Medioevo n. 274 Novembre 2019

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MEDIOEVO n. 274 NOVEMBRE 2019

DEL’OM IC LL B HIN A RA G LE L H GG UN I EN GA DA

EDIO VO M E www.medioevo.it

PUGLIA L’INCANTO DELLE ANTICHE CHIESE INCHIESTA SUL BUON GOVERNO CHIARA FRUGONI RILEGGE IL CAPOLAVORO DI

MALTA NEL REGNO DI CARLO D’ANGIÒ DOSSIER L’ETÀ DEL NEPOTISMO

AMBROGIO LORENZETTI

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IL BUON GOVERNO MALTA ANGIOINA MEDIEVALISMI/8 VICHINGHI ANTICHE CHIESE DELLA PUGLIA DOSSIER NEPOTISMO

Mens. Anno 23 numero 274 Novembre 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

IN EDICOLA IL 1° NOVEMBRE 2019



SOMMARIO

Novembre 2019 ANTEPRIMA

MALTA L’isola di Carlo

IL PROVERBIO DEL MESE Fatto trenta...

L’esercito dei cardinali RESTAURI Magie rupestri

di Andreas M. Steiner 5

COSTUME E SOCIETÀ

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MEDIEVALISMO/8 Vestivamo alla vichinga di Davide Iacono

MOSTRE La regina del ducato Otto santi in Compagnia

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SCOPERTE Altare con sorpresa

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APPUNTAMENTI Aria di festa L’Agenda del Mese

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LUOGHI ARTE DELLE ANTICHE CHIESE/12 Puglia Incanto pugliese di Furio Cappelli

18 30

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STORIE L’INTERVISTA Un capolavoro tra pace e guerra

incontro con Chiara Frugoni, a cura di Furio Cappelli

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CALEIDOSCOPIO

38

LIBRI Fascino animale Lo Scaffale

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MUSICA Il limbo suadente di Johannes

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Dossier NEPOTISMO

Affari di famiglia di Sandro Carocci

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V

MEDIOEVO n. 274 NOVEMBRE 2019

DEL’OM IC LL B HIN A RA G LE L H GG UN I EN GA DA

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PUGLIA L’INCANTO DELLE ANTICHE CHIESE

MALTA NEL REGNO DI CARLO D’ANGIÒ

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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24/10/19 13:11

MEDIOEVO Anno XXIII, n. 274 - novembre 2019 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Sandro Carocci è professore ordinario di storia medievale presso l’Università di Roma «Tor Vergata». Francesco Colotta è giornalista. Davide Iacono è storico del Medioevo. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Tiziano Zaccaria è giornalista. Illustrazioni e immagini: Bridgeman Images: copertina (e pp. 87, 105) – Doc. red.: pp. 5, 70-71, 88, 93, 95, 106, 108-109 – Cortesia L.V. Pubbliche Relazioni-Rigoni, Asiago: pp. 6-11 – Cortesia Ufficio Stampa Museo Poldi Pezzoli-Ufficio Stampa Progetti Culturali Fondazione Bracco: pp. 12-13 – Cortesia Ufficio Stampa Istituzione Bologna Musei: pp. 1415 – Ufficio Stampa-Firenze Musei: p. 16 – Cortesia degli autori: pp. 18,20 – Cortesia Oskar Cecere: p. 38 (alto) – Cortesia Società editrice il Mulino, Bologna: pp. 38 (basso), 38/39, 40-41, 42 (basso), 43, 44 (basso), 46-47 – Mondadori Portfolio: pp. 45, 64 (basso), 68/69; AKG Images: pp. 42 (alto), 44 (alto), 60, 6263, 64 (alto), 92, 98-99, 102/103; Fine Art Images/ Heritage Images: pp. 60/61; Album/Fine Art Images: p. 65; Album/Prisma: pp. 66/67 (alto e basso), 68; The Print Collector/Heritage Images: p. 67 (basso); DeclaBioskop/Album: p. 69; Archivio Quattrone/Antonio Quattrone: pp. 100/101; Erich Lessing/Album: p. 104 – Daniel Cilia: pp. 48-59 – Cortesia Stefano Suozzo: pp. 72/73, 74, 75-85 – DeA Picture Library: A. Dagli Orti: p. 89 – Shutterstock: pp. 90 (alto), 94/95, 96/97, 102 – Marka: Danilo Donadoni: p. 91 – Giorgio Albertini: p. 107 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 74. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina gruppo marmoreo raffigurante Alinorda (prima a sinistra), sorella di papa Clemente VI, e i suoi figli, dal monumento funerario del pontefice scolpito da Pierre Boye. XIV sec. Le Puy-en-Velay, Musee Crozatier.

Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Nel prossimo numero antiche chiese

Palermo. Il segno dei Normanni

natale

Luoghi e tradizioni della festa piú attesa

scoperte

San Luca e il ritratto di Maria


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

L’esercito dei cardinali

L’

espressione «Fatto trenta, si può fare trentuno» indica che, una volta fatta la gran parte di un lavoro, si può andare anche oltre, e si può ultimare. La frase viene attribuita a papa Leone X (1513-1521), Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico. All’età di 38 anni, Giovanni era appena un diacono, pur rivestendo il titolo di cardinale da 24 anni, ma non era ancora stato consacrato sacerdote, né vescovo. Il 9 marzo del 1513, grazie soprattutto all’abilità del suo segretario, Bernardo Dovizi da Bibbiena, Medici fu eletto dal collegio cardinalizio, assumendo il nome di Leone. Papa Medici non proseguí la linea battagliera del suo predecessore, Giulio II, ma seguí piuttosto una politica di pacificazione. Alla vittoria di Francesco I a Marignano (1515), il pontefice rispose dimostrandogli i suoi sentimenti pacifici: furono ampiamente ridimensionate le tensioni fra la casa di Francia e Roma e vennero stilate le prime linee del concordato che doveva regolare le questioni religiose nel regno d’Oltralpe. Nel 1517, il papa si trovò al centro di una congiura, ordita all’interno del Sacro Collegio, ma che fu miracolosamente sventata. Finirono sotto processo ben cinque cardinali e un chirurgo, Battista da Vercelli, che avrebbe dovuto avvelenare il pontefice col pretesto di curarlo da una fistola che lo angustiava. Due furono rilasciati, dietro il pagamento di 25 000 ducati ciascuno. Gli altri tre, rei confessi, furono privati del cardinalato e di tutti i beni: il cardinale Raffaele Riario fu reintegrato a costo di 150 000 fiorini, Bandinello Sauli venne successivamente liberato, Alfonso Petrucci invece morí strangolato in carcere, assieme al suo segretario e al chirurgo complice. Si diffuse un clima di paura e sospetto tra i tredici cardinali rimasti a comporre il Sacro Collegio. Perciò, il 1° luglio del 1517, papa Leone decise di fare la piú numerosa promozione cardinalizia che la storia della Chiesa ricordi: in un solo giorno, creò ben 31 cardinali, scegliendoli tra parenti, amici di indubbia fedeltà e persone di gran cul-

Ritratto di papa Leone X con i cardinali Luigi de’ Rossi e Giulio de’ Medici, olio su tavola di Raffaello. 1518. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina. tura. E, connessa a questo straordinario evento, circolò la diceria che il papa avesse eletto in realtà solo trenta cardinali, ma, accortosi di aver dimenticato un prelato meritevole, avesse appunto esclamato: «Abbiamo fatto trenta, possiamo anche far trentuno!».


ANTE PRIMA

Magie rupestri

RESTAURI • Tornano

a splendere i magnifici affreschi medievali della chiesa materana di S. Giovanni in Monterrone, uno dei monumenti piú importanti della città lucana

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ono ignote – e resteranno probabilmente tali – le mani degli artisti che ricoprirono di magnifiche pitture le pareti rocciose della chiesa materana di S. Giovanni in Monterrone. Ma l’anonimato nulla toglie alla potenza di quelle immagini, restituite alle loro cromie originarie dall’intervento di restauro da poco ultimato e presentato al pubblico nelle scorse settimane. E adesso, varcando la soglia di questo antico tempio, interamente scavato nella pietra della rupe da cui prende nome – il Monterrone, appunto – si viene quasi abbagliati dai colori degli affreschi e si prova una sorta di soggezione incrociando lo sguardo sereno, ma severo, dei personaggi ritratti.

Un complesso imponente Intitolata a san Giovanni Battista, la chiesa era uno dei luoghi di culto piú importanti della Matera medievale e doveva stagliarsi con fattezze assai piú imponenti delle attuali: si deve infatti considerare che anche l’area antistante l’ingresso attuale era parte della struttura e che – come hanno accertato indagini archeologiche condotte negli anni Novanta del secolo scorso – era inoltre caratterizzata dalla presenza di sepolture

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novembre

MEDIOEVO


Nella pagina accanto il promontorio roccioso, popolarmente noto come Monterrone, nel quale è scavata la chiesa di S. Giovanni, della quale, al centro della foto, si vede l’ingresso. A destra uno scorcio dell’interno della chiesa. Da destra, sulla parete, Sant’Andrea, un giovane santo e San Girolamo; nel vano rientrante, in origine adibito a cappella funeraria, San Giacomo Maggiore e San Pietro.

Qui accanto particolare delle pitture raffiguranti San Giacomo Maggiore e San Pietro: in entrambi i casi, si possono vedere sequenze di lettere in caratteri pseudocufici, utilizzate come elemento ornamentale. Sulle due pagine un momento dell’intervento di restauro sul San Giacomo Maggiore.

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ANTE PRIMA

allineate su entrambi i suoi fianchi. Nel Cinquecento, insieme all’adiacente S. Maria de Idris, S. Giovanni risulta dotata di un beneficio ecclesiastico di libera collazione concesso dall’arcivescovo di Matera e Acerenza e, piú tardi, entrambi i templi furono annessi al neonato Seminario Arcivescovile. Qualche secolo piú tardi, nel 1803, S. Giovanni fu concessa in enfiteusi perpetua alla confraternita di S. Maria dell’Idris e, all’indomani dell’assegnazione, fu realizzato il corridoio che tuttora collega le due chiese e la cui escavazione causò la perdita di parte degli affreschi.

Gli interventi di restauro In tempi piú recenti, il monumento visse alterne vicende e, in particolare, a seguito dello sfollamento dei Sassi, venne abbandonato. Non venne però meno la consapevolezza della sua rilevanza storico-artistica e vi furono un primo intervento di messa in sicurezza del sito, nel 1974, e poi un piú organico restauro in occasione del Giubileo del 2000. Misure che, tuttavia, non arrestarono il degrado: basti pensare che i nuovi interventi di risanamento – finanziati dalla Rigoni di Asiago, azienda che nel corso degli ultimi anni sta contribuendo fattivamente alla salvaguardia del nostro patrimonio – hanno portato alla scoperta di pitture murali da tempo rese invisibili dal proliferare di patine biologiche e solfatazioni. Fin dall’inizio, le pareti della chiesa dovevano presentarsi interamente rivestite dalle pitture: un colpo d’occhio di grande suggestione, che possiamo immaginare

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In alto vari momenti dell’intervento di restauro sugli affreschi. A sinistra uno screenshot della piattaforma Skyline, che ha permesso di seguire in diretta il restauro e che ha fatto registrare oltre 90 000 contatti. novembre

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ANTE PRIMA

Veduta d’insieme e particolari del San Giovanni Battista (a sinistra) e del San Giovanni Evangelista: il primo indica l’Agnus Dei, mentre il secondo regge il calice con un serpente.

simile, per esempio, a quello offerto dalle chiese bizantine di Mystra, in Laconia. Del resto, che il programma decorativo del tempio materano faccia parte di un orizzonte non solo locale è confermato dall’ipotesi secondo la quale uno degli artisti attivi a S. Giovanni sarebbe stato un cipriota o avesse comunque fatto propri modelli sviluppati nell’isola del Mediterraneo orientale. A una fase decorativa collocabile nel XIII secolo appartengono gli affreschi conservati lungo il fianco

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destro della chiesa, dove s’incontrano le immagini di un Sant’Andrea Apostolo e, sovrapposta, quella di una Madonna con Bambino, a conferma di quanto le pitture compongano un palinsesto composto da piú fasi decorative. Il santo si mostra con il volto affilato, lo sguardo fermo, mentre la Vergine è stata associata al tipo definito della Glykophilousa, vale a dire di colei «che bacia dolcemente», icona della tenerezza materna. Ad affiancarli sono un giovane santo e un San Girolamo, in abiti vescovili. novembre

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A destra particolare del San Girolamo, in abiti vescovili. In basso il palinsesto nel quale si riconoscono un Sant’Andrea Apostolo, a cui si sovrappone una Madonna con Bambino.

Poco oltre, in uno spazio scavato per servire da cappella funeraria, si stagliano un San Giacomo Maggiore e un San Pietro, le due immagini forse meglio conservate, datate nel primo ventennio del Trecento. Dei due santi si riconoscono gli attributi – il bastone e le chiavi – ed entrambi sono inquadrati in finte architetture caratterizzate da un archetto su cui corre un’apparente iscrizione: si tratta, in realtà, di una sequenza di lettere in caratteri pseudo-cufici, vale a dire scritte con un alfabeto arabo abbandonato in Oriente e recuperato in Occidente come elemento decorativo. Una scelta che può peraltro essere letta come emblematica sintesi di tutti gli apporti che il territorio materano ha avuto nel tempo. Sulla parete opposta si conservano le rappresentazioni del Battesimo di Cristo e dell’Annunciazione. A interventi cinquecenteschi sono invece assegnate le figure di San Giovanni Battista e San Giovanni Evangelista che si conservano lungo il fianco sinistro della chiesa, poco oltre l’ingresso. Il primo indica l’Agnus Dei, del quale si distinguono le tracce poco piú in basso, mentre il secondo regge il suo attributo iconografico tipico: il calice con un serpente. Volgendosi verso il fondo della chiesa, le pareti si mostrano oggi perlopiú spoglie, se si eccettuano alcuni lembi superstiti nella fascia piú alta della parete sinistra. Qui, dove la pietra si presentava coperta da una coltre compatta di patine, sono tornate visibili le teste di vari

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personaggi e si è trattato, come accennato all’inizio, di una delle acquisizioni piú importanti scaturite dall’intervento di restauro.

Un patrimonio condiviso Nel vano laterale che precede il passaggio che collega S. Giovanni con S. Maria de Idris si possono ammirare altre pitture, fra le quali spicca un Cristo Pantocratore, la cui rappresentazione appare inquadrata da un fregio in cui si riconosce il melograno, simbolo di resurrezione. Sulla parete opposta compaiono invece un San Michele Arcangelo e un San Nicola Vescovo, realizzati entrambi nel XIII secolo. A questa straordinaria galleria di ritratti fa da logico corollario la visita dell’adiacente S. Maria, sull’origine del cui appellativo «de Idris» sono state avanzate due ipotesi: potrebbe infatti derivare dalla Vergine Odigitria («che indica la via») o dall’acqua. La struttura ha caratteri ben diversi da quelli di S. Giovanni, in quanto è in parte scavata nel masso roccioso e in parte costruita. Conserva anch’essa tracce di pitture murali, che sono però piú tarde. Nel suo insieme, il complesso del Monterrone è dunque testimone di una vicenda plurisecolare e torna a essere un patrimonio condiviso. Innanzitutto di una comunità, quella locale, che si è sempre fatta committente della realizzazione dei suoi monumenti. Stefano Mammini

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ANTE PRIMA

La regina del ducato MOSTRE • Il Museo Poldi Pezzoli saluta

il ritorno a Milano della Madonna Litta, una delle piú osannate variazioni leonardesche sul tema della Madonna con il Bambino

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egli anni in cui era attivo a Milano, Leonardo da Vinci dipinse, intorno al 1490, una Madonna con il Bambino oggi nota come Madonna Litta. L’opera mostra notevoli affinità stilistiche con la seconda versione della Vergine delle rocce, oggi conservata alla National Gallery di Londra e recentemente sottoposta a nuove indagini (vedi «Medioevo» n. 273, ottobre 2019; anche on line su issuu.com), e conobbe subito grande fortuna, come provano le numerose copie e derivazioni eseguite da artisti

In basso Madonna che allatta il Bambino entro una nicchia, xilografia di anonimo intagliatore lombardo. Ante 7 maggio 1492. Milano, Biblioteca Nazionale Braidense.

Madonna Litta, tempera su tavola (trasportata su tela) di Leonardo da Vinci. 1495 circa. San Pietroburgo, Museo dell’Ermitage.

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lombardi pervenuteci. Piú tardi, nell’Ottocento, divenne l’opera piú rinomata di una delle piú importanti collezioni di opere d’arte milanesi, quella dei duchi Litta (da cui ha tratto l’odierna denominazione) ed era conservata nel grande palazzo di Corso Magenta; il Museo dell’Ermitage – che ne è l’attuale proprietario – l’acquistò nel 1865 dal duca Antonio Litta Visconti Arese.

Capolavori a confronto Riconosciuta come uno dei capolavori del maestro toscano, la Madonna Litta torna, seppur temporaneamente, nella sua città d’origine ed è protagonista dell’esposizione allestita nelle sale del Museo Poldi Pezzoli. La affianca un altro capolavoro nato da una raffinata composizione di Leonardo, la Madonna con il Bambino del Museo Poldi Pezzoli: il dipinto, eseguito verso il 1485-1487 da Giovanni Antonio Boltraffio – il migliore fra gli allievi di Leonardo a Milano – con ogni probabilità sulla base di studi preparatori messi a punto dal maestro, è accostabile, dal punto di In basso studio di panneggio (studio per la Madonna Litta), punta d’argento con tocchi di biacca su carta preparata in azzurro di Giovanni Antonio Boltraffio. 1490 circa. Berlino, Staatliche Museen.

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Nella pagina accanto, in alto studio per una testa di bambino che prende il latte (studio per la Madonna Litta), punta d’argento, lumeggiature a biacca su carta preparata in azzurro di Giovanni Antonio Boltraffio. 1490 circa. Parigi, Fondation Custodia. A destra Madonna con il Bambino che gioca con il rosario, tempera su tavola del Maestro della Pala Sforzesca. 1495 circa. Berlino, Staatliche Museen.

vista stilistico, alla prima versione della Vergine delle rocce del Louvre. Nella prima metà dell’Ottocento anche la Madonna con il Bambino apparteneva alla collezione dei duchi Litta (fu acquistata da Gian Giacomo Poldi Pezzoli nel 1864): la mostra ha quindi permesso di riunire nuovamente a Milano, dopo oltre un secolo e mezzo, queste due straordinarie versioni leonardesche della Madonna con il Bambino. Da segnalare anche la presenza di un altro quadro del Poldi Pezzoli, la Madonna allattante: riferito a un anonimo artista lombardo attivo nel primo decennio del Cinquecento, è una delle derivazioni dalla Madonna Litta piú interessanti e di migliore qualità che ci siano pervenute. La rassegna può inoltre contare su altri dipinti raffiguranti la Madonna con il Bambino di Marco d’Oggiono,

di Francesco Napoletano e del Maestro della Pala Sforzesca, che permettono di illustrare come Leonardo e i suoi piú stretti seguaci (che spesso lavoravano sulla base di progetti e composizioni del maestro) abbiano affrontato dal punto di vista compositivo, in maniera sempre nuova e originale, questo diffusissimo soggetto. (red.) DOVE E QUANDO

«Leonardo e la Madonna Litta» Milano, Museo Poldi Pezzoli fino al 10 febbraio 2020 (dal 7 novembre) Orario me-lu, 10,00-18,00; chiuso il martedí Info tel. 02 794889 o 796334; www.museopoldipezzoli.it

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ANTE PRIMA

Otto santi in Compagnia MOSTRE • L’Istituzione Bologna Musei espone in

anteprima le preziose tavole medievali ricevute in comodato d’uso dall’antica società d’armi fondata in età comunale dagli esuli trasferitisi dalla Lombardia a causa delle lotte tra le fazioni guelfe e ghibelline

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razie all’accordo tra Compagnia dei Lombardi e Istituzione Bologna Musei, un prezioso nucleo di otto tavole di epoca medievale appartenenti a due perduti polittici di Simone di Filippo detto «dei Crocifissi» e di Giovanni di Pietro Falloppi, detto da Modena, è stato concesso in comodato d’uso gratuito ai Musei Civici d’Arte Antica. Un’importante azione congiunta di tutela e valorizzazione, che ha dato origine al progetto espositivo grazie al quale è possibile ripercorrere

In alto San Michele Arcangelo, tempera e oro su tavola di Simone di Filippo, detto «dei Crocifissi». 1395-1399. Bologna, Compagnia dei Lombardi. A sinistra Ritratto del cardinale Prospero Lambertini, olio su tela
di Giuseppe Maria Crespi. 1739. Bologna, Collezioni Comunali d’Arte.

