al 67’, pareggia i conti Pozzi (complice un Eduardo non impeccabile). L’1-1, tutto sommato, è il risultato che sta bene a tutti. Un punto a testa, senza farsi troppo male. Ad una manciata di minuti dal triplice fischio finale, l’allenatore Ballardini, guardandosi alle proprie spalle, intravede la sagoma di Boselli. L’argentino nativo di Buenos Aires è arrivato a gennaio ma, complici tanti, troppi
Il gol di Boselli nel derby dell’8 maggio 2011
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RNO
GIO EROI PER UN Mario Boselli
L’OMBRA DELLE COMBINE Il derby in cui Boselli ha spedito all’inferno la Sampdoria è, ancora oggi, motivo di grandi discussioni. Attorno a quella stracittadina si è detto di tutto, arrivando a parlare di combine. Nel 2012 viene aperta un’inchiesta. Un vero e proprio ciclone giudiziario nel quale si grida a reati di “frode sportiva”. Si insiste su un presunto accordo tra due gruppi di giocatori di una e dell’altra squadra, che, in vista del Derby della Lanterna, si sarebbero incontrati per decidere, a tavolino, un risultato che potesse essere utile alla Sampdoria, per evitargli la retrocessione. “Ma Boselli non lo sapeva”, questo lo slogan che circola tra le vie di Genova (“Ma Boselli non lo sapeva” diventa la maglietta con la scritta più venduta tra i tifosi del Genoa). Lui, argentino abituato alle battaglie, sportivamente parlando, tra Gimnasia ed Estudiantes, non ne sapeva nulla di questi “presunti accordi”. Infatti, Boselli il gol lo segna, senza esitazioni, mandando all’aria qualsiasi possibile combine: “Non credo che si possa pensare che fosse una partita combinata perché è un ‘clasico’, un derby e non si può pensare di pareggiare una partita di questo tipo. Ogni giocatore vuole vincerlo, noi stavamo vincendo e dopo il pareggio abbiamo cercato di tornare in vantaggio a tutti i costi, e ci siamo riusciti all’ultima azione. Non capisco come si possa pensare o dire queste cose, chissà su altre partite, ma su un derby credo sia difficile anche solo pensarlo. Sono sfide troppo importanti. Io quando scendo in campo lo faccio per vincere, l’ho sempre fatto e lo farò sempre”, dirà, lo stesso attaccante argentino, a Sky Sport durante la maxi indagine. Per la cronaca, tutto andrà in archiviazione ma il dubbio è ancora vivo nella mente di tanti. Per fortuna, Boselli non lo sapeva…
infortuni, non ha lasciato neppure una flebile traccia della sua presenza. Reduce da sei messi pessimi con il Wigan, Boselli sperava di riscattarsi con la casacca rossoblù. Sogno rimasto tale. Tra la noia generale di un pubblico già rassegnato ad un finale in parità, Boselli fa il suo ingresso in campo al posto di Floro Flores. Il Genoa, oltretutto, resta anche in inferiorità numero: Mesto decide di anticipare tutti e farsi la doccia per primo. L’arbitro Tagliavento prolunga oltremisura l’agonia, concedendo ben sei minuti di recupero. Diversi tifosi, alla vista del cartellone del recupero, decidono di lasciare, anzitempo, Marassi, così da scalfire qualche minuto dell’inevitabile “tempo in colonna”. Si arriva così all’ultimo giro d’orologio. Milanetto verticalizza per Boselli. L’argentino controlla la sfera, si gira e fa partire un diagonale perfetto che si insacca alle spalle di Da Costa. La prima reazione del pubblico, di fede genoana, ancora sugli
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spalti, è di totale incredulità. Anche chi sta seguendo il derby davanti alla tv è sgomento: “Ma l’ha fatto davvero?”, si interrogano tutti i fan dell’amato Grifone. Sì, Boselli l’ha fatto davvero. Incredibile ma vero. Il Genoa ha vinto il derby, condannando, di fatto, la Sampdoria alla retrocessione in cadetteria (complice la contemporanea sconfitta del Napoli sul campo del Lecce). Il patron Preziosi è indiavolato sulle tribune. Festeggia come avesse vinto la finale di Champions League. La follia è collettiva. Tutti ai piedi di Boselli, l’uomo che, venuto dal nulla, ha deciso, con un magico sinistro, nell’ultima azione di gioco, la stracittadina di Genova. Il “magic moment” di un giocatore che, al di là del guizzo, inutile, contro l’Inter (Genoa sconfitto 2-5), aveva deluso tutte le aspettative del popolo del Grifone. Poi, d’improvviso, il “gol della vita”, la rete che lo ha reso eterno, immortale, una sorta di santità tra chi venera il Genoa. “Ho segnato un gol im-
portantissimo, quello al novantaseiesimo minuto del derby. Questo mi ha permesso di entrare per sempre nella storia del Genoa e per me è davvero una fonte di grandissimo onore. Porterò per sempre il Genoa nel mio cuore e gli auguro di disputare un grande campionato”, ha dichiarato, qualche tempo fa, lo stesso Boselli, a Repubblica. Dopo la stellare notte del derby, Boselli scompare dai radar. Al termine della stagione, lascia il Genoa. Torna in Argentina, all’Estudiantes. Nel 2013 lo si rivede, per qualche partita, in Italia, con la casacca del Palermo. Non incide, nessun “magic moment”, solo delusioni. Vola in Messico, dove gioca con il Leon per diverse stagioni (e segna gol a raffica, oltre 100 per l’esattezza). Oggi, a 34 anni suonati, è al Corinthians. Di gol, in carriera, ne ha segnati parecchio (e ne farà anche altri) ma non ci sono dubbi su quale sia stato il più importante, ovvero quello segnato ai rivali della Samp al novantaseiesimo minuto del derby che ha spedito i doriani in Serie B. Eroe per una notte…
IL TABELLINO DELL’INCONTRO Genova – Stadio Ferraris – 8 maggio 2011 GENOA-SAMPDORIA (2-1 (1-1) GENOA: Eduardo; Mesto, Dainelli, Kaladze, Criscito; Rafinha (73’ Antonelli), Kucka (93’ Konko), Milanetto, M.Rossi; Floro Flores (80’ Boselli), Palacio. All.: Ballardini. SAMPDORIA: Da Costa; Zauri, Volta, Lucchini, Ziegler; Mannini, Tissone (69’ Poli), Palombo, Laczko (60’ Guberti); Pozzi (78’ Maccarone), Biabiany. All.: Cavasin. MARCATORI: 45’ Floro Flores (G), 66’ Pozzi (S), 96’ Boselli (G) ARBITRO: Tagliavento di Terni NOTE: Terreno in buone condizioni. Spettatori: 29.465. Angoli: 8-5 per il Napoli. Espulso: Mesto (G) per doppia ammonizione. Ammoniti: Criscito (G), Milanetto (G), M.Rossi (G), Floro Flores (G), Ziegler (S), Tissone (S), Mannini (S). Recupero: 1’pt; 6’st.
Boselli in gol contro l’Inter, l’unico altro guizzo nella sua avventura al Grifone
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. O D N O C E S O IL CALCI Gianni Brera di Luca Gandini
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Credit Foto: Liverani
Omaggio a quello che è considerato il miglior giornalista sportivo di tutti i tempi.
