Calcio 2OOO
Edizione speciale
con in regalo l’album Calciatori 2018-2019
FEB
Bimestrale
diretto da Fabrizio Ponciroli
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MAR
BE €8,00 | F €11,50 | PTE CONT €7,50 | E €7,50 | CHCT fch 8,50
prima immissione 01/01/2019
3,90€
LEGGENDE DEL CALCIO ESCLUSIVA
LOTHAR MATTHÄUS, Il panzer dell’Inter GRANDI PRESIDENTI ESCLUSIVA
FRANCO SENSI
Il presidente dell’ultimo Scudetto SPECIALE ESCLUSIVA
FRANCK KESSIè
“IN CHAMPIONS COL DIAVOLO”
U23 JUVENTUS
Il progetto bianconero
ALFABETO DEI BIDONI Il pescarese Sliskovic
GIGANTI DEL CALCIO Il funanbolo Adailton
GARE DA RICORDARE
Juve-Porto, Coppa delle Coppe
www.calciatoripanini.it
IN TUTTE LE
EDICOLE!
TANTI PREMI, 2019
tutti i giorni!
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oltre 50 premi al giorno
Concorso valido dal 17 dicembre 2018 al 28 aprile 2019. Saranno ritenuti validi ai fini del concorso solo i codici presenti sui coupon contenuti all’interno delle bustine originali della collezione Calciatori 2018-2019 a marchio Panini. Alcune tipologie di bustina sono escluse dalla partecipazione secondo quanto stabilito nel regolamento. Puoi partecipare solo se hai già compiuto 14 anni al momento della registrazione. Le immagini dei premi sono indicative. I premi finali verranno estratti tra tutte le giocate valide dal 17 dicembre 2018 al 29 marzo 2019. Estrazione finale entro il 2 aprile 2019. Montepremi € 130.735 IVA compresa ove dovuta. Regolamento completo su www.calcioregali2019.it *Ogni premio finale include: N. 2 biglietti di ingresso alla partita, trasporto A/R dal luogo di residenza (intesa come stazione ferroviaria o aeroporto più vicini), pernottamento in albergo 3 stelle per due persone. È da ritenersi escluso tutto quanto non specificato come incluso.
FP
SI FA SUL SERIO…
BUON 2019!
E
siamo nel 2019!!! Che sia un anno meraviglioso per tutti e, sportivamente parlando, appagante… Il mondo del calcio si sta preparando alla volata finale, quando si fa sul serio. Ne abbiamo parlato con Franck Kessié, il nostro uomo copertina. Ha lo stemma del Milan virtualmente tatuato sul cuore, vuole dare il suo, prezioso, contributo per riportare il Diavolo in quella Champions League che, oggi più che mai, rappresenta il gotha del calcio che conta. Se senti la musichetta, significa che sei tra i migliori, che duelli per l’eccellenza. Ma Franck è anche l’immagine di un ragazzo che, partito dalla Costa d’Avorio, si è conquistato il suo posto nel calcio italiano, con la prestigiosa maglia rossonera. Non è il primo, non sarà l’ultimo. Lo speciale dedicato ai tanti talenti nati in Costa d’Avorio è da leggere tutto d’un fiato. Questo è un numero particolarmente ricco… Siamo stati a Vinovo per saperne di più sul progetto bianconero dell’U23. Bello ascoltare i sogni di tanti giovanissimi prospetti bianconeri. La Juventus è la grande protagonista anche della ru-
editoriale
Ponciroli Fabrizio
brica “Gare da ricordare”. Ci siamo teletrasportati al 1984, quando la Vecchia Signora ha conquistato la Coppa delle Coppe ai danni del Porto. Poi, spazio ad una leggenda del calibro di Lothar, il panzer tedesco che ha reso grande l’Inter. Due chiacchiere con Ariaudo, difensore di grande affidamento, e poi dritti alla lotteria dei rigori, quelli maledetti… Insomma, tanta carne al fuoco, come sempre del resto… Dimenticavo il reportage sul Dudelange, una favola che ci ha confermato come, solo nel calcio, può accadere davvero di tutto… Personalmente sono felice di essere qui a scrivere l’ennesimo editoriale della nostra/ vostra rivista. Il tempo non si ferma mai, tutto procede velocemente. A volte mi scordo che sono diventato direttore di Calcio2000 nel 2007… Ma, a distanza di 12 anni, provo le stesse emozioni. Quando mi reco in edicola e compro la mia copia, mi sento in pace con me stesso. In un mondo che divora tutto, regalandoci solo post e tweet, è gradevole potarsi a casa la propria copia di Calcio2000 e sapere che resterà nel salotto di casa per sempre…
La gente comune si preoccupa unicamente di passare il tempo: chi ha qualche talento, pensa invece a utilizzarlo
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SOMMARIO
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Calcio2OOO
Anno 22 n. 1 febbraio / marzo 2019 ISSN 1126-1056
BOCCA DEL LEONE 6 LA di Fabrizio Ponciroli KESSIè 8 FRANCK INTERVISTA ESCLUSIVA di Fabrizio Ponciroli
Matthäus 48 LOTHAR LEGGENDE DEL CALCIO di Luca Gandini
54 TOTTENHAM MAGLIE STORICHE di Gianfranco Giordano
62 ADAILTON GIGANTI DEL CALCIO di Francesco Trocchi
70 DUDELANGE REPORTAGE di Fabrizio Ponciroli
D’AVORIO 18 COSTA SPECIALE MONDO
76 SANTANA DOVE SONO FINITI? di Sergio Stanco
U23 24 JUVENTUS REPORTAGE ARIAUDO 30 LORENZO INTERVISTA ESCLUSIVA
SENSI 80 FRANCO GRANDI PRESIDENTI di Davide Orlando
SLISKOVIC 86 BLAZ L’ALFABETO DEI BIDONI di Thomas Saccani
di Gianfranco Giordano
Diretto da Fabrizio Ponciroli Redazione Marco Conterio, Luca Bargellini, Gaetano Mocciaro, Chiara Biondini, Simone Bernabei, Lorenzo Marucci, Pietro Lazzerini, Tommaso Maschio, Lorenzo Di Benedetto.
Realizzazione Grafica Francesca Crespi Fotografie Image Photo Agency, Agenzia Aldo Liverani, Federico De Luca, Mascolo/Photoview.
Contatti per la pubblicità e-mail: media@calcio2000.it
di Sergio Stanco
MARCHIO ENNERRE 42 ILSTORIE DI CALCIO
DIRETTORE RESPONSABILE Michele Criscitiello
Statistiche Redazione Calcio2000
di Fabrizio Ponciroli
di Luca Gandini
EDITORE TC&C srl Strada Setteponti Levante 114 52028 Terranuova Bracciolini (AR) Tel +39 055 9172741 Fax +39 055 9170872
Hanno collaborato Thomas Saccani, Sergio Stanco, Luca Gandini, Gianfranco Giordano, Pierfrancesco Trocchi, Stefano Borgi, Giorgio Coluccia, Luca Savarese, Luca Manes, Davide Orlando, Carletto Nicoletti
di Stefano Borgi
RIGORI 36 MALEDETTI STORIE DI CALCIO
Registrazione al Tribunale di Milano n.362 del 21/06/1997 Prima immissione: 01/01/2019 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 18246
90 JUVE-PORTO GARE DA RICORDARE di Luca Savarese
DA 98 SCOVATE CARLETTO
Stampa Tiber S.p.A. Via della Volta, 179 25124 Brescia (Italy) Tel. 030 3543439 - Fax. 030349805 Distribuzione Mepe S.p.A. Via Ettore Bugatti, 15 20142 Milano Tel +39 0289592.1 Fax +39 0289500688 Calcio2000 è parte del Network
Il prossimo numero sarà in edicola il 10 marzo 2019 Numero chiuso il 26 dicembre 2018
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AQUA
RIS X2
bocca del leone
la
L’EMOZIONE CALCIATORI PANINI Direttore, so che mi capisce: oggi ho comprato il nuovo album Calciatori Panini. Mi emoziono sempre, è come tornare bambini e io ho 57 anni! Io sono milanista ma l’album Calciatori mi riporta alla mia infanzia, quando mi piaceva il calcio e non i giocatori. Sono certo che anche lei lo colleziona, sbaglio? Michele, mail firmata Ci sto già lavorando sopra… Caro Michele, per me, l’uscita della raccolta ufficiale Panini Calciatori 2018/19, è uno dei momenti più esaltanti dell’anno. Tutto cambia ma i Calciatori Panini restano. Quest’anno lo trovo ancor più “tradizionale” del solito. Emozionante, coinvolgente, originale, unico… Si vede che amo la Panini, vero? EUROPA LEAGUE ITALIANA? Direttore Ponciroli, la seguo sempre su RMC Sport. Mi piace perché è diretto. Non ha paura di dire quello che pensa e questo non è sempre scontato tra i suoi colleghi. E poi mi fa ridere anche. So che lei ci tiene molto all’Europa League mentre a tutti non frega nulla del torneo. Io la penso come lei e vorrei che un’italiana lo vincesse. Spero il mio Napoli che è uscito dalla Champions League per colpa di Di Maria. Io ci credo, possiamo farcela secondo lei? Compli-
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menti per tutto e Buon Feste Carmine, mail firmata Caro Carmine, credo che quest’anno, ancor più rispetto alle ultime edizioni, l’Italia abbia tantissime possibilità di vincere l’Europa League (da quando si chiama così, non l’abbiamo mai vinta). Il Napoli, insieme all’Inter, è tra le favorite, quindi ci credo, forse ancor più di lei. Mi ha fatto sorridere il pensiero a Di Maria. Quel gol è stato devastante per le ambizioni del Napoli ma non tutti i mali vengono per nuocere. Come ha detto bene Ancelotti, al Napoli l’Europa League importa molto!
IL CAPPELLINO DEL TIFOSO Tra le proposte Icam, da urlo i cappellini ufficiali delle maggiori squadre del nostro campionato con tanto di led luminosi... Nel “Cappello del Tifoso”, ci sono dei finissimi e buonissimi cioccolati al latte griffati Icam, marchio garanzia di qualità... La linea “Cappello del Tifoso” propone i cappellini ufficiali con led luminosi di Juventus, Inter, Milan Lazio, Roma, Fiorentina e Torino.
BALOTELLI, SEMPRE LUI Direttore, complimenti per la rivista, la leggo da oltre 6 anni. Ho 24 anni e sono un fan di Balotelli. Perché lei lo massacra sempre? Non mi sembra che ci siano in giro tanti attaccanti meglio di lui per la nostra Nazionale. Eppure lei lo giudica sempre male, anzi spera che fallisca sempre. Io credo che sia un ottimo attaccante. Sono i media che non lo capiscono e lo stanno sempre a giudicare. Basta un gol sbagliato e tutti a dire che è scarso. Con Higuain non fa nessuno così. Non credo sia corretto. Mi è piaciuto molto il pezzo su Garrincha, non lo conoscevo e sono andato su youtube a vedere cosa faceva. Grazie, mi risponda però… Thomas, mail firmata Caro Thomas, non mi nascondo: non ho una particolare stima
di Fabrizio Ponciroli
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» RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
Buongiorno direttore, mi piacerebbe pubblicasse questa lettera, siamo una squadra amatoriale, che oltre ad aver partecipato e vinto campionati locali e provinciali, ha partecipato a campionati europei, vincendone uno, e anche ad un campionato del mondo amatoriale. Questo per intendere che la passione per questo sport e una squadra unita, può portare grandi risultati. Forza A.C Lutrano!! La prego di pubblicarci, faccio una sorpresa alla mia squadra, io vi seguo fin dal primo numero ed sarebbe bello per una volta entrare in questa splendida rivista!! Avanti così sempre!! Un gran saluto. Andrea Gottardi, mail firmata
di Balotelli. Che abbia avuto, in passato, un grande ascendente sul sottoscritto è comprovato. Ai tempi in cui militava nell’Inter, ero certo che potesse sfondare. Poi però ha iniziato a pensare a tutto, tranne che al calcio. Ha gettato tante occasioni al vento, si è distinto più per le “balotellate” che per quanto faceva in campo. Personalmente non ho più fiducia in lui. Va bene al Nizza, non credo possa far bene in Serie A o in Nazionale. Tanti anni fa era un levriero, oggi gli è rimasto solo un gran tiro ma ha una mobilità ridotta. Sono felice di averti mostrato l’estro di Garrincha… JUVE CHAMPIONS Direttore Ponciroli, leggo tutti i suoi editoriali su TuttoJuve e condivido spesso il suo pensiero. Non sono un fan di quelli scatenati. Vado allo stadio ma sono sempre obiettivo. La Juventus è la mia squadra del cuore ma se perde non
mi arrabbio. Se gioca male, invece, sì. Ho comprato lo Speciale Champions e mi è piaciuto. Ne farete uno se la Juventus vince la Champions League? Tiziano, mail firmata Beh, se la Juventus dovesse davvero farcela, qualcosa faremo di sicuro. Mi sembra il minimo, no? LEGGENDE DEL CALCIO Direttore, bellissimo il servizio su Garrincha. Ho letto anche un libro sul fenomeno brasiliano. In Brasile c’è chi lo ama più di Pelé. Spero che parlerete di altre leggende, è bello sapere certe curiosità che non si sanno. Gianluca, mail firmata Beh, l’intento è quello di farne una rubrica fissa. Su questo numero c’è Lothar, quello che mi lasciava a bocca aperta con la maglia dell’Inter… Buona lettura!
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va
i s u l c s e a t intervis Franck KessiĂŠ di Fabrizio Ponciroli
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FRANCK, DURO DAL CUORE ROSSONERO Un ragazzo con grandi valori, un centrocampista di grande valore: Franck Kessié… Foto servizio di Daniele Mascolo
C’
è sempre un pizzico di preoccupazione quando si viene invitati a casa di un calciatore, soprattutto se di primissimo livello. Siamo abituati a vederli sul campo o, al massimo, circondati da microfoni in zona mista, pronti a rispondere a domande legate alla partita o al futuro. Poterli intervistare a casa loro, in una situazione di totale confort è un privilegio, ma anche una responsabilità. È necessario essere sinceri, rispondere all’ospitalità con garbo ed eleganza. Soprattutto se l’invito arriva da Franck Kessié, persona decisamente riservata e che non ama particolarmente colloquiare con la stampa. Nessun problema con i giornalisti, è solo una questione di carattere. Ci
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INTERVISTA
ESCLUSIVA
Franck Kessié
LA SUA CARRIERA Franck Kessié è nato a Ouragahlo, città della Costa d’Avorio, il 19 dicembre del 1996. Sin da giovanissimo, si fa notare per la grande determinazione e per le sue incredibili doti fisiche. Nel 2010 entra a far parte della Stella Adjamé, giocando come difensore centrale. Le sue eccellenti prestazioni gli aprono prima le porte della nazionale e, successivamente, quelle del campionato italiano. Viene tesserato dall’Atalanta nel gennaio del 2015. Curiosamente sbarca a Bergamo il 19 gennaio. Il 19 è un numero al quale Franck è decisamente legato. È il giorno del suo compleanno ma anche quello della scomparsa del padre. Dopo i primi sei mesi all’Atalanta, dove gioca con la Primavera, va a Cesena. Viene impiegato come centrocampista, collezionando, nella stagione 2015/16, 37 presenze, con quattro reti all’attivo. Torna così all’Atalanta e diventa un perno della formazione orobica allenata da Gasperini. Esordisce con i nerazzurri in Coppa Italia, il 13 agosto 2016: 3-0 alla Cremonese e primo gol con la casacca dell’Atalanta. Chiude l’incredibile annata con 31 presenze e sette reti (due alla Lazio, una alla Roma). Nel giugno del 2017 viene ufficializzato il suo passaggio al Milan. Nella prima giornata di campionato, contro il Crotone, trova la sua prima marcatura rossonera. Al suo primo anno al Diavolo, va a segno in cinque occasioni (54 presenze complessive). Gattuso lo conferma leader del centrocampo rossonero. All’ivoriano non rinuncia. Tanto Milan e tanta Costa d’Avorio. Dopo aver giocato in tutte le giovanili del suo Paese, ha esordito con la nazionale maggiore nel lontano 2014 (contro la Sierra Leone). È già vicino alle 30 presenze con la Costa d’Avorio ma, curiosamente, gli manca il suo primo sigillo con la casacca della sua amata nazionale…
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Per rilassarsi anche una partita a dama
accoglie con un gran sorriso. L’appartamento è un perfetto mix di gioie da calciatori (dalla console per divertirsi con i videogame ad un calcetto balilla in bella vista) e “strumenti del mestiere” per la sua nuova attività da papà di uno splendido bimbo. Dopo i classici convenevoli, ci si siede sul divano e ci si conosce… Franck, torniamo alla tua amata Africa e all’amore per il gioco del calcio… “Ho cominciato a giocare con gli amici, nella mia città. Andavamo a scuola e, appena finite le lezioni, ci divertivamo con il pallone. Giocavamo ovunque, l’importante era giocare. A me è sempre piaciuto giocare a calcio”. Ora sei un centrocampista, da bimbo che
LA Carriera di Kessié Franck Yannick Kessiè CEN 19/12/1996 Esordio in Serie A : 21-8-2016 1° giornata, Atalanta-Lazio 3-4 Esordio in Serie A Milan: 20-8-2017 1° giornata Crotone-Milan 0-3 Esordio in Coppa Italia Milan: 13-12-2017 Ottavi Finale, Milan-Verona 3-0 Esordio in Europa Milan: 27-7-2017 Europa League- 3° Turno Uiniversitatea Craiova-Milan 0-1
L’ivoriano sogna di giocare la Champions League con il Milan
facevi? “Ma sai, quando si è piccoli, soprattutto in Africa, non ci sono ruoli ben definiti. Fai di tutto, non pensi alla posizione ma a giocare”. Chi erano i tuoi idoli quando eri un ragazzino? “Mi sono sempre piaciuti Essien e Yaya Touré. Essien mi piaceva per la grinta e come sapeva gestire la partita. Mentre di Yaya Touré mi è sempre piaciuta la sua visione di gioco. Con Yaya Touré ci ho anche giocato in nazionale, con la Costa d’Avorio, ed è stato davvero emozionante”. Quando hai capito che il calcio sarebbe diventato il tuo mestiere? “Sicuramente quando ho firmato con la Stella
Adjamé, una delle squadre della Serie A della Costa d’Avorio. Da lì ho avuto la possibilità di giocare nell’U17 della nazionale della Costa d’Avorio e tutto ha avuto inizio”. Che ha pensato tua mamma quando le hai detto che volevi fare il calciatore professionista? “Guarda, mia mamma mi diceva sempre di pensare alla scuola ma, quando si è capito che potevo fare il calciatore professionista, ho avuto l’appoggio di tutti. Ora mi vedono giocare in televisione, con il Milan, e sono tutti felicissimi e io lo sono per loro”. Parliamo del tuo arrivo a Bergamo nel gennaio del 2015… “Dopo il Mondiale U17, mi ha chiamato George, il mio procuratore, e mi ha detto che potevo fare un provino con l’Atalanta. Dopo che ho saputo che non ero tra i convocati per la Coppa d’Africa, ho subito preso l’aereo e sono arrivato a Bergamo. Sono arrivato il 19 gennaio. Ricordo che faceva tantissimo freddo. Dopo un paio
“La Champions League è qualcosa di diverso. Io non l’ho ancora giocata ma non vedo l’ora che accada”.
Presenze Minuti Gol Ammo. Espuls. Falli fatti Falli subiti Assist DATI COL MILAN* Serie A 51 4796 8 13 0 89 55 2 Coppa Italia 5 502 0 1 0 6 6 0 Europa League 14 1014 0 2 0 18 13 2 Totale 70 6312 8 16 0 113 74 4 DATI GENERALI SERIE A* 81 7132 14 20 2 136 89 3 * Dati aggiornati al 3/12/2018
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INTERVISTA
ESCLUSIVA
Franck Kessié di giorni, avevo voglia di tornare a casa. Per fortuna George mi ha aiutato e sono rimasto”. Non è facile ambientarsi nel calcio italiano, vero? “Sì, è verissimo. La tattica è importantissima, devi imparare in fretta, se no fai fatica e non giochi. Non è semplice giocare in Italia, soprattutto quando arrivi da un altro Paese e devi imparare tante cose, in particolare la lingua”. All’Atalanta c’è una cura particolare per i giovani… “Sicuramente. È una società che sa lavorare benissimo con i giovani. Li fanno crescere al meglio, sanno come si fa”. Si dice che Gasperini sia uno che fa lavorare tantissimo i propri giocatori… “È vero ma ogni allenatore ha il suo modo di allenare. Ognuno ha il suo stile. Poi, sai, dipende sempre anche da quanto tempo hai. Se giochi solo in campionato, hai più tempo per
allenarti, se fai le coppe, ne hai di meno”. Per farti le ossa, finisci a Cesena… “Importante esperienza per me. C’era il mare, quindi un posto decisamente diverso rispetto a Bergamo. Ricordo che, per le prime cinque partite, non ho giocato. Poi ci sono stati tantissimi infortuni, uno dietro l’altro, e Drago mi ha messo in campo e non sono uscito più. Io sono arrivato come difensore centrale ma, al Cesena, alla fine, sono stato impiegato come centrocampista, un ruolo che, comunque, avevo già sperimentato con la mia nazionale”. Tornato all’Atalanta, è andato tutto alla grande… “C’erano tanti giovani che avevano voglia di dimostrare il proprio valore. Tutti hanno dato il massimo…”. E siamo alla chiamata del Milan… “Sì, avevo tante offerte ma quando mi ha detto che c’era anche il Milan, ho subito risposto che
LA FIGURA DI GEORGE Si chiama George Atangana ed è lo storico agente di Franck Kessié. Ma George è molto di più dell’uomo che l’ha scoperto, aprendogli le porte del calcio che conta. George è una delle persone più importanti nella vita quotidiana del centrocampista del Diavolo. “Faccio parte da anni della famiglia di Franck. Di fatto, rappresento la figura paterna che è venuta a mancare tanto tempo fa. Mi sono sempre sentito di famiglia, non a caso cerco di essere una guida anche per i suoi fratelli. Ovviamente c’è anche il lavoro di manager, che è importante, ma poi c’è tutto il resto che credo valga molto di più”. George è stato “illuminato” da Franck: “Non l’ho incontrato per caso a Bergamo, come qualcuno va dicendo… L’ho visto, per la prima volta, quando non aveva ancora 18 anni. Giocava nella Stella Adjamé. Stavo assistendo ad una partita. Lui è entrato a gara in corso e ha cambiato la partita. Mi sono subito informato su chi fosse. Ho parlato con il presidente del club e mi sono subito convinto che aveva tutto per sfondare nel calcio professionistico”. Il passo successivo vede Franck sbarcare in Italia, a Bergamo: “Innanzitutto bisogna dire che, nonostante fosse giovanissimo, aveva già tanta esperienza alle spalle. Io avevo ottimi rapporti con chi lavorava all’Atalanta. Avrei potuto portarlo in Francia ma sapevo che l’Italia era la scuola calcio giusta per la sua completa maturazione. Incredibilmente, in quell’anno, l’Atalanta aveva un posto libero per un giocatore extracomunitario e così si sono aperte le porte per Franck. È stato fondamentale il lavoro dell’ex segretario dell’Atalanta Fabio Rizzitelli. Ha fatto un lavoro pazzesco per portarlo a Bergamo”. Dal sole della Costa d’Avorio a Bergamo, in pieno inverno. Non proprio semplicissimo come cambio di vita: “Onestamente non c’era stato il tempo di spiegargli tutto. Ricordo che è arrivato con vestiti leggerissimi, aveva pure gli infradito ma era il 19 gennaio e faceva un freddo glaciale. Per fortuna in macchina avevo sciarpa e giubbotto…”. I pri-
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volevo andare lì. George mi ha chiesto perché volessi andare proprio al Milan e io ho risposto che il Milan era il massimo per me. George ha poi aggiunto che c’erano squadre che mi volevano che facevano la Champions… Io gli ho detto che volevo andare al Milan e aiutarlo a tornare in Champions. A quel punto, George ha capito che volevo solo il Milan e così è stato”. Te lo ricordi il primo giorno a Milanello? “Sì, non è stato tanto sereno perché dovevo fare le visite mediche e quindi ero concentrato su quello, su superare le visite mediche. Ma dopo è stato tutto fantastico”. Chi ti ha aiutato ad ambientarti al Milan nei tuoi primi giorni da rossonero? “Quando sono arrivato c’era Niang che parlava francese e quindi lui è stato importante per me. Quando è andavo via, mi sono trovato alla grande con Calhanoglu che non parla france-
Kessié ha tanti sogni da realizzare in rossonero
mi sei mesi non sono stati semplici, come racconta lo stesso George: “Ricordo che lo facevano allenare con la Prima squadra ma poi lo mandavano a giocare in Primavera. Per uno come lui, con tanta esperienza alle spalle, nonostante la giovane età, non era facile. Ricordo che voleva mollare tutto ma Franck è uno che è diventato grande in fretta, nessuno gli ha regalato nulla. Ha perso il padre, giocava a calcio con gente più grande di 10/15 anni per portare a casa dei soldi per la famiglia. Quindi non si è arreso mai”. Una decisione fortunata è stata l’esperienza a Cesena: “Assolutamente. L’inizio non è stato facile, causa tantissimi infortuni, ma quando ha iniziato a giocare e non si è più fermato. Potevo vederlo con più continuità, sorrideva, era contento perché giocava”. E qui si viene al suo ruolo. Il Cesena l’aveva preso come difensore centrale: “Gli ho sempre detto che, in Italia, non poteva fare il difensore centrale. È alto
183 cm, il colpo di testa non è la sua caratteristica migliore e di Cannavaro ne ho visto solo uno nella mia vita. Doveva giocare a centrocampo e, alla fine, in un modo o nell’altro, è accaduto e, in quel ruolo, è uno davvero tosto”. A Cesena sboccia, poi con l’Atalanta si consacra e alla fine arriva al Milan: “Io sapevo dell’interesse del Milan da tempo ma ho cercato di non far uscire fuori il nome… Avevo tante offerte, soprattutto dall’Inghilterra ma anche dall’Italia. Prima di parlare con Franck di tutto, volevo capire la direzione che avrebbe preso il Milan a livello societario. Poi, appena avuto rassicurazioni, ho parlato del Milan a Franck che ha detto subito sì, senza neanche pensarci. Non si poteva dire di no ad uno dei club più prestigiosi e importanti del mondo. È stata la scelta giusta, Franck sta diventando sempre più importante per il Milan. È felice in rossonero ed è quello che conta di più”.