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A sinistra Madonna della Misericordia con i santi Pietro e Paolo, frontespizio della Matricola della Compagnia dei Lombardi, tempera su pergamena di Lando di Antonio. 1334. Bologna, Compagnia dei Lombardi. A destra San Pietro, tempera e oro su tavola di Giovanni di Pietro Falloppi, detto «da Modena». 1450 circa. Bologna, Compagnia dei Lombardi.

le vicende legate alle origini della Compagnia dei Lombardi – una delle antiche società d’armi sorte in età comunale a Bologna, l’unica ancora oggi attiva nella sede attigua alla basilica di S. Stefano – e alla formazione di una prestigiosa, seppure quantitativamente esigua, collezione d’arte.

Un’alleanza di mutuo soccorso In mostra, oltre alle opere offerte in comodato, viene presentata una selezione di documenti storici provenienti dall’Archivio della Compagnia e dall’Archivio di Stato di Bologna, che illustrano le ritualità di una storia che la tradizione vuole iniziata nel 1170, con la fondazione di un’alleanza di mutuo soccorso tra esuli trasferitisi dalla Lombardia a causa delle lotte tra le fazioni guelfe e ghibelline e delle barbarie di Federico I Barbarossa. Le quattro tavole dipinte da Simone

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di Filippo con San Giovanni Battista, San Michele Arcangelo, Santa Caterina d’Alessandra e Santa Maria Maddalena, costituivano in origine gli scomparti laterali di un unico polittico, forse identificabile con quello che recava al centro l’Incoronazione della Vergine e che venne descritto nel 1686 nella scomparsa chiesa di S. Michele del Mercato dal canonico Malvasia. Le altre quattro tavole con San Giacomo Maggiore, San Pietro, San Nicola da Tolentino e San Francesco, attribuite a Giovanni, sono state ricollegate ai due scomparti di medesima fattura con Sant’Antonio Abate e San Domenico, oggi conservati presso la Pinacoteca Nazionale di Ferrara. I sei manufatti provenivano da un polittico smembrato, verosimilmente commissionato per la chiesa di S. Giacomo Maggiore a Bologna, vista la presenza di diversi santi cari all’Ordine agostiniano. (red.)

DOVE E QUANDO

«Un passato presente. L’Antica Compagnia dei Lombardi in Bologna» Bologna, Collezioni Comunali d’Arte fino al 9 febbraio 2020 Orario ma-do, 10,00-18,30; chiuso lunedí non festivi, Natale, Capodanno Info tel. 051 2193998 o 2193631; e-mail:arteanticamusei arteantica@comune.bologna.it; www.museibologna.it; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Twitter @MuseiCiviciBolo

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ANTE PRIMA

Altare con sorpresa RESTAURI • Il Duomo di

Siena svela la decorazione originaria della cappella un tempo intitolata a sant’Antonio Abate

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icchezza decorativa e raffinatezza tecnica caratterizzano l’arte del senese Paolo di Giovanni Fei, autore dell’affresco recentemente venuto alla luce nella Cattedrale di Siena. Smontate dagli altari marmorei della navata destra meridionale le seicentesche pale raffiguranti l’Estasi di San Francesco di Sales di Raffaello Vanni e lo Sposalizio mistico di Santa Caterina da Siena di Pietro Dandini, è emerso l’ampio frammento di una figurazione dipinta sul fondo della cappella medievale – allora dedicata a sant’Antonio Abate –, a completamento di un trittico su tavola che si trovava proprio sulla mensa sacra; nonostante la consunzione della malta, l’opera conserva alcuni busti di sante, tutte recanti una aureola dorata, abbellita da ornamenti a stampo.

L’Archivio di Stato di Siena custodisce la Gabella del 1483 che riporta la testimonianza di questo allestimento raffigurato da Pietro di Francesco Orioli proprio sulla copertina del registro. Grazie ad alcuni documenti cartacei, sappiamo che il 6 aprile 1400, il Fei fu pagato ben 15 fiorini d’oro «per chagione di cierto lavorio che fecie a la cappella di sant’Antonio in duomo, cioè, di dipintura, per oro e azurro, e ogni altra sua spesa».

Pittore e politico I resti dei gentili volti delle sante riaffiorati dopo sei secoli ci riportano al 1411, anno della morte dell’autore, considerato uno dei maggiori pittori del tempo, iscritto al Breve dell’Arte, impegnato anche politicamente, avendo ricoperto le cariche di consigliere, proveditore di biccherna e camarlingo della Compagnia di Santa Maria sotto le volte dell’Ospedale. Come apprendista nella bottega di Bartolo di Fredi – che ebbe un ruolo trainante nel panorama senese dopo la catastrofe dovuta alla peste del 1348 –, Paolo attinse alle formule arcaiche spaziali, all’uso talvolta aggressivo della palette cromatica e insieme

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A sinistra particolare dell’affresco di Paolo di Giovanni Fei scoperto nel Duomo di Siena. 1411. In alto l’interno della Cattedrale senese. In basso Sposalizio mistico di Santa Caterina da Siena, olio su tela di Pietro Dandini. 1678. ereditò dai maestri del Trecento, da Simone Martini a Pietro e Ambrogio Lorenzetti, una parziale severità di esecuzione, accanto all’artificiosa gestualità ed espressività delle figure, riuscendo comunque a darne una personale lettura. Sebbene composizione e iconografia rimangano sostanzialmente inalterati, le diversità apportate nel suo linguaggio pittorico lo condurranno verso la fase di transizione del tardo-gotico, epoca in cui eseguí molte commissioni proprio nel Duomo senese, come si evince dalla documentazione relativa ai pagamenti. E la sua fase matura ci offre un’arte raffinata e autonoma, impreziosita da elementi di matrice fiorentina, formalmente equilibrata, dove i protagonisti vivono l’evento con intensità in una scena tridimensionale dai colori puri e pieni. Mila Lavorini novembre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Aria di festa APPUNTAMENTI • Rinnovando una tradizione secolare, città tedesche grandi e

piccole si preparano al Natale allestendo i tipici mercatini, destinati ad animare strade e piazze per l’intero periodo dell’Avvento

D

urante l’Avvento, la Germania brulica di mercatini. Le piazze si trasformano in altrettanti caleidoscopi di luci, suoni e colori, mentre per le strade si respira il profumo del cibo e delle bevande calde offerte dalle bancarelle. E, in molti casi, questa tradizione ha origine nei secoli del Medioevo.

Monaco Il piú famoso e suggestivo mercatino natalizio di Monaco di Baviera è il Christkindlmarkt in Marienplatz, il piú antico della città, risalente ai mercati di San Nicola del XIV secolo, quest’anno in programma dal 27 novembre al 24 dicembre. Altrettanto interessante è il mercato medievale che si svolge dal 25 novembre al 23 dicembre in Wittelsbacher Platz, con numerose bancarelle che vendono abiti d’epoca, spade, archi, frecce e armature, ma anche cibo e bevande, fra centinaia di comparse in costumi d’epoca. Ogni giorno nel tardo pomeriggio iniziano gli spettacoli: si va dai concerti di musica medievale alle esibizioni di mangiatori di fuoco, dagli addestratori di falchi alle rappresentazioni teatrali.

I mercatini natalizi di Esslingen (in alto) e Stoccarda.

Esslingen Ogni anno, la mattina del martedí che precede la prima Domenica d’Avvento, Esslingen si (segue a p. 20)

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ANTE PRIMA Un’immagine del Christkindlesmarkt di Augusta. risveglia nel Medioevo. Gli orologi tornano indietro di 600 anni con il mercato medievale, quest’anno in programma dal 26 novembre (inaugurazione solenne alle 16,30) al 22 dicembre. Per quattro settimane, giocolieri, mangiafuoco, cantastorie, saltimbanchi, giullari, acrobati, trampolieri e musicisti invadono la città, esibendosi in spettacoli di strada. Inoltre si possono ammirare gli antichi mestieri: cordai, fabbri, tintori e altri artigiani. Medioevo da guardare e da sentire, ma anche da gustare, con le proposte di vino aromatico, arrosti, bolliti e altre specialità. Non solo: è possibile cimentarsi nel tiro con l’arco e imparare danze medievali. Lungo le mura del castello viene organizzata una suggestiva fiaccolata notturna con la partecipazione del pubblico.

Stoccarda Nella capitale del Baden-Württemberg, nel Sud della Germania, viene allestito uno dei piú grandi mercatini natalizi d’Europa, con oltre 250 stand. Dal 27 novembre al 23 dicembre sono in programma i concerti dell’Avvento nella corte rinascimentale del Vecchio Castello (Altes Schloss), fra casette di legno decorate e attrazioni nella Piazza del Castello. Festa d’apertura nella corte rinascimentale del Vecchio Castello. Gli stand gastronomici offrono varie prelibatezze, dai dolci al vin brulé, dalle mandorle tostate al pan di zenzero.

Brema Il mercatino natalizio piú importante di Brema si svolge nell’antica piazza del mercato, Am Market, dove 170 bancherelle addobbate propongono decorazioni per l’albero di Natale, oggetti di artigianato locale, presepi scolpiti in legno, dolci di panpepato, stelle alla cannella e i famosi «Bremen Klaben», dolci tipici ricchi di uvette, simili a un panettone basso. Da non perdere poi il mercatino medievale in programma dal 25 novembre al 23 dicembre sulla Weserpromenade, la passeggiata sul lungo fiume. Alla luce di fiaccole e falò, decine di bancherelle offrono prodotti tipici locali e specialità medievali come il Met, l’aromatico sidro di mele, pane fatto in casa, caldarroste, succulenti specialità bavaresi e tirolesi, pesce arrostito e vino caldo speziato. Suggestivi i concerti dell’Avvento e quelli d’organo nelle principali chiese di Brema. Nella vigilia di San Nicola, il 6 dicembre, i bimbi della città si dipingono la faccia di nero e si recano di casa in casa, chiedendo dolcetti e cantando vecchie canzoni. Questa antica tradizione si chiama Nikolauslaufen, ovvero la camminata di San Nicola.

Rothenburg In quest’antica cittadina, fin dal XV secolo, il periodo dell’Avvento è accompagnato da un delizioso mercatino

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natalizio. Ancora oggi, tenendo fede alle tradizioni, le strade tortuose e le pittoresche piazze attorno al municipio sono fiancheggiate da chalet di legno decorati. Dal 29 novembre al 23 dicembre, nelle Piazze del Mercato, delle Erbe e della Chiesa numerose bancarelle offriranno biscotti tradizionali, vin brulé bianco, panini con wurstel e piccoli gioielli artigianali da tenere come ricordo o regalo. Il culmine dell’evento è la comparsa del «Rothenburger Reiterle», il cavaliere di Rothenburg, personaggio con un mantello di velluto rosso, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Per gli antichi si trattava del messaggero del dio germanico Wotan, che in inverno solcava il cielo assieme alle anime dei defunti. Nel corso dei secoli, però, l’immagine di questa mitica figura è cambiata. Mentre una volta il cavaliere notturno incuteva paura e terrore, oggi si è trasformato in un messaggero pacifico e allegro, acclamato dai bambini.

Augusta I canti di Natale, gli chalet illuminati, il profumo caldo del vin brulé e delle salsicce, il pan di zenzero, i presepi e le decorazioni natalizie sono gli elementi del Christkindlesmarkt di Augusta, la cui tradizione risale al 1498, quando il municipio decise di regimare il mercato che creava tensioni tra i commercianti, stabilendo che i banchi sarebbero stati tutti uguali e i posti gestiti dall’amministrazione comunale. All’indomani della riforma protestante, il mercatino di Natale di Augusta assunse sempre maggiore importanza, seguendo la tradizione riformista. Oggi un enorme albero di Natale e una piramide di 8 m di altezza creano uno scenario unico. Altri suggestivi mercatini natalizi si possono trovare a Berlino (dove ne vengono allestiti addirittura una settantina), Dresda, Norimberga, Stoccarda, Francoforte, Amburgo, Bonn, Colonia, Dortmund ed Erfurt. Tiziano Zaccaria novembre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

IN EDICOLA

NOSTRADAMUS IOEVO MED Dossier

N°35 Novembre/Dicembre 2019 Rivista Bimestrale

NOUnSTRADAMUS profeta senza tempo NOSTRADAMUS

igura a dir poco enigmatica, Michel de Nostre-Dame – che scelse il nome di Nostradamus dopo la laurea in medicina conseguita all’Università di Montpellier – suscitò, già presso i suoi contemporanei, un’attrazione irresistibile. Fu per molti aspetti uno scienziato evoluto, un medico in grado di curare malattie all’epoca inguaribili, un ricercatore dedito allo studio profondo degli elementi naturali. Ma fu inesorabilmente attratto dalla vocazione divinatoria, indulgendo a predire il futuro mediante versi divenuti popolarissimi nonostante la loro indecifrabilità, considerata dai detrattori alla stregua di mera astrusità e dagli esegeti come una misura di prudenza, volta a velare verità spaventose. Fu dunque tra i protagonisti di quel Medioevo trasversale a ogni altra età della storia, che nessun evolversi della società e del costume potrà mai sopprimere, trattandosi di una componente naturale dell’animo umano. Venerato finché visse dalle personalità piú potenti di Francia, con in testa Caterina de’ Medici e gli ultimi sovrani della casa di Valois, Nostradamus venne gratificato nei secoli da una popolarità crescente, che non conosce flessioni. Una parabola straordinaria e avvincente, ora ripercorsa dal nuovo Dossier di «Medioevo».

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GLI ARGOMENTI

15/10/19 16:59

• LA FORMAZIONE E GLI STUDI • GLI ANNI AD AGEN • I VIAGGI: IN ITALIA, IN EUROPA E IN ORIENTE • IL SOGGIORNO A ORVAL E LE SUGGESTIONI TEMPLARI • IL RITORNO IN PROVENZA • GLI ULTIMI ANNI E LA CONSACRAZIONE DEFINITIVA • L’ATTUALITÀ DELLE PROFEZIE A sinistra La Torre di Babele, olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio. 1563. Vienna, Kunsthistorisches Museum. Nella pagina accanto L’alchimista, olio su tavola di Jan Steen. 1668. Venezia, Galleria Giorgio Franchetti alla Ca’ d’Oro.

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IN EDICOLA IL 29 OTTOBRE 2019

MEDIOEVO DOSSIER

UN PROFETA SENZA TEMPO

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AGENDA DEL MESE

Mostre ROMA LUCA SIGNORELLI E ROMA. OBLIO E RISCOPERTE Musei Capitolini, Sale Espositive di Palazzo Caffarelli fino al 3 novembre

I Musei Capitolini rendono omaggio al cortonese Luca Signorelli (1450 circa-1523), celebrando, per la prima volta a Roma, uno dei piú grandi protagonisti del Rinascimento italiano. Attraverso opere di grande prestigio provenienti da collezioni italiane e straniere, l’esposizione mette in risalto il contesto storico-artistico in cui avvenne il primo soggiorno romano dell’artista e offre nuove letture sul legame diretto e indiretto che si instaurò fra l’artista e Roma. Organizzato in sette sezioni, il percorso si apre con un’introduzione sull’errore vasariano del vero volto dell’artista, rappresentato nelle due diverse sembianze dai Busti realizzati da Pietro Tenerani e da Pietro Pierantoni, per poi passare alla Roma del pontefice Sisto IV (1471-1484), fra le

a cura di Stefano Mammini

antichità capitoline, e davanti ad alcune opere del maestro in cui monumenti, antichità cristiane, e statuaria classica osservati a Roma rivivono o vengono rievocati, come il Martirio di san Sebastiano, il Cristo in croce e Maria Maddalena, il tondo di Monaco e la pala di Arcevia. Il percorso prosegue all’interno della Cappella Nova di Orvieto, ricostruita attraverso un gioco di riproduzioni retroilluminate, per giungere davanti ad alcuni suoi capolavori sul tema della grazia e dell’amore materno. Seguono poi le sezioni dedicate al soggiorno di Signorelli a Roma sotto il pontefice Leone X (15131521) e ai suoi rapporti con Bramante e Michelangelo. A conclusione della visita, un capitolo è dedicato alla riscoperta del Maestro tra Otto e Novecento nell’arte, nella letteratura e nel mercato antiquario. info www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it TRENTO FILI D’ ORO E DIPINTI DI SETA. VELLUTI E RICAMI TRA GOTICO E RINASCIMENTO Castello del Buonconsiglio fino al 3 novembre

Piviali in luminoso velluto, pianete scintillanti di oro e d’argento, dalmatiche con ricami in fili di seta variopinta, preziose stoffe fiorentine e veneziane dai molteplici ornati, oltre a dipinti sacri di Altobello Melone, Michele Giambono, Francesco Torbido, Rocco Marconi, e i due magnifici dipinti del misterioso Maestro di Hoogstraeten, raccontano l’affascinante storia dei preziosi manufatti tessili eseguiti tra la seconda metà del XV secolo e i primi decenni del XVI secolo in Italia e

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nell’Europa del Nord. Si tratta di capolavori in velluto con ricchi ricami in seta e oro prodotti presso centri che all’epoca assicuravano un assoluto grado di perfezione tecnica e formale, come Firenze, Venezia e Milano. Dopo oltre cinque secoli, affiorano capolavori inediti che testimoniano influssi derivanti da diverse tradizioni tessili, comprendendo anche esempi che denunciano la circolazione di manufatti importati da grandi centri di produzione transalpini tramite gli intensi scambi commerciali tra la penisola italiana e i fiorenti mercati delle Fiandre e della zona del Reno e il desiderio di sfarzo dei piú facoltosi committenti. La mostra «Fili d’oro e dipinti di seta» è la prima iniziativa che approfondisce questa particolare categoria di lussuosi tessuti ricamati ancora presenti nelle aree dell’intero arco alpino, a suo

tempo creati sia per la committenza religiosa che laica, ma sopravvissuta fino a oggi grazie alla lungimirante attività di conservazione della Chiesa e alla passione di molti collezionisti. info tel. 0461 233770; www.buonconsiglio.it BARD (AOSTA) L’AQUILA. TESORI D’ARTE TRA XIII E XVI SECOLO Forte di Bard fino al 17 novembre

Gli spazi espositivi ricavati nella poderosa fortezza valdostana accolgono una selezione di opere recuperate e restaurate – 14 tra oreficerie, sculture in terracotta, pietra e legno, dipinti su tavola e tela – provenienti dalle chiese aquilane e dal Munda, Museo nazionale d’Abruzzo. Dalle Madonne con Bambino del Maestro di Sivignano e di Matteo da Campli a quella detta Delle Grazie; dal grande Crocefisso della Cattedrale alla novembre

MEDIOEVO


VINCI

Croce processionale di Giovanni di Bartolomeo Rosecci; dall’elegante e leggero San Michele arcangelo di Silvestro dell’Aquila allo splendido San Sebastiano di Saturnino Gatti; dal Sant’Equizio di Pompeo Cesura fino alle grandi tele di Mijtens, la mostra si propone come una storia

LEONARDO VIVE Museo Ideale Leonardo da Vinci fino al 31 dicembre

NEL MEDIOEVO Tour Jean sans peur fino al 29 dicembre

di sopravvivenze, un omaggio alla città dell’Aquila nel decennale del sisma e una testimonianza della grande ricchezza della sua arte. Alle opere si affianca l’esposizione fotografica, inedita, La città nascosta di Marco D’Antonio, che presenta 15 grandi fotografie dedicate all’Aquila notturna, ripresa nelle sue aree ancora da ricostruire. info tel. 0125 833811; e-mail: info@fortedibard.it; www.fortedibard.it PARIGI CRIMINI E GIUSTIZIA