L’ACCADEMIA DI BRERA
L’
intramontabile e inconfondibile lezione di Gianni Brera. Ancor più viva che mai oggi che ricorre il 100° anniversario della nascita del celebre giornalista e scrittore pavese. Fu un mese particolarmente generoso, quel settembre del 1919, per lo sport e la cultura di un’Italia uscita vincitrice, ma a prezzo di indicibili sofferenze, dalla Prima Guerra Mondiale. Il 15, a Castellania, piccolo centro non lontano da Alessandria, nasceva Fausto Coppi, il futuro Campionissimo del ciclismo. L’8 settembre, a San Zenone Po, paesino del Pavese adagiato sulle rive del Grande Fiume, nasceva invece Gianni Brera, il giornalista sportivo più famoso, più letto, più discusso, che l’Italia abbia mai avuto. Sarebbe però riduttivo definirlo solo giornalista sportivo. All’epoca del secondo conflitto mondiale fu infatti inviato di guerra e ufficiale dei paracadutisti nella Divisione “Folgore”. Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, per sfuggire ai nazisti, si rifugiò in Svizzera per poi unirsi alla lotta partigiana e prendere parte attiva alla Liberazione. Trovò anche il tempo per laurearsi in scienze politiche all’università di Pavia, sviluppando raffinate e vastissime conoscenze in molteplici campi. Autentico cantore della più schietta quotidianità della sua terra, la Bassa Padana, e tra i massimi esperti della civiltà lon-
gobarda, fu anche romanziere, amante delle belle arti e cultore della buona gastronomia. Senza far torto a questo o a quell’altro Brera, il “Giuan” che a noi appassiona di più è senza dubbio quello che ha messo la sua Olivetti al servizio dello sport e del calcio. In un panorama giornalistico in cui ancora prevaleva uno stile grondante di enfasi e di retorica, Brera iniziò a distinguersi sin da giovane per l’abilità quasi scientifica con cui riusciva ad addentrarsi nella spiegazione di una partita o di un gesto agonistico, catturandone l’essenza. I concetti tattici e i giudizi tecnici espressi nei suoi articoli o nei suoi libri, tanto per fare un esempio, erano così chiari e approfonditi da fare invidia a quelli di molti addetti ai lavori. Il tutto impreziosito da simpatici aneddoti e da una formidabile padronanza del linguaggio, con l’invenzione di neologismi ancora oggi di uso comune. Certo, a volte, le sue teorie su questo o su quel campione potevano apparire scomode o addirittura provocatorie, ma questo faceva un po’ parte del suo personaggio e di quel divertente gioco delle parti che lo voleva spesso contrapposto ad alcuni dei più famosi idoli dell’epoca. VIVA “EL CADNASS” Il vero fulcro della filosofia breriana era l’esaltazione del difensivismo. Nessun altro
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SPECIALE
Talenti Azzurri modulo di gioco era più adatto a noi italiani del Catenaccio. Quel sistema che prevedeva la difesa impostata con il libero dietro a tre marcatori fissi (il terzino destro sull’ala sinistra, lo stopper sul centravanti e il terzino sinistro sull’ala destra); il centrocampo con un’ala destra tornante, un mediano francobollato sul trequartista avversario, un regista abile a cucire il gioco e nello stesso tempo a neutralizzare il regista della squadra rivale, e un trequartista chiamato ad innescare i due attaccanti, ovvero un centravanti e un’ala sinistra. Massima attenzione in fase difensiva e poi via, a colpire in contropiede. Era questo, secondo Brera, l’atteggiamento tattico che aveva fatto le fortune del nostro calcio, alla faccia degli offensivisti o dei “qualunquisti”, come lui chiamava quella parte dell’opinione pubblica che teorizzava un gioco aperto e spregiudicato. Memorabili, a questo proposito, i suoi scontri con Gianni Rivera, fantasioso interprete di un calcio raffinato e vincente, ma prontamente definito l’”Abatino”, termine con cui voleva sottolineare la scarsa propensione al sacrificio e alla lotta del numero 10 del Milan. Furono anni ruggenti, ma all’insegna della lealtà. Brera stimava Rivera e viceversa, ma ormai i due erano entrati così bene nella parte che finirono per rendersi conto che in fondo questa contrapposizione giovava a entrambi. Un campione del quale Brera non si stancò mai di tessere le lodi era invece Gigi Riva, magistralmente ribattezzato “Rombo di Tuono” e descritto così dalle pagine di “Storia Critica del Calcio Italiano”: “Non ha eguali al mondo per potenza di scatto e di tiro, per senso acrobatico e coraggio. Riva è il condottiero effettivo del Cagliari, talvolta il mattatore. Aspetta fremendo l’intervallo per spronare e talvolta minacciare i compagni meno disposti a lottare. Nessuno osa eccepire se non a proprio rischio e pericolo”. Il simbolo di un calcio gagliardo e senza paura, un autentico eroe popolare. Addirittura fraterna, poi, l’amicizia con Nereo Rocco, il celebre allenatore del Mi-
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lan due volte vincitore della Coppa dei Campioni negli anni ‘60. Un legame rafforzato dal comune modo d’intendere il calcio (sul principio del primo non prenderle...) e la vita, il piacere di una rimpatriata in trattoria davanti a un buon bicchiere di vino rosso o a un salame fatto arrivare direttamente dalle colline dell’Oltrepò. Solo gli scontri tra Brera e Rivera (il pupillo di Rocco) portarono l’allenatore triestino e il giornalista pavese ad allontanarsi un po’, ma poi era lo stesso Nereo il primo a sdrammatizzare: “Caro Giuanin, Rivera è la nostra Stalingrado...”, ovvero la madre di tutte le battaglie. Quando Rocco morì, Brera gli dedicò un articolo struggente dalle pagine de “Il Giorno”: “Caro vecchio Nereo, se avessi pianto non avrei finito a tempo questo lavoro che l’amicizia, soltanto l’amicizia, non mi rende né gravoso né ingrato”. Anche con Helenio Herrera, il Mago della Grande Inter euromondiale degli anni ‘60, Brera era riuscito a entrare in confidenza. In “Storia Critica del Calcio Italiano”, raccontò che era stato il primo a mettere in guardia il Mago appena approdato in Italia nel 1960: “Mi limito ad avvertirlo, per il bene dell’Inter, che tutte le grandi squadre italiane praticano il Catenaccio: e che se non vuol andare incontro a brutte sorprese dovrà anche lui decidersi. Lui scuote il capo e garantisce che è solo questione di allenamenti. Bene, quand’è così, buona fortuna. È indietro dieci anni rispetto ai nostri tecnici: questa è almeno la mia impressione”. Dopo una partenza a razzo, infatti, alla settima giornata la spregiudicata Inter crollò contro il Padova catenacciaro dell’emergente Nereo Rocco. E dal cortiletto antistante lo spogliatoio di Padova, il presidente nerazzurro Angelo Moratti confidò a Giuan: “Vedrà lei se Herrera non fa il Catenaccio a partire da domenica!”. Detto fatto: da lì prese il via la leggenda della Grande Inter. Piuttosto critico anche il giudizio su Vittorio Pozzo, il commissario unico della Nazionale due volte campione del mondo negli anni ‘30: “Dal punto di vista tecnico-tattico,
