Antonio Tabucchi

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ricordo più come si chiamava, e a un certo punto arrivò il conte. Non avevo naturalmente idea di chi fosse, era un uomo corpulento, con un pizzo rossiccio, non più giovanissimo, blazer blu su pantaloni chiari, occhiali da sole antiquati, bastone e giornale, tipo banchiere o avvocato con molti soldi. Si accomodò presentandosi e accavallò le gambe con goffaggine, perché era troppo robusto. Credo che mia moglie sia entrata in contatto con lei per farle una proposta di lavoro, disse lentamente, amerei definire i termini della questione. Aveva una voce annoiata, quasi melensa, come se la cosa non lo riguardasse e volesse al più presto risolvere quella seccatura con un assegno. Abbiamo una vecchia macchina, continuò, è una Bugatti Royale del Ventisette, mia moglie si è messa in testa di portarla a Biarritz per un rallye che fanno a San Sebastiano. Come prevedevo tirò fuori il libretto degli assegni, vi scrisse una cifra che per me valeva più di una Bugatti e poi firmò. Il suo volto si annoiò più che mai, e io mi sentii prendere fuoco, ma cercai di controllarmi. La Francia è piena di autisti, stavo per dire, un semplice annuncio sul giornale e avrà una fila di servi alla porta, e ora se non le spiace sono molto occupato. Ma invece lui disse: desidero che lei rifiuti di accompagnarla. E mi tese l'assegno. Rimase con l'assegno fra le dita, perché io lo guardavo con l'aria ebete di quando si è colti di sorpresa, e insieme sentivo che c'era qualcosa di oscuro in quella storia, tutto era troppo vago, e troppo contraddittorio. Non seppi perché, fu l'istinto: non conosco sua moglie e non ho mai avuto proposte di lavoro, mentii, non capisco di cosa stia parlando. Anche lui restò sorpreso, ne sono certo, ma non si scompose. Strappò l'assegno e lo gettò nel cestino, quand'è così scusi il disturbo, disse, il mio segretario deve essersi sbagliato, buon giorno. Appena uscì telefonai a quel numero. Mi rispose l'Hótel de Paris, la signora contessa e il signor conte sono fuori, desidera lasciare un messaggio? E' un messaggio personale, dica alla contessa che ha telefonato il marchese di Carabas, basta questo. Era proprio una Bugatti Royale, un coupé de ville, non so se a lei dice qualcosa, Monsieur, capisco che possa non dirle nulla. Andai a prenderla con Albert in un piccolo garage del Quai d'Anjou, una porta di legno su un cortiletto muschioso come in una casa inglese e, sotto, la Senna. Albert non credeva ai suoi occhi, non è possibile, ripeteva, non è possibile; e accarezzava i parafanghi affusolati e lunghi, non so se lei riesce a capire, ma nella Bugatti c'è l'idea del corpo femminile, una donna appoggiata sulla schiena con le gambe in avanti. Era un esemplare superbo, con la carrozzeria in condizioni eccellenti, anche la tappezzeria, in velluto damascato, era in discreto stato, appena qualche buco di tarma, e uno strappo. Il problema erano le ruote e i tubi di scappamento, almeno a una prima occhiata. Il motore non sembrava avere sofferto della lunga inattività, aspettava solo che qualcuno lo svegliasse dal letargo. Riuscimmo a svegliarlo e portammo la macchina in officina. Mancava l'elefante sul cofano, fu l'unica brutta sorpresa, perché non si può andare a un rallye con una Bugatti Royale senza elefante. Forse lei non lo sa, o non ci ha mai fatto caso, ma la Bugatti aveva sul cofano, proprio all'apice della volta della griglia, la statuetta d'argento di un elefante. Era una scultura del fratello di Ettore, Rembrandt Bugatti, e non era solo un marchio della casa, come la Vittoria Alata della Rolls o il cigno della Packard, quello era un vero simbolo, misterioso da decifrare come tutti i simboli, era un elefante in piedi sulle zampe posteriori e la proboscide eretta in un barrito di aggressione o di accoppiamento. E' un'associazione di idee troppo facile? Può darsi. Ma lei pensi: una Bugatti Royale adagiata sulla schiena, in leggera salita, gli alettoni divaricati in avanti, pronta alla velocità, all'ebbrezza, con quella griglia favolosa, un reticolato dietro il quale pulsano l'energia e la vita: e sopra un elefante con la proboscide eretta. Io volevo tenermi in disparte, Albert telefonò all'Hótel de Paris, nel caso la contessa sapesse che fine aveva fatto l'elefante, era semplicemente sparito, bah, perduto, disse Albert, la macchina era ferma da troppo tempo, hanno detto che bisogna farne una copia. E così dovemmo cercare una soluzione in quelle tre settimane, mentre tiravamo a lustro motore e carrozzeria. Un cilindro aveva bisogno di una piccola rettifica, ma non fu un gran problema. Il tappezziere era un giovanottino con un negozio in Rue Le Peletier, un furbacchione, faceva


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