MEDIOEVO

novembre

Le fonti giudiziarie risalenti alla fine del Medioevo permettono di venire a conoscenza di numerosi casi che ridimensionano l’immagine di un sistema violento e sbrigativo che troppo spesso viene associato alla giustizia medievale. E, soprattutto, consentono di fissare una gerarchia dei crimini diversa da quella moderna, in seno alla quale la notorietà (la fama) degli individui coinvolti ha un ruolo importante, a prescindere dalla loro estrazione sociale, cosicché l’omicidio per motivi d’onore diviene spesso tollerabile. Organizzata per celebrare i vent’anni di attività della Tour Jean sans peur come spazio espositivo e a 600 anni dall’assassinio del suo antico proprietario – il duca di Borgogna Giovanni senza Paura –, la mostra offre dunque un quadro per molti aspetti sorprendente della società dell’età di Mezzo, che vede giudici e imputati ricorrere con frequenza al compromesso e la popolazione farsi parte attiva nel decidere la sorte dei condannati. info www.tourjeansanspeur.com

Organizzata per tenere a battesimo la riapertura del Museo Ideale Leonardo Da Vinci e la realizzazione del nuovo Museo Leonardo e il Rinascimento del vino, a Sant’Ippolito in Valle, la mostra esemplifica l’attualità di Leonardo nell’arte e nella cultura contemporanea, e presenta anche i risultati delle ricerche genealogiche attraverso venti generazioni fino al presente e al DNA. Il percorso si articola in cinque sezioni. La prima (Leonardo Heritage) propone documenti d’archivio e reperti frutto di studi genealogici. La seconda riguarda la bottega di Leonardo: la Gioconda nuda, e anche la Santa Caterina nella macchina di tortura di un allievo di Leonardo (Giampietrino), che presenta impronte digitali e palmari. La terza (Leonardo e il Rinascimento del vino) approfondisce i rapporti di

Leonardo con il territorio e con l’agricoltura, che ebbe un ruolo importante nella sua biografia e nei suoi molteplici studi. La quarta (Leonardismi attraverso i secoli) procede

dalle cartelle dei Nodi vinciani xilografate da Albrecht Dürer agli inizi del Cinquecento, prosegue tra l’immagine di Leonardo e antiche incisioni d’après, giunge al furto del 1911 e alla Gioconda L.H.O.O.Q. di Duchamp, fino a Dalí, Beuys, Warhol e altri protagonisti delle neoavanguardie internazionali. Per l’Attualità di Leonardo, spicca il Dialogo con il Paesaggio di Leonardo del 1473 del pittore cinese Xu Li giunto da Pechino. info www.museoleonardo.it BOLOGNA LA CASA DELLA VITA. ORI E STORIE INTORNO ALL’ANTICO CIMITERO EBRAICO DI BOLOGNA Museo Ebraico fino al 6 gennaio 2020

Gli straordinari reperti di uno dei piú ampi cimiteri ebraici medievali del mondo, rinvenuto alcuni anni fa a Bologna in via Orfeo, poco lontano dalle mura trecentesche, sono finalmente visibili dopo anni di studi e restauri. Gioielli in oro di eccezionale fattura e bellezza, pietre incise, oggetti in bronzo recuperati in oltre quattrocento sepolture, attestano la presenza a

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AGENDA DEL MESE Bologna di una fiorente comunità, proficuamente inserita nel contesto urbano e sociale fino all’espulsione, avvenuta per volere del papa nel 1569, e offrono lo spunto per ripercorrere, in maniera globale e sistematica, la storia di una minoranza, i suoi usi, la sua cultura e le sue interazioni con la società cristiana del tempo. info www.museoebraicobo.it PARIGI SCRIGNI MISTERIOSI. STAMPE AL TEMPO DELLA DAMA E L’UNICORNO Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 6 gennaio 2020

La Dama e l’Unicorno, uno dei vanti del Museo di Cluny, è ancora una volta al centro di un progetto espositivo temporaneo, questa volta incentrato sulla figura di Jean d’Ypres, il pittore al quale si devono i disegni preparatori del celebre ciclo di arazzi, che furono ripresi anche per una vasta produzione di stampe, molte delle quali destinate a ornare scrigni e cofanetti. Attivo sul finire del XIV secolo, Jean d’Ypres firmò bozzetti per stampe, arazzi e vetrate, che hanno in molti casi dato origine ad altrettanti capolavori dell’arte tardo-medievale.

Possiamo per esempio citare il San Sebastiano, incollato all’interno di un cofanetto entrato a far parte delle collezioni del Museo di Cluny nel 2007, che rivela uno stile attento ai dettagli, in cui si fondono il realismo dei pittori fiamminghi con le mode dell’arte parigina. Oppure i cartoni per le vetrate dell’edificio nel quale ha oggi sede il museo stesso, una delle quali, raffigurante il Trasporto della Croce, figura in mostra non lontano dalla Dama e l’Unicorno. info www.musee-moyenage.fr FIRENZE LEONARDO DA VINCI E IL MOTO PERPETUO Museo Galileo fino al 12 gennaio 2020

NEW YORK IL TESORO DI COLMAR: UN’EREDITÀ DEL MEDIOEVO EBRAICO The Metropolitan Museum of Art fino al 12 gennaio 2020

Fin dal Medioevo l’idea di riprodurre con dispositivi meccanici il moto perpetuo delle sfere celesti ha stimolato l’immaginazione e l’ingegno di tecnici, ingegneri e filosofi naturali. Un nodo fondamentale di questa storia plurisecolare è rappresentato dagli studi nei quali Leonardo ha cercato di stabilire se sia davvero possibile realizzare macchine a moto perpetuo. Le sue ricerche mostrano la serietà e l’impegno con i quali

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il genio di Vinci si applicò nella ricerca di soluzioni praticabili. Egli giunse tuttavia alla conclusione che il moto perpetuo non può esistere in natura, anticipando cosí di oltre tre secoli la dimostrazione definitiva della verità di quel principio fornita da James Clerk Maxwell, protagonista dell’affermazione della termodinamica nella seconda metà dell’Ottocento. La mostra presenta una ricca selezione degli spettacolari disegni di Leonardo e dei principali protagonisti delle ricerche sul moto perpetuo, affiancata dai modelli di alcuni tra i piú intriganti di quei dispositivi e da suggestivi filmati ne illustrano il presunto funzionamento. info tel. 055 265311; e-mail: info@museogalileo.it; https://www.museogalileo.it

Un tesoretto di gioielli e monete rimase per oltre 500 anni celato fra le mura di una casa della città francese di Colmar. Nascosto nel XIV secolo, tornò alla luce nel 1863 ed entrò quindi a far parte delle collezioni del Museo di Cluny, a Parigi. Ne fanno parte anelli con zaffiri, rubini e turchesi, spille tempestate di pietre preziose, una cintura finemente smaltata, bottoni dorati e oltre 300 monete. Doveva trattarsi dei beni piú preziosi di una famiglia che, come suggerisce l’iscrizione mazel tov che si legge su uno degli anelli, doveva far parte della comunità ebraica di Colmar,

che, alla metà del Trecento, subí un atroce destino. Gli Ebrei vennero infatti ritenuti responsabili della Peste Nera che flagellò l’Europa fra il 1348 e il 1349 e furono dunque vittime di accanite persecuzioni. Oltre a offrire l’opportunità di ammirare il tesoretto, la mostra allestita presso i Cloisters ripercorre dunque l’intera vicenda storica, sottolineando i drammi vissuti dalle minoranze ebraiche nel XIV secolo. info www.metmuseum.org URBINO RAFFAELLO E GLI AMICI DI URBINO Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale fino al 19 gennaio 2020

Promossa e organizzata dalla Galleria Nazionale delle Marche, la mostra «indaga e per la prima volta in modo cosí compiuto racconta – come ha dichiarato Peter Aufreiter, direttore del museo urbinate – il mondo delle relazioni di Raffaello con un gruppo di artisti operosi a Urbino che accompagnarono, in dialogo ma da posizioni e con stature diverse, la sua transizione verso la maniera moderna e i suoi sviluppi stilistici durante la memorabile stagione romana». Fondamentale fu il ruolo giocato da Pietro Perugino nella formazione e nel primo tratto dell’attività di Raffaello, qui letta in parallelo con quella dei piú maturi concittadini Timoteo Viti (1469-1523) e Girolamo Genga (1476 circa-1551), le novembre

MEDIOEVO


ricerche dei quali ebbero a intersecarsi con il periodo fiorentino e con l’attività romana del Sanzio. «La mostra vuole essere – secondo le curatrici, Barbara Agosti e Silvia Ginzburg – un’occasione per misurare, in un contesto specifico di estrema rilevanza quale quello urbinate e nelle sue tappe maggiori, la grande trasformazione che coinvolse la cultura figurativa italiana nel passaggio tra il Quattro e il Cinquecento. A queste scansioni corrispondono, nella riflessione storiografica costruita da Vasari e fatta propria dagli studi successivi, il momento iniziale dell’adesione dei pittori della fine del secolo XV alle prime novità introdotte da Leonardo, ovvero alla adozione di quella “dolcezza ne’ colori unita, che cominciò a usare nelle cose sue il Francia bolognese, e Pietro Perugino; et i popoli nel vederla corsero, come matti a questa bellezza nuova e piú viva, parendo loro assolutamente che e’ non si potesse già mai far meglio”». info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it

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BAGNACAVALLO (RA) ALBRECHT DÜRER. IL PRIVILEGIO DELL’INQUIETUDINE Museo Civico delle Cappuccine fino al 19 gennaio 2020

Sono oltre 120 le opere di Albrecht Dürer selezionate per la mostra allestita nel Museo Civico delle Cappuccine, che vuol essere un invito a incontrare le diverse anime del maestro di Norimberga, «padre nobile» del pensiero grafico, capace di innalzare il disegno e l’incisione a espressione artistica non piú ancella della pittura, ma pienamente libera e autonoma. L’avventura artistica di Dürer prende il via in una Germania ancora permeata da uno spirito gotico e medievale e

forse, senza l’influenza dell’intellettuale e amico Willibald Pirckheimer, probabilmente l’artista avrebbe orientato i suoi interessi artistici verso Nord, verso la lezione fiamminga, come molti altri artisti suoi conterranei. Invece Pirckheimer lo indirizzò alla dimensione culturale del nostro Rinascimento, spalancando la mente dell’artista a ricerche a lui aliene, in primo luogo quella tesa a carpire i segreti della rappresentazione dello spazio e della bellezza. Il percorso espositivo è stato concepito come un vero e proprio racconto, che procede attraverso dieci sezioni tematiche, immergendo il visitatore nel visionario sogno di perfezione del figlio di un umile orafo di Norimberga, che ha voluto inseguire il suo desiderio di appropriarsi dei segreti della rappresentazione della bellezza. info tel. 0545 280911; e-mail: centroculturale@comune. bagnacavallo.ra.it; www.museocivicobagnacavallo.it PARIGI L’ARTE RICAMATA Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 20 gennaio 2020

Il ricamo è un’arte di lusso, per la quale si faceva ricorso a materie prime preziose, come la seta, l’oro e l’argento. Ed è dunque uno status symbol, che si ritrovò al centro di intensi scambi commerciali. Grazie alla maestria affinata da artigiani attivi in molte regioni d’Europa, gualdrappe per cavalli, scarselle o paramenti liturgici s’arricchirono di stemmi, scene religiose e profane. E nel mondo ecclesiastico e presso le famiglie piú nobili e ricche al ricamo si fa ricorso anche per decorare pareti ed

elementi d’arredo. L’esposizione presentata al Museo di Cluny offre dunque una rassegna dei principali centri e aree di produzione, dal mondo germanico all’Italia, passando per le Fiandre, i Paesi Bassi, l’Inghilterra e la Francia. Al contempo, definisce un

quadro del ruolo sociale e del valore artistico del ricamo medievale, documentando le tecniche, i processi di lavorazione e le relazioni fra committenti, ricamatori e ricamatrici, pittori e mercanti. info www.musee-moyenage.fr PERUGIA MADONNA COL BAMBINO Galleria Nazionale dell’Umbria fino al 26 gennaio 2020

A coronamento di un’altra brillante operazione del Comando Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale, si può ammirare, fino al 26 gennaio, la Madonna col Bambino del Pinturicchio trafugata nel 1990 presso un’abitazione privata di Perugia. La preziosa tavola era ricomparsa nel 2018, con una falsa attribuzione a Bartolomeo Caporali, per essere venduta all’asta nel

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AGENDA DEL MESE quanto del nostro tempo. Le grandi macchine scenografiche, la cui struttura è liberamente ispirata a disegni leonardeschi, corrispondono ad altrettante sezioni: Le Osservazioni sulla natura; La città; Il paesaggio; Le Macchine di pace; Le Macchine di guerra; Il Tavolo anatomico; La pittura. Studio Azzurro ha pensato a uno spazio che immerge i visitatori nel mondo dell’immaginazione di Leonardo. Un mondo di Regno Unito, ma, grazie alla rogatoria internazionale subito presentata, è stato possibile procedere al suo sequestro e al successivo recupero. Prima che venga restituito ai legittimi proprietari, la Galleria Nazionale dell’Umbria offre dunque l’occasione di vedere il dipinto, che il Pinturicchio realizzò verosimilmente fra gli anni Settanta e Ottanta del Quattrocento, e di confrontarlo con le opere del maestro perugino presenti nella sala 24 del museo e con quelle di Bartolomeo Caporali, conservate anch’esse in Galleria. info https:// gallerianazionaledellumbria.it/ PALERMO LEONARDO. LA MACCHINA DELL’IMMAGINAZIONE Galleria d’arte moderna fino al 26 gennaio 2020

L’omaggio a Leonardo si è in questo caso tradotto in un’esposizione multimediale curata da Treccani e progettata e messa in scena da Studio Azzurro. Il percorso è scandito da sette videoinstallazioni, di cui cinque interattive, che coinvolgono lo spettatore in un racconto di immagini e suoni che, a partire dal multiforme lascito del maestro, ci «parlano» tanto del suo,

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macchine talvolta trasparenti come i suoi orizzonti, talvolta opache come la carta dei fogli di appunti. L’esperienza passa dall’osservazione alla partecipazione, muovendosi tra forme che richiamano il rigore geometrico dei solidi platonici di Luca Pacioli e si rimodulano in strumenti utili. Questo mondo di macchine trasformate in dispositivi narrativi, di giganteschi fogli di appunti in attesa di essere risvegliati, accoglie il visitatore in una penombra da cui spiccano i colori del legno, della tela e della carta. L’interazione avviene con sistemi diversi: la modulazione della luce e della voce sono gli strumenti privilegiati. info tel. 091 8431605; e-mail: info@gampalermo.it; www.gampalermo.it

MENDRISIO (SVIZZERA) INDIA ANTICA. CAPOLAVORI DAL COLLEZIONISMO SVIZZERO Museo d’arte Mendrisio fino al 26 gennaio 2020

L’arte indiana antica possiede un repertorio vario e stratificato che oggi può essere colto solo parzialmente. Culla di tre religioni – buddismo, induismo e giainismo – ancora in vigore, l’India ha un patrimonio culturale estremamente ricco, anche se ciò che rimane è composto solo dai materiali piú durevoli. Questa eredità racconta il rapporto dell’umanità con le forze che la sottendono e con l’universo in generale. L’India è un territorio ricco di «divinità» di molti tipi che rappresentano tante forze spirituali e il loro travalicamento. Nonostante le divinità conservino il proprio nome, il loro significato viene continuamente rielaborato e cambiato. E la mostra si concentra proprio sulle trasformazioni che le divinità subiscono dalle loro prime rappresentazioni figurative fino alle loro espressioni esoteriche (tantriche). Gli oggetti esposti – oltre 70 sculture di piccole, medie e grandi dimensioni – sono distribuiti in un percorso articolato in nove capitoli:

Metafore poetiche; Animali leggendari; Tradizioni a confronto; Storie narrate; Potere femminile; Elementi esoterici; Miracoli; Coppia divina; Divinità cosmica. Le sculture provengono da diverse regioni dell’India, Pakistan e Afghanistan e coprono un arco temporale che va dal II secolo a.C. al XII secolo d.C. info http://museo.mendrisio.ch MILANO ORO, 1320-2020. DAI MAESTRI DEL TRECENTO AL CONTEMPORANEO Galleria Salamon fino al 31 gennaio 2020 (dal 22 novembre)

La mostra nasce con l’intenzione di tracciare una traiettoria diacronica sull’uso (e contestualmente sul significato) dell’oro nelle arti figurative. Vengono messe in relazione opere del XIV e dell’inizio del XV secolo – dalla tradizione giottesca al gotico internazionale a Firenze e in Italia centrale – e lavori di grandi artisti italiani degli ultimi cinquant’anni: da Lucio Fontana a Paolo Londero e Maurizio Bottoni, interpreti, nelle opere presentate in mostra, delle simbologie intrinseche al

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ascritte al genio del Rinascimento. L’opera, recentemente restaurata dall’Opificio delle Pietre Dure, è al centro della mostra visitabile nel nuovo centro «Leo-Lev», complesso culturale nato dall’imponente intervento di recupero architettonico e urbanistico dell’ex villa BellioBaronti-Pezzatini e piazza Pedretti nel centro storico di Vinci. Per far conoscere ai visitatori la pigmentazione originale è esposta anche una copia a grandezza naturale dell’Angelo realizzata materiale prezioso. Lo scopo, tuttavia, non è solo quello di condurre una «storia della foglia d’oro nelle arti», mettendo in relazione gli aspetti tematici che ne presupponevano l’utilizzo alla fine del Medioevo e quelli che invece ne contemplano l’impiego ancora oggi: l’obiettivo della rassegna è infatti quello di cercare, in due momenti distanti della storia culturale del nostro Paese, i segni tangibili di una unica tradizione, che emerge con forza esuberante grazie soprattutto al recupero, da parte di autori moderni, di tecniche e procedimenti usati nei secoli trascorsi. info tel. 02 76024638; e-mail: info@salamongallery.com; https://salamongallery.com/ VINCI SE FOSSE UN ANGELO DI LEONARDO… Centro espositivo Leo-Lev fino al 2 febbraio 2020

Attribuito da Carlo Ludovico Ragghianti alla scuola del Verrocchio e da Carlo Pedretti al giovane Leonardo da Vinci, l’Angelo Annunciante custodito nella Pieve di San Gennaro in Lucchesia (Capannori, Lucca) è la piú grande fra le sculture

MEDIOEVO

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un aitante, giovane cavaliere: in questa mostra veleni, pozioni, medicamenti vengono infatti indagati lungo il loro piú volte millenario stratificarsi. Già nel Paleolitico, migliaia d’anni fa, gli uomini sapevano cercare sostanze utili alla migliore sopravvivenza, ma dobbiamo giungere a Paracelso, quindi al primo Cinquecento, per definire il concetto del dosaggio, elemento che può fare di un farmaco un veleno o viceversa. Il percorso espositivo spazia dai metallurghi dell’antichità, sottoposti ai fumi velenosi emessi dalla fusione e forse per questo deformi o ipovedenti, al mito di Medusa, alle streghe di età medievalemoderna. E poi grandi storie di cure, ma anche di delitti: fu la digitale, che ha dato vita in tempi moderni a farmaci del cuore, a essere fatale nel 1329 a Cangrande della Scala, vittima di un delitto volontario o di un errore

MILANO LEONARDO E LA MADONNA LITTA Museo Poldi Pezzoli fino al 10 febbraio 2020 (dal 7 novembre)

Torna per la prima volta a Milano, dopo quasi trent’anni la Madonna Litta di Leonardo, dipinto che costituisce oggi uno dei vanti dell’Ermitage di San Pietroburgo. Alla Madonna Litta fa da contorno un nucleo selezionatissimo di opere – una ventina tra dipinti e disegni di raffinata qualità – provenienti dalle collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, eseguiti da Leonardo e dai suoi allievi piú vicini (da Giovanni Antonio Boltraffio a Marco d’Oggiono, dall’ancora misterioso Maestro della Pala Sforzesca a Francesco Napoletano) negli ultimi due decenni del Quattrocento, quando il maestro viveva ed era attivo a Milano, presso la corte di Ludovico il Moro. La Madonna Litta è strettamente legata alla città di Milano:

dall’Opificio con i materiali e le tecniche pittoriche dell’epoca, oltre a diversi contributi multimediali dedicati alla scultura e al suo recupero. info tel. 0571 1735135 ESTE VELENI E MAGICHE POZIONI. GRANDI STORIE DI CURE E DELITTI Museo Nazionale Atestino fino al 2 febbraio 2020