Pozzo non doveva essere molto più che normale - affermò Brera ne “Il Mestiere del Calciatore” - Altrimenti, avrebbe teorizzato le proprie nozioni calcistiche, dando avvio a una scuola italiana vera e propria. È che forse non aveva sufficiente propensione per la letteratura tecnica. Una squadra può anche vincere grossi titoli ma ciò non basta a determinare la nascita di una scuola”. Ciononostante, proprio alla memoria di Vittorio Pozzo dedicò, nel 1975, il suo capolavoro “Storia Critica del Calcio Italiano”. LE PARTITE INDIMENTICABILI La partita che forse più ha lasciato un segno nella sua carriera giornalistica fu la semifinale del Mondiale 1954 tra l’Uruguay detentore del titolo e la fortissima Ungheria. La spuntarono i magiari ai supplementari dopo un’autentica battaglia. Ecco cosa arrivò a scrivere dalle pagine de “Il Calcio Azzurro ai Mondiali”: “I supplementari furono da infarto coronarico. Le due squadre erano visibilmente allo stremo. Finirono entrambe disfatte ed ebbero sufficiente orgoglio per complimentarsi reciprocamente. Noi, spettatori, in piedi tutti con il groppo in gola. Gli uruguagi salutarono trascinandosi fuori come automi. Nessuno li vide piangere”. Le cicale ungheresi sarebbero poi state sconfitte in finale dalla più concreta Germania Ovest. Il motivo? Eccolo spiegato dallo stesso Giuan: “Ai miei occhi di ostinato difensivista, l’Ungheria aveva il difetto di sacrificare troppo all’attacco. Divertiva molto vederla giocare: ma certo non divertiva gli ungheresi quando perdeva partite già vinte...”. Un’altra partita che Brera non poté mai dimenticare fu quella che vide la nostra Nazionale eliminata dalla Corea del Nord al Mondiale del 1966. Sempre da “Il Calcio Azzurro ai Mondiali”, affermò: “Bene, dissi io (e purtroppo lo scrissi pure): se non vinciamo con la Corea cambio mestiere. Mai e poi mai scriverò più di questo dannato gioco del calcio! Non solo mancammo la vittoria, ma fum-
Nel 1982 Brera si lascia andare ad una scommessa con l’Italia di Bearzot
mo addirittura sconfitti. Dopo aver sofferto simile scempio mi vennero gli stranguglioni e per poco non rimasi secco al telefono. Poi, nonché gli stranguglioni, mi prese un furore dannato: a criticare avevo incominciato prima: adesso potevo insistere: il mio giornale aumentò di molto le vendite ed al ritorno mi ebbi un premio: agli Azzurri, gragnuole di pomodori fradici all’aeroporto di Genova, dove speravano di poter atterrare senza dare nell’occhio...”. Era presente anche in Spagna, nel 1982, a raccontare l’avventura mondiale degli Azzurri. Se sedici anni prima in Inghilterra il suo orgoglio di italiano era uscito a pezzi dopo l’inopinata disfatta contro la Corea del Nord, le mediocri prestazioni della Nazionale di Enzo Bearzot alla vigilia del Mundial lo avevano convinto alla cautela... “Se vinciamo il Mondiale, giuro che il giorno della sagra del mio paese vado in processione vestito da flagellante”. Ma c’è da scommettere che nella notte del trionfo di Madrid, il primo a rallegrarsi per essere stato smentito fu proprio l’incorreggibile Giuan.
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SCUDETTIAM
Inter 1979/1980 di Stefano Borgi
UNO SCUDETTO... FATTO IN CASA
È il 1980, esplode il calcio-scommesse. Eppure, un gruppo di ragazzi italiani vince il 12° Scudetto... 80
Credit Foto: Liverani
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no Scudetto fatto in casa. Dalla prima all’ultima giornata. Che significa? È presto detto... Avete presente la pasta fatta in casa? Ed un dolce fatto in casa? Uova, lievito, farina, solo ingredienti genuini. Ecco, lo Scudetto dell’Inter stagione 1979-80 fu un po’ così: materie prime, cuochi, pasticceri, tutti rigorosamente made in Italy. A cominciare dal presidente, Ivanoe Fraizzoli (con l’immancabile Lady Renata). Al vicepresidente Peppino Prisco, all’allenatore Eugenio Bersellini. Poi il DS Giancarlo Beltrami, il consigliere delegato Sandro Mazzola. Fino al massaggiatore che si chiamava, neppure a farlo apposta, Giancarlo... Della Casa. L’undici titolare poi, composto da sei elementi provenienti dal vivaio: Ivano Bordon, Nazzareno Canuti, Giuseppe Baresi, Graziano Bini, Gabriele Oriali, Carletto Muraro. Più tre riserve, Pancheri, Ambu ed Occhipinti. Insomma, gran parte dello Scudetto ‘79-’80 fu costruito ad Appiano Gentile. Senza dimenticare il prezioso contributo del Brescia che, tra il ‘77 ed il ‘79, concesse due pezzi da 90 come “Spillo” Altobelli ed Evaristo Beccalossi. E fu allora che prese forma l’Inter campione d’Italia. Avrete notato come nella rosa interista figurino solo nomi italiani. Eh già perché, lo dice la storia, il campionato 1979-80 viene ricordato come l’ultimo senza gli stranieri: Prohaska, Krol, Brady, Falcao... Furono loro i primi a rompere il ghiaccio. L’Inter dei Navigli, della Bovisa, fu l’ultima a vincere puntando esclusivamente sul prodotto indigeno. Ma andiamo con ordine... INTER CAMPIONE... GIÀ UN ANNO PRIMA Racconta Carletto Muraro che lo Scudetto ‘79’80 nacque un anno prima, esattamente il 18 marzo 1979: l’Inter (già di Bersellini) pareggia 2-2 il derby e rosica... “Noi eravamo a 27 punti, il Milan a 33. Vincendo andavamo a quattro punti di distanza ad otto giornate dalla fine. Venivamo da 14 risultati utili consecutivi, non perdevamo dal derby precedente. Insomma, li avremmo
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SCUDETTIAM
Inter 1979/1980
L’Inter ha le ali…
Un libro colmo di grandi storie, dedicato a Bersellini… Ricordate il gioco del... Se fosse? Se fosse un fiore, se fosse una città... Ecco, trasponete il tutto di qualche anno, ed il “se fosse” prende di nuovo vita. Stavolta i protagonisti sono ex-calciatori, campioni d’Italia (qualcuno di loro campione del mondo), che a distanza di 40 anni si ritrovano intorno ad un tavolo. Come delle persone normali. E allora ecco la prima domanda: “Se fosse un film?” Risposta: “Metti una sera a cena”. Avanti con la seconda: “Se fosse un musical?” Risposta: “Aggiungi un posto a tavola”. Un cardiologo amico del “Mura” vuol conoscere i suoi idoli, il cameriere chiede un autografo, un cliente vuole farsi un selfie... avanti, c’è posto per tutti. Ultima domanda: “Se fosse una commedia?” Anche qui, risposta immediata: “6 personaggi in cerca d’autore”. In verità, i personaggi sarebbero 13: “spillo” Altobelli, Giuseppe Baresi, Evaristo Beccalossi (detto il “Becca”), Ivano Bordon, Graziano Bini, Nazzareno Canuti (per tutti il “Nazza”), Giampiero Marini (soprannominato “Pinna”, nientemeno che da Gianni Brera), Giancarlo Pasinato, Leonardo Occhipinti, Alessandro Scanziani, Silvano Fontolan. In più... Carlo Muraro. Il “Mura” appunto. Titolo del libro: “L’Inter ha le ali”, curato da Andrea Mercurio, edizioni Piemme. In origine, il libro doveva raccontare la storia dell’ala più veloce del calcio italiano. Ma poi (per volere dello stesso Muraro) il discorso si è allargato ai compagni di una vita. Si raccontano aneddoti, episodi, vittorie (ma anche sconfitte). E poi personaggi che non ci sono più, come mister Bersellini (la figlia Laura ha curato la prefazione), al quale è dedicato il libro: “L’Inter ha le ali”. Significa che Eugenio (il Tiger, come lo aveva soprannominato Marini) guarda dal cielo: dall’alto del suo rigore, della sua severità. E poi il rimpianto dei bei momenti, con i protagonisti idoli di un’intera generazione. Due annotazioni: la chat di WhatsApp, col “Becca” che alle 24.06 scrive: “Raga, per la cena?” Muraro che risponde: “Ci vediamo venerdì allora”. E poi Lele Oriali, alle 4.22: “Ragazzi dormite?” Come dire... mi mancate già, parliamo ancora un po’? Infine, la stesura del libro, apparentemente dispersiva, volutamente disordinata. Proprio perché, in una sera a cena tra amici, un ordine non c’è. Parte Carletto, prosegue Evaristo, si inserisce Spillo... e poi Occhipinti, Fontolan, lo “Scanzia” (che come nonno di due nipotine è autorizzato a riportare l’ordine). Fino al “Nazza” Canuti, soldatino in campo, allegro e scanzonato nella vita. Sono 200 pagine alla cifra di 15,90 euro, piene di vita, il cui ricavato sarà devoluto alla fondazione “ANDOS” (Associazione donne operate al seno). E all’Oratorio di Sonnino, paese natale di Alessandro Altobelli. Per leggerlo (e per comprarlo) non serve essere interisti, basta essere appassionati di calcio e di amicizia.