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INTERVISTA
ESCLUSIVA
Franck Kessié
Tanta quantità e molta qualità, oltre ad un gran fiuto per il gol
se, non parla italiano ma ci intendiamo a gesti (ride, n.d.r.)”. Parliamo anche di Gattuso… Che tipo è il tuo allenatore? “Gattuso è un grande allenatore. In generale, quando giochi, l’allenatore ti piace sempre… Ma lui è un tipo onesto. Quando c’è da lavorare, si lavora. Con lui non puoi non essere concentrato. Se non dai il massimo, ti urla dietro di tutto. Terminato il lavoro, però, ti lascia libero di fare quello che vuoi”. E Higuain? “Un grandissimo campione, è davvero forte. Un professionista. Noi crediamo tanto in lui, sappiamo che ci può portare in alto”. Hai la fortuna di giocare a San Siro, la Scala del calcio… “Dal campo, ti dà grandi emozioni. Quando pensi che 70/80 mila persone ti stanno guardando, fa impressione. Ha una storia incredibile, la senti quando ci giochi. San Siro non è
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come gli altri stadi, è diverso”. Dove può arrivare questo Milan? “All’inizio della stagione abbiamo fissato il nostro obiettivo che è quello di arrivare a giocare la Champions League il prossimo anno. Dobbiamo fare di tutto per farcela”. E della Juventus che idea hai? “La Juventus è un discorso a parte. Vincono da tanti anni, noi dobbiamo pensare a conquistare la Champions League che è quello che interessa davvero a noi”. Che effetto ti fa giocare nello stesso campionato dove gioca Cristiano Ronaldo? “E’ bellissimo. Sono contento che sia in Italia. Mi piace sfidare i migliori, mi aiuta a crescere. Sta valorizzando ancor di più la Serie A”. Parliamo un po’ del Franck extra campo… “Ascolto tanta musica, anche italiana… Gioco ai videogame e mi piace giocare a bowling”. Restando ai videogame… Mi dici tre giocatori che metteresti nella tua squadra virtuale ideale?
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INTERVISTA
ESCLUSIVA
Franck Kessié
Il direttore Ponciroli durante l’intervista con Kessié
“Quando gioco, io uso sempre il Milan. Io faccio tutto in campo. Sono il capitano, calcio rigori, punizioni e calci d’angolo. Non prenderei nessuno di altre squadre, voglio solo giocatori del Milan nella mia squadra”. Quando hai un po’ di vacanza, dove ti piace andare? “Torno subito a casa, dove c’è tutta la mia famiglia. Voglio passare più tempo possibile con loro, è quello che mi rende felice. È sempre una festa quando torno. Casa mia si riempie di persone”. Sei legato al tuo Paese e alla tua nazionale… “Siamo una buona nazionale, con tanti giovani di grande prospettiva. C’è anche Gervinho che gioca in Italia al Parma”. Franck, qual è il tuo obiettivo da calciatore? “Mi piacerebbe vincere la Champions League e un trofeo con la mia nazionale”. Quella musichetta è diversa, vero? “Sì, la musichetta della Champions League è qualcosa di diverso. Io non l’ho ancora giocata ma non vedo l’ora che accada. È un torneo che mi affascina tantissimo”. Chi vincerà quest’anno la Champions League? “Il Milan deve tornare in Champions League (ride, n.d.r.)… Finché non la giochiamo, mi interessa di meno (ride, n.d.r.)”. Ultima domanda: quando Kessié sentirà la musichetta della Champions League a San Siro con il suo Milan?
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“L’anno prossimo”. Con un magnifico sorriso, Franck chiude un’intervista in cui ha raccontato tanto di ciò che ha passato e di quello che vuole raggiungere. Mentre si fa immortalare dalla macchina fotografica, notiamo che c’è il gioco a dama sul tavolo: “Sì, mi diverte molto giocare a dama”, ci svela. Riservato ma per nulla banale. Ne ha fatta di strada per indossare la casacca del Milan. Ha dovuto superare tantissimi ostacoli e imparare a comportarsi da adulto quando era poco più di un ragazzino. La vita non gli ha regalato nulla ma Franck si è conquistato tutto quello che voleva e ora, nel mirino, ha la Champions League con il suo amato Milan…
LA MAGLIA AWAY DEL MILAN Ispirata dalle leggende e indossata da nuovi eroi, la maglia Away ufficiale dell’AC Milan, griffata Puma, è un omaggio alla bianca leggendaria, famosa per aver adornato le schiene dei campioni durante le maggiori finali europee, presenta un colletto a girocollo con dettagli rossi e neri, una linea nera sul petto, sulla schiena e sulle braccia che ricorda la divisa del Milan degli anni ‘90 impreziosita dall’iconico “Diavolo Rossonero” sul retro del collo. Una maglia da veri tifosi del Diavolo. Questa porta la forma di Franck Kessié, un vero gladiatore!
CI SIAMO, TEMPO DI CALCIATORI 2018-2019 La 58esima edizione, ovviamente firmata Panini, è ricca di novità… Come da tradizione, ecco l’album Calciatori Panini 2018-2019!!! La raccolta delle stelle del calcio italiano… Anche quest’anno l’album CALCIATORI è in formato MAXI, con 128 pagine, su cui incollare le 734 figurine della collezione, ricchissimo di statistiche e informazioni... solo CALCIATORI 2018-2019 può raccontarci tutto sui campioni e i club che ogni settimana ci fanno sognare sul rettangolo verde. Tantissime, come sempre, le novità custodite dalla nuova edizione dell’album più amato dagli italiani. A partire dalla copertina, che racchiude in una sola immagine 20 calciatori rappresentanti di tutte le squadre di Serie A TIM. Nuovi ed eclatanti arrivi dall’estero, trasferimenti eccellenti, uomini-simbolo e giovani dal sicuro avvenire mettono in scena un’epica invasione del proprio palcoscenico d’elezione: lo stadio, la cornice in cui è rappresentato il vero spettacolo del calcio. La collezione CALCIATORI continua a rinnovarsi anno dopo anno in tutte le sue sezioni, con importanti arricchimenti anche per la parte dedicata alle squadre della Serie A TIM - dove il divertimento e la scoperta iniziano già a partire dalle caselle destinate ad ospitare le figurine dei calciatori - e della Serie BKT che, come la massima serie, ospita nelle proprie pagine una Calciatoripedia dedicata ai portieroni che hanno fatto la storia dei rispettivi club. Le immancabili sezioni speciali dedicate alla Serie A Femminile, al Film del Cam-
pionato e al Calciomercato sono poi affiancate da una novità: “Italia 120” celebra l’anniversario della FIGC dedicando figurine speciali agli Azzurrini della Nazionale Under 21 e alle Azzurre della Nazionale Femminile che nel 2019 parteciperanno a due grandissimi eventi internazionali. Ogni bustina CALCIATORI 2018-2019 è ricchissima di sorprese: le figurine degli stemmi, delle prime maglie, degli allenatori, delle squadre schierate, degli stadi... e tante altre ancora sono realizzate su materiali e con trattamenti speciali innovativi. Ciascuna, inoltre, contiene un coupon CalcioRegali 2019 con cui tentare la fortuna e la possibilità di vincere tanti premi giornalieri, settimanali e finali! Scopri tutte le curiosità e le novità sul sito ufficiale www.calciatoripanini.it e anche sui profili ufficiali Panini di Facebook, Twitter, Instagram e YouTube.
O D N O M E L A I SPEC Costa d’Avorio di Stefano Borgi
GLI “ELEFANTI” SONO CRESCIUTI... 18
Non solo Drogba, la Costa d’Avorio ha generato e genera tanti talenti…
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ono chiamati gli “Elefanti”, e osservandone mole e stazza fisica, mai definizione fu più azzeccata. La Federazione nacque nel 1960, la prima squadra Nazionale esordì il 13 aprile, tre mesi dopo l’Indipendenza ufficiale, datata 7 agosto. Stiamo parlando della Costa d’Avorio, stato dell’Africa occidentale, ex colonia francese affiliata alla Fifa dal 1964. Attualmente è 67esima nella graduatoria mondiale, ma la sua storia va dal 12° al 75° posto, con picchi assoluti nel 1992 e 2015, quando gli ivoriani si aggiudicarono due edizioni della Coppa d’Africa. Guarda caso sempre contro il Ghana, e sempre ai calci di rigore. Ma andiamo con ordine... Gouamené, Aka, Aboua, Sekana, Hobou, Gadji-Celi, Maguy, Sié, Otokoré (53’ M. Traoré), Tiéhi, A. Traoré (101’ Kouadio). Questi i 13 eroi che regalarono il primo grande trofeo della loro storia alla Costa d’Avorio: la Coppa d’Africa edizione 1992. Fu una vittoria sofferta, per 11-10 ai calci di rigore, dopo che tempi regolamentari e supplementari erano terminati sullo 0-0. Addirittura, il terzino Basile Aka Kouamè dovette calciare ben due rigori nella classica lotteria, prima che il portiere Gouamanè parasse il 12° al difensore del Ghana Baffoed, anch’esso alla seconda realizzazione. Oltre a Kouamè, di quella squadra ricordiamo Youssuff Fofana (non è parente dell’attuale centrocampista dell’Udinese): per lui anni importanti in Francia, soprattutto nel Monaco, con il quale vinse una supercoppa nel 1985, ed un campionato francese nel 1988. E ancora Abdoulaye Traorè, secondo marcatore di tutti i tempi (die-
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Costa d’Avorio tro all’irraggiungibile Drogba) con 29 reti in 46 presenze. Anche per lui esperienze importanti nel Braga in Portogallo, nel Metz e nel Tolone in Francia. E del resto molti dei suoi compagni si affacciavano al campionato transalpino, in anni che vedevano il calcio africano recuperare posizioni su quello europeo, grazie al Camerun di Roger Milla, il Ghana di Abedì Pelè e la Nigeria di Rashidi Yekini. Da segnalare che la Costa d’Avorio aveva ottenuto buoni piazzamenti anche nelle prime edizioni della coppa d’Africa: due terzi posti nel ‘65 e nel ‘68, poi un altro nel 1986. Sei anni prima, gli ivoriani, vincevano la Coppa d’Africa contro il Ghana. Dovremo attendere il 2006 per rivedere la Costa d’Avorio sugli scudi, quando gli elefanti conquistarono la medaglia d’argento nella coppa continentale disputata in Egitto, persa proprio contro i padroni di casa: 4-2 ai calci di rigore. Saranno anni floridi e pieni di soddisfazioni per la compagine ivoriana:
altre due qualificazioni ai mondiali nelle edizioni del 2010 e 2014, oltre alla seconda vittoria nella coppa d’Africa, edizione 2015. La Costa d’Avorio si impose sul Ghana ai calci di rigore per 9-8, con l’ultimo penalty segnato dal portiere Babacar Barry, divenuto in seguito una sorta di eroe nazionale.
“Yaya Tourè è il quinto calciatore per presenze della nazionale ivoriana con 102 gettoni e 19 reti” E proprio da Barry cominciamo a conoscere una nidiata di calciatori che, nati tutti più o meno nello stesso periodo, permisero alla Costa d’Avorio un filotto di risultati sorprendenti. Li riassumiamo: tre qualificazioni alla fase finale dei mondiali (2006, 2010, 2014), col rimpianto di essersi sempre fermati al primo turno. La vittoria in coppa d’Africa nel
La carriera di Yaya Tourè è stata incredibile, soprattutto negli anni del City.
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2015, preceduta da due secondi posti (2006 e 2012), ed un quarto nel 2008. Su tutti il nome di Yaya Tourè, senza dubbio (insieme a Drogba del quale parleremo a parte) il calciatore più decorato e vincente della storia ivoriana. Yaya nasce il 13 maggio 1983 a Bouakè, fu eletto calciatore africano dell’anno per ben 4 volte consecutive: dal 2011 al 2014. Di ruolo centrocampista centrale, poteva giostrare anche trequartista, alle spalle delle punte. Yaya Tourè era quello che si dice in gergo un calciatore completo: forza fisica, scatto, velocità, sapeva costruire gioco ma allo stesso tempo recuperava palla ed aiutava il centrocampo. E poi la carriera parla per lui: esperienze in Grecia (Olimpiakos) ed in Francia (Monaco), tre anni al Barcellona (2007-2010), otto al Manchester City (2010-2018). Nel suo palmares otto trofei
con il City, sette con il Barcellona (di cui una Champions, una Supercoppa Europea, un Mondiale per club, tutto nel 2009), altri due nel 2006 in Grecia agli albori della carriera, insomma... Yaya Tourè nel 2012 è stato il quarto calciatore più pagato in Europa dopo Messi, Eto’o ed Ibrahhimovic. Yaya Tourè è il quinto calciatore per presenze della nazionale ivoriana con 102 gettoni e 19 reti. La dinastia dei Tourè era però iniziata due anni prima con Kolo Tourè, fratello maggiore di Yaya, anch’esso uno dei tre calciatori che hanno conseguito il magnifico poker di risultati. Kolo Tourè era un vero jolly della difesa, anche se prediligeva il ruolo di difensore centrale. A differenza del fratello la sua carriera si svolse interamente in Inghilterra: dal 2001 al 2009 all’Arsenal (del quale diverrà anche capitano), dal 2009 al 2013 al Man-
DA ZAHOUI A GERVINHO... In principio fu François Zahoui. Acquistato dall’Ascoli di Costantino Rozzi per 10 milioni di lire, fu il primo calciatore africano del campionato italiano. Lo stipendio? 1 milione e 200 mila (lire) al mese, minimo sindacale. Memorabile il suo esordio, il 21 ottobre 1981, durante un Fiorentina-Ascoli della terza giornata: l’ivoriano entrò al 75’ ed in un quarto d’ora finì cinque volte in fuorigioco. Tanto che qualcuno, tra risatine e dileggi vari, disse che non conosceva le regole. Altri tempi, quando il calcio africano era poco più di uno sport dilettantistico. La vendetta arriva 39 anni dopo quando il buon François, in qualità di tecnico della Costa d’Avorio, batte per 1-0 l’Italia di Cesare Prandelli. È il 10 agosto 2010, si gioca a Londra in campo neutro, segna Kolo Tourè al 55’. Devono passare 19 anni prima di ritrovare un ivoriano nel nostro campionato, e tocca a Ghislain Akassou che dal 2000 al 2002 milita in serie B nella Pistoiese. Di due anni più giovane (Akassou era del 1973) è Christian Manfredini, a dimostrazione che il calcio ivoriano sta crescendo, ed in fretta. Adottato a cinque anni da una famiglia di Battipaglia, Christian viene su nella Juventus (con i bianconeri vince un “Viareggio” nel 1994), esplode nel Chievo e si afferma nella Lazio. Nel 1999 esordisce nella Salernitana Marc Andrè Zoro, difensore ivoriano che militerà anche nel Messina (oltre che nel Benfica, in Portogallo), rimasto famoso per essere stato il primo ad essersi ribellato agli ululati razzisti: succede il 27 novembre 2005, durante un Messina-Inter 1-2, e Marc minaccia di lasciare il campo per protesta. Verrà convinto a tornare sui suoi passi, ma la sua insofferenza manifesta farà il giro del mondo. Negli anni a venire sarà la volta di Alex Konan (Lecce e Torino), di Saliou Lassissi (Sampdoria, Fiorentina, Parma e Roma), di Djibrill Cissè (colorito e colorato fantasista della Lazio, francese ma di origine ivoriana). Fino ad arrivare ai giorni nostri con Tiemouè Bakaioko (Milan, come Cissè di famiglia francese ma origine ivoriana), Seko Fofanà (Manchester City, Fulham, poi Udinese), Frank Kessie (Atalanta, poi Milan), Gervais Lombe Yao Kouassi (in arte Gervinho), prima alla Roma, oggi al Parma. Soprattutto vincitore della coppa d’Africa nel 2015. Da Zaohui a Gervinho, ne è stata fatta di strada...
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Costa d’Avorio chester City, dal 2013 al 2016 al Liverpool. Più un’esperienza finale in Scozia, al Celtic, nella stagione 2016-2017. Anche per lui un palmares d’eccezione: cinque titoli con l’Arsenal, tre col Manchester City, tre anche con il Celtic. Oltre al secondo posto assoluto in nazionale con 120 presenze e 7 gol. Il terzo ed ultimo calciatore che ha calato il poker (tre partecipazioni mondiali ed una coppa d’Africa vinta nel 2015) è Arthur Boka, nato il 2 aprile 1983 ad Abdijan (ex-capitale e città più popolosa della Costa d’Avorio). Difensore, cresce nello stesso settore giovani-
Drogba è considerato il più grande talento nato in Costa d’Avorio
DROGBA ED I SUOI FRATELLI... Parafrasando Totò: “Primi si nasce, ed io lo nacqui... modestamente”. Chi parla, in un immaginario colloquio con l’intervistatore di turno, è Didier Yves Drogba Tebily, per tutti Drogba. E non sappiamo se l’ivoriano facesse della modestia la sua arma migliore ma... come dargli torto? Didier Drogba, dati alla mano, è il primatista di reti (35) con la maglia del Chelsea nelle competizioni UEFA per club. È il primatista di reti (65 in 105 presenze) con la nazionale della Costa d’Avorio. È il primo ad aver segnato un gol con gli “elefanti” in una fase finale del mondiale (4 giugno 2006, doppietta contro la Slovenia). È stato il primo calciatore africano a segnare 100 gol in Premier League. Il 19 maggio 2012 realizza il rigore decisivo contro il Bayern di Monaco (dopo aver segnato il pareggio alla fine dei tempi regolamentari) e regala al Chelsea di Di Matteo la prima Champions League della sua storia. Se poi con qualcuno parli di calcio e della Costa d’Avorio, il primo nome che viene in mente è quello di... Didier Drogba! Con buona pace dei vari Kolo Tourè, Yaya Tourè, Gervinho e Kessie. Didier Drogba nasce l’11 marzo 1978 ad Abidjan, muove i primi passi (calcistici) in Francia e nel 1998 firma il suo primo contratto professionistico col Le Mans. Poi ancora Francia con Guingamp e Marsiglia, finché Mourinho lo ammonì dicendogli: “Tu sei un buon giocatore, ma se vuoi diventare un campione come Henry, Ronaldo, Van Nistelroy, devi giocare in Inghilterra, nella mia squadra”. Detto fatto, nel 2004 il Chelsea lo acquista per 24 milioni di sterline (circa 36 milioni di euro), e con i blues Drogba vince tutto: quattro Premier, tre coppe di lega, quattro coppe d’Inghilterra, due Community Shields. Oltre alla già citata Champions League nel 2012. Drogba lascia il Chelsea dopo 341 incontri e 157 gol, e approda in Cina, allo Shanghai Shenhua. Dopo appena sei mesi torna in Europa e va al Galatasaray. Drogba vince tutto, anche in Turchia: un campionato, una supercoppa, una coppa nazionale. Poi il ritorno al Chelsea, ma sono gli ultimi fuochi. Montreal Impact e Phoenix Racing Football Club (squadra da dove era partito nel ‘95) le ultime tappe della carriera, fino a diventare nel 2018 commentatore televisivo. Didier Drogba è apprezzatissimo anche in patria, oltre che per la luminosa carriera sportiva (ricordiamo: due qualificazioni mondiali, due secondi posti in coppa d’Africa, recordman di reti con la nazionale della Costa d’Avorio, calciatore africano dell’anno nel 2006 e nel 2009), anche per la sua attività benefica. Didier, infatti, nel 2007 è diventato ambasciatore del programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, oltre a creare una fondazione a suo nome. E formare, infine, una splendida famiglia composta da tre figli e la moglie maliana Lalla.
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le di Kolo Tourè. L’apice della sua carriera, oltre alle affermazioni internazionali con gli “elefanti”, sarà uno storico scudetto con lo Stoccarda in Bundesliga nel 2007 a fianco di Miroslav Klose e Mario Gomez. Arthur Boka, con 87 presenze ed una rete, è ottavo nella speciale graduatoria della Costa d’Avorio. Completiamo la lista dei “fab four”, per fama e partecipazioni, con il primo calciatore ivoriano per presenze in nazionale: Alain Zokora. 123 gettoni ed un solo gol (nel 4-0 contro il Botswana del 22 giugno 2008) per un centrocampista di quantità che però sapeva riciclarsi in tutti i ruoli della difesa. La carriera di Zokora è stata certamente inferiore ai connazionali che abbiamo appena celebrato, seppur di buonissimo livello: due stagioni al Saint-Étienne, tre al Tottenham, due al Siviglia, tre in Turchia al Trabzonspor, con in dote una coppa di Lega inglese con gli “Spurs” nel 2008, ed una coppa di Spagna col Siviglia nel 2009. E poi c’è quel record
Gervinho oggi gioca in Italia, nel Parma
“Drogba è il primatista di reti (65 in 105 presenze) con la nazionale della Costa d’Avorio. È il primo ad aver segnato un gol con gli “elefanti” in una fase finale del mondiale” che resiste e lo dipinge un’autentica istituzione nazionale. Nei 58 anni della federazione ivoriana (ricordiamo fu fondata nel 1960), altri calciatori hanno fatto la storia e meritano una menzione particolare: Joel Thieì, attaccante prolifico, quarto goleador in nazionale con 25 centri in 40 presenze. I fratelli Kalou (Bonaventoure e Salomon, particolarmente decorato il secondo nei suoi anni trascorsi al Chelsea), Bakary Konè, Cyril Domoraud, Guy Demel ed Emmanuel Ebouè. Quest’ultimo un laterale destro dalle grandi capacità, compagno di squadra al Beveren di Kolo Tourè, vincitore di una coppa d’Inghilterra con l’Arsenal e di sette titoli in Turchia col Galatasaray. Attualmente la Costa d’Avorio non vive il suo miglior momento (lo abbiamo detto, è al 67° posto nella graduatoria Fifa), nonostante talenti assoluti come i nostri Gervinho e Kessie. Il tutto è dovuto, dopo il trionfo del 2015, a recenti delusioni: l’eliminazione dalla coppa d’Africa edizione 2017 (già al primo turno), e quella nelle qualificazioni ai mondiali di Russia 2018, entrambe ad opera del Marocco. In chiusura, i precedenti con la nostra Nazionale: l’Italia ha disputato appena due partite contro la Costa d’Avorio, entrambe amichevoli, non riuscendo mai a vincere: un pareggio per 1-1 il 16 novembre 2005 con gol di Drogba ed Aimo Diana, una sconfitta il 10 agosto 2010, nella prima uscita della nazionale di Cesare Prandelli. Gol al 55’ di Kolo Tourè. Come dire: sembra facile...
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reportage JUVENTUS under 23 di Fabrizio Ponciroli
IL BELLO DELL’U23 La Juventus crede ciecamente nel progetto “Seconda squadra” e ne ha tutte le ragioni…
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avanti al progetto delle “Squadre B”, proposto dalla FIGC la scorsa estate, la Juventus non si è fatta trovare impreparata. In tempi brevissimi, la società bianconera, sempre con un occhio al futuro, ha strutturato la sua personalissima “Seconda squadra”. Unico club del massimo campionato italiano ad aver aderito al progetto, è visto con grande interesse dalle altre realtà del calcio italiano, pronte a seguire le orme della Vecchia Signora. Ci siamo recati a Vinovo, centro bianconero dove si allena la squadra U23 bianconera, per toccare con mano la bontà dell’operazione “squadra B”. Il regolamento è chiaro. Come da comunicato della stessa FIGC, si evince come “… le Seconde squadre potranno inserire nella distinta di gara 23 calciatori, di cui 19 calciatori nati dal 1 gennaio 1996. Almeno 16 calciatori inseriti nella distinta di gara dovranno essere stati tesserati in una società di calcio affiliata alla FIGC per almeno sette stagioni sportive”. Inoltre, “nell’ipotesi in cui un calciatore raggiungesse le cinque presenze nel campionato disputato dalla prima squadra, non potrà essere utilizzato nel campionato disputato dalla Seconda squadra”. Inserita nel campionato di Serie C, la “Seconda squadra” bianconera è, di fatto, una grande opportunità per tutti quei giovani, sotto contratto con la Juventus, per mettersi in mostra e non continuare a vivere di continui e logoranti prestiti. L’obiettivo finale della società bianconera è dare ai propri giovani una chance concreta di migliorarsi e,
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reportage JUVENTUS under 23 perché no, regalare qualche elemento interessante alla Prima squadra guidata da Mister Allegri. Appunto, la Prima squadra. Per i giovani dell’U23, il solo allenarsi con gente come Cristiano Ronaldo, Dybala, Chiellini è un privilegio, oltre che una possibilità di migliorarsi ulteriormente. Certo, i risultati conseguiti dalla squadra nel torneo di Serie C sono importanti ma, ancor di più, ciò che
CRISTIAN BUNINO
professione............... attaccante nato a......................... Pinerolo (TO) il ................................ 27/08/1996 maglia numero ......... 9 Dopo aver viaggiato in lungo e in largo, giocando, in prestito, a Livorno, Siena, Alessandria e Pescara, il giovane bomber si gioca le sue carte con l’U23 bianconera… Partiamo dalla maglia che indossi… “Sono arrivato alla Juventus a 14 anni. Dopo tanti prestiti, sono finalmente tornato alla Juventus e ora faccio parte di questo bellissimo progetto che è l’U23. Indossare questa maglia è sempre un onore, a prescindere che sia Prima o Seconda Squadra”. Quindi ti ha esaltato subito l’idea di giocare per la Seconda squadra bianconera? “Assolutamente sì. Ho accettato immediatamente anche perché, essendo la prima U23 di sempre, verrà ricordata. Credo che sia un’occasione davvero d’oro”.
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conta veramente è il progetto in sé, ossia la valorizzazione dei tanti giovani alle dipendenze della Vecchia Signora, finalmente tutti sotto lo stesso tetto. Ci siamo confrontati con tre giocatori che fanno parte dell’U23 bianconera, per saperne di più di questa affascinante realtà che stanno vivendo in prima persona, provando a scoprire anche i loro sogni più intimi…
Inoltre, grazie all’U23, può capitare di allenarsi con la Prima squadra? “Quando ti alleni con loro, ti senti in paradiso. Sono tutti dei campionissimi. Ti dà l’opportunità di vedere all’opera dei giocatori di categoria top. Sai, vedere allenarsi uno come Cristiano Ronaldo, sempre sul pezzo, ti stimola a fare sempre meglio”. Come si svolge una tua giornata tipo? “Dipende se abbiamo doppia seduta o meno. Facciamo palestra, pranziamo anche qui. Diciamo che passiamo buona parte della giornata masticando calcio, come è giusto che sia”. Che sogni hai nel cassetto? “Credo che il sogno di chiunque di noi sia quello di arrivare a giocare in Serie A, anche se sappiamo che il percorso è decisamente lungo”. Hai già girato tanto, come mai un giovane italiano fatica così tanto a trovare spazio? “Direi che, negli ultimi anni, c’è un po’ più spazio per i giovani italiani. A Pescara, dove sono stato in prestito, ho visto tanti giovani e si riusciva anche ad avere delle possibilità. Sai, quando esci dalla Primavera, non sei ancora pronto. Magari lo sei tecnicamente ma non fisicamente e quindi è complicato trovare spazio. Questo progetto della Seconda squadra credo che aiuterà molto i ragazzi appena usciti dalla Primavera”. Tre bianconeri che metteresti nella tua squadra ideale per una partita virtuale… “Chiellini, Cristiano Ronaldo e Douglas Costa”.