Un’archeologa e un’esperta di storia della farmacia risalgono alla radice di leggende, storie, tradizioni. Per dare un senso preciso a ciò che sembra favola, riconducendo alla scienza ciò che si ritiene puro frutto della fantasia popolare. Per scoprire che se veramente la principessa avesse baciato il rospo, il bufonide le sarebbe effettivamente apparso come

nell’assunzione di una sostanza tossica? Accanto a reperti archeologici, sono esposti importanti dipinti con immagini di magie, nonché rare edizioni e manoscritti. info tel. 0429 2085; e-mail: pm-ven.museoeste@beniculturali.it; www.atestino.beniculturali.it

eseguita nel capoluogo lombardo nel 1490 circa, mostra notevoli affinità stilistiche con la seconda versione della Vergine delle rocce conservata alla National Gallery di Londra. Nel ducato milanese il dipinto oggi all’Ermitage conobbe una

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AGENDA DEL MESE SANSEPOLCRO LEONARDO DA VINCI: VISIONS Museo Civico di Sansepolcro fino al 24 febbraio 2020

notevole fortuna, come dimostra il grande numero di copie e derivazioni eseguite da artisti lombardi che ci sono pervenute. Nell’Ottocento, inoltre, era l’opera piú rinomata di una delle maggiori collezioni di opere d’arte milanesi, quella dei duchi Litta (da cui deriva il soprannome con cui è conosciuta in tutto il mondo) ed era conservata nel grande palazzo di Corso Magenta; l’Ermitage l’acquistò nel 1865 dal duca Antonio Litta Visconti Arese (1819-1866). info tel. 02 79.4889/6334; e-mail: ferraris@museopoldipezzoli. it; www.museopoldipezzoli.it

Fulcro della mostra sono alcuni progetti di Leonardo, che ben illustrano la sua attitudine a cimentarsi con temi di inaudita complessità. Il volo prende forma nei suoi studi e nelle macchine che ha disegnato. Leonardo si misura anche con l’idea di conferire il movimento a oggetti inanimati: il carro semovente e il leone meccanico testimoniano i risultati raggiunti. Infine, il progetto per la gigantesca statua equestre in bronzo in memoria di Francesco Sforza costituisce un’ulteriore prova dell’eccezionale intelligenza con cui affrontava le sfide piú audaci. Fanno da corredo video di approfondimento e animazioni 3D realizzati dal Museo Galileo di Firenze. info tel 199 15 11 21 oppure 0575 732218; www.museocivicosansepolcro.it URBINO RAPHAEL WARE. I COLORI DEL RINASCIMENTO Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale fino al 13 aprile 2020

La grande stagione rinascimentale italiana trova piena espressione in ogni forma artistica: quella della maiolica esprime pienamente la ricerca estetica, il clima culturale, ma anche il modus vivendi, che fa dell’Italia e dei suoi artisti, tra Quattrocento e Cinquecento, il faro culturale dell’Occidente. Dal Seicento in poi, nei Paesi europei, la maiolica cinquecentesca italiana diventa una vera e propria passione

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collezionistica e, a quella istoriata, da considerarsi a pieno titolo un aspetto della pittura rinascimentale, viene associato il nome del grande pittore urbinate: in inglese Raphael ware. E la Galleria Nazionale delle Marche espone, in questa mostra, 147 raffinati esemplari di maiolica italiana rinascimentale, provenienti dalla piú grande collezione privata al mondo, di questo genere, con l’obiettivo di focalizzare l’attenzione su quell’importante momento della tradizione artistica

italiana. L’esposizione è allestita al secondo piano del Palazzo Ducale di Urbino, nella luminosa Loggia del Pasquino, con l’intenzione di mostrare questi raffinati oggetti nella piena luce naturale, poiché la maiolica – piú di ogni altra forma d’arte del tempo – mostra i suoi colori perfettamente conservati come all’origine, quando uscí dalla bottega del ceramista. La loggia è posta a fianco alle sale che espongono una parte delle ceramiche della collezione permanente e l’allestimento – appositamente creato – verrà poi utilizzato proprio per ampliare lo spazio espositivo dedicato a questa sezione. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it

Appuntamenti SIENA LEONARDO E LA CULTURA SENESE. TRACCE DI RECIPROCHE INFLUENZE. GIORNATE DI STUDIO Accademia dei Fisiocritici, Accademia dei Rozzi, Accademia Senese degli Intronati 29-30 novembre

Le giornate intendono approfondire una tematica poco studiata, quella del rapporto fra Leonardo e la cultura senese, evidenziando quanto il genio, nella sua formazione, abbia attinto agli studi di architetti ed ingegneri senesi, quali Francesco di Giorgio Martini (Leonardo possedeva, e ha annotato, una copia del suo Trattato di architettura civile e militare, codice Ashburnham 361 della Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze) e Mariano di Jacopo, detto il Taccola, ma anche alle conoscenze fusorie che si avevano a Siena, ed analizzando quanto di leonardesco sia presente in pittori quali il Sodoma e Domenico Beccafumi. info Accademia dei Fisiocritici, tel. 0577 47002; e-mail: info@ fisiocritici.it; www.fisiocritici.it; Accademia dei Rozzi, tel. 0577 271466-280122; e-mail: info@accademiadeirozzi.it, www.accademiadeirozzi.it; Accademia Senese degli Intronati, tel. 0577 284073; e-mail: accademia.intronati@virgilio.it; www.accademiaintronati.it TORINO IL MARE ANTICO. POPOLI, STORIE, CULTURE Musei Reali di Torino, Museo di Antichità fino al 9 dicembre

Prosegue il ciclo di lezioni sulla storia e l’archeologia delle novembre

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APPUNTAMENTI • Gli Ordini di Terrasanta. Questioni aperte, nuove acquisizioni (XII-XVI secolo) Perugia – Sala dei Notari 14-15 novembre info www.ordiniditerrasanta.it

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l convegno intende approfondire la genesi e l’evoluzione politicoistituzionale degli Ordini di Terrasanta utilizzando come termine di riferimento la caduta di San Giovanni d’Acri. La conquista da parte del sultano d’Egitto della roccaforte del secondo regno di Gerusalemme costituí, infatti, un vero e proprio discrimen, da cui derivò, tra le altre cose, la diaspora dei canonici del Santo Sepolcro, che all’inizio del Trecento scelsero Perugia come «capitale dell’esilio», e degli Ordini militari affermatisi dopo l’esito vittorioso della prima crociata. Particolare attenzione viene riservata in tal senso ai Templari, agli Ospedalieri di San Giovanni di Gerusalemme e all’Ordine Teutonico, i tre Ordini che, tra il 1120 e il 1291, non soltanto si posero a presidio dei regni latini d’Oriente, ma, grazie all’edificazione di precettorie, commende, ospedali e castelli sparsi in tutta Europa, riuscirono a creare una capillare rete insediativoproduttiva e difensiva di cui ancora oggi si possono apprezzare persistenze di notevole interesse. Un’apposita sezione sugli Ordini di Terrasanta e le arti figurative costituisce l’occasione per illustrare gli interessanti esiti di una committenza composita e di lunga durata, in grado di dispiegarsi con modalità originali tanto in Outremer quanto in Europa. Grazie infine alle piú recenti acquisizioni storiografiche, si torna ad affrontare la questione dell’affaire dei Templari, vero e proprio caso politico tradottosi in un controverso processo di cui si analizzeranno le peculiari modalità procedurali prendendo in esame alcuni casi di specie.

grandi civiltà del Mediterraneo. Archeologi e storici ci accompagnano in un viaggio intorno all’antico, partendo dalle testimonianze conservate nel Museo di Antichità. Una rassegna di approfondimenti, spunti, novità, che disegna un periplo alla greca, guida e descrizione dei luoghi e dei costumi dei popoli che si incontrano lungo il percorso, ricco di indicazioni utili alla conoscenza e all’esplorazione. Questi i prossimi appuntamenti: 4 novembre:

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Alessandro Cavagna (Università di Milano), Dialogo sulla numismatica. La moneta come elemento basilare della storia economica antica; 11 novembre: Sandro Filippo Bondí, Le rotte dei Fenici. La presenza della cultura fenicia e punica nel Mediterraneo, tra Vicino Oriente Cipro, Cartagine, e la Penisola Iberica; 18 novembre: Massimo Vidale, Da Gastaldi ai grandi enigmi del Paleolitico. Problemi, dubbi, nuove idee sulle più antiche manifestazioni della tecnologia umana; 25 novembre: Christian Greco, Torino e l’Egitto, duecento anni di storia. Dalla formazione della collezione alla ricerca archeologica; 2 dicembre: Daniele Morandi Bonacossi, Iraq, culla della civiltà. Una riflessione sulla protezione e valorizzazione del patrimonio archeologico dell’Iraq; 9 dicembre: Luca Bombardieri e Giampaolo Graziadio, Cipro a Torino: un

viaggio inatteso nel Mediterraneo antico. Archeologia di un’isola mediterranea in vista di una grande mostra. info e prenotazioni e-mail: info@coopculture.it; www.museireali.beniculturali.it MILANO MEDIOEVO IN LIBRERIA, XVIII EDIZIONE IL MEDIOEVO DEI CASTELLI Museo Civico Archeologico, Sala Conferenze fino al 4 aprile 2020

«Il Medioevo dei castelli» è il tema scelto per la XVIII edizione di «Medioevo in Libreria», rassegna che prevede visite guidate al mattino, proiezioni video e conferenze al pomeriggio. Tutti gli incontri pomeridiani hanno inizio alle ore 15,30 con la proiezione del filmato Medioevo Movie-Viaggio nel Medioevo, a cui fanno seguito le conferenze. Qui di seguito, l’elenco dei prossimi

appuntamenti: 9 novembre: ore 10,00, visita guidata alla chiesa di S. Maria del Carmine; ore 16,00: Elena Percivaldi, 35 Castelli imperdibili in Lombardia; 14 dicembre: ore 10,00: visita guidata alla chiesa di S. Maria presso S. Satiro; ore 16,00: Giuseppe Ligato, I castelli della Terra Santa. info tel. 333 5818048; e-mail: info@ italiamedievale.org; www.italiamedievale.org; http:// medioevoinlibreria.blogspot.com FIRENZE INCONTRI AL MUSEO. VIII EDIZIONE Museo Archeologico Nazionale fino al 4 giugno 2020

Tornano gli ormai tradizionali incontri del giovedí presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Gli appuntamenti, a ingresso gratuito, sono in programma alle 17,00. Queste le prossime date: 7 novembre: Roberta Salibra, Kamarina e le sue necropoli: tipologie, corredi e rituali funerari; 21 novembre: Marco Serino, Musica, rito, tradizioni stesicoree: strategie iconografiche sui vasi a figure rosse di Himera nel V secolo a.C.; 12 dicembre: Diana Perego, La festa greca delle Dionisie Rurali e la falloforia su una celebre coppa del Museo Archeologico di Firenze. info tel. 055 23575 o 2357717; e-mail: pm-tos. musarchnaz-fi@beniculturali.it; www.polomusealetoscana. beniculturali.it

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l’intervista chiara frugoni incontro con Chiara Frugoni, a cura di Furio Cappelli

Un capolavoro tra pace e guerra I

magnifici affreschi realizzati da Ambrogio Lorenzetti nella Sala della Pace del Palazzo Pubblico, a Siena – l’Allegoria del Buon Governo e l’Allegoria della Tirannide – compongono un chiaro manifesto di propaganda politica: è questa la chiave di lettura scelta da Chiara Frugoni per il suo studio sulle celebri opere, appena pubblicato per i tipi del Mulino. Per indagare nascita ed evoluzione di questa ricerca il nostro collaboratore Furio Cappelli ha incontrato la studiosa... I l ciclo affrescato di Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena vanta una lunga tradizione di studi. Come nasce l’idea di questo tuo nuovo libro? «La bibliografia che esiste su questi affreschi è davvero sterminata. Gli studiosi si sono finora soffermati moltissimo sulla parte allegorica ma, tutto sommato, hanno guardato poco le altre due pareti, sentendole comunque disgiunte rispetto alla parte centrale, mentre io credo che vadano viste come parti di un insieme omogeneo. Con un certo stupore mi sono poi resa conto che,

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per quanto riguarda l’Italia, non esisteva un libro che parlasse di tutti gli affreschi in maniera approfondita e documentata, ricorrendo anche alle fonti archivistiche e letterarie». Paradiso vista Inferno è un’occasione per tornare su un argomento che ti ha appassionato in diverse occasioni della tua vita e della tua attività di studiosa. Ricordo, in particolare, Una lontana città. Sentimenti e immagini del Medioevo (1983)... «Sí, in Una lontana città ho dedicato un intero capitolo abbastanza pionovembre

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nieristico al Buon Governo e alla Tirannide. In seguito mi sono sempre tenuta aggiornata, perché intorno al Buon Governo si era scatenata una grandissima polemica fra due storici inglesi, Quentin Skinner e Nicolai Rubinstein (1911-2002), che avevano idee opposte sulle fonti ispirative dell’opera, e in questo «duello» si è inserita poi la storica dell’arte Maria Monica Donato (1959-2014). Era molto appassionante seguire le diverse argomentazioni. Direi che ormai questa grande contesa si è ormai acquietata. L’idea

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vincente è quella di Rubinstein, secondo il quale una delle fonti di riferimento dell’affresco è effettivamente Aristotele, attraverso il filtro, però, di una interpretazione politica ben definita, riconducibile all’opera dei giuristi e dei predicatori del mondo comunale». A questo proposito, un aspetto reso davvero evidente da Paradiso vista Inferno è che, dietro a una rappresentazione cosí complessa e significativa, ci sia una grandissima cultura, non soltanto figurativa, ma anche lettera-

Salvo diversa indicazione, tutte le immagini che corredano l’articolo si riferiscono al ciclo Allegoria e gli Effetti del Buon Governo e della Tirannide, affrescato da Ambrogio Lorenzetti, fra il 1338 e il 1339, nella Sala della Pace del Palazzo Pubblico di Siena. Sulle due pagine particolare dell’Allegoria del Buon Governo: una scena di vita quotidiana nella città di Siena. Nella pagina accanto Allegoria del Buon Governo: Iustitia con la spada sguainata, l’indice sull’elsa e in grembo una corona e una testa mozzata.

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l’intervista chiara frugoni

ria. Lo stesso Lorenzetti potrebbe essere definito un semplice esecutore oppure una persona direttamente coinvolta nella concezione dell’opera? «Non abbiamo documenti che parlino di Lorenzetti come coadiutore, ma è molto probabile che lui abbia anche partecipato a una cosí geniale “traduzione” dei concetti giuridici, proprio perché era una persona estremamente colta. Questo aspetto è stato tramandato dalle Vite del Vasari (1550), il celebre storico dell’arte aretino, e gli è stato riconosciuto dai suoi concittadini durante la vita di Lorenzetti stesso. In base alle fonti, per esempio, in una riunione pubblica prese la parola e, di fronte

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a una questione che divideva tutti i Senesi, disse “parole sapienti”. Purtroppo non sappiamo quali parole sapienti avesse detto, ma questo ci fa capire come fosse considerato. Parla della sua cultura anche il suo testamento. Lorenzetti muore di peste con tutta la famiglia, ma, poco prima di morire, del tutto consapevole di quello che sarebbe successo, stila di persona il documento sulla pergamena, ed è evidente come fosse in grado di padroneggiare completamente anche le clausole giuridiche. Con grande lucidità, sapeva dunque stendere un documento importante anche in un tempo cosí angoscioso quale era quello in cui si

trovava. Prevede che la sua eredità passi alla moglie e alle figlie, a seconda di chi sarebbe rimasta in vita, e poi, nel caso che anche loro fossero morte, il tutto andava devoluto a un’associazione benefica. Possiamo immaginare che, dietro al Buon Governo, la principale magistratura cittadina del tempo, vale a dire il Consiglio dei Nove, abbia espresso i concetti fondamentali del suo credo politico, e va anche ricordato come in quel tempo si stessero rielaborando con grande impegno gli statuti comunali. Da una parte, quindi, si riconosce senz’altro una cultura giuridica molto forte, ma, dall’altra, per trasporre in novembre

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In alto Effetti del Buon Governo in città: particolare degli edifici; in quello di destra, si noti l’animazione del davanzale. A sinistra Effetti del Buon Governo in città: nove fanciulle danzano al ritmo del tamburello della decima compagna. A destra Effetti del Buon Governo in campagna: si va verso Siena, con la speranza di vendere bene.

modo cosí geniale una serie di concetti politici, e per renderli graditi al pubblico, occorreva una persona che non fosse soltanto l’esecutore di un programma. Penso cioè che lo stesso Lorenzetti abbia partecipato alla fase ideativa del ciclo». Per entrare nel vivo di questo programma, che viene spesso ricordato come rappresentazione del Buono e del Cattivo Governo, qual è a tuo giudizio la formulazione piú esatta? «Io credo che sia improprio parlare di Buono e di Cattivo Governo, che comunque è un’espressione recente. Nel Medioevo si parlava della Pace e della Guerra. In realtà, i Nove non

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propongono un governo che può essere declinato in positivo o in negativo. Secondo loro esiste un unico governo, il loro, altrimenti c’è la Tirannide, vale a dire uno scenario fatto di disastri, uccisioni, cadaveri, dove tutto è all’insegna dell’anarchia, e tutti sono tesi al bene proprio, cosicché si verifica la rovina della città e della campagna. Infatti nell’affresco della Tirannide – che purtroppo è molto rovinato, probabilmente per infiltrazioni d’acqua, per cui non è stato ben osservato –, vediamo una campagna che non è coltivata, e senza alcun albero da frutto. Tutti gli edifici sono a pezzi, ci sono incendi, ci sono eserciti che

vengono da tutte le parti, e quindi c’è una desolazione totale. Contribuisce all’effetto un colore volutamente cupo che Lorenzetti ha dato a questa parte del ciclo, dove la componente allegorica è tutt’uno con il suo rispecchiamento nella realtà. Nel Buon Governo, invece, Lorenzetti ha preferito dedicare una intera parete al concetto politico, per poi mostrare su un’altra parete la realtà positiva di Siena in città e in campagna». ante volte è stata sollevata una queT stione, se le due città rappresentate siano la stessa Siena oppure se la Tirannide sia ambientata altrove. Qual è la tua opinione al riguardo?

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l’intervista chiara frugoni A sinistra Allegoria del Buon Governo: i gemelli Senio e Ascanio, figli di Remo e leggendari fondatori di Siena, ai piedi della personificazione del Comune/Ben Comune. In basso Allegoria della Tirannide e gli effetti in città: Tyrannides e la sua corte.

mediato, ma bastano pochi tocchi di grafica digitale per poterli sovrapporre. Si scopre cosí che sono identici. Infatti, i Nove volevano proprio mostrare una realtà incombente. I cittadini cioè non dovevano pensare a un nemico lontano. Il nemico era dentro di loro, nel caso avessero fatto mancare il consenso al governo dei Nove. La loro città, la stessa Siena, sarebbe stata cosí destinata alla rovina, ed è proprio per questo che doveva risultare perfettamente riconoscibile, sia nell’ambiente urbano che nella campagna».

