Medioevo n. 276 Gennaio 2020

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L DE ’AN FIR L B TIC EN AT A P ZE TIS O TE RTA RO

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

I LEONI DI FIRENZE

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MEDIOEVO n. 276 GENNAIO 2020

EDIO VO M E

IN EDICOLA IL 3 GENNAIO 2020



SOMMARIO

Gennaio 2020

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ANTEPRIMA MEDIOEVO INVENTORE Note, tetra- e pentagrammi

Il sistema di Guido

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ARCHEOLOGIA La memoria del santo

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ITINERARI In cammino con Martino Un Medioevo da scoprire APPUNTAMENTI Fra dolci e giganti Devota, Graziano e un capitano sacrilego L’Agenda del Mese

9 14 19 20 24

STORIE RESTAURI Firenze Uno spettacolo unico al mondo

COSTUME E SOCIETÀ

di Timothy Verdon, con contributi di Laura Speranza, Stefania Agnoletti e Annalena Brini 36

MEDIEVALISMO/10 Gli Hohenstaufen

Sognando un nuovo impero di Davide Iacono

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Dossier

RIETI E LA VALLE SANTA

LA CITTÀ DEI CINQUE PAPI 89 testi di Franco Cardini, Tersilio Leggio, Federico Fioravanti e Ileana Tozzi

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di Lorenzo Lorenzi

PERSONAGGI

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CALEIDOSCOPIO

Ezzelino da Romano

Fu vero demonio?

di Roberto Roveda e Michele Pellegrini

PRODIGI NATURALI L’ambra Come un sole che arde

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LIBRI Un mondo senza finzioni

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MEDIOEVO n. 276 GENNAIO 2020

MEDIOEVO

IN EDICOLA IL 3 GENNAIO 2020

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18/12/19 17:05

MEDIOEVO Anno XXIV, n. 276 - gennaio 2020 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Stefania Agnoletti è restauratrice dell’Opificio delle Pietre Dure-Settore restauro bronzi e armi antiche, Firenze. Annalena Brini è restauratrice dell’Opificio delle Pietre Dure-Settore restauro bronzi e armi antiche, Firenze. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Franco Cardini è professore emerito di storia medievale presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane e Sociali/Scuola Normale Superiore. Francesco Colotta è giornalista. Elisabetta De Minicis è professore associato di archeologia medievale presso l’Università degli Studi della Tuscia, Viterbo. Federico Fioravanti è giornalista e ideatore del Festival del Medioevo. Davide Iacono è storico del Medioevo. Tersilio Leggio è storico del Medioevo Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Lorenzo Lorenzi è storico dell’arte. Chiara Parente è giornalista. Giancarlo Pastura è dottore di ricerca in archeologia medievale. Michele Pellegrini è storico del Medioevo. Stefania Romani è giornalista. Roberto Roveda è cultore della materia in storia medievale all’Università di Bergamo. Laura Speranza è direttrice del Settore restauro bronzi e armi antiche dell’Opificio delle Pietre Dure, Firenze. Ileana Tozzi è ispettore onorario per la tutela del patrimonio storico-artistico ed etnoantropologico di Rieti e provincia. Timothy Verdon è direttore del Museo dell’Opera del Duomo di Firenze. Illustrazioni e immagini: Cortesia Opera di Santa Maria del Fiore, Firenze: p. 41; Antonio Quattrone: copertina e pp. 36, 40, 42-45; Claudio Giovannini/ CGE: pp. 37, 48-50 – Doc. red.: pp. 5, 38/39, 46-47, 56, 60, 70/71, 77, 80 (sinistra) – Cortesia Filippo Bozzo: pp. 6/7, 7 (alto) – Cortesia Matteo Serpetti: p. 7 (basso) – Cortesia Rachele Pavan: p. 8 – Cortesia Progetto NewPilgrimAge: pp. 9-11 – Cortesia Archivio ALEXALA: Gianluca Grassano: pp. 12-13 – Cortesia degli autori: pp. 16-20, 74, 76, 92, 96, 110 – Mondadori Portfolio: pp. 57, 68 (sinistra); Electa/ Sergio Anelli: pp. 54/55; AKG Images: pp. 68 (destra), 70, 72/73, 78/79, 86 (basso), 86/87, 89; Erich Lessing/ Album: p. 81; Album: pp. 82/83; Album/Fine Art Images: p. 86 (alto); Fine Art Images/Heritage Images: p. 90; Electa/Antonio Quattrone: p. 104; Age: pp. 108-109 – DeA Picture Library: pp. 62, 64; Icas94: pp. 58/59; C. Gerolimetto: p. 59; G. Dagli Orti: p. 65 – Shutterstock: pp. 61, 62/63, 66/67, 75, 80 (alto), 82, 83, 87 (basso), 98, 103, 105, 106/107 – Bridgeman Images: pp. 84-85 – Cortesia Museo Civico di RietiSezione Storico-Artistica: pp. 90/91, 94 (alto), 96/97, 100/101 – Cortesia Archivio di Stato di Rieti: pp. 92/93 – Cortesia Fondazione Varrone, Rieti: pp. 94 (basso), 95, 102 – Cortesia Museo Diocesano di Rieti: pp. 111-112 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 39, 91.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina una delle 48 teste di leone inserite nelle cornici delle formelle della Porta Sud del Battistero di Firenze, realizzata da Andrea Pisano fra il 1330 e il 1336 e ora collocata nel Museo dell’Opera del Duomo della stessa Firenze.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Prossimamente numismatica

L’«ottimo» argento dei denari di Siena

storie

Pietro Bembo, cardinale e vulcanologo

grandi viaggi

Dal Mediterraneo alla Cina sulle rotte dei Genovesi


MEDIOEVO INVENTORE a cura di Federico Canaccini

Il sistema di Guido

P

ortati o non portati per il canto o la musica, riceviamo, almeno a scuola, minimi rudimenti di educazione musicale. E l’insegnamento della musica, nell’antichità e poi nel Medioevo, era una delle sette arti liberali impartite ai giovani alunni. Le arti si dividevano in Trivium e Quadrivium ed erano rappresentate con precisi attributi, stabiliti dal retore Marziano Capella già nel V secolo: una verghetta per la Grammatica, una lavagna per la Retorica, capelli inanellati per la Dialettica, un pallottoliere per l’Aritmetica, un compasso per la Geometria, una sfera per l’Astronomia e un bel liuto per la Musica. Una delle piú antiche raffigurazioni, se non la piú antica, si trova in un mosaico del seminario di Ivrea, databile al IX secolo. Possediamo pochissime informazioni sulla musica del mondo antico, né sappiamo se e come i musici segnassero le distanze tra una nota e l’altra. Oggi, benché non sia stato il primo a servirsi di linee nella notazione musicale (che era nota già nel IX secolo), Guido d’Arezzo viene tradizionalmente ritenuto l’inventore del moderno sistema del rigo musicale, con le note poste sulle linee e negli spazi, nonché del sistema mnemonico basato sulle prime sillabe dell’inno al Battista: da questa preghiera giungono i nomi delle note che tutti conosciamo, con qualche variante e aggiunta. Per chiarire, basti sapere, a mo’ di esempio, che il Si è un’aggiunta piú tarda e che corrisponde alle iniziali di S-ancte I-ohannes. Attivo nell’XI secolo, Guido era un monaco dell’abbazia di Pomposa e sapeva bene che i suoi confratelli erano tenuti a cantare quotidianamente sia i cantici che tutti i 150 salmi nel corso di una settimana. I salmi erano contenuti nel Salterio, un libro di poesie del Vecchio Testamento che, nel Medioevo, si riteneva essere opera di re Davide, famoso per aver ucciso il gigante Golia, ma anche per le sue doti di abile musicista. Si partí, in realtà, da un solo rigo, che separava i neumi gravi da quelli acuti: una lettera all’inizio del rigo stabiliva il nome e l’altezza della prima nota. In modo analogo, oggi, all’inizio del pentagramma si pone una chiave per indicare la tonalità. Dall’unico rigo, si passò a un tetragramma e solo in seguito i righi divennero cinque. Per indicare il Do cen-

MEDIOEVO

gennaio

Illustrazione raffigurante la cosiddetta mano guidoniana, cosí chiamata da Guido d’Arezzo, monaco dell’abbazia di Pomposa attivo nell’XI sec., da un manoscritto della seconda metà del XV sec. Oxford, Bodleian Library. Si trattava di un sistema mnemotecnico ideato per agevolare il compito dei cantori, applicando alle dita della mano il nome delle note da solfeggiare. trale, si poteva colorare il rigo in giallo o in verde, mentre il rigo sottostante, in rosso, indicava una quinta discendente, cioè il Fa. Se poi due note venivano scritte una sopra l’altra, il cantante doveva modulare cantando prima quella segnata in basso, e poi salire di tono. A questo punto, osservando il foglio col testo del salmo e le indicazioni sui righi, i monaci potevano cantare «semplicemente» leggendo lo spartito, anziché memorizzarlo ogni volta.

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ANTE PRIMA

La memoria del santo

ARCHEOLOGIA • Proseguono,

con importanti novità, le indagini nell’area della chiesa altomedievale eretta sui Monti Cimini e dedicata a san Valentino

L’

area archeologica di San Valentino, compresa nel territorio del Comune di Soriano nel Cimino (Viterbo), si trova in una zona dei Monti Cimini caratterizzata da colline che si interpongono ai Monti Sant’Antonio, Turello e Roccaltia, sulla cui vetta sorgeva

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l’omonimo castrum. Nella località indicata con il toponimo «Piana di San Valentino», un recinto murario che delimita una piccola altura e una serie di strutture indicavano la presenza di un edificio identificato, sulla base di un documento del XV secolo, l’unico disponibile, come

chiesa di S. Valentino. I promettenti risultati di una serie di indagini non distruttive, che rivelavano la presenza di numerose strutture sepolte, hanno indirizzato, nel 2015, l’avvio delle attività di scavo (vedi «Medioevo» n. 225, ottobre 2015; anche on line su issuu.com). gennaio

MEDIOEVO


A sinistra e in alto due immagini da drone della chiesa altomedievale di S. Valentino, scoperta nel territorio di Soriano nel Cimino (Viterbo) e attualmente in corso di scavo. In basso i frammenti lapidei sui quali sono state rinvenute le tracce di un’iscrizione che, sebbene lacunosa, può essere letta come una dedica a san Valentino. VIII-IX sec.

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ANTE PRIMA Le sepolture antropomorfe individuate nel corso delle ultime indagini condotte nell’area della chiesa di S. Valentino. Si tratta di tombe del tipo detto à logette, per la presenza di alloggiamenti destinati ad accogliere la testa e le spalle del defunto.

Le cinque campagne condotte dall’Università degli Studi della Tuscia (direttore scientifico: Elisabetta De Minicis, responsabile: Giancarlo Pastura) hanno fatto emergere i resti di una chiesa a navata unica di notevoli dimensioni (20 x 8 m circa), che conserva le sue strutture murarie per un’altezza massima di 5 filari. L’importanza dell’edificio, realizzato interamente in conci di peperino ben squadrati, è confermata dalla pregevole tecnica di esecuzione, attribuibile al XII secolo, e dal repertorio ornamentale, i cui elementi, individuati negli strati di crollo e negli ambienti addossati alla chiesa, attestano una forte assonanza stilistica con i principali edifici romanici presenti nella Tuscia meridionale nel XII secolo. Lo scavo ha evidenziato, inoltre, come la costruzione dell’edificio romanico corrispose alla rifondazione di una chiesa preesistente, di cui restano solo labili tracce a livello strutturale nel settore dell’abside. Questa fase altomedievale è ora meglio documentata, invece, dal rinvenimento di un’epigrafe

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dedicatoria dell’VIII-IX secolo, murata nel ciborio della chiesa romanica. Il testo è frammentario, ma ciò che ne resta è sufficiente a ipotizzarne l’integrazione. Vi si legge: [---] DI ET BI V[.]LENTINI, ovvero, fatte le dovute integrazioni, [---] D(e)i et b(eat)i V[a]lentini. La parte lacunosa è facilmente integrabile con la formula ad honorem, ob honorem/ amorem, in honore, ben attestata in aree contermini nell’epigrafia di età carolingia. Inoltre, si presenta con elementi i cui caratteri stilistici sono molto comuni nel repertorio ornamentale dell’VIII-IX secolo.

Fosse scavate nella roccia Il reimpiego dell’epigrafe indica la volontà dei costruttori di voler fondare su di essa e sulla sua memoria l’intero edificio e documenta una fase altomedievale già ipotizzabile grazie alla presenza di tombe antropomorfe, dette à logette (ovvero contraddistinte dalla presenza di alloggiamenti per la testa e oer le spalle del defunto, n.d.r.),poi obliterate dalla nuova struttura ecclesiastica. Le fosse sono scavate direttamente nel banco con orientamenti differenti,

in chiaro rapporto di anteriorità con le strutture dell’edificio romanico e con le sepolture in cassoni di muratura che le coprono; in particolare, una sepoltura ha restituito i dati piú interessanti, in quanto, oltre a ospitare l’inumato in giacitura primaria, conteneva i resti di altri individui evidentemente traslati da altre tombe. Le azioni antropiche leggibili negli strati documentano operazioni di bonifica dell’area: le coperture delle tombe à logette, infatti, sono state dapprima asportate per deporre i defunti riesumati e poi riposizionate (talvolta con l’aggiunta di legante), in modo da formare una superficie orizzontale. Nell’area limitrofa alla chiesa e nel declivio che conduce al fondovalle, sono state rinvenute numerose «pestarole», vasche ricavate direttamente nel masso tufaceo e destinate ad attività produttive, probabilmente legate al vino. I materiali rinvenuti, in corso di studio, sembrano coprire l’intero arco cronologico che va dall’epoca romana all’età moderna. Elisabetta De Minicis, Giancarlo Pastura gennaio

MEDIOEVO


In cammino con Martino ITINERARI • Evangelizzatore delle

Gallie e celebre soprattutto per il leggendario gesto di generosità nei confronti di un povero infreddolito, Martino è venerato in tutta Europa e il suo culto è ancora oggi molto sentito. Anche in Veneto, dove si è scelto di valorizzarne la testimonianza con un articolato progetto di turismo culturale MEDIOEVO

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In alto la Mappa Parlante di San Martino in Veneto, che segnala oggetti, tradizioni e detti popolari che compongono il tessuto culturale, artistico e folkloristico legato al santo (www. radiomagica.org/smartradio/it/progetto/sanmartino). Qui sopra il medaglione assegnato ogni anno a Belluno al vincitore del Premio San Martino.

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ANTE PRIMA

F

ra i santi piú amati del Vecchio Continente figura Martino di Tours (330-397), che ha lasciato un’eredità importante, sia sul piano religioso che su quello folcloristico. Per valorizzarne le tracce, in Veneto ha preso il via un progetto che si inserisce in ambito europeo, con l’obiettivo di organizzare un segmento del tracciato italiano consolidatosi dall’età medievale. Il santo, la cui leggenda è intrecciata strettamente ai dati biografici, nacque in Pannonia, ma trascorse l’infanzia in Italia e, dopo aver prestato servizio nell’esercito romano, evangelizzò la Gallia. Con NewPilgrimAge, l’Unpli Veneto – l’Unione delle Pro Loco del Veneto – intende inserire il tratto regionale del cammino nella Via Sancti Martini, già sviluppata in altri Paesi e riconosciuta nel 2005 dal

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Consiglio d’Europa come Itinerario culturale, che collega destinazioni importanti nella vita del santo, o mete legate al suo culto da monumenti, cattedrali, leggende, tradizioni. La rete di oltre 5mila chilometri si dipana nel Vecchio Continente con diversi circuiti: il primo muove da Szombathely, la cittadina ungherese che diede i natali a Martino, verso la Francia, alla volta di Tours, che custodisce la sepoltura del santo, passando per Pavia, dove il bambino visse con la famiglia al seguito del padre, un ufficiale romano pagano. Un’altra via mette in comunicazione Tours con le località tedesche di Worms e Treviri, nelle quali il giovane lasciò l’esercito e incontrò l’imperatore romano. Questo tratto si ramifica anche verso altri siti culturali,

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lungo un percorso per Szombathely che attraversa l’Austria e la Slovacchia. E ulteriori tragitti portano a Utrecht, in Olanda, o alla spagnola Saragozza.

Un ricco ventaglio di iniziative Come spiega Simone Giotto, ideatore del progetto promosso anche dalla Regione Veneto, «il tracciato di casa nostra da Trieste si dirige a Venezia, per poi piegare verso Pavia, toccando le province di Treviso e Verona. Si tratta di un itinerario poco conosciuto, che taglia la parte bassa del Veneto e che intendiamo codificare secondo criteri di fruibilità». Il cammino sarà anche inserito nella nuova App sui sentieri della Regione, che debutterà nel corso del 2020. Nel frattempo, sotto l’egida di NewPilgrimAge,

In alto e a sinistra Mirano. Due immagini della Fiera dell’Oca e Zogo de l’Oca, ricostruzione storica di una festa paesana che si tiene ogni anno, il secondo fine settimana di novembre, nei giorni dell’estate di san Martino.

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sono già state portate a termine alcune iniziative. È on line il sito www.sanmartinoinveneto.it, che raccoglie le testimonianze di una figura fortemente radicata nelle tradizioni contadine, attraverso arte, cultura, enogastronomia ispirate al santo. Dal sito si accede a una mappa «parlante», una cartina che segnala località legate a episodi della vita di Martino, come la gara delle castagne, la scommessa del diavolo, l’allevatore di pesci. Gli episodi sono illustrati da video di qualche minuto, con un artista che realizza ad acquerello la vicenda raccontata da una voce narrante fuori campo. Le storie sottolineano l’ideale della condivisione, sotteso al gesto piú celebre del santo, quello della carità di Amiens, quando donò metà del suo mantello a un povero che soffriva il freddo. Il gesto, codificato nell’iconografia dal Medioevo, risale al periodo in cui il giovane prestava servizio a cavallo nella guardia imperiale. Lasciata la vita militare, venne consacrato prete, fece apostolato in Italia e in Francia, e si ritirò a Ligugé, dove fondò il primo monastero d’Occidente. Come vescovo di Tours difese l’autonomia ecclesiastica e cristianizzò le Gallie, con una penetrazione profonda nelle campagne.

Ancora oggi l’universo contadino è affezionato a Martino, con usanze popolari che dipendono anche dalla collocazione della sua festa nel calendario, l’11 novembre, che fino a pochi anni fa segnava la scadenza dei contratti d’affitto nei poderi e la data dei traslochi, contemporanea al trasferimento dei proprietari terrieri dalla campagna alla città. Invocato o salutato dai contadini con le primizie dei raccolti, nell’Alto Medioevo Martino era il santo nazionale francese, il cui culto fu diffuso dai Franchi. L’iconografia piú conosciuta è quella dell’elemosina e gli episodi della sua vita sono rappresentati già dal XII secolo, nella basilica ambrosiana di Milano, negli affreschi di Simone Martini ad Assisi, in scultura a Lucca e Chartres e in tante vetrate gotiche. Stefania Romani

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ANTE PRIMA

Un Medioevo da scoprire

ITINERARI • Restauri

e rifacimenti moderni hanno cancellato molte tracce delle architetture medievali di Alessandria. Quelle superstiti sono comunque significative e la loro ricerca svela un altro volto della città piemontese e un patrimonio storico-artistico di altissimo pregio 14

L

a settecentesca Cittadella, il Marengo Museum dedicato alla celebre battaglia napoleonica, il museo del Cappello Borsalino, il novecentesco Palazzo delle Poste e Telegrafo, l’avveniristico ponte sul Tanaro progettato da Richard Meier: molte sono le attrazioni offerte da Alessandria, ma dell’età medievale, almeno apparentemente, c’è poco. Il sobrio ed elegante paesaggio urbano, ricco di sontuose residenze del Sette e Ottocento, sembra privilegiare altri tempi, altri modelli stilistici. Le diverse decostruzioni e ricomposizioni, compiute soprattutto negli ultimi due secoli, hanno reso irriconoscibile l’identità medievale cittadina. Quello di Alessandria è un Medioevo celato in un mosaico di colpi d’occhio, che fluttuano tra

presente e passato, in un continuo gioco di rimandi tra personaggi reali e immaginari, visioni sopite e metamorfosi ambigue. Ai turisti e agli stessi cittadini l’età di Mezzo viene restituita in scorci architettonici inaspettati, affreschi e dipinti custoditi in edifici prestigiosi, statue e arredi liturgici che affollano i luoghi di culto. A finanziare queste opere d’arte furono famiglie di alto lignaggio i cui cognomi danno nome a vie e palazzi: Cuttica, Trotti, Ghilini, Inviziati, e vari Ordini religiosi, portatori ciascuno di una distinta spiritualità e, tramite la predicazione, di un incisivo rapporto con i fedeli. Iniziamo dunque dalla singolare vicenda della nascita della città, rivelata in frammenti documentari. Creata nel 1168 alla gennaio

MEDIOEVO


confluenza di Tanaro, Bormida e Po, Alessandria era una fondazione illegale. Nessuna autorizzazione ne aveva legalizzato l’erezione, ma l’arbitraria occupazione di terre feudali da parte di secundi milites e populares, in opposizione ai feudatari maggiori e all’impero.

Desiderio di affermazione L’area su cui si sviluppava, abbracciava le curtis di Rovereto e Bergoglio e le terre allo stato brado della Palea. Al suo popolamento concorsero gli abitanti delle corti di Rovereto, Bergoglio, Marengo e Gamondio. Dei quattro loca, oggi mascherati in Spalto Marengo, Spalto Gamondio, Spalto Rovereto e Spalto Borgoglio – a indicare con il termine generico di spalto un muro o una massa di terra fortificata a difesa del cammino di ronda –, Rovereto apparteneva alla diocesi di Pavia, Bergoglio a quella di Milano, Gamondio e Marengo a quella di Tortona. Di conseguenza, una delle

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gennaio

prime necessità che gli Alessandrini si posero, volendo affermare la propria esistenza giuridica di fronte all’impero e alle città limitrofe, fu la costruzione di una plebs civitas, tale da servire come forza coagulante delle

Nella pagina accanto e in alto Alessandria. La facciata e la fiancata destra della chiesa di S. Maria in Castello. In basso Deposizione nel Sepolcro, gruppo in terracotta policroma conservato in S. Maria in Castello. XVI sec.

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ANTE PRIMA A sinistra S. Maria in Castello. Crocifisso in legno scolpito e dipinto attribuito alla bottega dello scultore pavese Baldino da Surso, sospeso all’arco trionfale del presbiterio. 1460-1480. A destra uno degli affreschi del ciclo arturiano rinvenuto nel 1971 a Frugarolo e oggi esposto nelle Sale d’Arte di Alessandria. L’opera fu commissionata a un artista lombardo dal capitano di milizie Andreino Trotti. componenti civili ed ecclesiastiche, al di sopra di esse e delle singole tradizioni storiche. Cosí, nel 1170, venne innalzata ex novo l’ecclesia maior, la principale del nucleo demico, provvista dei diritti che le competevano e pienamente inserita nel secolare ordinamento pievano. Dedicata a san Pietro occupava il

tratto sud-orientale della spianata centrale, la Platea Major (l’odierna piazza della Libertà), attorno alla quale gravitavano tutti i quartieri. Nel 1175, quando papa Alessandro III eresse la diocesi di Alessandria, assunse dignità di cattedrale. Tale atto sconvolse la plurisecolare storia ecclesiastica locale, con

I poli del potere temporale e del potere spirituale Per quasi tutta la prima metà del Duecento la cattedrale di S. Pietro, in quanto chiesa madre e spazio sacro venerato dalla cittadinanza, ospitò le riunioni del consiglio. Poi, dalla metà del XIII secolo, il palacium communis sostituí in toto la funzione svolta dal duomo. La raccolta del Codex Statutorum, sopravvissuta nella controversa edizione a stampa del 1547, restituisce alcune delle funzioni urbanistiche del Palatium Vetus e di altri poli del potere tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento. Innanzitutto, nella Platea Major, il Palazzo del Comune e la cattedrale si integravano e interagivano con i portici e i luoghi del Mercato. Inoltre il ponte del broletto era collegato al campanile della cattedrale da una levata. Si percepiscono cosí i tratti di un’assialità di grande impatto visivo nel fulcro del tessuto urbano, delineata fisicamente dalla strada su terrapieno, che dava sulla piazza maggiore e fiancheggiava il principale percorso di attraversamento della città in direzione del ponte sul Tanaro.

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inevitabili e dirette ripercussioni sull’assetto religioso, economico e sociale. Con la civitas nova, nacque anche un’innovativa tipologia di diocesi, rispondente ai tempi moderni, non piú fondata sulle pievi, ma sulle parrocchie.

Una scoperta inattesa In passato, giunti nella Piazza Maggiore, i viaggiatori si trovavano dinnanzi anche il broletto, che, citato nelle fonti d’archivio come Palatium Vetus, era incardinato a nord su un’espansione di borgo Rovereto e a sud-est sui quartieri di Gamondio e Marengo. Collocato in posizione pressoché affrontata al campanile della cattedrale, testimoniava la compenetrazione tra potere temporale e potere spirituale. La struttura del palazzetto, inaspettatamente ritrovata all’interno dell’ottocentesca Caserma Maggi – sino a qualche decennio fa adibita a distretto militare –, è stata restaurata gennaio

MEDIOEVO


del Duecento, fu abbattuta dal regime francese nel 1803 per far posto alla Piazza d’Armi.

L’eroica impresa di un pastore La sua presenza sopravvive in un telamone, scolpito da un lapicida lombardo alla fine del XII secolo (?), murato nel 1815 nello spigolo esterno nord-occidentale dell’attuale duomo, integrato nella precedente chiesa di S. Marco e consacrato nel 1810. Secondo la tradizione, la statua raffigura Gagliaudo Aulari, il pastore e produttore di formaggi che, immortalato dallo scrittore Umberto Eco nel romanzo Baudolino, nel 1174 salvò la città dall’accerchiamento del Barbarossa. In realtà, piuttosto che il protagonista dell’epos locale, il simulacro rappresenterebbe un Atlante gravato dal peso della terra, qui giustamente disegnata appiattita. Provengono dalla cattedrale anche un meraviglioso capitello con dall’architetto Gae Aulenti e ospita la sede della Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria. Simbolo dell’autonomia comunale, il Palatium Vetus condivideva un modello architettonico diffuso in Italia, con il piano terra aperto a portico per consentire la presenza dei cittadini e l’amministrazione della giustizia e il piano superiore occupato da una sala per il Consiglio Generale. Piú volte trasformato nelle forme e nelle funzioni, il monumento ha subito col tempo un progressivo oblio, ma, rimossi gli intonaci e demoliti i tamponamenti, sono riapparsi vasti ambienti sovrapposti, scanditi da sistemi di pilastri e volte.

Decisioni cruciali La «laicità» dell’auctoritas si rivela nei brani di decorazioni, stemmi e pitture, che offrono un esclusivo viaggio in quella che doveva essere Alessandria durante la stagione dei liberi Comuni. Nelle sale del palazzo sono state prese decisioni

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A destra un’altra scena del ciclo scoperto a Frugarolo, che, a oggi, è il piú antico esempio superstite di «camera di Lancillotto», sale ornate con storie di avventure e amori dell’eroe arturiano che ingentilivano i castelli e le dimore nel Medioevo. di grande importanza: la rottura dell’assedio imposto da Federico Barbarossa, la sconfitta delle truppe imperiali, il passaggio alla protezione dei Visconti, l’entrata nel ducato di Milano. Se la sorte ha restituito alla città uno dei piú rilevanti complessi civili, il destino non è stato altrettanto magnanimo con la cattedrale, che, ristrutturata in stile gotico alla fine

fantasiose figurazioni zoomorfe e un bassorilievo (XII-XIII secolo), che richiama il tema biblico di Sansone che smascella il leone, entrambi in mostra nelle Sale d’Arte comunali. Entrando nel duomo, si ammirano invece due manufatti, oggetto di profonda devozione: un Crocifisso policromo del Quattrocento e una Madonna della Salve, databile ante 1489, attribuita all’artista Baldino

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ANTE PRIMA La piú antica «camera di Lancillotto» Sul finire del XIV secolo, il capitano di milizie Andreino Trotti, esponente di un’eminente stirpe cavalleresca alessandrina, consolidatasi attraverso una bisecolare carriera in ambito comunale e cittadino, entrò in possesso di una torre, innalzata nei primi del Duecento poco a sud di Alessandria. Decise di elevare il torrione di un piano e ne commissionò il decoro a un pittore lombardo, che eseguí un favoloso ciclo a fresco, con scene tratte dal poema epico Lancelot du Lac. Alessandrini di nascita, ma permeati da un affascinante internazionalismo, gli affreschi, ritrovati nel 1971 nella cascina Torre Pio V a Frugarolo, sono stati strappati, restaurati ed esposti nelle Sale d’Arte. Chiamati Stanze di Artú, sono ritenuti il piú antico esempio superstite di «camere di Lancillotto», ossia di sale, che ornate con storie di avventure e amori dell’eroe arturiano, ingentilivano i castelli e le dimore nel Medioevo (vedi foto alle pp. 16-17 e qui sotto). da Surso († 1478). Interessante è anche il coperchio del sepolcro, in marmo di Candoglia, del vescovo di Alessandria Marco de’ Capitaneis (1458-1478). A scolpirlo in altorilievo fu Antonio Solari, architetto e scultore sforzesco, attivo nel cantiere del Duomo di Milano nella seconda metà del Quattrocento, chiamato a Mosca (1490-1493) da Ivan III il Grande. Alessandria è città di pietre e fantasia. Nel cuore del centro storico si erge la chiesa di S. Maria

di Castello. Luogo dell’immaginario medievale collettivo, prima ancora che reale, essa è l’erede dell’ecclesia Sancte Marie de Roboreto. Elevata nel punto in cui si trovava la pieve della corte di Roboreto, assunse tale denominazione nel 1215, quando i canonici dell’Ordine di Santa Croce di Mortara, che risiedevano nell’annesso convento, comprarono dal Comune di Porta Rovereto (componente semi-autonoma della nuova Alexandria civitas) il castrum di Porta Rovereto. L’acquisto forní ai

religiosi l’occasione per ingrandire la fabbrica, che, ritenuta ormai insufficiente ad accogliere l’afflusso di devoti per le mutate condizioni abitative del borgo incastellato, fu ricostruita in stile romanico-gotico. La primitiva architettura preromanica monoabsidata, strettamente collegata all’abitato di Rovereto (fine VIII secolo) e alla successiva formazione della curtis (tardo IX secolo), per la planimetria e la struttura muraria in corsi a spina di pesce, si data all’ VIII-IX secolo.

Il cantiere dei canonici Ingrandita piú volte e ampliata nel tardo XII secolo con l’estensione della zona presbiteriale, abbellita da un mosaico pavimentale, la chiesa conserva nell’area archeologica resti del tappeto musivo, dell’abside preromanica, della prima fase romanica (seconda metà dell’XI secolo) e della seconda fase romanica (tardo XII secolo), scoperti durante scavi del 1971. L’aspetto neogotico dell’esterno, a firma di Venanzio Guerci, risale alla prima metà del Novecento. Suddiviso in tre navate su cui affacciano le cappelle, Ancora una scena facente parte del ciclo arturiano di Frugarolo. Il committente, Andreino Trotti, era esponente di un’eminente stirpe cavalleresca alessandrina, consolidatasi attraverso una bisecolare carriera in ambito comunale e cittadino.