ripresi, ne sono certo. Ed invece, dopo aver dominato la partita, dal 2-0 in pochi minuti andammo sul 2-2. Ricordo segnò due gol De Vecchi da fuori area. Fu un colpo terribile. Eppure, giocavamo il miglior calcio d’Italia, superiore all’anno dello Scudetto. Pagammo l’inesperienza di tanti elementi, commettemmo errori che ci servirono la stagione dopo. Quando finalmente vincemmo il tricolore”.
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È un po’ la metafora dell’Italia di Bearzot: fresca, giovane e spettacolare (ma allo stesso tempo inesperta e vulnerabile) nel ‘78 in Argentina. Quattro anni dopo le parti si rovesciano: nazionale più concreta, quasi cinica, che vince con mestiere e convinzione. Proprio quello che successe all’Inter di Bersellini. E chi l’avrebbe mai detto che prendere due gol in un derby servisse a vincere uno Scudetto...
PRIMI, SEMPRE E COMUNQUE La cronistoria del torneo riporta un dominio totale da parte dei nerazzurri: 2-0 alla prima col Pescara, reti di Oriali ed autorete di Domenichini, mentre tutte le altre pareggiano. Quindi, Inter in testa alla classifica dalla prima all’ultima giornata. Poi 1-1 ad Udine, vittorie di misura con Lazio, Bologna e Napoli, altro pareggio (stavolta per 0-0) a Catanzaro, fino alla vittoria nel derby. Un 2-0 immortalato da Diego Abatantuono nel film “Eccezziunale Veramente”, quando il Ras della Fossa (al secolo Donato Cavallo) strabuzza gli occhi alla doppietta di Evaristo Beccalossi contro il suo Milan. Due settimane dopo la dimostrazione che l’Inter di Bersellini ha una marcia in più: arriva la Juventus di Trapattoni, stranamente nelle zone basse della classifica, e prende 4 gol senza neppure passare dal via. Fa scalpore la tripletta di Altobelli che segna in tutti i modi: su rigore, di rapina, in scivolata... Oltre all’assist vincente per il “Mura”, che fa 4-0. Il campionato scivola via senza scossoni: Inter imbattuta fino al 16 dicembre 1979 quando contro la Roma un rigore di Di Bartolomei firma la prima sconfitta del campionato. La Juve risale, il Milan campione non molla, ed il 10 febbraio 1980 la squadra di Bersellini si presenta al San Paolo di Napoli con 5 punti di vantaggio sui rossoneri, e 6 sui bianconeri... Napoli-Inter sembra un flipper impazzito: vantaggio nerazzurro, pareggio del Napoli. Una, due volte, poi l’Inter allunga 4-2, ma un gol di Gudetti all’81’ rimette in corsa i partenopei. “Fu una partita decisiva – ricorda Giampiero Marini – e molto delicata. La Juventus stava recuperando, il Milan era lì, il Napoli navigava in brutte acque. Noi venivamo da due pareggi per 0-0 contro Lazio e Bologna, insomma... se avessimo perso, ce li avremmo avuti addosso. Anche psicologicamente sarebbe stato pericoloso. E invece vincendo, riacquistammo quella fiducia necessaria per il rush finale”. Nonostante la vittoria, però, non era più l’Inter schiacciasassi di inizio campionato: il 23 marzo 1980 arriva la seconda sconfitta stagionale, proprio a Torino contro la Juventus,
soprattutto, dagli altri campi, giunge l’eco del calcio scommesse. Al termine delle partite vengono eseguiti negli stadi una serie di ordini di cattura nei confronti di alcuni giocatori. Campioni di primo piano (di Lazio, Milan, Perugia, Avellino, Genoa e Palermo) finiscono a Regina Coeli. Tutto nacque da una denuncia alla magistratura ordinaria per truffa, presentata da un commerciante romano di frutta, Massimo Cruciani, che lamenta di essere stato indotto da giocatori di A, a scommettere su alcune partite. Un vero e proprio ciclone che si abbatte sul calcio italiano, dal quale però l’Inter resta fuori. Intanto, nel finale, arrivano tre vittorie (una nel derby di ritorno, gol di Oriali) e tre pareggi (due con Torino e Cagliari), fino al decisivo 2-2 del Meazza contro la Roma che volle dire Scudetto aritmetico. Il gol di Mozzini arriva all’88’, dopo che Pruzzo e Turone avevano spaventato il pubblico di San Siro. La vittoria di Firenze alla penultima fa da prologo alla passerella casalinga con l’Ascoli rivelazione di G.B Fabbri. Il 4-2
Beccalossi, uno dei grandi protagonisti di quella magnifica cavalcata
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SCUDETTIAM
Inter 1979/1980 ta, cosiddetto ‘della pentola d’oro’. Che dire di Muraro, al quale detti il soprannome: “Giallo”. Ricordate Pippo Franco quando a Domenica In diceva... “Giallo?” Ecco, Muraro tutte le volte che c’era qualcosa che non gli tornava, se ne usciva con: Giallo!!! E da quel momento... Beccalossi era definito il “Becca”, oppure “Stenmark”, per come schivava gli avversari in slalom. Poi c’erano nomignoli più normali come Graziano Bini detto Bino, Nazzareno Canuti detto “Nazza”. Anche il mister Bersellini non venne risparmiato: lo chiamai il “Tiger”, per la sua determinazione, per la sua grinta. Fino al soprannome del quale vado più orgoglioso, lo “Zio” Bergomi. Quando lo vidi entrare per la prima volta negli spogliatoi dissi: ‘Uè, con codesti baffi sembri mio zio’. E da allora Giuseppe Bergomi è per tutti... lo “zio”. Un gruppo unito che si allena con grande qualità, sotto gli ordini di Bersellini - Credit foto: Liverani
finale a favore dei marchigiani sembra rovinare la festa, ma niente e nessuno potrà dire che l’Inter non abbia meritato il 12esimo Scudetto della sua storia. La riprova arriva l’anno dopo quando i nerazzurri conquistano un’insperata semifinale di coppa dei Campioni, battuta per un solo gol di scarto (0-2, 1-0) dal Real Madrid. Senza contare le due coppe Italia del 1978 e del 1982, prove ulteriori del grande periodo vissuto sotto la guida di Bersellini. UN GRUPPO... VINCENTE La chiusura è dedicata al gruppo, al senso di amicizia, a quei ragazzi vestiti di nerazzurro che fin dalle giovanili si erano fatti una promessa: vincere con l’Inter, regalare un sogno al popolo nerazzurro. Ed allora facciamo leva sulla complicità di Malik (Giampiero Marini), oggi agente di borsa, già Campione del mondo con la nazionale di Bearzot. “Mi è sempre piaciuto assegnare soprannomi – ammette Malik – a cominciare dal mio che mi dette Mario Bertini, e che credo prenda spunto da un pira-
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AMICI PER SEMPRE Insomma avrete capito, come diceva una famosa canzone... “Si può essere amici per sempre”. Gente fatta in casa, per uno Scudetto fatto in casa. Uomini nati a pochi chilometri di distanza, l’uno dall’altro, che si capiscono al volo, con un cenno, con uno sguardo. Sono passati 40 anni da quel trionfo, e sembra ieri. Perché i protagonisti non sono cambiati. Magari un po’ imbiancati, con qualche piccola ruga sul volto, ma (se possibile) addirittura migliorati. Soprattutto somigliano terribilmente a quei ragazzi che vinsero il dodicesimo Scudetto della grande storia nerazzurra...