«In realtà si è sempre pensato che fosse un’altra città. Due studi recenti hanno cercato di precisare che fosse Pisa o Grosseto, città spesso nemiche di Siena. Tuttavia, i giochi di potere erano cosí mutevoli che sarebbe stato molto rischioso rappresentare una città come nemica, quando poi, ma-

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gari, nel giro di poco tempo, sarebbe potuta divenire alleata. D’altronde, proprio con l’aiuto delle immagini, io ho potuto dimostrare come molti edifici che si trovano nel Buon Governo si ritrovano nella Tirannide. Magari sono riproposti in modo speculare, cosicché non si riconoscono nell’im-

I l ciclo poteva fungere anche da deterrente. Quanti accusavano i Nove di non saper svolgere adeguatamente il loro ruolo, o di essere addirittura corrotti, venivano duramente contraddetti da questa rappresentazione... «Sí, ed è evidente anche da un dettaglio che oggi non c’è piú. A tal riguardo mi sono potuta avvalere delle riproduzioni ad acquerello eseguite nel XIX secolo dal pittore tedesco Johann Anton Ramboux (1790-1866), finora assai poco usate ma davvero preziose, proprio perché permettono di ricostruire anche talune parti che novembre

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sono andate perdute. Ebbene, al centro dell’allegoria del Buon Governo, ai piedi di quel bellissimo vecchio che raffigura il Ben Comune, Ramboux mostra la cassa dei soldi. Lo stesso particolare si riscontra in altri disegni dello storico dell’arte Giovanni Battista Cavalcaselle (1819-1897), non ancora utilizzati a fondo. Questo è molto interessante, perché si tratta proprio di una risposta alle accuse di corruzione mosse al governo dei Nove. Il fatto che si metta ai piedi del Ben Comune la cassa con il denaro asserisce un fatto preciso, ossia che lo stesso denaro pubblico è assolutamente al sicuro, dal momento che il governo agisce in un regime di totale correttezza». Il ciclo, quindi, si inserisce perfettamente all’interno di un clima politico ben definito dal regime dei Nove, che ne sono i committenti, e che intendono tutelare la propria immagine e affermarla con maggior forza proprio attraverso questi affreschi. Viene istintivo chiamare in causa quella retorica del consenso che passa spesso attraverso le immagini, e che riguarda anche situazioni vicine a noi... «Per far sí che un concetto venga propagandato, diffuso e accettato, oggi ci sono moltissimi mezzi – la rete, la televisione, la radio, i comizi –, e quindi le cose si possono ripetere in continuazione, mentre tutto questo nel Medioevo non era possibile. Pensiamo tra l’altro alla lentezza dei contatti, tanto che, per spostarsi da una città all’altra, occorrevano giorni. Si ricorre cosí a una voce che non svanisce, quella degli affreschi appunto. Questo ciclo ha un messaggio politico. Si tratta quindi di un manifesto, ma in un senso tutto particolare. Mentre nel Medioevo siamo abituati a vedere storie di personaggi importanti di cui comunque conosciamo le vicende – un sovrano, un santo, un dignitario –, qui invece, ed è una novità, i protagonisti sono gente comune senza storia. Di con-

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Particolare dell’Allegoria del Buon Governo, nella replica ad acquerello di Johann Ramboux. 1832-1842. Düsseldorf, Kunstmuseum.

seguenza, tutti coloro che entravano nella Sala della Pace – e noi sappiamo che questa sala era aperta al pubblico – si riconoscevano, e quindi vedevano se stessi rappresentati nelle figure delle pareti. Questo è un modo estremamente abile per riuscire a stabilire un consenso, perché cosí i cittadini si rispecchiavano in una società operosa ben definita, quella di Siena. In un tale contesto sembrava che tutti fossero importanti, quando poi in realtà sappiamo che i piccoli artigiani non erano per niente protetti, i contadini avevano una vita molto dura, i nobili – che pure non potevano essere eletti nel consiglio dei Nove – avevano grandi rapporti di affari con loro. C’è una grandissima abilità nel mostrare l’utilità di tutti, vecchi, giovani e perfino bambini. Tra tutti i mestieri, viene dato particolare risalto alla bottega di un calzolaio. Dalle fonti sappiamo infatti che proprio i calzolai hanno sventato varie volte delle congiure contro i Nove, i quali, di conseguenza, sono attenti a mostrarsi grati per l’appoggio di cui hanno goduto».

Riflettendo sul rapporto tra il Buon Governo e la realtà effettiva in cui questa visione si inserisce, in che modo Lorenzetti abbellisce il quadro che aveva di fronte ai suoi stessi occhi? «Rappresenta come realtà assoluta quello che poteva essere una visione del futuro. In quel momento, infatti, la situazione non era affatto cosí esaltante, anzi, sappiamo dalle fonti che era in corso una enorme carestia, mancava l’acqua – Siena ha sempre avuto questo problema –, ed era diffusa una grande inquietudine sociale. Uccisioni e insurrezioni erano all’ordine del giorno. Molti turbamenti erano legati alle dure lotte tra i Salimbeni e i Tolomei. Possiamo imbatterci in particolari davvero agghiaccianti. Leggiamo per esempio che nella Piazza del Mercato, dietro Piazza del Campo, c’era addirittura un condotto per far scolare il sangue, talmente tante erano le esecuzioni. Un esponente dei Nove aveva fatto precipitare una persona proprio da una finestra del Palazzo Pubblico. Si registra anche l’uccisione di un notabile che stava giocando tranquillamente agli scacchi in casa sua.

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l’intervista chiara frugoni

In alto Allegoria del Buon Governo: Giustizia in trono. A sinistra miniatura raffigurante le botteghe di Rouen, da Cy commance le livre du gouvernement des princes fait de frere Gilles Romain, de l’ordre des freres hermites de saint Augustin. 1501-1525. Parigi, Bibliothèque de l’Arsenal.

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A contrasto di una situazione estremamente tesa e instabile, vediamo una campagna bellissima, dove convivono tutte le stagioni, in modo che sia il piú opulenta possibile. Il contadino ara e semina, come accade nei mesi di ottobre e di novembre, ma contemporaneamente falcia e trebbia il grano, come in estate. Allo stesso modo, l’uva e le olive sono già mature. Le strade vicino a Siena appaiono selciate, e sembrano quindi percorribili in ogni stagione, mentre sappiamo che, in realtà, con il sopraggiungere dell’inverno, il fango le rendeva impraticabili. D’altronde in tutto il ciclo affrescato non si vede un solo carro. Tutti vanno a piedi, mettendo il poco che si poteva trasportare a dorso di un mulo o di un cavallo. In città c’è un fervore edilizio estremo. Vediamo la Torre del Mangia in corso d’opera, ed è citato anche il duomo. In questa rappresentazione la città è essenzialmente laica – c’è solo qualche chiesa, presente però in sordina –, ma il duomo assume una funzione particolare, perché la sua trasformazione in un edificio gigantesco – fallita per tanti motivi – faceva proprio parte del progetto politico dei Nove. I cittadini che entravano in questa sala non vedevano solo il “catalogo” degli edifici piú belli di Siena, ma un piacevolissimo spaccato di vita estremamente lieta e tranquilla, con un gatto che corre sulla ringhiera di una casa, l’uccellino in gabbia, gente che gioca a dadi, il sarto, il venditore delle stoffe, donne che guardano divertendosi la gente che passa, una fanciulla che innaffia i fiori... I Nove, in sostanza, promettono ciò che fanno vedere, a patto che possano continuare a governare. Qualcosa del genere accade tutt’oggi, ogniqualvolta i politici dicono: “Dateci tempo e tutto migliorerà”». Attraverso gli affreschi, nelle chiese, con la rappresentazione dell’inferno del Giudizio universale, si prospettava

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Effetti del Buon Governo: particolare raffigurante alcuni pennecchi, termine che indicava i rotoli di lana preparati per la filatura.

la dannazione eterna a chi non si fosse comportato bene in vita. Allo stesso modo, nell’ottica profana del ciclo di Ambrogio Lorenzetti, potremmo definire la Tirannide una rappresentazione infernale, contrapposta alla «realtà» paradisiaca della Siena dei Nove... «Per questo ho intitolato il libro Paradiso vista Inferno. Non a caso Lorenzetti utilizza con grande disinvoltura schemi religiosi presenti alla memoria dei cittadini. Per esempio, nella parte allegorica, noi vediamo una sfilata di 24 cittadini che potrebbero essere i beati che vanno in paradiso. Dall’altra parte, si osserva un gruppo di persone che si avviano alla morte perché sono state condannate, a seguito di una rivolta domata. Sono il corrispettivo dei dannati all’inferno. Sono tante, poi, le citazioni bibliche, a cominciare dal versetto che è l’inizio del Libro della Sapienza, ma che segna anche l’inizio del ciclo: Diligite iustitiam qui iudicatis terram (“Amate la giustizia, voi che giudicate sulla terra”). Il versetto biblico, in questo modo, acquisisce un senso ovviamente terreno. D’altronde, la cultura religiosa era qualcosa di molto familiare, molto piú di quanto si veda al giorno d’oggi».

In questo rapporto di scambio tra sacro e profano, san Bernardino da Siena (1380-1444) ci fa vedere come un predicatore possa prendere spunto dagli affreschi del Lorenzetti... «Bernardino da Siena, che compare spesso nel mio nuovo libro, in piú occasioni cita proprio il Buon Governo e la Tirannide. Il santo frate indica come soggetti del ciclo affrescato la Pace e la Guerra, e ne offre un’interpretazione molto perspicace. Tra l’altro, durante i miei studi per Una lontana città, avevo formulato una ipotesi sull’immagine di una fanciulla a cavallo che, con il suo seguito, si avvia fuori dalla città. Ritenni che stesse a indicare un matrimonio, perché pensavo vi fosse un rapporto tra l’idea dell’accordo tra tutti i cittadini in pubblico e l’idea che l’accordo debba cominciare da una coppia di coniugi. La stessa concezione è espressa in quei sarcofagi romani dove viene proposto il matrimonio proprio come simbolo della concordia pubblica. Quella che all’inizio era soltanto una mia ipotesi ha trovato poi conferma in una predica di san Bernardino, là dove, in relazione all’affresco, egli parla di una fanciulla portata a nozze.

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l’intervista chiara frugoni

Sempre per san Bernardino – anche se la cosa può stupirci – la giustizia è “santa”, sebbene nel ciclo di Lorenzetti la Sicurezza tenga in mano la macabra immagine di una forca con un impiccato. Per Bernardino deve regnare l’ordine pubblico, per cui è perfettamente giusto che chi tenta di comprometterlo venga condannato a morte».

In alto Effetti del Buon Governo in città: lo stemma con le chiavi pontificie. Al centro e in basso Effetti della Tirannide: lo stemma del Popolo di Siena riemerso dopo i restauri del 1985 e un particolare delle foglie metalliche dei gigli di Francia.

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N aturalmente una rilettura generale è anche l’occasione per scendere nei dettagli e per evidenziare aspetti che fino a questo momento non erano stati messi perfettamente a fuoco... «Una serie di immagini portate a confronto mi ha permesso di comprendere particolari che erano sfuggiti. Per esempio, nella rappresentazione della città di Siena, sulla destra, proprio vicino alle mura, da una finestra pendono alcuni bacili, che sembrano di ottone, e un grande scialle bianco. Ebbene, ho trovato una miniatura dove questi stessi particolari ritornano, insieme però a un personaggio che nell’affresco non

c’è, vale a dire il cliente di una bottega di barbiere. Gli scialli servivano ad avvolgere proprio i clienti, mentre i bacili contenevano l’acqua per la rasatura e per la lavatura dei capelli. Vicino a una grande lacuna, era rimasto il brano di un graticcio rosso veramente difficile da interpretare, e anche in questo caso l’immagine di un mercante che sta pesando le monete è stata risolutiva. Le monete, infatti, in quell’epoca venivano ancora pesate, e si utilizzava una scatola con scomparti rettangolari dove si ripartivano i vari pesi di piombo. Un’altra piccola correzione, riguardo alla parte allegorica, concerne l’angelo che, insieme a uno staio – che serviva a misurare il grano – dà ai mercanti una canna e un passetto, che erano entrambi strumenti di misurazione lineare: in realtà non si tratta di un abbinamento canna-passetto, perché in tal modo ci sarebbe stata una inutile ridondanza. La canna è invece abbinata a una stadera con il peso, vale a dire una bilancia. In tal modo vengono dati ai mercanti tutti gli strumenti che garantiscono la correttezza degli scambi commerciali: lo staio per il grano, la canna – che poteva, per esempio, essere utilizzata per le stoffe –, la bilancia per pesare merci di ogni genere. A un certo punto, vicino alle mura, si vede arrivare una carovana con un carico di lana, e c’è la rappresentazione di tutta la lavorazione in ogni fase, dalla cardatura alla filatura per giungere infine alla tessitura, con i manufatti attentamente passati in rassegna per eliminare le imperfezioni. Si notano poi strani oggetti fioccosi che pendono, e ho potuto verificare che si tratta di pennecchi, ossia dei rotoli di lana preparati per la filatura». L’esame diretto dei dipinti ha poi consentito di svelare un caso singolare di cambiamento in corso d’opera, in stretta connessione con l’attualità... «Sí, nella parte della Tirannide, sul fregio in alto, c’era, fino all’ultinovembre

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Effetti del Buon Governo: l’insegna dell’albergo del Drago ed elaborazione grafica (a destra) che evidenzia l’animale.

mo restauro, uno scudo con i gigli di Francia, sottoposti a doratura nell’Ottocento. Proprio per questa ragione, non essendo ritenuti elementi connessi all’opera di Lorenzetti, sono stati tolti, e, nel toglierli, è emerso lo stemma del popolo di Siena con il leone rampante. Io però pensavo che non c’era alcuna ragione, nell’Ottocento, per cambiare solo quello stemma, e ritenevo quindi che i gigli fossero stati sí ridorati, ma fossero medievali. Grazie alla gentilezza e alla liberalità della direttrice del Museo Civico, Veronica Randon, è stata compiuta una visione ravvicinata con un trabattello dal restauratore Massimo Gavazzi e dall’ex sovrintendente Alessandro Bagnoli, ai quali va la mia gratitudine. Le tracce rimaste hanno permesso di accertare che i gigli erano effettivamente medievali. Rimaneva da capire per quale ragione, a un certo momento, fosse stato apportato questo mutamento in corso d’opera. Un indizio è fornito dalla parte opposta, dove, in corrispondenza della raffigurazione dello scudo, in alto, c’è lo stemma con le chiavi pontificie. Esiste inoltre una lettera indirizzata dai Nove a Roberto d’Angiò in cui essi chiedono di intervenire presso il papa affinché dia il privilegio di uno studio generale a Siena. A questo punto, si può sostenere che il cambiamento dello stemma con l’adozione dei gigli di Francia fu dovuto al desiderio di ingraziarsi il sovrano, affinché sostenesse la richiesta dei Nove». Bisogna anche dire che nella raffigurazione del Buon Governo non mancano riferimenti alla guerra, e quindi non viene nascosto il lato piú duro della vita politica, soprattutto nel rapporto con le realtà circostanti. C’è un dettaglio a tal riguardo nell’allegoria della Pace, ossia l’utilizzo dell’ulivo...

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«La Pace, questa figura mollemente adagiata sul divano, riprende l’immagine della Securitas presente nelle monete romane, e questo lungo cuscino è in realtà sovrapposto a una distesa di armi e di scudi. La pace, quindi, riposa sulle armi, e in piú, come attestano testimonianze letterarie del tempo, l’ulivo nel Medioevo rappresentava la vittoria. Era un elemento simbolico che la parte vincente conferiva agli sconfitti. Il concetto che ne deriva è che Siena, poiché è in grado di dare l’ulivo, può sconfiggere tutti. Vince sempre. D’altro canto, in quella parte dell’allegoria dove si assiste a una rivolta domata – con i due signori in ginocchio intenti a offrire i loro castelli –, si sottolinea molto che nel cuore di Siena esistono sí armati, e c’è la Fortitudo armata di mazza, ma non c’è necessità di ricorrere alla forza, tanto che la Fortitudo tiene la mazza a rovescio. Esiste cioè formalmente la possibilità di difendersi, ma non ce n’è alcun bisogno, dal momento che la città è molto tran-

quilla, esattamente il contrario di quanto noi possiamo leggere nelle fonti contemporanee». Per concludere, come sei arrivata a riconoscere una locanda? «Presso le mura, là dove si assiste al ciclo della lavorazione della lana, sulla facciata di un edificio c’è una catena alla quale è attaccato un elemento nero, di forma esagonale, con una tavoletta sopra. Potendo vedere da vicino e fotografando il dettaglio, si è visto che era l’insegna con il disegno di un bel drago. Sappiamo che a Siena c’erano tantissime locande con animali nell’insegna, per esempio quelle dell’oca, del pavone. E penso che Lorenzetti sia stato attento a scegliere un’insegna non utilizzata in città, perché altrimenti sarebbe stato accusato di parzialità». F

Da leggere Chiara Frugoni, Paradiso vista Inferno. Buon Governo e Tirannide nel Medioevo di Ambrogio Lorenzetti, il Mulino, Bologna, 340 pp., ill. col., 38,00 euro ISBN 978-88-15-28522-5

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L’isola di Carlo

di Andreas M. Steiner fotografie di Daniel Cilia

Nei suoi quindici anni di regno, l’ambizioso principe francese mise piede una sola volta in Sicilia e, verosimilmente, non visitò mai l’arcipelago maltese. Eppure, il piú piccolo dei regi demani, proprio in età angioina assume rilevanza internazionale. Grazie anche a un drammatico accadimento della storia moderna…

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n piccolo arcipelago, composto da due isole maggiori (Malta e Gozo) e da qualche isolotto disabitato, situato al centro del Mediterraneo: 90 km a sud della Sicilia, poco piú di 300 km dalla costa tunisina a ovest e circa 340 km da quella libica, a sud. Un lembo d’Europa, dunque, minuscolo in verità, posto in una posizione «strategica». Una posizione che, finché la forza motrice degli spostamenti dell’uomo era prodotta dalle braccia dei vogatori o dai venti che gonfiavano le vele di galere e cocche, ne ha, in amplissima parte, condizionato le vicende storiche. È stato sottolineato spesso – e a ragione – che la storia antica dell’arcipelago è stata scritta perlopiú da protagonisti e potenze venuti da fuori, un destino condiviso da tutte le realtà territoriali piccole, tanto piú se isolane, prive di una propria «personalità» militare e difensiva. Eppure, come abbiamo già illustrato in alcuni nostri precedenti contributi (vedi «Medioevo» nn. 223,

240 e 253, agosto 2015, gennaio 2017 e febbraio 2018; anche on line su issuu.com), un «caso maltese» esiste: i capitoli che, sin dalla remota preistoria, scandiscono l’avventurosa storia dell’arcipelago presentano, infatti, alcuni tratti di particolare unicità. Per giunta, l’intrigante questione dell’«identità maltese» – cosí spesso evocata da coloro che si sono appassionati alla storia dell’arcipelago – acquisterà i suoi contorni proprio nei secoli del millennio medievale: a partire dall’occupazione araba che, iniziata nell’870, si protrae per due secoli, fino all’avvento dei Normanni di Ruggero d’Altavilla e al successivo dominio svevo. Da isola culturalmente piú «africana», dunque, attraverso la conquista normanna Malta rientra nell’orbita d’influenza della grande isola madre (ricordiamo, infatti, che il primo popolamento dell’arcipelago aveva preso le mosse, in età preistorica, proprio dalla Sicilia). Nel nostro ultimo contributo (All’ombra della grande isola, in «Medioevo» n. 253), abbiamo ripercorso le

Nella pagina accanto statua di Carlo I d’Angiò, opera di Arnolfo di Cambio. 1277 circa. Roma, Musei Capitolini. Sulle due pagine vedute dell’arcipelago maltese, con, in primo piano, Gozo, seguita dalla piccola Comino (al centro) e, sullo sfondo, l’isola-madre Malta.

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vicende del dominio svevo sull’arcipelago, evidenziando come l’azione politica di Federico II abbia impresso una svolta decisiva alla compagine demografica e religiosa delle isole. I cinquant’anni di regno federiciano, culminati nella deportazione di ampia parte della popolazione araba (avvenuta negli anni tra il 1224 e il 1246), imprimono una svolta alla storia maltese, capovolgendone il destino storico: da territorio periferico del regno di Sicilia, abitato da una popolazione contadina di religione islamica, Malta viene a far parte della grande compagine latina e cristiana. Un processo accelerato – verso la metà del XIII secolo – dalla conversione forzata della popolazione islamica (e, verosimilmente, anche di alcuni abitanti di religione giudaica) e dal rientro in Africa di coloro che avevano preferito seguire il richiamo dei capi religiosi a riunirsi alla «casa dell’Islam». Sta di fatto che – secondo quanto afferma lo storico maltese Charles Dalli – nel 1250 In alto una veduta della fertile valle di Pwales (forse dal latino palus= palude), sull’isola di Malta, menzionata in un documento angioino del 1270. A destra reale aureo, coniato a Messina, con l’immagine di Carlo d’Angiò e, al verso, lo stemma dei reali francesi. Nella pagina accanto le tappe della conquista angioina in Italia meridionale e nella Sicilia.