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l’interno si riferisce a un cantiere cominciato nel 1476 dai canonici Lateranensi. Sorprendentemente luminoso, riflette una dimensione leggera e aerea, in perfetta sintonia con il Crocifisso, intagliato e dipinto (1460-1480) dalla bottega di Baldino da Surso, sospeso all’arco trionfale del presbiterio. Catturano l’attenzione dei fedeli l’affresco della Madonna del Parto, residua traccia di un programma decorativo commissionato nel Cinquecento dai canonici Lateranensi, il quattrocentesco altorilievo della Beata Vergine della Salve, protettrice della diocesi di Alessandria, e un prezioso gruppo statuario in terracotta policroma, risalente al terzo decennio del XVI secolo, riconducibile alla cultura figurativa milanese.

Nobili mecenati Se l’interno di S. Maria di Castello può essere definito uno spazio in dilatazione, quello in stile gotico lombardo di stampo solariano della vicina chiesa di S. Maria del Carmine, appare, al contrario, ancorato al terreno. Innalzato nella seconda metà del Quattrocento dai Carmelitani, con il sostegno finanziario da famiglie gentilizie del posto, il tempio è caratterizzato dall’aspetto neomedievaleggiante della facciata, risultato di un radicale rifacimento degli anni Venti del Novecento, e dall’armonioso interno, ove, seminascosta tra pilastri e costoloni in mattoni a vista, è ospitata la Pala di Santa Lucia, un trittico su tavola del pittore Agostino Bombelli, che originario di Valenza e noto dal 1510 al 1545, ritrae le sante Lucia, con un donatore, Chiara e Barbara. Dal 1450 al 1535 la città passò nei domini sforzeschi. In quei decenni si dimostrarono ben solidi sia il legame che univa parecchi Alessandrini, impegnati al servizio del duca nei ranghi militari, nell’amministrazione e nella gestione di corte, sia il fil rouge che legava Milano a questa

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Fra dolci e giganti F

iglio di una nobile famiglia romana trasferitasi in Spagna, Valerio fu vescovo di Saragozza dal 290 al 315. Intorno al 306, con altri diciotto vescovi partecipò al Concilio di Elvira, scatenando la persecuzione del governatore Daciano indetta contro i cristiani dall’imperatore Diocleziano. Valerio e il suo suddiacono Vincenzo furono arrestati e condotti a Valenza per essere interrogati. Vincenzo subí il martirio, mentre Valerio fu condannato all’esilio nella citttadina aragonese di Anet. Qui il vescovo morí nel 315, senza mai tornare dall’esilio, malgrado nel 313 l’Editto di Milano avesse posto fine alle persecuzioni. Il suo corpo fu sepolto nella chiesa di Estada. Il 20 ottobre 1065 Alfonso II re d’Aragona ne fece traslare le reliquie nella cattedrale di Saragozza e, nel 1397, un magnifico busto reliquiario in argento fu donato alla cattedrale dall’antipapa Benedetto XIII: oggi è esposto nella pala d’altare, accanto a quelle di san Vincenzo e san Lorenzo. La città di Saragozza ricorda Valerio, di cui è patrono e protettore, ogni anno il 29 gennaio con una grande festa popolare. Fra celebrazioni religiose e spettacoli laici, in questo giorno tutti mangiano il tipico dolce «San Valero Roscón», distribuito gratuitamente in plaza del Pilar, dal mattino alla sera. Un’altra iniziativa singolare è la sfilata per il centro storico dei Gigantes y Cabezudos, grandi figure allegoriche in cartapesta, con partenza e conclusione sempre in plaza del Pilar. Divenuta colonia romana nel 25 a.C., al tempo di Augusto, con il nome di Caesaraugusta, la città fu uno dei centri piú importanti dell’Hispania Tarraconensis, una delle province in cui Roma divise la Spagna. Alla caduta dell’impero romano d’Occidente venne occupata dai Visigoti. Fu fra le prime città spagnole a convertirsi al cristianesimo, prima che gli Arabi la conquistassero nel 713. Venne riconquistata nel 1118 dai cristiani, diventando poi la capitale del Regno d’Aragona. Tiziano Zaccaria terra sul confine sud-occidentale dello Stato. Anzi, il duca di Milano considerò Alessandria in tutta la sua importanza strategica. Il buon funzionamento di mura e vie costituirono la preoccupazione prioritaria dei funzionari degli Sforza. Il cantiere pubblico piú imponente dell’Alessandria sforzesca fu sicuramente la ricostruzione in pietra del ponte sul Tanaro; quello privato l’edificazione del palazzo nobiliare del «richo merchadante» Nicolò Inviziati. Eretta negli ultimi vent’anni del Quattrocento, la

residenza, ora sede del vescovato, preserva uno dei piú ragguardevoli soffitti lignei a tavolette dipinte dell’Italia settentrionale. Composto da 298 riquadri, tra cui compare l’insegna araldica del duca Gian Galeazzo Sforza (1469-1494), in carica all’epoca dell’esecuzione del fabbricato, con la sua ricchezza di ritratti, stemmi e animali, documenta la passione per il gusto del bello e la relazione anche culturale tra la famiglia Inviziati e la corte ducale milanese. Chiara Parente

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ANTE PRIMA

Devota, Graziano e un capitano sacrilego APPUNTAMENTI • Il

Principato di Monaco si appresta a festeggiare la propria patrona, santa Devota, martire d’origine corsa, alle cui reliquie toccò una sorte a dir poco travagliata...

O

gni anno, il 26 e 27 gennaio, il Principato di Monaco celebra la sua patrona, santa Devota, martirizzata nel 304 a Lucciana, in Corsica. Le festività iniziano la mattina del 26, nella chiesa dedicata alla santa, con la «messa delle tradizioni». In serata, al Porto Hercule, davanti al vallone di Gaumattes, si svolgono una processione e una fiaccolata. Al termine, il principe sovrano e la sua famiglia appiccano il fuoco a un’imbarcazione, in ricordo di un episodio avvenuto nel 1070, quando un capitano di nome Antinope rubò le reliquie della santa, deciso a negoziare il pagamento di un riscatto. Ma il sacrilegio ebbe breve durata: secondo la leggenda, un vento improvviso e violento impedí al malfattore di issare le vele, cosicché alcuni pescatori riuscirono ad acciuffarlo. Arrestato, Antinope fu condannato all’amputazione delle orecchie e del naso, mentre la sua barca venne bruciata sulla spiaggia come gesto di espiazione. Oggi, dopo il falò, il cielo viene illuminato dai fuochi artificiali. La festa continua nella mattinata del 27, quando l’arcivescovo di Monaco celebra una messa in cattedrale, alla presenza del principe. A seguire, si snoda una processione, con i penitenti dell’Arciconfraternita della Misericordia e le reliquie della patrona, che termina sulla place du Palais.

La colomba indica la rotta Santa Devota nacque attorno al 283 a Lucciana, in Corsica. La sua breve vita si consumò sull’isola, nel paese di Mariana, durante la persecuzione di Diocleziano. Scoperta e denunciata come cristiana, fu imprigionata

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Montecarlo. Il tradizionale rogo della barca di Antinope. e torturata a morte. Sembra che il governatore romano avesse ordinato di bruciarne il corpo, che, nottetempo, fu trafugato da un certo Graziano e da un sacerdote di nome Benenato. I due volevano assicurarle una degna sepoltura e con il loro peschereccio si diressero verso sud, ma una tempesta spinse l’imbarcazione verso la Costa Azzurra. La leggenda vuole che a indicare la via ai due uomini fosse stata una colomba, uscita per miracolo dalla bocca della santa. La barca con il corpo di Devota approdò nel vallone di Gaumates, oggi nel Principato di Monaco, il 27 gennaio 312. Nello stesso luogo fu poi costruita una cappella che, rifatta e ampliata, esiste tuttora. Durante le invasioni dei Saraceni, i resti della martire furono portati in salvo nel monastero di Cimiez, e una volta scampato il pericolo di profanazione vennero ricollocati nella sua chiesa. Si racconta che nel 1506-07 la santa abbia protetto la fortezza del Principato dall’assedio dei Genovesi, i cui attacchi furono ripetutamente respinti dai Monegaschi per sei mesi, rassicurati da una sua apparizione. Devota fu cosí scelta come patrona del Principato e della famiglia regnante Grimaldi. Oggi le reliquie della martire sono custodite nella chiesa parrocchiale, e in tutte le chiese del piccolo Stato la santa è raffigurata con alcuni dei suoi attributi tipici: la palma del martirio, la corona di rose, simbolo della verginità, la colomba, simbolo di pace, la barca che la portò dalla Corsica alla Costa Azzurra. Tiziano Zaccaria gennaio

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ANTE PRIMA

IN EDICOLA

RELIGIONE E VIOLENZA IOEVO MED Dossier

L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

MEDIOEVO DOSSIER

RELIGIONE E

VIOLENZA N°36 Gennaio/Febbraio 2020 Rivista Bimestrale

Renata SalvaRani

€ 7,90

IN EDICOLA IL 31 DICEMBRE 2019

di

Come si concilia la morale religiosa con massacri, soprusi e guerre? Quali sono le «colpe» originarie della Bibbia e dei tre monoteismi? Cosa ci insegnano i mille anni dell’età di Mezzo?

RELIGIONE E VIOLENZA

Costante, nei diversi capitoli dell’opera è il confronto tra le fonti che, da prospettive diverse, hanno tramandato i medesimi eventi: ecco perché i «campioni della fede» degli uni divennero gli «infedeli» degli altri, o cocenti e sanguinose sconfitte furono celebrate come fulgidi esempi di sacrificio collettivo. Un panorama ricco e articolato, dunque, che nel nuovo Dossier viene sapientemente descritto e analizzato, offrendo al lettore chiavi di lettura puntuali e originali.

NE A IO Z IG LEN L RE IO EV

Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv.

A

ffidato alla penna brillante di Renata Salvarani, autorevole studiosa di storia delle religioni e del Medioevo, il nuovo Dossier di Medioevo affronta un tema millenario eppure di straordinaria attualità: il rapporto fra l’uso della violenza e la fede religiosa. Fin dalle età piú antiche, infatti, nel nome della fede si è combattuto, sono state inflitte torture, sono state organizzate grandi spedizioni militari… Fenomeni che, nell’età di Mezzo, si sono ripetuti con particolare frequenza e ai quali sono associate pagine decisive della storia di quel tempo: dalle crociate alla lotta alle eresie, dalla fondazione dei grandi ordini cavallereschi alla creazione dell’Inquisizione.

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GLI ARGOMENTI

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• VIOLENZA RELIGIOSA: I TERMINI DELLA QUESTIONE • IL CORPO COME PALINSESTO DEL POTERE • MORIRE PER LA FEDE • LE CROCIATE • ERESIE E PERSECUZIONI • LA RIVOLTA DEL PRAYER BOOK A sinistra una scena da Le crociate-Kingdom of Heaven (2005), film ambientato nella Terra Santa del XII sec., diretto da Ridley Scott. Nella pagina accanto I martiri di Cordova (particolare), dipinto di Antonio del Castillo y Saavedra, che ricorda l’uccisione di un gruppo di cristiani tra l’851 e l’864 per mano islamica al tempo dell’emirato di al-Andalus. XVII sec.

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AGENDA DEL MESE

Mostre BOLOGNA LA CASA DELLA VITA. ORI E STORIE INTORNO ALL’ANTICO CIMITERO EBRAICO DI BOLOGNA Museo Ebraico fino al 6 gennaio

Gli straordinari reperti di uno dei piú ampi cimiteri ebraici medievali del mondo, rinvenuto alcuni anni fa a Bologna in via Orfeo, poco lontano dalle mura trecentesche, sono finalmente visibili dopo anni di studi e restauri. Gioielli in oro di eccezionale fattura e bellezza, pietre incise, oggetti in bronzo recuperati in oltre quattrocento sepolture, attestano la presenza a Bologna di una fiorente comunità, proficuamente inserita nel contesto urbano e sociale fino all’espulsione, avvenuta per volere del papa nel 1569, e offrono lo spunto per ripercorrere, in maniera globale e sistematica, la storia di una minoranza, i suoi usi, la sua cultura e le sue interazioni con la società cristiana del tempo. info www.museoebraicobo.it PARIGI SCRIGNI MISTERIOSI. STAMPE AL TEMPO DELLA DAMA E L’UNICORNO Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 6 gennaio

La Dama e l’Unicorno, uno dei

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a cura di Stefano Mammini

vanti del Museo di Cluny, è ancora una volta al centro di un progetto espositivo temporaneo, questa volta incentrato sulla figura di Jean d’Ypres, il pittore al quale si devono i disegni preparatori del celebre ciclo di arazzi, che furono ripresi anche per una vasta produzione di stampe, molte delle quali destinate a ornare scrigni e cofanetti. Attivo sul finire del XIV secolo, Jean d’Ypres firmò bozzetti per stampe, arazzi e vetrate, che hanno in molti casi dato origine ad altrettanti capolavori dell’arte tardo-medievale. Possiamo per esempio citare il San Sebastiano, incollato all’interno di un cofanetto

entrato a far parte delle collezioni del Museo di Cluny nel 2007, che rivela uno stile attento ai dettagli, in cui si fondono il realismo dei pittori fiamminghi con le mode dell’arte parigina. Oppure i cartoni per le vetrate dell’edificio nel quale ha oggi sede il museo stesso, una delle quali, raffigurante il Trasporto della Croce, figura in mostra non lontano dalla Dama e l’Unicorno. info www.musee-moyenage.fr

MILANO FILIPPINO LIPPI. L’ANNUNCIAZIONE Palazzo Marino fino al 12 gennaio

Le porte di Palazzo Marino si aprono per consentire di ammirare un grande capolavoro di Filippino Lippi, una Annunciazione che il maestro toscano ha dipinto in due grandi tondi: uno raffigurante «L’Angelo annunziante», l’altro «L’Annunziata». Proprietario dell’opera esposta a Palazzo Marino è da sempre il Comune di San Gimignano, che la commissionò nel 1482 proprio per ornare la sede del Municipio. Una committenza laica, dei Priori e dei Capitani di Parte Guelfa, di cui l’Archivio Storico Comunale conserva una completa documentazione. Pur essendo ormai lontana la potenza che la città aveva espresso nel Trecento, San Gimignano restava un centro importante, frequentato da Benozzo Gozzoli e Pinturicchio, Benedetto da Maiano e Antonio del Pollaiolo, il Ghirlandaio e Pier Francesco Fiorentino. Proprio una tavola di quest’ultimo artista è stata restaurata nell’occasione,

grazie alla collaborazione tra le due amministrazioni. Conservati nella Pinacoteca Civica di San Gimignano, i due grandi tondi vennero realizzati tra il 1483 e il 1484, quando Filippino, allievo di Sandro Botticelli, aveva 26 anni ed era già impegnato in importanti committenze tra cui la Cappella Brancacci a Firenze. Il soggetto dell’Annunciazione era molto importante per San Gimignano, dove, come a Firenze, la celebrazione della Santissima Annunziata, il 25 marzo, rappresentava il primo giorno dell’anno secondo il calendario fiorentino. info tel. 800 167 619; e-mail: mostre@civita.it; www.comune.milano.it FIRENZE LEONARDO DA VINCI E IL MOTO PERPETUO Museo Galileo fino al 12 gennaio

Fin dal Medioevo l’idea di riprodurre con dispositivi meccanici il moto perpetuo delle sfere celesti ha stimolato l’immaginazione e l’ingegno di tecnici, ingegneri e filosofi naturali. Un nodo fondamentale di questa storia plurisecolare è rappresentato dagli studi nei quali Leonardo ha cercato di stabilire se sia davvero possibile realizzare macchine a moto perpetuo. Le sue ricerche mostrano la serietà e l’impegno con i quali il genio di Vinci si applicò nella ricerca di soluzioni praticabili. Egli giunse tuttavia alla conclusione che il moto perpetuo non può esistere in natura, anticipando cosí di oltre tre secoli la dimostrazione definitiva della verità di quel principio fornita da James Clerk Maxwell, gennaio

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preziosi di una famiglia che, come suggerisce l’iscrizione mazel tov che si legge su uno degli anelli, doveva far parte della comunità ebraica di Colmar, che, alla metà del Trecento, subí un atroce destino. Gli Ebrei vennero infatti ritenuti responsabili della Peste Nera che flagellò l’Europa fra il 1348 e il 1349 e furono dunque vittime di accanite persecuzioni. Oltre a offrire l’opportunità di protagonista dell’affermazione della termodinamica nella seconda metà dell’Ottocento. La mostra presenta una ricca selezione degli spettacolari disegni di Leonardo e dei principali protagonisti delle ricerche sul moto perpetuo, affiancata dai modelli di alcuni tra i piú intriganti di quei dispositivi e da suggestivi filmati che ne illustrano il presunto funzionamento. info tel. 055 265311; e-mail: info@museogalileo.it; https://www.museogalileo.it NEW YORK IL TESORO DI COLMAR: UN’EREDITÀ DEL MEDIOEVO EBRAICO The Metropolitan Museum of Art fino al 12 gennaio

Un tesoretto di gioielli e monete rimase per oltre 500 anni celato fra le mura di una casa della città francese di Colmar. Nascosto nel XIV secolo, tornò alla luce nel 1863 ed entrò quindi a far parte delle collezioni del Museo di Cluny, a Parigi. Ne fanno parte anelli con zaffiri, rubini e turchesi, spille tempestate di pietre preziose, una cintura finemente smaltata, bottoni dorati e oltre 300 monete. Doveva trattarsi dei beni piú

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ammirare il tesoretto, la mostra allestita presso i Cloisters ripercorre dunque l’intera vicenda storica, sottolineando i drammi vissuti dalle minoranze ebraiche nel XIV secolo. info www.metmuseum.org

dell’artista vinciano cosí rilevante per la storia dell’arte mondiale. ISLe viene presentato su tavoli touchscreen da 55 pollici con risoluzione 4K: uno spazio fisico capace di guidare il visitatore nella dimensione virtuale dell’opera leonardesca. Le applicazioni multimediali sono accompagnate, oltre che da didascalie illustrative, anche da facsimili dei disegni originali, presentando inoltre il contesto storico e culturale in cui le opere sono nate. info tel. 051 2099610; https://eventi.unibo.it/smamostreleonardoanatomiadeidisegni

URBINO RAFFAELLO E GLI AMICI DI URBINO Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale fino al 19 gennaio

Promossa e organizzata dalla Galleria Nazionale delle Marche, la mostra «indaga e per la prima volta in modo cosí compiuto racconta – come ha dichiarato Peter Aufreiter, direttore del museo urbinate – il mondo delle relazioni di Raffaello con un gruppo di artisti operosi a Urbino che accompagnarono, in dialogo ma da posizioni e con stature diverse, la sua transizione

BOLOGNA LEONARDO, ANATOMIA DEI DISEGNI Museo di Palazzo Poggi dell’Università di Bologna fino al 19 gennaio

Realizzata in collaborazione con il Museo Leonardiano di Vinci e il Polo Museale EmiliaRomagna, la mostra espone cinque fondamentali disegni di Leonardo, tra cui il celeberrimo Uomo Vitruviano e il Paesaggio del 1473, mostrati non in originale, ma tramite l’applicativo ISLe (InSight Leonardo), che li pone sotto una nuova luce, consentendo al visitatore di capire i motivi che hanno reso l’opera

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AGENDA DEL MESE verso la maniera moderna e i suoi sviluppi stilistici durante la memorabile stagione romana». Fondamentale fu il ruolo giocato da Pietro Perugino nella formazione e nel primo tratto dell’attività di Raffaello, qui letta in parallelo con quella dei piú maturi concittadini Timoteo Viti (1469-1523) e Girolamo Genga (1476 circa-1551), le ricerche dei quali ebbero a intersecarsi con il periodo fiorentino e con l’attività romana del Sanzio. «La mostra vuole essere – secondo le curatrici, Barbara Agosti e Silvia Ginzburg – un’occasione per misurare, in un contesto specifico di estrema rilevanza quale quello urbinate e nelle sue tappe maggiori, la grande trasformazione che coinvolse la cultura figurativa italiana nel passaggio tra il Quattro e il Cinquecento. A queste scansioni corrispondono, nella riflessione storiografica costruita da Vasari e fatta propria dagli studi successivi, il momento iniziale dell’adesione dei pittori della fine del secolo XV alle prime novità introdotte da Leonardo, ovvero alla adozione di quella “dolcezza ne’ colori unita, che cominciò a usare nelle cose sue il Francia bolognese, e Pietro Perugino; et i popoli nel vederla corsero, come matti a questa bellezza nuova e piú viva, parendo loro assolutamente che e’ non si potesse già mai far meglio”». info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it

Civico della Cappuccine, che vuol essere un invito a incontrare le diverse anime del maestro di Norimberga, «padre nobile» del pensiero grafico, capace di innalzare il disegno e l’incisione a espressione artistica non piú ancella della pittura, ma pienamente libera e autonoma. L’avventura artistica di Dürer prende il via in una Germania ancora permeata da uno spirito gotico e medievale e forse, senza l’influenza dell’intellettuale e amico Willibald Pirckheimer, probabilmente l’artista avrebbe orientato i suoi interessi artistici verso Nord, verso la

lezione fiamminga, come molti altri artisti suoi conterranei. Invece Pirckheimer lo orientò alla dimensione culturale del nostro Rinascimento, spalancando la mente dell’artista a ricerche a lui aliene, in primo luogo quella tesa a carpire i segreti della rappresentazione dello spazio e della bellezza. Il percorso espositivo è stato concepito come un vero e proprio racconto, che procede attraverso dieci sezioni tematiche, immergendo il visitatore nel visionario sogno di perfezione del figlio di un umile orafo di Norimberga, che ha voluto inseguire il suo desiderio di appropriarsi dei segreti della rappresentazione della bellezza. info tel. 0545 280911; e-mail: centroculturale@comune. bagnacavallo.ra.it; www.museocivicobagnacavallo.it PARIGI L’ARTE RICAMATA Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 20 gennaio

Il ricamo è un’arte di lusso, per la quale si faceva ricorso a materie prime preziose, come la seta, l’oro e l’argento. Ed è dunque un autentico status symbol, che si ritrovò al centro di intensi scambi commerciali. Grazie alla maestria affinata nel tempo da artigiani attivi in molte regioni d’Europa, gualdrappe per cavalli, scarselle o paramenti liturgici s’arricchirono di stemmi, scene a soggetto religioso e profano. E nel mondo ecclesiastico e presso le famiglie piú nobili e ricche al ricamo si fa ricorso

MOSTRE • Imago splendida. Capolavori di scultura lignea a Bologna Bologna – Museo Civico Medievale

fino all’8 marzo info tel. 051 2193916 o 2193930: e-mail: museiarteantica@comune.bologna.it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter: @MuseiCiviciBolo

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uò dirsi un fenomeno di recente affermazione il rinnovato interesse verso la scultura lignea italiana, ai cui aspetti materiali e tecnici è a lungo mancato, nella storiografia artistica, un pieno riconoscimento di dignità critica. In un quadro di riferimento segnato, in particolare per il patrimonio artistico prodotto nel XII e XIII secolo, da una rarefazione delle opere causata dalla deperibilità del materiale e dalla progressiva trasformazione delle immagini al variare dei canoni estetici, Imago splendida segna un importante momento di ricognizione.

BAGNACAVALLO (RA) ALBRECHT DÜRER. IL PRIVILEGIO DELL’INQUIETUDINE Museo Civico delle Cappuccine fino al 19 gennaio

Sono oltre 120 le opere di Albrecht Dürer selezionate per la mostra allestita nel Museo

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anche per decorare pareti ed elementi d’arredo. L’esposizione presentata al Museo di Cluny offre dunque una rassegna dei principali centri e aree di produzione, dal mondo germanico all’Italia, passando per le Fiandre, i Paesi Bassi, l’Inghilterra e la Francia. Al contempo, definisce un quadro del ruolo sociale e del valore artistico del ricamo medievale, documentando le tecniche, i processi di lavorazione e le relazioni fra committenti, ricamatori e ricamatrici, pittori e mercanti. info www.musee-moyenage.fr NEW YORK IL RINASCIMENTO DELL’INCISIONE The Metropolitan Museum of Art fino al 20 gennaio

L’introduzione in Europa dell’incisione su carta – la cui tecnica venne mutuata da quelle adottate nelle officine dei decoratori di armi e armature – costituí un passaggio cruciale nella storia della stampa. Un passaggio che la mostra «Il Rinascimento

dell’incisione», nata dalla collaborazione fra il Metropolitan Museum e l’Albertina di Vienna (dove l’esposizione verrà ripresentata nella prossima primavera), documenta attraverso oltre 100 opere realizzate da artisti noti e meno noti, a cui fanno da corredo disegni, matrici di stampe, utensili per l’incisione, libri illustrati e armature. Il percorso espositivo ha inizio con documenti databili alla fine del Cinquecento, quando

l’incisione muove i suoi primi passi a opera del tedesco Daniel Hopfer e ripercorre l’evoluzione del fenomeno, che vide coinvolto un numero sempre crescente di artisti non solo in Germania, ma anche nelle Fiandre, in Italia e in Francia. Nel passaggio dalla decorazione delle armature alla stampa, la tecnica messa a punto per realizzare manufatti unici e costosi, destinati a

dal Romanico al Duecento La mostra approfondisce l’affascinante e ancora poco studiata produzione scultorea lignea a Bologna tra XII e XIII secolo, restituendone una rilettura aggiornata a quasi vent’anni dall’esposizione «Duecento. Forme e colori del Medioevo a Bologna», una cui sezione rappresentava lo spazio del sacro con opere inerenti l’iconografia sacra bolognese. Grazie alla collaborazione della Curia Arcivescovile di Bologna e della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, e con il patrocinio di Alma Mater Studiorum-Dipartimento delle Arti, il progetto è l’esito espositivo di una sedimentata ricerca filologica e documentaria, che fissa una nuova tappa verso la comprensione dei modelli di riferimento nel contesto figurativo della Bologna altomedievale. Il nucleo principale della mostra, allestita nella Sala del Lapidario, si compone delle testimonianze piú rappresentative della produzione plastica superstite nella città: tre croci intagliate di proporzioni monumentali appartenenti alla variante iconografica del Christus Triumphans che vince la morte, per la prima volta eccezionalmente riunite insieme. La comparazione ravvicinata dei manufatti offre in visione tangenze e analogie, sul piano della sintassi formale e tecnica, che rendono plausibile l’ipotesi di un’inedita attribuzione a un’unica bottega, credibilmente di area alpina sudtirolese – il cosiddetto Maestro del Crocefisso Cini – in una fase temporale compresa tra il 1270 e il 1280.

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personaggi dei ceti piú elevati e facoltosi, si trasformò in una prassi che permetteva di ottenere prodotti relativamente economici e fruibili da un pubblico piú vasto. La mostra si chiude con materiali prodotti intorno al 1560, quando la tecnica dell’incisione si era definitivamente affermata come una specializzazione professionale vera e propria e lo stampatore olandese Hieronymus Cock prese alle sue dipendenze incisori ai quali affidare la realizzazione di stampe tratte da originali creati da altri artisti. È l’epoca in cui l’incisione ha ormai superato la fase sperimentale ed è entrata a far parte del bagaglio tecnologico di editori e stampatori. info www.metmuseum.org PERUGIA MADONNA COL BAMBINO Galleria Nazionale dell’Umbria fino al 26 gennaio

A coronamento di un’altra brillante


AGENDA DEL MESE L’omaggio a Leonardo si è in questo caso tradotto in un’esposizione multimediale curata da Treccani e progettata e messa in scena da Studio Azzurro. Il percorso è scandito da sette videoinstallazioni, di cui cinque interattive, che coinvolgono lo spettatore in un racconto di immagini e suoni che, a partire dal multiforme lascito del maestro, ci «parlano» tanto del suo, quanto del nostro tempo. Le grandi macchine operazione del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, si può ammirare, fino al prossimo gennaio, la Madonna col Bambino del Pinturicchio trafugata nel novembre 1990 presso un’abitazione privata di Perugia. La preziosa tavola era ricomparsa nel 2018, con una falsa attribuzione a Bartolomeo Caporali, per essere venduta all’asta nel Regno Unito, ma, grazie alla rogatoria internazionale subito presentata, è stato possibile procedere al suo sequestro e al successivo recupero. Prima che venga restituito ai legittimi proprietari, la Galleria Nazionale dell’Umbria offre dunque l’occasione di vedere il dipinto, che il Pinturicchio realizzò verosimilmente fra gli anni Settanta e Ottanta del Quattrocento, e di confrontarlo con le opere del maestro perugino presenti nella sala 24 del museo e con quelle di Bartolomeo Caporali, conservate anch’esse in Galleria. info https:// gallerianazionaledellumbria.it/ PALERMO LEONARDO. LA MACCHINA DELL’IMMAGINAZIONE Galleria d’arte moderna fino al 26 gennaio

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utili. Questo mondo di macchine trasformate in dispositivi narrativi, di giganteschi fogli di appunti in attesa di essere risvegliati, accoglie il visitatore in una penombra da cui spiccano i colori del legno, della tela e della carta. L’interazione avviene con sistemi diversi: la modulazione della luce e della voce sono gli strumenti privilegiati. info tel. 091 8431605; e-mail: info@gampalermo.it; www.gampalermo.it MENDRISIO (SVIZZERA) INDIA ANTICA. CAPOLAVORI DAL COLLEZIONISMO SVIZZERO Museo d’arte Mendrisio fino al 26 gennaio

scenografiche, la cui struttura è liberamente ispirata a disegni leonardeschi, corrispondono ad altrettante sezioni: Le Osservazioni sulla natura; La città; Il paesaggio; Le Macchine di pace; Le Macchine di guerra; Il Tavolo anatomico; La pittura. Studio Azzurro ha pensato a uno spazio che immerge i visitatori nel mondo dell’immaginazione di Leonardo. Un mondo di macchine talvolta trasparenti come i suoi orizzonti, talvolta opache come la carta dei fogli di appunti. L’esperienza passa dall’osservazione alla partecipazione, muovendosi tra forme che richiamano il rigore geometrico dei solidi platonici di Luca Pacioli e si rimodulano in strumenti

L’arte indiana antica possiede un repertorio vario e stratificato che oggi può essere colto solo parzialmente. Culla di tre religioni – buddismo, induismo e giainismo – ancora in vigore, l’India ha un patrimonio culturale estremamente ricco, anche se ciò che rimane è composto solo dai materiali piú durevoli. Questa eredità racconta il rapporto dell’umanità con le forze che la sottendono e con l’universo in generale. L’India è un territorio

ricco di «divinità» di molti tipi che rappresentano tante forze spirituali e il loro travalicamento. Nonostante le divinità conservino il proprio nome, il loro significato viene continuamente rielaborato e cambiato. E la mostra si concentra proprio sulle trasformazioni che le divinità subiscono dalle loro prime rappresentazioni figurative fino alle loro espressioni esoteriche (tantriche). Gli oggetti esposti – oltre 70 sculture di piccole, medie e grandi dimensioni – sono distribuiti in un percorso articolato in nove capitoli: Metafore poetiche; Animali leggendari; Tradizioni a confronto; Storie narrate; Potere femminile; Elementi esoterici; Miracoli; Coppia divina; Divinità cosmica. Le sculture provengono da diverse regioni dell’India, Pakistan e Afghanistan e coprono un arco temporale che va dal II secolo a.C. al XII secolo d.C. info http://museo.mendrisio.ch MILANO ORO, 1320-2020. DAI MAESTRI DEL TRECENTO AL CONTEMPORANEO Galleria Salamon fino al 31 gennaio