L’ESEMPIO SPAGNOLO Il concetto di “Seconda squadra” è ben noto in Spagna. Tantissimi i club della Liga che hanno le cosiddette “Filial”, ossia la squadra riserve. Real Madrid Castilla e Barcelona B rappresentano il gotha delle squadre riserve della Liga. Tantissimi i futuri campioni che si sono fatti le ossa nelle “Filial” delle due massime società calcistiche iberiche. Si sono fatti la giusta esperienza nel Real Madrid Castilla giocatori del calibro di Casillas, Guti, Morata e Raul, tanto per citarne solo alcuni. In panchina, hanno allenato i “ragazzi” futuri fenomeni come Zidane e Benitez. Spostando l’attenzione sul Barcelona B, basti ricordare che un certo Messi ha militato nella “Seconda Squadra” blaugrana, al pari di gente come Xavi, Iniesta, Busquets, Thiago Alcantara e tanti altri. Pure a livello di allenatori, non andiamo male. Guardiola ha allenato il Barcelona B nella stagione 2007/08, sostituito, l’anno seguente, da Luis Enrique, per tre stagioni alla guida della squadra riserve. Insomma, la “Seconda squadra” funziona, l’importante è credere, ciecamente, nel progetto, proprio come ha fatto, in maniera lungimirante, la Juventus.
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reportage JUVENTUS under 23 LUCA COCCOLO
professione.................. DIFENSORE nato a ........................... CIRIÉ (TO) il ................................... 23/02/1998 maglia numero ............ 24 Difensore centrale di grande prospettiva, a soli 20 anni si sente pronto per fare un ulteriore salto di qualità. L’U23 è quello che cercava per mettersi in gioco alla grande… Dopo un anno lontano dal bianconero, sei tornato all’ovile… “Ho fatto tutte le giovanili alla Juventus e, lo scorso anno, ho giocato per sei mesi al
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Prato e altrettanti al Perugia. Non è facile giocare in prestito, soprattutto quando sei così giovane. L’U23 rappresenta una grande opportunità di crescita, di giocare con continuità e questo è importantissimo per chi è giovane. A tutto questo, bisogna aggiungere il blasone che rappresenta la Juventus”. Parli di blasone, lo hai notato affrontando la Serie C, un torneo decisamente complicato… “Incontriamo squadre molto motivate, con tanta cattiveria agonistica. Sono tutte squadre esperte e navigate. In questo noi siamo un passo indietro ma è comunque importante per la nostra crescita professionale. Diciamo che, per loro, è una gara diversa da tutte le altre. Tu rappresenti la Juventus”. Hai già fatto un lungo percorso, per quale obiettivo finale? “Beh, il sogno è quello di giocare in Serie A, non ci sono dubbi”. Che idea ti sei fatto sui giovani italiani nel calcio d’oggi? “Un giovane italiano, in una squadra esperta, se sbaglia, spesso viene messo da parte e si preferisce poi puntare su giocatori con maggior esperienza e questo è un problema per il giovane che dovrebbe avere la possibilità di sbagliare e imparare dai propri errori. Se, al primo sbaglio, sei subito scartato, tutto si complica”. Vale solo per i giovani italiani o anche stranieri? “Forse il giovane straniero, magari quello che arriva da un grande club, viene ritenuto più pronto e, quindi, ha più possibilità”. Tre bianconeri che metteresti nella tua squadra ideale per una partita virtuale… “Chiellini, Cristiano Ronaldo e Pjanic”.
SIMONE MURATORE
Professione.............CENTROCAMPISTA nato a.......................CUNEO il..............................30/05/1998 maglia numero........5 Da sempre alla Juventus, qualche infortunio alle spalle ma una determinazione assoluta. Il sogno è di esordire con la maglia della Prima squadra, facendo benissimo con l’U23… A differenza di tanti tuoi compagni, tu sei un veterano della Juventus… “Sì, sono qui da 7/8 anni, non sono mai andato in prestito. Sono sempre stato fedele alla Juventus, gli altri mi vedono un po’ come se fossi lo zio del gruppo… Per me la maglia della Juventus è una sorta di seconda pelle”. Che idea ti sei fatto di questo nuovo progetto U23? “Una grande opportunità per tutti noi giovani. Ti permette di crescere nell’ambiente Juventus, allenandoti con i campioni della Prima squadra. Non ti perdi in giro e, allo stesso tempo, sei sempre sotto i riflettori perché stai indossando la maglia della Juventus”. Allenarsi con la Prima squadra deve essere fantastico… Come vi trattano quelli “del piano di sopra”? “Beh, allenarsi con loro è una sensazione fantastica. Ci trattano tutti molto bene, ci aiutano tanto a crescere. Quello che forse ci dà più consigli è Chiellini. Anche i sudamericani sono sempre pronti a dare una mano”. E ti puoi vedere, da vicino, un certo Cristia-
no Ronaldo… “La prima volta che l’ho visto da vicino, pensavo non fosse vero… Incredibile”. Tutti dicono che, contro di voi, gli avversari si impegnano di più… “Guarda, è sempre stato così. Io, da quando gioco qui, ho sempre notato che gli avversari, contro questa maglia bianconera, danno sempre il massimo. Mi capitava già quando ero un bambino. È normale alla Juventus”. Perché, per i giovani italiani, è così difficile imporsi nel calcio che conta? “Sicuramente si pensa che, chi arriva dall’estero, sia più forte e già pronto ma credo che, anche in Italia, ci siano tanti giovani che potrebbero tranquillamente giocare e dare il proprio contributo. Con questo progetto, la Juventus ci ha dato una chance di dimostrare il nostro valore”. Qual è il sogno di Simone Muratore? “Il mio obiettivo è restare qui e raggiungere i massimi livelli con questa maglia. Sogno di esordire con questa maglia. È il mio sogno da quando sono un bambino”. Tre bianconeri che metteresti nella tua squadra ideale per una partita virtuale… “Chiellini, Cristiano Ronaldo e Bentancur che, seppur giovane, sta facendo benissimo”.
Tre giovani con la stessa, viscerale, passione per il pallone. Ognuno con la sua personalità e le sue qualità, sia tecniche che umane. Tutti fanno parte, con grande orgoglio, del progetto bianconero U23, ossia la loro occasione per dimostrare di essere giocatori veri, da grandi palcoscenici. Quando hai 20 anni, i sogni sono il motore di ogni giornata. Cristian, Luca e Simone, ogni giorno, si alzano con un solo pensiero in mente: fare del loro meglio per onorare la maglia bianconera e continuare il loro percorso di crescita. La Serie A è la meta di un viaggio che hanno iniziato tanti anni fa e che, grazie all’U23, vedono decisamente più vicino…
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i s u l c s e a t intervis Lorenzo Ariaudo di Sergio Stanco
Uno sguardo dal cielo Intervista al difensore Lorenzo Ariaudo, prodotto del settore giovanile della Juve e ora colonna della retroguardia del Frosinone.
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el settore giovanile della Juve Lorenzo Ariaudo era considerato un predestinato, uno dei migliori giovani in circolazione, uno che sarebbe diventato – da lì a poco - la colonna della difesa della Nazionale. Dopo l’azzurro dell’Under 21, però, la strada si è fatta un po’ tortuosa. Dopo tanto girovagare, a Frosinone ha trovato l’ambiente ideale e ritrovato finalmente la Serie A: la “rinascita”, però, non è ancora completa, perché c’è una salvezza da conquistare e qualche sogno ancora da realizzare: “Non rimpiango nulla di quello che ho fatto in carriera, ognuno ha il suo percorso, ho solo il rammarico di essermi fatto male dopo tre giorni che mi ero trasferito al Genoa (stagione 2015/2016, n.d.r.). Era una bella occasione. In ogni caso, ho ancora tanti obiettivi da raggiungere, anche se preferisco tenermeli per me (sorride, n.d.r.)”. E quando saranno raggiunti, ne siamo certi, scorreranno fiumi di champagne anche in Paradiso… Tutta la trafila della Juve: cosa ti ha lasciato la “scuola” bianconera? “Innanzitutto un grande ricordo, sono stati anni bellissimi. E, poi, tanti insegnamenti. Ricordo una frase che ripetevano spesso: il nostro compito è quello di formare uomini prima che calciatori. In effetti è proprio questa la loro filosofia ed è anche giusto che sia così, perché in Serie A ne arriva uno su un milione, ma tutti diventiamo adulti”..
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esc intervista Lorenzo Ariaudo
Dei tuoi ex compagni delle giovanili, in pochi, pochissimi sono arrivati a giocare in Serie A: sorpreso? Su chi avresti scommesso ai tempi e chi ti ha sorpreso? “Giovinco e Marchisio si vedeva che avevano un grandissimo potenziale, ma hanno qualche anno in più di me. Degli ’89, in effetti, non sono in molti ad aver fatto strada, forse solo io gioco attualmente in A. A parte Iago Falque ed Ekdal, che però sono stati inseriti dopo, c’è anche Marrone in B. Eppure avevamo una Primavera fortissima. Ricordo che nelle giovanili avevo un compagno fortissimo, era davvero un fenomeno, ne parlavano tutti e invece ha smesso subito, non è arrivato nemmeno in Primavera. A quei livelli se non hai la testa non vai da nessuna parte”. Oggi ci sono le squadre B: secondo te possono aiutare i ragazzi a non perdersi per strada? “Non saprei, non sono ancora riuscito a farmi un’idea chiara, perché è vero che una volta uscito dalla Primavera sei un po’ perso, ma sono anche quelle le esperienze che ti formano come uomo e come calciatore. Sono le “musate” che prendi, come le chiamo io, a farti crescere in fretta”. Come arrivi al settore giovanile della Juve? “Da piccolo giocavo attaccante, il mio idolo era Ronaldo il fenomeno e davanti ci sapevo anche fare. In una stagione faccio 54 gol, così mi notano sia Juve che Torino: faccio i provini e li passo entrambi. Scelgo la Juve e da lì comincia tutto”. Da attaccante a difensore centrale: una bella metamorfosi… “Nel settore giovanile della Juve mi arretrano prima a centrocampo, poi mi trasformano in terzino e infine in Primavera scalo al centro della difesa. Con il tempo, e i vari spostamenti, inevitabilmente i miei punti di riferimento sono cambiati e ho cominciato ad apprezzare sia il ruolo, sia giocatori come Nesta e Cannavaro”. Ci racconti l’esordio in Serie A? Come l’hai
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saputo, quali emozioni… “Avevo 19 anni e c’erano stati diversi infortuni in difesa. In settimana avevo già giocato in Coppa Italia contro il Catania ed era andata bene (3-0 per la Juve, n.d.r.). La domenica avremmo dovuto giocare contro la Lazio, ma sinceramente non credevo di scendere in campo, almeno non dal primo minuto. Invece il mister (Ranieri, n.d.r.) dà la formazione e sono tra i titolari. Lì per lì non ho realizzato, forse l’incoscienza della gioventù, vivi tutto con più serenità e meno pressioni, di certo è un momento che porterò sempre con me. Anche perché alla fine la partita andò bene, abbiamo pareggiato 1-1 all’Olimpico e giocai anche una buona partita, senza commettere errori, che era già tanto…”. In quella Juve c’era gente come Buffon, Del Piero, Camoranesi, Trezeguet, Nedved… “Sì, era una squadra piena di campioni, gente
è cresciuto nelle giovanili della Juventus
che dà l’esempio con l’atteggiamento e non spreca tante parole. Però tutti hanno cercato di incoraggiarmi prima della partita. Ricordo molto bene cosa mi disse il portoghese Tiago nel tunnel degli spogliatoi: “Sai qual è la differenza tra giocare in prima squadra e in Primavera? Nessuna, fai quello che sai e vedrai che andrà tutto bene”. Devo dire che ero abbastanza tranquillo, ma quella frase mi fece effetto e sono sceso in campo senza troppa pressione. Ancora oggi quando ricordo quel momento mi vengono i brividi”. C’era anche un Chiellini 25enne in quella Juve: che effetto ti fa rivederlo oggi capitano in bianconero e nazionale? “Non avevo dubbi che sarebbe diventato un grandissimo, perché aveva una tenacia e una professionalità fuori dall’ordinario. Magari non è “elegante”, e questo forse lo penalizza un po’ nella considerazione generale, ma credo che un difensore debba essere innanzitutto efficace. E Chiellini è l’efficacia fatta a difensore. È fortissimo, uno dei migliori al mondo senza discussione e gliel’ho ribadito di persona anche di recente quando ci siamo affrontati. E, poi, è anche un bravissimo ragazzo: ogni tanto ci sentiamo, siamo rimasti amici. Persona splendida”. Questa Juve è davvero imbattibile in Italia come tutti dicono? E la vedi favorita anche per la Champions? “Credo che pratichi un altro sport rispetto alle avversarie, almeno in Italia. Dà proprio la sensazione di essere cresciuta in personalità, nel gestire le partite. D’altronde, non è solo Cristiano Ronaldo, che comunque aiuta parecchio (sorride, n.d.r.), è che anno dopo anno tutta la squadra ha alzato il livello e ogni stagione arrivava qualcuno nuovo che aggiungeva un mattoncino. Con Ronaldo sono arrivati al top, perché al di là di quello che fa in campo, si vede proprio che trascina i compagni con la sua disponibilità al sacrificio e la sua voglia. Ronaldo non fa tutto, ma fa tanto. In questi anni ho guardato spesso
Gioca con il Frosinone dal 2016, qui va in rete contro la Pro Vercelli
le partite della Juve, ma non le ho mai visto fare una gara come quella che hanno disputato ad Old Trafford contro il Manchester United. In quel momento ho avuto la netta sensazione che fosse realmente cambiato qualcosa”. Tornando a te, quattro anni a Cagliari, l’esperienza più lunga in carriera: come li hai vissuti? “Molto bene, li ricordo con grandissimo piacere, è stato un periodo fantastico, è una piazza a cui sono ancora molto legato. A Cagliari e in Sardegna ho lasciato tanti amici, che ancora oggi sento e che appena posso cerco di andare a trovare. Anche all’interno della squadra si era creato un bel gruppo, con molti sono ancora in contatto”. A Cagliari hai avuto modo di giocare e vivere la quotidianità con Davide Astori: che rapporto avevi con lui? “Un bellissimo rapporto, lo consideravo un fratello maggiore. Davide è la persona che più mi ha aiutato in quel periodo, perché per me era la prima esperienza fuori casa e lui mi ha guidato: mi ha accolto, mi ha insegnato tanto in campo e fuori, a volte dormivo addirittura a casa sua, eravamo davvero molto legati. Al punto che spesso ci confondevano, perché eravamo sempre assieme e ci assomigliavamo come fossimo davvero fratelli. Pensa che, una volta, quando già giocavo a
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Ariaudo ha un grande feeling con l’azzurro
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esc intervista Lorenzo Ariaudo
Sassuolo, un tifoso mi ha chiamato Astori, quando gliel’ho raccontato non smettevamo più di ridere…”. Qual è il più bel ricordo che ti lega a lui? E l’insegnamento che ti ha lasciato che porterai sempre con te? “Sono molti, perché come detto abbiamo condiviso tanti bei momenti insieme. Quello che non dimenticherò mai è il suo esempio: mi ha insegnato a prendere di petto i problemi e non a lasciare andare sempre. Per indole, era uno che cercava di appianare le cose e spesso ci riusciva senza dover imporsi, ma col dialogo. Poi, se c’era bisogno, prendeva posizioni anche nette, come doveva fare un vero capitano. In generale, però, era sempre pronto a sdrammatizzare. Quello che mi porterò dentro è il suo sorriso, quello che aveva sempre stampato sul volto”. In che cosa o quando Davide è ancora presente nella tua vita? “Lui ci sarà sempre nella mia quotidianità, perché non so in che modo, ma so per certo che è sempre qui con noi. Guarda, sembra destino, ma secondo me non è casuale: proprio stamattina mi sono messo una giacca che non usavo da un po’ e nella tasca ho trovato una di quelle immaginette con la sua foto che si usano nelle messe di ricordo che ogni tanto facciamo. E ora siamo qui a parlare di lui: io lo so che lui sarà sempre al mio fianco, lo sento”. Sei riuscito a darti una spiegazione? “No, è impossibile e secondo me non farebbe altro che aumentare il dolore. La sua perdita ci ha colpiti tutti, a tutti noi manca. Pensa che avevamo un gruppo whatsapp con i vecchi compagni del Cagliari, da quando è venuto a mancare Davide non ci scrive più nessuno. È ancora forte il dolore per la sua perdita, perché so che può sembrare retorica, spesso lo si dice di tutte le persone scomparse, ma Davide era davvero una splendida persona. Quando abbiamo giocato a Firenze, devo ammettere che mi sono emoziona-
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Ariaudo ha un grande feeling con l’azzurro
LA Carriera di ARIAUDO Stagione Squadra Totale Pres Reti 2008-2009 2009-gen. 2010 gen.-giu. 2010 2010-2011 2011-2012 2012-2013 2013-gen. 2014 gen.-giu. 2014 2014-gen. 2015 gen.-giu. 2015 2015-feb. 2016 feb.-giu.2016 2016-2017 2017-2018 2018-2019
Juventus Juventus Cagliari Cagliari Cagliari Cagliari Cagliari Sassuolo Sassuolo Genoa Sassuolo Empoli Frosinone Frosinone Frosinone
* Aggiornate al 30/11/2018
6 0 0 0 9 0 17 0 26 1 17 0 4 0 12 0 3 0 0 0 5 0 5 0 38 4 36 1 6 0
to molto nel vedere striscioni e bandiere in suo onore. Sono contento che abbia lasciato un bel ricordo anche lì, ma non avevo dubbi, perché era davvero speciale”. Voltiamo pagina: Sassuolo, Genoa, Empoli, ma è a Frosinone che hai trovato la tua dimensione. Cosa è cambiato? “Sì, è vero, qui ho trovato continuità e l’ambiente ideale per me. Qui sono cresciuto come calciatore e soprattutto come uomo: ho messo a frutto le lezioni della vita, ho fatto tesoro degli errori commessi e anche degli episodi sfortunati che mi sono capitati, come gli infortuni. Sono maturato, diciamo, ora mi sento molto bene e non ho nessuna intenzione di fermarmi…”. Che emozione è stata la promozione in A? Come l’hai festeggiata? “Purtroppo non siamo nemmeno riusciti a festeggiarla, perché non siamo riusciti ad organizzare nulla. Per scaramanzia non volevamo preparare nulla prima e dopo non ce l’abbiamo fatta perché tanti partivano per le vacanze. Abbiamo comunque festeggiato in campo con i nostri tifosi e tra di noi negli spogliatoi ed è stata lo stesso una delle emozioni più belle della mia carriera, qualcosa di indimenticabile, anche perché l’anno precedente l’avevamo sfiorata e ci era sfuggita, la tensione era dunque altissima e l’abbiamo sfogata tutta (ride, n.d.r.)”. Un inizio inevitabilmente complicato quest’an-
In azione contro l’Inter, c’è da fermare Icardi
no: come hai ritrovato la A? “Difficile, come me la ricordavo. Un campionato che - purtroppo per noi - non ti perdona alcun errore. E noi - inevitabilmente - abbiamo avuto bisogno di tempo per ingranare, perché dovevamo inserire tanti giocatori nuovi. Dopo un po’, però, abbiamo cominciato a trovare le misure e gli ultimi risultati lo dimostrano. Dobbiamo cercare di continuare così, cercando di crescere rapidamente”. Chi ti ha sorpreso dei tuoi nuovi compagni? “Pinamonti: se ne parlava un gran bene, ma mi ha colpito dal punto di vista della personalità, oltre che per le sue qualità tecniche. E poi è davvero un bravo ragazzo, uno di quelli a cui puoi solo augurare di fare una grandissima carriera, perché se la merita”. Al di là di come sia andata a finire, forse si è parlato troppo poco dei meriti di Mister Longo, protagonista comunque della vostra scalata… “Sono d’accordo, il mister è un grandissimo lavoratore, ha idee precise e riesce a trasmetterle alla squadra. Credo che sia uno dei tecnici emergenti da tenere in grande considerazione per il futuro”. Perché i tifosi del Frosinone devono essere ottimisti per la salvezza? “Perché pareggiando contro Fiorentina e Parma, e vincendo a Ferrara contro la Spal, abbiamo dimostrato di potercela giocare contro chiunque. Anche contro l’Inter a San Siro fino alla fine siamo rimasti in partita almeno fino al 60’ e forse anche oltre. Le qualità per fare bene le abbiamo, poi non è detto che ci salveremo, ma di sicuro non smetteremo mai di lottare”. Un fioretto o una dedica speciale in caso di salvezza? “Potrei dirti che mi faccio biondo, ma forse è meglio di no, sarei inguardabile (ride, n.d.r.). La dedica è più facile: a mia moglie e alla mia famiglia che mi sostengono sempre. E, poi, a qualcuno che - da lassù - mi aiuta ancora…”.
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IO C L A C I D E I STOR Maledetti rigori di Luca Gandini
IL DESTINO IN 11 METRI Quei fatidici 11 passi che separano la disperazione dalla felicitĂ .