Il nome di Bersellini è rimasto nel cuore dei tifosi dell’Inter
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n o d i b i e d o Alfabet Paul Elliott
di Thomas Saccani
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LA TORRE PENDENTE INGLESE Fisicamente imponente, voluto da Anconetani. Due anni di nulla: Paul Elliott
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n vecchio adagio calcistico afferma che “da noi, gli inglesi non si trovano bene”. In effetti, di calciatori del Regno Unito che hanno lasciato il segno nel calcio italiano se ne contano ben pochi. Sono diversi, invece, quelli che hanno fallito. In questa seconda categoria, è presente Paul Elliott. La carriera del virgulto nativo di Londra, ma di origini giamaicane, inizia nel Charlton. Dotato di un fisico statuario (circa 190 cm), si fa notare per la grande forza fisica. Nel 1983, a soli 19 anni, gioca nel Luton Town, in First Division. Ogni volta che scende in campo, mostra un grande vigore e tanta determinazione. Convince i dirigenti dell’Aston Villa che, nel 1985, decidono di investire su questo colosso di colore. Con i Villans, arriva la consacrazione. Finisce nel giro dell’Under 21 inglese ma, soprattutto, attira le attenzioni di tanti club esteri, pronti a fare follie per strapparlo all’Aston Villa. Il 7 luglio del 1987, con un vero e proprio blitz di mercato, Anconetani, patron del Pisa, ufficializza l’acquisto di Paul Elliott. Il costo dell’operazione è ingente (circa 400 milioni di vecchie lire) ma la stampa italiana elogia il colpo di Anconetani. Le prime parole di Paul Elliott sono da autentico gladiatore: “Ho sempre ferma-
Credit foto - Liverani
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doni
ei bi Alfabeto d Paul Elliot
to Ian Rush” (Gazzetta dello Sport). Rush è il nuovo asso della Juventus (lo sarà solo sulla carta) ed Elliott lo schernisce, esaltando il popolo pisano che, in lui, vede un gigante invincibile. Viene paragonato alla Torre di Pisa per la sua maestosità. Se nel Bel Paese, Elliott viene considerato un acquisto da mille e una notte, dall’Inghilterra giungono dichiarazioni poco rassicuranti: “Elliott è scarso. Davvero non capisco come il Pisa abbia potuto prenderlo”, dichiara l’ex bomber inglese del Milan Jimmy Greaves. Il neo difensore dei nerazzurri non ci sta e risponde secco: “A fine stagione dovrà rimangiarsi tutto quello che ha detto su di me”. Non andrà proprio così… Il debutto del neo promosso Pisa, nel campionato di Serie A 1987/88, è di quelli tosti. La squadra nerazzurra, guidata dal tecnico Materazzi, se la deve vedere con l’ambizioso Milan di Berlusconi, infarcito di campionissimi. I
Paul Elliott quando faceva parte della PFA - Credit Photo PFA Scotland
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rossoneri vincono 3-1, sbriciolando i nerazzurri: “Ho marcato il grande Ruud Gullit e mi ricorderò per sempre quando ho saltato con lui per prendere un pallone. Una delle sue treccine mi è finita nell’occhio. Ho avuto l’occhio iniettato di sangue per due settimane. È stato un momento esaltante”, racconta, lo stesso difensore inglese, qualche anno più tardi, a The Gentleman Ultra. Anche le successive tre gare, vedono il Pisa uscire sconfitto con Elliott che mostra enormi lacune tattiche. Tuttavia, con Faccenda al fianco e un giovane Dunga a dar manforte a centrocampo, il Pisa, trova una sua identità e risale la china. Elliott si arrangia come può, facendo leva sul fisico statuario e giocando, prevalentemente, da stopper. Rischia anche di diventare l’eroe della sfida, sentitissima dal pubblico pisano, con la Juventus. Sotto 0-1, in casa, i nerazzurri pareggiano proprio con l’inglese che gioisce come un forsennato. L’1-1 dura sino ai secondi finali quando la sfortuna si abbatte sul povero Elliott. È lui a regalare la vittoria alla Vecchia Signora con un clamoroso autogol. Arriva, successivamente, anche un infortunio (contro il Cesena) che, di fatto, lo toglie dai giochi. Chiude la sua prima stagione italiana con sole 10 presenze ma il Pisa, raggiunta la salvezza, lo riconferma anche per la prossima. Purtroppo, le condizioni fisiche di Elliott restano “traballanti”. Gioca ad intermittenza, senza poter sprigionare tutto il suo potenziale. L’avventura italiana si conclude in malo modo: 13 presenze e retrocessione in Serie B per il Pisa (23 totali, con un solo gol, quello alla Juventus). Dopo due stagioni, decisamente incolori (soprattutto per i tanti, troppi infortuni), con il Pisa, deve fare le valigie e lasciare l’Italia. Elliott, tuttavia, ha una sua personale idea del calcio italiano, troppo limitato, a suo dire, dall’approccio eccessivamente difensivista: “Ho sempre pensato che, questo atteggiamento troppo difensi-
IL CASO PFA CHARITY Paull Elliott è tornato sotto i riflettori qualche mese fa… L’ex difensore del Pisa ha, infatti, “lasciato” la PFA, ossia la famosa Professional Footballers’ Association (l’associazione dei calciatori professionisti del Regno Unito). Nominato amministratore fiduciario nel 2015 (aveva ricoperto lo stesso ruolo nel 2013, dimettendosi qualche mese più tardi per aver usato “un linguaggio improprio” in un messaggio privato), Elliott ha deciso di farsi da parte, nel medesimo istante in cui la PFA Charity è finita sotto indagine. Una “revisione dei conti” che ha destabilizzato l’intera PFA. Sotto accusa, secondo il The Guardian, diverse operazioni condotte dall’ente PFA Charity e stipendi considerati esagerati, come i 2,3 milioni di sterline che percepisce l’amministratore delegato Gordon Taylor. Una situazione complicata che ha portato l’ex difensore nerazzurro a rassegnare le dimissioni: “La PFA è stata una parte importante della mia vita. È stata una decisione difficile. Non vorrei mai macchiare il grande lavoro svolto dalla PFA a supporto dei giocatori”, le sue parole al tabloid inglese. Elliott sarebbe stato uno dei fautori di una “sanatoria” nel 2016 che, in realtà, non era praticabile, secondo le norme che regolano lo statuto della stessa PFA. Un bello smacco per Paul Elliott…