La mostra nasce con l’intenzione di tracciare una traiettoria diacronica sull’uso (e contestualmente sul significato) dell’oro nelle arti figurative. Vengono messe in relazione opere del XIV e dell’inizio del XV secolo – dalla tradizione giottesca al gotico internazionale a Firenze e in Italia centrale – e lavori di grandi artisti italiani degli ultimi cinquant’anni: da Lucio Fontana a Paolo Londero e Maurizio Bottoni, interpreti, nelle opere presentate in mostra, delle simbologie intrinseche al gennaio

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VINCI SE FOSSE UN ANGELO DI LEONARDO… Centro espositivo Leo-Lev fino al 2 febbraio

Attribuito da Carlo Ludovico Ragghianti alla scuola del Verrocchio e da Carlo Pedretti al giovane Leonardo da Vinci, l’Angelo Annunciante custodito nella Pieve di San Gennaro in Lucchesia (Capannori, Lucca) è la piú grande fra le sculture ascritte al genio del Rinascimento. L’opera, recentemente restaurata dall’Opificio delle Pietre Dure, è al centro della mostra visitabile nel nuovo centro «Leo-Lev», complesso culturale nato dall’imponente intervento di recupero architettonico e urbanistico dell’ex villa BellioBaronti-Pezzatini e piazza

materiale prezioso. Lo scopo, tuttavia, non è solo quello di condurre una «storia della foglia d’oro nelle arti», mettendo in relazione gli aspetti tematici che ne presupponevano l’utilizzo alla fine del Medioevo e quelli che invece ne contemplano l’impiego ancora oggi: l’obiettivo della rassegna è infatti quello di cercare, in due momenti distanti della storia culturale del nostro Paese, i segni tangibili di una unica tradizione, che emerge con forza esuberante grazie soprattutto al recupero, da parte di autori moderni, di tecniche e procedimenti usati nei secoli trascorsi. info tel. 02 76024638; e-mail: info@salamongallery.com; https://salamongallery.com/

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Pedretti nel centro storico di Vinci. Per far conoscere ai visitatori la pigmentazione originale è esposta anche una copia a grandezza naturale dell’Angelo realizzata dall’Opificio con i materiali e le tecniche pittoriche dell’epoca, oltre a diversi contributi multimediali dedicati alla scultura e al suo recupero. info tel. 0571 1735135

ESTE VELENI E MAGICHE POZIONI. GRANDI STORIE DI CURE E DELITTI Museo Nazionale Atestino fino al 2 febbraio

Un’archeologa e un’esperta di storia della farmacia risalgono alla radice di leggende, storie, tradizioni. Per dare un senso preciso a ciò che sembra favola, riconducendo alla scienza ciò che si ritiene puro frutto della fantasia popolare. Per scoprire che se veramente la principessa avesse baciato il rospo, il bufonide le sarebbe effettivamente apparso come un aitante, giovane cavaliere: in questa mostra veleni, pozioni, medicamenti vengono infatti indagati lungo il loro piú volte millenario stratificarsi. Già nel Paleolitico, migliaia d’anni fa, gli uomini sapevano cercare sostanze utili alla migliore sopravvivenza, ma dobbiamo giungere a Paracelso, quindi al primo Cinquecento, per definire il concetto del dosaggio, elemento che può fare di un farmaco un veleno o viceversa. Il percorso espositivo spazia dai metallurghi dell’antichità,

sottoposti ai fumi velenosi emessi dalla fusione e forse per questo deformi o ipovedenti, al mito di Medusa, alle streghe di età medievalemoderna. E poi grandi storie di cure, ma anche di delitti: fu la digitale, che ha dato vita in tempi moderni a farmaci del cuore, a essere fatale nel 1329 a Cangrande della Scala, vittima di un delitto volontario o di un errore nell’assunzione di una sostanza tossica? Accanto a reperti archeologici, sono esposti importanti dipinti con immagini di magie, nonché rare edizioni e manoscritti. info tel. 0429 2085; e-mail: pm-ven.museoeste@beniculturali.it; www.atestino.beniculturali.it BOLOGNA UN PASSATO PRESENTE. L’ANTICA COMPAGNIA DEI LOMBARDI IN BOLOGNA Collezioni Comunali d’Arte fino al 9 febbraio

Grazie all’accordo tra Compagnia dei Lombardi e Istituzione Bologna Musei, un prezioso nucleo di otto tavole di epoca medievale appartenenti a due perduti polittici di Simone di Filippo detto «dei Crocifissi» e di

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AGENDA DEL MESE canonico Malvasia. Le altre quattro tavole con San Giacomo Maggiore, San Pietro, San Nicola da Tolentino e San Francesco, attribuite a Giovanni, sono state ricollegate ai due scomparti di medesima fattura con Sant’Antonio Abate e San Domenico, oggi conservati presso la Pinacoteca Nazionale di Ferrara. I sei manufatti provenivano da un polittico smembrato, verosimilmente commissionato per la chiesa di S. Giacomo Maggiore a Bologna, vista la presenza di diversi santi cari all’Ordine agostiniano. info tel. 051 2193998 oppure 2193631; e-mail: arteanticamuseiarteantica@comune. bologna.it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter @MuseiCiviciBolo Giovanni di Pietro Falloppi, detto da Modena, è stato concesso in comodato d’uso gratuito ai Musei Civici d’Arte Antica. Il progetto espositivo ripercorre anche le vicende legate alle origini della Compagnia dei Lombardi – una delle antiche società d’armi sorte in età comunale a Bologna, l’unica ancora oggi attiva nella sede attigua alla basilica di S. Stefano – e alla formazione di una prestigiosa, seppure quantitativamente esigua, collezione d’arte. Le quattro tavole dipinte da Simone di Filippo con San Giovanni Battista, San Michele Arcangelo, Santa Caterina d’Alessandra e Santa Maria Maddalena, costituivano in origine gli scomparti laterali di un unico polittico, forse identificabile con quello che recava al centro l’Incoronazione della Vergine e che venne descritto nel 1686 nella scomparsa chiesa di S. Michele del Mercato dal

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MILANO LEONARDO E LA MADONNA LITTA Museo Poldi Pezzoli fino al 10 febbraio

toscano, la Madonna Litta torna, seppur temporaneamente, nella sua città d’origine ed è protagonista dell’esposizione allestita nelle sale del Museo Poldi Pezzoli. La affianca un altro capolavoro nato da una raffinata composizione di Leonardo, la Madonna con il Bambino del Museo Poldi Pezzoli: il dipinto, eseguito verso il 1485-1487 da Giovanni Antonio Boltraffio – il migliore fra gli allievi di Leonardo a Milano – con ogni probabilità sulla base di studi preparatori messi a punto dal maestro, è accostabile, dal punto di vista stilistico, alla prima versione della Vergine delle rocce del Louvre. Nella prima metà dell’Ottocento anche la Madonna con il Bambino apparteneva alla collezione dei duchi Litta (fu acquistata da Gian Giacomo Poldi Pezzoli nel 1864): la

mostra ha quindi permesso di riunire nuovamente a Milano, dopo oltre un secolo e mezzo, queste due straordinarie versioni leonardesche della Madonna con il Bambino. info tel. 02 794889 o 796334; www.museopoldipezzoli.it GRADARA E PESARO DÜRER E GLI INCISORI TEDESCHI DEL CINQUECENTO Gradara, Palazzo Rubini Vesin GUARDANDO DÜRER: I LIBRI, I COLLAGES E LUCA DI LEIDA Pesaro, Biblioteca Oliveriana fino al 16 febbraio

Il settecentesco Palazzo Rubini Vesin di Gradara presenta la piú ricca esposizione monotematica mai realizzata finora in Italia per numero di pezzi (oltre 400) e di autori rappresentati (60). «Dürer e gli incisori del Cinquecento» è una mostra di incisione, progettata però come una grande esposizione di pittura,

Negli anni in cui era attivo a Milano, Leonardo da Vinci dipinse, intorno al 1490, una Madonna con il Bambino oggi nota come Madonna Litta. La tavola, che mostra notevoli affinità stilistiche con la seconda versione della Vergine delle rocce, oggi conservata alla National Gallery di Londra, conobbe subito grande fortuna, come provano le numerose copie e derivazioni eseguite da artisti lombardi pervenuteci. Piú tardi, nell’Ottocento, divenne l’opera piú rinomata di una delle piú importanti collezioni milanesi, quella dei duchi Litta (da cui ha tratto l’odierna denominazione); il Museo dell’Ermitage – che ne è l’attuale proprietario – l’acquistò nel 1865 dal duca Antonio Litta Visconti Arese. Riconosciuta come uno dei capolavori del maestro gennaio

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FIRENZE PIETRO ARETINO E L’ARTE NEL RINASCIMENTO Gallerie degli Uffizi, Aula magliabechiana fino al 1° marzo

con molti pezzi e molti artisti, in virtú di un ragionamento complessivo che, molto raramente e per motivi logistici e di opere disponibili, viene applicato alla grafica d’arte e soprattutto a quella antica. Le opere provengono da collezioni private, riunendo capolavori e opere minori. Parallelamente, nella splendida Biblioteca Oliveriana di Pesaro, si rende omaggio a Luca di Leida, esponendo una selezione dei migliori bulini del grande amico, emulo e rivale di Dürer, una raccolta di libri illustrati dallo stesso maestro di Norimberga e una serie di collage, ispirati e in parte composti dalle sue opere. Attraverso questi pezzi diventa possibile guardare all’incisione tedesca del Cinquecento da una nuova prospettiva, apprendendo i diversi modi in cui l’incisione ha esercitato il proprio influsso nella cultura europea tra il XVI e il XIX secolo. info Gradara, tel. 0541 964673; e-mail: palazzorubinivesin@gmail. com; Pesaro, tel. 0721 33344; e-mail: biblio.oliveriana@provincia. ps.it; www.oliveriana.pu.it SANSEPOLCRO LEONARDO DA VINCI: VISIONS Museo Civico di Sansepolcro fino al 24 febbraio

Fulcro della mostra sono

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Fu poeta, commediografo, drammaturgo, sferzante penna satirica, consigliere di potenti, talent scout di grandi artisti: Pietro Aretino (1492-1556), oggi noto principalmente per i suoi celeberrimi quanto scandalosi Sonetti lussuriosi, è stato, nei fatti, una delle voci culturali piú autorevoli del Cinquecento, un intellettuale assai temuto da signori e alti prelati, amico del condottiero Giovanni dalle Bande Nere, del cardinale Giulio de’ Medici, che lo portò a Roma alla corte di Papa Leone X, e di maestri come Tiziano, Raffaello, Parmigianino, che lo ritrassero nelle loro opere e con i quali intratteneva fitte e appassionate corrispondenze epistolari. Alla sua poliedrica alcuni progetti di Leonardo, che ben illustrano la sua attitudine a cimentarsi con temi di inaudita complessità. Il volo prende forma nei suoi studi e nelle macchine che ha disegnato. Leonardo si misura anche con l’idea di conferire il movimento a oggetti inanimati: il carro semovente e il leone meccanico testimoniano i risultati raggiunti. Infine, il progetto per la gigantesca statua equestre in bronzo in memoria di Francesco Sforza costituisce un’ulteriore prova dell’eccezionale intelligenza con cui affrontava le sfide piú audaci. Fanno da corredo video di approfondimento e animazioni 3D realizzati dal Museo Galileo di Firenze. info tel 199 15 11 21 oppure 0575 732218; www.museocivicosansepolcro.it

scultura, arti decorative, che raccontano la vita e lo spirito di Aretino nei luoghi simbolo del Rinascimento, dove egli visse ed esercitò la sua grande influenza sul fervido mondo culturale della prima metà del Cinquecento: la Roma dei papi Medici, la Mantova dei Gonzaga, la Venezia del doge Gritti, la Firenze dei duchi Alessandro e Cosimo I, ma anche Urbino, Perugia, Arezzo, Milano. info tel. 055 294883; e-mail: infouffizi@beniculturali.it; www.uffizi.it TORINO IL TEMPO DI LEONARDO 1452-1519 Musei Reali di Torino, Biblioteca Reale fino all’8 marzo

Sulla scia delle celebrazioni per il cinquecentesimo anniversario dalla morte di Leonardo da Vinci, i Musei Reali di Torino propongono un nuovo percorso tematico di approfondimento. Attraverso i preziosi materiali custoditi in Biblioteca, l’esposizione ripercorre oltre sessant’anni di storia italiana ed europea, un periodo di grande fermento culturale in cui si incrociarono accadimenti, destini e storie di grandi protagonisti del Rinascimento, da Michelangelo a Cristoforo Colombo, dal Savonarola a Cesare Borgia, dalla caduta dell’impero

figura, anticipatore (per stessa ammissione di Giorgio Vasari) della storia e critica dell’arte come disciplina autonoma, gli Uffizi dedicano ora, per la prima volta in assoluto, una grande mostra arricchita da importanti prestiti di musei internazionali. Il percorso espositivo raccoglie oltre cento opere tra pittura, grafica, libri a stampa,

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AGENDA DEL MESE romano d’Oriente all’avvento del protestantesimo e all’invenzione della stampa, eventi che mutarono per sempre il corso della storia. Il percorso si snoda nelle due sale al piano interrato della Biblioteca Reale: il primo caveau, la Sala Leonardo, accoglie una selezione di opere di artisti italiani contemporanei a Leonardo da Vinci, accanto al Codice sul volo degli uccelli. Nove disegni autografi del maestro vinciano accompagnano il celebre Autoritratto: è l’occasione per ammirare uno dei piú noti capolavori della storia dell’arte. La seconda sala presenta manoscritti miniati, incunaboli, cinquecentine, preziose carte geografiche antiche, disegni e incisioni, affiancati da un ricco corredo didascalico, per illustrare i personaggi e i principali eventi storici occorsi durante la vita di Leonardo. info tel. 011 19560449; www.museireali.beniculturali.it FIRENZE I CIELI IN UNA STANZA. SOFFITTI LIGNEI A FIRENZE

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E A ROMA NEL RINASCIMENTO Gallerie degli Uffizi, Sala Edoardo Detti e Sala del Camino fino all’8 marzo

Il soffitto metafora del cielo. Forme quadrate, rettangolari od ottagonali tutte riccamente decorate invitano i visitatori delle chiese e dei palazzi rinascimentali a sollevare gli occhi al cielo. Da elemento costruttivo nato per proteggere gli ambienti a ornamento che fonde nel suo insieme tutte le arti. Per la prima volta il Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi dedica una mostra a un singolo elemento architettonico. Con questa mostra la Galleria degli Uffizi, che custodisce il maggior numero di disegni di soffitti rinascimentali, inizia a scriverne la storia. Del ricco patrimonio di disegni degli Uffizi è stata operata un’attenta selezione integrata da fogli dal Louvre, dal Museo Nazionale di Stoccolma, dalla Biblioteca di Storia dell’Arte e di Archeologia, dal Museo di Roma, dagli Archivi di Stato di Roma e di Firenze. Oltre trenta opere esposte tra disegni

tecnici, di ornato e di figura, dipinti e altri manufatti preziosi e poco conosciuti che raccontano lo splendore dei soffitti lignei nel Rinascimento e come, per la loro realizzazione, pittura e scultura fossero strettamente connesse all’architettura. info tel. 055 294883; e-mail: infouffizi@beniculturali.it; www.uffizi.it URBINO RAPHAEL WARE. I COLORI DEL RINASCIMENTO Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale fino al 13 aprile

La grande stagione rinascimentale italiana trova piena espressione in ogni forma artistica: quella della maiolica esprime pienamente la ricerca estetica, il clima culturale, ma anche il modus vivendi, che fa dell’Italia e dei suoi artisti, tra Quattrocento e Cinquecento, il faro culturale dell’Occidente. Dal Seicento in poi, nei Paesi europei, la maiolica cinquecentesca italiana diventa una vera e propria passione collezionistica e, a quella istoriata, da considerarsi a pieno titolo un aspetto della pittura rinascimentale, viene associato il nome del grande pittore urbinate: in inglese Raphael ware. E la Galleria Nazionale delle Marche espone, in questa mostra, 147 raffinati esemplari di maiolica italiana rinascimentale, provenienti dalla piú grande collezione privata al mondo, di questo genere, con l’obiettivo di focalizzare l’attenzione su quell’importante momento della tradizione artistica italiana. L’esposizione è allestita al secondo piano del Palazzo Ducale di Urbino, nella

luminosa Loggia del Pasquino, con l’intenzione di mostrare questi raffinati oggetti nella piena luce naturale, poiché la maiolica – piú di ogni altra forma d’arte del tempo – mostra i suoi colori perfettamente conservati come all’origine, quando uscí dalla bottega del ceramista. La loggia è posta a fianco alle sale che espongono una parte delle ceramiche della collezione permanente e l’allestimento – appositamente creato – verrà poi utilizzato proprio per ampliare lo spazio espositivo dedicato a questa sezione. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it TORINO ANDREA MANTEGNA. RIVIVERE L’ANTICO, COSTRUIRE IL MODERNO Palazzo Madama, Corte Medievale e Piano Nobile fino al 4 maggio

Torino rende omaggio ad Andrea Mantegna, uno dei piú importanti artisti del Rinascimento italiano, con una ricca rassegna, allestita nelle sale monumentali di Palazzo Madama. La mostra presenta il percorso artistico del grande pittore, dai prodigiosi esordi giovanili al riconosciuto ruolo di artista di corte dei Gonzaga, articolato in sei sezioni che evidenziano momenti gennaio

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particolari della sua carriera e significativi aspetti dei suoi interessi e della sua personalità artistica, illustrando al tempo stesso alcuni temi meno indagati come il rapporto di Mantegna con l’architettura e con i letterati. Viene cosí proposta un’ampia lettura della figura dell’artista, che definí il suo originalissimo linguaggio formativo sulla base della profonda e diretta conoscenza delle opere padovane di Donatello, della familiarità con i lavori di Jacopo Bellini e dei suoi figli (in particolare del geniale Giovanni), delle novità fiorentine e fiamminghe, nonché dello studio della scultura antica. Un’attenzione specifica è dedicata al suo ruolo di artista di corte a Mantova e alle modalità con cui Mantegna definí la fitta rete di relazioni e amicizie con

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gennaio

scrittori e studiosi, che lo resero un riconosciuto e importante interlocutore nel panorama culturale, capace di dare forma ai valori morali ed estetici degli umanisti. Il percorso della mostra è preceduto e integrato, nella Corte Medievale di Palazzo Madama, da un apparato di proiezioni multimediali: ai visitatori viene proposta un’esperienza immersiva nella vita, nei luoghi e nelle opere di Mantegna, cosí da rendere accessibili anche i capolavori che, per la loro natura o per il delicato stato di conservazione, non possono essere presenti in mostra, dalla Cappella Ovetari di Padova alla celeberrima Camera degli Sposi, dalla sua casa a Mantova al grande ciclo all’antica dei Trionfi di Cesare. Il Piano Nobile di Palazzo Madama accoglie,

quindi, l’esposizione delle opere, a partire dal grande affresco staccato proveniente dalla Cappella Ovetari, parzialmente sopravvissuto al bombardamento della seconda guerra mondiale ed esposto per la prima volta dopo un lungo e complesso restauro e dalla lunetta con Sant’Antonio e San Bernardino da Siena proveniente dal Museo Antoniano di Padova. Il percorso espositivo non è solo monografico, ma presenta capolavori dei maggiori protagonisti del Rinascimento nell’Italia settentrionale che furono in rapporto con Mantegna, tra cui opere di Donatello, Antonello da Messina, Pisanello, Paolo Uccello, Giovanni Bellini, Cosmè Tura, Ercole de’ Roberti, Pier Jacopo Alari Bonacolsi detto l’Antico e infine il Correggio. Accanto a dipinti, disegni e stampe di Mantegna, sono esposte opere fondamentali dei suoi contemporanei, cosí come sculture antiche e moderne, dettagli architettonici, bronzetti, medaglie, lettere autografe e preziosi volumi antichi a stampa e miniati. info tel. 011 4433501; www. palazzomadamatorino.it

TORINO LEONARDO DA VINCI. I VOLTI DEL GENIO Museo Storico Nazionale d’Artiglieria fino al 31 maggio

Il museo torinese rende omaggio alla figura di un mortale che non smette di essere attraente e potente, genio artistico dalla personalità poliedrica e complessa. Suddivisa in cinque aree tematiche, la mostra indaga la vita del maestro, la sua immensa eredità, la sua opera piú famosa, l’Ultima Cena, i suoi studi sul corpo umano e infine la Tavola Lucana, una tempera su legno realizzata tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI secolo, scoperta nel 2018 in una collezione privata di Salerno. Il lavoro, sottoposto alle analisi scientifiche condotte dagli esperti del CNR dell’Università Federico II di Napoli e del Circe-Innova, presenta il volto di Leonardo da Vinci ripreso di tre quarti in semi-profilo, con caratteristiche molto diverse dalle aspettative e da quelle già evidenziate dal famoso ritratto di un anziano della Biblioteca Reale di Torino. info www.leonardodavincitorino. com; Facebook @ivoltidelgenio; Instagram Leonardodavinciivoltidelgenio

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AGENDA DEL MESE moda». Le conferenze, aperte al pubblico, si tengono il sabato mattina, alle 11,30, con ingresso libero fino a esaurimento posti (100 posti seduti, 30 posti in piedi), secondo il calendario seguente: 11 gennaio, Maria Grazia Chiuri, Valeria Palermi, Moda: strumento di consapevolezza, arte del possibile; 25 gennaio, Mariuccia Casadio, Giuseppe Scaraffia, Luigi Ontani, Fenomenologia del dandy; 8 febbraio, Gabriella Pescucci Enrico Magrelli, Oscar ai costumi; 22 febbraio, Daniela Baroncini, Giacomo Ferrara, Il guardaroba dell’eros: letteratura, moda e seduzione; 7 marzo, Roberto D’Agostino, Andrea Mecacci, Considerazioni sul kitsch; 21 marzo, Giovanni Gastel,

Appuntamenti BOLOGNA IMAGO SPLENDIDA, CONFERENZE A INGRESSO GRATUITO Museo Civico Medievale fino al 27 febbraio

A corollario della mostra «Imago splendida», è stato anche organizzato un ciclo di conferenze. Questi gli appuntamenti: 23 gennaio, ore 17,30: Fabio Massaccesi, Croci trionfali bolognesi tra spazio e liturgia; 6 febbraio, ore 17,30: François Boespflug e Emanuela Fogliadini, Dal Cristo Triumphans al Cristo Patiens. Una lettura iconografica alla luce della teologia; 27 febbraio, ore 17,30: Emanuele Zappasodi, Da Assisi a Bologna. La croce dipinta da Giunta Pisano al Maestro dei Crocifissi Francescani. info tel. 051 2193916 o 2193930: e-mail: museiarteantica@comune.bologna. it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter: @MuseiCiviciBolo

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ROMA EPHIMERA. DIALOGHI SULLA MODA Curia Iulia al Foro Romano fino al 21 marzo

Nella suggestiva ambientazione della Curia Iulia, antica sede del Senato romano, poi trasformata, nel Medioevo, nella chiesa di S. Adriano, continuano gli incontri previsti dalla rassegna «Ephimera. Dialoghi sulla

Cristina Lucchini, Sguardi italiani. L’ingresso alla Curia si effettua direttamente da Largo della Salara Vecchia, su via dei Fori Imperiali all’altezza di Largo Corrado Ricci. È necessaria la prenotazione da effettuarsi a partire dal lunedí precedente l’incontro, dalle ore 7,30, scrivendo, indicando il nominativo, alla seguente mail: ephimera@mondadori.it info https://parcocolosseo.it/

MILANO MEDIOEVO IN LIBRERIA, XVIII EDIZIONE IL MEDIOEVO DEI CASTELLI Museo Civico Archeologico, Sala Conferenze fino al 4 aprile

«Il Medioevo dei castelli» è il tema scelto per la XVIII edizione di «Medioevo in Libreria», rassegna che prevede visite guidate al mattino, proiezioni video e conferenze al pomeriggio. Tutti gli incontri pomeridiani hanno inizio alle ore 15,30 con la proiezione del filmato Medioevo Movie-Viaggio nel Medioevo, a cui fanno seguito le conferenze. Qui di seguito, l’elenco dei prossimi appuntamenti: 11 gennaio: ore 10,00: visita guidata all’abbazia di Chiaravalle; ore 16,00: Marina Uboldi, Ricerche archeologiche in alcuni castra altomedievali della Lombardia settentrionale; 8 febbraio: ore 10,00: visita guidata gratuita alla basilica di S. Marco; ore 16,00: Marco Tamborini, Torri e rocche medievali attraverso le fonti scritte: alcuni casi del tenitorio varesino; 7 marzo: ore 10,00: visita guidata alla chiesa di S. Maria Incoronata; ore 16,00: Alessandro Bazzoffia, I castelli gennaio

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APPUNTAMENTI • Luce sull’Archeologia 2020 - Alle origini di Roma. Miti, popoli, culture Roma – Teatro Argentina

fino al 21 aprile (dal 12 gennaio) info www.teatrodiroma.net

«A

lle origini di Roma. Miti, Popoli, Culture» è il tema scelto per la VI edizione di «Luce sull’Archeologia. Incontri di Storia e Arte». A esplorarlo sono stati invitati storici, filologi, archeologi, storici dell’arte, architetti, epigrafisti, scienziati, ai quali si affiancheranno musicisti e specialisti di strumenti musicali del mondo antico. Otto gli incontri in programma, dal 12 gennaio al 21 aprile, con i quali si propone un ricco palinsesto dedicato non

alla motta dell’Ovest mantovano: risorse culturali e turistiche del territorio tra restauro, riuso e valorizzazione; 4 aprile: ore 10,00: visita guidata alla chiesa di S. Cristoforo; ore 16,00: Nicolangelo D’Acunto, Castelli reali, castelli immaginati. info tel. 333 5818048; e-mail: info@ italiamedievale.org; www.italiamedievale.org; http:// medioevoinlibreria.blogspot.com

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solo alla storia piú antica di Roma, ma anche alla progressiva conquista del Lazio, analizzando i miti di fondazione e i popoli con i quali Roma si è trovata a confronto. Aver assicurato continuità a questi incontri ha consentito di raggiungere un risultato di eccellenza nella divulgazione e fruizione dei dati scientifici, grazie anche al prosieguo della collaborazione con lo storico dell’arte Claudio Strinati, con il direttore delle riviste «Archeo» e «Medioevo», Andreas M. Steiner, e con il direttore associato dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, Massimiliano Ghilardi. Questi i prossimi appuntamenti: 12 gennaio, Le origini di Roma tra mito e storia, con Claudio Strinati, Andreas M. Steiner, Carmine Ampolo, Orietta Rossini e Anna Mura Sommella; 26 gennaio, Enea, Roma e il Tevere, con Claudio Strinati, Andreas M. Steiner, Antonio Marchetta e Fausto Zevi; 9 febbraio, Per volere degli dèi, con Claudio Strinati, Andreas M. Steiner, Piero Bartoloni e Annalisa Lo Monaco, nonché un excursus lirico tratto da

FIRENZE INCONTRI AL MUSEO. VIII EDIZIONE Museo Archeologico Nazionale fino al 4 giugno

Tornano gli ormai tradizionali incontri del giovedí presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Gli appuntamenti, a ingresso gratuito, sono in programma alle 17,00. Queste le prossime date: 16 gennaio: Luigi Donati, Nunc est bibendum! Simposi

opere di Vinci, Cavalli, Mercadante, Purcell eseguito da Silvia Pasini, Andrea Fossa e Marco Silvi. 23 febbraio, La conquista del Lazio, tra storia, mito e religione, con Claudio Strinati, Andreas M. Steiner, Marisa de’ Spagnolis, Massimiliano Di Fazio e Alessandro Pagliara. etruschi e greci: analogie e differenze nell’uso del vino; 13 febbraio: Stefania Berutti, Un «addio al nubilato» su una hydria del Museo Archeologico di Firenze; 12 marzo: Anna Revedin, Legno, farina... tracce inaspettate del più antico popolamento della Toscana. info tel. 055 23575 o 2357717; e-mail: pm-tos. musarchnaz-fi@beniculturali.it; www.polomusealetoscana. beniculturali.it

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restauri firenze

Uno spettacolo unico al

mondo di Timothy Verdon, con contributi di Laura Speranza, Stefania Agnoletti e Annalena Brini

La piú antica delle tre monumentali porte in bronzo e oro del Battistero di Firenze, realizzata quasi 700 anni fa da Andrea Pisano – discepolo di Giotto ed egli stesso uno dei maggiori artisti del Trecento – è stata completamente restaurata. Insieme alle altre due porte, è ora visibile nel Museo dell’Opera del Duomo, a pochi passi dalla celeberrima cupola del Brunelleschi

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Tutte le foto che corredano l’articolo documentano il restauro e la musealizzazione della Porta Sud del Battistero di Firenze, realizzata da Andrea Pisano fra il 1330 e il 1336 e ora collocata nel Museo dell’Opera del Duomo della stessa Firenze. In alto particolare di una delle 48 teste di leone inserite da Andrea Pisano nelle cornici delle formelle della porta. Nella pagina accanto particolare della formella raffigurante Zaccaria che perde la parola per aver dubitato dell’annuncio, fatto dall’arcangelo Gabriele, della prossima nascita di un figlio (che fu san Giovanni Battista).