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l ricorso ai tiri di rigore per determinare la squadra vincente in un incontro di calcio nacque come una sorta di extrema ratio che andasse a sostituire nel modo piÚ sportivo e spettacolare possibile l’ormai obsoleta e ingiusta regola del sorteggio. Per anni, infatti, se una sfida a eliminazione diretta rimaneva bloccata sul risultato di parità anche dopo la disputa dei tempi supplementari, toccava al lancio della monetina stabilire quale squadra dovesse continuare la competizione e quale essere eliminata. Casi famosi avevano interessato direttamente anche le formazioni italiane. La Roma, in semifinale di Coppa delle Coppe 1969/70, aveva dovuto cedere il passo ai polacchi del Górnik Zabrze a causa di un
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Maledetti rigori sorteggio beffardo; stessa sorte aveva tradito anche il Milan a vantaggio del Chelsea negli ottavi di finale di Coppa delle Fiere 1965/66 e il Bologna a vantaggio dell’Anderlecht nel primo turno di Coppa dei Campioni 1964/65. Una benedetta monetina aveva invece premiato l’Italia nella semifinale del Campionato Europeo 1968, quando fummo noi a spuntarla sull’Unione Sovietica al “San Paolo” di Napoli forse anche grazie all’intercessione di... San Gennaro. Era però una regola che andava cambiata. Mesi di impegno e sacrifici, anche economici, non potevano essere mandati in fumo da una monetina che cadeva dalla parte sbagliata. Così, il 27 giugno 1970, dopo settimane di attente e approfondite valutazioni, l’International Football Association Board (l’organismo incaricato di modificare i regolamenti del gioco del calcio), mise nero su bianco la nuova formula che affidava ai tiri di rigore il compito di stabilire la formazione vincente in caso di parità. Cinque tentativi per squadra e poi, eventualmente, avanti ad oltranza fino a quando una delle duellanti non cade ai piedi dell’altra. Solo l’abilità tecnica e i nervi saldi di portieri e rigoristi avrebbero di lì in avanti fatto la differenza. Non tutti apprezzarono e apprezzano questa soluzione, ma qualsiasi formula, anche la più criticabile, è di gran lunga migliore di quella affidata al potere della sorte. DISCHETTO O SCHERZETTO? Anche perché, da quando esistono, i rigori hanno scandito momenti importanti, addirittura indimenticabili, nella storia del gioco più bello del mondo. Debuttarono a livello internazionale nella stagione 1970/71, ma abbiamo dovuto attendere fino al Campionato Europeo del 1976 per gustarci una finale decisa dal dischetto, quando la sorprendente Cecoslovacchia sgambettò i campioni del mondo della Germania Ovest grazie a una maggiore precisione dagli 11 metri. Proprio in quell’occasione passò alla storia il “cuc-
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Anche un super rigorista come Roby Baggio ha avuto qualche problema dagli 11 metri
chiaio” del ceco Antonín Panenka, ovvero la celebre e rischiosa esecuzione con il “tocco sotto” poi imitata da decine di altri rigoristi in tutto il mondo. I tedeschi, scottati dall’esperienza, furono bravi a imparare la lezione, tant’è vero che da quel momento in poi, nelle sei occasioni ufficiali in cui hanno dovuto affrontare un duello dal dischetto, sono sempre usciti vincitori. L’ultima volta ai quarti di finale di Euro 2016, ahinoi ai danni dell’Italia. Curioso poi notare quanto i rigori abbiano portato bene alla Nazionale del Cile, visto che gli unici due titoli vinti dai sudamericani (la Coppa America 2015 e la Coppa America Centenario 2016) sono arrivati proprio grazie ai tiri dal dischetto e, entrambe le volte, al termine di due finali pareggiate 0-0 contro l’Argentina di Lionel Messi. Due Nazionali che hanno un rapporto storicamente difficile con i “penal-
ties” sono invece l’Inghilterra e l’Olanda. È vero: gli inglesi hanno superato la Colombia al recente Mondiale in Russia, ma per ben sei occasioni in precedenza avevano buttato tutto alle ortiche nella lotteria dal dischetto. Come dimenticare la beffa dell’Europeo 1996, quando a “Wembley” fu un errore del difensore Gareth Southgate (l’attuale c.t.) a consegnare la vittoria alla Germania in semifinale; Germania che, ironia della sorte, sempre in semifinale e sempre dagli 11 metri, aveva fatto fuori l’Inghilterra pure dal Mondiale di Italia ‘90. Non andò bene, ai sudditi di Sua Maestà, nemmeno all’Europeo del 2012 (eliminati ai quarti dall’Italia di Cesare Prandelli) e al Mondiale del 1998 (beffati agli ottavi dall’Argentina), mentre fu il Portogallo di Cristiano Ronaldo a infrangere i sogni inglesi ai quarti di finale sia all’Europeo del 2004 che al Mondiale del 2006. Se questa non è una maledizione, poco ci manca. Anche l’Olanda visse la dolorosa esperienza dell’eliminazione ai rigori in semifinale nell’Europeo di casa. Era il 2000 quando l’Italia di un insuperabile Fran-
cesco Toldo e di un Francesco Totti in versione “cucchiaio” ebbe la meglio sulla Nazionale allenata da Frank Rijkaard. Rigori fatali ai Tulipani anche al Mondiale di Francia ‘98 (in semifinale la spuntò il Brasile) e a quello di Brasile ‘14 (ancora in semifinale, ma contro l’Argentina), per non parlare dell’Europeo del 1992, quando un errore di Marco van Basten mandò in finale la Danimarca, e di quello del 1996, con l’eliminazione decretata ai quarti dalla Francia di Zinédine Zidane. UN DISCHETTO PER L’ESTATE Epica e agrodolce, la saga che lega i tiri di rigore alla Nazionale italiana. Tutti noi ricordiamo con infinito rimpianto le tre consecutive eliminazioni mondiali degli anni ‘90: prima la semifinale buttata al vento a Napoli contro l’Argentina di Diego Maradona, poi la sconfitta in finale a Pasadena, con gli affranti Roberto Baggio e Franco Baresi ad osservare impotenti il tripudio dei brasiliani, infine l’altrettanto dolorosa eliminazione ai quarti di finale dopo aver tenuto testa fino all’ultimo ai padroni di casa e futuri campioni
Olanda sfortunatissima ai rigori, come nel 2014, contro l’Argentina
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Maledetti rigori
Il rigore di Bonucci in Italia-Germania di Euro 2016
della Francia. Nessuno può però toglierci la gioia più grande, quel 5-3 rifilato proprio ai francesi nell’ultimo atto del Mondiale 2006. Andrea Pirlo, Marco Materazzi, Daniele De Rossi, Alessandro Del Piero e Fabio Grosso infallibili, la clamorosa traversa di David Trezeguet e poi tutti ad abbracciarci e a prenderci la meritata rivincita. Altro memorabile successo fu quello già citato di Euro 2000, in semifinale contro l’Olanda, dopo 120 minuti di sofferenza in un’”Amsterdam Arena” tutta tinta d’arancione. Grande anche la soddisfazione per il quarto di finale superato a spese dell’Inghilterra a Euro 2012, con il “cucchiaio” di Andrea Pirlo ad irridere Joe Hart; lo stesso “cucchiaio” con cui Antonio Candreva beffò Iker Casillas nel duello con la Spagna in semifinale di Confederations Cup nel 2013, peccato che poi a prevalere furono le Furie Rosse. Spagnoli spietati anche nel quarto di finale di Euro 2008: il successo sull’Italia di
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Roberto Donadoni coincise con l’inizio della loro strepitosa epopea. Non ci sorrise neppure la maratona dagli 11 metri contro la Germania nel quarto di finale di Euro 2016. Loro sbagliarono tre volte, noi, purtroppo, quattro, e così in semifinale volarono Manuel Neuer e compagni. TRA GIOIE E DOLORI Anche a livello di club il nostro percorso è lastricato di gioie e dolori. Nel 1996/97 l’Inter perse a “San Siro” una finale di Coppa UEFA cedendo ai rigori ai tedeschi dello Schalke 04. Ancora più drammatica la sconfitta patita dalla Roma nell’ultimo atto della Coppa dei Campioni 1983/84. La danza irridente del portiere del Liverpool Bruce Grobbelaar ad ipnotizzare Bruno Conti e Ciccio Graziani, l’”Ottavo Re di Roma” Paulo Roberto Falcão che si rifiutò di calciare il suo penalty e il silenzio assordante dell’Olimpico mentre gli in-
glesi alzavano la Coppa, furono l’emblema di un incubo che ancora oggi perseguita i sonni dei tifosi giallorossi. A proposito di Liverpool, anche il Milan ai rigori ha dovuto inchinarsi alla legge dei Reds. Parliamo ovviamente della finale di Champions League 2004/05 ad Istanbul, una gara che i rossoneri avevano in pugno (3-0 dopo i primi 45 minuti), e poi finita nel modo che tutti sappiamo, con i miracoli del portiere polacco Jerzy Dudek. Stregata, per il Diavolo, anche la Coppa Intercontinentale 2003. A Yokohama si imposero gli argentini del Boca Juniors, bravi ad approfittare degli errori di Andrea Pirlo, Clarence Seedorf e Billy Costacurta. Solo pochi mesi prima, però, all’Old Trafford, il Milan aveva vinto la sua sesta Coppa dei Campioni dopo un epico duello tutto italiano con la Juventus. Il prodigioso Dida, uno tra i più celebri pararigori dei tempi moderni, chiuse la porta ai bianconeri David Trezeguet, Marcelo Zalayeta e Paolo Montero; dall’altra parte Gigi Buffon fece lo stesso con Clarence Seedorf e Kakha Kaladze, ma nulla poté con Serginho, Alessandro Nesta e Andriy Shevchenko, e così la Champions si colorò di rossonero. La Juventus aveva però in precedenza conquistato due titoli internazionali proprio dagli 11 metri. Il primo nel 1985, la Coppa Intercontinentale vinta a Tokyo a spese dell’Argentinos Juniors grazie alle prodezze di Stefano Tacconi; il secondo nella stagione 1995/96, quella memorabile Champions League strappata all’Ajax all’Olimpico di Roma. Una sfida rimasta in bilico per 120 minuti prima che la solita battaglia dal dischetto emettesse il verdetto definitivo. Angelo Peruzzi implacabile nel neutralizzare due tentativi olandesi mentre i compagni spedivano alle spalle di Edwin van der Sar uno dopo l’altro i quattro palloni del trionfo. Maledetti o benedetti rigori: sarete anche più giusti e sportivi del lancio della monetina, ma ripensando ai brividi di certe sfide vien da domandarsi chi mai ce l’abbia fatto fare di appassionarci a questo vecchio, pazzo, imprevedibile sport. Totti si è sempre preso tante responsabilità dagli 11 metri, anche nel 2006
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io c l a c i d e i Stor Ennerre
di Gianfranco Giordano
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L’EPOPEA DELLA ENNERRE Per chi ama il calcio nostalgico, un marchio che ha fatto la storia della Serie A…
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ella seconda metà degli anni ‘70, comincia a comparire sulle maglie delle squadre di calcio italiane un marchio che farà la storia dell’abbigliamento sportivo e diventerà un fenomeno di costume. Sono gli anni dell’Arancia Meccanica olandese e del calcio a zona che si diffonde anche in Italia, di una generazione di giovani calciatori che presto esprimerà un gioco spettacolare in Argentina prima di vincere il mondiale in Spagna. Gli stadi sono sempre gremiti, a dispetto di chi chiede impianti comodi come teatri, televisioni e procuratori non reggono le fila del gioco, esistono ancora le autoreti e il calcio ha un volto umano. Sono anche gli anni in cui comincia a diffondersi l’idea di realizzare maglie personalizzate per le squadre di calcio, idea germogliata in Inghilterra e arrivata presto in Italia. Fino a questo momento le squadre pagavano le forniture di materiale rivolgendosi a fornitori locali, spesso comprando grandi quantitativi per spuntare un prezzo migliore, anche quando le maglie erano firmate, difficilmente si trattava direttamente con il produttore. Nel 1972 un calciatore an-
cora giovane (Rondinella, Arezzo, Marsala, Ascoli, Vicenza, Cavese, Stabia e Pescara in ordine sparso le tappe della sua carriera) si rende conto che giocando a calcio in Serie C non si riesce a vivere, così abbandona le scarpe bullonate e decide di intraprendere un’attività imprenditoriale per soddisfare una sua grande passione: realizzare divise per le squadre di calcio. L’ormai ex calciatore si chiama Nicola Raccuglia, si stabilisce in Abruzzo e comincia a creare, perché le cose belle si creano non si fanno, maglie, pantaloncini e tute. Raccuglia nella sua militanza sui campi aveva capito l’importanza non solo di avere un indumento di gioco comodo ma anche una maglia che potesse appassionare i tifosi, che facesse venire loro la voglia di indossarla. Nasce così la Ennerre, un marchio che nel volgere di pochi anni sarà conosciuto in tutto il mondo, da Pescara a New York passando per Tokyo, prima di scomparire repentinamente. Il 3 luglio 1977 il Pescara ottiene la sua storica prima promozione in Serie A, quel giorno l’ultima partita dello spareggio a tre premiò gli Abruzzesi insieme all’Atalanta. Prima della partita
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tutti gli obiettivi dei fotografi erano puntati sui due capitani, Gianpietro Marchetti e Vincenzo Zucchini (purtroppo scomparso troppo presto), la maglia del Pescara bianca con strisce bluazzurrobianche su maniche e petto attira l’attenzione di tutti gli appassionati. Nel volgere di pochi anni il marchio Ennerre si diffuse a macchia d’olio nel calcio italiano, non esistono statistiche in merito ma si può dire, senza temere di essere smentiti, che negli anni ‘80 tre quarti delle squadre italiane ha indossato questo marchio almeno per una stagione. L’Ennerre arrivò in Serie A la prima volta nella stagione 1975/76 come fornitore della Lazio, in quegli anni il club romano era fornito dal negozio Tuttosport, nulla a che vedere con il giornale, e da questa stagione la Lazio utilizzò divise dei due fornitori. Legame molto forte quello tra la ditta abruzzese e la Lazio, proprio i Biancocelesti vestirono alcune delle maglie più belle create dalla Ennerre a cominciare dalla maglia modello Ajax utilizzata la prima volta l’11 gennaio 1976 a Torino contro i Granata. Il marchio cominciò a diffondersi nel centrosud, Pescara, Napoli, Foggia, Catanzaro, Catania, Ancona e Palermo furono tra le prime squadre ad indossare le divise Ennerre, ma anche al nord Como e Verona vestirono presto la divise abruzzesi. Nel 1980 si aggiunsero altre squadre e cominciò una vera epidemia che toccò tutta Italia da Trieste a Palermo e da Alessandria a Taranto. Tra i grandi club mancarono l’approccio con la Ennerre solo Inter, Juventus e Torino. La Ennerre non offriva denaro per fornire le squadre ma si facevano accordi in base a quantitativi gratuiti di materiale per allenamenti e partite, oltre una certa quantità le squadre pagavano le forniture in eccesso. I tre club citati invece chiedevano già al tempo denaro dai fornitori di abbigliamento sportivo, come succedeva da pochi anni nel nord Europa. All’inizio degli anni ‘80 il calcio in Italia a livello organizzativo era ben lontano dalla
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strutturazione manageriale attuale, le società avevano pochi dipendenti e i contratti di sponsorizzazione, così come i contratti con i giocatori, venivano gestiti direttamente dal presidente o dal general manager, figura nebulosa che in pratica si identificava con il numero due nella scala gerarchica del club. Raccuglia quindi si trovò a trattare direttamente con i vertici del calcio italiano intessendo in particolare ottimi rapporti con Italo Allodi, al tempo probabilmente il dirigente più popolare e potente del calcio italiano, e con lo staff dirigenziale del Napoli, composto da Corrado Ferlaino, Franco Janich e dallo stesso Allodi. Quando arrivò Maradona al Napoli, il club partenopeo vestiva Ennerre già da qualche stagione, l’impatto mediatico ed emotivo del Diez fu devastante tanto che il Napoli non riuscì a stare dietro alle richieste di maglie da parte dei tifosi. Maradona stesso, sempre generoso con tutti, chiese più volte a Raccuglia di avere dei quantitativi di maglie da autografare e regalare ad amici e tifosi, invitandolo spesso a Soccavo ad assistere agli allenamenti e instaurando un rapporto di amicizia. Un altro legame molto stretto si instaurò tra Raccuglia, la Lazio e Giorgio Chinaglia. Oltre a essere fornitrice della Lazio a più riprese, la Ennerre realizzò la “maglia Ajax” e la “maglia bandiera” ovvero due maglie bellissime. In questo periodo Raccuglia conobbe Chinaglia, prima giocatore e successivamente presidente del sodalizio biancoceleste, questo legame introdusse la Ennerre negli Stati Uniti dove si arrivò alla fornitura dei New York Cosmos nel 1985, al tempo una delle squadre più famose del Nord America e non solo. Nel 1982 Raccuglia entrò in società con la famiglia Lazzarini, proprietaria della Pantofola D’Oro, marchio famoso in tutto il mondo per la qualità delle scarpe da calcio. Raccuglia conobbe Emidio Lazzarini negli anni ‘60 quando, calciatore professionista, cominciò ad indossare le sue scarpe da calcio. Più tardi quando
UNo SGUARDO AL CINEMA Negli anni ‘80 il cinema italiano si accorse del calcio, purtroppo a differenza che in Inghilterra o negli Stati Uniti vennero realizzati prodotti di scarso valore artistico con l’ambiente del calcio ridotto a macchietta. Due film in particolare rimangono impressi, per diversi motivi, nella memoria degli appassionati. Nel 1984 Sergio Martino dirige “L’allenatore nel pallone”, attore principale Lino Banfi nei panni di Oronzo Canà, allenatore della Longobarda, come tutti gli altri è un esempio del filone trash italiano ma viene premiato dal pubblico e il modulo 5-5-5 è ricordato ancora oggi da tutti. Di ben altro spessore è “Ultimo minuto” del 1987 con Ugo Tognazzi protagonista e la regia di Pupi Avati, forse l’unico film del genere davvero di Serie A. Un comune denominatore unisce tutti questi film: Nicola Raccuglia. In quegli anni Raccuglia aveva giocato alcune partite con la Nazionale di Calcio Attori, dal 1983 con la Ennerre e successivamente con il marchio Ennedue fornì le divise per le partite benefiche degli attori, questo legame fece sì che divenne naturale per attori e registi rivolgersi a Raccuglia per il materiale in occasione dei film. La Longobarda di Banfi/Canà vestiva Ennerre, Lino Banfi invitò Raccuglia ad assistere ad alcune riprese de “L’allenatore nel pallone”. Le divise per i Biancorossi di Tognazzi erano invece fornite dalla Ennedue.
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STORIE DI c Ennerre
andò a giocare ad Ascoli, stagioni 1964/65 e seguente, si creò un “rapporto meraviglioso di stima reciproca, Emidio Lazzarini per me era come un padre” così lo stesso Raccuglia descrive il legame con Lazzarini. In questo periodo vengono realizzate, in collaborazione con lo studio Marksport di Firenze in cui lavorava anche Furio Valcareggi, figlio dell’indimenticato Ferruccio, delle maglie che fanno la storia del design calcistico. Sono la “maglia bandiera” della Lazio e la maglia della Fiorentina con la fascia orizzontale bianca, senza dimenticare altre maglie davvero originali come quelle di Pescara, Triestina, Catanzaro e Venezia. Nel 1985 ci fu un tentativo di sponsorizzazione della Nazionale italiana, la Ennerre vestì l’Italia per le prime tre partite dell’anno (5 febbraio Irlanda-Italia 1-2, 13 marzo Grecia-Italia 0-0 e 3 aprile Italia-Portogallo 2-0). Il contratto non andò a buon fine e l’Italia vestì Diadora per gli anni successivi, l’Ennerre può comunque vantarsi di essere imbattuta come sponsor tecnico. Nel 1985 muore Emidio Lazzarini e Nicola Raccuglia esce dalla Ennerre vendendo la sua partecipazione nella società, 50 %, alla famiglia Lazzarini. L’anno successivo Raccuglia riparte, rimanendo sempre nel settore dell’abbigliamento sportivo, fondando la Ennedue, marchio che si
UNA PRODUZIONE INFINITA La produzione Ennerre non era destinata solamente al calcio professionistico, si passava dal Napoli campione d’Italia ai campionati aziendali e ai tornei dei bar, tutti indossavano le maglie Ennerre. Una produzione di materiale enorme, tanti modelli per un mondo di colori e abbinamenti, da una comune maglia completamente bianca ai disegni più arditi. Ancora oggi basta digitare Ennerre su Google e si può ammirare un mondo di maglie e di colori, tanti disegni per tutte le esigenze del calcio.
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ritaglierà una fetta di mercato vestendo un numero cospicuo di squadre professionistiche. Oltre che sui campi di calcio il marchio Ennerre si è imposto, sempre negli anni 80, anche sui parquet di pallacanestro vestendo American Eagle Rieti, Banco di Roma, Facar Pescara, Mulat Napoli, Viola Reggio Calabria, La Molisana Campobasso e OTC Livorno. Più o meno in quel periodo avviene una svolta epocale nel settore dell’abbigliamento sportivo, si passa dall’utilizzo di fibre naturali alle fibre sintetiche. Nel nord Europa la maggior parte delle maglie erano realizzate in cotone pesante mentre in Italia andava per la maggiore un tessuto, misto di lana e cotone o sintetico, detto lanetta che rimaneva molto aderente. In entrambi i casi le maglie andavano bene nei mesi freddi ma quando arrivava la primavera diventavano insopportabili per il caldo. A partire dalla fine degli anni ‘70 comincia l’utilizzo di materiali sintetici che sostituiranno i tessuti naturali negli anni ‘80, parliamo di acrilico e acetato. Oltre a essere più leggeri questi tessuti, di aspetto lucido, si prestano a lavorazioni estetiche molto accattivanti. Alla fine degli anni ‘80 la maggior parte dei grossi gruppi di abbigliamento sportivo cominciano a spostare la produzione in oriente, con un ovvio abbattimento dei costi di lavorazione e di conseguenza dei prezzi di vendita. Ennerre ed Ennedue, che mantengono la produzione in Italia, non riescono a tenere il passo dei grandi marchi e dichiarano il fallimento agli inizi degli anni ‘90. L’ultimo acuto della Ennerre è la maglia azzurra con l’onda bianca e lo scudetto del Napoli nel 1991, poi l’attività cessa. Ennerre si è fatta conoscere anche in altri paesi europei, ricordiamo la fornitura della Dinamo Bucarest nella stagione 1989/90, in cui il marchio abruzzese era anche main sponsor, oltre alla bellissima maglia verde e arancio dei finlandesi dell’Ilves Tampere. Negli anni ‘90 il marchio Ennerre compare sulla maglia delle Nazio-
Tantissimi i campioni che hanno vestito NR, anche Roby Baggio
nali di Uruguay, Paraguay e Costa d’Avorio, così come sulle casacche di alcuni club giapponesi, tra cui il Kashima Antlers. In questo caso però la fornitura del materiale non arrivava dall’Italia, una ditta giapponese aveva acquisito il diritto di utilizzare il marchio su prodotti di sua produzione. Dopo
anni di oblio Nicola Raccuglia ha deciso di ritornare in campo registrando il marchio NR Nicola Raccuglia, con un nuovo slancio creativo per proporre ancora un brand che è rimasto impresso negli occhi di tanti appassionati di calcio, speriamo tutti di vedere presto in campo altre maglie bellissime.
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c l a c del E LEGGEND Lothar Matthäus di Luca Gandini
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Forza, classe, passione, perseveranza e record: il calcio secondo Matthäus
FIORE DI
LOTHAR I
l primo giorno di primavera del 1961 nasceva Lothar Matthäus, e con lui sbocciava un raro esemplare di fiore germanico, un fiore all’apparenza fragile, ma dai petali forgiati nell’acciaio e resistenti a qualsiasi insidia del tempo e della sorte. Longevo, intramontabile Lothar, più forte degli infortuni, più tosto degli avversari e addirittura dei compagni entrati in rotta di collisione con lui, incorreggibile amante delle auto veloci, delle belle donne e della buona tavola, ma poi, in allenamento, l’uomo da prendere ad esempio per impegno e costanza. Dieci, cento, mille Lothar, e non poteva essere altrimenti per uno che ha attraversato vent’anni di calcio europeo e mondiale, vivendo in prima persona i mutamenti tattici del gioco e quelli politici della sua terra, la Germania, prima divisa in due dal Muro e poi unificata sotto una sola bandiera. Una bandiera che grazie alla classe e alla personalità di questo Kaiser dei tempi moderni ha potuto sventolare sulle massime vette del “Fußball”.
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EL LEGGENDE D
CALCIO
Lothar Matthäus IL MASTINO DI MÖNCHENGLADBACH Iniziò a mettersi in mostra con la maglia del Borussia Mönchengladbach, squadra di una cittadina della Renania Settentrionale al confine con l’Olanda che negli anni ‘70 era riuscita a imporsi ai vertici del calcio tedesco vincendo 5 titoli nazionali, 2 edizioni della Coppa UEFA e sfiorando persino la Coppa dei Campioni nella finale persa a Roma contro il Liverpool nel 1977. L’allenatore Jupp Heynckes, lo stesso che molti e molti anni dopo avrebbe portato il Real Madrid e il Bayern Monaco alla conquista della Champions League, lo gettò nella mischia poco più che 18enne nella stagione 1979/80, apprezzandone le doti di mediano d’interdizione sempre pronto al sacrificio. Già all’esordio sfiorò la grande affermazione internazionale, arrivando a giocarsi la finale di Coppa UEFA dopo aver eliminato, tra le altre, l’Inter di Lele Oriali, Spillo Altobelli ed Evaristo Beccalossi ed il Saint-Étienne di Michel Platini. All’ultimo atto il Borussia Mönchengladbach si inchinò ai connazionali dell’Eintracht Francoforte, ma per Matthäus si spalancarono ugualmente le porte della Nazionale che avrebbe partecipato al Campionato Europeo in Italia. Non fu, questa, una kermesse memorabile, poiché segnata dagli stadi desolatamente vuoti a causa dello
Il Mondiale vinto nel 1990 è uno dei tanti prestigiosi trionfi di Lothar
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sconcerto generato nell’opinione pubblica dallo scandalo del Totonero scoppiato poche settimane prima. Ad approfittarne fu proprio la Germania Ovest, che con la solita regolarità centrò il secondo successo continentale della sua storia dopo quello ottenuto in Belgio nel 1972. Per Matthäus, in realtà, furono più ombre che luci. Giocò poco (solo 17 minuti nella sfida vinta 3-2 contro l’Olanda nel girone eliminatorio) e male, visto che una sua entrata non impeccabile causò un rigore a favore degli olandesi. Ma a 19 anni poteva già fregiarsi del titolo di campione d’Europa. Per essere protagonista, aveva ancora davanti tutta una carriera. AI PIEDI DI DIEGO Non era un predestinato, piuttosto un campione venuto fuori con il tempo, costruito attraverso il lavoro e la pazienza. Non lasciò il segno nemmeno al Mondiale di Spagna ‘82. Fu proprio la Germania Ovest l’ultima rivale dell’Italia nella finale del Bernabéu, ma Matthäus si limitò ad osservare dalla panchina, impotente, il trionfo degli Azzurri di Enzo Bearzot. Il passaggio al Bayern Monaco nel 1984 fu però un ulteriore salto di qualità. È vero: lasciava il Borussia Mönchengladbach con il rammarico di non aver regalato nemmeno un trofeo al club che
Ha giocato con il B. Monaco per tanti anni, vincendo tutto
l’aveva lanciato, ma approdava alla squadra più influente e titolata di Germania, che gli avrebbe dato l’opportunità di imporsi una volta per tutte anche in Nazionale. Al Mondiale di Messico ‘86 trovammo infatti un campione in ascesa: aveva arricchito il proprio bagaglio tecnico-tattico, giostrando ora da centrocampista completo, abile non solo in interdizione, ma anche nella costruzione del gioco e negli inserimenti offensivi. La solita, indomabile Germania Ovest riuscì di nuovo ad approdare in finale, dove avrebbe sfidato l’Argentina del Maradona più ispirato di sempre. Il c.t. della “Mannschaft”, Franz Beckenbauer, pensò così di mettere Lothar in marcatura a uomo su Diego per tutti i 90 minuti. I due campioni finirono per annullarsi a vicenda, ma proprio allo scadere un’intuizione di Maradona spalancò al compagno Jorge Burruchaga la via per il gol che regalò all’Argentina il titolo mondiale. E ai tedeschi restò il rimpianto di non aver sfruttato fino in fondo tutto il potenziale del proprio numero 8, ingabbiato invece in rigide consegne tattiche.
di Francia ‘98, fu lo stesso Vogts a tornare sui propri passi e a richiamare in servizio il 37enne Matthäus. Era il 5° Mondiale della sua straordinaria carriera, un privilegio toccato fino a quel momento solo al portiere messicano Antonio Carbajal, e lui onorò l’impegno al meglio, essendo uno dei pochi a salvarsi in una spedizione complessivamente deludente. Inoltre, in occasione della sfida persa ai quarti contro la Croazia, registrava la sua 25ª e ultima presenza in Coppa del Mondo, un record che oggi non è ancora stato eguagliato.
IN CIMA AL MONDO Nonostante la delusione, Matthäus era ormai uno dei centrocampisti più affermati d’Europa. Nel 1986/87 fu protagonista della cavalcata che portò il Bayern in finale di Coppa dei Campioni, ma, ancora una volta, nel momento decisivo, tutto girò per il verso sbagliato e a conquistare la Coppa fu il Porto del “Tacco di Allah” Rabah Madjer. Dopo 4 stagioni in Baviera impreziosite comunque da 3 titoli nazionali, 1 Coppa e 1 Supercoppa di Germania, nel 1988 decise di tentare l’avventura nel campionato più difficile e prestigioso al mondo, la Serie A. L’Inter prelevò infatti dal Bayern sia lui che il terzino sinistro Andreas Brehme e li andò a inserire in un contesto già solido, ma a cui, negli anni precedenti, nonostante l’esperta guida tecnica di Giovanni Trapattoni, era sempre mancato qualcosa. Matthäus si ambientò subito alla grande, anzi, fu determinante ai fini della vittoria di un memorabile Scudetto. Nonostante un fisico non
impressionante (174 cm x 72 kg), giganteggiava a centrocampo esibendo il meglio del proprio repertorio. Caparbietà nei contrasti, ripetuti e precisi cambi di gioco, inserimenti offensivi conclusi con potenti stoccate di destro. Questo e altro era il Matthäus idolo dei tifosi interisti, estasiati dalla personalità e dalla grinta del loro panzer d’assalto. Nel 1990, proprio qui in Italia, si disputò il Mondiale, competizione con cui Lothar aveva un conto in sospeso da anni. Capitano della Germania Ovest, fu senza dubbio il miglior giocatore del torneo per qualità e continuità. Una splendida doppietta alla Jugoslavia nella gara d’esordio, e poi via via la marcia a tappe forzate verso l’ennesima finale. Nemmeno l’Argentina dell’antico rivale Maradona, stavolta, gli impedì di assaporare la gioia più grande: quella meravigliosa Coppa a lungo inseguita e ora alzata al cielo di un’estate italiana a due passi dal Colosseo. Inevitabile, a fine anno, la conquista del Pallone d’Oro, quarto
LA CHAMPIONS STREGATA Chi pensava che Lothar fosse ormai pronto per la pensione dovette ricredersi. C’era ancora un obiettivo da centrare, un obiettivo dalle grandi orecchie sempre sfuggitogli negli anni precedenti: la Champions League. In quell’edizione
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Lothar Matthäus giocatore tedesco a riuscire nell’impresa dopo Gerd Müller, Franz Beckenbauer e Karl-Heinz Rummenigge, e proprio sulla scia di questi grandi successi arrivò anche la ciliegina della Coppa UEFA con l’Inter nel 1990/91, un’affermazione internazionale che ai nerazzurri mancava dai tempi di Helenio Herrera. Quella tra Matthäus e la Beneamata fu però una saga senza il lieto fine, poiché il 12 aprile 1992, in una gara casalinga contro il Parma, insignificante tappa di un campionato estremamente deludente, il fuoriclasse tedesco si ruppe i legamenti del ginocchio destro e fu costretto a saltare quello che sarebbe stato il primo appuntamento internazionale per la Germania riunificata: l’Europeo in terra svedese.