vo, sia stato dannoso per il gioco. In quel periodo, in Italia, c’erano giocatori straordinariamente creativi e dotati di grande tecnica. Per colpa di questo atteggiamento difensivo, molti di loro non si sono potuto esprimere al meglio. Se avessero giocato in altri Paesi, avrebbero potuto dare il 30/40% in più. C’era, ad esempio, Scifo, un giocatore belga. Ha giocato nell’Inter ed è uno dei giocatori con maggior classe che abbia mai visto”, racconta, qualche anno più tardi, al Daily Mail. Giudizi sul calcio italiano a parte, Elliott, conclusa la sfortunata parentesi con il Pisa, è pronto a rilanciarsi con il Celtic che decide di dargli una chance. Lontano dal Catenaccio (così aveva definito la Serie A), si ritrova. Le due eccellenti stagioni in Scozia (viene premiato, al termine della stagione 1990/91, come Miglior Giocatore dell’Anno della Scottish Premier League), gli valgono la chiamata del Chelsea. Nel luglio del 1991, per 1,4 milioni di sterline, finisce ai Blues, tonando così nell’amata Inghilterra. L’inizio è strepitoso: segna all’esordio, nel 2-2 contro il Wimbledon e si fa apprezzare per le sue grandi doti fisiche e per la sua capacità di “guidare il reparto ar-
retrato”. In quell’anno, il Chelsea brilla in FA Cup. Grazie all’apporto di Elliott, i Blues arrivano sino ai quarti di finale, dove vengono eliminati dal Sunderland. Al termine della sua prima stagione con la casacca del club londinese, viene premiato come Player of the Year del Chelsea. Arriva l’ex Luton Donaghy. I due formano una coppia difensiva da applausi. Tuttavia, ai primi di settembre, in uno scontro di gioco con Saunders del Liverpool, Elliott si rompe i legamenti del ginocchio destro. Nonostante il grande impegno, non riesce più a tornare protagonista in campo. Nel maggio del 1994, dice addio al calcio giocato (42 presenze e tre gol con il Chelsea). Inizia una nuova vita. Diventa uno dei simboli della lotta al razzismo nel calcio. Nel 2003 viene insignito del premio MBE per la campagna Let’s Kick Racism Out of Football… Ha la personalità per essere un vero attivista. Fa di tutto per aiutare chi è vittima di discriminazione razziali. Viene frodato, perdendo, parole sue “una grande quantità di soldi”, ma resta fedele alla sua missione. E lo è ancora oggi, anche se qualcosa non è andato per il verso giusto con la PFA…
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Inter - Milan di Luca Savarese
ESAMETRO ROSSONERO VenerdÏ 11 maggio 2001. Comandini e Sheva, doppiette, Giunti ed uno straripante Serginho creano le sei meraviglie rossonere e ridicolizzano quell’Inter.
Credit Foto - Liverani
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erby che vivi, magia che trovi. La città si unisce, i due campanili vibrano, nello stesso stadio. Musica maestro, sì ma che suonate! Si perché la musica della stagione può essere un grande spartito, battiti piuttosto regolari, melodie particolari che si ripetono, sempre nuove, ma quando arriva il Derby, si salvi chi può. Nota dominante che impone leggi e copioni a sé stanti. Mai fare un pronostico, vietato sottoporsi a giudizi rigidi. Il Derby è uno tsunami continuo, tu avevi chiuso le serrande, ma non c’è niente da fare, lui è lì, pronto a disarcionarle. Benvenuti nel regno del Derby. La stessa città divisa e unita, amica e nemica. Platone, nel suo Simposio asseriva che Eros fosse figlio di Poros e Penia, Abbondanza e Povertà. Desidera cose grandi ma è sempre mendicante. Sembra il ritratto del Derby. Il Derby è quel punto di domanda che irrompe nei tanti punti esclamativi del calcio. Imponderabile, per definizione, storia, stupore. “Se uno non è motivato per giocare il Derby deve cambiare mestiere, meglio faccia il ragioniere”. Ipse dixit Sinisa Mihajlovic, che di Derby, ne ha giocati e vissuti parecchi. Il Derby può ribaltare i ruoli, anche solo per novanta minuti. Quasi fosse il Carnevale, senza coriandoli, del campionato. Quando accade, succede quello che raccontava Victor Hugo a proposito di alcuni momenti della storia dell’umanità: “Accanto a questi uomini di passione stavano i sognatori, l’utopia fioriva, in tutte le sue forme: spettri per i troni, angeli per il popolo, in faccia a uomini di
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lotta, spiriti che maturano sogni”. Cosa sarebbe il nostro calcio senza l’adrenalina del Derby? Abbecedario della statistica, breviario di sola cronaca. Il Derby inizia una settimana prima e finisce una settimana dopo. Entra nei bar, corre sulle scrivanie di lavoro, si respira sui marciapiedi, si tasta nelle edicole. Lo si annusa sui taxi. Roma-Lazio, Toro-Juve, Genoa-Samp. Una capitale, una mole, una lanterna. E poi c’è Milan-Inter. Protetto, curato, spiato dalla Madonnina. “Ti te dominet Milan”. Se ne era accorto Giovanni D’Anzi, nella sua canzone del 1934. Si, Lei, domina Milano ed accarezza, come solo una mamma sa fare, le vicende dei suoi Derby. L’ultimo ha visto i nerazzurri aggiudicarselo per 3 a 2. Il Milan giocava in casa e l’Inter si presentava all’appuntamento da sfavorita. E puntualmente chi non parte favorito, poi spesso piazza il colpo. Il primo? Avvenne a Chiasso, nel contesto di un torneo. Ma per incontrare la stracittadina in un campionato, bisogna andare al 10 gennaio 1909. Eliminatorie regionali al campionato 1909. Al campo Milan di Via Fratelli Bronzetti, in zona Corso Monforte, sotto la direzione dell’inglese Goodley, dirigente juventino e sommo conoscitore delle regole del gioco (l’AIA sarebbe nata solo due anni più tardi) andò in onda il primo Derby rossonerazzurro. Terreno pesantissimo, clima rigidissimo. Eppure, c’erano 600 spettatori a godersi la storica prima volta. Il Milan, prima fallisce un calcio di rigore con Madler, poi trova il vantaggio con Trerè. Ma nel secondo tempo risponde l’Inter con Gama. Non basta perché sale in cattedra Pietro Lana che riporta avanti i rossoneri. Ci sa fare questo Lana, sarà lo stesso che un anno dopo e sempre a Milano, ma all’Arena Civica, ne rifilerà tre alla Francia con la maglia della prima Italia di tutti i tempi. Laich, fa salire a tre le gioie rossonere. Accorcia Schuler. Era nata una storia di sfide ed una sfida di storie. I bauscia, fondati dal pittore futurista