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nota la vicenda che, all’inizio del Quattrocento, ha assegnato la realizzazione della seconda porta bronzea del Battistero di Firenze a Lorenzo Ghiberti, il quale, appena diciannovenne, batté Filippo Brunelleschi e altri per ottenere la commissione. Ma anche la prima porta, realizzata da Andrea Pisano tra il 1330-1336, nacque in un clima di competizione. Firenze, che nel 1289 a Campaldino aveva condotto i guelfi della Toscana alla vittoria, voleva dimostrare anche nell’arte monumentale la sua superiorità sulle altre città-stato della regione. Cosí, oltre all’enorme nuova

cattedrale iniziata nel 1296 – appena sette anni dopo Campaldino –, negli anni 1300-1310 si cominciò a decorarne la facciata con statue e rilievi di Arnolfo di Cambio (come «risposta» a quelle realizzate da Giovanni Pisano pochi anni prima per la cattedrale senese). Poi, tra gli anni 13201330, si mise mano al Battistero, già ultimato da piú di una generazione, ma sprovvisto di sculture esterne; l’idea della porta bronzea prende forma in questo momento. Dopo l’oro e l’argento, il bronzo era la materia piú nobile – e costosa – in cui si potevano fare porte (segue a p. 40) gennaio

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restauri firenze Tutti gli anni della Porta 1330-1336 Arco di tempo in cui Andrea Pisano realizza la prima Porta del Battistero di Firenze, su commissione della potente Arte dei Calimala, la corporazione che riuniva i mercanti. 1322, Un documento parla delle porte per il 29 novembre Battistero da fare in legno ricoperto di metallo, nominando l’artista senese Tino di Camaino come il maestro da chiamare a realizzare l’opera. 1329, A seguito di considerazioni non conosciute, 6 novembre i consoli dell’Arte di Calimala optano per una porta con le caratteristiche della Porta Sud: interamente fusa in bronzo, cesellata a ferro e parzialmente dorata. A questo scopo viene incaricano l’orefice Piero di Jacopo di recarsi a Pisa, per vedere e ritrarre le porte del Duomo, e a Venezia, per trovare specialisti in grado di realizzare la fusione: «dipoi vadia a Venezia a cercare il maestro che le faccia, e trovandolo che lui deve essere il maestro a lavorare la forma di detta porta di metallo...». 1330, È documentata per la prima volta la 22 gennaio presenza di Andrea Pisano, chiamato «maestro delle porte». Fu probabilmente lo stesso Giotto a proporre all’Arte di Calimala il nome di dello scultore Andrea Pisano, ancora poco noto, ma suo discepolo e collaboratore. 1330, I modelli di cera risultano conclusi. 2 aprile In questa fase è attestata anche la presenza del maestro veneziano Leonardo di Avanzo e collaboratori, che si occuparono della complessa fusione dell’intelaiatura delle due ante della Porta. 1332 Leonardo di Avanzo viene pagato per il lavoro svolto sulla Porta Sud. È ragionevole pensare che alla fine di quest’anno il lavoro di fusione della Porta fosse terminato. 1332/1333 Vari pagamenti ad Andrea e ai suoi collaboratori per lavori di rifinitura, cesellatura e doratura. 1333, Andrea si impegna a modellare, fondere e 24 luglio dorare le teste leonine delle cornici. 1335 Intervento di Andrea per la rettifica di un 8 agosto difetto di fusione: «Le porte erano cosí torte che non si potevano usare». 1336 La Porta viene inaugurata. L’erudito gesuita, storico delle chiese di Firenze, Giuseppe Richa, citando un cronista del Trecento, Simone della Tosa, descrive l’inaugurazione:

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«Corse tutta Firenze a vedere la Porta in bronzo fatta da Andrea Pisano a S. Giovanni, che fu collocata alla porta di mezzo (poi trasferita alla banda di Mezzodí) e la Signoria non mai solita andare fuori di palazzo, se non nelle maggiori solennità, vennero a vederla alzare con gli Ambasciatori delle due corone di Napoli e di Sicilia, e donarono ad Andrea per ricompenza di sue fatiche la cittadinanza di Firenze». 1424 Il 29 aprile, la prima Porta di Lorenzo Ghiberti sostituisce quella di Andrea Pisano davanti alla facciata del Duomo e viene collocata a Nord. La Porta di Andrea Pisano verrà di nuovo spostata per far posto alla prima Porta di Lorenzo Ghiberti, rimossa dal posto d’onore per l’arrivo della Porta del Paradiso, sempre di Ghiberti. 1453-1466 Lorenzo Ghiberti e il figlio Vittore sono incaricati di realizzare la cornice che inquadra le due ante della Porta. La cornice è di solito attribuita a Vittore, su disegno del padre, perché il primo pagamento risale solo al 1456, a un anno della morte di Lorenzo, e si protrasse fino al 1466.


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Firenze. Il Battistero di S. Giovanni, alle cui spalle si riconosce la cattedrale di S. Maria del Fiore, affiancata dal campanile di Giotto. Nel riquadro, la Porta Sud prima dell’intervento di restauro.

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restauri firenze Un gigante di bronzo

monumentali. In Sicilia, in Italia meridionale, a Verona e a Venezia esistevano porte bronzee, ma l’unica chiesa in Toscana ad averne era la Primaziale di Pisa, dove è possibile ammirare ancora oggi quella di Bonanno Pisano, della fine del XII secolo. La decisione di realizzare una porta di bronzo per il Battistero fiorentino rappresentava dunque una sorta di sfida all’interno dell’antica rivalità con la Repubblica marinara: Firenze avrebbe prodotto porte piú magnifiche e piú moderne di quelle romaniche pisane. Ma ci fu anche un’altra «competizione», piú vicina a casa: quella tra le due piú importanti «arti» – ossia corporazioni – fiorentine, l’Arte di Calmala e l’Arte della Lana. Calima-

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La Porta Sud al termine dell’intervento di restauro, condotto dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze (vedi box alle pp. 48-49).

La piú antica delle tre Porte del Battistero di Firenze fu realizzata da Andrea Pisano tra il 1330 e il 1336. Un gigante in bronzo e oro di circa 8 quintali di peso per 4,94 m di altezza e 2,95 di larghezza. Per la complessa fusione dell’intelaiatura delle due ante, il committente, la potente Arte di Calimala ovvero dei Mercatanti (una delle piú importanti tra le corporazioni di arti e mestieri di Firenze, n.d.r.), dovette invece ricorrere a esperti veneziani, quali Leonardo di Avanzo e collaboratori. Andrea Pisano, definito «maestro delle porte», eseguí le 28 formelle della Porta, di cui 20 con episodi della vita di san Giovanni Battista, patrono del Battistero e della città di Firenze, e 8 con figure emblematiche. L’ordine di lettura è dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra. Sull’anta di sinistra sono rappresentati gli episodi relativi al ruolo di profeta del Battista, mentre a destra quelli del martirio. Le formelle sono intervallate da 74 fregi dorati, ognuno decorato con rosette alternate a diamanti, mentre ai vertici dei quadrilobi, contenenti le scene, si trovano 48 teste di leone. Sulla parte alta della porta corre la firma dell’artista: «ANDREAS UGOLINI NINI DE PISIS ME FECIT A.D.M.CCC.XXX» («Andrea figlio di Ugolino figlio di Nino di Pisa mi ha fatto nell’anno del Signore 1330»). Riferimenti iconografici fondamentali per quest’opera furono sicuramente il ciclo di mosaici dello stesso Battistero, con la vita di san Giovanni Battista, e gli affreschi di Giotto nella Cappella Peruzzi in Santa Croce a Firenze. Lo stile dell’ultimo Giotto è chiaramente leggibile nelle figure e nelle composizioni di Andrea, e non è da escludere che il grande maestro abbia disegnato qualcuna delle scene o, quantomeno, offerto spunti per l’organizzazione spaziale e narrativa delle singole formelle e per l’invenzione delle figure che le compongono. Ad Andrea Pisano furono poi affidate le piú importanti imprese scultoree fiorentine del secolo. Dopo la morte di Giotto, nel 1337, venne incaricato di portare avanti i lavori del Campanile, iniziato dal celebre pittore, nonché la decorazione scultorea della torre campanaria. Negli anni quaranta del Trecento, con l’aiuto di collaboratori, Andrea realizzò otto delle grandi statue del Campanile e 48 dei 52 rilievi; nei primi di questi – quelli della facciata occidentale – si è probabilmente servito di disegni lasciati da Giotto. Gli originali sia delle statue che dei rilievi sono oggi esposti nel Museo dell’Opera del Duomo.

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1. Annuncio a Zaccaria 2. Zaccaria perde la parola 3. La Visitazione 4. La Nascita del Battista 5. L’imposizione del nome 6. San Giovanni Battista fanciullo va nel deserto 7. San Giovanni Battista predica alle folle 8. San Giovanni Battista annuncia l’avvento di Cristo 9. San Giovanni Battista battezza le genti 10. Il Battesimo di Cristo 21. La Speranza 22. La Fede 25. La Fortezza 26. La Temperanza

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11. San Giovanni Battista davanti a Erode 12. San Giovanni Battista imprigionato 13. I discepoli visitano San Giovanni Battista in carcere 14. I discepoli di San Giovanni Battista assistono ai miracoli di Cristo 15. La Danza di Salomé 16. La Decollazione del Battista 17. La testa di San Giovanni Battista presentata ad Erode 18. Salomé porta a Erodiade la testa del Battista 19. Il trasporto del corpo del Battista 20. La sepoltura del Battista 23. La Carità 24. L’Umiltà 27. La Giustizia 28. La Prudenza


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la, che nel Duecento aveva portato a termine la costruzione del Battistero, nei decenni successivi al 1296 vide minacciato il suo prestigio a causa del magnifico inizio dato dall’Arte della Lana al nuovo Duomo, dove la decorazione scultorea segnava la coeva svolta dai modi bizantini verso un’arte piú naturale. Moderne erano le statue di Arnolfo per la facciata di S. Maria del Fiore, arcaici, invece, i mosaici duecenteschi in S. Giovanni. Cosí, già negli anni 13101320, Calimala commissiona a Tino di Camaino – uno scultore che aveva lavorato sulla facciata iniziata da Giovanni Pisano a Siena – statue per i portali del Battistero di grandezza piú che il naturale, i cui resti sono oggi al Museo dell’Opera. Data però la difficoltà di contrastare – con poche anche se avanguardistiche sculture – l’effetto dell’enorme facciata che sorgeva di fronte al Battistero, già nel 1322 l’Arte di Calmala adottò una politica diversa, proponendo non piú statue in marmo, ma grandi porte di bronzo, sul modello di quelle di Pisa. La Primaziale pisana aveva

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Sulle due pagine le formelle raffiguranti San Giovanni Battista imprigionato (1) e Zaccaria che perde la parola (2), prima e dopo il restauro. Per decorare la porta, Andrea Pisano scelse di rappresentare venti episodi della vita di san Giovanni, dando vita al piú articolato programma narrativo realizzato a Firenze nel primo Trecento.

porte di legno e d’argento oltre che di bronzo, e cosí, nel 1329, l’Arte di Calimala inviò un suo rappresentante a Pisa, per studiarle, e poi a Venezia per identificare un possibile esecutore tecnico. Quattro delle cinque porte pisane furono distrutte nell’incendio che, nel 1595, devastò la Primaziale. La quinta, però, detta «di San Ranieri», si è salvata e può suggerire il retroterra concettuale alla base della prima porta del Battistero fiorentino, di piú o meno centocinquant’anni posteriore. Si tratta di una porta istoriata, tutta in bronzo, con venti scene della vita di Cristo nei riquadri di un telaio ideale. Anche la porta di Andrea Pisano sarà divisa in venti storie, articolate in cinque registri posti al di sopra di altri due registri, con otto raffigurazioni delle Virtú teologali e cardinali piú l’Umiltà (aggiunta per far tornare la simmetria compositiva). Il confronto dell’opera trecentesca fiorentina con quella romanica pisana mette in luce numero-

Qui sopra e in basso particolari di alcune delle 48 teste di leone inserite nelle cornici delle formelle prima, durante e dopo il restauro.

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Due puerpere illustri Sulle due pagine la formella della Visitazione, prima, durante e dopo il restauro. La scena rappresenta Maria, futura madre di Gesú, che si reca da santa Elisabetta, moglie di Zaccaria e alla quale era legata da vincoli di parentela, che avrebbe accolto la Vergine pronunciando la frase «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo seno».

se differenze, di cui la piú evidente riguarda l’impaginazione delle scene, a Firenze insistentemente gotica. Laddove, nel XII secolo, Bonanno aveva collocato le sue figure direttamente nei riquadri del telaio, Andrea Pisano crea in ogni riquadro una cornice quadrilobata, nella quale inserisce le figure. La complessa geometria di questa forma, che sovrappone quattro cerchi a un quadrato girato per diventare losanga, è di derivazione francese (un richiamo all’arte d’Oltralpe, dagli Italiani d’allora considerata «moderna») e fu probabilmente voluto dal committente, l’Arte di Calimala, preoccupata di mettere in evidenza il proprio carattere internazionale e la conoscenza dello stile parigino, diversamente dall’Arte della Lana, il cui maestro prescelto, Arnolfo di Cambio, aveva elaborato un idioma non legato alla Parigi contemporanea, ma all’antica Roma.

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Il modulo francese fu comunque ritenuto un elemento fondamentale, tanto che il committente lo impose anche alle seconde porte – quelle del 1402, commissionate a Ghiberti – e quasi certamente intendeva replicarlo ancora nelle ultime porte, quelle dette «del Paradiso», concepite originariamente con la stessa suddivisione in venti scene istoriate con l’aggiunta di otto figure emblematiche, esattamente come le porte di Andrea Pisano.

L’artista delle prime porte

Ma chi era Andrea Pisano, e come ha fatto a ottenere la piú importante commissione artistica del suo tempo? Il suo nome non era stata la prima scelta operata dai committenti: la prima menzione documentaria che riguarda la realizzazione di porte metalliche per il Battistero, risalente al 1322, parla di Tino di Ca-

maino come disegnatore dell’opera da realizzare. Il progetto, però, tardò a decollare e, quando fu ripreso, nel 1329-30, venne affidato a un certo Andrea di Pontedera, che firmerà la porta in alto con le parole: «ANDREAS : UGOLINI : NINI : DE : PISIS : ME : FECIT : A : D : M : CCC : XXX». Ma perché proprio lui, Andrea di Ugolino di Nino di Pisa? Che cosa ne era stato di Tino di Camaino? Nel 1323-24, Tino fu chiamato a Napoli, al servizio del re Roberto d’Angiò, e lí morí nel 1337. Ma di Andrea di Pontedera, o «de Pisis» o «Pisano» – poco piú giovane di Tino –, non si hanno informazioni prima dell’importantissima commissione ottenuta per la porta del Battistero. Come fu scelto allora? È ragionevole ipotizzare che sia stato raccomandato dal maggiore artista del tempo, Giotto di Bondone, con il quale, infatti, Andrea collaborò (segue a p. 48) gennaio

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restauri firenze Forme e colori di un simbolo cittadino

IL MONUMENTO IN SINTESI

A sinistra particolare del grande mosaico che orna l’interno della cupola del Battistero di S. Giovanni. L’opera si articola in registri, dedicati a Storie di san Giovanni Battista, dell’Antico e del Nuovo Testamento. In basso, al centro, domina la figura del Cristo Giudice. In basso, sulle due pagine spaccato assonometrico del battistero.

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Valori e primati Perché è importante Il Battistero di Firenze è un punto simbolico di riferimento e di rappresentanza, «reggia» del patrono e custode delle glorie della cittadinanza. Al suo interno e nello spazio antistante si forgia la grandezza di Firenze: è la «culla» del civis Florentinus e del Rinascimento. Il Battistero nella storia È il primo battistero che emerge nella scena urbana del pieno Medioevo, in perfetta consonanza con un momento di grande fervore economico e sociale. Manifesta in modo sorprendente l’ascesa del ceto mercantile e lo scardinamento del vecchio quadro istituzionale, basato sul rapporto tra i vescovi e l’aristocrazia consolare. Il Battistero nell’arte Il «bel San Giovanni» ha fatto rinascere un’idea di Romanitas nello scenario di una città potente e bellicosa, che si identifica con l’Urbe stessa. La sua architettura, i suoi decori e i suoi arredi compongono un irripetibile insieme di grande coerenza, in cui anche l’apogeo sublime della Porta del Paradiso si armonizza perfettamente con il contesto.

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A destra particolare della replica della Porta del Paradiso, il cui originale è conservato nel Museo dell’Opera del Duomo.

In alto la decorazione esterna del Battistero, giocata sull’alternanza di pietra chiara (marmo bianco di Carrara) e scura (serpentino verde di Prato).

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restauri firenze negli anni seguenti per le sculture del campanile, del cui cantiere, alla morte di Giotto nel 1337, assunse la direzione. Dal 1329 fino al 1333, inoltre, anche Giotto si trovava a Napoli presso la corte angioina. È perciò possibile che il rinnovato invito indirizzato a Tino da parte dell’Arte di Calimala, abbia spinto il compagno pittore – cioè Giotto – ad avanzare la proposta alternativa di Andrea Pisano. Tale ipotesi è corroborata dalla evidente dipendenza dall’arte di Giotto riscontrabile nelle scene della vita di san Giovanni realizzate da Andrea per la porta. Nell’impostazione narrativa, nelle composizioni, nella costruzione delle figure e nei drappeggi, Andrea è alunno di Giotto. La scena narrante di Salomè che – dopo aver chiesto a Erode la testa del Battista come prezzo della sua danza – porge alla madre Erodiade il macabro trofeo, riprende esattamente l’analogo trattamento del soggetto negli affreschi di Giotto alla Cappella Peruzzi in Santa Croce, di circa dieci anni precedenti. Inoltre, qui e in molte altre scene, risulta chiaro che Andrea non era del tutto a suo agio con la cornice mistilinea voluta dal committente, preferendo i campi visivi quadrati e rettangolari degli affreschi di Giotto; infatti, all’interno della moderna forma quadrilobata, Andrea inserisce spesso un edificio scenico rettilineo, come lo conosciamo nella pittura di Giotto, da Assisi in poi. Solo in quelle che possiamo considerare le sue ultime composizioni per la porta troviamo qualche adattamento al movimento della gotica cornice quadrilobata. Con i suoi venti episodi della vita di san Giovanni, la porta di Andrea Pisano rappresenta il piú articolato programma narrativo realizzato a Firenze nel primo Trecento, paragonabile solo al grande racconto di Maria e di Cristo eseguito da Giotto nella Cappella degli

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Al capezzale di un capolavoro

Il restauro della Porta di Andrea Pisano, iniziato nell’aprile 2016, conclude il ciclo di interventi realizzati dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze sulle Porte monumentali del Battistero fiorentino. La Porta era coperta da spessi strati di prodotti di deposito che, unitamente alle alterazioni della lega metallica, offuscavano l’intera superficie, nascondendo le dorature presenti sul modellato delle formelle, dei profili e molti particolari decorativi. I prodotti di deposito erano particolarmente concentrati sui piani orizzontali aggettanti e in tutte le dentellature che decorano i riquadri. Le alterazioni di colore verde, tipiche dei prodotti di corrosione del rame, erano distribuite su tutta la superficie, risultando piú evidenti in molti dei fondi delle formelle, in particolare sui piani delle formelle nella parte alta dei due battenti. Molti aggetti del modellato delle parti inferiori sono consunte, poiché risultano alla portata dei visitatori e il contatto delle mani ha privato il metallo della doratura e della patina di ossidazione, evidenziandone piuttosto la struttura interna. Affiora perciò in molte zone una lega di tono giallo che, pur essendo di una tonalità piú fredda dell’oro, si alterna cromaticamente ai residui di doratura quasi confondendo la percezione di quest’ultima. Nel 1966, in occasione dell’alluvione, questa porta fu particolarmente danneggiata: l’anta destra si ruppe percorrendo le linee di una cricca di fusione, si frantumarono in piú parti i listelli della battuta centrale, caddero diverse formelle e per questo motivo purtroppo venne perduta una delle teste di leone trascinata via dalla corrente. A oggi è possibile notare nel battente destro, in corrispondenza delle formelle che raffigurano la Carità e l’Umiltà, la crepa che attraversa il fondo e che risulta ben visibile nel retro dell’anta. L’intervento di restauro dell’Opificio, interamente sostenuto economicamente dall’Opera del Duomo, è stato realizzato nei laboratori del Settore Bronzi, con una durata di circa tre anni. Ha visto coinvolta un’équipe di quattordici restauratori oltre a esperti scientifici e altre professionalità tecniche. Alcune fasi iniziali (una prima spolveratura, analisi e prelievi preliminari) sono state effettuate quando la porta era ancora in loco. Nei laboratori dell’Opificio, dopo il lavaggio mediante nebulizzazione e micro vaporizzazione, differenziata fra fronte e retro, sono iniziate le prove di pulitura. Le parti dorate ad amalgama di mercurio sono state trattate con ablazione laser, applicato a regimi contenuti. gennaio

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Le zone non dorate del fronte, il retro e gli spessori dei battenti sono stati puliti con diverse tipologie di pulitura meccanica impiegando bisturi, vari utensili realizzati ad hoc, strumenti ad aria compressa a percussione variabile e ablatori a ultrasuoni. La pulitura meccanica è stata impiegata anche per i cardini in ferro, poi trattati con convertitore e infine protetti con cera microcristallina. Sono stati smontati agevolmente alcuni elementi: nel battente sinistro, la formella con la storia di Zaccaria che perde la parola (vedi foto alle pp. 37 e 42-43), caduta dopo l’alluvione e rimontata da Bearzi mediante quattro perni, e due tondi del retro, smontati mediante una semplice rotazione; nel battente destro un fregio, che era parzialmente svincolato dall’alveo di contenimento, e una formellina con testa di leone che era stata rimontata da Bearzi mediante due viti. Per quanto riguarda la diagnostica, in questo intervento ci si è avvalsi di indagini fotografiche HIM, della termografia, di una campagna molto estesa di misurazioni XRF e di alcuni esami innovativi e molto specifici con neutroni e muoni, effettuati a Oxford sui cinque elementi smontati. Parallelamente alle varie fasi dell’intervento sono stati effettuati lo studio diagnostico per cercare di interpretare le tecnologie esecutive dei vari elementi costituenti i due battenti e la mappatura. Laura Speranza, Stefania Agnoletti e Annalena Brini

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Sulle due pagine vari momenti dell’intervento di restauro, che ha richiesto circa tre anni e ha visto coinvolta una équipe composta da quattordici restauratori oltre a esperti scientifici e altre professionalità tecniche.

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restauri firenze La Sala del Paradiso

Un unicum della museologia mondiale Con l’allestimento della Porta Sud – realizzata da Andrea Pisano – al Museo dell’Opera del Duomo, si completa il progetto museologico definito quasi dieci anni fa da monsignor Timothy Verdon insieme agli architetti Adolfo Natalini, Piero Guicciardini e Marco Magni. E si crea a Firenze un unicum tra le grandi collezioni del mondo: la concentrazione in una sola sala museale di piú esempi, strettamente collegati tra di loro, di una delle piú importanti categorie di arte monumentale, quella appunto della porta di metallo istoriata. Nella Sala del Paradiso del Museo si possono ammirare – una a pochi passi dall’altra – le prime, le seconde, e le terze porte di bronzo realizzate per il Battistero fiorentino: la trecentesca Porta Sud, la quattrocentesca Porta Nord, e, frammezzo, l’opera che inaugurò l’età d’oro del primo Rinascimento, la Porta del Paradiso. Al Museo dell’Opera tutte e tre le porte sono esposte in teche uguali, con lo stesso sistema d’illuminazione, dopo interventi da parte del medesimo istituto di restauro, l’Opificio delle Pietre Dure. Ciò significa che il visitatore – esperto, studente o turista che sia – può cogliere, in un’esperienza focalizzata e intensa, sia le somiglianze, sia le notevoli differenze di stile che caratterizzano i centocinquant’anni ricoperti dalle tre Porte: dall’inizio della Porta Sud nel 1330 all’ultimazione della Porta del Paradiso, nel 1452. La Sala presenta, cosí, non solo centinaia di figure umane in marmo e bronzo organizzate in piú di cinquanta «storie» bibliche, ma anche la storia dell’arte di raccontare tra Medioevo e Rinascita, rendendo intelligibile l’emozionante ricerca fiorentina Scrovegni a Padova. Andrea inizia il racconto in alto – come Giotto aveva fatto a Padova, nonché nelle Cappelle Bardi e Peruzzi a Santa Croce – e lo sviluppa «a dittico»: prima nella valva a sinistra, poi in quella a destra. In ogni registro, le scene della valva destra non seguono quelle della valva sinistra, ma appartengono a un capitolo succes-

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La Sala del Paradiso nel Museo dell’Opera del Duomo. Da sinistra, la Porta Sud, la Porta del Paradiso e la Porta Nord.

dell’uomo, delle sue motivazioni leggibili nei gesti e nei volti, della sua psicologia studiata nei personaggi. Dall’ancora arcaica solennità di Andrea Pisano, alla grazia coreografica della prima Porta del Ghiberti, al dramma carico di sorprese delle scene della Porta del Paradiso, la Sala rivela l’anima europea attraverso cinque generazioni: dall’epoca di Dante a quella in cui nacque Leonardo. Dal punto di vista della testimonianza religiosa, infine, la Sala delle Porte potrà essere paragonata solo alla Cappella Sistina. Storie della Genesi, Patriarchi, Profeti, Maria, Cristo, San Giovanni Battista: una densità narrativa tutta radicata nelle Scritture giudeo-cristiane assolutamente unica, se non, come appena detto, per la cappella dei papi in Vaticano, decorata in buona parte da artisti che ben conoscevano le tre Porte: Botticelli, Ghirlandaio, Cosimo Rosselli, Michelangelo Buonarroti. Lo stesso Michelangelo che giudicò l’ultima delle tre Porte «degna del Paradiso».

sivo della storia del santo. La ragione di questa scelta risiede, probabilmente, nella volontà di collocare in posizione di maggiore visibilità – ovvero nei registri inferiori – eventi chiave della vita del santo, ma distanziati nell’ordine narrativo: cosí, per esempio, il Battesimo di Cristo si trova accanto al Trasporto della salma di san Giovanni. F

Dove e quando Museo dell’Opera del Duomo Firenze, piazza del Duomo 9 Orario tutti i giorni, 9,00-19,00; chiuso il I martedí di ogni mese Info tel. 055 2302885; e-mail: opera@operaduomo.firenze.it; www.ilgrandemuseodelduomo.it gennaio

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personaggi ezzelino da romano

Fu vero

di Roberto Roveda e Michele Pellegrini

demonio? Ezzelino III da Romano è tradizionalmente visto come il titolare della leggenda nera... piú nera della storia. Ma perché il signore della Marca Trevigiana, grande alleato di Federico II nella lotta contro i Comuni e il papato, subí, ancor piú dell’imperatore svevo, la damnatio memoriae da parte dei suoi avversari?

«E

gli era temuto piú del Diavolo»: cosí, nella sua cronaca, il frate minore Salimbene de Adam da Parma parlava di Ezzelino III da Romano, il signore della Marca Trevigiana nato nella tarda primavera del 1194 dall’unione tra Ezzelino II e Adeleita di Mangano e morto tra le mura di Soncino, oggi in provincia di Cremona, agli inizi di ottobre del 1259. Estremamente negativa è anche l’opinione che Dante espresse nel XII canto dell’Inferno, collocando Ezzelino nel settimo cerchio, nel girone dei violenti contro il prossimo, e regalandogli per sempre la nomea del tiranno: «Io vidi gente sotto infino al ciglio; / e ‘l gran centauro disse: “È son tiranni / che dier nel sangue ne l’aver di piglio. / Qui si piangono li spietati danni (...) E quella fronte c’ha il pel cosí nero, / è Azzolino”». Il mito in negativo di Ezzelino non nacque però solo a opera della Divina Commedia: la tragedia Ecerinis del padovano Albertino da Mussato, pubblicata nel 1313, diede eco alla leggenda che egli fosse addirittura stato concepito da un demone che avrebbe giaciuto con sua madre. L’opera aveva una finalità politica, poiché invitava Padova a resistere all’assalto del nuovo tiranno veronese, Cangrande della Scala, che la minacciava.

Le origini degli Ezzelini

A far da contrappeso non mancavano le cronache di parte ezzeliniana. Rolandino da Padova ci informa, per esempio, che Ezzelino nacque intorno a mezzogiorno, notizia che fu certamente propagandata dalla madre

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Ezzelino siede in corte di giustizia, olio su tela di Francesco Antonibon. XIX sec. Bassano del Grappa, Museo Civico. Il dipinto ritrae il signore della Marca Trevigiana mentre riceve una supplica. gennaio

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personaggi ezzelino da romano Adeleita, esperta di astrologia: tutti i nemici dei da Romano dovevano sapere che nel giorno in cui nacque, Ezzelino godeva di una combinazione celeste propizia. Ancora Rolandino riferisce che il capostipite della famiglia dei da Romano, Ecelo (o Ezzelo) di Arpo, giunse in Italia, secondo una tradizione oggi rivelatasi infondata, nell’XI secolo, con solo il suo cavallo, al seguito dell’imperatore Corrado II e da questi ottenne il castello di Onara, attuale frazione di Tombolo, e di Romano, mentre il vescovo di Vicenza gli assegnò il castello di Bassano. Nel giro di pochi decenni, questi elementi evidentemente appartenenti a una metarealtà demoniaca o di provenienza letteraria si trasformarono in eventi reali e storicizzati per ricreare la memoria di Ezzelino da Romano. Ma veniamo dunque alle notizie effettivamente attestate dalle fonti. Negli anni dello scontro dei Comuni italiani con il Barbarossa, Ezzelino I il Balbo, nonno di Ezzelino III, si ritrovò a giocare un ruolo rilevante a sostegno delle città della Lega lombarda, poiché soltanto con la pace di Costanza (1183) – che sanciva la vittoria dei Comuni dopo la battaglia di Legnano – venne riammesso nelle grazie dell’imperatore Federico I. Da quel momento in poi, sfruttando l’intreccio di rapporti e rivalità tra le quattro maggiori città della pianura veneta (ossia Vicenza, Verona, Treviso e Padova), i da Romano cercarono di fondare su solide basi la loro potenza economica e si affermarono come famiglia di podestà, grazie alla loro ricchezza in beni terrieri e alla loro abilità negli affari politici. Venivano quindi chiamati dalle autorità per reggere il Comune quando vi erano rivalità e lotte tra le famiglie cittadine.

Le alleanze matrimoniali

I da Romano attuarono anche una «politica familiare» diretta a creare o consolidare un grande dominio territoriale. In questa strategia rientrava la scelta di legarsi ad altre dinastie del territorio tramite matrimoni dei propri rampolli. I da Romano si imparentarono cosí con le maggiori stirpi signorili del Veneto e della regione padana. Nel XII secolo allacciarono rapporti con i Camposampiero, mentre nel Duecento Ezzelino III e suo fratello Alberico strinsero alleanza matrimoniale con i Torelli e con gli Estensi, prima gli uni e poi gli altri signori di Ferrara. Alla fine del XII secolo il padre di Ezzelino III, Ezzelino II, fu podestà di Treviso tra il 1191 e il 1193, nel 1200 di Verona e nel 1211 di Vicenza; nel 1199 perse il castello di Onara e spostò la residenza familiare a Romano. Nel 1221 Ezzelino II si ritirò prima nella domus mona-

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stica da lui fondata presso la chiesa del Santo Spirito di Oliero e in seguito nel monastero di Santa Croce di Campese, motivo per cui ottenne il soprannome di «Monaco». Con il suo ritiro dalla gestione del potere, i beni familiari furono divisi tra Alberico e il fratello Ezzelino III, che ottenne Bassano, Marostica e i castelli sui Colli Euganei. Grazie alle sue abilità politico-militari, Ezzelino III estese in poco tempo il suo dominio su Trento, Belluno, Vicenza, Verona, Padova e Brescia. Tra il 1226, quando certamente è attestato come podestà di Verona, e il 1236, anno del suo primo incontro con Federico II di Svevia, da Romano consolidò la sua gennaio

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I Da Romano Arpone capostipite Ecelo I

(† 1091)

Ecelo II

Alberico I Ezzelino I, il Balbo († dopo il 1183)

Ezzelino I, il Monaco

Giovanni

(† 1232/1235)

Ezzelino III

Alberico II

Pietro

Ecelino

(1194-1259)

(† 1260)

(illegittimo)

(† 1180)

Nella pagina accanto stemma araldico di Ezzelino da Romano. Padova, Biblioteca Capitolare. A destra ritratto di Ezzelino III da Romano, ovale in marmo di Giovanni Bonazza. XVII-XVIII sec. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

signoria sulla Marca Trevigiana senza mostrare particolari legami con la parte imperiale, elaborando modelli di governo nuovi e di assoluto interesse storico per l’area veneta nel XIII secolo.