LA Carriera di LotHar da calciatore Stagione Squadra Totale Pres Reti 1979-1980 1980-1981 1981-1982 1982-1983 1983-1984 1984-1985 1985-1986 1986-1987 1987-1988 1988-1989 1989-1990 1990-1991 1991-1992 1992-1993 1993-1994 1994-1995 1995-1996 1996-1997 1997-1998 1998-1999 1999-2000 2000
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Borussia M’gladbach Borussia M’gladbach Borussia M’gladbach Borussia M’gladbach Borussia M’gladbach Bayern Monaco Bayern Monaco Bayern Monaco Bayern Monaco Inter Inter Inter Inter Bayern Monaco Bayern Monaco Bayern Monaco Bayern Monaco Bayern Monaco Bayern Monaco Bayern Monaco Bayern Monaco N.Y. MetroStars
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Un leader autentico, amato ovunque è stato
STILE LIBERO Scaricato senza troppi complimenti dall’Inter, fece ritorno al Bayern Monaco, dove, con la solita determinazione, tentò faticosamente di tornare sui propri livelli. Lo ritrovammo sulla breccia al Mondiale di USA ‘94, stavolta, però, in veste di libero. L’età avanzava e il passo non era più quello di un tempo, ma la straordinaria visione di gioco e l’abitudine alle incursioni offensive fecero di lui un protagonista anche nel nuovo ruolo. Nonostante un suo gol su rigore nei quarti con la Bulgaria, furono proprio Hristo Stoichkov e compagni a ribaltare il risultato e a eliminare un po’ a sorpresa i campioni del mondo in carica. Nel gennaio del 1995, Matthäus rimase vittima di un altro grave infortunio, la rottura del tendine d’Achille, ma ci voleva ben altro per piegare la sua inossidabile forza di volontà. Nel maggio del 1996, infatti, fu proprio lui il capitano del Bayern Monaco che conquistò la Coppa UEFA sconfiggendo in finale il Bordeaux dell’emergente talento Zinédine Zidane. Avrebbe certamente meritato un posto in Nazionale in vista dell’Europeo in Inghilterra, ma i suoi pessimi rapporti con diversi compagni (in primis il bomber Jürgen Klinsmann) convinsero il c.t. Berti Vogts a fare a meno di lui e a puntare su un altro eccellente libero, quel Matthias Sammer poi premiato a fine anno con il Pallone d’Oro. Alla vigilia del Mondiale
1998/99 il libero del Bayern fu come al solito la trave portante della squadra. Anche nella finale di Barcellona, di fronte al Manchester United, salì in cattedra con magistrali chiusure difensive e travolgenti ripartenze. All’80°, con i tedeschi in vantaggio per 1-0, il tecnico Ottmar Hitzfeld, vedendolo esausto, decise di sostituirlo con il mediano Thorsten Fink. Sarà un caso, ma proprio in quel momento lo United prese coraggio e con una furiosa rimonta negli ultimi secondi spezzò i sogni di gloria dei bavaresi e di un incredulo Matthäus, il cui volto segnato dalla delusione risultò una delle immaginisimbolo di quella pazzesca finale. Nel marzo del 2000 chiudeva la sua seconda esperienza al Bayern, nobilitata da 1 Coppa UEFA, 4 titoli nazionali, 2 Coppe di Germania e 3 Coppe di Lega, per lanciarsi nella nuova avventura della Major League Soccer con la maglia del New York MetroStars. Il suo addio alla Nazionale lo diede invece a Euro 2000, e fu una parentesi
di cui poteva francamente fare a meno, viste le pessime prove della “Mannschaft” e dello stesso Matthäus, ormai in evidente declino fisico e motivazionale. Fu però un’appendice di carriera sufficiente a garantirgli il raggiungimento delle 150 presenze con la maglia della Germania, l’ennesimo primato ancora saldamente in suo possesso. Ha in seguito intrapreso la carriera di allenatore con buoni risultati, come il campionato serbo-montenegrino vinto nel 2002/03 alla guida del Partizan o come il titolo austriaco ottenuto con il Salisburgo nel 2006/07 accanto al vecchio maestro Trapattoni, ma è ormai da qualche anno fuori dal giro. Oggi vive a Budapest, si è recentemente sposato per la quinta volta ed è molto attivo sui social, da cui, con la solita schiettezza, si lascia spesso andare a commenti sferzanti sul mondo del calcio e i suoi protagonisti. Quella di entrare in tackle sulla vita, per il vecchio Lothar, è un’abitudine che non tramonta mai.
è stato il grande protagonista dell’Inter dei record guidata dal Trap
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Le divise del Tottenham sono tra le più amate di sempre…
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ella zona nord di Londra, non ancora massicciamente urbanizzata, negli ultimi anni del XIX secolo la presenza di numerosi spazi verdi favorì la formazione di diversi club, dediti a rugby cricket e ovviamente football. Il Tottenham & Edmonton Weekly Herald, giornale locale, elencava le squadre di football della zona per
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la stagione 1881-82: Indipendent Athletic, Radicals e Latymer School a Edmonton mentre a Tottenam erano attive Tottenham Park, Wood Green Wasps e Hanover Athletic. Da circa due anni era attivo il Tottenham Cricket Club, formato per la maggior parte da alunni della St John’s Middle Class School e della Tottenham Grammar School, i ragazzi decisero di formare
una squadra di calcio per tenersi in allenamento nei mesi invernali, il 5 settembre 1882 venne ufficialmente fondato l’Hotspur Football Club, alla fine dell’anno i soci erano diventati diciotto. Il nome era un omaggio a Herry Percy, Primo Conte di Northumberland soprannominato Hotspur, letteralmente testa calda, per il suo carattere combattivo e impulsivo (Northumberland, 20 maggio 1364 – Shrewsbury, 21 luglio 1403), cavaliere di nobili origini particolarmente valente sui campi di battaglia. Dopo aver creato un fondo cassa e reperito il minimo necessario per cominciare l’attività sportiva, venne deciso che ogni giocatore doveva provvedere a dotarsi di una maglia di colore blu scuro, adornata sul petto da uno scudetto rosso con un H di colore blu. Le prime due partite vennero disputate, contro due squadre della zona, Radicals (20 settembre, sconfitta 0-2) e Latymer School (altra sconfitta 1-8). Nell’agosto del 1883 i ragazzi chiesero aiuto a John Ripsher, personaggio molto conosciuto nella zona era il custode dell’YMCA e insegnava la bibbia in chiesa. Ripsher divenne così presidente e tesoriere del club, portò una vena organizzativa e si prodigò alla ricerca di uno spazio dove poter giocare le partite, a Park Lane. La prima partita di cui c’è un resoconto scritto risale al 6 ottobre 1883, vittoria per 9-0 contro il Brownlow Rovers, in questa occasione la squadra scese in campo con maglia e cappellino blue navy con pantaloni bianchi e calzettoni blu. Il 2 aprile del 1884 nel corso di una riunione venne deciso di adottare la denominazione Tottenham Hotspur FC, questo a causa dell’esistenza di un altro club denominato London Hotspur FC club fondato nel 1878 e sciolto circa venti anni dopo, da quel momento in poi nel Regno ci saranno tanti United, City, Rovers, Celtic, Wanderers e Rangers ma un solo Hotspur. Il 28 marzo 1884 il Blackburn Rovers vinse la prima di tre FA Cup consecutive, la vittoria della squadra del nord ispirò i ragazzi di Tottenham a cambiare divisa adottando la maglia bianca e celeste a quarti con collo
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a camicia chiuso da bottoni del Rovers, impreziosita da una croce di Malta bianca sul cuore, pantaloni e calzettoni rimasero invariati, dalla stagione 1886/87 sulla maglia comparve una H bianca al posto della croce. Nel 1888/89 gli Spurs si dotarono di un terreno recintato a Northumberland Park così da poter far pagare l’ingresso, un penny, agli spettatori. Per la stagione 1889/90 la maglia diventa bianca e navy blue a strisce verticali con collo a camicia, nel settembre del 1890 la divisa è composta da maglia rossa con collo a camicia, pantaloni e calzettoni blu scuro. Nell’autunno del 1895 il club adotta il professionismo e nel mese di ottobre, contro il Royal Artillery, viene adottata una maglia oro e cioccolato a strisce verticali con collo a camicia. Nel settembre 1898 gli Spurs decisero di cambiare, per l’ultima volta, la maglia adottando una casacca bianca con collo a camicia nella speranza di eguagliare i successi del Preston North End, sempre blu i pantaloni e i calzettoni. Il campo di Northumberland Park era diventato troppo piccolo, nell’aprile del 1898 14.000 spettatori presenziarono alla partita con il Woolwich Arsenal, alcuni di loro si arrampicarono sul tetto di una tribuna che crollò causando diversi feriti. Il 4 settembre 1899 viene inaugurato White Hart Lane, vittoria in un’amichevole con il Notts Coutnty, che rimarrà la casa degli Spurs negli anni. Nel 1901 il Tottenham, che partecipa alla Southern League, vince la sua prima FA Cup contro lo Sheffield United, 2-2 la prima partita
e 3-1 il replay, gli Spurs sono l’unica squadra di non-league ad aver vinto il trofeo. A partire dalla stagione 1903/04 cambio stilistico con l’utilizzo di pantaloni corti e calzettoni con un risvolto a due righe bianche, in questi anni e più precisamente nelle stagioni 1909/10 e seguente, giocò con gli Spurs Walter Tull. Di origine caraibica, Tull è stato uno dei primi giocatori di colore a giocare ai massimi livelli del calcio inglese, per lui 10 presenze e due reti in due stagioni, successivamente si trasferì al Northampton. Partecipò alla prima guerra mondiale nelle fila dell’Esercito inglese, il 30 maggio 1917 venne promosso sottotenente diventando il primo ufficiale di colore di un battaglione regolare britannico, morì in combattimento il 25 marzo 1918. Nella stagione 1911/12 divisa invariata ma calzettoni con ampio risvolto bianco. Dalla stagione 1912/13 e per le tre successive la maglia presenta un collo a girocollo, con chiusura a laccetti o senza, si ritorna al colletto a camicia nella stagione 1917/18 e nelle stagioni a seguire le uniche variazioni riguardano il risvolto dei calzettoni, sempre bianco ma in diversi stili. A partire dalla stagione 1921/22 compare lo stemma sulla maglia, in realtà lo stemma comparve in anteprima durante la vittoria nella finale di FA Cup di qualche mese prima, le divise sono fornite dalla Bukta di Manchester, la prima ditta di abbigliamento a ad avere una linea dedicata al calcio fin dalla fine del XIX secolo. La fornitura passerà suc-
cessivamente alla Umbro a partire dalla metà degli anni trenta, il modello di maglia diffuso in tutto il Regno per calcio e rugby era denominato Tangeru. Questa divisa rimarrà quasi invariata fino al marzo 1956, unica variabile la profondità del collo chiuso comunque sempre a bottoni, da tre a cinque, e dallo stile del risvolto bianco dei calzettoni. Con questa maglia gli Spurs vincono il campionato di Second Division nel 1949/50 e la stagione successiva diventano campioni d’Inghilterra per la prima volta nella loro storia. Nel marzo del 1956 finalmente arriva un nuovo modello di maglia, ovviamente bianca, con collo a camicia chiuso davanti da un triangolo, pantaloncini blu e calzettoni blu con ampio risvolto bianco. Dal 1959/60 la maglia ha il collo a V, nel 1960/61 i Londinesi ottengono il loro primo, e finora unico double vincendo campionato e FA Cup. Il Tottenham esordisce in Coppa dei Campioni nel settembre del 1961 e il manager Bill Nicholson decide di adottare una divisa completamente bianca probabilmente perché alla luce artificiale è più visibile, secondo alcune fonti si tratterebbe invece di un’imitazione della divisa del Real Madrid. Questa divisa all white era stata usata almeno due volte in precedenza in amichevoli serali, nel 1956 con il Racing Parigi e nel 1959 con la Torpedo Mosca. Il 31 ottobre 1962, partita di Coppa delle Coppe con i Rangers, viene indossata per la prima volta una maglia bianca con collo a girocollo, questo modello verrà usato fino alla fine
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Crouch con la casacca del Tottenham edizione 2009-2010
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della stagione 1976/77. Il 15 maggio 1963 a Rotterdam gli Spurs vinsero la finale di Coppa delle Coppe contro l’Atletico Madrid, 5-1 il risultato, la prima vittoria di una squadra inglese in una coppa europea. Una divisa completamente bianca venne indossata nella finale di FA Cup del 1967, vittoria contro il Chelsea, e dalla stagione seguente venne usata la divisa “storica” degli Spurs, ovvero maglia bianca con collo a girocollo, pantaloncini blu e calzettoni bianchi. Il 27 febbraio 1971 i Londinesi vinsero la loro prima League Cup, vittima di giornata l’Aston Villa, quel giorno gli Spurs scesero in campo con una divisa inedita e mai più usata, maglia bianca con collo a girocollo, pantaloncini blu ma di una tonalità più chiara del solito e calzettoni gialli. Nel maggio 1972 il Tottenham torna a vincere un trofeo europeo, questa volta la Coppa UEFA battendo nella doppia finale il Wolverhampton Wanderers con il risultato totale di 3-2. Nel 1975/76 appare per la prima volta il logo del fornitore Umbro sulle divise, in precedenza era apparso solo sulle maglie dei portieri, nella stagione successiva il logo è presente solo sui pantaloncini. Dalla stagione 1977/78 divise griffate Admiral, per la prima volta il club ottiene un compenso oltre alla fornitura del materiale, maglia bianca con collo a camicia chiuso davanti da un bordo blu a V e strisce sempre blu sulle maniche contenenti il logo del fornitore, pantaloncini blu con strisce bianche e calzettoni bianchi con bordi blu. Dalla stagione 1980/81 divise fornite dalla Le Coq Sportif, è la prima volta di un fornitore straniero, in questa stagione e in quella seguente maglia completamente bianca con collo a V e bordini blu sottili, pantaloncini blu e calzettoni bianchi con bordo blu sottile, dal 1982/83 le divise diventano un po’ più sofisticate. Maglia bianca con effetto lucido/ opaco a strisce verticali con collo a V e doppi bordini blu, pantaloncini blu sempre con effetto lucido/opaco e calzettoni bianchi con doppio bordino blu. Nel dicembre 1983, trasferta a Manchester contro lo United, compare per la
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prima volta sulle maglie il nome di uno sponsor commerciale, si tratta della HolstenBrauerei di Amburgo. Nel maggio 1984 arriva la seconda vittoria in Coppa UEFA contro i belgi dell’Anderlecht, doppio 1-1 e vittoria inglese ai rigori. Nel 1985/86 comincia la fornitura della danese Hummell, da qui in avanti ci sarà una divisa nuova ogni due stagioni, nel primo biennio la Hummell propone una divisa completamente bianca, maglia con collo a V e disegni geometrici blu nella parte alta del busto, sulle maniche e sul fianchi dei pantaloncini. Nelle stagioni 1987/88 e seguente maglia completamente bianca con collo a camicia bianco chiuso a V da un bordino blu, pantaloncini blu con cintura bianca e calzettoni bianchi. Il biennio successivo maglia bianca con collo a V con bordino blu, pantaloncini blu con cintura e fasce laterali bianche e calzettoni bianchi, il logo su maniche e sui lati dei pantaloncini. Il 18 maggio 1991 gli Spurs vincono la loro ottava FA Cup, è il giorno in cui comincia la fornitura della Umbro ed è anche il giorno del grave infortunio a Paul Gascoigne che chiudeva la sua parentesi agli Spurs, la stagione successiva non giocò neanche una partita e poi si trasferì alla Lazio. Nella stagione 1991/92 e seguente la Umbro propone una maglia bianca con collo a camicia blu con inserti bianchi chiuso da un bottone, pantaloncini blu con inserti bianchi e calzettoni blu con ampio bordo bianco, il biennio successivo collo a camicia chiuso a V blu con bordini bianchi mentre i polsini sono blu con inserti bianchi e gialli, pantaloncini blu con cintura bianca e inserti bianchi e gialli, i calzettoni sono bianchi. Nella stagione 1995/96 e seguente il fornitore è la Pony, marchio in quel periodo di proprietà britannica, che propone una maglia bianca con collo camicia blu chiuso da bottoni, strisce blu sulle braccia solo nella versione a maniche corte, pantaloncini blu con strisce bianche sui lati e calzettoni blu con bordo bianco. Nel biennio successivo collo a V a righine blu e bianche, pantaloncini blu e calzettoni bianchi, righine sottili su maniche e
Dembelè con la maglia della stagione 2015-2016
pantaloncini, molto elegante. Nel 1999 arriva la Adidas che sarà fornitore per tre stagioni, ormai ogni anno si cambia divisa, in alcune stagioni si riscopre una divisa old style con una maglia completamente bianca mentre in altre stagioni il blu occupa più spazio. Nella stagione 2005/06 la Kappa propone le maniche blu mentre nel 2015/16 la Under Armour inserisce una fascia diagonale, molto bella la divisa indossata il primo ottobre 2007, avversario l’Aston Villa, in occasione del 125° anniversario dalla fondazione del club, una maglia bianca e azzurra a quarti. La seconda divisa degli Spurs non ha avuto uno stile definito e nei primi decenni si sono viste maglie di diversi colori e stili, molto usate maglie biancoblù a strisce. Negli anni 50 e 60 predominanza del blu per passare al giallo nella stagione 1969/70. Negli anni 80 e 90 predominanza di azzurro e blu insieme al giallo. Negli ultimi vent’anni, con l’arrivo delle terze maglie abbiamo visto diversi colori alcuni davvero inguardabili, particolarmente brutta la maglia blu e viola a strisce verticali del biennio 1995-1997. Tradizionalmente i portieri del Tottenham hanno sfoggiato delle bellissime maglie di colore verde brillante, molto british, negli anni 80 usato con una certa frequenza il blu. Negli ultimi decenni divise di vari colori come da moda. Lo stemma del club è sempre stato un gallo da combattimento, leggenda vuole che Harry Hotspur fosse appassionato di questa barbara usanza. Lo stemma venne apposto alla maglia per la prima volta nel 1921, in occasione della finale di FA Cup e da allora è sempre stato presente sulle divise pur con diverse variazioni stilistiche. Il logo più usato, il gallo da combattimento ritto su un pallone, venne ideato dall’ex giocatore William James Scott nel 1909. Nel catalogo HW del Subbuteo gli Spurs compaiono con due diverse numerazioni: numero 18, maglia bianca con pantaloncini blu e calzettoni blu con bordo bianco; numero 154 sempre maglia bianca ma pantaloncini blu scuro quasi nero e calzettoni bianchi.
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C L A C L E D I T GIGAN Adailton
di Pierfrancesco Trocchi
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ANIMA LATINA Lunga chiacchierata con Adailton, ex attaccante brasiliano che in Italia ha trovato la sua seconda Patria.
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arlando con Adailton Martins Bolzan, per molti Adailton, per i più intimi Ada, ci si rende presto conto che si ha a che fare prima di tutto con una persona intelligente, con una prospettiva del calcio – e conseguentemente del mondo – paziente e matura, che colpisce veloce e ritorna indietro per ricostruirsi uguale e diversa, come l’energia di una stoccata. Il Brasile colora il cuore di Adailton, lo rende impavido e creativo. È un Brasile che ha incontrato l’Europa, signora meno procace, che ha fatto della mitezza la propria arguzia. Questo è Ada, indomita tranquillità di una terra lontana. Partiamo proprio dalle tue origini. Cosa significa il calcio per un brasiliano? “In Brasile il primo regalo ad un bambino è un pallone, questo dice tutto. Nei quartieri si gioca ovunque, nei campetti o per strada, ogni giorno. Anche io sono cresciuto così a Santiago, nel sud del Brasile, dove non c’era una vera e propria squadra. Infatti, non ho mai frequentato una scuola calcio, almeno fino ai 15 anni”.
E poi? “Decisi di andare a vivere con mia sorella a Caxias do Sul, pensando che lì avrei frequentato l’università. Così, feci un provino con la squadra della città, la Juventude, e fui selezionato. L’anno successivo, a 16 anni, ero già in Primavera”. Hai sempre giocato come attaccante? “All’inizio in realtà ero un centrocampista offensivo, poi mi spostarono più avanti. Andò bene, al punto che a 17 anni mi prese in prestito la Primavera del Palmeiras per le finali nazionali: vinsi il campionato da capocannoniere e mi notarono gli osservatori della Nazionale. Una volta tornato alla Juventude cominciai ad accumulare presenze con la prima squadra, con cui vinsi la Série B”. Nel 1997 la svolta, ossia i Mondiali U-20, dove segni 10 goal, 6 in una sola partita di cui 4 in 9 minuti. Mica male… “Con la Nazionale U-19 avevo già partecipato al Torneo di Tolone, di cui fui capocannoniere e miglior giocatore, e al Sudamericano, che mi vide come miglior marcatore. Il Mondiale fu una vetrina per me, che mi portò a 27 goal
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in 26 partite con la Seleçao”. Una squadra mica male quel Brasile… “C’erano Helton, storico portiere del Porto, Fernandão, capitano dell’Internacional vincitore dell’Intercontinentale, e Alex, perno offensivo del Fenerbahce per anni, soltanto per citarne alcuni. Tutti riuscimmo a fare una carriera di livello e, in generale, quel Mondiale presentava squadre fortissime come la Francia, che in attacco aveva Trezeguet, Henry e Anelka, o l’Argentina di Cambiasso, Riquelme e Samuel”. I Mondiali giovanili ora non offrono più un numero così alto di giocatori di livello… “Credo sia perché era molto più difficile arrivare, si seguivano i giocatori per più anni e poi si decideva se portarli o meno in Nazionale. Ora bastano tre o quattro mesi di buone prestazioni per essere convocati, poi magari non si ha la stoffa per giocare a grandi livelli”.