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Shevchenko, grande protagonista del Derby con una doppietta
Giorgio Muggiani e gli altri 43 dissidenti del Milan e i casciavit sorti, dal poliedrico Kilpin, nel 1899. Proprio nel contesto di un Derby meneghino presero vita le “pagelle”. Fu un’idea fertile di due giornalisti del giornalino MilanInter, che si distribuiva allo stadio. Vollero provare ad affibbiare ai giocatori le valutazioni in trentesimi, come si fa nelle università. Fu un successone. Il milanista Liedholm ne divenne un collezionista incallito. Giorgio Ghezzi, kamikaze interista prima e milanista poi, sovente, aveva i voti più alti. Secchione... Passano gli anni, si rinnovano i calendari, si cambiano i punti, dai 2 ai 3 ma il Derby di Milano resta, termometro della città e della sua voglia, atavica, di crescita continua. Milano, in latino Mediolanum, cioè in mezzo alle terre ma presto capitale italiana della metropoli mitteleuropea:
come scorre veloce l’acqua nei Navigli. E poi che dualismi, mai banali, sempre calzanti, socialmente saporiti: Rivera vs Mazzola, i dioscuri di Milano, come ebbe a battezzarli Gianni Brera, che di Derby ne ha goduti e rielaborati in quantità industriale, nelle sue infinite cartelle che picchiettava dalla tribuna stampa. Tanti, diversi, uno diverso dall’altro. Perché alla fine è lo stesso Derby che butta via lo stampino per ricrearsi, al ritorno o nella prossima stagione. Campionato 2000-2001. All’andata pronti via ed il Derby parla turco: è infatti Hakan Sukur a sbloccare le cose dopo 10 minuti. Il Milan pareggia
IL TABELLINO DELLA PARTITA Serie A – Milano – 11/05/2001
INTER-MILAN 0-6 INTER (3-5-2): Frey, Ferrari, Blanc, Simic, J. Zanetti, Farinos (Cauet 34’ p.t.), Di Biagio (Seedorf 1’ s.t.), Dalmat, Gresko, Vieri, Recoba. Allenatore.: Tardelli. MILAN (4-4-2): S.Rossi, Helveg, Costacurta, Roque Junior, P.Maldini, Gattuso, Giunti (Guglielminpietro 26’ s.t.), Kaladze, Serginho, Comandini (Josè Mari 12’ s.t.), Shevchenko (Leonardo 36’ s.t.). Allenatore: Tassotti. DT: C. Maldini. MARCATORI: Comandini (M) 3’ p.t., Comandini (M) 19’ p.t., Giunti (M) 8 s.t., Shevchenko (M) 22’ s.t., Shevchenko (M) 33’ s.t., Serginho (M) 36 s.t. ARBITRO: Collina (Italia) AMMONITI: Helveg (M), Gattuso (M), Simic (I) Spettatori: 78.000 circa
con Boban. L’Inter raddoppia con Gigi Di Biagio, il Milan la riacciuffa con Bierhoff. È il Milan di Alberto Zaccheroni. È l’Inter di Marco Tardelli, che dal suo urlo liberatorio Mundial ora, da allenatore, deve far fronte a vari urli alla Munch e nervi molto tesi. L’Europa, quel periodo, non era un Paese per le milanesi. Rossoneri incapaci di superare il girone. Serviva la vittoria contro il Deportivo de La Coruña, ma arrivò solo un 1 a 1. Berlusconi, non ci sta. Via Zaccheroni, dentro Maldini senior in veste di direttore tecnico coadiuvato da Mauro Tassotti, allenatore. Ma si sa, il Tasso, è nato numero 2 e Maldini è di fatto il mister. Se il Milan piange, l’Inter non ride. È sempre la Spagna a portare brutte euro notizie: nerazzurri che sbattono, agli ottavi, contro l’altro Deportivo, l’Alaves, che poi si toglierà lo sfizio di arrivare in finale, battuto solo dal Liverpool. Dal Meazza non piovono solo fischi ma anche oggetti. I tifosi non ne possono più di vedere sfumare sempre qualcosa per un motivo o per l’altro. Così, nella gara interna contro la dea Atalanta, ecco un gesto demoniaco: un motorino è gettato in campo dalla Nord. L’Inter è davvero alla canna del gas. Il Milan risale, con le ultime energie che ha nel barile, in classifica e come autostima. Se c’è un cerchiolino rosso da mettere sul calendario, quello è senza ombra di dubbio, per entrambe, la data del Derby di ritorno. Il Milan vuole chiudere in bellezza una stagione di transizione, l’Inter ritrovare se stessa ed i propri tifosi. È l’anticipo della giornata numero 30. È il Derby numero 181. La scala del calcio,
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IL RICORDO DI SEBA
Tra i pali del Milan, in quel Derby, c’era Rossi… Ecco i suoi ricordi. Novanta minuti e il Milan si regala una serata da sogno. In porta? Seba Rossi, al penultimo anno della sua lunga militanza rossonera. Si, ma che clean sheet. 11 maggio 2001, venerdì sera, davanti le cose andarono a meraviglia ma anche dietro che magie: zero gol, un clean sheet netto, quando forse solo in Premier League si usava già questa terminologia, non proprio roba da tutti i Derby, non proprio una formalità con gente chiamata Zanetti, Recoba, Vieri? “Cominciamo bene. Voglio ricordarmi bene. L’allenatore era Cesare Maldini, una persona speciale, che prese in mano la squadra in un periodo poco buono. Successe di tutto in quella sera. A cominciare proprio da Cesare Maldini, che stupì tutto a livello tattico con Serginho, che giocò dietro invece che a centrocampo, poi ci riuscì tutto in modo straordinario. Ti dico la verità, verso il novantesimo, prima che l’arbitro fischiasse, mi chiesi, ma se io fossi stato al loro posto, come mi sarei sentito? Pensai questo anche perché dall’altra parte c’era il mio amico, Vieri”. Di notti magiche te ne sei e ne hai regalate tante, pensiamo ad Atene 1994, quattro a zero al Barça e tu li a rendere impotente uno come Stoichkov, pensiamo ad un Milan-Lazio, finale di andata di Coppa Italia 1998, dove la palla per il gol di Weah arrivò al liberiano proprio da un tuo lancio. Ma quell’11 maggio ha e continua ad avere per tutti i tifosi milanisti un sapore particolare: esametro perfetto, 6 gol ai cugini. Se dovessi per un attimo rinviare dal fondo il pallone e fosse quella sera, dove andrebbe? “Nella rete avversaria... Subito. Sai in quel periodo magico noi eravamo davvero dominanti in lungo ed in largo, ma cosa succedeva, che il Derby, molte volte, porca miseria, se lo aggiudicava l’Inter... In questa chiacchierata, c’è sempre il Derby di mezzo, legato alla mia storia con il Milan, tre giorni prima (marzo 1991, n.d.r.) feci l’esordio in Coppa Campioni a Marsiglia, con gol di Waddle, poi Sacchi mi fece esordire col Milan, la domenica, anche nel Derby. Non presi gol ma lo facemmo noi, con una prodezza di Van Basten”.