Un fenomeno rilevante e complesso

Come ha scritto lo storico Sante Bortolami: «Sul piano della gestione del potere s’è di recente tentato di individuare e analizzare l’intensità e le forme del consenso goduto da Ezzelino presso le aristocrazie e i ceti emergenti del Veneto di terraferma (specie a Bassano e nel fidatissimo Pedemonte, a Verona, a Vicenza). Collusioni ci furono sicuramente con parti significative delle élites giudiziarie e della cultura, con vasti settori del mondo produttivo, con ampi strati della società rurale. Nemmeno la reale, durevole ostilità della Curia romana (dopo ripetuti inviti a ravvedersi, la scomunica da parte di Innocenzo IV arrivò il 4 marzo 1244) e l’attacco portato per ragioni politiche da Ezzelino ai vertici delle Chiese locali al fine d’addomesticarle eliminarono del tutto i margini per possibili contatti e intese col variegato mondo ecclesiastico. Si può oggi dire che Ezzelino fu personaggio di eccezionali qualità e di smisurate ambizioni e che la sua signoria – pur sanguinaria e feroce nella sua fase finale – fu fenomeno rilevante e complesso, il quale diede per la prima volta unità politica visibile al Veneto,

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anticipando tendenze di governo e atteggiamenti ideologici che avrebbero fatto scuola, suggestionando non pochi signori di Lombardia, a partire dagli Scaligeri». In tale prospettiva andrebbe forse parzialmente interpretata la «ferocia» di Ezzelino, spesso presentata in cronache posteriori redatte in ambiente veneto a seguito della damnatio memoriae del signore della Marca. In realtà, si sarebbe trattato del consueto esercizio della giustizia sulle città del dominio che, di fatto autonome fino a pochi decenni prima, vissero frequentemente la signoria ezzeliniana come una dominazione «straniera» centralizzata e certamente molto piú presente di altre sul territorio assoggettato. Da questo punto di vista è interessante notare come il dominio di Ezzelino si caratterizzasse anche per una certa liberalità: nel 1237, quando occupò Padova, l’università rimase attiva e pienamente funzionante. Addirittura studenti e professori continuavano a giungere dalla lontana Inghilterra, dalla Spagna, dalla Polonia, dalla Moravia. Altro tema importante e allo stesso tempo fuorviante è l’identificazione assoluta dei da Romano e in particolare

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personaggi ezzelino da romano di Ezzelino III con la fazione imperiale. Contrariamente a quanto la lettura a posteriori degli eventi ha finito per far credere, i da Romano erano per tradizione antimperiali e antisvevi. Ancora all’epoca della dieta imperiale di Cremona e della ricostituzione della seconda Lega lombarda del 1226, Ezzelino III rimaneva su posizioni di sostanziale ostilità a Federico II. In qualità di podestà di Verona, presidiò, a vantaggio della Lega, lo sbarramento della chiusa d’Adige, impedendo alla cavalleria tedesca di accorrere in aiuto dell’imperatore svevo da nord. Agli inizi degli anni Trenta, tuttavia, la posizione di isolamento in cui Ezzelino e il fratello Alberico si trovarono nei confronti della Lega lombarda – nella quale non vennero accettati perché

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espressione di un mondo feudale e signorile estraneo all’ambiente comunale predominante nella Lega stessa – fu alla base del ribaltamento delle alleanze e della esplicita scelta di campo a favore dello Svevo compiuta nel 1232. La spirale di violenze in cui fu trascinata la Pianura Padana nei decenni successivi da parte di entrambi gli schieramenti mostra quanto grave fu l’errore di valutazione dei vertici della Lega di rinunciare con leggerezza all’alleanza con Alberico e Ezzelino. In quegli anni Federico II mirava a reprimere le libertà dei Comuni italiani; non mancavano città apertamente schierate con lui, come Cremona, Parma o Aquileia, ma la vastità del territorio della Marca e la forza militare del suo signore finirono con il divenire imprescindibili. A partire dal 1236 il legame tra Ezzelino e l’impera-

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tore si intensificò e sembra si sia instaurato un rapporto di reciproca stima, che trova conferma nelle lettere che i due si scambiarono, pur ricche degli artifici della retorica. Un rapporto di reciproca stima che portò, nel 1238, al matrimonio di Ezzelino con Selvaggia, figlia dello Svevo, e a quello di una nipote del da Romano con re Enzo, figlio di Federico II. L’imperatore trovò in Ezzelino un importante collaboratore nel tentativo di riportare i Comuni lombardi nella legittima legalità del dominio imperiale. Quella con Ezzelino non fu tuttavia un’alleanza facile e spesso lo Svevo, per gli irrinunciabili vantaggi che ne traeva, dovette risolversi a trattarlo come un alleato quasi di pari grado e non come un vassallo. Nel 1239 papa Gregorio IX lanciò la scomunica contro Federico II e i suoi sostenitori, inviando nel contemTavola raffigurante Ezzelino III da Romano, con il suo astrologo e i suoi soldati, che assedia una città, da Il costume di tutti i tempi e di tutte le nazioni, Medio Evo (Padova, 1833-1843).

In alto Padova. Un loggiato con trifora che ingentilisce la facciata della casa di Ezzelino I il Balbo.

po una lettera ad Alberico, fratello di Ezzelino, anch’egli alleato di Federico, con la quale lo esortava a rompere ogni legame con lo schieramento imperiale e con il fratello. La frattura si compí poco dopo quando Ezzelino fu ritenuto responsabile dell’esilio in Puglia di Adelaide, figlia di Alberico e moglie di Rinaldo d’Este. Alberico da Romano ruppe l’alleanza e conquistò Treviso.

Un sostegno decisivo

Le vicende degli anni Quaranta del secolo, con le plurime scomuniche papali e la stessa deposizione dell’imperatore, intensificarono la collaborazione fra Ezzelino e Federico, come dimostra anche lo scambio di messi, doni e corrispondenza da parte dello Svevo ridondante di lodi per l’esemplare devozione e i servigi resi all’impero dal signore della Marca Trevigiana. Da Romano offrí certamente un decisivo sostegno nelle campagne militari contro i Comuni lombardi ribelli fra il 1247 e il 1249 e per il controllo della strategica valle del Po; a Cremona egli compare ripetutamente tra i massimi dignitari di corte. Con la morte di Federico II, nel 1250, Ezzelino III

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personaggi ezzelino da romano

corse ogni rischio per mantenere la sua costruzione politica esasperando fatalmente la propria autorità sui suoi domini. Egli restava l’ultimo baluardo contro la potenza di papato e Lega: ne divenne naturalmente anche il piú facile dei bersagli. Non era piú l’alleato fedele di un imperatore scomunicato, ma veniva fatto sembrare il suo erede piú diretto, portatore di un progetto ambizioso di unificazione territoriale fondato sulla cancellazione delle autonomie cittadine. La condizione di signore regionale pienamente indipendente lo indusse, di fronte all’incalzare di una vasta coalizione di avversari interni ed esterni, a cercare nuove alleanze, ma dovette far fronte a una vera e propria crociata armata, promossa contro di lui dopo che il pontefice Alessandro IV lo aveva definito «scandalo della fede e minaccia del popolo cristiano». A partire da questo momento Ezzelino fu risoluto nel trasformare in senso piú autoritario la sua azione politica. Nel tentativo di colpire i nemici, ovunque si trovassero, cercò di eliminare quelle prerogative di autonomia di cui i Comuni erano custodi gelosi. Cosí la propaganda ne-

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In alto miniatura raffigurante Jacopo da Carrara che sguaina la spada contro Ezzelino da Romano al cospetto di Federico II, da un’edizione manoscritta della Chronica de Carrariensibus. XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana. Nella pagina accanto Padova. La Specola, la maggiore delle due torri del castello edificato nel 1242 da Ezzelino III da Romano e nella quale il tiranno teneva rinchiusi e torturava i suoi prigionieri.

mica venne confermata e alimentata, innescando un perverso meccanismo di sempre piú dura repressione e sempre crescenti dissensi. Nonostante le difficoltà, il signore della Marca continuò a dar prova delle sue doti militari rioccupando Trento, ribellatasi, e tentando di impadronirsi di Mantova. Ma mentre era in corso quest’assedio, da Romano venne raggiunto dalla notizia della presa di Padova da parte dei crociati, guidati dal legato papale Filippo Fontana, arcivescovo di Ravenna. La caduta di Padova (1256) fu un duro colpo per Ezzelino, ma non sufficiente per abbatterlo del tutto; egli infatti compensò la perdita della città con la conquista di Brescia e riappacificandosi ingennaio

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fra storia e leggenda

Senza pietà, perfino con i familiari Ezzelino da Romano è da sempre sinonimo di ferocia. Oscar Wilde nel suo Il ritratto di Dorian Gray lo descrive come un uomo che provava l’ebbrezza del sangue: «Ezzelino, la cui malinconia poteva essere curata solo dallo spettacolo della morte, e che aveva una passione per il sangue rosso che altri hanno per il vino rosso». Storie e leggende sulla sua indole sanguinaria certo non mancano. I cronisti lo descrivono come piccolo, sprezzante, dallo sguardo terribile, capace di moltiplicare l’ardore dei suoi soldati e di atterrire i nemici. Si racconta che al minimo sospetto le sue prigioni si riempissero di nemici e che nella Torlonga, la torre piú alta del castello di Padova, avesse creato una stanza delle torture dove assisteva sadicamente alle violenze perpetrate ai danni dei nemici.

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Nella torre dimorerebbe il fantasma di Sarpendone, prima fedele compagno d’armi di Ezzelino e poi da questi torturato a morte perché sospettato di essere l’amante della moglie Selvaggia. Sorte terribile, almeno secondo alcuni cronisti, toccava anche ai nemici in battaglia. Quando conquistò Padova, vennero uccisi almeno 10 000 dei suoi avversari e quando prese il Castello di Priola, nel 1259, ne fece mutilare i difensori. Dalla sua furia non si salvavano neppure i familiari: ne sarebbero state vittime anche la moglie Selvaggia, morta nel 1245 a soli 20 anni, e il figlio naturale Pietro, che fece imprigionare nel 1246 nel castello di Angarano (Vicenza).

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personaggi ezzelino da romano Una morte misteriosa

«Lacerato dai Mani e dai tartarici cani...» Anche la morte di Ezzelino è avvolta dalla leggenda. Come narra un cronista dell’epoca, dopo essere stato ferito a un piede, fu catturato e condotto da uno dei condottieri suoi avversari: «Condotto nella tenda di Buoso di Doara, cupo, minaccioso, ristretto in sé stesso, metteva spavento nei circostanti coll’immobilità dello sguardo inclinato, uno sguardo feroce, in un piú feroce silenzio. Vedendolo in tanta miseria, gli mandarono medici perché ne prendessero cura. Ma egli strappa furiosamente le bende delle piaghe e dopo undici giorni di orribile agonia, trasportato a Soncino, ivi rende lo spirito ed ivi le esecrate ceneri hanno in terra riposo». Il racconto è in sintonia con l’immagine ostinata e terribile del personaggio. Fu seppellito con ogni probabilità nel castello di Soncino o, secondo altre fonti, ai piedi della torre comunale della cittadina, accompagnato dai versi irriverenti dei suoi nemici: «Nella terra di Soncino v’è il tumulo di quel can d’Ezzelino / il quale è lacerato dai Mani e dai tartarici cani». La tomba è documentata per l’ultima volta durante la visita a Soncino dell’imperatore Enrico VII, nel 1311, poi scompare dalla storia e iniziano altre leggende. Storie che raccontano come nella tomba vi fosse un tesoro e per questo sarebbe stata violata e poi distrutta. E che ci dicono che il fantasma di Ezzelino continua a vagare nella Marca Trevigiana, nella palude Onara o nel castello della cittadina oppure in quelli di Bassano del Grappa, di Godego, di Romano e Monselice. Appare solitamente sul maschio e domina con lo sguardo il territorio che gli apparteneva. Ezzelino, insomma, è un po’ ovunque, come il suo mito, ricordato anche da una campana che per secoli ha suonato ogni mercoledí (giorno della sua morte) dalla Torre civica di Soncino. fine col fratello Alberico. Con l’aiuto di Cremona, riuscí a catturare lo stesso legato papale Filippo nella battaglia di Gambara sull’Oglio, seminando il panico fra gli avversari. Solo l’impegno diplomatico della Curia romana di creare il piú vasto schieramento possibile di oppositori e il passaggio di Uberto Pallavicini e Buoso da Bovara nel campo guelfo finirono per ribaltare una situazione che ancora nella primavera del 1259 era favorevole a Ezzelino III. Questi cercò di rompere l’accerchiamento alleandosi con i ghibellini di Milano per poi tentare di conquistare la città. Era però un’impresa avventurosa e forse oltre le possibilità del signore della Marca, che finí col trovarsi accerchiato. Nel tentativo di forzare presso Cassano d’Adda il blocco nemico sul fiume Adda, fu ferito a un piede da un dardo. Catturato, morí qualche giorno piú tardi, forse il 1° ottobre 1259 nel castello di Soncino, ove fioriscono ancora affascinanti ipotesi sulla perduta sepoltura. Veniva cosí meno il sogno del da Romano di creare una dominazione unitaria nella Pianura Padana.

Nascita di una leggenda nera

Se questa fu la vicenda terrena di Ezzelino III da Romano, come e quando nacque e secondo quali schemi e modelli si sviluppò la leggenda nera di un tiranno medievale? Un primo spunto di riflessione circa la necessità di uscire da rigidi schematismi e preconcetti

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A sinistra veduta di Soncino. Sulla sinistra, svetta la Torre civica, ai piedi della quale, secondo una tradizione leggendaria, Ezzelino da Romano sarebbe stato sepolto. Nella pagina accanto Sant’Antonio affronta il tiranno Ezzelino a Verona, affresco di Giovanni Antonio Requesta, detto il Corona. 1510-1511. Padova, Scuola del Santo.

nel riconsiderare la sua figura è suggerito ancora una volta dalla cronaca di frate Salimbene. Il frate Minore non esita a rilevare che a capo della crociata indetta da Gregorio IX contro Ezzelino fosse stato posto un uomo, l’arcivescovo Filippo, che i suoi soldati «temevano come il diavolo, poco meno dello stesso Ezzelino». Non era dunque propria del solo da Romano l’equiparazione al demonio, ma anche dei suoi oppositori; tuttavia, è assolutamente peculiare il paragone di Ezzelino con Satana: in un altro passo frate Salimbene lo definisce apertamente «membra del diavolo». Questa scelta terminologica dell’autore della Chronica connota fortemente il giudizio del frate sul signore della Marca, poiché è un elemento che caratterizza gli eretici a partire dal Dialogus Miracolorum del monaco cistercense Cesario da Eisterbach, ove essi sono definiti membra del diavolo. Nel Duecento si rispolverano antiche armi controversistiche: negli eretici il potere demoniaco agisce «molto piú intensamente di quanto operi addirittura negli ossessi». Gli eretici sono «ministri Diaboli» e «nunci Diaboli». Se l’immaginario ezzeliniano ha cosí forti consonanze con quello ereticale, non è casuale che la leggenda nera del tiranno della Marca tragga le sue origini dalla bolla di scomunica a lui comminata nel 1254 dove per esempio viene definito «aspidis surdidissime filius» ovvero «figlio di un sordido aspide»: un serpente, l’animale che

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piú di ogni altro richiama il demonio già nell’Apocalisse di Giovanni. La Chronica di Salimbene si dilunga ampiamente nella descrizione di questo figlio dell’iniquità che uccise e incarcerò una moltitudine di religiosi. Secondo il frate Minore, Ezzelino fu un uomo peggiore degli stessi imperatori Nerone, Diocleziano o Massimiano, noti per le loro persecuzioni contro i primi seguaci di Cristo. L’assimilazione al demonio del da Romano non esprime solo un giudizio morale sulle sue azioni – certamente non peggiori del trattamento riservato dai Veneziani nel 1260 al fratello Alberico e alla sua famiglia sterminata nonostante la resa –, ma serve soprattutto a identificarlo come eretico secondo un immaginario minaccioso e terribile creato dalla Chiesa di Roma per identificare gli eterodossi. In origine appartenente al mondo del metareale, del racconto popolare e del folklore, questo immaginario progressivamente si concretizza assumendo i colori e le sfumature del reale e divenendo metro di giudizio e condanna per le azioni del da Romano. È interessante rilevare come la demonizzazione di Ezzelino sia tra i piú precoci esempi di illustri e potenti personaggi, titolari di dominazioni piú o meno grandi, che, in duro contrasto politico con la Chiesa cattolicoromana, furono definiti «eretici» e «demoni». Né è forse casuale che ancora Salimbene ricordi che il diavolo aveva voluto far simile a sé Ezzelino come Cristo con Francesco

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personaggi ezzelino da romano alberico da romano

Signore e trovatore

Didascalia aliquatur adi odis Alberico, il fratello di Ezzelino, fu una figura que vero ent qui doloreium tragicaconectu e allo stesso tempo romantica nella rehendebis eatur epoca della lotta tra impero e Comuni travagliata tendamusam dell’Italia settentrionale. Nato nel 1196 divise con il fratello consent, perspiti i domini veneti lasciati in eredità dal padre Ezzelino II. conseque nis per lungo tempo la politica di Ezzelino III e fu Condivise maxim eaquis uno dei grandi sostenitori della causa imperiale nell’Italia earuntia cones del Nord. Nel 1239 ebbe una controversia con Federico II apienda. e si alleò al partito guelfo. Per alcuni anni Alberico si trovò

quindi a combattere contro il fratello, ma ben presto rientrò nelle file ghibelline occupandosi soprattutto del governo della città di Treviso controllata a partire dal 1240. Quando non era in guerra, Alberico si dilettava di poesia, scriveva

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in lingua occitana e fu mecenate e amico di molti dei maggiori trovatori della sua epoca. Signore, condottiero, mecenate e poeta, Alberico perí tragicamente: alla morte di Ezzelino III, nel 1259, abbandonò Treviso con la famiglia e si rifugiò nella rocca di San Zenone degli Ezzelini. Vi rimase per circa dieci mesi, fino a che le truppe guelfe di Venezia, Trento, Padova, Verona e Vicenza non assediarono la fortezza. Alberico fu tradito da un suo uomo di fiducia che fece entrare i nemici nella rocca. A quel punto si arrese, sperando nella clemenza degli avversari, ma fu tutto inutile. Costretto ad assistere al massacro dei suoi figli, fu quindi legato a un cavallo e trascinato fino alla morte.

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Nella pagina accanto il supplizio di Alberico da Romano e dei suoi figli, 1260, in una tavola di Lodovico Pogliaghi. 1892. In basso ritratto di Ezzelino III da Romano. Padova, Musei Civici Eremitani.

d’Assisi. La turpitudine del tiranno diveniva strumento ideale per far risplendere per contrasto le virtú di santi e beati che alla sua dominazione si opposero. Se l’immaginario del mito ezzeliniano richiama modelli propri della propaganda antiereticale, viene allora da chiedersi quale fosse l’eresia di cui potesse essere accusato il piú stretto alleato dell’imperatore Federico II nell’Italia settentrionale. Né lo Svevo, né alcuno dei suoi sostenitori giunse mai ad affermare la legittimità della presenza eterodossa, né tanto meno diede vita a contesti istituzionali aperti agli eretici: nessuno, neppure il terribile presunto eretico Ezzelino. Anzi, nei primi decenni del XIII secolo, grazie all’opera oggettivamente convergente di poteri che pure dovevano tra loro scontrarsi in modo assai violento, si realizzò l’isolamento degli eretici e si avviò la rapida parabola discendente della loro presenza in Italia.

Destini diversi

La damnatio memoriae del feroce Ezzelino e in misura minore del suo signore Federico II di Svevia si costruisce dunque nei decenni successivi la loro sconfitta, quasi a esorcizzare il timore dei Comuni lombardi e dei vescovi di Roma di un impero che potesse arrivare a estendersi a tutta l’Italia. Rimane tuttavia interessante notare come Federico II, nonostante il durissimo scontro con la Chiesa, abbia conservato e anzi consolidato nel tempo la definizione di stupor mundi e, di contro, la memoria di uno dei suoi piú importanti alleati sia stata tramandata come modello di violenza e di tirannia con pochi eguali. Per intenderci, lo stesso Salimbene, che non aveva esitato nel contribuire alla creazione del mito del da Romano, in modo assai piú moderato chiude la narrazione su Federico II, affermando che se fosse stato davvero cattolico e avesse amato Dio, la Chiesa e la sua anima, non avrebbe avuto eguali in questo mondo nella carica imperiale. Qual era quindi la colpa non emendabile di Ezzelino?

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Quella, probabilmente, di costituire, ancor piú di Federico, una minaccia concreta per il potere comunale e la monarchia papale che era all’apice della sua potenza in quello scorcio di Duecento. Ezzelino III, infatti, rappresentava un esempio esecrabile di fedeltà all’impero che, se replicato piú volte nel panorama italiano, avrebbe potuto cambiarne l’assetto politico. Il signore della Marca Trevigiana fu sempre piú importante per l’impero di quanto questo non lo fosse per se stesso. Certo, seppe spesso sfruttare consapevolmente a proprio vantaggio la situazione politica per ampliare e consolidare il proprio potere. Allo stesso tempo il suo potere sfuggiva in un certo senso alle logiche feudali e dinastiche dell’epoca cosí come vi sfuggivano altre sue scelte. Ezzelino non volle avere figli legittimi. Decisione che gli costò ulteriori pesanti accuse e che, viste le ben quattro mogli, appare avere un senso solo con un rifiuto delle vecchie logiche feudali: non si sentiva piú il signore di Romano e del Pedemonte, ma un funzionario fedele dell’impero, che aveva il compito di unificare la Marca e di porvi al di sopra un unico, legittimo, potere. Non gli interessava la gloria della dinastia, o non solo. Gli premeva un ordine superiore, quello imperiale, e questo era inaccettabile, anzi abominevole per i suoi nemici. Insomma Ezzelino era demoniaco non solo perché violento e malvagio, perché tirannico e spietato. Lo era perché sovversivo dell’odine costituito, politicamente eterodosso e quindi eretico. F

Da leggere Sante Bortolami, Ezzelino III da Romano, in Enciclopedia federiciana, Treccani, Roma 2005; anche on line su treccani.it Giorgio Cracco, Il Grande Assalto. Storia di Ezzellino. Anche Dante la raccontò, Marsilio, Venezia 2016 Giorgio Cracco (a cura di), Nuovi Studi Ezzeliniani, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Roma 1992 Rolandino, Vita e morte di Ezzelino da Romano, a cura di Flavio Fiorese, Fondazione Lorenzo Valla-Arnoldo Mondadori Editore, Milano 2004

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costume e società

Sognando un nuovo impero di Davide Iacono

Dal Barbarossa a Federico II, lo stupor mundi, la dinastia tedesca degli Hohenstaufen è stata protagonista di eventi cruciali nella storia dell’Europa medievale. E, in epoca moderna, i suoi esponenti piú celebri sono stati da molti scelti come modello, soprattutto in Germania. Dove il fenomeno si connotò anche di risvolti sinistri, quando il regime nazionalsocialista vagheggiò il ritorno ai fasti del Sacro Romano Impero

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li Staufer erano – e sono – popolari come nessun’altra dinastia del Medioevo. In Germania, ma anche in Italia, suonano familiari i nomi di Federico I Barbarossa, Federico II, Manfredi, Enzo, Corradino, protagonisti ed eroi di innumerevoli leggende, drammi, ballate e poesie. Parlando di immaginari sull’età di Mezzo, è soprattutto Federico I Barbarossa a imporsi come archetipo del potente imperatore medievale, con la barba lunghissima e una grande spada appesa alla cintura. Gli fa da contraltare suo nipote, Federico II, che Jacob Burckhardt definí «il primo uomo moderno assiso su un trono»; lo sfolgorante imperatore italo-tedesco che un entusiasta Friedrich Nietzsche definí «il primo europeo di mio gusto». Osannati da poeti, celebrati da artisti, indagati dagli storici – tedeschi e non solo – gli Staufer, noti anche come Hohenstaufen (vedi box a p. 69), sono in effetti da molti

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considerati come l’apice della storia tedesca e del Medioevo europeo: a loro vengono associati lo splendore dell’architettura e della letteratura medievale, la cultura cortese-cavalleresca, la costruzione dei castelli, l’alba della scienza, la ripresa delle città e dei commerci. A ciò si aggiunga l’affascinante e avvincente racconto dell’ascesa e della caduta di una famiglia reale, con guerre, trionfi e umiliazioni, eroismi, tradimenti, omicidi e intrighi, amore e ambiziose politiche matrimoniali.

Come un novello Messia

Il mito degli Staufer non è proprio della modernità e del medievalismo romantico-nazionale, ma è già figlio dell’età medievale. Pensiamo a Federico II, esaltato in vita come un novello Messia e stupor mundi, oppure condannato come Anticristo o vicario di Satana. Anche il messianesimo popolare, che voleva il ritorno dei sovrani svevi, è inizialmente diretto a Federico II. Dopo la sua morte egli si

Statua in arenaria raffigurante Federico Barbarossa collocata nel KyffhäuserDenkmal, monumento in omaggio all’imperatore che si trova su un’altura nei pressi del castello medievale di Kyffhausen, in Turingia. 1890-1896. Secondo la leggenda, dopo la morte, il sovrano si sarebbe nascosto su quel rilievo in attesa del momento propizio per la rinascita.

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costume e società I fratelli Grimm resero popolare la leggenda di Federico Barbarossa dormiente nel Kyffhäuser A sinistra monumento eretto in onore di Corradino di Svevia, eseguito dallo scultore tedesco Peter Schoepf su un modello di Bertel Thorvaldsen, che orna la tomba del sovrano. 1840 circa. Napoli, basilica di S. Maria del Carmine.

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Hohenstaufen

Profilo di una dinastia

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Prima di ascendere alla regalità, gli Hohenstaufen (o anche Staufer o Staufen), furono duchi di Svevia dal 1079. Divenuti sovrani di Germania, essi vantarono pretese su Italia, Borgogna e Sacro Romano Impero. Tre membri della dinastia – Federico I (1155), Enrico VI (1191) e Federico II (1220) – furono incoronati imperatori. Oltre alla Germania, governarono anche il Regno di Sicilia (11941268) e il Regno di Gerusalemme (1225-1268). Con Federico I, noto come Barbarossa, la potenza degli Hohenstaufen si dispiegò anche a sud della Germania, scontrandosi con l’Italia dei comuni. Suo figlio Enrico VI (1165-1197), poi, attraverso il matrimonio con la normanna Costanza d’Altavilla, assicurò alla casata l’Italia meridionale e la Sicilia. Il conflitto tra gli Staufer e il partito guelfo segnò il progressivo indebolimento dell’autorità imperiale. Neppure lo splendido governo dell’imperatore Federico II poté arrestare il processo di decadenza. A Federico II succedette il figlio Corrado IV (1228-1254), mentre il figlio illegittimo Manfredi (1232-1266) salí sul trono di Sicilia (1257) e morí in battaglia a Benevento (1266) contro Carlo d’Angiò. L’ultimo sovrano legittimo degli Hohenstaufen, Corradino (1252-1268), figlio di Corrado IV, venne decapitato a Napoli nel 1268 dopo la sconfitta di Tagliacozzo. A lui sopravvissero Enzo (1220?-1272), figlio naturale dell’imperatore Federico II, catturato dai Bolognesi nel 1249, che morí in prigionia nel 1272. Nella pagina accanto, a destra ritratto di Federico Barbarossa, opera del pittore tedesco Karl Friedrich Lessing. 1840 circa. Francoforte sul Meno, Römer, Kaisersaal.

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sarebbe trovato a un tempo nascosto dentro l’Etna, nell’Untersberg vicino a Salisburgo, a Sennheim in Alsazia, in una grotta vicino a Kaiserslautern e, infine, nel monte Kyffhäuser (situato nella Germania centrale, fra Turingia e Sassonia, 50 km circa a nord di Erfurt, capitale della stessa Turingia; vedi foto in apertura dell’articolo, n.d.r.). Nel XV secolo, il Barbarossa lo soppianta nel ruolo di Messia imperiale, potendo meglio suscitare e incoraggiare – rispetto a un nipote forse piú italiano che tedesco – attese e istanze dinastico-nazionali.

La versione dei Grimm

Nel corso dei secoli la ricezione degli Staufer è stata varia, piú o meno legata alle esigenze del tempo – ora religiose, ora dinastiche, ora patriottiche. Ai primi del XIX secolo, gli Staufer divennero sempre piú noti al popolo tedesco. Decisivo, in tal senso, oltre al predominio del pensiero storico e ai prodromi di quella che sarà la medievistica, risultò il destarsi di un sentimento nazionale in Germania. Alla ricerca delle origini dello spirito nazionale tedesco – di leggende, fiabe, canzoni e racconti medievali – si legò il recupero degli Staufer e della loro memoria. La leggenda dell’imperatore dormiente nel Kyffhäuser riprese a circolare, resa popolare dai fratelli Grimm, che la inclusero in una raccolta di fiabe e leggende del 1816. A catturare la sensibilità romantica di poeti e scrittori, si impose anche la figura di Corradino, l’ultimo degli Staufer. Sconfitto a Tagliacozzo dalle forze angioine e decapitato a Napoli nel 1268, la sua fine tragica ispirò, nel XIX secolo, piú di 100 opere tra poesie, odi, opere liriche, testi in prosa. Inteso come l’ultimo custode e testimone dello splendore dell’impero medievale tedesco, a lui si legarono l’evocazione, il rimpianto e il desiderio di una gloria ormai perduta. La stessa storiografia ispirò queste mitografie: enorme successo ebbe all’epoca la monumentale Sto-

ria degli Hohenstaufen e del loro tempo, redatta da Friedrich von Raumer in sei volumi, tra il 1823 e il 1825. Lo storico e giurista berlinese offriva una rappresentazione idealizzante della casa sveva; il dramma, squisitamente romantico, dell’ascesa abbagliante e della tragica fine di una famiglia reale. Tuttavia, quella di Raumer è una visione ancora profondamente universalistica e romantica del concetto di impero, non ancora contagiato dallo sciovinismo nazionale e razziale. Nel 1847, Massimiliano II di Baviera – lettore di Raumer – fece realizzare su disegno del danese Bertel Thorvaldsen, all’interno della chiesa del Carmine a Napoli, una scultura imponente (alta piú di 2 m; vedi foto alla pagina precedente), nel luogo in cui tradizionalmente si diceva riposassero le spoglie mortali dello sfortunato principe svevo. Nel programma politico-culturale di Massimiliano, Corradino – che da parte di madre apparteneva alla casa dei bavaresi Wittelsbach – incarnava il simbolo della identità nazionale tedesca e di quella bavarese insieme. Ad accelerare la fortuna degli Staufer nel XIX secolo furono l’umiliazione patita dai Tedeschi per mano di Napoleone – con la conseguente dissoluzione del millenario Sacro Romano Impero della nazione germanica – e il Congresso di Vienna, rivelatosi fallimentare per la Prussia e per la sua volontà di ricostituire un forte e unito Stato pre-napoleonico. In questo contesto politico si iniziò a vagheggiare e a frugare nel passato medievale, alla ricerca di una «germanicità» autentica e perduta, schiacciata dal presente. Tuttavia, i sostenitori degli ideali rivoluzionari non rinunciarono a farsi beffe di queste nostalgie neoimperiali, spesso antidemocratiche e antimoderne. Come Heinrich Heine, che nel poema satirico Germania, una fiaba d’inverno (1844), sognando una visita al monte Kyffhäuser, si rivolgeva, provocatorio, a un vecchio

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nell’italia risorgimentale

Un rapporto ambivalente Il mito degli Staufer ha suscitato in Italia sentimenti contrastanti. Il ricordo negativo di Federico Barbarossa – l’imperatore straniero che aveva tentato di sottomettere con la forza i comuni della città italiane soffocandone l’autodeterminazione urbana – fece sí che le simpatie degli Italiani andassero a Federico II. Considerato meno come un figlio di Enrico VI e dei nordici svevi e piú come il figlio, cresciuto a Palermo, della «siciliana» Costanza d’Altavilla, lo stupor mundi – che, lo ricordiamo, fu piú volte scomunicato dal papa – venne presentato dal Risorgimento come un sostenitore dell’Unità nazionale. Secondo l’ottica neoghibellina e anticlericale – che vedeva nella Chiesa uno storico intralcio all’unificazione nazionale – lo Staufer era il campione dell’Italia laica. Ugo Foscolo vide nell’imperatore svevo il precoce unificatore della lingua italiana e quindi il precursore dell’Unità d’Italia. Per il patriota e studioso della letteratura italiana, Luigi Settembrini, Federico II avrebbe avuto invece in mente di riconsegnare la dignità imperiale all’Italia, strappandola alla Germania, e limitare l’influenza della Chiesa. Questa ricezione neoghibellina dell’immagine di Federico II ha dominato la storiografia italiana fino alla prima metà del XX secolo.