È l’estate 1997 e il Parma più forte di sempre punta su di te. Come fu l’impatto con quel calcio italiano? “Arrivai pieno di entusiasmo e poi ho iniziato a capire, osservando gli altri, cosa volesse dire essere un grande campione. Inizialmente ho avuto qualche timore reverenziale, ma in seguito ho pensato che, se ero lì insieme a giocatori del calibro di Cannavaro, Crespo e Buffon, un motivo doveva esserci”. Anche perché Ancelotti ti preferì a Baggio, non uno qualunque. “Sì, fece questa scelta più che altro per un discorso di gestione tattica e dello spogliatoio; una presenza importante come quella di Baggio avrebbe creato qualche grattacapo in più. Io, invece, ero giovane e disposto a mettermi in gioco”. In Emilia un inizio scoppiettante seguito da qualche intoppo…
Adailton ha giocato sette anni con la casacca del Verona - Credit Foto Liverani
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“Nel precampionato ho fatto molti goal, ma in quel periodo ero ancora extracomunitario e, poiché ce n’erano altri tre in rosa, non potevo né giocare né andare in panchina. è stato un momento particolarmente difficile, avevo tanta voglia di fare e a gennaio ho pensato di partire. In quel momento, però, ho giocato da titolare in Coppa Italia contro l’Atalanta e fatto un’ottima partita, tanto che, convinto da Cannavaro e Thuram, Ancelotti mi ha chiesto di rimanere”. Ti sei pentito di questa scelta? “Un po’ sì, perché ero in un momento di forma e di fiducia eccezionale. Altrove avrei potuto giocare di più e crescere più velocemente”. Il trasferimento arriva nel 1998, quando scegli il PSG. “Mi è arrivata la proposta dall’allenatore Gomes, brasiliano come me, e ho deciso di accettarla, anche perché il PSG era una grande squadra e giocava le coppe europee. Appena firmato il contratto, però, Gomes fu esonerato e il nuovo mister dimostrò da subito di non volermi. Tra il poco spazio e un infortunio iniziale la situazione si è complicata e, anche se nella seconda parte di stagione ho giocato bene, nel 1999 ho scelto di tornare in Italia”. Di nuovo nel Bel Paese, questa volta all’Hellas Verona. “Tornare mi ha reso subito più felice, perché il calcio italiano era il migliore al mondo ed ogni domenica rappresentava uno stimolo incredibile. Dopo una prima parte difficile, il girone di ritorno è stato fantastico, perché, dopo la sconfitta con l’Inter, siamo riusciti a fare 16 risultati utili consecutivi. Gran parte del merito è stato di Prandelli, un allenatore bravissimo, fondamentale per la crescita di noi giovani”. A proposito, è stato difficile per un brasiliano adattarsi alla tattica italiana? “Sì, in particolare è complesso capire fino a dove deve spingersi la tattica per poi dare spazio al proprio estro e viceversa. Mi ero un po’ perso, perché spesso mi preoccupavo troppo degli aspetti tattici non riuscendo ad
Adailton ha un suo stile anche da allenatore
esprimere del tutto le mie qualità. Mi ci è voluto tempo, ma, una volta trovato l’equilibrio, si gode di un arricchimento fondamentale”. Con Verona è nata una storia d’amore, visto che ancora oggi abiti lì… “Una storia complicata, almeno inizialmente. Dopo la prima stagione, infatti, ci sono stati due anni controversi tra infortuni ed attriti con la società, soprattutto quando nella stagione 2001/02 la dirigenza voleva vendermi alle proprie condizioni e io rifiutai. Ho fatto solo 3 presenze e la squadra retrocesse in B, ma ho deciso di rimettermi di nuovo in gioco: se me ne fossi andato, la gente avrebbe pensato che non fossi all’altezza”. Ricominci a macinare presenze e goal, poi la svolta con l’arrivo di Ficcadenti. “Il mister mi ha subito spiegato che con lui avrei giocato sempre. è stata un’enorme iniezione di fiducia, tanto che le cose mi venivano più facili, i compagni si appoggiavano a me nei momenti di difficoltà, ossia esattamente quello che cercavo. Le ultime tre stagioni in Serie B sono state bellissime, ma ho chiesto
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risultavano promosse, si creò un bel clima di amicizia, sfociato poi nell’invasione di campo delle tifoserie. Fu davvero una festa”. Nonostante tutto, poco dopo passi al Bologna in Serie B. Come mai? “Il presidente voleva comprare altri giocatori e, quindi, bisognava sacrificare qualcuno. Preziosi aveva intenzione di vendere León, che però non aveva mercato, così mi ha chiesto di lasciare il club. Gasperini ha cercato di trattenermi e anche io non volevo andarmene. All’inizio, quindi, ho rifiutato, ma in seguito, con la paura di vivere un’altra stagione da separato in casa come quella di Verona, ci ho ripensato. è stata poi la dirigenza felsinea a convincermi, perché hanno dimostrato di volermi a tutti i costi e mi hanno promesso che avremmo raggiunto immediatamente la promozione”. Così fu, dopo un campionato intensissimo: Chievo 85, Bologna 84, Lecce 83. “Le squadre giocavano a ritmi elevatissimi tanto che, nonostante la mole di punti, il Lecce è riuscito a salire in A solo dopo i playoff. Una corsa entusiasmante”. Ecco la stagione 2008/09, quella del ritorno in Serie A dopo 6 anni. Come fu il ritrovare la A nel post Calciopoli? “Strano, senza dubbio. Ho trovato un campionato con tre squadre forti e tutte le altre dietro, con una quantità di giocatori stranieri poco blasonati e non all’altezza. Insomma, tutti noi calciatori sopra i trent’anni abbiamo percepito subito la differenza rispetto a prima e ci siamo dovuti riadattare”.
comunque al presidente di essere ceduto, in quanto avevo capito che l’Hellas non stava costruendo una squadra con l’intenzione di essere promossa nell’immediato”. Chi ti cercò? “Ero indeciso tra due proposte, quella del Torino, in Serie A, e quella del Genoa, che voleva tornare in massima serie dopo 12 anni. Sono stato molto vicino ai granata, ma il sapore della sfida mi ha conquistato. Il Genoa aveva grandi giocatori, un pubblico caldo e uno stadio bellissimo: volevo ancora essere considerato un giocatore fondamentale per il progetto”. Nell’estate 2006, dunque, approdi in Liguria per il campionato di B più bello di sempre. “La Serie A stava subendo un inesorabile calo qualitativo, mentre nella serie cadetta c’erano squadre come Juventus, Napoli e Bologna. Si viaggiava a ritmi elevatissimi, tanto che ancora adesso, quando torno a Genova, i tifosi e i giornalisti sostengono che non hanno più visto giocare la squadra come allora con Gasperini. Forse è stato l’anno in cui mi sono divertito di più, con uno spogliatoio meraviglioso e una carica indescrivibile nell’ambiente. Inoltre, era la mia prima esperienza in una città di mare, il che mi ha dato subito una sensazione di libertà”. Genoa-Napoli, il coronamento del gemellaggio. È stato il giorno più emozionante della tua carriera? “Forse sì, perché fu una giornata completa. Inizialmente, c’era una tensione assurda, perché non si poteva perdere; poi, quando negli ultimi minuti entrambe le squadre
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Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini
Tornando al Bologna, giochi finalmente due annate in massima serie, con la ciliegina di un goal alla Juventus a Torino all’ultimo minuto nel 2009/10. “Quello è stato di certo un giorno particolare. Nessuno si aspettava che riuscissimo a strappare un punto ai bianconeri, ho vissuto una domenica davvero spettacolare. Ho ricevuto una marea di messaggi di congratulazioni da tutti i miei amici che non tifavano Juve: ho fatto impazzire di gioia mezza Italia (ride, n.d.r.)”. Bologna è una città a cui sei rimasto legato? “Sì, in tre anni mi sono fatto tantissimi amici a e nel Bologna c’era un ambiente molto familiare e tranquillo, per non parlare del cibo… troppo buono! In Emilia ho vissuto un triennio fantastico, tanto che nell’ultima stagione ho raggiunto il mio record di goal in Serie A, 11 in 33 presenze. Bologna è un tassello fondamentale della mia vita, perché lì ho conosciuto mia moglie, lì è nato il mio primo figlio, lì sono cresciuto come uomo: ho un ricordo bellissimo”. Nel 2010 decidi di fare una scelta controcorrente e vai al Vaslui, in Romania. Cosa ti ha spinto a provare un calcio così diverso? “In realtà avevo intenzione di rimanere in Italia. Ficcadenti, che allora allenava il Cesena, mi voleva con sé e fui molto vicino alla firma, ma all’ultimo il presidente ha cambiato idea. Nel frattempo, i dirigenti del Vaslui mi hanno contattato e mi hanno spiegato che volevano vincere il campionato ed andare in Europa. Così ho chiamato il mio connazionale Wesley, al Vaslui dal 2009, che mi confermò
che le possibilità di andare a giocare le coppe europee effettivamente c’erano”. Anche in questo caso promessa mantenuta, perché nel 2011/2012 avete partecipato all’Europa League. “Sì, tra l’altro facendo bene, rischiando di passare il turno in un girone in cui era presente anche la Lazio. L’esperienza al Vaslui, però, fu importante soprattutto dal punto di vista umano”. Spiegaci meglio… “La Romania è un luogo molto più difficile del Brasile. Ho trovato un mondo più povero, più semplice, che mi ha aiutato a ridimensionarmi un po’, a ritrovare alcuni valori, a crescere tantissimo come uomo. Il lavoro del calciatore rischia di tenerti stretto in una bolla, si perde il contatto con la “vera” realtà, dimenticandosi che c’è chi lotta per ottenere ciò che gli permette di sopravvivere. Noi calciatori siamo spesso gelosi del nostro benessere: quella fu una lezione preziosa per me, soprattutto perché ora posso trasmetterla ai miei figli”. Hai chiuso la carriera dove avevi iniziato, alla Juventude. Cosa si prova a tornare dopo quasi 20 anni? “è stato molto particolare tornare, mi è sembrato paradossalmente tutto nuovo e strano. Ho trovato un modo di vivere il calcio lontano dal mio, in quanto oramai ero diventato europeo nel modo di concepire il pallone: mi facevo mille domande. Ero un po’ spaesato, così ho capito che ero io a dovermi riadattare alla loro prospettiva”. Cogliendo la palla al balzo, come cambia la percezione del calcio tra Europa e Brasile? “C’è meno preparazione, meno tattica, i gio-
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catori sono più liberi e meno preoccupati di quello che succede la domenica: se vinciamo, vinciamo; se perdiamo, perdiamo. In generale, non c’è una grande interferenza mediatica del calcio nella vita di un giocatore brasiliano ed è anche per questo che un calciatore brasiliano fatica ad entrare nel meccanismo del calcio europeo”.
LA Carriera di ADAILTON Stagione Squadra Totale Pres Reti 1997-1998 1998-1999 1999-2000 2000-2001 2001-2002 2002-2003 2003-2004 2004-2005 2005-2006 2006-2007 2007-2008 2008-2009 2009-2010 2010-2011 2011-2012
Parma Paris SG Hellas Verona Hellas Verona Hellas Verona Hellas Verona Hellas Verona Hellas Verona Hellas Verona Genoa Bologna Bologna Bologna Vaslui Vaslui
21 25 29 20 3 25 24 31 41 30 32 25 32 30 42
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La tua esperienza, il tuo modo di interiorizzarla è importante per il tuo nuovo ruolo, quello di allenatore? “Assolutamente. Avere incontrato tante culture, tanti modi diversi di intendere il calcio è stato un atto fondamentale per arricchire il mio patrimonio umano. La mia intenzione è trasmettere ai giovani queste conoscenze, fare loro capire che le differenze possono integrarsi e creare nuovi equilibri”. Avevi deciso di sederti in panchina già quando giocavi? “Sì, già dall’ultimo anno a Bologna. Dopo il 2013 mi sono interessato al mestiere di procuratore e poi a quello di direttore sportivo,
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ma hi capito che non facevano per me. Ho chiesto allora di entrare nello staff del nuovo allenatore della Juventude, Roger Machado; dopo circa un mese, su sua richiesta l’ho affiancato come collaboratore fino al suo esonero sei mesi più tardi. In seguito, ho deciso di tornare in Italia per seguire i corsi a Coverciano”. Quindi la seconda esperienza da secondo, l’anno scorso alla Virtus Verona. “Abbiamo fatto un ottimo campionato e siamo saliti in Serie C, ma non c’è stato modo di continuare il rapporto. Inoltre, avevo bisogno di aggiornarmi, studiare, seguire ed analizzare più allenamenti e partite possibili, allo stadio come da casa. Mi sto impegnando per creare un programma di allenamento esclusivamente mio, perché fare il secondo è bello, ma si è sempre secondi alle idee di qualcun altro”. Ecco: qual è la tua idea di calcio? “Ho una mentalità offensiva, fatta di pressing, velocità ed inserimenti. In particolare, questi ultimi sono, a mio parere, la chiave di tutte le decisioni in attacco, perché rendono il gioco imprevedibile. Se non ti prendi dei rischi al 90% hai già perso. Non importa quanti goal si prendono, basta farne uno in più: in caso di vittoria sono sempre tre punti”. Siamo alla fine. Cosa vorresti trasmettere come allenatore? “Mi sono posto due obiettivi: il primo è che i miei giocatori alla fine di ogni stagione possano dire di essere migliorati rispetto all’inizio, mentre il secondo è che, vedendoci giocare, si possa affermare ‘Questa è una squadra allenata da Adailton’…”. Per Ada è il fattore culturale, in senso lato, il perno dell’architettura di un calciatore, ben più umano di quanto l’ipertrofia della distanza sociale possa farci pensare. Siamo curiosi di essere spettatori di questo approccio così speciale, pensato e al contempo gioioso, in un mondo, quello del calcio, che troppo spesso tende ad assordarsi per il timore di capire di dover rifare tutto daccapo.
69 L’esperienza con la casacca del Bologna è stata ricca di gioie
reportage DUDELANGE di Fabrizio Ponciroli Foto di Daniele Mascolo
Prima volta in Europa League per una squadra lussemburghese, con tappa a San Siro…
LA FAVOLA DUDELANGE
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bbiamo organizzato questo viaggio a Milano appena è uscito il calendario del girone. Non potevamo perderci la nostra squadra a San Siro”. Parole di Thomas, accaldato e chiassoso tifoso dell’F91 Dudelange, piccolo club lussemburghese che, quest’anno, ha coronato un sogno. Per la prima volta nella storia, una squadra lussemburghese ha avuto l’onore di partecipare alla fase a gironi dell’Europa League, la seconda manifestazione calcistica più prestigiosa del Vecchio Continente. Un’impresa nata da lontano. Per brindare alla conquista del
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reportage DUDELANGE pass europeo, la squadra allenata da Dino Toppmoller ha dovuto, nei turni preliminari, sbarazzarsi di vere e proprie corazzate come il Legia Varsavia e il Cluj. Spettacolare, in particolare, il doppio confronto con i quotati rumeni. Dopo averli spazzati via, con un secco 2-0, tra le mura amiche, i lussemburghesi hanno avuto anche il merito di vincere in casa del Cluj (3-2 il finale). Non male per una società che, di fatto, ha iniziato a fare sul serio solo dal 1991, l’anno in cui, dalla fusione di tre società, ossia Alliance Dudelange, Stade Dudelange e US Dudelange, è nato l’attuale F91 Dudelange. Il merito del “cambio di marcia” della società va soprattutto ad un grande tifoso di calcio, simpatizzante dell’Inter, di nome Flavio Becca. Imprenditore lussemburghese, di chiare origini italiane (umbre, per la precisione), ha acquistato la neonata società nel
1998. Da allora, ha dominato la BGL Ligue, il massimo campionato lussemburghese, conquistando ben 14 titoli nazionali in 19 stagioni (ai quali vanno aggiunte ben sette vittorie nella coppa nazionale). Solo il Jeunesse Esch ha fatto meglio nell’albo d’oro del massimo torneo del Lussemburgo, con 28 scudetti in
LA RICHIESTA DI BECCA Grazie all’enorme visibilità data dalla partecipazione all’Europa League, il numero uno del club F91 Dudelange Flavio Becca è tornato a puntare il dito su quanto necessita il club per un ulteriore salto di qualità, anche a livello internazionale. Dal giorno del suo insediamento a capo del club, Becca chiede, con insistenza, uno stadio all’altezza delle grandi ambizioni della sua società. Il Jos Nosbaum, impianto da circa 4.600 posti a sedere (usato, occasionalmente, anche per le gare di baseball del Dudelange Red Sappers), è troppo piccolo per i nuovi parametri della massima società calcistica lussemburghese (in Europa League, la squadra è stata costretta a giocare a Lussemburgo, allo stadio Josy Barthel, con una capienza di circa 9.000 spettatori, ossia l’impianto sportivo più grande dell’intero Paese). L’amministrazione cittadina, guidata da tale Dan Biancalana, gli ha sempre negato la chance di costruire un impianto più grande. Dopo la serata in quel di San Siro, Becca ha fatto chiarezza: “Risposte dal comune? No, non he avute, nessun ritorno. A Hesperange vedono le cose in maniera diversa, più in grande. Io via dall’F91 Dudelange? Dal punto di vista del cuore, dico che mia madre è di Dudelange ma io sono cresciuto a Hesperange. Alcuni dicono che c’è stato un F91 Dudelange prima di Becca, c’è ora con Becca e ci sarà, in futuro, anche senza Becca. Da capire a che livello sarà, nel caso non ci sarò più io al comando”, le sue pesanti parole al media lequotidien.lu. Insomma, dopo aver compreso di avere una rosa in grado di puntare all’Europa, Becca vuole risposte importanti da parte delle istituzioni. Vuole uno stadio all’altezza del nome che si è fatto, anche in Europa, il suo F91 Dudelange. Mal che vada, c’è l’opzione Hesperange… Curiosamente, lo Swift Hesperange, attualmente in seconda divisione lussemburghese, non ha mai vinto un titolo di BGL LIgue, proprio come l’F91 Dudelange primo dell’arrivo di Becca…
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IL TABELLINO DELLA NOTTE DI SAN SIRO
bacheca (l’ultimo vinto nella stagione 2009/10, interrompendo una striscia di cinque successi consecutivi dell’F91 Dudelange). Tuttavia, il vero capolavoro, è stato riuscire a strappare il pass per la fase a gironi di Europa League. La soddisfazione è aumentata, in maniera esponenziale, al momento del sorteggio. L’F91 Dudelange è stato inserito nel Gruppo F, lo stesso del Milan. Per i ragazzi di Toppmoller, un sorteggio celestiale. Chi avrebbe potuto immaginare, solo qualche mese prima, di poter giocare a San Siro? Probabilmente nessuno, considerato anche che diversi giocatori della rosa giocano a calcio per hobby o, comunque, lo vedono come un “secondo lavoro”. Il difensore Tom Schnell è, ad esempio, un dipendente comunale. Il 29 novembre 2018, il sogno è diventato realtà. Alle 19, davanti a 15.521 spettatori, l’F91 Dudelange ha affrontato il Diavolo, vincitore di ben sette edizioni della Champions League. Che la squadra allenata da Toppmoller ci tenesse a fare bella figura lo si è capito sin dai primi minuti di gioco. I lussemburghesi, in un’atipica maglia azzurra (i colori sociali del club sono il giallo e il rosso), hanno immediatamente fatto capire ai rossoneri che non si trattava di un viaggio di pura villeggiatura. Incassato il gol di Cutrone, i baldanzosi giocatori del Dudelange si sono rimboccati le maniche. Incredibilmente, ecco il pareggio di Stolz al 39’. Una rete che ha mandato in sol-
Milan-Dudelange 5-2 (1-1) San Siro – 29/11/2018 MILAN (4-4-2): Reina; Calabria, Simic, Zapata, Laxalt; Halilovic (dal 7’ s.t. Suso), Bakayoko, Bertolacci (dal 13’ s.t. Mauri), Calhanoglu; Cutrone (dal 35’ s.t. Borini), Higuain. (G. Donnarumma, Abate, Rodriguez, Montolivo). All.: Gattuso. DUDELANGE (4-4-2): Bonnefoi; Jordanov, Schnell, Prempeh; Melisse; Stolz (dal 35’ s.t. Kenia), Kruska, Cruz (dal 30’ s.t. Pokar), Couturier; Turpel, Sinani (dal 42’ s.t. Perez). (Esposito, Malget, El Hriti, Agovic). All.: Toppmoeller. MARCATORI: Cutrone (M) al 21’, Stolz (D) al 39’ p.t.; Turpel (D) al 4’, Cutrone (M) al 22’, Calhanoglu (M) al 26’, aut. Schnell (D) al 33’, Borini (M) al 36’ s.t. ARBITRO: Bezborodov (Russia). NOTE: spettatori 15.521, incasso 193.693,50 euro. Ammoniti Stolz e Turpel per proteste. Recupero: 0’ p.t.; 5’ s.t.
luchero i tifosi dell’F91 Dudelange presenti a San Siro. Ma la festa non è finita con il gol del momentaneo pareggio. Ad inizio ripresa, altro miracolo: Turpel, al 4’, trova il guizzo che vale il 2-1 a favore degli ospiti. Inimmaginabile, bellissimo e godurioso. Gattuso deve ricorrere ad un top player come Suso per arginare la follia collettiva dei fan dell’F91 Dudelange. Il Milan reagisce e trova ben quattro gol che valgono il 5-2 finale a favore dei padroni di casa. Una sconfitta che, comunque, non toglie nulla alla prestazione, davvero eccezionale, dei ragazzi di Toppmoller. Per circa 65’, il Milan ha sofferto, rischiando di uscire da San Siro con le ossa spezzate. Al triplice fischio finale dell’arbitro russo Bezborodov, i tifosi più scatenati sulle tribune della Scala del Calcio sono quelli di fede giallo-rossa. Tutti gli altri tirano un sospiro di sollievo per non essere diventati la prima squadra battuta da una formazione del Lussemburgo in una gara ufficiale della
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reportage DUDELANGE IL BOMBER TURPEL Nella rosa 2018/19 dell’F91 Dudelange c’è un attaccante dal nome evocativo: Ibrahimovic. Purtroppo, non ha nulla a che fare con il noto asso svedese. Di nome fa Sanel e, comunque, il feeling con il gol non è male. Tuttavia, la vera stella offensiva della squadra di Toppmoller è David Turpel. Grazie alla rete segnata a San Siro contro il Milan, il suo nome è diventato virale ma il 26enne bomber lussemburghese, soprattutto in patria, ha già una reputazione importante. Sbarcato all’F91 Dudelange nel 2014, è nel giro della nazionale dal 2012. Con un fisico imponente (188 cm), ha uno score personale notevole. Lo scorso anno ha segnato la bellezza di 32 gol in BGL Ligue (in 26 gare) e quest’anno è già abbondantemente oltre i 15 (di cui cinque tra preliminari e fase a gironi di Europa League). È già, nonostante l’ancor giovane età, uno dei centenari del gol nel massimo campionato lussemburghese (114 e il tassametro corre). Il suo nome è sul taccuino di diversi club. Il suo valore si aggira attorno ai 200/300 mila euro. Dopo la rete nella Scala del Calcio, in tanti sono pronti ad investire sul bomber dell’F91 Dudelange.
fase a gironi di Europa League. A fine partita, Toppmoller è un misto di emozioni. Da un lato è tanta la soddisfazione per aver messo paura al Milan, dall’altra c’è la rabbia per aver chiuso il match con cinque gol incassati, forse troppi per quanto visto in campo: “È stata una grande prestazione da parte nostra, per 65 minuti abbiamo davvero giocato bene, mettendo in crisi i rossoneri. Siamo andati ad un passo dal 3-1. Poi il Milan ha cambiato passo ed è entrato un certo Suso che è un top player. Noi, onestamente avevamo speso molto”, spiega il tecnico che racconta anche un paio di aneddoti: “All’intervallo ho visto troppa euforia nel nostro spogliatoio. Non mi è piaciuta, perché meritavamo il vantaggio. Ho detto ai ragazzi di restare concentrati. Probabilmente avremmo meritato di più, il 5-2 finale ci
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penalizza in maniera eccessiva. Torniamo comunque a casa a testa alta. Spero di aver regalato ai nostri tifosi dei momenti speciali. Siamo orgogliosi di aver giocato in uno stadio prestigioso come San Siro. È stata una grande emozione”. In realtà, Toppmoller ha fatto ben di più. Nonostante la sua squadra abbia chiuso il girone all’ultimo posto, con un punto conquistato (contro il Betis) e cinque sconfitte su sei gare giocate, il nome dell’F91 Dudelange è, di diritto, nella storia del calcio mondiale. È stata la prima squadra del piccolo Lussemburgo a giocare con i grandi del calcio europeo. Una città di meno di 20.000 abitanti (l’intera comunità riempirebbe solo uno spicchio dell’intero San Siro) ha pasteggiato al tavolo dei grandi senatori del calcio che conta, riuscendo a non sfigurare. Una bellissima favola, l’ennesima dimostrazione che, nel calcio, le motivazioni possono contare più di soldi e blasone. Ma l’F91 Dudelange non ha certo terminato il suo strabiliante cammino verso il gotha del calcio. Come ha dichiarato lo stesso Toppmoller, il nuovo, rinnovato, sogno è quello di tornare a riassaporare, il prima possibile, l’atmosfera del calcio europeo magari provando a diventare la prima squadra lussemburghese capace di vincere una partita e, chissà, superare, un giorno, anche la fase a gironi… Arrivederci F91 Dudelange!
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TI I N I F O N O S DOVE
Mario Alberto Santana
di Sergio Stanco
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Garra argentina
Intervista a Mario Alberto Santana, argentino di nascita ma italiano d’adozione, che ha vestito maglie prestigiose della nostra Serie A e che, oggi, a 37 anni, ha ancora voglia di stupire.
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ario Alberto Santana è ormai un uomo di trentasette anni, ma con la voglia di un ragazzino. Ne è passato di tempo da quando, bambino, non lasciava il pallone neanche per andare a dormire. Come ci ripete spesso durante l’intervista, però, il “fuoco” dentro è sempre lo stesso. La pancia brucia ancora, il cuore batte forte e non importa se si tratti di un allenamento, di Serie C, e i campi non siano più quelli da biliardo di una volta, la cosa fondamentale è che la passione sia ancora quella di quando, da piccolo, rincorreva la palla in Argentina: “Fin da bimbo il calcio è sempre stato una “malattia” per me, giocavo sempre, dalla mattina alla sera, per strada, ovunque. Mio padre è tifoso del River, ma non è mai stato accanito. Avevo qualche zio fanatico, ma è qualcosa che ho maturato da solo. Non so come sia successo, mi sono semplicemente innamorato”. E nonostante qualche momento di crisi, come in ogni matrimonio che si rispetti, dopo trentasette anni Mario non si è arreso agli infortuni, alle difficoltà, si è rimesso in discussione, e per amore ha ricominciato da capo, ripartendo da Busto Ar-
sizio, da Serie D e Lega Pro: “Alla Pro Patria ho trovato un ambiente ideale. Dopo la splendida esperienza a Frosinone in prestito sono tornato al Genoa, ma non c’è stato modo di convincere società ed allenatore nonostante avessi cercato di fare un ottimo ritiro. Non riuscivo a concepire di non vivere lo spogliatoio, le sensazioni della partita, le emozioni dello stadio, e così ho deciso di rescindere. Avevo quasi maturato l’idea di mollare tutto, poi è arrivata la chiamata della Pro Patria: ci ho pensato un po’, ne ho parlato con mia moglie e poi mi sono detto “proviamoci, vediamo come va”. Al primo allenamento ho sentito la pancia gorgogliare come una volta e ho capito che non me ne sarei più andato”. Lo dice con un sorriso aperto, come quello di un bambino a cui hanno regalato un pallone nuovo, magari di cuoio, che oggi sembra la normalità, ma che un tempo era un lusso: “Sono cresciuto in una famiglia normale, numerosa. Mio papà faceva il muratore, era un uomo concreto, perché non si può non esserlo quando devi portare a casa il pane per sfamare moglie e figli. Mia mamma era casalinga e se sono qui devo dire grazie a lei, perché mio padre
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DOVE SONO
FINITI?