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o, al piú tardi, nel 1270, l’ultimo abitante musulmano era scomparso dalle isole. Da un punto di vista della storia culturale non si trattò, però, di un evento cosí radicale: gli umili contadini maltesi, seppure convertiti forzatamente alla fede dei nuovi dominatori, non abbandonarono per questo i luoghi e i modi del proprio vivere quotidiano. E, soprattutto, non abbandonarono lo strumento del loro comunicare: quel dialetto arabo che, dopo secoli di dominazione islamica, era diventata la loro lingua madre.

Il figlio del «Pescatore»

Verso la metà del XIII secolo, una serie di eventi apriranno una nuova fase della storia maltese: nel 1256, un tale Nicoloso, figlio di Arrigo detto «il Pescatore», il celebre corsaro genovese e «conte» di Malta (un’onorificenza tributata dai regnanti svevi ai notabili genovesi come ricompensa per il loro aiuto durante la conquista della Sicilia), rinverdisce le pretese genovesi sull’arcipelago inscenando una rivolta nelle isole. L’anno successivo Manfredi, figlio illegittimo di Federico II e futuro re di Sicilia, consapevole del potere raggiunto dalla città ligure, concede l’amnistia ai rivoltosi e stila un patto di alleanza tra Genova e la Sicilia. Nel giro di pochi anni, però, il controllo genovese sull’arcipelago maltese verrà minato da un’ulteriore, rapida successione di accadimenti tali da modificare per sempre lo scacchiere dell’Europa novembre

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1266 Invasione angioina

Agosto 1268 Morte di Corradino a Tagliacozzo

PATRIMONIO DI SAN PIETRO

Pescara

Febbraio 1266 Morte di Manfredi

Tagliacozzo

Enclave saracena

Roma

1272 Conquista di Corfú, Valona e Durazzo

Lucera Benevento Napoli

Brindisi APULIA LUCANIA Si unisce alla crociata di Luigi IX contro Tunisi

1278 Conquista dell’Acaia CALABRIA Messina

Palermo

Sciacca

Catania

Agrigento

1269-1271 Spedizione contro la Sicilia meridionale

Siracusa

1267 Rinforzi contro gli Angioini MALTA

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storie malta Tutti i leopardi del re In maniera non dissimile dai suoi predecessori svevi, anche Carlo I d’Angiò si riforniva di falconi provenienti da Malta. In un documento del 1272 si legge che un numero di questi volatili fu inviato al re dal capitano Giovanni de Pontibus. Una particolare predilezione del sovrano francese riguardava, però, i leopardi: nel 1273 Roberto Cafuro, gran ciambellano e massarius del re nell’isola, fu incaricato di catturare otto leopardi, verosimilmente sulla costa nordafricana, e consegnarli nel leopardario a Malta. Da lí, nel mese di marzo dell’anno seguente, gli animali vennero ritirati da un emissario del re (un musulmano di Lucera di nome Gentile), appositamente venuto da Siracusa. Un documento attesta, inoltre, l’invio da parte del procuratore di Malta di sei leopardi a Napoli, accompagnati da un certo Donadeus, anch’egli un saraceno di Lucera.

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meridionale e del Mediterraneo: nel febbraio del 1266, le truppe sveve affrontano a Benevento la strapotenza dell’esercito guelfo al comando di Carlo I d’Angiò. Manfredi cade in battaglia. Nel 1267 lo schieramento antiangioino invoca l’aiuto della potenza navale pisana, promettendo in cambio il controllo dell’arcipelago maltese. Ma la vittoria degli Angioini nella battaglia di Tagliacozzo (1268), seguita dalla cattura e dalla decapitazione del giovane Corradino di Svevia, annullerà l’accordo. Il regno di Sicilia è, ormai, in mano guelfa.

La crociata di Tunisi

È stato piú volte ricordato come la mancanza di documenti scritti abbia costituito – e tuttora costituisca – uno dei principali ostacoli incontrato dagli studiosi del medioevo maltese. Cosí, il ruolo dell’arcipelago in alcuni episodi di non secondaria importanza, risulta del

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A destra il cortile loggiato seicentesco, facente parte del Palazzo dei Normanni a Palermo. In basso parete musiva con immagine di leopardi, dalla sala di Ruggero nel Palazzo dei Normanni.

In alto Padova. Un loggiato con trifora che ingentilisce la facciata della casa di Ezzelino I il Balbo.

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storie malta Luigi IX di Francia (san Luigi), fratello maggiore di Carlo I d’Angiò, in un dipinto di Jean de Tillet. 1555-1566. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

Tolosa

Lisbona

Monaco

CORSICA Napoli SARDEGNA

Toledo Cordova Gibilterra

GENOVA

Ibiza Béjaïa

Tunisi

SICILIA MALTA Tripoli

tutto assente. È il caso, per esempio, della campagna militare – nota anche come ottava crociata – condotta dal re di Francia Luigi IX (fratello di Carlo) contro l’emirato tunisino degli Hafsidi. La flotta franco-angioina salpò dalla costa francese il 1° luglio del 1270 e raggiunse, due settimane piú tardi, la Tunisia. Ma le truppe, accampate nelle rovine dell’antica Cartagine, dovettero fare i conti con malattie e il caldo africano: lo stesso re (e futuro santo) morí la mattina del 25 agosto e il controllo passò al fratello Carlo e a suo nipote. La campagna si concluse con la sconfitta dei Tunisini, costretti a sottostare alle pesanti condizioni economiche imposte loro dai vincitori. In compenso, però, la tregua di dieci anni siglata tra il regno siciliano e gli Hafsidi mise quest’ultima al riparo da incursioni o prevaricazioni nei confronti degli interessi della dinastia islamica. È curioso dover registrare che per questi avvenimenti, svoltisi sulla costa africana antistante l’arcipelago, nessun dato sembra suggerire un coinvolgimento delle isole maltesi. Eppure – come ha sottolineato Charles Dalli – la conoscenza storica relativa ai quindici anni di dominio

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aragonese su Malta è sostanziata da una quantità di documenti scritti superiore a quella di cui si dispone per tutto il secolo precedente. L’amministrazione del regno angioino, infatti, proseguí la prassi governativa del regno svevo rifacendosi, in particolare, alle procedure messe in atto da Federico II. Il governo centrale insediatosi nella nuova capitale, Napoli, teneva cosí rigorosamente sotto controllo ogni singolo incarico attribuito ai funzionari nelle terre del regno, e da essi pretendeva dettagliati resoconti scritti, in modo da poter intervenire tempestivamente per far fronte ai bisogni della popolazione locale, per sedare prontamente ogni accenno di ribellione e, soprattutto, per vigilare sulla riscossione dei tributi.

L’archivio distrutto dai Tedeschi

Vale la pena ricordare che la disponibilità, per la storiografia moderna, di questo vasto corpus di documenti amministrativi sia dovuta a un caso al contempo tragico e fortunato: questi documenti – cosí unici per la conoscenza dell’arcipelago maltese durante l’età angioina – vennero studiati e pubblicati dalla Regia Deputazione novembre

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Romania

Costanza Caffa Varno Mar Nero Pera

Tana

Costantinopoli Chio CRETA

Rodi

Alessandria

Tarso Antiochia CIPRO Giaffa

Tiro Acri Gerusalemme

Medina

In alto mappa del Mediterraneo con, evidenziate in rosso, le zone di influenza della potenza mercantile genovese durante il XIII sec. A destra lo stemma araldico di Genova. Nel 1256 i Genovesi presero possesso delle fortificazioni maltesi.

per la storia di Malta appena in tempo, prima che, dopo l’8 settembre del 1943, l’archivio angioino di Napoli fosse distrutto – insieme ad altri archivi consimili e di altrettanto inestimabile valore – da un incendio appiccato dai soldati della Wehrmacht. Dall’esame di questi straordinari documenti si ricava un quadro articolato e immediato della struttura amministrativa che gli Angioini di Napoli imposero alle isole per esercitarne il controllo militare, coltivarne e sfruttarne la terra: un Capitano o Castellano comandava una guarnigione composta da 150 ultramontani o servientes gallici boni, ovvero truppe composte da fidati soldati francesi; vi erano poi altri ufficiali, preposti alla raccolta delle tasse e a dirigere il lavoro dei servi nelle reali masserie (Luttrell). Veniamo anche a conoscere nomi e

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mansioni di singoli funzionari attraverso i quali la corte esercitava il suo controllo. La prassi istituita dal governo angioino, volta a informare la popolazione di tutte le piú importanti decisioni politiche e amministrative, comportò la diffusione di un sistema di comunicazione esteso a tutte le comunità (villaggi e piccoli insediamenti) dell’arcipelago. Oltre a proclami indirizzati pro universitate hominum Malte et Gaudisii («a tutti gli uomini di Malta e di Gozo»), vi sono documenti che, firmati da notabili (segue a p. 59)

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L’enigma delle lastre di Gozo Nelle sale del vecchio Museo Archeologico di Gozo, situato all’interno della storica Cittadella, sono esposte alcune delle 28 lastre tombali, realizzate nella tipica pietra calcarea maltese (la globigerina) e variamente decorate con le insegne di esponenti nobili del clero francese. Le lastre furono studiate ridisegnate dallo storico gozitano Agius De Soldanis, il quale, nel 1766, le riprodusse a stampa a Roma. Le lastre provengono da un antico cimitero medievale, noto come Fuq it-Tomba (in un’area oggi occupata dal parco di un oratorio), come conferma anche l’illustrazione di un volume settecentesco, in cui le lastre appaiono inserite nel muro perimetrale del cimitero. Secondo una tradizione, le lastre sarebbero appartenute ai nobili francesi che avevano accompagnato re Luigi IX nella sua crociata alla volta di

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Tunisi e che, come lo stesso re, perirono in seguito a un’epidemia di dissenteria scoppiata nell’accampamento allestito nei pressi di Cartagine. I corpi dei soldati – ma si tratta di un’ipotesi molto discussa – sarebbero stati, poi, trasportati e sepolti a Gozo, il possedimento angioino piú vicino e facilmente raggiungibile dall’Africa.

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Sulle due pagine, in alto le lastre tombali del cimitero medievale di Gozo inserite nel muro perimetrale dello stesso, in un’illustrazione settecentesca. Sulle due pagine, in basso alcune delle lastre decorate con le insegne di nobili soldati francesi.

A destra la riproduzione a stampa delle 28 lastre, realizzata da Agius De Soldanis nel 1766.

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storie malta

In alto antichi terreni agricoli nei pressi di Mellieha, Malta. In basso il Forte Sant’Angelo, parte del castrum maris (la medievale fortificazione portuale di Malta e sede dei Conti di Malta), in un disegno di Willem Schellinks (1527-1678).

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Da leggere

Una delle torri del Forte Sant’Angelo.

David Abulafia, I regni del Mediterraneo ocidentale dal 1200 al 1500. La lotta per il dominio, Editori Laterza, Bari-Roma 1999 Charles Dalli, Malta. The Medieval Millennium, Midsea Books, Malta 2006 Anthony Luttrell, The Making of Christian Malta. From the Early Middle Ages to 1530, Routledge, London and New York 2002

locali dai nomi inequivocabilmente maltesi, attestano la consuetudine di riunioni fra cittadini per discutere importanti questioni di ordine pubblico. Ma come si configurò, in età angioina, il rapporto con i precedenti «padroni» dell’arcipelago, i rappresentanti e discendenti dei genovesi «conti di Malta»? Un prezioso documento, sopravvissuto alla distruzione, riporta, a questo proposito, le rimostranze di Nicoloso (il già ricordato figlio del «Pescatore») rivolte alla corte di Napoli, circa le ingiustizie da lui patite sotto Manfredi; rimostranze accolte dagli Angioini che restituirono al conte terre e i privilegi. Sembrerebbe cosí – sottolinea Charles Dalli – che i diritti accampati dalla famiglia genovese non fossero stati annullati e che, per quanto riguardava i possedimenti maltesi, tra le due parti potesse esserci stata una sorta di riconciliazione. Ma il contrasto tra gli interessi del regno angioino e quelli della ghibellina potenza ligure sfociò ben presto in aperte ostilità, con la confisca di beni genovesi (tra cui quella – avvenuta nel 1272 – di alcune imbarcazioni liguri ormeggiate al porto di Malta) a cui rispose la flotta genovese attaccando la città di Trapani e l’isola di Gozo, la cui popolazione risultò decimata.

Un ruolo «internazionale»

È stato rilevato da alcuni studiosi (Dalli, Luttrell) come, sotto il punto di vista strettamente culturale, l’arcipelago abbia goduto, a partire dall’epoca angioina, di una crescente «internazionalità»; un aspetto testimoniato dal lungo elenco di nomi apposto ad alcuni documenti in cui questi appaiono associati ai luoghi di provenienza: figurano, accanto ai toponimi siciliani quali Palermo, Messina, Gela e Modica, anche quelli di Tuscanus e Piccardus. Non mancano, inoltre, i nominativi di mercanti genovesi (insieme a quello del console genovese a Malta), ma anche i nomi di tali Nicholinus e Michele de Oria, quello di un mercante lucchese e di due catalani. La fine del dominio angioino sulla Sicilia fu segnato, come è noto, dalla rivolta antifrancese scoppiata a Palermo il 31 marzo del 1282, all’ora dei vespri del Lunedí dell’Angelo. E c’è chi sostiene che un certo ruolo in quell’insurrezione divenuta leggendaria l’abbia

giocato anche quel piccolo demanium costituito dalle isole maltesi. Sembra che a cospirare contro il regno di Carlo sia stato, sin dall’avvento degli Angioini, un tale Palmerio, figlio di Giliberto Abbate, già governatore di Malta al tempo di Federico II, e a sua volta, in capo, al tempo di Manfredi, all’isola di Pantelleria. Il nome di Palmerio appare – riferisce Charles Dalli – insieme a quelli di Alaimo da Lentini, Walter Caltagirone e Giovanni da Procida, in una cronaca tardo-trecentesca intitolata Lu Rebellamentu di Sichilia. In essa si afferma che quei cospiratori nel 1280 si riunirono «in parlamento»… proprio a Malta. F (4 – continua)

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costume e societĂ di Davide Iacono

Vestivamo alla

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Il piú famoso fra i popoli nordici è stato celebrato dai posteri a piú riprese. Esaltandone, di volta in volta, la fama di navigatori abilissimi e intrepidi e il furore guerresco. E non meno affascinante appare la loro visione del mondo soprannaturale, popolato da eroi e semidei capaci di imprese memorabili e leggendarie

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Sulle due pagine Leif Eriksson scopre l’America, olio su tela di Christian Krohg. 1893. Oslo, Museo Nazionale. Nella pagina accanto spartito dell’adattamento per pianoforte di Louis Brassin dell’Anello del Nibelungo di Richard Wagner. 1877.

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costume e società

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l Nord di epoca medievale evoca ancora oggi molteplici scenari: paesaggi innevati, biondi popoli su lunghe navi, razzie di villaggi indifesi... Suggestioni originate da un plurisecolare processo di mitopoiesi, a sua volta figlio di una massiccia produzione letteraria, storiografica e audiovisiva, che ha contribuito a sedimentare nel discorso culturale europeo la fascinazione per un mondo insieme freddo, austero, eroico e nobile. Al pari dell’Oriente, il Nord, si profila allora non solo come un luogo geografico, ma anche come un preciso concetto culturale. L’attuale interesse per il passato nordico – non esclusivamente medievale – germogliò inizialmente nella Scandinavia del XVI secolo, legato essenzialmente alle istanze proto-patriottiche degli emergenti Stati nazionali di Danimarca e Svezia. Negli ambienti eruditi, il movimento goticista traeva orgoglio dal fatto di poter vantare, tra gli antenati del popolo scandinavo,

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gli Ostrogoti e il loro re Teodorico il Grande, che assunse il potere nell’impero romano. Si voleva cosí dimostrare al mondo di poter vantare una storia piú antica e un passato piú glorioso rispetto alla maggior parte degli altri Paesi d’Europa.

Storiografia «patriottica»

Tra i piú influenti studiosi dell’epoca ricordiamo i fratelli svedesi Johannes e Olaus Magnus, i quali, alla metà del Cinquecento furono protagonisti di un vero e proprio re-telling – diremmo oggi – di questa materia nordica, con un uso creativo della Getica di Giordane e delle opere di Saxo Grammaticus utile a dipingere una storia del popolo svedese, dei suoi sovrani e dei Goti all’estero. La storiografia «patriottica» dei fratelli Magnus fu portata avanti nel XVII secolo da studiosi come Ole Worm (1588-1654) e Thomas Bartholin (1659-90) in Danimarca, e Olof Rudbeck il Vecchio (16301702) in Svezia. Durante questo

In basso la pesca con arpioni in una incisione (colorata successivamente) realizzata per un’edizione dell’Historia de gentibus septentrionalibus di Olaus Magnus. 1555.

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periodo, che vide l’ascesa politica della Svezia all’indomani della vittoriosa Guerra dei Trent’Anni, le iscrizioni runiche di età vichinga, cosí come le saghe, iniziarono a essere utilizzate come fonti storiche e stampate in edizioni critiche accompagnate dal testo latino. Importanti manoscritti medievali come la Heimskringla di Snorri furono raccolti e trasferiti negli archivi di Copenaghen e Stoccolma. Spesso oggetto di interpretazioni estremamente fantasiose, in Svezia i manoscritti islandesi divennero parte di un mito delle origini, prova di un’antichissima storia di quel popolo. Questa frenesia nordica culminò nella pubblicazione dell’Atland eller Manheim (Atlantide patria dell’uomo, 1672-1681) in cui Olof Rudbeck sosteneva che la Svezia non fosse altro che la mitica Atlantide. Va n o t a t o , t u t t a v i a , c h e Rudbeck e gli antiquari del XVII secolo, seppur ispirati a fonti risalen-

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In alto l’attacco di una balena ai danni di un vascello da guerra in un’incisione realizzata da Konrad von Gesner per l’opera Icones animalium. 1553-1560. A destra pagina di un’edizione manoscritta dell’Edda di Snorri, l’opera principale del poeta e storiografo islandese Snorri Sturluson. XIV sec. Uppsala, Biblioteca Universitaria.

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costume e società ti all’età vichinga, non erano per nulla interessati ai «Vichinghi» nel senso dei barbari e biondi guerrieri di mare tanto cari al nostro immaginario medievale. Al contrario, questi uomini dotti volevano dimostrare al mondo che i loro antenati non erano affatto barbari, ma protagonisti di una grande civiltà, pari, se non superiore, a quella classica e precedente a essa. Nel XIX secolo il romanticismo recupera i Norreni come figure eroiche. I Vichinghi – selvaggi, liberi, irrazionali, capaci di passioni irraggiungibili – furono presto ammirati come perfetta sintesi dello spirito dell’epoca e simbolo di tutto ciò che l’illuminismo e il razionalismo del secolo precedente avevano trascurato e ripudiato. Il romanticismo premiava adesso il sublime; l’arte che violava le regole classiche di armonia ed equilibrio. La vita come l’arte doveva essere terribile, violenta e maestosa, come i temporali, le enormi montagne, i deserti sconfinati, gli incubi, la follia, le rivelazioni divine o dei defunti, le visioni dell’inferno: e l’immaginario nordico medievale offriva molto di tutto ciò.

L’urlo del poeta

Cosí la poesia piú sublime divenne quella barbarica di nordiche popolazioni selvagge e arcaiche (pensiamo al «barbarico yawp» che Walt Whitman fa risuonare nel Canto di me stesso); di popolazioni che non furono mai domate, addomesticate, né corrotte dalla civiltà classica o dalla modernità. Alla luce dei nuovi ideali estetici, testi come l’Edda – insieme alle canzoni celtiche di Ossian, alle ballate popolari scandinave e a vari altri testi mitici di presunta origine barbarica – furono considerati come opera di bardi selvaggi e analfabeti, e non il frutto della raffinata arte di colti poeti. L’ammirazione per le anime primitive – ma nobili – dei propri antenati divenne il punto di partenza

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A sinistra mappa allegorica del Mar Baltico, immaginato come Caronte, dall’opera O. Rudbecks sonens Nora-samolad, sive Laponia illustrata... di Olaus Rudbeck il Giovane. 1701. Londra, British Library.