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In alto la Kaisersaal, al primo piano del Römer, l’antico municipio di Francoforte sul Meno, con i ritratti ottocenteschi di 52 imperatori: qui, al tempo del Sacro Romano Impero, si svolgevano i banchetti di incoronazione dei sovrani. Nella pagina accanto Federico II, dipinto del pittore tedesco Philipp Veit. 1843. Francoforte sul Meno, Römer, Kaisersaal.

e polveroso Barbarossa, affermando: «Tu sei solo un personaggio delle fiabe, vai a dormire (...) ci redimeremo senza di te (...) resta a casa tua nel vecchio Kyffhäuser (...) non abbiamo bisogno di un imperatore». Allo stesso tempo, le frange piú nazionaliste si rivelarono critiche nei confronti di nostalgie e richiami all’impero medievale degli Staufer, accusati di scarsa cura della Germania, nonostante i lunghi anni di regno, e di aver condotto una politica imperiale sovranazionale e mediterranea. La preferenza andava allora a principi come Enrico il Leone che, tra il XIX e il XX secolo, divenne un altro simbolo del medievalismo nazionale germanico.

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Le idealizzazioni storico-politiche avevano infatti attribuito al potentissimo duca guelfo di Sassonia e Baviera, cugino del Barbarossa e suo rivale politico, il merito di essersi storicamente dedicato esclusivamente alla Germania e di aver avviato la Drang nach Osten (ossia la spinta verso l’Est, con la colonizzazione e la germanizzazione ai danni dei popoli slavi). Tuttavia, pur avendo avuto molta fortuna anche durante il Terzo Reich, la figura di Enrico il Leone restò perlopiú confinata a un ambito regionale – quello della sola Sassonia –, priva com’era di un’aura imperiale, fondamentale per legittimare le aspirazioni tedesche alla Großdeutschland, alla Grande Germania.

Arte celebrativa

La missione nazionale degli Staufer si spostò sempre piú verso una pedagogia nazionale, attraverso la «pittura di storia»: pensiamo al ciclo di sei grandi dipinti realizzati, tra il 1835 e il 1843, da Julius Schnorr von

Carolsfeld per la Sala di Barbarossa, una delle tre sale imperiali, insieme a quelle dedicate a Carlo Magno e Rodolfo d’Asburgo della Residenza di Monaco di Baviera. Nella stessa tornata di anni, i busti di Federico I Barbarossa e di Federico II faranno bella mostra di sé nel Walhalla, il monumentale complesso voluto dal re Ludovico I di Baviera per commemorare i personaggi importanti della storia e della cultura della Germania. La volontà di rappresentare una continuità storica, non solo ideale, ma anche visiva, tra i sovrani Staufer e la moderna Germania trovò espressione anche nel Römer, il municipio di Francoforte sul Meno. In questa città, tradizionalmente legata alle elezioni imperiali, l’intima connessione della nazione tedesca con la storia – medievale e imperiale – si realizzò nella Kaisersaal (Sala dell’Imperatore), in cui furono raccolti, in una teoria lunghissima, cinquantadue ritratti di imperatori del Sacro Romano Impero, tra cui gli Hohenstaufen.

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costume e società Federico Barbarossa si desta sulle colline di Kyffhäuser, affresco di Hermann Wislicenus nel Palazzo di Goslar (Bassa Sassonia). 1879-1897.

Il tema dominante, ben presto trasformatosi in un leit motiv, divenne quello del Barbarossa dormiente dentro le viscere della montagna turingia del Kyffhäuser, un tema sempre piú connesso a stringenti attese politiche. La profezia medievale del ritorno dell’imperatore risultò secolarizzata in un mito nazionale insieme antico e nuovo: l’imperatore sarebbe riapparso dalla montagna non appena si fosse ricostituito, con nuova forza, l’impero. Già nel 1815 il poeta Friedrich Rückert, riprendendo la leggenda medievale del re dormiente dentro le viscere del Kyffhäuser, nella ballata Der alte Barbarossa (Il vecchio Barbarossa), recitava: er ist niemals gestorben, «egli non è mai morto». E cosí avvenne.

Il Secondo Reich

Nel 1871 il kaiser Guglielmo I – soprannominato Barbablanca – resuscitava il Reich di Federico I Barbarossa. Al Primo Reich, il Sacro Romano Impero germanico d’origine medievale, faceva cosí seguito il Secondo Reich, destinato a durare sino alla fine della prima guerra mondiale. La casata Hohenzollern, alla quale apparteneva il kaiser Guglielmo, rifondava l’impero degli Hohenstaufen rivendicando per sé l’eredità sveva e la tradizione imperiale ai danni degli Asburgo. Oltre a onorare i suoi antecedenti medievali, l’impero guglielmino mise in campo una serie di parallelismi simbolici tra passato e presente. Nel 1875, una spedizione guidata dagli studiosi Johann Sepp e Heinrich Prutz partí per l’Oriente, con l’intento di procedere al rimpatrio delle ossa del Barbarossa. Sepp riuscí a convincere dell’operazione il cancelliere Ottone di Bismark, con la proposta che i resti, una volta rinvenuti, sarebbero stati traslati dal

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costume e società luogo di sepoltura, Tiro (nell’odierno Libano), al nuovo centro nevralgico dell’emergente nazionalismo germanico: la gigantesca cattedrale di Colonia, che veniva completata proprio in quegli anni di entusiasmi neomedievali. Tuttavia la missione, che per Sepp avrebbe simbolizzato la riunificazione dell’antico Reich germanico, dopo gli infruttuosi scavi presso le rovine della cattedrale crociata di Tiro, si concluse in un fallimento. L’appropriazione del mito del Barbarossa si tradusse soprattutto in progetti monumentali sparsi tra Berlino, Strasburgo, Posen, sino a Gerusalemme. È però nel Monumento di Kyffhäuser (Kyffhäuserdenkmal) che l’elevazione nazionale degli Staufer ad archetipo dell’impero tedesco tocca il suo apice. Voluto da un’associazione di reduci della guerra franco-prussiana per commemorare la morte del kaiser Guglielmo I, il grandioso complesso venne edificato su un monte che si voleva consa-

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crato a Odino, nei pressi delle rovine di un castello di età sveva, e il nuovo imperatore Guglielmo II ne posò la prima pietra nel 1892.

Il risveglio di Federico

Il faraonico edificio (alto ben 81 m), solennemente inaugurato nel 1896, raffigurava Federico Barbarossa, che si ridesta su un trono di pietra, sormontato da Guglielmo I a cavallo, primo kaiser della Germania unita. La leggenda era compiuta: come aveva affermato Alfred Westphal, segretario dell’associazione nazionale reduci, il Barbablanca aveva riscattato il Barbarossa. La continuità tra Hohenstaufen e Hohenzollern – la sovrapposizione tra Reich medievale e Secondo Reich – venne perfettamente e plasticamente affermata e posta su un’unica continuità storica, tanto agognata quanto impossibile. Allo stesso tempo prese avvio la ricostruzione di castelli, residenze, abbazie che potevano vantare l’impronta imperiale sveva. Tra il 1868

Nella pagina accanto un’altra immagine del Kyffhäuserdenkmal: il Barbarossa è sormontato da una statua di Guglielmo I e da una torre alta 57 m. In basso Federico Barbarossa in una caricatura del 1871, mentre chiude a chiave la porta della caverna del Kyffhäuser su cui un cartello recita: «Chiuso per cessata attività».

e 1897 il decrepito palazzo imperiale di Goslar venne ristrutturato in stile neo-romanico, per essere adibito a monumento nazionale. Nella Kaiserhaus, la vera e propria residenza palatina, Hermann Wislicenus dipinse un ciclo di maestosi affreschi relativi alla storia dell’impero, per sottolineare la continuità del potere imperiale germanico da Carlo Magno fino a Guglielmo I. In particolare, una pittura raffigurava Federico Barbarossa che si risveglia sotto il monte Kyffhäuser e guarda in direzione del kaiser, a sua volta ritratto in un’apoteosi dell’impero insieme ai suoi predecessori. All’esterno del palazzo ai primi del XX secolo, vennero installate due statue equestri in bronzo raffiguranti, affiancati, gli imperatori Federico I e Guglielmo I. Svolto il suo compito di unificazione, Federico Barbarossa parve abbandonare l’orizzonte dell’immaginario politico tedesco, assorbito dalla retorica neo-imperiale degli Hohenzollern. Cosí una caricatura del 1871 lo ritrae con i corvi dentro la gabbia e i bagagli in mano, mentre chiude la porta della caverna del Kyffhäuser, su cui un cartello recita: «Chiuso per cessata attività». Ciononostante, il mito degli Staufer non si affievolisce. Dopo il 1918 ritroviamo il Barbarossa sulle banconote di emergenza di alcune città della Repubblica di Weimar. Nel drammatico contesto storico della Germania del primo dopoguerra, la speranza in un leader messianico si animò nuovamente. Erano gli anni del poeta-vate Stefan George e del suo circolo di impronta romantico-nietzschiana raccolto gennaio

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attorno all’idea di una «Germania Segreta», di quell’altra Germania del Reich medievale, specchio e desiderio di una nuova Germania.

Una pietra miliare

A questo circolo apparteneva il medievista ebreo Ernst Kantorowicz, il quale, nel 1927, a soli trent’anni, pubblicava una biografia su Federico II, considerata la piú importante e piú elaborata mitografia sullo Staufer. In un tedesco aulico, Kantorowicz dipinse l’imperatore come il redentore del popolo tedesco, capace di unire, sotto il suo dominio, il Nord germanico con il Sud latino, insieme al barbaro Est; con il suo Regnum Siciliae, prima monarchia assoluta dell’Occidente, e il suo

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Reich, fine e realizzazione dei sogni di tutti gli imperatori tedeschi. Tuttavia, l’intento nazionalista di Kantorowicz di offrire a una Germania in ginocchio, come quella di Weimar, il modello di un grande Tedesco, naufragò nella prevedibile appropriazione nazista della figura di Federico II. Tra gli entusiasti lettori del libro vi fu infatti Hermann Göring, che regalò a Mussolini una copia firmata dell’opera per il suo compleanno. Il nazismo allora predilesse la figura del governante superuomo, espressione del genio tedesco, e amico dei Cavalieri Teutonici, protagonisti di quell’espansione del mondo germanico verso Est che, nella concezione nazista, anticipava la creazione del Lebensraum hitleriano. gennaio

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Le stele Staufer Le stele Staufer sono monumenti finanziati dai donatori che promuovono il comitato dello Stauferfreunde (Amici dello Staufer). Opera dello scultore Markus Wolf, la prima stele fu posizionata il 13 dicembre 2000, in occasione dei 750 anni dalla morte di Federico II, a Castel Fiorentino in Puglia. A questa seguirono stele in Germania, Francia, Austria, Repubblica Ceca e Paesi Bassi. Alte piú di 2 m e costruite in travertino, la loro base ottagonale si ispira alle forme del castello svevo per eccellenza: Castel del Monte. L’estremità superiore termina invece con una fascia metallica dorata, simbolo della corona imperiale.

In alto, sulle due pagine il Kyffhäuserdenkmal alla fine dell’Ottocento. Nella pagina accanto, in basso Adolf Hitler visita il Kyffhäuserdenkmal nel 1939. Nella retorica nazista la memoria degli Svevi fu evocata, per esempio, per il piano di invasione dell’Unione Sovietica, battezzato «Operazione Barbarossa».

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In basso Schwäbisch Gmünd (BadenWürttemberg). Una delle cosiddette stele Staufer, pietre ottagonali che commemorano gli Hohenstaufen.

Nel 1933 i nazionalsocialisti consacrarono la Gioventú Hitleriana agli Hohenstaufen, mentre accademici come lo storico Richard Suchenwirth – co-fondatore del partito nazionalsocialista in Austria – si adoperavano al fine di riconsegnare gli Staufer alla mitologia nazista. Nello stesso anno, alla nomina di Hitler a cancelliere del Reich, Suchenwirth pubblicò una raccolta di profili biografici legati al destino della storia tedesca, in cui il ritorno del Barbarossa – «splendida figura del re ideale» – si collegava all’ascesa di Hitler e alla nascita del Terzo Reich. In quegli anni, la memoria dei sovrani svevi è vittima di una sistematica e indebita appropriazione, con la creazione della divisione SS «Hohenstaufen» e la scelta di battezzare «Operazione Barbarossa» l’attacco sferrato contro l’Unione Sovietica nel 1941. Il nome fu voluto espressamente da Hitler – nel 1939 il Führer si era anche recato in pellegrinaggio sul Kyffhäuser –, in quanto capace di esprimere al meglio la missione imperiale tedesca. Il mito nazionale degli Staufer venne meno solo nel 1945, con una conseguente regionalizzazione e una – seppur parziale (come dimostra Marco Brando per il caso italiano di Federico II) – depoliticizzazione della loro memoria. F

NEL PROSSIMO NUMERO ● Templari e neotemplari

Da leggere George L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1815-1933), Il Mulino, Bologna 2009 Marco Brando, L’imperatore nel suo labirinto, Tessere, Firenze 2019 Fulvio Delle Donne, Federico II: la condanna della memoria, Viella, Roma 2012 Franco Cardini, Il Barbarossa. Vita, trionfi e illusioni di Federico I imperatore, Mondadori, Milano 2018 Peter Wilson, Il Sacro Romano Impero, Il Saggiatore, Milano 2017

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prodigi naturali l’ambra

Come un sole che arde di Lorenzo Lorenzi

Pietra «magica» per eccellenza, l’ambra fu ricercata e apprezzata dall’uomo fin dall’antichità. E se le sue origini furono a lungo argomento di dibattito, non meno vivaci e fantasiose furono le ipotesi fiorite sulle sue presunte proprietà taumaturgiche, tanto da farne una delle protagoniste della disperata lotta contro la peste

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riginata dalla secrezione delle piante ad alto fusto esistite nel Terziario (era geologica che abbraccia l’orizzonte temporale compreso fra i 65 e i 2 milioni di anni fa, n.d.r.), l’ambra, sin dall’antichità, ha suscitato curiosità in chi la possedeva e fascino in chi la ammirava. Elektron era il nome dato dai Greci a questa resina fossile, al fine di indicarne il cangiante bagliore dorato associato all’etere, il quinto elemento incorruttibile di cui, stante la cosmologia aristotelica, sono composti le sfere e i corpi celesti. In qualità di accumulatore di elettricità statica, godeva di particolare venerazione perché pregna di numinoso valore sapienziale. I Romani ne ricavavano profumi e soprattutto incensi: era detta lapis ardens, ovvero pietra ardente, dal materiale combustibile. Il primo tentativo di spiegarne scientificamente la genesi si deve a Plinio il Vecchio, il quale osserva come l’ambra nasca della resina indurita degli alberi di conifere: «Si forma dal midollo che stilla da un tipo di pino, come la gomma nei ciliegi o la resina nei pini (...). Si solidifica per il gelo o per le condizioni atmosferiche o per effetto del mare, quando le onde la strappano dalle isole. Allora rigettata sulle rive, è trasportata cosí facilmente che sembra restar sospesa e non calare a fondo» (Storia Naturale, XXXVII). L’ambra cominciò a essere utilizzata per fabbricare monili e ornamenti già nella preistoria, ma il suo impiego su larga scala per gioielli e amuleti ebbe inizio con gli Egiziani e gli Etruschi. Anche nel Medioevo fu ampiamente sfruttata per ricavarne pendenti e collane a grani semicircolari, ma altrettanto cospicua fu la fabbricazione di scatole, coppe, scacchiere, candelabri, croci astili;

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Medaglione in ambra con il volto di Gesú Cristo, dai territori dei Cavalieri Teutonici (l’odierna Polonia). 1380-1400. New York, The Metropolitan Museum of Art. Nel 1250, l’ordine cavalleresco acquisí l’esclusiva del commercio della resina fossile diretta a Bruges, dove è attestato, nel 1302, il primo laboratorio dell’Europa occidentale.

con l’ambra si incrostavano cibori lignei, stipi, si ornavano reliquiari, si fabbricavano rosari, in gran parte provenienti dalla zona balticotedesca: da Danzica a Königsberg, da Kassel a Brünswick fino a Dresda. Associata al segno zodiacale del sole, questa resina fossile ebbe un alto valore scaramantico e di protezione contro i malanni; ritenuta lo sperma di grossi animali acquatici – come balene e capodogli –, veniva offerta in segno di augurio per una vita lunga, da vivere nella santità di Cristo.

Commercio in esclusiva

Se in alcuni siti archeologici di epoca medievale sono state ritrovate scaglie di ambra grezza, vari documenti riferiscono di come nei secoli XI e XII essa fosse importata direttamente dalla Prussia e dalla Pomerania. gennaio

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Il mito

Di feroci cinghiali e di lacrime divine... La prima citazione della resina fossile ci è stata consegnata da Omero, nell’Odissea, ove si narra di una collana regalata da Eurissimaco a Penelope e fatta di grani tanto lucenti da sembrare un disco solare: «A Eurimaco, subito dopo, [l’araldo] portò un artistico vezzo d’oro alternato con grani d’ambra, che un sole pareva» (Odissea, XVIII, par. 295-296). Ancora il mito omerico narra che tra i gioielli offerti alla regina di Siria dai mercanti fenici era presente una collana d’oro con ciondoli d’ambra. In maniera piú circostanziata le gemme d’ambra sono protagoniste nel racconto leggendario di Meleagro, figlio di Altea e di Eneo re di Calidone, contro il quale Diana inviò un minaccioso cinghiale, come punizione In alto una goccia di resina di pino: la fossilizzazione di secrezioni simili, originatesi nel Terziario, ha generato l’ambra nella forma che oggi conosciamo. A sinistra San Flaviano vescovo, scomparto di polittico, tempera su tavola di Giacomo di Nicola da Recanati. 1443. Collezione privata. Si può notare la spilla con un’ambra incastonata che tiene uniti i lembi del piviale del prelato.

Nel 1250, i Cavalieri Teutonici ottennero l’esclusiva del commercio verso le officine di Bruges, dove, nel 1302, è attestato il primo laboratorio dell’Europa occidentale. Nel Basso Medioevo, riprendendo le conoscenze pagane, era considerata una «gemma» capace di placare l’ansia e la melancolia, parimenti indicata come veicolo di creatività e intuizione veritativa sul piano trinitario, quindi oggetto di protezione contro il male. Con l’ambra si curava anche l’epilessia, ponendola assieme a un cuore di cervo dentro un vaso posto sui carboni ardenti: il fumo che ne scaturiva veniva respirato dal paziente al fine di una pronta guarigione. Inoltre, portata al collo come amuleto, si credeva potesse guarire le febbri, mentre, tritata e mescolata a miele e olio di rose, costituiva un rimedio contro i mali d’orecchie e dello stomaco (Plinio, Storia Naturale, XXXVII, 11,51). Una croce astile della metà del XIII secolo di manifattura veneziana (oggi conservata nel Museo della basilica di S. Francesco in Assisi), è realizzata in rame

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per il fatto di essere trascurata in tutte le zone del regno. Meleagro uccise il poderoso animale ma anche i suoi zii nel corso di una lite, cosicché Altea, addolorata e piena d’ira, decise di vendicarsi, uccidendo il suo stesso figlio: il dolore delle sorelle di Meleagro, stando alla versione datane da Sofocle, fu talmente grande che le lacrime si trasformarono in ambra purissima ed esse stesse diventarono uccelli chiamati meleagridi (Plinio, Storia Naturale, XXXVII, ll, 40-41). Altro mito in cui l’ambra è associata al dolore riguarda la storia di Fetonte, giovane e coraggiosa divinità, figlio del Sole e di Climene, il quale, dopo molte insistenze, riuscí a convincere il padre a fargli guidare per un giorno il carro solare, ma i cavalli, imbizzarriti, lo fecero sbandare e Zeus per punizione lo bruciò, creando cosí una scia luminosa conosciuta come la Via Lattea; sulla Terra le foreste arsero, i fiumi e i laghi si prosciugarono, e, per mettere fine a tale sciagura, il padre degli dèi infierí ulteriormente, vibrando un colpo di fulmine che fece precipitare nel fiume Eridano le scintille ancora nell’aria; le Eliadi, sorelle di Fetonte, accorsero sulle rive e piansero, finché non furono tramutate da Zeus in pioppi e le loro lacrime in ambra.

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sbalzato e composta da 16 pezzi di cristallo di rocca: presenta alle estremità piccoli trapezi di ambra, che danno un tocco cromatico estremamente raffinato, confermando l’impiego della resina per produzioni di alta qualità, e ne fanno, simbolicamente, un fondante elemento di comunione spirituale. In questo senso può essere interpretata anche la fibula d’ambra a corredo del piviale di San Flaviano vescovo (1443 circa; vedi foto alla pagina precedente) nella tavola omonima realizzata da Giacomo di Nicola da Recanati, che fa parte del polittico della Madonna dell’Umiltà, ora al Museo Diocesano recanatese.

Quei doni portati dall’Oriente...

Nel Trittico dell’Adorazione dei Magi (vedi foto alle pp. 82-83) del pittore tedesco ma di formazione fiamminga Hans Memling, osserviamo, nella parte centrale, la Madonna con Bambino e, ai lati, due Magi abbigliati con fogge raffinate, che tengono fra le mani vasi in metallo doFrammento della fronte di un sarcofago raffigurante la morte di Meleagro. II sec. d.C. Parigi, Museo del Louvre. Intorno al defunto stanno le sorelle, il cui dolore fu cosí grande che le loro lacrime vennero trasformate in ambra purissima.

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prodigi naturali l’ambra Sulle due pagine Trittico dell’Adorazione dei Magi (particolare), olio su tavola di Hans Memling. 1470 circa. Madrid, Museo del Prado. I coperchi dei vasi con cui i tre personaggi portano i loro doni al Bambino sono sormontati da gemme d’ambra. In basso un blocco d’opale. La pietra godette nel Medioevo di una fama ambivalente: spesso donata in segno di buon augurio, era da altri considerata capace di annunciare le pestilenze.

rato e sbalzato, con il coperchio sormontato all’apice da una gemma ovale giallastra, tendente al marrone. Quest’ultima potrebbe a prima vista confondersi con il topazio, ma è invece ambra, essendo il topazio generalmente giallo citrino e la sua lavorazione caratterizzata dal taglio a cabochon, con la superficie bombata sul recto mentre quella tergale piatta. La datazione dell’opera, il 1470 circa, è un indizio interessante, in quanto il pittore si trasferisce a Bruges nel 1467 e poiché in questa città, per quanto detto sopra, è attestata, dal 1302, la prima rinomata officina europea di ambra, è piú che plausibile che egli abbia visionato i manufatti in tal materiale per prodotti di oreficeria. Del medesimo autore è il Trittico con Cristo con angeli cantanti e musicanti (1480-90), che mostra, nel pannello centrale, il Redentore che tiene nella mano sinistra un raffinatissimo oggetto di oreficeria, composto da una sfera trasparente (simbolo del creato) in cristallo di rocca e metallo dorato, sormontato da un’alta croce astile dorata, con le estremità adorne di ovali d’ambra e uno zaffiro al centro degli assi. Come nella croce veneziana di Assisi, gli inserti di ambra sono presenti solo nelle terminazioni, e si

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pillole di mineralogia

Nel segno del giallo Oltre all’ambra, tutte le pietre gialle menzionate nei «lapidari» sono ritenute portatrici di fortezza e sanità, al tempo stesso stimolatrici di sapienza e intelligenza. Il topazio rinvigoriva il corpo e scongiurava una debilitazione, parimenti eliminava la tensione nervosa e scacciava il malocchio;

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In basso un frammento di tormalina, pietra che si credeva potesse funzionare come potente amuleto contro i demoni e contro l’affaticamento fisico.

un’antica leggenda medievale narra che, in presenza di una strega, il topazio cambiasse colore, diventando torbido. Similmente all’ambra, questa pietra dorata era sovente usata per curare i malati di peste: papa Clemente VI si adornava di topazi incastonati nei ricami del manto e della veste prima di entrare in un lebbrosario. L’opale è una pietra biancastra, ma con riflessi giallo-oro, utilizzata per debellare le malattie agli occhi. In epoca moderna, veniva offerta come dono di nozze, per una pace e serenità durature; fu particolarmente amata da Elisabetta Tudor e da Luigi XVIII per i suoi riflessi iridescenti; quest’ultimo ne possedeva uno purissimo, attualmente conservato al Museo di Storia Naturale di Parigi. Nei secoli XIII-XV ha goduto di un significato ambivalente: da

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un lato era di buon augurio regalare una collana di grani d’opale a garanzia del mantenimento del biondo dei capelli, al tempo della peste del 1348 si credeva invece che la pietra annunciasse il diffondersi della malattia. A Venezia, città in cui l’epidemia scoppiò con particolare virulenza, fonti riferiscono come l’opale, se accostato ai malati, si illuminasse in maniera scomposta fino a scolorirsi. Giallastra è anche la tormalina, potente amuleto contro i demoni e contro l’affaticamento fisico, capace di favorire il recupero delle energie vitali e mnemoniche. Bernardo Cesi, nel suo trattato Mineralogia (1636), la definisce simbolo di saggezza. Della stessa considerazione godevano tutte le pietre citrine come il quarzo e il diaspro; i poteri delle pietre «al color di limone» erano genericamente quelli di proteggere dalle infezioni mortali, dal veleno dei serpenti e dai morsi del ragno.

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prodigi naturali l’ambra può dunque supporre che il manufatto dipinto non sia frutto della fantasia dell’artista, ma la precisa citazione di un oggetto reale. Alla scarsità di corredi sacri sopperisce la pittura, fornendo un documento imprescindibile, che dimostra l’importanza, fra Tre e Quattrocento, di questa resina, che veniva impiegata nella produzione di croci astili, alle quali conferiva un bagliore inusitato, quale rimando ai temi della resurrezione e della gloria eterna.

Contro i cattivi odori e il contagio

Il pomander è un oggetto del tutto particolare, in cui l’ambra è protagonista; si tratta di un gioiello generalmente femminile, di forma sferica, con funzione di scrigno, realizzato in oro o argento traforati ed entro il quale venivano racchiuse resine profumate: ambra gialla o grigia, incenso, benzoino (balsamo naturale ottenuto da varie specie di Styrax, pianta diffusa nella regione indonesiana, n.d.r.), mirra e muschio; aveva la funzione di proteggere dai cattivi odori e, soprattutto, dal contagio di peste e altre infezioni. Veniva indossato appeso alla cintura o al rosario, ma poteva anche essere portato al collo; come cosmetico deodorante, si riteneva dotato di proprietà calmanti, a cui era unita la capacità di favorire la digestione. Le prime notizie in proposito risalgono al 1174, quando la sua presenza è attestata alla corte di Baldovino IV a Gerusalemme: il re ne possedeva piú esemplari, realizzati in materiale prezioso. Li amava perché sanificavano l’aria malsana e raffrescavano le stanze: in particolare, la presenza dell’ambra nello scrigno aveva la funzione di rendere efficaci le preghiere, rafforzando il rapporto del fedele con Dio. Per questo il pomander era utilizzato come emblematico dono di pace a diplomatici e feudatari: Federico Barbarossa fu il primo a riceverne uno proprio da Baldovino. A partire da questa data, si diffuse nell’intera Europa, soprattutto nel ceto nobiliare, e tale moda sopravvisse sino alla fine del Cinquecento come dimostra un ritratto di Elisabetta Tudor (vedi foto alla pagina accanto), che stringe orgogliosamente fra le mani il suo pomo odoroso. Simili manufatti risultano menzionati in diversi inventari medievali: nel 1287, un pomo d’ambra è descritto nell’inventario del cardinale e podestà Goffredo da Alatri, altri figurano in

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quello del tesoro di Bonifacio VIII risalente al 1295. Il Roman de la Rose di Guillaume de Lorris e Jan de Meun (1237 e1275-1280) conferma la moda dell’odore di ambra nel portaprofumi: «Le altre membra erano molto belle, / Ma piú profumato di un pomo d’ambra / C’era all’interno un reliquiario, / Coperto da un prezioso sudario...». Nel suo Poema sulla grande peste del 1348 (1426), Olivier de la Haye ne esplicita invece l’uso medicamentoso, affermando come l’aria putrida e la sporcizia maleodorante per le strade potevano essere mitigate con i fluidi odorosi contenuti nel pomander, un’affermazione dettata dal fatto che le conoscenze mediche dell’epoca additavano la causa della peste all’aria malsana, che poteva essere combattuta con le essenze. Un episodio in tal senso emblematico vide protagonista il vescovo abate Guido di Blasio (1284-1349), che amava scongiurare il contagio camminando per le strade coperto da un ampio tessuto che gli avvolgeva la testa, occultando bocca e naso, mentre un pomo traforato appeso al collo, contenente effluvi di ambra e benzoino, sporgeva da una lunga cappa nera.

Echi petrarcheschi

Pomi del color dell’ambra adornano e pendono dalla predella sui cui è assisa Venere nell’atto di porgere il pomo d’amore a Marte posto di fronte a lei, inginocchiato e incatenato; la rappresentazione citata inaugura il mese di Aprile ed è parte dell’imponente ciclo di affreschi (1470 circa) di Palazzo Schifanoia a Ferrara, realizzato da Francesco del Cossa per volere di Borso d’Este, signore della città (vedi foto a p. 87, in alto). In questo Trionfo di Venere, la dea inghirlandata è seduta in trono su un carro acquatico trainato da cigni, un esplicito rimando (come accade per tutte le altre scene) ai Trionfi di Francesco Petrarca, poema allegorico scritto in terzine e compoA sinistra un pomander in oro, smaltato e incrostato con pietre preziose. Produzione francese, 1600 circa. Collezione privata. Nella pagina accanto ritratto di Elisabetta II Tudor. Scuola inglese, 1600 circa. Collezione privata. Si noti il pomander che la regina tiene nella mano sinistra. gennaio

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prodigi naturali l’ambra

Case d’ambra

Il (perduto) vanto degli zar Un’antica leggenda lituana riferisce che la regina Juratè abitava in un castello fatto di ambra posto nei fondali del Mar Baltico; un giorno la sua pace fu disturbata dal pescatore Kastytis e la donna decise allora di punirlo, ma, quando fu al suo cospetto, se ne innamorò perdutamente. Pekunas, il dio del tuono, furioso per questa eretica unione, distrusse il castello e migliaia di scaglie giunsero sulla riva, dove furono raccolte dalle popolazioni locali che le denominarono «lacrime della regina»; da quel momento nella zona baltica l’ambra è simbolo di purezza d’amore. La famosa Camera d’Ambra è invece una stanza di 55 mq, le cui pareti sono interamente rivestite di pannelli di resina, per un totale di 6 tonnellate, incorniciati da foglie d’oro e specchi. Fu creata fra il 1701 e il 1709 per il castello di Charlottenburg, a Berlino, dallo scultore Andreas Schlüter, per volere di Federico I di Prussia, poi donata nel 1716 da re Federico Guglielmo I allo zar Pietro I il Grande, suo alleato; la zarina Elisabetta la fece installare nel Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo. In seguito, per volere di Caterina, fu smontata e ricomposta nella residenza di Carskoe Selo (cittadina situata una trentina di chilometri a sud di San Pietroburgo, dove, fra il XVIII e il

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In alto un’immagine della Camera d’Ambra originale, trafugata dai nazisti e mai piú ritrovata. A destra un momento della realizzazione della replica della Camera d’Ambra, protrattasi per alcuni decenni e alla quale hanno lavorato numerosi artigiani.