Mario Alberto Santana badava al sodo e mi avrebbe voluto far lavorare con lui, cosa che per altro ho fatto fino a quando non sono diventato professionista, mentre mia madre mi assecondava, mi difendeva e mi spingeva a realizzare il mio sogno. Anche a mio padre sarebbe piaciuto vedermi calciatore, intendiamoci, ma era più pragmatico. Comunque, non dimenticherò mai la sua felicità quando, dopo un San Lorenzo-River, in cui vincemmo e segnai pure un gol alla sua squadra del cuore, gli regalai la maglietta che avevo scambiato con un avversario. Non mi disse nemmeno “bravo”, ma si vedeva che era orgoglioso”. Al San Lorenzo di Almagro, che oggi tutti conoscono come la squadra di Papa Francesco, è iniziata la sua avventura, ma è in Italia che Mario è diventato grande: “Sono arrivato qui poco più che ventenne per fare un provino con il Piacenza. Sono stato un mese ad allenarmi e poi non mi hanno preso. Ero pronto a tornare in Argentina, quando invece è arrivato il Direttore Rino Foschi, che probabilmente mi aveva visto in qualche partita amichevole, e mi ha fatto firmare immediatamente per il Venezia”. Da allora sono passati più di 15 anni, quasi interamente trascorsi in Italia. Mario è diventato italiano, non solo d’adozione, ma anche ufficialmente visto che ha il doppio passaporto. La pasta è la sua migliore amica-nemica e il futuro se lo immagina tricolore, ma le origini non si dimenticano: “Mi sento e mi sentirò sempre profondamente argentino, lì è dove sono nato, dove sono cresciuto e dove ancora ho i miei affetti, ma all’Italia devo tutto ed è qui che, probabilmente, perché nel calcio e nella vita non si può mai dire, resterò a vivere anche una volta che avrò smesso. Ho comprato una casa a Palermo e se mi dovessi immaginare da qui a qualche anno, è lì che mi vedo. In Sicilia ho vissuto alcuni dei migliori anni della mia vita e della mia carriera, lì la gente mi ricorda ancora con affetto e ogni volta che torno da quelle parti è sempre una festa. Da voi si vive bene, tranquilli, sicuri, cose che voi
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Credit ufficio stampa Pro Patria - Giovanni Garavaglia
date per scontato, ma non è ovunque così”. Già, Palermo, uno dei trasferimenti più strani e contestati della storia del calcio italiano, ricordato come lo “scippo” di Zamparini al Venezia: “Ricordo che ci avevano riunito tutti in uno stanzone e c’era il Direttore Foschi che parlava e stava spiegando quello che era accaduto (di fatto Zamparini, proprietario del Venezia, aveva acquistato il Palermo, ndr). E allora chiedevano di mettersi a destra o a sinistra a seconda di cosa volessimo fare, se restare a Venezia o andare a Palermo. Solo che io non capivo nulla di quello che stavano dicendo, ho scelto un lato a caso e mi son messo dalla parte del Venezia. Venne da me il Direttore e mi disse: “No, tu non hai scelta, tu vieni a Palermo e basta”. A Palermo una storica qualificazione in Coppa Uefa che riempì d’orgoglio la città, poi un lungo peregrinare che gli ha fatto vestire maglie importanti e prestigiose come quella del Genoa, del Torino, del Napoli, ma soprattutto cinque anni meravigliosi con quella della Fiorentina: “È stato probabilmente il momento professionale più alto della mia carriera, nonostante gli infortuni. Quella Fiorentina era una squadra fortissima, giocavamo benissi-
mo e siamo riusciti ad ottenere grandi risultati, come la qualificazione in Coppa Uefa (pur partendo da una pesante penalizzazione) e la Champions League. A Firenze ho condiviso lo spogliatoio con grandi giocatori, uno tra tutti Mutu, uno dei giocatori più forti con i quali abbia mai giocato. Quando c’era con la testa, ti faceva vincere le partite da solo. Con le qualità che aveva avrebbe potuto fare grandissime cose. Comunque quegli anni alla Fiorentina sono stati eccezionali, li ricordo ancora con affetto. E quando oggi mi capita di tornare, anche a Firenze mi accolgono benissimo. Significa che qualcosa ho lasciato, nonostante tutti i problemi fisici”. Già, perché gli infortuni hanno sicuramente tolto tanto a Santana, ma anche a noi: chissà quanti dribbling, quanti doppi passi, quante magie ci siamo persi per quei dannati infortuni: “Non so dove sarei potuto arrivare senza, ma non voglio pensarci (sorriso amaro, ndr). Sono comunque contento di quello che sono riuscito a fare nella mia carriera: giocare quindici, sedici anni ad altissimi livelli non è da tutti. Vestire la maglia della mia Nazionale, poi, è stato qualcosa di meraviglioso, ricordo ancora i brividi all’inno. Non si può spiegare cosa significhi vestire quella maglia per un argentino, anche perché da noi ci sono tantissimi giocatori forti e non è per niente facile riuscirci. Ho ancora il video dei miei genitori che, mentre guardano la mia prima partita con l’Argentina, piangono. Queste sono gioie che niente e nessuno mi toglierà, nemmeno il dolore provato per gli infortuni. E, poi, anche nei momenti brutti si impara qualcosa, si trovano risvolti positivi: non dimenticherò mai, ad esempio come mi trattò mister Prandelli in quel periodo. Come un secondo padre: mi è stato vicino, mi ha incoraggiato, aspettato. Dopo la seconda rottura del ginocchio a sei mesi dal mio rientro, avrei voluto mollare tutto. Se sono ancora qui devo dire grazie a Prandelli, che mi ha “coccolato” e mi ha sempre dato fiducia”. Sono tanti i passaggi fondamentali
e i mister decisivi della carriera di Mario: “A parte Prandelli, devo molto anche a Ventura, che mi ha insegnato tantissimo. Con lui mi sono anche scontrato duramente a volte, ma è stato importantissimo per me. Un altro con cui mi sono trovato bene è Mihajlovic, forse perché caratterialmente siamo molto simili: parliamo poco ma ci facciamo capire (sorride, ndr). E ora qui a Busto Arsizio ho scoperto mister Javorcic, persona eccezionale, di un’umanità straordinaria, con il quale ho un rapporto davvero bello. Credo che presto sentiremo parlare molto di lui”. Pro Patria, appunto, la seconda giovinezza di Santana: “Qui si sta molto bene, è una piazza importante, appassionata. L’obiettivo era quello di riportarla almeno in Serie C, torneo più adatto al livello di questo club e di questa splendida tifoseria. Ora che ce l’abbiamo fatta, puntiamo innanzitutto a mantenere la categoria in un campionato difficile come quello che stiamo disputando, poi si vedrà”. Un torneo così importante dove gioca anche la Juve... “Certo, fa strano vedere le maglie bianconere sui nostri campi, ma le squadre B per me rappresentano una buona opportunità per i giovani. Peccato che qualcosa non abbia funzionato a livello di tempistiche, di organizzazione e che dunque sia stata solo la Juve ad iscrivere la propria squadra. Speriamo che in futuro sistemino questa anomalia, perché può essere uno strumento di crescita importante per i giovani”. Parla già da mister, Mario, anche se l’idea del ritiro al momento è ancora lontana: “Fino a quando sentirò questa “cosina” nella pancia, e fino a quando riuscirò a correre, il mio posto è in campo. Poi, in futuro, vedremo. Ovvio, mi piacerebbe restare nel mondo del calcio, un domani molto lontano (sorride, ndr) mi immagino allenatore, ma so anche che non sarà semplice. Vedremo, per il momento non voglio pensarci”. Anche perché c’è ancora da rincorrere un pallone. Con la stessa “garra” del bimbo argentino nato e cresciuto in Patagonia...
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N E D I S E R P I D GRAN Franco Sensi di Davide Orlando
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Credit Foto: Liverani
LA ROMA DI FRANCO L’era Sensi ha lasciato il segno nel cuore del popolo giallorosso…
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ranco Sensi è stato, indubbiamente, il presidente più amato della lunga storia della Roma, il fautore della lunga cavalcata verso il terzo scudetto dei giallorossi, arrivato nel 2001 con Fabio Capello. Un trofeo desiderato, combattuto, fortemente voluto da una squadra composta da campioni che fecero sognare una città intera, una tifoseria che, proprio al presidente Sensi, è (e sarà) eternamente grata. Presidente numero venti della società giallorossa, Franco Sensi fu uno degli ultimi baluardi di un calcio fatto di passione, emozioni e sentimenti, di attaccamento e di rispetto verso la storia di una società sportiva che, oggi, il business ha evoluto e trasformato. Un presidente-tifoso come pochi altri che rimase alla guida del club della capitale dal 1993 al 2008: quindici lunghi anni, intensi che, oltre a uno scudetto, aggiunsero alla sala trofei romanista, anche due Coppa Italia e due Supercoppe Italiane. Scomparso il 17 agosto 2008 dopo una lunga malattia, Sensi acquisì il controllo del pacchetto di maggioranza della Roma nel maggio del 1993, attraverso partecipazioni nella società controllante,
insieme a Pietro Mezzaroma, imprenditore ed ex dirigente sportivo che, dopo circa sei mesi, cedette le proprie quote, consentendo a Franco Sensi di diventare unico proprietario della società, nonché presidente della stessa. “Ho preso un cadavere” dichiarò scherzando al momento dell’acquisto: sicuramente un gran traguardo per lui e per la stessa città di Roma che, a quel tempo, stava rischiando di veder scomparire per sempre la società, ormai sull’orlo del fallimento dopo l’era del presidente Ciarrapico, arrestato per bancarotta fraudolenta. Un obiettivo prestigioso raggiunto con tanta gavetta e un percorso che parte da lontano: nato a Roma nel 1926, figlio dell’imprenditore Silvio Sensi, eredita la passione per il calcio proprio dal padre. Dopo la laurea in matematica all’Università di Messina, il giovane Sensi entra a far parte della società giallorossa all’età di 28 anni, quando gli venne riconosciuto il ruolo di consigliere all’interno dell’organigramma societario. Un legame con Roma (e con la Roma) viscerale che dapprima lo portò a guadagnarsi il ruolo di dirigente sette anni più tardi e che si interruppe per un
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breve periodo: nel 1960, infatti, si allontanò dal calcio per un breve periodo e fondò la Compagnia Italpetroli, rinomata società attiva nel settore petrolifero e petrolchimico che negli anni Ottanta diventò una holding internazionale. Una carriera lavorativa di successo con buoni risultati anche in politica: sempre durante gli anni Ottanta venne eletto tra le file delle Democrazia Cristiana e divenne, nel frattempo, sindaco di Visso, piccola cittadina delle Marche (paesino che diede le origini ai suoi familiari) dove rimase in carica per dieci anni. L’esperienza politica portò il presidente a candidarsi, nel 2002, per la presidenza della Lega Calcio: il suo carattere deciso e fumantino e il suo essere spesso controcorrente e, talvolta, anticonformista, però lo penalizzò. La forte opposizione di grandi società come Milan e Juventus e la loro decisione di appoggiare Stefano Tanzi lo convinsero a ritirare la candidatura
e schierarsi con Antonio Matarrese, che però, perse la sua battaglia politico-sportiva contro Adriano Galliani, a quell’epoca amministratore delegato del Milan. L’ambizione sportiva di Franco Sensi non si fermò, però, al solo acquisto della Roma: alla fine degli anni Novanta, per una cifra di circa cinque miliardi di lire, acquisì dapprima il 60% del pacchetto azionario Foggia Calcio (a quel tempo militante in serie C1) e poi il Nizza, società calcistica della serie B francese. Lo sbarco in Francia, in particolare, fu contornato da scetticismo e molte domande, ma che in poco tempo trasformò la figura del tycoon italiano da ricco imprenditore affamato di successo a elegante uomo di sport. Il programma era realmente esistente e ambizioso: nuovo centro di allenamento, nuovo presidente, nuovo general manager e politica sportiva rinnovata. L’obiettivo era ben chiaro: ridare nuova luce al Nizza,
GLI ACQUISTI TOP Un’era di battaglie, di vittorie, di sconfitte ma anche di acquisti, che nel tempo, hanno fatto sognare tanti tifosi. I primi anni vennero dedicati principalmente a dedicare i conti ma anche ad acquistare giocatori con l’obiettivo di combattere le grandi in Italia e raggiungere traguardi prestigiosi in Europa. Chi fu il primo acquisto di Sensi? Abel Balbo, attaccante argentino acquistato dall’Udinese per diciotto miliardi delle vecchie lire che rimarrà per cinque anni in maglia giallorossa (e ci tornerà tra il 2000 e il 2002): gioie e dolori tra le fila della Roma, sicuramente un giocatore in grado di lasciare il segno nei cuori giallorossi. Gli albori della presidenza Sensi sono caratterizzati da risultati altalenanti e da giocatori destinati a rimanere tra i ricordi migliori: da Daniel Fonseca acquistato dal Napoli per 17,5 miliardi di vecchie lire a Francesco Moriero arrivato a Roma da Cagliari nel 1994, da Marco Delvecchio prelevato dall’Inter a Gigi Di Biagio acquistato nel 1995 dal Foggia. La storia più recente porta a ricordare nomi come Emerson detto Il Puma arrivato a Roma nel 2000 dal Bayer Leverkusen per 20 milioni di euro e il giapponese Nakata sbarcato nella capitale nell’estate del 2000 per 20 milioni di euro direttamente da Perugia. Nel 1999, invece, Fabio Capello (allora allenatore della Roma) accoglie tra le sue braccia Vincenzo Montella, acquistato dalla Sampdoria per 45 miliardi di lire. E poi come dimenticare Antonio Cassano? L’ eclettico attaccante che Sensi riuscì ad acquistare per quasi cinquanta miliardi dal Bari strappandolo alla concorrenza agguerrita delle top team. C’è, però, un acquisto che più di tutti fece sognare i tifosi della Roma: il suo nome è Gabriel Omar Batistuta che Franco Sensi acquistò per la “modica” cifra di settanta miliardi dalla Fiorentina, ammutolendo chi lo tacciava di essere un presidente “taccagno”. Un acquisto top, da grande d’Europa, che i tifosi accolsero con entusiasmo e che consacrò definitivamente la Roma tra le big d’Italia. L’argentino arrivò a Roma nel 2000 e nel 2001, anche grazie ai suoi gol, fu scudetto. Il Re Leone rimase all’ombra del Colosseo tre anni e alla fine della sua esperienza romana venne ceduto all’Inter.
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rinforzare il Foggia e, al contempo, creare delle società satellite dove dare spazio ai giovani e far crescere i futuri campioni per la Roma. Purtroppo, in poco, entrambi i progetti naufragarono e, prima di dedicarsi completamente alla squadra della capitale, Franco Sensi ebbe tempo per salvare il Palermo dal fallimento. Trenta miliardi (di cui venti destinati al mercato): questa la cifra che il presidente spese per rilevare la società e per raggiungere la promozione in serie B. Una cavalcata impressionate, quella dei rosanero, alla quale il pubblico siciliano assistette con entusiasmo. Gli artefici del sogno furono i giocatori, l’allenatore e, in particolare, il direttore sportivo Giorgio Perinetti che costruì, con successo una rosa in grado di mantenere la testa della classifica per tutto il campionato. Un’avventura meravigliosa, quella palermitana, durata due anni, coronata da successi e tanto affetto da parte dei supporters siciliani che, ancora oggi, ricordano con piacere le gesta del vecchio presidente. Nel 2002 la parte giallorossa del cuore prese definitivamente il sopravvento e portò Franco Sensi a cedere il Palermo a Maurizio Zamparini e a dedicarsi completamente alla causa romanista.
Gli allenatori Franco Sensi e gli allenatori, un rapporto schietto, profondo, sanguigno. Carlo Mazzone, Carlos Bianchi, Zdenek Zeman: tre figure emblematiche che hanno caratterizzato l’epoca del vulcanico presidente romano. “Ho preso la Roma in fallimento per venti miliardi, ma poi ho trovato altri cento miliardi di debiti. (…) Per ricostruire tutto ci sono volute tre fasi. Quando c’erano i due punti serviva un tecnico che garantisse la permanenza in Serie A. Ecco perché presi Mazzone, una persona squisita, un amico vero che mi fa piacere menzionare.” Questo disse Franco Sensi a proposito di Carlo Mazzone, allenatore verace, romano che più romano nun se po’. Un personaggio
Nel 2001, apoteosi con la vittoria dello Scudetto con Capello alla guida
amato dai tifosi, capace, preparato, di polso e anche divertente che deve molto alla famiglia Sensi. Mazzone, infatti, fu l’allenatore scelto dal presidente per costruire e ridare solidità alla squadra nel massimo campionato e in tre anni i risultati furono, complessivamente buoni. L’allenatore assicurò stabilmente la Serie A ai giallorossi ottenendo un settimo e due quinti posti. Un legame forte quello tra Sensi e Mazzone che dopo la cessione della Roma della famiglia Sensi dichiarò: “Ringrazierò sempre Franco Sensi per avermi dato l’opportunità di rimanere nella storia della Roma. Mi hanno dimostrato sempre il massimo rispetto, soprattutto nel mio primo anno quando non vincevamo mai. Resterò sempre legato a questa famiglia”. Il rapporto tra Carlos Bianchi e la Roma di Sensi non fu dei più idilliaci: l’esperienza dell’argentino fu complessivamente
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deludente. Era il 1996 e Franco Sensi, convinto dalla scelta di Capello (sua prima opzione) di accasarsi al Real Madrid decide di affidare la panchina a Carlos Bianchi, in uscita dal Velez e voglioso di approdare in Europa. L’allenatore sudamericano sbarca in Italia nell’estate dello stesso anno tra l’entusiasmo della tifoseria e dei giornalisti italiani, convinti dall’esperienza del manager argentino e dalla sua voglia di fare un calcio propositivo e vincente. Bianchi porta con sé il difensore argentino Trotta, considerato un top-player dalle parti di Buenos Aires. Il difensore si unisce a una rosa di tutto rispetto: dalla coppia di attaccanti sudamericani Balbo e Fonseca al brasiliano Aldair, da Marco Delvecchio a un giovanissimo Francesco Totti. Le aspettative ben presto crollano: una squadra potente, tecnicamente forte, considerata tra le favorite del campionato che però dimostra fin da subito i suoi limiti. Il KO di Cesena a inizio stagione e la conseguente eliminazione dalla Coppa Italia, deprimono l’ambiente immediatamente. La personalità di Bianchi, inoltre, spesso infastidisce la stampa italiana e lo stesso presidente Sensi che a gennaio della stessa stagione caccia via il pupillo del tecnico Trotta e Dahlin, quest’ultimo rimpiazzato dal francese del Guingamp Vincent Candela. C’è un nome, però, che più di altri fomenta la discordia tra tecnico e società: il giovane talento italiano Francesco Totti, futuro re di Roma del quale Franco Sensi è calcisticamente innamorato. Pare infatti che alla richiesta di Bianchi di scegliere “O Totti o me”, il presidente non ebbe alcuna esitazione: “Scelgo Totti” la sua secca risposta. Dopo una serie di deludenti risultati, Bianchi e la Roma si separano bruscamente e anzitempo: il 7 aprile della stessa stagione Franco Sensi caccia il tecnico argentino e affida la squadra al duo Liedholm-Sella che, però, non riescono a far meglio. La formazione giallorossa chiuderà il campionato al 12simo posto, fuori da tutte le coppe e a soli 4 punti dalla zona retrocessione. Una stagione disastrosa che vede però un fiore sbocciare nel deserto:
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Francesco Totti diventa, nel frattempo, capitano e simbolo della squadra. La separazione tra Zdeněk Zeman e la Roma di Sensi fu particolarmente dolorosa per il presidente, che nel tempo stabilì un buon legame con il tecnico boemo. Zeman passò dalle parti di Roma, sponda giallorossa, nella stagione 97-98 con l’obiettivo di rilanciare una squadra depressa ma desiderosa. Gran rivoluzione sul mercato e un gioco propositivo (segno distintivo dell’allenatore) portarono buoni risultati e la Roma chiuse il campionato al quarto posto in classifica. L’anno successivo, però, la squadra non si consolidò e dopo un quinto posto Franco Sensi optò per la separazione dall’allenatore che, comunque, rimase nel suo cuore: “Quella con Zeman è stata una situazione che ho sofferto molto e ancora mi fa soffrire. Lui è una bravissima persona, ma quest’anno abbiamo bisogno di certezze e Capello ne dà più di Zeman, che però rimane un grande allenatore, al punto che l’avrei tenuto anche per il terzo anno”. Il rapporto con Francesco Totti Il rapporto tra Franco Sensi e Francesco Totti si può riassumere in queste parole dell’ex numero dieci giallorosso: “Ci sono cose e persone che non vanno dimenticate. Oggi, in occasione del suo onomastico, il Presidente Franco Sensi viene ricordato con una cerimonia. Mi capita spesso di ripensare a lui, a quel che è stato: un grande uomo, sempre vero e diretto con tutti. Non ha mai avuto paura di combattere per le cose in cui credeva, e forse è per questo che era così amato e rispettato. Assieme alla sua famiglia ha dato moltissimo alla Roma, praticamente parte della vita, ed è soprattutto per merito suo se ho potuto legare l’intera mia carriera alla maglia giallorossa”. Un sentimento viscerale ha legato Totti alla maglia della Roma, una storia fatta di emozione, di passione, di vittorie ma anche di rinunce. Le richieste di big come Milan e Real Madrid, negli anni, non sono mancate ma nulla è stato più forte dell’amore di Francesco per la maglia e della
riconoscenza alla famiglia Sensi. “Il presidente Sensi è stato come un padre per me” queste le parole del capitano dopo la scomparsa del vecchio presidente: effettivamente fu proprio così. Franco Sensi è stato sicuramente il presidente più importante per Totti che con lui ha condiviso gran parte della carriera e soprattutto il suo primo (e unico) scudetto, vinto ne 2001. Un legame solido, indivisibile capace di resistere anche alle sirene galattiche del Real Madrid: nel 2002/2003, infatti, in seguito a un forte litigio con il presidente, Totti fu davvero vicino ai Blancos. Famiglia, amici e l’opposizione del presidente convinsero il numero die-
GLI ACQUISTI FLOP L’era Sensi fu costernata da acquisti azzeccati ma anche da alcuni giocatori che, a Roma, non lasciarono buoni ricordi. Il brasiliano Fabio Junior, per esempio, arrivò in città per 30 miliardi di lire con l’appellativo di Uragano Blu ma senza lasciare alcun segno. Il difensore argentino Roberto Trotta, invece, fu acquistato dal Velez Sarsfield durante il regno romano di Carlos Bianchi, ma rimase, senza gloria, tra le fila giallorosse solo mezza stagione. Un altro giocatore argentino carico di aspettative fu l’attaccante argentino Gustavo Bartelt: acquistato nel 1998 per tredici miliardi, fu preferito a un tale David Trezeguet e per la somiglianza venne paragonato immediatamente a Claudio Caniggia (ma solo fisicamente). Il bottino della sua esperienza romana? Quindici presenze e un solo gol. Era il 31 agosto 2004, invece, quando l’attaccante egiziano Mido lasciò il Marsiglia per accasarsi alla Roma per 6 milioni di euro. Una risposta decisa all’acquisto di Ibrahimovic da parte della Juventus: i propositi del presidente, però, furono ben presto disattesi. Il faraone egiziano fece complessivamente otto presenze stagionali e nessun gol. Peggior stagione di sempre per l’attaccante che, ben presto, venne ceduto in Inghilterra.
Sensi e Totti, un rapporto vero, autentico, unico
ci a rimanere e a terminare la carriera nella capitale, con buona pace di Perez e gran sollievo della curva romanista. Il rapporto con la curva “Io i tifosi me li abbraccerei tutti”. Poche parole ma significative possono spiegare quello che davvero rappresentava la passione della curva per Franco Sensi. Scontroso, irascibile, sanguigno, impulsivo ma anche un cuore colmo di sentimenti e di emozioni per un popolo che, alla Roma, ha dato (e continua a dare) tanto. Una piazza calda, difficile da gestire, complicata da accontentare. Una storia fatta di litigi e di riappacificazioni, di elogi e di contestazioni: il rapporto con la curva spesso fu turbolento. Una volta, per esempio, subì una contestazione per aver definito i tifosi “quaranta straccioni pagati da Moggi” o ancora quando, a causa del mancato acquisto di Legrottaglie (soffiato dalla Juventus) i tifosi, a Trigoria, esposero lo striscione “Hai perso Legrottaglie compra Le frattaglie”. Una storia di amore-odio tra il popolo di Roma e colui che rimarrà, per sempre, il presidente dello scudetto.
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n o d i b i e d o Alfabet Blaz Sliskovic
di Thomas Saccani
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Credit foto - Liverani
BAKA,
L’UOMO DEI VIZI
Geniale in campo e esagerato nella vita, Sliskovic non è mai stato banale…
C’
è stato un tempo in cui il talento, soprattutto di matrice sportiva, aveva un debole per un Paese ormai scomparso dalle cartine geografiche, ossia la Jugoslavia. Blaz Sliskovic è nato a Mostar, città dell’attuale Bosnia-Erzegovina. A soli 16 anni, fa già parte dei “grandi” del Velez Mostar. È un centrocampista con un fantastico senso per il gol. È geniale nelle giocate, proprio come si confà a chi ha sangue jugoslavo nelle vene. Nel 1981, a soli 22 anni, viene ingaggiato dall’Hajduk Spalato, uno dei club più famosi dell’ex Jugoslavia. Il Bili (soprannome dei tifosi dell’Hajduk Spalato) stravedono per Baka. Il calcio è la sua grande passione ma non l’unica. Adora affrontare la vita di petto. La notte è sua compagnia di viaggio (bene una quantità industriale di caffè per essere sempre “acceso”). Ha un debole per il gentil sesso ma, nel suo cuore, c’è posto anche per l’amore, quello vero. Mentre gioca con l’Hajduk, si innamora, follemente, di una ginnasta sovietica. Non ne può fare a meno, è il suo pensiero ricorrente. Cosa fare? La soluzione è “geniale”: scompare, solo per stare con il suo amore. Niente calcio, sceglie il cuore. Una decisione fuori dagli schemi, proprio come il suo modo di vedere e interpretare il calcio. Purtroppo, dopo circa un
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ei bi Alfabeto d Blaz Sliskovic
anno, l’amore si esaurisce e Baka decide di tornare a tirare calci ad un pallone. La sfortuna gli mette i bastoni tra le ruote: appena rientrato, s’infortuna gravemente. Impiega quasi un anno per rimettersi in sesto. L’ambiente dell’Hajduk gli sta stretto o, forse, gli ricorda l’amore perduto. Ecco, quindi, la scelta di emigrare. Per uno del suo status (vince il premio di Calciatore jugoslavo dell’anno nel 1985), le offerte non mancano. Accetta la proposta dell’O. Marsiglia. Siamo nell’estate del 1986, Maradona ha appena vinto il Mondiale. Sliskovic, che in patria hanno ribattezzato il Maradona dei Balcani, ci tiene enormemente a ben figurare in terra francese. I colpi di classe non mancano ma neppure gli eccessi extra campo. Dopo un solo anno (perde la finale di Coppa di Francia contro il Bordeaux), è già tempo di fare le valigie. Ha voglia di qualcosa di diverso. Questa volta, la meta è in Italia. Il Pescara dell’altrettanto geniale Galeone decide di puntare sul suo devastante talento, conscio dei rischi che comporta portarsi a casa uno come Baka. Il suo arrivo (con la formula del prestito) al club abruzzese è oscurato dall’acquisto di un certo Leo Junior
Galeone, il tecnico che ha più creduto in Baka
ma, in campo, Sliskovic, quando si accende, è una meraviglia. L’ex Hajduk si presenta alla grande. Alla sua prima uscita, in Coppa Italia, contro il Genoa, va subito in rete. Trova la via del gol anche all’esordio in campionato, battendo, su rigore, un certo Zenga (vittoria, a San Siro, del Pescara per 2-0 contro la corazzata Inter). Galeone stravede per il suo fantasista dalle divine giocate. Il Pescara è
BAKA INNAMORATO Qualche anno fa, Baka è tornato in Italia, in particolare a Pescara. Nella città abruzzese ha lasciato il cuore. Il miglior Sliskovic si è visto proprio nel suo primo, magico, anno italiano, con Galeone a guidarlo. Il Profeta è stato l’allenatore che lo ha capito sin da subito. Non l’ha ingabbiato in nessuno schema, non gli ha chiesto di rinunciare a caffè, sigarette e, probabilmente, a qualche bicchiere di vino di troppo. Gli ha permesso di giocare libero, senza condizionamenti. Non è un caso, che lo stesso Baka, abbia un ricordo magnifico del suo vecchio maestro Galeone: “Giovanni (Galeone, n.d.r.) credo che abbia capito subito il mio carattere. Sapeva che cosa potevo fare in campo e mi lasciava fare quello che volevo. Io l’ho rispettato tanto per questo atteggiamento. Ci siamo trovati subito alla grande. Se sono diventato allenatore, lo devo a Galeone”, le sue parole a Pescara Sport 24. Oggi Baka è maturato ma non rinnega nulla: “Se avessi fatto una vita più regolare, probabilmente avrei potuto giocare in qualche club importante. Ho giocato 36 partite con la mia nazionale ma non ho mai partecipato ad un Mondiale o ad un Europeo. Mi è mancata la consacrazione ma, se devo essere sincero, non cambierei nulla della mia vita da calciatore. Non ho rimpianti. Io ero felicissimo quando giocavo. Lo facevo per me stesso”, chiosa il talento che, per un anno, ha fatto impazzire il popolo biancazzurro.