Nella pagina accanto il cantante lirico Franz Betz nei panni di Wotan, in una messa in scena dell’Anello del Nibelungo di Richard Wagner a Bayreuth. 1876. A sinistra, in basso Ritratto di Olaus Rudbeck il Vecchio, olio su tela di Martin Mytens. 1696. Uppsala, Università. Archeologo e scienziato, Rudbeck fu professore di botanica, poi di anatomia e di medicina nella stessa Uppsala ed è ricordato soprattutto per gli studi sui vasi linfatici dell’intestino.

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un popolo «cornuto»?

Dal teatro al falso storico L’elmo provvisto di corna è un oggetto cosí iconico da evocare immediatamente le popolazioni della Scandinavia medievale. In realtà, però non c’è niente di piú falso. L’immagine popolare del Vichingo in elmo cornuto risale al XIX secolo, quando artisti scandinavi come lo svedese Gustaf Malmström presero a ritrarre cosí i prodi guerrieri. Fu però L’Anello del Nibelungo di Wagner, a decretare la fortuna di questo stereotipo. Per l’occasione, infatti, il costumista Carl Emil Doepler, probabilmente ispirato dalle scoperte di antichi elmi cornuti – che in seguito si rivelarono anteriori all’età vichinga –, realizza costumi che comprendevano anche i famosi copricapi dotati di corna. Nel giro di pochi decenni, l’elmo cornuto migrò dal teatro alla cultura popolare (per esempio nella letteratura per l’infanzia) per trovare la sua consacrazione definitiva nel fumetto e nel cinema. per un nazionalismo che si concentrava ed enfatizzava lo «spirito popolare». Tali idee, inizialmente ristrette a circoli culturali e accademici, si diffusero dalla Germania fino a Copenaghen, Uppsala e Stoccolma. In Svezia e Danimarca, l’estetica nordica si trasformò gradualmente, sulla scia dei risvegli nazionalistici, in un piú generale movimento dalle sfumature politiche. Le interpretazioni poetiche della mitologia norrena offrirono cosí la basi di un’ideologia che permeò, grazie anche al sistema educativo, tutta la società. In Svezia i sentimenti nazionalistici, uniti all’interesse per i Vichinghi e la letteratura norrena, portarono nel 1811 alla creazione della Götiska Förbundet (la Società Gotica). Fondata a Stoccolma da un gruppo di giovani accademici e ufficiali a cui piaceva bere idromele dai corni, chiamarsi con nomi tratti dalle saghe antiche, recitare brani dell’Edda, il suo scopo era rinvigorire, attraverso «antichi» rituali, lo spirito del Paese in vista dei futuri conflitti con la Russia. Il leader della società era Erik Gustaf Geijer (1783-1847), destinato a diventare lo storico piú influente della Svezia e uno dei suoi poeti

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costume e società piú ammirati. Nella loro rivista, Iduna – nome della dea norrena, che con i suoi frutti nutriva i guerrieri del Valhalla – i membri della Götiska Förbundet pubblicavano poesia in vecchio stile norreno, studi sulla letteratura e la storia islandese, articoli romanzati sulla cultura vichinga. La Società Gotica si sciolse dopo alcuni decenni, ma le sue idee sopravvissero per oltre un secolo, ispirando un gran numero di educatori, artisti, poeti e politici. Dalla seconda metà del XIX secolo, i Vichinghi divennero uno dei maggiori interessi non soltanto per una cerchia intellettuale ma anche per la borghesia urbana liberale e per i semplici agricoltori. Per la prima volta, i Vichinghi furono sfruttati anche a livello commerciale, con varie imprese scandinave che iniziarono a utilizzare i nomi di antiche divinità e di eroi di saghe norrene come brand per i loro prodotti. Lo «stile vichingo» divenne di moda nell’architettura, nel design e nella decorazione di interni, nonché nell’associazionismo e negli eventi. Gli artisti dipingevano quadri romantici di eroi e divinità norrene; i politici cercavano di imitare i re vichinghi nei loro discorsi ai loro elettori. Su una scala piú limitata, questo entusiasmo per il Nord medievale raggiunse anche l’Inghilterra vittoriana, con la diffusione di saghe islandesi e scandi-

nave tradotte in inglese e ambiziosi programmi di lingua norrena avviati sia a Oxford che a Cambridge. L’attività di traduzioni e studi filologici coinvolse in Gran Bretagna anche personaggi nazionali di spicco come Samuel Laing (1810-97) e William Morris (1834-96). Nell’intento di smarcarsi dalla tradizione classica, la cultura germanica scopriva cosí le sue radici in quella che William Morris definí «Great Story of the North»; una nuova narrazione per tutte le genti nordiche.

Alfieri del progresso

Nel Regno Unito, negli Stati Uniti o nei Paesi scandinavi, giornalisti e studiosi di varie discipline iniziarono a lanciarisi in retorici paragoni tra i Vichinghi e i loro contemporanei. I biondi guerrieri divenivano dei precursori della civiltà, del progresso, delle conquiste sociali (inclusi i diritti delle donne; vedi box a p. 71), mentre i moderni imprenditori, viaggiatori, scienziati, politici si definivano eredi dello «spirito vichingo». Cosí Roald Amundsen, l’esploratore norvegese delle regioni polari – alto, fiero, con profondi occhi azzurri e il naso aquilino – venne per esempio descritto dai giornali come «l’ultimo dei Vichinghi». Per Norvegia, Islanda e Isole Fær Øer – Paesi la cui cultura e lingua avevano da sempre conservato qualcosa degli autentici tratti de-

Il Viking

Un drakkar moderno Nel 1889 si ebbe l’idea di costruire una replica perfetta della nave di Gokstad scoperta tre anni prima a Sandefjord, in Norvegia. Salpata da Oslo, la Viking, dopo 28 giorni, toccò le coste di Terranova e venne poi esposta presso la Fiera Colombiana di Chicago (inaugurata nel 1893 per celebrare i 400 anni dalla scoperta dell’America). Dopo l’esposizione, la barca, attraverso il Mississippi, giunse a New Orleans, dove svernò. Al suo ritorno

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a Chicago, fu collocata accanto al Columbian Field Museum (oggi Museo della Scienza e dell’Industria). Nel 1925, per commemorare il centesimo anniversario dell’arrivo della Restauration – la prima nave di immigrati norvegesi giunta in America nel 1825 – fu emessa una serie filatelica raffigurante la nave vichinga con la bandiera americana sventolante a prua. Oggi la Viking è custodita presso il Good Templar Park di Geneva, Illinois. novembre

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L’arrivo della Viking a Chicago, 12 luglio 1893, olio su tela di Hjalmar Johnssen. 1898. Oslo, Museo norvegese della navigazione. In basso, a sinistra la nave vichinga trovata a Gokstad (Norvegia), dove fu utilizzata come sepoltura di un personaggio di rango elevato. 900 circa. Oslo, Museo delle Navi vichinghe. In basso, a destra la nave vichinga rinvenuta a Oseberg (Norvegia) in corso di scavo. 1904. Anche questa imbarcazione fu utilizzata come sepoltura.

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costume e società gli antichi norreni – tornare all’età vichinga, significava invece un ritorno all’indipendenza politica e all’emancipazione dal dominio di Svezia e Danimarca. Lungo il XIX secolo, la saga islandese di Snorri assurse a ruolo di epos nazionale non solo per l’Islanda, ma anche (e soprattutto) per la Norvegia. Oggetto di nuove traduzioni e ristampe, essa fu corredata da meravigliose xilografie, opera dei piú importanti artisti di corte della Norvegia, come Christian Krohg (1852-1925) ed Erik Werenskiold (1855-1938). Tali illustrazioni intendevano enfatizzare non tanto lo splendore, il carisma e la ricchezza dei grandi jarl e re vichinghi, ma piuttosto le capacità di sopravvivere dei Norvegesi in una terra spesso ostile e dura, tra freddi fiordi, alte montagne o distese innevate.

L’esploratore norvegese Roald Amundsen (a destra) siede con un compagno di spedizione durante l’impresa da lui guidata nelle regioni polari. Antartide, primo decennio del Novecento.

Scoperte sensazionali

L’entusiasmo per i Vichinghi esplose in Norvegia quando, nel 1880 e nel 1904, due maestose navi vichinghe furono rinvenute in grandi tumuli vicino al fiordo di Oslo. La sensazionale scoperta delle navi di Gokstad e di Oseberg risultò ancor piú significativa in quanto coincise per la Norvegia con la conclusione della sua lotta per l’indipendenza dalla Svezia, finalmente raggiunta nel 1905. Esposte nel centro della nuova capitale norvegese, Oslo, le navi si trasformarono cosí in preziosi simboli di un glorioso passato nazionale. Per gli Scandinavi emigrati nel Nord America nel XIX secolo, l’eredità vichinga acquisí anche un importante motivo di identità. Molti di questi emigranti infatti, stabilitisi negli Stati del Midwest – come Minnesota o Wisconsin –, presero a identificarsi con i navigatori vi-

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chinghi che per primi si insediarono nelle isole del Nord Atlantico e nel Vinland. Le comunità scandinave degli Stati Uniti promossero in varie università ambiziosi programmi universitari dedicati alla storia vichinga e alla cultura norrena, mentre Leif Eriksson, il leggendario vichingo norvegese che avrebbe sco-

perto l’America secoli prima di Colombo, divenne, inevitabilmente, il loro eroe. Si arrivò al punto che qualsiasi prova, reale o inventata, era la benvenuta, purché capace di convincere il mondo dell’identità tra quelle comunità norvegesi e i navigatori delle antiche saghe. Ciò aprí la strada alla produzione di falsi come la Pietra di Kensington, «scoperta» in Minnesota nel 1898 e recante un’iscrizione runica, cosí verosimile, da dividere a lungo la comunità scientifica. La pietra divenne un importante simbolo etnico per almeno mezzo secolo e tuttora, nonostante le smentite dei paleografi, alcuni abitanti della zona credono nella sua autenticità. Nel frattempo, in Germania, da vagheggiamento estetico-romantico, l’entusiasmo per i Vichinghi prese pieghe sempre piú estreme e, in definitiva, pericolose. Il modello venne tratto da L’Anello del Nibelungo del compositore tedesco Richard Wagner (1813-1883), una meravinovembre

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Nella pagina accanto, in basso manifesto di propaganda delle SS naziste che invita i Norvegesi ad arruolarsi durante l’occupazione tedesca del Paese scandinavo. In basso Paul Richter (Sigfrido) e Margarete Schön (Crimilde) in una scena della prima parte del film I Nibelunghi di Fritz Lang. 1924.

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gliosa e stravagante opera teatrale, che mescolava miti norreni, folklore e leggende della Germania medievale. Interpretato e musicato secondo la luce drammatica e oscura della filosofia romantica, l’immaginario nordico acquisí un significato quasi religioso per l’intera nazione tedesca: Sigfrido viene presentato come il tragico eroe della nazione tedesca destinato a cadere nel tentativo di salvare, insieme alla Valchiria Brunilde, gli dèi e il mondo dal Ragnarök, dalla distruzione.

Lo «spirito tedesco»

L’intero ciclo dell’Anello giunse a rappresentare, per il popolo del Secondo Reich, la piú alta manifestazione dello «spirito tedesco»: la prima dell’opera, nel 1876, a Bayreuth – originariamente voluta da Ludwig II di Baviera, il «re delle fiabe» (Märchenkönig) –, assunse le proporzioni di un magnifico ritua-

le. Per l’occasione venne edificato un teatro dedicato esclusivamente alle rappresentazioni dei drammi musicali di Wagner. Verso la fine dell’Ottocento, questa mistica wagneriana si fuse all’elitaria filosofia di Friedrich Nietzsche (1844-1900) del superuomo, alle ambizioni imperialiste e alle piú recenti idee razziste di supremazia, finendo per giungere a idealizzare il popolo tedesco come un Herrenvolk, una razza superiore, aristocratica, figlia di nordici guerrieri e destinata alla conquista e al dominio su tutte le razze inferiori. La «trionfante bestia bionda che vaga alla ricerca della preda e della vittoria» – secondo una definizione data da Nietzsche dei popoli nordici – era stata evocata. Nei primi decenni del XX secolo, il pensiero razzista andò a informare la storia e la letteratura norrena, i cui testi venivano spesso letti come espressioni sacre della piú pura ide-

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costume e società ologia di Blut-und-Boden («sangue e suolo»), che si radicava nel suolo patrio e nel mito di un sangue ereditato da eroici antenati di origini nordiche. Questo tipo di mentalità semi-religiosa, dai toni marcatamente razzisti, trovò spazio – seppur con meno enfasi – anche in Inghilterra e Scandinavia. All’indomani dell’umiliante sconfitta della Germania nella prima guerra mondiale, tali idee trovarono una precisa sistemazione politica con Adolf Hitler e i suoi seguaci. Nel 1933 i nazionalsocialisti salirono al potere dando avvio a una sistematica lotta contro la debole e decadente cultura moderna, nell’intento di rimpiazzarla con una cultura «ariana», ispirata

all’eredità vichinga, al paganesimo norreno, a Wagner e al folklore contadino del popolo tedesco.

Veicoli di propaganda

Tali atteggiamenti trovarono la loro massima espressione in enormi raduni collettivi. In maestose arene all’aperto – fatte per somigliare ai luoghi in cui, secondo le saghe, le popolazioni germaniche tenevano le loro assemblee – tra fiaccolate, celebrazioni di massa e slogan politici, andava in scena quella che, secondo il regime hitleriano, era l’anima di un popolo. Durante l’occupazione tedesca di Norvegia e Danimarca (1940-1945), i nazisti arruolarono i Vichinghi perfino nella propaganda bellica. Wiking era, per per esempio, il nome dato a una famigerata divisione di soldati reclutati da diversi Paesi dell’Europa nord-occidentale per combattere sul fronte russo, mentre vari poster dell’epoca identi-

ficavano SS o soldati con i biondi guerrieri in elmo e cotta di maglia. Quest’apparato mitico fu usato anche dal movimento della Resistenza danese contro l’occupazione tedesca. Un leggendario gruppo di resistenza nel Sud della Danimarca, per esempio, adottò il nome di Holger Danske, l’eroe dormiente – al pari di Federico Barbarossa, san Venceslao o re Artú – protagonista di racconti e leggende danesi. Nel 1945, quando la guerra finí, l’eredità vichinga in generale perse gran parte del suo fascino, non solo in Germania, ma anche nei Paesi scandinavi. Accademici e intellettuali, abbandonata la pesante eredità di un approccio romanticonazionale al passato medievale nordico, si rivolsero con atteggiamento critico alle fonti norrene. Questo certamente non significa che i Vichinghi abbiano perso il loro fascino di prodi guerrieri e abili marinai o abbandonato il reame dell’im-

Boston. Il monumento a Leif Eriksson, inaugurato nel 1887.

il leif eriksson day

Il «vero» scopritore dell’America? Il 9 ottobre si festeggia negli USA il Leif Eriksson Day, una ricorrenza in onore dell’esploratore scandinavo che avrebbe messo piede in America 500 anni prima di Colombo. Leif viene inoltre ricordato come colui che avrebbe convertito la Groenlandia al cristianesimo. Lo stesso George Bush padre, in occasione del Leif Eriksson Day del 1989, lo definí «un coraggioso missionario ed esploratore norreno». In particolare, fu un libro pubblicato nel 1874 (America Not Discovered by Columbus di Rasmus B. Anderson) a contribuire a diffondere l’idea che i Vichinghi fossero stati i primi Europei a scoprire il Nuovo Mondo. In occasione del Norse-American Centennial nel 1925 (festa che ricorda l’arrivo il 9 ottobre 1825 della Restauration, la prima nave di migranti norvegesi in Minnesota), il presidente Calvin Coolidge riconobbe a Leif Eriksson il merito di aver scoperto l’America. Nel 1930, il Wisconsin fu il primo Stato americano ad adottare il Leif Eriksson Day come festa nazionale, in gran parte grazie agli sforzi di Rasmus Anderson. La prima statua di Leif venne eretta a Boston nel 1887: molti credevano infatti che il Vinland avrebbe potuto situarsi a Cape Cod; non molto tempo dopo un’altra statua fu eretta a Milwaukee e, nel 1901, fu la volta di Chicago. Ma la statua piú importante è probabilmente quella che gli è stata dedicata a Reykjavík, nel 1930, un dono fatto dagli USA per commemorare i mille anni dell’Althing (il parlamento islandese fondato nel 930).

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L’altra metà del cielo... vichingo

E non chiamatelo sesso debole! Uno degli aspetti che fanno da corollario al topos della libertà delle popolazioni nordiche è la visione dei Vichinghi come pionieri dei diritti per le donne. Si tratta di un paradosso, se pensiamo all’altro stereotipo, fortissimo, della reputazione del Vichingo stupratore e saccheggiatore. La teoria secondo la quale le donne avrebbero goduto di una libertà e di diritti maggiori nella società vichinga rispetto a tutte le altre società contemporanee offre in questo senso un modello per il presente: i rudi guerrieri diventano conformi ai valori moderni. Furono studiosi del XIX secolo come Paul Du Chaillu o Sveinbjörn Johnson (il primo un antropologo e il secondo un giurista), a imporre il tema della maginario o del mito. Al contrario, essi sono diventati sempre di piú popolari in tutto il mondo, in particolare nella cultura pop: pensiamo solo alla recentissima, enorme fortuna, della serie tv prodotta da History Channel, Vikings. Dai Paesi scandinavi, alla Gran Bretagna, alla Germania, agli Stati Uniti, essi rivestono un’indubbia attrattiva commerciale, con festival e fiere che celebrano, a vario modo, un passato nordico. Tra boccali di idromele, pane «vichingo», martelli di Thor, s’impara anche a costruire navi secondo le antiche tecniche e a sperimentarne l’affidabilità in traversate oceaniche; vengono tenute rievocazioni di battaglie come Maldon, Stamford Bridge, Stiklestad e culti neopagani, come l’Ásatrú o l’odinismo, nascono per celebrare gli antichi Æsir e un «autentico» e «immacolato» passato pre-cristiano.

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modernità, dello spirito egualitario o proto-democratico delle popolazioni germaniche medievali. Dalla saggistica, l’assunto si sparse in romanzi e i film di ambientazione vichinga o genericamente nordica. Qui la donna, ispirata alla figura delle skjaldmær (le leggendarie donne guerriere dell’epica norrena) iniziò a ricoprire, accanto all’uomo, anche il ruolo di combattente. Un fenomeno oggi di enorme successo: basti pensare a Lagertha, la popolarissima skjaldmær della serie tv Vikings, accolta come una vera e propria icona femminista.

Katheryn Winnick nei panni di Lagertha, la skjaldmær protagonista della serie televisiva Vikings.