XIX secolo, la famiglia imperiale russa fece costruire ville e palazzi adibiti a residenze estive, n.d.r.). Nel 1941 la Camera d’Ambra venne trafugata dai nazisti in 36 ore e da quel momento se ne sono perse le tracce. Il 31 maggio 2003, al termine di una minuziosa ricostruzione, che ha richiesto l’impiego gennaio

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A destra uno scorcio della Camera d’Ambra, ricostruita nel Palazzo di Caterina, a Carskoe Selo. La replica è stata inaugurata nel 2003.

di numerosi artigiani per alcuni decenni, la replica della camera è stata inaugurata e, da allora, è uno dei vanti del Palazzo di Caterina. Le zarine Elisabetta e Caterina ne furono affascinate: al lume delle candele, i pannelli d’ambra emanavano riflessi al color del miele; l’effetto era quello di una fantasmagoria fiabesca e metafisica.

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Venere e Marte, particolare dell’allegoria del mese di Aprile, nel ciclo affrescato da Francesco del Cossa nel Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia, a Ferrara. 1470 circa.

Da leggere Knut Boeser, The Elixirs of Nostradamus: Nostradamus’ Original Recipes for Elixirs, Scented Water, Beauty Potions, and Sweetmeats, Moyer Bell, Londra 1996 David A. Grimaldi, Amber, Window to the Past, Harry N. Abrams, Inc. and The American Museum of Natural History, New York 1996 Michela Renzi, Il pomo d’ambra nel Medioevo, on line su https://vestioevo.com/2017/11/01/il-pomo-dambra-nelmedioevo/

sto fra il 1351 e il 1374. In alcuni passaggi del testo si descrive lo stato d’animo del poeta, che in un giorno di primavera si addormenta a Valchiusa e vede in sogno la personificazione dell’Amore su un carro trionfale, a dimostrazione che il luogo in questione fu certamente significativo per l’incontro con Laura descritta dalla chioma bionda, proprio come la Venere del ciclo ferrarese. Nel sonetto CXLV del Canzoniere, Laura è colei che vince e incatena il poeta perennemente e nessuna forza della natura può vincere l’incantesimo, nemmeno l’ambra o il Sole: «La’ ‘ve ‘l Sol perde, non pur l’ambra o l’auro; / Dico le chiome bionde e ‘l crespo laccio». F

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testi di Franco Cardini, Tersilio Leggio, Federico Fioravanti e Ileana Tozzi

RIETI E LA VALLE SANTA

La città dei cinque papi Nell’arco di cento anni, fra la fine del XII e gli ultimi anni del XIII secolo, cinque pontefici scelsero di risiedere, per periodi piú o meno lunghi, a Rieti. Questa presenza conferí alla città, posta ai confini fra il Patrimonio di San Pietro e il Regno di Sicilia, il rango e la dignità di centro strategicamente rilevante, meta di ambascerie e scenario di episodi di grande rilevanza storica. Come quando, nel giugno del 1234, Gregorio IX incontrò Federico II di Svevia e strinse con lui un patto di alleanza che durò per cinque anni. E la Valle Santa, insieme ad Assisi e La Verna, fu luogo d’elezione di momenti decisivi della straordinaria parabola umana e religiosa di san Francesco

Greccio (Rieti), santuario del Presepe. La cappella realizzata nel luogo in cui Francesco allestí la Natività: il masso utilizzato come mangiatoia è divenuto il supporto di un piccolo altare.


Dossier

I I

primi secoli del periodo che siamo soliti definire Alto Medioevo furono complessi per Rieti come per il resto della Penisola. Una diocesi reatina è documentata per la prima volta dalla fine del V secolo con il vescovo Orso, che prese parte ai tre concili celebrati a Roma da papa Simmaco nel 499, nel 501 e nel 502. Pochi decenni dopo l’arrivo dei Longobardi in Italia nel 568, la Sabina fu inglobata nel Ducato di Spoleto e Rieti dalla fine del secolo divenne sede di un gastaldato. Nell’area era stata appena fondata l’abbazia benedettina di Farfa, che, in epoca franco-carolingia, divenne una potenza incuneata fra il Patrimonio di Pietro e il ducato longobardo. Nei secoli centrali, Rieti subí un assalto saraceno, una distruzione per mano di Ruggero II il Normanno nel 1151 per poi schierarsi sotto la protezione papale nel 1171, ossia durante il periodo degli scontri fra Federico I Barbarossa e i comuni. Da questo momento comincia lo stretto legame fra la città laziale e i pontefici. Quasi a suggellare la rinnovata importanza di Rieti, il 23 agosto 1185 vi si celebrò il matrimonio fra Costanza d’Altavilla ed Enrico VI di Svevia, figlio di Federico Barbarossa e futuro imperatore, alla presenza della sola sposa (Enrico era trattenuto in Germania per i funerali della madre). La cerimonia fu ripetuta a Milano il 27 gennaio 1186; Rieti fu scelta quale prima città oltre i confini del Regno di Sicilia incontrata da Costanza nel viaggio da Palermo a Milano, che percorreva accompagnata da un fastoso corteo di principi e baroni, nonché per sottolineare il valore simbolico e politico dell’approvazione pontificia di quell’unione. Posta ai confini fra il Patrimonio di San Pietro e il Regno di Sicilia, Rieti aveva il rango e la dignità di una città strategicamente rilevante, e fu dunque meta di ambascerie e scenario di episodi di grande rilevanza storica. Cinque papi scelsero

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

A sinistra San Francesco, tempera su tavola di Antoniazzo Romano. 1467 circa. Rieti, Museo Civico. L’artista immagina il santo mentre riceve le stimmate.

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Morro Reatino Labro Vicchiagnone da Capo Colli sul Velino

Cepparo Poggio Bustone Borgo Colli

Montisola

Castellina Greccio

Riserva Naturale Laghi Lungo e Ripa Sottile

Fantaluzzi Lasca

Terria Madonna del Cuore Rieti Colle Sant’Antimo Fonte Colombo

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In alto affresco raffigurante la canonizzazione di san Domenico, nel 1234, facente parte di un ciclo realizzato da Vincenzo Manenti, dedicato ad alcuni tra i piú importanti episodi della storia medievale di Rieti. XVII sec. Rieti, Museo Civico. A sinistra carta del territorio reatino, con l’indicazione dei luoghi citati nel testo.

di risiedervi – per periodi piú o meno lunghi – nell’arco di cento anni, fra la fine del XII e gli ultimi anni del XIII secolo. Il legame con il papato venne ratificato da Innocenzo III nel 1198, ossia durante il suo primo anno di pontificato: erede diretto dei grandi pontefici dalla riforma in poi, Gregorio VII e Alessandro III – il cui ideale di fondo era stato la «ierocrazia», cioè l’egemonia del clero sulla società –, Innocenzo aveva a cuore la riorganizzazione delle terre della Chiesa, centrale per poter intraprendere un’azione politica di piú ampio raggio. Sotto di lui i territori del Patrimonio di San Pietro furono presto posti di nuovo sotto l’autorità pontificia, nonostante l’atteggiamento ribelle di alcune città, soprattutto delle Marche. Il suo ultimo atto di governo fu il IV concilio lateranense del 1215. In esso, la Chiesa fu definitivamente dichiarata un corpo superiore a qualunque potere secolare, la depositaria unica della Grazia, la sola possibile mediatrice

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Dossier fra Dio e gli uomini. Si introduceva l’Inquisizione come strumento di controllo, ma ci si preoccupava anche dell’istruzione dei fedeli incoraggiando la predicazione popolare e legittimando l’esistenza degli Ordini mendicanti.

La canonizzazione di san Domenico

A destra, sulle due pagine veduta dall’alto della cattedrale di Rieti, intitolata a santa Maria Assunta, con, in primo piano, la torre campanaria.

Fu tuttavia il successore di Innocenzo III, Onorio III, ad approvare le Regole dei Frati Predicatori (1216) e dei Frati Minori (1223). Rieti svolse un ruolo cruciale in questo

processo, poiché Onorio vi soggiornò dal giugno all’ottobre del 1219 e, piú tardi, dal giugno al febbraio 1225: in entrambe le occasioni, accolse in udienza Francesco d’Assisi, offrendogli ospitalità e cura. Onorio vi tornò poco dopo, ma in condizioni piú difficili: nel maggio 1225 fu costretto a rifugiarsi prima a Tivoli e poi a Rieti per scampare agli assalti delle fazioni favorevoli all’autonomia comunale, di cui s’era fatto assertore Parenzo Parenzi, eletto senatore di Roma. In città, il 9 settembre 1225 Onorio III consacrò la nuova cattedrale di S. Maria Assunta, i cui lavori erano cominciati nel 1109, come attesta un’iscrizione oggi murata nell’adiacente Palazzo Vescovile. Anche sotto il successore di Onorio III, Gregorio IX (Ugolino dei

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In alto L’ingresso a Rieti di Costanza d’Altavilla, olio su tela di Antonino Calcagnadoro, 1906. Rieti, Museo Civico.

Conti di Segni, papa dal 19 marzo 1227 al 22 agosto 1241), la città fu teatro di avvenimenti rilevanti. A Rieti si svolse, nel 1232, alla presenza del nuovo pontefice, il Capitolo Generale dei Francescani, che portò all’elezione di frate Elia. Gregorio IX vi fece ritorno due anni piú tardi: il 13 luglio 1234 a Rieti proclamò san-

to Domenico di Guzmán, fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori. Nel 1228 aveva già canonizzato Francesco d’Assisi e nel 1232 Antonio da Padova. Si trattava, evidentemente, di azioni volte a promuovere l’immagine della Chiesa in un momento di accese dispute con l’impero da una parte, con le tendenze augennaio

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tonomistiche all’interno delle città del Patrimonio dall’altra. E tuttavia il papato non cessava di guardare ben oltre i confini della sola Italia. Prova ne è la canonizzazione di Elisabetta d’Ungheria nel 1235 e, soprattutto, la Bolla d’oro a favore dell’Ordine Teutonico, che il papa concesse a

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Rieti il 3 agosto 1234, a conferma di una dichiarazione orale risalente a quattro anni prima. Si tratta della bolla Pietati, con la quale confermava all’Ordine Teutonico la sovranità sui territori prussiani già conquistati e su quelli di una futura conquista a est del corso inferiore della Vistola, oltre a ricono-

scere la sottomissione dell’Ordine alla sola autorità pontificia.

Incontro al vertice

A Rieti, nel giugno del 1234, Gregorio IX incontrò Federico II di Svevia. L’imperatore aveva lasciato la Sicilia, dove non sarebbe piú tornato, nel mese di febbraio ed era giunto a

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Dossier

In alto un altro affresco appartenente al ciclo dipinto da Vincenzo Manenti, raffigurante l’incontro fra papa Gregorio IX e Federico II di Svevia. XVII sec. Rieti, Museo Civico. A sinistra l’Arco di Bonifacio, che si appoggia al palazzo vescovile e scavalca con una doppia volta a crociera la centralissima via Cintia.

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Rieti dopo un viaggio che, dalla Puglia, lo aveva portato prima a Capua e poi a San Germano. Fra lo Svevo e il papa non era mai corso buon sangue. Due erano i principali motivi di attrito: innanzitutto, Federico non aveva mai adempiuto agli obblighi assunti in ordine alla separazione tra impero e Regno di Sicilia; in secondo luogo, egli aveva promesso al clero dei suoi domini una libertà che, nella pratica, era stato ben lontano da concedere, non esitando per esempio a intromettersi regolarmente nelle elezioni episcopali, con l’evidente intento di favorire persone a lui fedeli o di ostacolare nomine di suoi avversari. Inoltre, c’era la questione della crociata. Nel diffuso sentire del tempo, legittimato da una folta produzione trattatistica, la crociata era dovere di ogni re cristiano; inoltre, Federico stesso aveva piú volte promesso a Onorio III che avrebbe organizzato una spedizione e aveva solennemente preso la croce. A quel punto il papa pretese che lo Svevo partisse immediatamente in crociata: e addirittura, poiché una spedigennaio

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zione pronta nell’autunno 1227 non poté aver inizio – sembra a causa di un’epidemia scoppiata fra le truppe – lo scomunicò. La scomunica scioglieva i sudditi di un sovrano da qualunque obbligo di fedeltà nei suoi confronti e quindi, dopo quell’incidente, qualunque avversario politico di Federico in Germania, in Italia o in Sicilia, avrebbe potuto, in linea di principio, sollevarsi in armi per i propri interessi proclamando di farlo nel nome della fede. Ciò costrinse Federico a partire, nel 1228. Ma, da accorto politico qual era, l’imperatore aveva già preso le sue contromisure. Innanzitutto, aveva saputo guadagnarsi in Terra Santa solidi diritti dinastici sposando l’ereditiera della corona di Gerusalemme, Isabella-Iolanda di Brienne: quindi si presentava in Palestina come legittimo pretendente al trono, e, in quanto tale, pretendeva di mettere ordine tra i feudatari e i comuni delle città costiere dalle quali ormai il regno era costituito. Coglieva poi l’occasione per rinsaldare i suoi rapporti di amicizia con il sultano al-Malik al-Kamil, della stessa famiglia del Saladino. Invece di combattere, i due stipularono un trattato in base al quale Gerusalemme veniva ceduta ai cristiani, priva di mura e con l’esclusione dell’area della moschea di Omar, vale a dire del Haram esh-Sherif, la «Spianata del Tempio», sacra ai musulmani.

Dalla crociata alla tregua

Il pontefice non poteva naturalmente che esser adirato e impaurito dall’esito della crociata, in primo luogo perché Gerusalemme era sí passata di nuovo ai cristiani, ma – paradossalmente – in seguito a un trattato amichevole, non a una conquista. Uno scomunicato, poi, aveva osato cingere nella Città Santa una corona regale! In verità, al di là di queste ragioni – il cui peso nella mentalità del tempo era enorme – c’era anche la preoccupazione per il fatto che l’im-

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peratore fosse riuscito a trasformare in un nuovo successo un’impresa che, nelle intenzioni del papa, aveva lo scopo di metterlo in difficoltà. Il risultato di questa situazione fu ancora paradossale. Il papa bandí una crociata contro lo stesso Federico, «peggiore dei Saraceni»: le forze cosí mobilitate – i combattenti avevano ricevuto un’indulgenza simile a quella che si otteneva facendo il voto crociato ed erano chiamati clavigeri dal loro segno distintivo, le chiavi di Pietro – invasero il regno, costringendo l’imperatore a rientrarvi in fretta, durante l’estate del 1229. Lo Svevo riuscí ad arrestare l’offensiva nemica, ma dovette in cambio scendere a patti con il pontefice. D’altra parte, anche Gregorio era stanco della contesa. A San Germano-Ceprano, nell’estate 1230, venne quindi siglato un trattato secondo il quale Federico forniva ampie garanzie sulla libertà del clero nel regno e il papa, in cambio, lo liberava dalla scomunica. In questo raro momento di pace, era Gregorio IX ad aver bisogno dell’aiuto dell’imperatore. Il pontefice si era infatti rifugiato a Rieti per sfuggire alla rivolta scatenata a

La Porta Conca, uno degli accessi alla città di Rieti che si aprono nel circuito delle mura. La struttura conserva le imposte in legno del XVI sec.

Roma dai sostenitori di Luca Savelli, padre del futuro papa Onorio IV, che avanzava pretese sulla Campania e sulla Tuscia, sostenendo che appartenevano al popolo romano. Gregorio scomunicò i rivoltosi e Federico protesse la sua politica con la forza delle armi e, come pegno della sua promessa di aiuto, gli affidò il piccolo Corrado. Con ogni probabilità, fu proprio in questa circostanza che il pontefice suggerí a Federico II di sposare Isabella d’Inghilterra: Iolanda era infatti morta in giovanissima età. Il 5 luglio 1234, a Rieti, il papa suggellò l’alleanza con un gesto di grande impatto: scomunicò Enrico VII a causa di suoi presunti atteggiamenti in favore dell’eresia. I principi tedeschi furono cosí sciolti dal giuramento di fedeltà e dal vincolo di obbedienza dovuti al figlio di Federico II che si era ribellato all’autorità del padre. La scomunica permise all’imperatore di procedere legalmente contro il figlio e i

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Dossier L’incoronazione di Carlo d’Angiò

Il gran giorno del re di Sicilia Nell’arco di dodici mesi, tra la primavera del 1288 e quella del 1289, Rieti fu teatro di straordinari avvenimenti, annunciati dall’arrivo in città, il 13 maggio 1288, di Niccolò IV, il primo pontefice francescano. Poco dopo, il 16 maggio, nel giorno di Pentecoste, il papa consacrò sei nuovi cardinali. Tra loro c’erano anche Matteo d’Acquasparta, allora ministro generale dei Francescani e, soprattutto, Benedetto Caetani, il quale, sei anni piú tardi, il 24 dicembre 1294, salí al soglio di Pietro con il nome di Bonifacio VIII. L’anno successivo, il 4 maggio 1289, Carlo II d’Angiò, da poco liberato dalla prigionia aragonese in seguito a un trattato sottoscritto nella città pirenaica di Canfranc, era già in Curia Summi Pontificis, per concertare tutti gli aspetti della sua incoronazione. Il 14 maggio Niccolò IV spostò a Rieti il capitolo generale dei Francescani,

Cosí, anche agli Angiò fu riconosciuto quel concetto di sovranità teocratica, elaborato a Parigi, che traeva origine dalla leggenda dell’olio della «Santa Ampolla» di Clodoveo (la fiala in vetro che avrebbe contenuto l’olio crismale per l’unzione del sovrano merovingio, portata da un angelo in forma di colomba, n.d.r.). Lo stesso giorno di Pentecoste, nella chiesa di S. Francesco, si celebrò anche il Capitolo Generale dei Francescani: alla presenza del papa venne eletto ministro generale dell’Ordine lo spirituale fra Raymond de Gaufredi. Era un esponente dell’aristocrazia provenzale, amico della famiglia d’Angiò. Negli anni successivi, grazie anche al suo alto incarico, fece uscire di prigione lo scienziato e filosofo Ruggero Bacone, il «doctor mirabilis» accusato di diffondere l’alchimia araba e protesse a lungo anche il teologo e filosofo

convocato in precedenza ad Assisi, e, secondo le fonti, in città accorsero circa 800 religiosi. Una folla di ospiti si radunò per il gran giorno: il 29 maggio, la mattina di Pentecoste, papa Niccolò IV incoronò Carlo II d’Angiò re di Sicilia e di Gerusalemme e proclamò regina sua moglie, Maria d’Ungheria. Per la circostanza venne modificato il rito di unzione adottato dai re francesi.

catalano Raimondo Lullo. Carlo II d’Angiò – che venti anni dopo (1309), vicino a Rieti, nell’alta valle del Velino, fondò Cittaducale – in ricordo di quel 29 maggio 1289, dell’unzione e dell’incoronazione da parte del papa, riconobbe alla cattedrale reatina un lascito annuo di 20 once d’oro (6 kg circa del prezioso metallo), corrisposti grazie alla baiulazione di Sulmona,

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In alto, sulle due pagine ancora un affresco di Vincenzo Manenti, raffigurante la nomina di sei cardinali da parte di papa Niccolò IV, il 16 maggio 1288. Rieti, Museo Civico. Qui sopra Rieti medievale e le sue chiese, disegno di Giacomo Caprioli. 1929.

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principi ribelli che lo appoggiavano. Nei mesi successivi (ottobre 1234) Federico II sbaragliò i Viterbesi ribelli: la conseguenza di quella sconfitta fu il ristabilimento della sovranità papale a Roma.

Sei cardinali e un’incoronazione

decima parte di un’imposta riscossa nella città abruzzese. In quegli anni il paesaggio urbano di Rieti era ormai definito nelle sue forme principali. La nuova cinta muraria, incominciata nel 1253, era in larga misura terminata. La costruzione del Palazzo Papale, avviata nel 1283, si concluse proprio nel 1288. Le chiese degli Ordini mendicanti, particolarmente imponenti – S. Francesco, S. Agostino e S. Domenico –, erano disposte nei pressi dei tre ingressi principali della città. Rieti brulicava di attività artigianali e manifatturiere. L’area centrale era dominata dalla cattedrale, affiancata, dal 1252, dalla slanciata torre campanaria. Le numerose case-torri delle famiglie aristocratiche svettavano sugli altri edifici. La città contava piú di 3000 abitanti.

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A questa fase di forte espansione, sia demografica, sia urbana, corrispose un notevole incremento del prestigio della città e delle sue istituzioni, attestato in modo incontrovertibile dal fatto che poco tempo dopo Rieti venne inserita nel cosiddetto Iter de Londinio in Terram Sanctam, un itinerario figurato da Londra a Gerusalemme compilato nel 1253 dal monaco inglese Matthew Paris, con le immagini delle città cucite in successione. L’inclusione di Rieti lungo l’itinerario di questa importante via di pellegrinaggio, fu stimolata dalla presenza nella conca dei segni ancora vividi della presenza di san Francesco e costituí un indubbio vantaggio per l’economia cittadina, grazie all’impatto dei flussi di pellegrini sulle attività commerciali, artigianali e di accoglienza.

Nel 1250, dopo la morte di Federico II, il papato si era schierato dalla parte di Carlo I d’Angiò, sceso in Italia sconfiggendo i due eredi dell’imperatore, Manfredi e Corradino. Per quanto il sovrano angioino si proclamasse fedele alla Chiesa e fosse il capo riconosciuto del partito guelfo in Italia, lo stesso papato finí con il preoccuparsi per una «tutela» che diveniva di gran lunga piú oppressiva e pericolosa per la sua indipendenza di quanto non fosse stato l’atteggiamento ostile di Manfredi. I papi Gregorio X (1271-1276) e Niccolò III (1277-1280) fecero il possibile affinché l’egemonia di Carlo non divenisse assoluta. Le cose cambiarono quando il soglio di Pietro fu occupato da Martino IV (1281-1285), di origine francese, che restituí per intero all’angioino il favore pontificio, al pari dei successori Onorio IV e Niccolò IV. Quest’ultimo fu scelto come papa il 15 febbraio 1288 e rimase in carica fino al giorno al giorno della sua morte, il 4 aprile 1292. Primo pontefice dell’Ordine francescano e sostenitore di una politica filoangioina, soggiornò nella Valle Santa fra il 1288 e il 1289. Il trasferimento della curia da Roma a Rieti fu tra i suoi primi atti di governo. La presenza in città della curia pontificia rese necessaria anche la costruzione del Palazzo Papale, edificato tra il 1283 e il 1288 a fianco del Duomo. In questo contesto, il 16 maggio 1288, giorno di Pentecoste, Niccolò IV nominò sei cardinali che impegnò a lavorare alle questioni piú urgenti che assillavano l’amministrazione dello Stato della Chiesa: Berardo Berardi, vescovo di Palestri-

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Dossier

In alto la basilica inferiore della cattedrale reatina, che nel 1606 fu assegnata alla Venerabile Compagnia delle Stimmate di San Francesco, perché assolvesse al pietoso compito dell’assistenza ai moribondi e dell’ufficio di sepoltura. A sinistra case medievali inglobate nella cinta muraria della città.

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na seguí le vicende del Regno di Sicilia; Pietro Colonna ebbe l’incarico di fare da paciere a Roma; Benedetto Caetani (futuro papa Bonifacio VIII) e Matteo Rosso Orsini avevano il compito di pacificare Perugia. Fra i nuovi cardinali c’erano anche Matteo d’Acquasparta, allora ministro generale dei Francescani e il colto lector domenicano Ugo De Billon di Alvernia. Ultimo atto che vide Rieti protagonista sotto papa Nicolò IV fu l’innalzamento al trono, il 29 maggio 1289 di Carlo II d’Angiò, figlio di Carlo I d’Angiò e fratello del Re di Francia Luigi IX il Santo, incoronato Re di Puglia, di Sicilia e di Gerusalemme (vedi box alle pp. 96-97). Carlo riconobbe in cambio la sovranità del papa.

Il dilemma angioino

In linea teorica gli Angiò, in quanto re di Napoli, erano vassalli della Santa Sede; tuttavia, Carlo I si era assunto anche il compito politico di difensore dell’autorità pontificia contro il «pericolo» ghibellino, e la sua protezione si era gradualmente trasformata in ricatto, man mano che, nel corso degli Anni Settanta del secolo – mentre l’impero era preda di un lungo interregno –, si andava chiarendo a tutti che tale pericolo, tutto sommato, non esisteva piú e che il re di Napoli si serviva della sua influenza sul papato per portare avanti i propri disegni politici. Tra il 1266 e il 1294, l’alternarsi sul soglio pontificio di papi «filoangioini» e «antiangioini» mostrò con chiarezza quanto profondo fosse, nella gerarchia ecclesiastica, il disorientamento dovuto a questo progressivo assoggettamento del papato (che fra l’XI e il XIII secolo tanto aveva fatto per liberarsi dall’egemonia dell’impero germanico) alla politica franco-angioina. Papa Niccolò IV era morto nel 1292, e da due anni il conclave non riusciva a nominare un suo successore. Il collegio cardinalizio era

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infatti lacerato tra i fautori della monarchia angioina e gli avversari di questa, e nessuna delle due fazioni intendeva cedere all’altra. Un eremita abruzzese, Pietro da Morrone, il quale da molti decenni aveva fondato sulla Maiella una comunità religiosa dedita al piú severo ascetismo, profetizzò allora che gravi sciagure si sarebbero abbattute sulla Chiesa se la crisi non si fosse risolta. Era tanta l’autorità morale dell’eremita, che il conclave rispose eleggendolo papa il 5 luglio 1294. Quella scelta parve avviare una fase di autentico rinnovamento della Chiesa: ne furono entusiasti soprattutto i Francescani «spirituali», come il poeta Iacopone da Todi. L’esperimento pontificio di Pietro da Morrone, che aveva assunto il nome di Celestino V, si rivelò a ogni modo fallimentare. Il nuovo papa non aveva alcuna competenza, né teologica, né politica, né giuridica. In un primo tempo si lasciò irretire dai cardinali fedeli a Carlo II d’Angiò, che cercava di sfruttarne il nome (in quanto Celestino era per nascita suo suddito) per i propri disegni; quindi fu costretto dai prelati dell’opposta fazione ad abbandonare la tiara. Fu allora (dicembre 1294) che al soglio pontificio poté ascendere il cardinale Caetani, il quale assunse il nome di Bonifacio VIII. I suoi avversari dissero poi che egli aveva fatto di tutto, e con ogni mezzo, per indurre Celestino ad abdicare; in ogni caso, è certo che egli lo confinò nel castello di Fumone, dove l’eremita abruzzese si spense nel 1296. Grande aristocratico, giurista e canonista di profonda competenza, dotato di un alto concetto dell’autorità papale e di se stesso, Bonifacio VIII si accinse a un compito arduo. Il potere del pontefice era oggetto di contestazione nella stessa Roma e nei territori del Patrimonio di san Pietro, e lí si doveva rafforzarlo; era oggetto di critiche e di passioni politiche nell’Italia divisa tra guelfi e ghibellini, e lí bisognava appoggia-

re i primi, senza tuttavia consentire che ciò andasse a vantaggio esclusivo degli Angioini. Nel contempo, era necessario risolvere la crisi della Sicilia, contesa tra Angioini e Aragonesi, riaffermando l’alta sovranità papale sull’isola; infine, era necessario riprendere il programma di Innocenzo III, che consisteva nell’affermare l’egemonia della monarchia papale su quelle terrene.

Caetani contro Colonna

A Roma e nell’entroterra romano, i grandi avversari di Bonifacio erano i Colonna; alla potente famiglia – che contava anche alcuni cardinali e che propugnava l’invalidità dell’elezione papale di Bonifacio in quanto irregolare – si erano appoggiati i Francescani «spirituali», che nel nuovo pontefice identificavano il piú aspro nemico della loro vocazione alla povertà e al rifiuto del potere. Giacomo e Pietro Colonna si erano opposti all’ascesa di Bonifacio sul soglio di Pietro: sostenevano che la sua elezione doveva ritenersi illegittima poiché non doveva essere considerata valida l’abdicazione di Celestino V. La loro posizione, che poteva preludere a uno scisma, era appoggiata, come detto, dai Francescani spirituali e anche dai Celestini. Con il Manifesto di Lunghezza, dichiararono il papa decaduto e invitarono i fedeli a non portargli piú obbedienza. La reazione di Bonifacio fu durissima: con la bolla In excelso throno del 10 maggio 1297, i due cardinali furono destituiti. Pochi giorni dopo, il papa promulgò la bolla Lapis Abscissus, con la quale i due vennero scomunicati. I beni della famiglia furono confiscati. I Colonna speravano nell’aiuto del re di Francia, ma Filippo il Bello, impegnato in una trattativa con il papa per risolvere il grave problema dei tributi agli ecclesiastici in Francia, non poteva rompere con Caetani. Ma Bonifacio VIII batté i Colonna bandendo una vera e propria

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Dossier Cronologia 1171 Prima menzione dei consoli di Rieti. La città si proclama libero Comune. 1178 Un privilegio di Federico Barbarossa conferma il governo comunale. L’atto viene rogato nella cattedrale davanti al vescovo, ai canonici, ai consoli, a 43 testimoni e a «molti altri che udirono e videro». 1185 A Rieti, prima città oltre il confine del Regno di Sicilia, il 23 agosto si celebra per procura il matrimonio tra Enrico VI e Costanza di Altavilla, figlia di Ruggero II. Una delegazione imperiale accoglie Costanza in rappresentanza dello sposo, trattenuto in Germania, per i funerali della madre. Il matrimonio verrà poi ripetuto in forma solenne a Milano, in S. Ambrogio, il 27 gennaio 1186. 1198 La città fa un formale atto di omaggio a Innocenzo III. 1208 Secondo la tradizione delle Fonti Francescane, in autunno Francesco d’Assisi arriva a Poggio Bustone, accompagnato dai suoi primi seguaci. 1219 Papa Onorio III si trasferisce a Rieti, tre anni dopo la sua elezione. 1223 Francesco d’Assisi a Fonte Colombo detta a frate Leone e a frate Bonizio la nuova e definitiva Regola francescana. Il giorno di Natale a Greccio per la prima volta viene rappresentato il presepe. 1225 Onorio III si trasferisce per la seconda volta a Rieti: il 9 settembre il papa consacra la cattedrale cittadina alla Beata Vergine Maria. 1226 Francesco d’Assisi torna a Rieti per sottoporsi a una dolorosa quanto inutile operazione chirurgica al nervo ottico. Per sfuggire la folla che vuole festeggiarlo si isola alla periferia della città nella piccola chiesa di S. Fabiano. Viene operato a Fonte Colombo con un ferro rovente applicato tra l’orecchio e il sopracciglio. 1227 Gregorio IX giunge a Rieti nel primo anno del suo pontificato. 1232 Alla presenza del papa, si svolge in città il Capitolo Generale dei Francescani, che elegge frate Elia come ministro dell’Ordine. 1233 Gregorio IX suggerisce a Federico II di sposare Isabella d’Inghilterra. Il matrimonio verrà celebrato l’anno successivo (15 luglio 1234). 1234 A Rieti, nel giugno del 1234, Gregorio IX incontra Federico II di Svevia e stringe con lui un patto di alleanza che durerà per cinque anni. Il 3 luglio il papa proclama santo Domenico di Guzmán. Il fondatore dell’Ordine dei Frati Predicatori era già stato ascritto nell’albo dei santi, sempre a Rieti, il 2 maggio, con la bolla Fons sapientiae.