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uno spettacolo e, buona parte del merito, va anche a Sliskovic. Il suo nome inizia a girare ai piani alti. Si vocifera di un interessamento della Roma e pure della Juventus. Poi, di colpo, il bellissimo sogno svanisce. Nella sfida, del 10 aprile 1988, valida per la 25.a giornata di Serie A, sul campo del Torino, Sliskovic si infortuna in maniera piuttosto seria ai legamenti del ginocchio (operato a Bologna, resterà fuori circa cinque mesi). Di fatto, la sua annata termina al Comunale di Torino (curiosamente, nelle successive ultime cinque gare di campionato, senza il talento di Baka, gli abruzzesi non vinceranno neanche una partita). Galeone, l’uomo che l’ha voluto al Pescara, fa di tutto per trattenerlo. L’OM, soddisfatto del rendimento di Baka, lo rivuole e chiede, per lasciarlo in terra abruzzese, una cifra folle (si vocifera di una richiesta, da parte dei francesi dell’allora patron Tapie, di circa otto miliardi di vecchie lire). Lo stesso Baka dichiara, a chiare lettere, di voler continuare ad indossare la casacca del Pescara ma le sue parole vengono ignorate. Al termine della sua prima stagione italiana, condita da otto reti in 23 gare, fa ritorno in Francia, all’O. Marsiglia che se ne libera velocemente, mandandolo al Lens. Non sta bene fisicamente e si vede. Gioca poco e male. Il fisico inizia a non rispondere più, dilaniato dai tanti vizi ai quali Baka non sa proprio dire di no. L’anno seguente indossa la casacca del Mulhouse, uno dei club più antichi di Francia
ma dal prestigio ridotto. Ritrova un minimo di continuità che gli vale la chiamata, l’anno seguente, del Rennes. Come nelle precedenti avventure, un solo anno e poi via. Nell’estate del 1992, a 33 anni, ritorna al Pescara. La scelta di chiamarlo è di Galeone, l’allenatore che, in tutta la sua carriera, l’ha stimato maggiormente. Gli abruzzesi hanno appena riconquistato la massima serie. Sliskovic viene indicato come uno dei “pezzi forti” per conquistare la salvezza. Purtroppo, i tanti infortuni, i troppi caffè, il numero esagerato di sigarette e la vita sempre al limite hanno segnato, in maniera tangibile, il talento di Mostar. Baka fatica enormemente, proprio come il Pescara (gli abruzzesi retrocederanno al termine della stagione, con Galeone esonerato alla 24.a giornata). Chiude la stagione con 18 presenze e un solo gol (contro il Genoa, la prima squadra a cui aveva segnato nella sua prima esperienza abruzzese). È il momento di abbandonare i sogni di gloria. Trascorre i successivi quattro anni giocando (poco) con l’Hrvatski Dragovoljac prima e lo Zrinjski Mostar dopo. Proprio mentre milita in quest’ultimo club, scopre di voler fare l’allenatore. Nel 2002 è il Ct della neonata nazionale della Bosnia Erzegovina. Nel 2004 si aggiudica il premio di Miglior Allenatore della Bosnia Erzegovina. Mentre allena la nazionale, nell’ottobre del 2004, prende il posto di Katalinic alla guida dell’amato Hajduk Spalato, vincendo il campionato croato (nel 1983/84 aveva vinto, da calciatore, la Coppa di Jugoslavia, proprio con l’Hajduk). Vince, successivamente, anche il massimo campionato albanese, con l’KF Tirana e, recentemente, ha conquistato, per ben due volte, il massimo campionato della Bosnia Erzegovina, sempre alla guida del Zrinjski Mostar. Meglio da allenatore che da giocatore? No, geniale in entrambi i ruoli… Fosse stato più accorto e più fortunato, sarebbe stato ricordato come uno dei più grandi talenti mai sfornati dall’ex Jugoslavia…
Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini
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Juventus - Porto di Luca Savarese
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BASILEA BIANCONERA L’anno prima ci fu l’amarezza di Atene, l’anno dopo ci sarà la tragedia dell’Heisel. In mezzo, la gioia contro il Porto…
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l 1983, per la Vecchia Signora, non era certo stato un annus mirabilis. In campionato lo Scudetto se lo era aggiudicato la Roma e i bianconeri erano arrivati secondi a quattro punti dai giallorossi. Se la seconda piazza è un posto onorevole per altre latitudini, si sa, dalle parti di via Massimo D’Azeglio, arrivare secondi significa essere il primo, ma tra i perdenti. Vincere, sulle pareti zebrate, non è importante, è l’unica cosa che conta. Boniperti dixit. Ma anche in Europa, Madama, aveva masticato amaro. Colpa di un tiro beffardo di Felix Magath, l’eroe della vittoria dell’Amburgo. Come dieci anni prima contro l’Ajax, dove un gol di Rep aveva dato ai lancieri la coppa dalle grandi orecchie ed alla Juve un pugno di mosche, anche dinanzi all’Amburgo, stessa sorte, stesso verdetto, stessi sogni, infranti. Così, nel conteggio dei trofei continentali, la Juve era ancora ferma ad uno: la Coppa Uefa vinta, nel 1977, contro l’Athletic Bilbao. Per fortuna, a consolare le grami vi-
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cissitudini, ci mise una pezza la Coppa Italia, che la compagine piemontese fece sua battendo nella doppia finale il Verona. A volte, quando varie strade si chiudono, bisogna trovare un’altra via. Questa via, per Roi Michel e soci, si chiamava Coppa delle Coppe. La rassegna, iniziata nel 1961 e vinta nella prima edizione dalla Fiorentina contro gli scozzesi del Glasgow Rangers, metteva di fronte i rispettivi vincitori delle coppe nazionali. Ecco che si profilava per la Juve una seconda navigazione. Non era più il vento forte della Coppa dei Campioni a spingerne le vele ma ora bisognava brandire nuovi remi e munirsi
IL TABELLINO DELLA PARTITA Coppa delle Coppe – Basilea, St Jakob Park – 16/05/1984
PORTO – JUVENTUS 1-2 PORTO: Zé Beto, João Pinto, Eduardo Luís (Costa 37’ st), Magalhaes (Walsh 20’ st), Eurico, Lima Pereira, Frasco, Sousa, Gomes, Jaime Pacheco, Vermelinho. A disposizione: Barradas, Inacio, Quinito. Allenatore: Pedroto JUVENTUS: Tacconi, Gentile, Cabrini, Bonini, Brio, Scirea, Vignola (Caricola 44’ st), Tardelli, Rossi P., Platini, Boniek. A disposizione: Bodini, Furino, Prandelli, Penzo. Allenatore: Trapattoni MARCATORI: 13’ Vignola, 29’ Sousa (P), 41’ Boniek Arbitro: Prokop (Germania Est) Ammonizioni: Joao Pinto (P), Lima Pereira (P), Platini (P)
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di operoso olio di gomito, calandosi nello scenario della Coppe delle Coppe. La nuova Juventus, anno 1984, era una squadra diversa rispetto all’anno precedente. Avevano vissuto il loro canto del cigno gente come Bettega e Zoff, due mostri sacri, rispettivamente dal 1970 e dal 1972 tra le amate file bianconere. Se il portierone aveva appeso i guanti al chiodo, Bobby gol aveva deciso di vivere le sue ultime cartucce da bomber in Canada con la maglia dei Toronto Blizzard. La dirigenza, da sempre lungimirante, aveva provveduto a sostituirli degnamente: erano infatti arrivati dall’Avellino l’estremo difensore Tacconi ed il promettente trequartista Vignola, dal Verona il centravanti Penzo, che proprio la Juve aveva spaventato siglando, nella finale d’andata della Coppa Italia poi vinta dai bianconeri, il gol del vantaggio veronese. Insomma, gente che va, gente che viene. Ma, anche, gente che rimane. Come Boniek e Platini, ormai ben oliati e fiore all’occhiello del club sabaudo. Al primo turno della Coppa delle Coppe, arriva una vera e propria pioggia di gol contro i malcapitati polacchi del Lechia Danzica. A Torino, ecco la doppietta di Platini, poi il magic moment della punta Penzo che sforna quattro gol e lancia un messaggio: Bettega, sarà degnamente rimpiazzato. Nel finale, c’è gloria anche per Pablito Rossi. L’andata termina 7 a 0. Il ritorno è una formalità o quasi, i polacchi provano a reagire facendo due gol ma Vignola, Tavola e Boniek li zittiscono prontamente. Il mix tra senatori (Boniek, Platini) e nuovi artisti (Penzo e Vi-
gnola) funziona. E in campionato? Anche lì, è già una Juve da 7+. Come l’Europa si apre all’insegna del 7, così alla prima puntata del nuovo torneo arriva il roboante 7 a 0 all’Ascoli, impallinato di gol. L’insaziabile Roi Michel precisa: “Preferisco vincere sette partite uno a zero che una sette a zero”. Lapidario, chiaro, senza bisogno di aggiungere altro. Come certe sue giocate, così, risultavano, certe sue espressioni. Parole e pallone, in fondo, per lui detenevano la stessa essenzialità. Il Trap ed i suoi scudieri mostrano che sarà davvero difficile tener il loro passo. In Italia ed in Europa. Uno su tutti, Bonini. Sammarinese di nascita ma figlio di un calcio vero, che non esce dal campo prima di aver corso un sacco di chilometri. “Il nostro fantastico terzo straniero”. Così, ebbe a definirlo l’Avvocato Agnelli, sempre pronto ad affibbiare la definizione più stravagante ed alla lunga, la più azzeccata. Bonini, arrivato in sordina nell’estate del 1981 dal Cesena, ci mette poco a far parlare di sé e del suo alto rendimento. È per Platini quello che fu, nel Milan di Rocco, Lodetti per Rivera: un’indispensabile borraccia. Perché i dieci celebrano messe di giocate e gol ma se non ci sono i sacristi del centrocampo, la liturgia risulta molto più complicata. Già, Bonini si faceva il mazzo poi Platini accendeva la luce. Ma non solo tra loro due anche nel resto della squadra c’era perfetta sintonia: undici teste che ragionavano al plurale, che sentivano che le esigenze del gruppo, venivano prima di ogni loro sghiribizzo. Intanto il cammino in Europa prosegue. Si
va a Parigi e sotto la Tour Eiffel arriva un 2 a 2 sofferto, battagliato, raggiunto. Parigi val bene una messa in onda di coraggio. Partono a spron battuto i transalpini. Spiovente dalla sinistra che sembra innocuo. Sembra. La Juve si dimentica di Couriol ma questi non si scorda il pallone e di testa schiaccia in rete freddando un Tacconi non proprio glaciale, nella circostanza. Madama si rimbocca subito le maniche, macina il suo calcio, fatto di contropiedi veloci e idee solide. Nel secondo tempo Platini e Boniek, nella patria di Cartesio, creano le coordinate del gol: triangolo elegante e tiro maligno del polacco coi baffetti. Sarà proprio questa vetrina europea a farlo diventare “Il bello di notte”, musica di Zibi, parole, ça va sans dire, dell’Avvocato, che aveva battezzato Platini “Il bello di giorno” poiché in campionato era una macchina da gol. Il Parco dei Principi diventa amico dei re bianconeri. Cabrini salta più in alto di tutti e crea il sorpasso. 1-2 con tutta la giustezza dei gol fuori che valgono doppio. I parigini troveranno il pari di N’Gom, ma dinanzi a questa Signora, sarà come sgranocchiare una baguette vuota. Gli ottavi ora per la Juve sono più sereni. Al ritorno infatti uno 0 a 0 spedisce la truppa avanti. Però, questo trenino della Coppa delle Coppe, non è poi così malaccio. Il primo giorno della primavera del 1984, Madama fa un viaggio in Finlandia. Come andare dalle parti di Babbo Natale quando in Italia sbocciano i primi fiori. Bisogna affrontare l’Haka Valkeakosken. Ci pensa a scaldare i cuori ed i corpi bianconeri Vignola, sempre
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IL RICORDO DI MASSIMO
Tra i protagonisti della finale col Porto c’era anche Bonini… Due chiacchiere con Massimo Bonini, centrocampista tuttofare della Juventus e tra gli eroi del successo in Coppa delle Coppe del 1984… Massimo ma è vero che da piccolo facevi il ciclista? “Si è vero, ma non solo il ciclista, ero amante dello sport e praticavo molto anche il tennis, mi vedevo da grande, come maestro di tennis. Da piccolo nel San Marino a calcio non mi facevano giocare, perché ero troppo piccolo e così ho iniziato a giocare a tennis perché avevano aperto dei campi vicino a casa mia. La mia fortuna, è stata che di fianco a casa mia abitava anche un signore, Paolini, che allenava la squadra locale della Juvenes e che quando m’incontrava mi diceva sempre: “Massimo, guarda che se il San Marino non ti fa giocare, ti porto io alla Juvenes”. Fu così che un giorno accettai e ho giocato un anno nella Juvenes. Senza allenarmi, facevo solo le partite. Da lì, è partito il mio viaggio nel mondo del calcio”. Il tuo primo ricordo targato Juve? “Fu un’emozione unica e continua. Sono partito con la mia macchina, non è che avevo il procuratore e cose del genere e mi son trovato a Torino dove fui trapiantato sul pullman della Juve con Rossi, che ai tempi era una sorta di Cristiano Ronaldo di adesso, Platini, Boniek, Cabrini, fu una botta di vita enorme. Fui presentato assieme a Rossi. Pensavo di essermi trovato lì per caso, mi dicevo ma c’è qualcosa di sbagliato qui... era il massimo per me che da bambino tifavo Juve e seguivo i bianconeri con passione”. Poi arriva il 13 settembre 1981: Juve-Cesena, esordisci in Serie A proprio contro la tua ex squadra… rilevando Tardelli al 54’. La gara finirà 6 a 1. Vincete a mani basse Che effetto ti fece? “La vita a volte è un incastro di combinazioni, davvero. Io l’anno prima giocavo con il Cesena e feci il gol contro l’Atalanta che decise di fatto la promozione in A dei romagnoli, poi ecco che vado alla Juve e addirittura esordisco contro il Cesena: il destino mi mette davanti la mia ex squadra. Poche volte capitano degli incroci così ricchi di significati. Il meglio che una persona possa sperare. Poi sostituire Tardelli fu una cosa che compresi solo a fine partita, lì per lì, non me ne resi conto”. Tre giorni dopo, bagni la tua prima volta anche in Coppa Campioni contro il Celtic e con ottimi risultati. Sei il nuovo Furino, nei cuori bianconeri e non solo… “Partita che ricorderò per tutta la vita, Trap decise di puntare su di me dandomi una fiducia immensa, coinvolgendomi alla grande. Lo stadio era piccolo, i tifosi locali erano incredibili, si facevano sentire, mi accorsi sulla mia pelle di come tifano da quelle parti: prima, durante e dopo, indipendentemente dall’esito. Poi mi accadde una cosa che nel calcio di oggi, sarebbe davvero impossibile: dimenticai il passaporto in albergo, lo andai a riprendere. Mica era tutto elettronico come ora...Era un calcio diverso, ma fantastico” A proposito di Europa: stagione 1983-84, l’anno della Coppa delle Coppe… “Si facemmo un cammino splendido. Battemmo squadre che oggi fanno tremare tutti come PSG e Manchester United. Poi in finale non fu facile perché affrontammo il Porto, maestri di quello che una volta si chiamava futebol bailado, grandi palleggiatori, dal tocco brasiliano. Avevano Gomez e Sousa. Fu però la serata di Vignola, che era arrivato quell’anno e mostrò di avere dei numeri. S’inventò il vantaggio con un sinistro radente ed improvviso. Poi loro pareggiarono ma Boniek riuscì a darci il gol
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della coppa con un gol da vero fuoriclasse in mezzo a due, anticipando il portiere in uscita. Poi la Coppa delle Coppe di allora era importantissima, un po’ come oggi l’Europa League”. Se ripensi un attimo alla sfida di Basilea, maglia gialla come il sole, pantaloncini blu come la notte, battete il Porto ed alzate al cielo la prima coppa coppe per la Juve, cosa vedi? “Vedo tantissimi tifosi juventini, ho un ricordo strano: c’era gente persino sopra gli alberi, lo stadio poi era in una buca, la stazione era praticamente attaccata tanto che ad un certo punto il treno si fermò e per 30 secondi, il tempo della fermata, i viaggiatori riuscirono a guardare un frammento di partita. Robe impensabili oggi. Lo stadio era tutto bianconero tipo Atene, l’anno prima dove, nel tragitto dall’albergo allo stadio, sembrava il giro d’Italia; Amburgo sembrava davvero tutta italiana e tutta juventina”. Non con le due ruote della bici, né con la racchetta in mano, ma con due piedi ed un pallone, di strada, ne hai scalata tanta. “Il nostro fantastico terzo straniero”. Così, molto carinamente, ti battezzo l’Avvocato. Lui, Boniperti e il Trap, che cosa hanno significato per te e per quello squadrone? “Per me rappresentò e rappresenta un onore immenso. Eravamo un gruppo di italiani, gran parte poi divennero campioni del mondo, era una squadra italiana, i due stranieri erano Platini e Boniek, io ho fatto la mia parte, quasi in modo inaspettato, prima di tutto per me. Fu davvero, affascinante. Credo di aver giocato nella Juve più forte di tutti i tempi, specie quella che arrivò in finale di Atene, poi non fu vincente ma che squadrone quello. Trap, Boniperti ed Agnelli avevano una mentalità vincente ed erano capaci, come pochi, di infondere una positività continua. E un atteggiamento così, per i giocatori, fa la differenza”.
più a suo agio, con quella casacca addosso. Al ritorno ecco lo squillo di Tardelli a regalare vittoria e qualificazione. Questo trenino della Coppe della Coppe piace molto alla Juve, che rispetta, ama e fa sua ogni fermata. Dalla Finlandia a Manchester, nella tana dello United. S’inizia a fare sul serio. Prima tappa all’Old Trafford, secondo round a Torino. Non era certo ancora il Manchester rullo compressore che di lì a poco avrebbe dettato legge con Sir Alex Ferguson al timone. Tanta fisicità al servizio della squadra. Certo c’era davanti Hughes, il gallese volante, ma non bastava per i vertici, che qualche anno più tardi, divennero appannaggio della formazione rossa di Manchester. Bastò poco quindi, esattamente 15’, alla Signora, per rompere gli indugi. Boniek prima di vedere sente dalla destra che al centro Pablito Rossi ha fame di gol: gli serve la palla. Il bomber pratese con la flemma dei grandi, prima la controlla poi inganna il suo marcatore con un leggero spostamento della sfera, la mette sul suo destro, spara: c’è una deviazione avversaria di Hogg, ma c’è, soprattutto, il gol. La Juve è già avanti. Davies pareggerà i conti,
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Juventus - Porto ma quanto pesa il gol in trasferta. Al ritorno continua inesorabile a valere la legge BR, Boniek-Rossi, coppia estremamente assortita, in grado di polverizzare qualsiasi difesa e di trovare intese felici. Il polacco, sempre più bello di notte, si beve anche la difesa dei Red Devils e con uno scavetto fredda il portiere Bailey, vera istituzione dello United, dove ci giocherà per ben nove stagioni. Madama, sta già flirtando con la finale. La Juve attacca ma poi quando meno se lo aspetta il Manchester riparte e con il nordirlandese Whiteside trova la rete del pari. Un attimo di spavento s’inerpica sulle schiene bianconere. Se la gara finisse così bisognerebbe ricorrere ai tempi supplementari. Ma
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quella Juve aveva sette vite ed una qualità immensa. Manca poco allo scadere. Arriva una palla sulla sinistra dove l’area piccola incontra quella grande. Lì, è già appostato Pablito Rossi, lui vede prima dove andranno certi palloni ed è lì apposta per trasformarli in oro. Sinistro maligno ed angolato, questa volta la strenua resistenza di Bailey deve arrendersi. Ha segnato il puntero, la Juve ha vinto, la Juve è in finale. Appuntamento a Basilea, a maggio. Ma chi troverà dall’altra parte? Lo sfidante si chiama Porto, capace di far fuori i Rangers di Glasgow, lo Shakhtar Donetsk che allora era ancora sotto l’egida sovietica e di piegare in semifinale gli scozzesi dell’A-
Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini
berdeen, allenati all’epoca, da un signore che di strada, in panchina, ne farà parecchia: Alex Ferguson. Il palleggio, non c’è dubbio, è il fiore all’occhiello dei portoghesi. Ma non è un palleggio fine a se stesso ma sempre finalizzato al meglio dai tocchi di Pacheco, dalle stoccate di Gomes, una potenza del futebol lusitano, punta che ci mette davvero poco a farti male (curiosità: l’attaccante Nuno Gomes, ex Fiorentina e Benfica, tra la fine dei novanta e l’inizio dei duemila, venne chiamato così da piccolo in onore a quel Gomes). Occhio anche a Sousa là davanti. Maggio arriva presto, anche il 16, giorno della finale. La Juve vuole rifarsi dopo aver lasciato l’altra coppa, quella con le orecchie grandi, dodici mesi prima ad Atene, portata a casa dall’Amburgo. Il Porto vuole provare a mettere in mostra il suo calcio che danza e scocca. Lo stadio Sant’Jacob di Basilea, che aveva già ospitato cinque finali di Coppa delle Coppe, è presto preda di migliaia di juventini. La Svizzera non è lontana da Torino, il tifo zebrato è riccamente sparso. Sono 30.000 cuori bianconeri con un solo grande desiderio: dimenticare Atene. A dirigere la gara arriva, dalla Germania dell’Est, il signor Prokop. La Juve, rigorosamente a “modulo misto”, dove ogni interprete era disposto ad applicare al contempo la marcatura a zona ed il continuo attacco degli spazi proprio del calcio totale che Trap sceglie è questa: in porta Tacconi, libero Scirea, davanti a lui Gentile, Cabrini e Brio. In mezzo al campo Bonini e Tardelli poi Vignola, Rossi, Platini e Boniek. Tacconi e Vignola, l’anno prima, di questi tempi, erano alle pre-
se con i lupi avellinesi che riuscirono a mantenere in Serie A. Adesso, si stanno giocando la loro prima finale europea. Tu chiamale, se vuoi, emozioni, direbbe Battisti. La Juve, a proposito del Lucio nazionale, ci mette poco a far iniziare il suo canto libero: scende in campo in maglia gialla come le stelle e con pantaloncini blu come la notte quando è piena di sogni. Trap gesticola, Tacconi rinvia, cresce l’adrenalina, sale l’appetito, svanisce l’amarezza vissuta in Grecia. Da un tiro beffardo di Magath ad un sinistro benedetto: a scagliarlo, è il professorino Beniamino Vignola: a volte incassi, il giro dopo riscuoti, solo il calcio sa quando e come. Lo scaglia defilato, sulla sinistra, dove di solito partono i cross. Infatti, Ze Beto mai pensa che quel pallone arrivi dalle sue parti, invece ci arriva e dopo aver picchiato il palo, lo batte. Che bella Signora nel cielo di Basilea. Sousa pareggia i conti con un altro sinistro da fuori area, questa volta da posizione più centrale, ma quella Juve ha dentro più motivazioni. Si mettono tutte nel corpicino sgusciante di Boniek. Rimpallo nello stretto, tra un nugolo di garretti e tacchetti, palla che sembra l’elogio della lentezza di Kundera: Zè Beto deve arrendersi, come tutti i suoi compagni. La Juve dopo l’Uefa del ‘77 torna ad alzare al cielo una coppa europea. A farlo, per primo, è capitan Scirea. Nel 1989, in un incidente stradale, perderà la vita. Un anno più tardi, nello stesso modo, se ne andrà anche Ze Beto, portiere del Porto. Avversari quella notte, compagni nel cielo. Ma il cielo, quel 16 maggio a Basilea, fu solo bianco e nero: si, Madama era tornata a conquistare l’Europa.
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SCOVATE
da carletto Carlo CARLETTO Nicoletti (Direttore Artistico MATCH MUSIC) seguirà i profili Instagram e Twitter dei giocatori più importanti del pianeta Calcio e ci segnalerà le foto e i tweet più divertenti e particolari. Segnalate quelle che magari potrebbero sfuggirgli scrivendogli al suo profilo Twitter e Instagram @carlettoweb
RONALDO
Sempre più inserito nel campionato italiano, il campione portoghese è pronto per una cena natalizia con la compagna e il primo genito.
PJANIC
Un altro campione juventino pronto per una delle tante cene natalizie di questo periodo.
BABACAR
Ha ritrovato la via del goal ed è pronto insieme ai suoi compagni di squadra alla cena di Natale del Sassuolo.
IAGO FALQUE
Cena di Natale anche per il Toro, qui Izzo, Belotti, Ansaldi e Rincon.
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MALDINI
Rientrato a pieno regime nel Milan ecco una reunion con il DJ Ringo e l’ex Angelo Carbone.
SNEIJDER
L’ex giocatore dell’Inter del triplete e del Real Madrid con l’attuale presidente della FIFA Infantino.
GOTZE
Due grandi campioni, uno del calcio e l’altro del tennis: Zverev.
DAVID LUIZ
Viaggio di relax per il Chelsea impegnato in Coppa in Ungheria.
il divertimento è di rigore su
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