risponde, presentissima: in casa è l’Inter, ma si sa, San Siro come amano chiamarlo i milanisti, il Meazza, come lo nominano gli interisti in onore al gran Pepin, in queste serate si riempie senza star poi troppo a far differenza a chi gioca in casa o fuori. Sembra la Scala per la prima del 7 dicembre: non importa se ami Mozart o Verdi, importa
Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini
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esserci, per Milano. E, quella sera ci sono tanti, quasi tutti. A dirigere la sfida sarà Collina di Viareggio, terra di mare. Sarà, un’onda di emozioni, forti, continue, inaspettate, che certificheranno l’unicità del Derby, il sapore misto di ultime caldarroste o prime ciliegie del Derby di Milano. Cesare Maldini disegna la squadra con qualche accorgi-
A proposito di esordi. Domenica 13 settembre 1987, al Manuzzi arriva il Napoli, fresco Campione d’Italia. In porta tra i pali cesenati tu esordisci in A. Davanti a te oltre l’emozione della prima volta hai un certo Diego Maradona. Insomma, un battesimo di fuoco e poi con un solo gol al passivo quello di Bagni al 61’… “Si, ci fu il gol di Bagni, fu il mio esordio con il Cesena in Serie A. Ho un gran ricordo di quel Napoli, con Diego diventammo amici venne a complimentarsi con me. Sai in quella partita ed anche in altre mi dicevo come fosse possibile che il portiere riuscisse a far interventi così puntuali e quel portiere, ero io”. Seba, oggi giovani nuovi portieri vengono su come funghi. Bravi e di sicuro avvenire per carità ma si ha la sensazione che siano un po’ tutti uguali, tu, molto alto ma anche valido coi piedi, invece appartenevi ad una generazione di fenomeni della porta che una volta fatti poi buttavano lo stampino. Tanta proliferazione del ruolo ma poca unicità? “Si è vero, oggi c’è un po’ questo andazzo, ce ne sono di bravi ma forse manca quel qualcosa in più, si è persa quella personalità dominante che avevamo noi. Oggi quelli che mi piacciono di più sono due: Gigio Donnarumma ed Alex Meret”. “La sensazione di vedere Yuri Gagarin volare nello spazio è superata solo dal godimento di parare un rigore”, diceva Lev Yascin, Pallone d’Oro nel 1963. Seba, Forlì, Cesena, Empoli, Rondinella Firenze, Cesena, poi ecco la lunga militanza dal 1990 al 2002 al Milan con 240 presenze e 207 reti subite, quei 929 minuti di imbattibilità scalfiti solo molti anni dopo da Buffon. Infine, Perugia. Quali erano le parate che amavi di più e quelle che ti davano più fastidio fare? C’è una parata che ancora oggi accarezzi prima di addormentarti? “Quelle che sembravano facili, mi piacevano di più perché, e te lo assicuro, sono e restano le più difficili. Poi quelle difficili, i rigori, alla fine sei solo tu contro un giocatore ed uno stadio intero. E quando lo pari, è una cosa che dir bella, è dir poco”.
mento che non t’aspetti. La lezione di Rocco, suo maestro concittadino e allenatore, deve averla ruminata molto bene dentro. Così spiazza l’Inter. Dirotta Serginho, professione concorde, dietro, come terzino, almeno ai nastri di partenza. Avanza Kaladze sulla linea dei mediani, davanti promuove titolare, dal primo minuto, Gianni Comandini, reduce l’anno prima, in quel di Vicenza, di 20 segnature. Toh, come ti disoriento l’Inter. Cesare non solo trae il dado, ma passa facile il Rubicone nerazzurro. Il fortino interista resiste appena 3’. Serginho, altro che terzino, questo gioca da ala sinistra pura brasiliana toda gioia e toda beleza. Dalla sinistra palla per Comandini, che col 9 sulle spalle, si mostra bomber scafato: sinistro quasi in estirada e primo timbro. La gente, non si è nemmeno
seduta in tribuna e giù con il primo verdetto della serata. Al 19’ il Milan, alza il volume. Serginho, ha deciso che deve arare la fascia mancina, palla al piede. Quando arriva in fondo sprigiona un cross dritto per la cabeza indemoniata di Gianni Comandini: due a zero. O meglio, Comandini 2 Inter 0. Bum Bum Comandini. Seba Frey e i suoi non riescono a capire cosa stia succedendo. A Seba Rossi ed ai suoi, invece sembra di essere al Luna Park. Ma mica è finita la cuccagna. Quando il secondo tempo è iniziato da 9’, c’è una punizione, da lontanissimo, defilata, sulla destra, poco dopo l’altezza del centrocampo, per il Milan. Va a batterla Federico Giunti, un ragazzo umbro con il 21 sulla schiena e lo sguardo da filosofo, che simpaticamente chiamano Chicco. Lui calcia,
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ICARE
IMENT D N O N A D E GAR Inter - MIlan
sembra uno spiovente, poi un rimbalzo, improvviso spaventa la difesa ed inganna Frey. Tre a zero. Gongola il Diavolo. Si dispera il Biscione. Ma, si sa, nel Derby quello che è benedetto può in un secondo diventare maledetto. Quella sera però il copione, non cambia. A questo punto sale in cattedra il fattore S, che aumenta, amplifica, fa volare la sicurezza del Diavolo, portandola a spettacolo puro: Sheva e Serginho. Se al brasiliano quella sera avessero detto di andare a piedi al casello di Melegnano e tornare, lo avrebbe fatto, col sorriso sulla bocca. È in piena trance agonistica. Tutto gli è possibile, nulla gli sembra difficile. Sgomma ancora nel suo regno mancino, sembra stia cadendo, anzi no. Ferrari lo sente ma nemmeno lo vede. È un cross. Sheva, dopo aver lasciato inchiodato a terra Blanc, è pronto, dal suo cielo fenomenico, per trasformarlo, di testa, in gol. Sono quattro, quasi non si contano più. La Madonnina, dall’alto del Duomo, forse ha messo occhiali rossoneri. Ben 11’ più tardi arriva il Pokerissimo. Questa volta è il centrocampista d’occasione, il georgiano Kaladze, a scendere sulla sinistra. Vede Shevchenko, lo serve. il 7 ucraino anticipa
Il Derby è una partita fuori dagli schemi, molto sentita dai tifosi
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Frey con un tocco rapido. Cinquina calata. Quel Milan potrebbe giocare anche contro 300 marziani e sarebbe capace di impallinarli di gol. Quell’Inter potrebbe giocare anche contro un nugolo di bambini di sette anni e accuserebbe il colpo. Serate che nascono uniche e muoiono epiche. Molti cominciano a non averne più. Molti, ma non Serginho, numero 27, al posto dei piedi delle maracas di sogni. Corsa solitaria, come se il prato di San Siro fosse il cortile sotto casa, come se il sudore fosse un agglomerato non contemplato. Sinistro perfido, ciao ciao Frey. Il Milan ha raggiunto il paradiso, l’Inter il suo Venerdì Santo. “Sei a zero, sei a zero sei a zero, ma dove siamo...”, urlerà, un dionisiaco Carlo Pellegatti. “Sei a zero, dite che abbiamo perso sei a zero? Non lo so, io sono uscito sul tre a zero. Poi, si sa, i giornalisti ingigantiscono sempre le cose...”. Commenterà, con la sua fine ironia, Peppino Prisco. Già, l’avvocato. Dura lex sed lex. La legge del Derby. Tipo la filosofia di Pico De la Mirandola. Angelo o Diavolo, senza stabilirlo prima. Quella sera Diavolo, sei volte, un esametro a tiratura limitata. Divenne, presto, coro. È tuttora, storia.
Nel Milan che rifila sei gol all’Inter c’è in panchina Tassotti
SCOVATE
da carletto Carlo CARLETTO Nicoletti (Direttore Artistico MATCH MUSIC) seguirà i profili Instagram e Twitter dei giocatori più importanti del pianeta Calcio e ci segnalerà le foto e i tweet più divertenti e particolari. Segnalate quelle che magari potrebbero sfuggirgli scrivendogli al suo profilo Twitter e Instagram @carlettoweb
ROMAGNOLI
Non è un momento d’oro per il Milan ma lui in difesa è sempre una certezza.
SUAREZ
Suarez e Messi, le certezze del Barcellona, squadra protagonista di un’altra straordinaria stagione, sia nella Liga che in Champions League…
REBIC
Dopo l’ottimo mondiale in Russia sembrava destinato a movimentare il calciomercato, è rimasto invece a Francoforte.
ZANIOLO
Ormai idolo assoluto a Roma, protagonista anche con De Rossi.
98
JAMES
Aveva incantato ai mondiali del 2014, non è esploso al Real e al Bayern non sta impressionando. Il talento è però cristallino.
PALLADINO
Riparte dalla Serie C sposando il progetto Monza di Berlusconi.
VIERI
Il neo papà pubblica una foto dei primi anni ‘90 con la maglia del Torino.
PJANIC
Post originale e simpatico dedicato al nuovo fenomeno italiano Kean.
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