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Il 5 luglio il papa suggella l’alleanza con l’imperatore, scomunicando come eretico Enrico VII, il figlio primogenito di Federico II che si era ribellato all’autorità paterna. Il 3 agosto, con la Bolla d’oro di Rieti (Pietati proximum) il papa conferma all’Ordine Teutonico la sovranità sui territori prussiani già conquistati e su quelli di futura annessione a est del corso inferiore della Vistola e riconosce la sottomissione dell’Ordine alla sola autorità pontificia. 1241 La città viene attaccata da Federico II di Svevia. L’imperatore, acquartierato a Terni, assedia il Patrimonium sancti Petri, seminando morte e distruzione. 1245 Per ordine di papa Innocenzo IV, con apposita bolla pontificia, viene eretta la chiesa di S. Francesco, la seconda in ordine cronologico dedicata al culto del santo dopo l’omonima basilica di Assisi. 1252 Iniziano i lavori della imponente cinta muraria cittadina che verrà completata intorno al 1320. 1253 Viene ultimata la costruzione del campanile della cattedrale a opera dei maestri lombardi Pietro, Andrea ed Enrico. 1283 Iniziano i lavori del Palatium Domini Papæ, progettato dall’architetto Andrea magister. 1288 Il 13 maggio fa il suo ingresso a Rieti Niccolò IV, il primo papa francescano. Il 16 dello stesso mese, gennaio

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nel giorno di Pentecoste, il pontefice consacra sei nuovi cardinali. 1289 Il 29 maggio, la mattina del giorno della Pentecoste, papa Niccolò IV incorona Carlo II d’Angiò re di Sicilia e di Gerusalemme e la moglie Maria d’Ungheria regina. Lo stesso giorno, nella chiesa di S. Francesco, si celebra il capitolo generale dei Francescani: viene eletto ministro generale dell’Ordine lo spirituale fra Raymond de Gaufredi, esponente dell’aristocrazia provenzale e amico della famiglia d’Angiò. 1292 Alla metà di agosto, per sfuggire a un’epidemia di peste, quattro cardinali non romani (il francese Ugo Séguin, Matteo d’Acquasparta, Gerardo Bianchi da Parma e il milanese Pietro Peregrossi) abbandonano il collegio romano, diviso sull’elezione del nuovo papa, e si rifugiano a Rieti. 1298 Nel mese di settembre il Palazzo Papale di Rieti è teatro della clamorosa umiliazione pubblica dei cardinali Giacomo e Pietro Colonna. Il 1° dicembre un terremoto devasta la città, causando molti morti e feriti. Bonifacio VIII, che stava celebrando messa, fugge dal duomo con addosso i paramenti sacri e si rifugia in una tenda da campo, allestita nel chiostro del convento dei Domenicani. Dopo il sisma, il papa promuove la costruzione dell’Arco di Bonifacio, a sostegno del vicino Palazzo Papale.

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crociata contro di loro. Rieti fu testimone di un celebre episodio nella guerra che oppose Benedetto Caetani alla famiglia dei Colonna. Nel settembre 1298 il Palazzo Papale di Rieti fu il luogo della clamorosa umiliazione pubblica dei cardinali Giacomo e Pietro Colonna. I due alti prelati della nobile famiglia romana si presentarono al cospetto di papa Bonifacio VIII nelle vesti di umili penitenti, a piedi nudi, con la corda al collo, la testa scoperta e in abiti da lutto. I due implorarono Bonifacio VIII e si sottomisero alla sua autorità. Il pontefice accordò il perdono, ma pretese che i cardinali restituissero i loro sigilli, che furono distrutti. Tutta la famiglia Colonna fu inviata a Tivoli, in soggiorno obbligato. Palestrina, roccaforte dei Colonna, passò tra i possedimenti del papa e nella primavera dell’anno successivo (1299) la città fu rasa al suolo. I beni dei Colonna vennero confiscati e i due porporati costretti all’esilio in Francia. Atterrito dal forte terremoto che ha colpito Rieti mentre era intento a dire messa in cattedrale, Bonifacio VIII si rifugia nel convento dei Domenicani: cosí Vincenzo Manenti immaginò l’episodio nel ciclo da lui affrescato nel Seicento e oggi conservato nel Museo Civico di Rieti.

Bonifacio in fuga

Due mesi dopo l’umiliazione dei Colonna, secondo i resoconti di Giovanni Villani, Bernardo Gui e altre cronache medievali, Rieti fu colpita da un fortissimo terremoto. La scossa principale si verificò il 1° dicembre 1298, preceduta e seguita da un intenso sciame sismico. Le cronache del tempo riportano che, al momento della scossa piú forte papa Bonifacio VIII stesse celebrando messa in cattedrale. Preso dal panico, fuggí con addosso i paramenti sacri e si rifugiò in una tenda da campo, allestita nel chiostro del vicino convento dei Domenicani. Molte case crollarono e ci furono numerose vittime. Le scosse si protrassero per sei mesi. Bonifacio VIII promosse allora una serie di interventi per la ricostruzione della città, ordinando l’innalzamento di un arco, a sostegno del Palazzo Papale, sia a consolidamento dell’edificio, sia come

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Dossier A destra uno scorcio di S. Agostino, di cui si ha notizia dal 1252. La chiesa venne fondata dagli Agostiniani, una comunità facente parte degli Ordini Mendicanti. In basso la decorazione di una delle absidi laterali della chiesa di S. Agostino.

simbolo della superiorità del potere religioso. Sull’Arco di Bonifacio, che si appoggia al Palazzo Vescovile e scavalca con una doppia volta a crociera la centralissima via Cintia, sono ancora murati a bassorilievo gli stemmi di Bonifacio VIII e della famiglia Caetani. Potrebbero essere letti come i segni della debolezza e della forza del papato alla fine del Duecento, come mostrò di lí a poco lo scontro con il re di Francia Filippo IV il Bello. Il sovrano era ben deciso a combattere la presenza politica ed economica

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della Chiesa nel suo regno con l’appoggio dei suoi funzionari che avevano elaborato per lui una serie di tesi politiche «regalistiche». L’essenza del regalismo – che conobbe sviluppi ulteriori nel pensiero politico dell’età comunale, quindi in quello europeo cinque-settecentesco – è in sintesi racchiusa nella celebre massima «Rex superiorem non recognoscit, et imperator est rex in territorio suo» («Il re non riconosce superiori, e il re è imperatore nel suo regno»). Rompendo definitivamente con la tradizione, corroborata dalle rivisitazioni

del diritto romano dei secoli XII-XIII – che voleva la cristianità riunita in un solo corpo socio-politico –, il regalismo affermava che i re non riconoscono alcuna autorità terrena superiore alla loro: non quella dell’imperatore romano-germanico e neppure quella del pontefice. I poteri imperiali, cioè le prerogative che dell’imperatore facevano la fonte unica del diritto e che a lui attribuivano la plenitudo potestatis, sarebbero appartenuti in effetti al re solo all’interno del territorio del suo regno. In questo modo, si metteva fine definitivamente all’afflato ecumenico del pensiero politico medievale e ci si avviava alla concezione moderna che avrebbe originato lo Stato assoluto. Gli eventi che seguirono, dalle bolle pontificie Ausculta fili e Unam Sanctam, nelle quali si ribadiva il diritto della Chiesa a godere di speciali prerogative e si fondava una vera e propria teoria generale del diritto dei pontefici a porre il loro primato su qualunque potere della terra, alla risposta militare di Filippo che costringeva Bonifacio all’umiliazione e all’esilio, si possono considerare gli atti conclusivi della teocrazia pontificia. Franco Cardini gennaio

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LA PIANA DELLA PREDICAZIONE ITINERANTE

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a città di Rieti e la sua valle hanno giocato un ruolo importante nella vita di san Francesco e nell’evolvere della sua esperienza spirituale. L’esegesi delle fonti francescane delle origini è molto complessa per il continuo intrecciarsi di verità e di mito e per il frequente contrapporsi delle testimonianze dei suoi compagni delle origini – nos qui cum eo fuimus («noi, che fummo con lui») – alle «vite» dei suoi biografi ufficiali. A livello locale, la straordinarietà della figura di Francesco ha poi stimolato il germogliare e il fiorire di tante tradizioni pie, che si sono arricchite nel tempo mescolando realtà e leggenda senza che sia facile distinguere e separare i due livelli. Secondo una tradizione consolidata, ma fragile, san Francesco sarebbe giunto per la prima volta nella conca reatina, nel 1208 o 1209, a Poggio Bustone. Da qui, con i suoi compagni, avrebbe quindi esplorato l’intera valle, sostando in luoghi contraddistinti dalla solitudine, dal rigoglio della natura, dalle rocce, perfezionando cosí l’esperienza eremitica. Le nude rocce e gli anfratti naturali, appunto, una caratteristica che contraddistinse i primi ripari, tutt’al piú protetti da semplici strutture lignee e da incannucciate, segno di assoluta povertà, di luogo di meditazione e di vicinanza a Dio. La presenza francescana si diffuse rapidamente nella conca reatina con altri due eremi: quelli di Greccio e di Fonte Colombo, prediletti ambedue dal santo assisiate.

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Una veduta panoramica della conca reatina, con, in primo piano, sulla destra, la cittadina di Poggio Bustone.

Da quei primi nuclei i Francescani si irradiarono nell’intero territorio diocesano, con l’attestazione complessiva di ben diciannove loca: una trama molto fitta di poveri insediamenti, diffusi lungo i principali assi viari dell’epoca, un terzo dei quali erano già scomparsi nei primi decenni del secolo XIV. Questi loca mostrano una articolazione molto complessa, frutto di scelte meditate e non certo di una casuale disposizione, in un’area nella quale la presenza di san Francesco, dunque, non fu episodica, ma ebbe anzi un ruolo di notevole centralità.

Una lunga tradizione

L’idea di Francesco di rappresentare visivamente il Natale del 1223 attraverso il semplice uso di una mangiatoia colma di fieno, di un bue e di un asino costituí una forte riproposizione del suo grandioso progetto ecumenico. La consuetudine di rappresentare il presepio, come rievocazione della nascita di Gesú Bambino a Betlemme, aveva una lunga tradizione a Roma, probabilmente già dal V secolo. Ma Francesco, in quella notte illuminata dalle fiaccole e dalle torce dei convenuti, compí una predica di straordinario vigore e di profonda spiritualità, raffrontando Greccio a Betlemme e insistendo sulla necessità che il Bambino rivivesse nella coscienza di ciascuno, senza

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Dossier Il presepe di Greccio, scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.

la necessità di riscontri materiali e che fosse necessario vivere una vita ispirata ai valori originali dettati da Gesú. Un cammino, dunque, in alcuni casi tortuoso, ma di grande stimolo per comprendere la spiritualità che animò in forma cosí veemente l’Assisiate. Un uomo che amava in modo profondo la povertà senza mai disgiungerla, però, dalla letizia. Una povertà volontaria e rigorosa che, nelle intenzioni del santo, avrebbe dovuto rendere i frati immuni dalle tentazioni del mondo, dalla sete di potere e di possesso. Una povertà che permetteva di essere liberi sia fisicamente, viaggiando molto, sia spiritualmente nell’interpretare nel concreto i principi ispiratori del Vangelo. Resta da comprendere se la straordinaria diffusione di loca nel Reatino, non riscontrabile altrove, sia dovuta

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allo slancio semplice dei primi seguaci o abbia piuttosto ricevuto impulso dallo stesso san Francesco, il quale, nella logica della «gerarchia dell’esempio», aveva in animo di sperimentare, in un’area abbastanza ristretta dell’Appennino centrale, un modello di propagazione dello spazio minoritico, seguendo l’esempio da lui tracciato degli habitacula paupercola, della predicazione itinerante. È quasi impossibile risolvere tale questione in modo esauriente ed esaustivo, ma non credo di essere molto lontano dalla realtà se propendo per la seconda ipotesi, che emerge dalle nebbie della palude reatina del pieno Medioevo, suggestiva se si vuole, ma perfettamente in linea con il pensiero e l’azione di un uomo cosí straordinario, come lo è stato Francesco. Tersilio Leggio gennaio

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FRANCESCO È QUI

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a valle del primo Presepe. Il luogo dove trovò forma la Regola dell’Ordine francescano. E poi il viaggio, straziante, per affrontare una disperata quanto inutile e dolorosa operazione agli occhi. La conca reatina accolse Francesco d’Assisi in tre momenti decisivi della sua vita. A partire da quel primo viaggio a Poggio Bustone per cui dobbiamo affidarci a una unica fonte, quella di Tommaso da Celano (Vita del beato Francesco). Il paese era allora tra i possedimenti dell’abbazia di Farfa. Francesco aveva 27 anni. Arrivò accompagnato da un piccolo gruppo di giovani «frati», forse tra l’autunno del 1208 e i primi mesi del 1209. Un anno prima che Innocenzo III, dopo aver fatto attendere per quasi tre mesi Francesco e i suoi compagni fuori dalla sua residenza del Palazzo Laterano, approvasse la prima e perduta Regola di quella originale fraternità di laici che voleva predicare il messaggio di Cristo nelle piazze, alle feste, nei mercati. Francesco ricorderà quei

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giorni nel suo Testamento: «Lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere a norma del Santo Vangelo. E feci scrivere questo con poche e semplici parole, e il signor Papa me lo confermò».

Un’altra immagine del santuario di Greccio (Rieti), che permette di apprezzare meglio l’affresco raffigurante il Presepio di Greccio e la Natività di Betlemme, con la Vergine che allatta il Bambino Gesú.

Da cavaliere a eremita

medievali del perdono. È il superamento della cultura della guerra, di ogni forma di manicheismo, della categoria stessa del «nemico»: una vera e propria rivoluzione culturale nell’età aspra delle guerre politiche e religiose di una Chiesa teocratica, in un mondo in cui ogni città grande e piccola è lacerata da conflitti permanenti. Cosí il Vangelo sostituisce la spada. E il male si può vincere soltanto con il bene. In quello stesso anno, a Béziers, nel Mezzogiorno francese, il legato pontificio Arnaldo Almarico ordinava il «castigo divino» contro i catari: «Massacrateli tutti, perché il Signore conosce i suoi...». Un bagno di sangue: vennero uccise piú di ventimila persone. Come accadde nell’incontro con il lebbroso, Poggio Bustone segnò un punto di non ritorno nella straordinaria vicenda religiosa e umana

Sull’alto eremo ai margini della valle reatina, si inabissò nella meditazione. Pensava alla sua vita precedente, ai peccati di quando, da spensierato «re dei conviti», sperperava il denaro paterno, ai suoi sogni di cavaliere e ai giorni lontani dedicati alla guerra e al mestiere delle armi. Ma nella spelonca di una gola del monte Rosato, ebbe la certezza che tutti i suoi peccati erano stati perdonati. Proprio a Poggio Bustone dopo un periodo di silenzio, preghiera e penitenza, Francesco incontrò il «volto della Misericordia del Padre». Comprese il suo destino: vivere, alla lettera, il messaggio di Cristo. Ripeté, ai suoi fratelli, le parole di Luca: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso». La scoperta della gratuità assoluta dell’amore di Dio mette in discussione, alla radice, gli schemi

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Dossier di Francesco. La fede non ha valore senza l’esperienza della misericordia, senza l’amore gratuito e disinteressato verso gli altri. Tradizione vuole che proprio lí nascesse il saluto «Bono jorno, bona gente!». Cosí, da allora, i frati iniziarono ad andare, a due a due, in giro per le terre reatine e del mondo, annunciando il messaggio di Cristo. Quindici anni piú tardi, nell’estate del 1223, Francesco tornò nella Valle Santa, sul Monte Rainiero. Ubertino da Casale, nel suo Arbor vitae crucifixae Iesu, scritto nel 1305 nell’esilio della Verna, per indicare

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con esattezza il luogo, cita una testimonianza di frate Leone: «Prope Reate ubi dicitur Fons Columbe». Gli agiografi attribuirono il nome dell’eremo, Fons columbarum, allo stesso Francesco per via di una fonte posta ai piedi dell’altura dove il santo aveva visto abbeverarsi delle piccole colombe. Era stanco e provato per un doloroso tracoma agli occhi, una congiuntivite cronica da parassita, che aveva contratto con ogni probabilità nel 1219 durante il suo viaggio in Terra Santa. Nell’eremo alle porte di Rieti Francesco dettò la terza Regola per i

suoi frati. La prima, quella composta da semplici versetti del Vangelo e approvata solo verbalmente da papa Innocenzo III, era andata perduta. L’Assisiate non aveva mai concepito per il piccolo gruppo dei suoi primi seguaci una Regola vera e propria: la sua fraternitas non prevedeva un Ordine, né evoluzione in religio. Anche la seconda Regola del 1221, come la prima, esortava a seguire il Vangelo alla lettera. Ma non era «bullata», non aveva avuto l’approvazione del papa. Tra l’altro, già nel concilio di Perugia del 1215, Innocenzo III aveva proibito la fondazione di nuovi

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Greccio. Veduta del santuario del Presepe. Qui, nella notte del Natale del 1223, san Francesco avrebbe messo in scena la Natività con personaggi viventi. Il nucleo primitivo del complesso risale agli anni in cui vi dimorò l’Assisiate.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

In alto il santuario di Fonte Colombo, dove, nel 1221, Francesco dettò la Regola dell’Ordine bollata da Onorio III.

Ordini. Tanto che san Domenico, contemporaneo di Francesco, aveva scelto per i suoi Predicatori la Regola di sant’Agostino. La Regola «non bullata» era stata pensata per un piccolo numero di frati e fissava poche norme generali, ma a molti compagni del santo già pareva troppo impegnativa. Francesco visse con grande sofferenza le prime fratture con la sua comunità: non voleva allargare il suo movimento e rinunciò anche alla guida dell’Ordine. In pochi anni, il numero dei frati era cresciuto a dismisura: uomini piú «comuni», distanti dalla tempra virtuosa dei Francescani della prima ora, votati, sull’esempio del frate di Assisi all’amore per «Madonna Povertà». I primi seguaci di Francesco camminavano a piedi nudi e frequentavano i lebbrosari. Lavoravano senza chiedere de-

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naro in cambio. Vivevano lontani dalle città e dai centri del potere. Imitavano Cristo e il suo messaggio, alla lettera. Un esempio difficile da seguire per i tanti che vennero dopo di loro.

La terza Regola

La redazione della terza Regola che a Fonte Colombo Francesco dettò a frate Leone e a frate Bonizio di Bologna, «che si intendeva un po’ di buone lettere», visse momenti drammatici. Nell’eremo reatino arrivarono anche una quarantina di confratelli a protestare perché temevano altre restrizioni. Il cardinale Ugolino di Anagni, il futuro papa Gregorio IX – che lo stesso Francesco aveva voluto come protettore dell’Ordine dei suoi frati – corresse alcuni aspetti del documento, stemperò il rigore di Francesco e diede una forma giuridica al testo, che venne infine diviso in 12 capitoli. La nuova Regola attenuava la proibizione di chiedere denaro e l’obbligo del lavoro come testimo-

nianza di vita apostolica. Stemperava il divieto di avere proprietà e permetteva ai frati anche di possedere delle case da adibire alla formazione dei novizi. Francesco, comunque provato, si sottomise al faticoso compromesso per «santa obbedienza». L’approvazione definitiva della Regola arrivò da papa Onorio III il 29 novembre 1223 con la bolla Solet annuere. Un mese dopo, poco lontano da Fonte Colombo, nel povero paese di Greccio, Francesco venne invitato a festeggiare il Natale da Giovanni Velita, il signore del villaggio fortificato. Tommaso da Celano tramanda il desiderio di Francesco che disse al suo amico: «Precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei rappresentare il Bambino nato a Betlemme, e in qualche modo vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato, come fu adagiato su una greppia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello». Quella notte di Natale del 1223, gennaio

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lori lancinanti. Spinto da frate Elia, il primo ministro dell’Ordine, si era convinto a lasciarsi operare da un medico della corte papale. Quattro fedeli discepoli – Leone, Bernardo, Angelo e Masseo – lo accompagnarono nell’ultimo viaggio nella valle reatina. Ma giunto alla periferia di Rieti e avuto sentore delle manifestazioni di entusiasmo che la popolazione voleva tributargli, decise di fermarsi su un colle a meno di cinque chilometri dalla città e di chiedere l’ospitalità al povero prete secolare della chiesetta di S. Fabiano, nel luogo che oggi è conosciuto come S. Maria della Foresta. I Reatini, però, scoprirono presto il suo rifugio e accorsero numerosi intorno alla chiesina. Tanto che, secondo gli agiografi, anche la vigna venne saccheggiata: «L’uva chi la coglieva e chi la mangiava, chi la portava via, chi la calpestava, per cui su un’erta a 700 m di altezza, tra le rocce, le acque e un fitto bosco di elci, nacque il primo presepe. L’umile castrum apparve ai poveri abitanti del luogo come la nuova Betlemme: un bambino che nasce in una stalla perché tutti hanno rifiutato un ricovero a una giovane madre incinta. Con la prima, sacra rappresentazione della nascita di Cristo, umile tra gli umili, il Natale e l’incarnazione perdono ogni carattere di liturgia astratta e simbolica: c’è un Dio umano e vicino alle creature della terra, che si fa uomo con gli uomini per condividerne i dolori e le gioie. Non a caso, dopo la morte del santo, i suoi primi compagni si ritirarono proprio nell’eremo di Greccio.

Gli ultimi mesi

Francesco tornò a Rieti, per la terza e ultima volta, nel settembre 1225, e vi rimase fino all’inizio del 1226. Era ormai quasi cieco: gli occhi, soprattutto il sinistro, lacrimavano senza sosta e gli provocavano do-

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il sacerdote fortemente si turbava, ripetendo: “Per quest’anno la mia vigna è perduta”». I Fioretti tramandano però la storia per cui, grazie alla preghiera di Francesco, il prete poté comunque raccogliere l’uva e farne in abbondanza ottimo vino. Per l’operazione agli occhi, Francesco tornò a Fonte Colombo e affrontò lo spaventoso rimedio del ferro rovente. Il medico di fiducia del cardinale Ugolino volle cauterizzare il volto del frate dalla mascella fino al sopracciglio. I frati fuggirono inorriditi di fronte alla violenza del rimedio. Francesco per vincere la paura parlò a «fratello foco»: «Sii cortese con me in quest’ora...». L’operazione, simile a una tortura, portò molto dolore ma nessun beneficio. Francesco lasciò Rieti in preda ad atroci sofferenze. Morí un anno piú tardi, ad Assisi, il 3 ottobre 1226. Federico Fioravanti

Dall’alto in basso santuario di Fonte Colombo: la Cappella della Maddalena e la Cappella di S. Michele Arcangelo.


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GLI AFFRESCHI DELLA CHIESA DI S. FRANCESCO

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a presenza dei Frati Minori è documentata a Rieti fin dal primo quarto del XIII secolo, quando, tra il 1219 e il 1225, Francesco d’Assisi vi frequentava la curia di papa Onorio III, e, in particolare, il cardinale ostiense Ugolino dei Conti di Segni, il futuro pontefice Gregorio IX. Questi, nel 1228, canonizzò il suo protetto, prediligendo gli eremi di Fonte Colombo, Greccio e Poggio Bustone, che dai contrafforti dei monti cingevano la valle. La tradizione vuole che in città il santo, schivando l’ospitalità offertagli dal papa nel Palazzo Vescovile, preferisse risiedere presso l’hospitale di Santa Croce, costru-

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ito in un’area periferica delimitata dalla riva destra del Velino, al di là della Porta Romana. Non distante dal sito scelto per l’Ordine dei Frati Minori, all’interno dell’antica cerchia delle mura romane, si trovavano le cospicue dimore di Tebaldo Saraceno, rammentato nella Legenda Perusina (1571, 24), e di Angelo Tancredi, cadetto del nobile Tancredo, annoverato tra i primi dodici compagni di Francesco d’Assisi. La comunità francescana è documentata presso la chiesa e il convento di S. Francesco fin dal 1245, quando il 15 settembre papa Innocenzo IV concesse l’indulgenza ai fedeli che avessero contribuito alla fabbrica, gennaio

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Nella pagina accanto la facciata della chiesa reatina di S. Francesco. A destra Guarigione del malato di Lerida, affresco facente parte del ciclo dipinto nella chiesa di S. Francesco a Rieti da un anonimo artista legato alla tradizione romana. Inizi del XIV sec. Rieti, Museo Diocesano.

sovvenendo alle necessità materiali dei frati. Inaugurando una tradizione rimasta immutata nei secoli a venire, il Consiglio comunale vi si riuní il 28 maggio 1253 per procedere all’assegnazione delle cariche per l’anno seguente. In questo breve torno d’anni, la costruzione doveva essere stata completata almeno nelle sue forme architettoniche.

Un artista senza nome

Ben presto, seguí la decorazione delle pareti dell’aula basilicale, che ancora oggi restituiscono importanti lacerti delle pitture originali. Tra questi, merita particolare attenzione il ciclo pittorico dedicato alle Storie della vita di San Francesco, compiuto nel coro agli albori del XIV secolo da un anonimo artista legato alla tradizione romana, capace di declinare nel lessico della bottega dei Cavallini le scene salienti interpretate da Giotto presso la Chiesa Superiore della basilica francescana di Assisi. Il registro inferiore di questo importante ciclo di affreschi, irrimediabilmente lesionato, quando, nel 1635, il piano di calpestio della basilica venne rialzato per li-

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A sinistra affresco raffigurante un angelo che porta il turibolo, facente parte anch’esso del ciclo dipinto nella chiesa di S. Francesco a Rieti. Inizi del XIV sec. Rieti, Museo Diocesano.

mitare i danni delle frequenti esondazioni del Velino, fu casualmente riscoperto nella seconda metà del XX secolo. Le scene salienti – dal Sogno di papa Innocenzo III alla Liberazione del vescovo Pietro dal carcere, dalla Guarigione del malato di Lerida al Miracolo del presepe di Greccio – furono in seguito staccate, riportate su tela a cura della Soprintendenza per i Beni Artistici del Lazio e sono tuttora conservate presso la Pinacoteca Diocesana di Rieti. Alla fine del maggio 1289, alla presenza di papa Niccolò IV e di Carlo II d’Angiò, dopo la solenne incoronazione che lo riconosceva sovrano del Regno di Sicilia e di Gerusalemme, la basilica di S. Francesco ospitò il Capitolo Generale dell’Ordine che elesse ministro il provenzale Raymond de Gaufredi. La parete terminale del transetto a cornu Epistulæ conserva memoria della devozione per i santi angioini

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Dossier

Ancora due affreschi dalla chiesa di S. Francesco: in alto, Liberazione del vescovo Pietro dal carcere; in basso, Miracolo del presepe di Greccio. Inizi del XIV sec. Rieti, Museo Diocesano.

nella bella immagine di Ludovico da Tolosa, canonizzato da papa Giovanni XXII nel 1317, ancora replicata nella quarta decade del Seicento dall’artista sabino Vincenzo Manenti nella lunetta giustapposta all’antico portale romanico-gotico aperto sul sagrato della basilica che dal Duecento dette il nome di San Francesco al popoloso rione affacciato sulle acque limpide e insidiose del Velino.

Trasformazioni radicali

La basilica annessa al convento di S. Francesco non sfuggí all’adeguamento liturgico post-tridentino, ma le trasformazioni piú radicali ebbero luogo tra il XVII e il XVIII secolo, con l’intervento di bonifica già ram-

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mentato e, piú tardi, per risarcire gli ingenti danni provocati dai terremoti dell’anno 1703, che costrinsero i frati a cercare rifugio su baracche di fortuna allestite sull’argine del fiume. Un sistematico intervento di consolidamento delle strutture architettoniche e di restauro delle emergenze artistiche destinate a rivelare quanto rimane dell’assetto medievale della basilica francescana è stato recentemente avviato dalla Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio del Lazio, con il benestare del FEC, dei Frati Minori della Provincia San Bonaventura e della Diocesi reatina. Ileana Tozzi gennaio

MEDIOEVO



CALEIDO SCOPIO

Il mondo senza finzioni LIBRI • Manfred Sellink ripercorre la parabola di

Pieter Bruegel, maestro fiammingo al quale si devono composizioni di grande originalità e realismo

P

uò forse sorprendere la presenza di Pieter Bruegel fra le pagine di una rivista che tratta di cultura del Medioevo, perché, almeno anagraficamente, il grande artista fiammingo non è certo figlio di quel tempo. Tuttavia, c’è piú di una buona ragione per farlo, la piú evidente delle quali sta proprio nello stile che lo ha reso inconfondibile. Gran parte della produzione di Bruegel, infatti, rifugge dall’idealizzazione estetica alla quale tendevano molti suoi contemporanei e si mostra invece figlia delle composizioni «veriste» e spesso grottesche che connotano molta pittura medievale. Una filiazione non soltanto formale, ma, in piú casi, anche ideologica, come per esempio

appare evidente nelle serie dedicate ai Vizi e alle Virtú, che si muovono nel solco delle opere pensate come strumenti di diffusione dei principi e dei valori della religione.

La parola alle immagini L’autore del volume, che è una delle piú autorevoli voci in materia, presenta l’opera di Bruegel affidandosi innanzitutto alle immagini e dunque dopo un’Introduzione e una breve nota biografica, la produzione dell’artista viene ripercorsa per temi, cogliendo, di volta in volta, gli aspetti che meglio ne esprimono la visione del mondo. Una visione a piú riprese giocosa e umoristica, con sprazzi

Predica di San Giovanni Battista (particolare), olio su tavola di Pieter Bruegel. 1566. Budapest, Szépmüvészeti Múseum.

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Manfred Sellink Nel segno di Bruegel Skira Editore, Milano, 288 pp., ill. col. 45,00 euro ISBN 978-88-572-3953-8 www.skira.net buffi e visionari, che sembrano quasi anticipare – all’occhio dei lettori meno giovani – le invenzioni di Jacovitti, il disegnatore italiano che fece del nonsense uno dei suoi marchi di fabbrica. Al tempo stesso, il disincanto e il rifiuto di immagini auliche fanno della produzione del maestro fiammingo un prezioso spaccato di vita: opere come Combattimento tra il Carnevale e la Quaresima, Nozze di contadini o Danza campestre si propongono oggi come altrettante formidabili istantanee dell’esistenza quotidiana, idealmente riallacciandosi, ancora una volta, a grandi opere del Medioevo, come certi Trionfi della Morte o come il ciclo Allegoria ed Effetti del Buon Governo e della Tirannide di Ambrogio Lorenzetti. Stefano Mammini gennaio

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