Tuttavia come dimostrano alcuni recenti fatti di cornaca, altri gruppi e partiti hanno tristemente continuato a utilizzare lo sterminato bagaglio di simbologie nordiche per promuovere idee razziste e nazionaliste a sostegno di politiche xenofobe. Pensiamo, per esempio, all’attacco ad alcune moschee avvenuto nel marzo 2019 a Christchurch, in Nuova Zelanda, a opera di Brenton Tarrant. Il delirante manifesto dell’attentatore, vicino

ad ambienti dell’estrema destra, si concludeva con la frase: «Goodbye, God bless you all and I will see you in Valhalla» («Arrivederci, che Dio vi benedica e ci rivedremo nel Valhalla»). La ricezione del Medioevo nordico ci insegna insomma che esso può essere interpretato e compreso in mille modi differenti, sia per il bene che per il male. F

NEL PROSSIMO NUMERO ● Giovanna d’Arco

Da leggere Gianna Chiesa Isnardi, Storia e cultura della Scandinavia: Uomini e mondi del Nord, Bompiani, Milano 2019 Mario Domenichelli, Miti di una letteratura medievale: Il Nord, in Enrico Castelnuovo e Giuseppe Sergi (a cura di), Arti e storia nel Medioevo,

vol. IV, Il Medioevo al Passato e al Presente, Einaudi, Torino 2004; pp. 293-325 Tommaso di Carpegna Falconieri, Medioevo militante. La politica di oggi alle prese con barbarie e crociati, Einaudi, Torino 2011

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l’arte delle antiche chiese /12

Incanto pugliese

Nella regione allungata sull’Adriatico il romanico tocca una delle sue vette piú alte. Una fioritura testimoniata da monumenti religiosi straordinari, fra i quali si annovera il magnifico terzetto descritto in queste pagine

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di Furio Cappelli, con un reportage fotografico di Stefano Suozzo

I

l Museo Diocesano di Troia custodisce tre documenti di eccezionale valore storico e artistico, che già da soli testimoniano l’importanza della Puglia tra l’XI e il XII secolo. Sono i rotuli pergamenacei dell’Exultet, lunghissimi «strumenti liturgici», che, per cura e preziosità, si trasformarono in realtà in oggetti di lusso, sia sul piano redazionale che figurativo. Si trattava di supporti per i canti liturgici che s’intonavano nella notte del Sabato Santo, alla vigilia di Pasqua, quando, com’era consuetudine, si compiva il battesimo «in massa» dei catecumeni. Le miniature interposte tra le sequenze del canto possono illustrare sia scene di storia sacra, sia i monovembre

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Trani. La cattedrale di S. Nicola Pellegrino. La costruzione della chiesa fu avviata nel 1099 dall’arcivescovo Bisanzio, ma i lavori si protrassero fino alla metà del XIII sec.

menti stessi della celebrazione, come, per esempio, il rito nodale della benedizione del cero pasquale, con il vescovo che immerge la base del sacro lume nelle acque del fonte battesimale. E l’intitolazione Exultet deriva proprio dalle primissime parole del canto pasquale, Exultet iam angelica turba, ossia: «Esulti la turba degli angeli», per esprimere l’erompere tumultuoso del coro celeste. Sono brani eloquenti di una cultura religiosa, artistica e musicale, che trovava il suo naturale «palcoscenico» nelle cattedrali pugliesi, espressioni trionfali di un’epoca irripetibile, nelle fasi storiche spesso convulse che portarono alla nascita del regno normanno. Una «stagione» di grande fervore, contesa tra senso

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dell’antico e ricerca di nuove forme, in un ponte ideale proteso verso l’Oriente bizantino e islamico. Bari conserva anch’essa eloquenti rotuli di Exultet, e oltre a una cattedrale (S. Sabino) sfoggia un celebre santuario romanico (S. Nicola). In queste pagine abbiamo però preferito concentrare l’attenzione sulla chiesa piú suggestiva del gruppo, S. Nicola Pellegrino di Trani. Sia questa cattedrale sul mare, sia la S. Maria Assunta di Bitonto, si pongono nel solco del santuario di Bari, ma con un accento tutto proprio, sempre esprimendo una spiccata «personalità». Fa caso a sé la cattedrale di Troia, forse la meno nota del gruppo, e a maggior ragione degna di una particolare attenzione.

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l’arte delle antiche chiese /12 Lucera SS17

SS16

SS159

A14

Foggia

Troia

SS655

MAR ADRIATICO Riserva Naturale Saline Carapelle di Margherita di Savoia

Barletta

Orta Nova

SS16

Cerignola Ascoli Satriano

Andria

Candela SS655

Aquilonia

Trani Bisceglie Molfetta Giovinazzo Corato Bari Bitonto

Ruvo di Puglia Lavello

Rapolla

Montemilione

Spinazzola

Parco Nazionale dell’Alta Murgia

SS96

Modugno Toritto

La spettacolare facciata di S. Nicola Pellegrino a Trani, caratterizzata dalla gradinata ad ali sostenuta da una struttura a ponte. Nella pagina accanto la navata centrale della cattedrale tranese sulla quale si affaccia il matroneo che corre in corrispondenza delle navate laterali.

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Trani, S. Nicola Pellegrino La storia

L’intitolazione a S. Nicola può trarre in inganno, creando confusione con il santo vescovo dedicatario della chiesa di Bari, le cui reliquie erano state trafugate da Myra (nella regione della Licia, in Turchia), nel 1087, proprio per dare luogo a quel grandioso edificio, presto divenuto meta di pellegrini di tutta la cristianità. L’omonimo santo di Trani era d’altronde un pellegrino, un giovane pastore oriundo della Grecia, approdato in Puglia per visitare i luoghi santi di Roma. Si era fatto notare per la sua generosità, oltre che per la sua fede, che si manifestava in una continua, quasi compulsiva recita delle parole «Kyrie eleison» («Signore pietà»: un’espressione tratta da un antichissimo uso liturgico). Non molto tempo dopo lo sbarco, si ammalò e morí prematuramente proprio a Trani (1094), nei pressi della cattedrale originaria di S. Maria, dove aveva potuto godere dell’accoglienza dell’arcivescovo Bisanzio. Ben presto la sua fama permise di elevarlo agli altari, e pose le premesse per la grande chiesa che proprio in suo onore venne eretta, senza nascondere un certo qual desiderio di competizione con l’illustre santuario barese. I lavori furono intrapresi nel 1099 dal predetto presule Bisanzio, dopo aver ricevuto il «via libera» alla canonizzazione di Nicola da parte di Urbano II, il papa

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che bandí la prima crociata (1095). Il clima di grande fervore religioso che aveva suscitato l’avventura in Terra Santa e la presa di Gerusalemme, era la cornice ideale per lo slancio e per l’impegno che un progetto del genere richiedeva. Il dominio bizantino sulla città era cessato già alla metà dell’XI secolo a favore dei Normanni, e il cantiere della chiesa si sviluppò proprio durante l’incalzare delle lotte tra i conquistatori. Solo quando la situazione si stabilizzò, portando alla definitiva presa di potere sulla Puglia da parte di Ruggero II (1139), si poté compiere la solenne traslazione delle reliquie di san Nicola nella cripta appositamente realizzata (1142). La chiesa poté dirsi a buon punto intorno agli anni Sessanta del XII secolo, ma i lavori si protrassero fino alla metà del secolo successivo. Lo stesso rosone che impreziosisce la facciata è un elemento duecentesco, sicuramente non previsto in origine. Mentre il coronamento della torre campanaria, che segna il culmine simbolico e strutturale dell’intero edificio, fu realizzato al tempo dell’arcivescovo Jacopo Tura Scottini (1352-1365).

La visita

Per vedere la cattedrale nella sua interezza, occorre raggiungere l’area portuale. Il fitto incasato del centro storico nega fino in ultimo qualsiasi squarcio sulla gran

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l’arte delle antiche chiese /12 A sinistra il mare di Trani inquadrato da una finestra della torre campanaria della cattedrale. A destra particolare della ghiera esterna dell’archivolto del portale principale, con l’immagine culminante di una chimera. Nella pagina accanto gruppo scultoreo raffigurante un vecchio che si cava una spina, un giovane che si copre con la propria veste, una testa di toro (al centro) e un cinghialetto (alla base), per rappresentare il contrasto tra lussuria e pudicizia. L’opera è inserita nel transetto sud della cattedrale.

mole della costruzione, annunciata da lontano solo dagli ultimi piani della torre campanaria. L’impatto visivo, su ogni direttrice, è di grande effetto. Si assiste infatti all’erompere improvviso di enormi volumi compatti di pietra di Trani ben squadrata, dove la decorazione a rilievo di cornici, portali e finestre assume un’evidenza plastica di indubbia vivacità. A tutto questo si aggiunge l’incanto delle variazioni cromatiche che si possono registrare nei vari momenti della giornata, grazie ai diversi effetti della luce solare. La struttura si compone di diversi ambienti distinti, e la visita può essere anche estesa ai matronei e all’interno della torre. Osservando la facciata, si nota subito che la gradinata d’ingresso all’aula principale si sviluppa sulle ali di una struttura a ponte, sotto la quale si accede a una ulteriore aula che ha la stessa lunghezza dell’ambiente sovrastante. Si tratta di un succorpo (o chiesa inferiore), con una distinta dedica a S. Maria della Scala che ricorda l’intitolazione della chiesa originaria. Come hanno accertato gli scavi, l’antica cattedrale si sviluppava sulla stessa area, ma il succorpo è una costruzione distinta. È stata ideata per creare un «piedistallo»

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di grande effetto alla cattedrale romanica, ma anche per favorire l’afflusso dei pellegrini e per destinare uno spazio liturgico distinto a particolari celebrazioni. Tutti i fusti marmorei delle colonne sono di reimpiego, mentre i capitelli non fanno testo, poiché in larga parte sono frutto di restauri in stile. Una scala consente di scendere al sacello di S. Leucio, un antico ambiente nel quale i fedeli potevano venire a contatto delle reliquie del martire, traslate da Brindisi a seguito di un «furto sacro», ma in seguito disperse a causa di un saccheggio perpetrato dai Saraceni. Proseguendo verso le absidi, si accede alla cripta chiamata a custodire le spoglie di san Nicola Pellegrino, un ambiente vasto quanto il transetto sovrastante, realizzato con grande perizia e cura dei dettagli, sia dal punto di vista ornamentale che strutturale. Si rimane meravigliati dal rigore dell’impostazione generale e dal singolare slancio dei sostegni, che fa della cripta una chiesa a sé stante, con un soffitto piuttosto elevato. I capitelli marmorei, tutti originali, sono in minima parte antichi esemplari di spoglio. Nella maggior parte dei casi, scultori di grande perizia, nei primi denovembre

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cenni del XII secolo, hanno saputo imitare e reinventare gli apparati decorativi della romanità. Salendo nell’aula superiore, l’impressione di verticalità è davvero potente. Edificato per primo al di fuori dello spazio della cattedrale antica, il transetto è una «sala» di solenne vastità, oggi spoglia di tutti gli arredi che dovevano completarla. Oltre ai capitelli dei sostegni angolari, nella crociera (ossia nello spazio d’incrocio tra la navata maggiore e il transetto) si osservano i residui di un pavimento istoriato a mosaico analogo al celebre tessellatum della cattedrale di Otranto (1163-65). Si notano chiari nessi iconografici oltre che stilistici: ritroviamo infatti, frammentaria, l’ascesa di Alessandro Magno al cielo con l’ausilio di due grifoni. Le pareti della navata centrale ricevono slancio e preziosità dal forte risalto di un matroneo, ossia da un corridoio che si sviluppa sulle navate laterali, con un collegamento tra le due ali lungo la controfacciata. Si crea cosí una loggia di grande effetto che poteva anche essere utilizzata per esigenze di tipo cerimoniale, oltre ad assicurare il costante controllo delle strutture interne. Per garantire una maggiore stabilità, in luogo

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del colonnato semplice, lungo la navata si nota una successione di grosse colonne abbinate. I capitelli originali sono andati perduti e la superficie scalpellata è stata messa in luce quando si è deciso di eliminare i capitelli a stucco del 1838. La torre campanaria, accessibile all’interno lungo lo stesso percorso che permette di salire ai matronei, è stata completamente ricostruita negli anni Cinquanta del Novecento a causa di gravi segni di cedimento generale. L’intervento fu condotto con grande impegno, numerando e ricomponendo quasi tutti gli elementi originali. Alta 59 m, la struttura è stata impiantata nella fase conclusiva del cantiere. Il basamento, con un arco viario di classica intonazione trionfale, reca infatti la firma del sacerdote Nicolaus, attivo come architetto-scultore anche a Bitonto, come vedremo, nel 1229. Ma un altro nome da rimarcare è quello del fonditore Barisano da Trani, autore delle imposte in lamina di bronzo del portale maggiore. Sostituite in situ da una copia, si ammirano oggi all’interno della chiesa. In un dialogo suggestivo con la fitta ornamentazione scultorea che contorna l’ingresso, l’opera di Barisano si collo-

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l’arte delle antiche chiese /12 ca nell’ultimo quarto del XII secolo. Era sicuramente il titolare di una bottega di altissima rinomanza, visto che fu coinvolto in almeno due ulteriori lavori di spicco, a Ravello (1179) e a Monreale (1185-89). Attraverso una fitta intelaiatura che si compone di 32 pannelli figurati, Barisano sviluppa il tema della porta come raffigurazione della salvezza, con un plasticismo morbido e levigato che accomuna sia le immagini che i delicatissimi ornati. Le figure che piú colpiscono sono situate nelle due fasce basali, dopo le sequenze dedicate al Cristo, alla Vergine e ai santi (tra questi, San Nicola Pellegrino con Barisano inginocchiato, minuscolo, ai suoi piedi). Sotto i battocchi a rilievo, a forma di protome leonina, si osserva una gustosa sequenza di temi profani, con arcieri e lottatori interpunti da fantasie «araldiche» di leoni e di grifoni.

Bitonto, Ss. Maria Assunta e Valentino La storia

Recenti indagini archeologiche, illustrate da un percorso museale accessibile dalla cripta, hanno messo in luce una densa stratificazione archeologica nell’area della chiesa, rilevando una fase paleocristiana in precedenza del tutto

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Bitonto. Una veduta d’insieme e il portale della cattedrale di Ss. Maria Assunta e Valentino. A oggi, non si hanno notizie certe sulla genesi dell’edificio, la cui costruzione risulta comunque in corso nei decenni centrali del XII sec.

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l’arte delle antiche chiese /12

ignota. Sono stati scoperti pavimenti a mosaico databili al V-VI secolo, con il ricorso – tra l’altro – al tema salvifico del pavone che si nutre delle foglie dei racemi di vite. Alcuni rappezzi in pietra calcarea sono databili all’epoca altomedievale. Inoltre, in relazione a un ambiente aggiunto alla chiesa antica (una torre?), è venuto alla luce un mosaico di pregio databile ai primi decenni dell’XI secolo, con l’immagine di un grifone entro un grande clipeo. Nulla si sa sull’intitolazione e sulle funzioni dell’edificio originario. La sede episcopale di Bitonto è d’altra parte attestata solo tardivamente, all’epoca del presule Arnolfo (1087-1095). Egli stesso, secondo la tradizio-

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ne, avrebbe posto le premesse per la realizzazione della cattedrale romanica, avvalendosi per giunta di una donazione di Roberto il Guiscardo, duca di Puglia e di Calabria (1059-1085). In ogni caso l’edificio era senz’altro in corso d’opera nei decenni centrali del XII secolo. Modifiche e integrazioni dell’apparato decorativo si estendono poi fino ai primi decenni del secolo successivo.

La visita

La chiesa campeggia con il suo fianco meridionale sull’antica piazza del mercato, da dove si ha modo di percepirne l’ampiezza e la complessità. Visibile solo novembre

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A sinistra la lastra di parapetto dell’ambone che presenta quattro figure senz’altro appartenenti a un ambiente di corte: due sono coronate, una è in piedi, l’altra (una donna?) è seduta in trono. È stato ipotizzato che il sovrano in piedi sia Federico II di Svevia. A destra il lettorino dell’ambone, con una grande aquila reggilibro sostenuta da un telamone. Sotto al leggio si legge il nome dell’artefice, il «maestro Nicolaus».

di scorcio, il transetto fa corpo con due torri angolari (modificate nel tempo) e sigilla al suo interno le tre absidi, esattamente come si vede in S. Nicola di Bari. Allo stesso modo, all’interno, il transetto delinea una vasta «sala» ininterrotta, come a Trani. Altri dettagli strutturali e decorativi fanno della cattedrale bitontina una rielaborazione «in scala» del santuario barese: la grande finestra istoriata al centro della parete terminale (rielaborata nel XIII secolo), le sequenze di grandi arcate che corrono lungo i fianchi (osservabili anche a Trani), le logge che sormontano le arcate lungo i fianchi stessi. Ma i dettagli fanno la differenza.

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La loggia su piazza, con una sequenza di 6 esafore (finestre a 6 arcate), è una formidabile galleria di tipologie ornamentali, con capitelli di sapiente originalità, in molti casi strutturati «a stampella» (con una forma trapezoidale), dove i repertori figurativi del bestiario romanico e fantasie di racemi di gusto bizantino sono variamente alternati e combinati, con un effetto tutto particolare. Sormontata da un rosone duecentesco inquadrato da un’arcata su colonnine, la facciata presenta al centro un portale estremamente elaborato, con un «baldacchino» aggiunto all’epoca del rosone. La lunetta e

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l’arte delle antiche chiese /12 l’architrave, della fase romanica originaria, mostrano una formidabile narrazione corsiva di storia sacra. Nella lunetta, in particolare, con un abile adattamento delle figure al campo semicircolare, viene narrata l’Anàstasis (Resurrezione), un tema iconografico prettamente bizantino. Cristo (al centro) con la croce in pugno, affiancato da Abramo e da Davide (con la cetra), trae Adamo ed Eva fuori dall’inferno. L’interno ripropone lo schema solenne di S. Nicola con un ritmo proprio, pacato e lineare. I capitelli della navata, piuttosto corposi, fanno da pendant a quelli della cripta, che mostrano maggiore inventiva nel gusto degli inserti figurativi. Nella stessa navata, d’altronde, in controfacciata, si osserva un singola-

Troia. La facciata (in basso) e la decorazione esterna dell’abside della cattedrale di S. Maria Assunta, costruita fra l’XI e il XIII sec.

re capitello articolato in due scene, dove Alessandro Magno sale in cielo (come nel mosaico di Trani) per poi precipitare al suolo. L’ambone del già ricordato Nicolaus (1229), ricomposto in modo eterogeneo in fondo alla navata, spicca per la brillante combinazione di tecniche e di effetti cromatici. Ed è particolarmente noto per una assai discussa lastra di parapetto con quattro ieratiche figure che appartengono senz’altro a un ambiente di corte. Due di esse sono coronate, una è in piedi, l’altra (una donna?) è seduta in trono. Che sia o no Federico II il sovrano in piedi, si tratta senz’altro di una composizione che sottolinea la fedeltà di Bitonto alla casa regnante.

Troia, S. Maria Assunta La storia

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La vicenda della chiesa è strettamente intrecciata alle origini stesse dell’attuale impianto urbano. Troia nasce infatti su volontà di un magistrato bizantino, il catapano Basilio Boiannes, nel 1019, come un presidio della Capitanata in vista di possibili scorrerie dei Longobardi di Benevento. La fase iniziale della costruzione dell’edificio si colloca tra il 1093 e il 1106, sotto la guida dei vescovi Girardo e Guglielmo I. Un ulteriore impegno fu profuso dal presule Guglielmo II, tra il 1106 e il 1127. Dopo anni particolarmente funesti per la città, il cantiere è ripreso in mano da Guglielmo III novembre

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(1155-1175) e dal vescovo filosvevo Gualtiero Paleario dei conti dei Marsi, ma modifiche e integrazioni si registreranno anche in piena età angioina, quando la facciata si dotò del grande rosone traforato.

La visita

La chiesa rivolge la propria facciata alla strada pubblica ed è orientata nord-sud, per un condizionamento della struttura urbana. Sebbene sia dotata di una piazza sul fianco destro, non ha modo di prospettare su ampi spazi, e si offre cosí all’attenzione in modo inaspettato, proponendosi all’improvviso con la sua affascinante e complessa singolarità.

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La facciata è chiaramente il frutto di due fasi costruttive distinte. Il rosone, che è l’elemento piú noto del monumento, è inquadrato da una grande profusione di elementi figurativi e architettonici, con un effetto di sgargiante artificio. La zona basamentale, coerente con gli stili dei fianchi, ha invece un’intonazione ben piú pacata, con una caratteristica successione di arcate cieche che racchiudono oculi e losanghe. Si tratta di una partitura che ricorda certe soluzioni del romanico pisano, ma è un’interpretazione a sé stante, condotta su suggestioni del Medio Oriente già testimoniate in Puglia alla fine dell’XI secolo. La sobrietà dell’originaria partitura decorativa

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l’arte delle antiche chiese /12

Da leggere Pina Belli D’Elia, La Puglia, collana Italia Romanica, Jaca Book, Milano 1987 Pina Belli D’Elia, Puglia romanica, collana Patrimonio artistico italiano, Jaca Book, Milano 2003 Gioia Bertelli (a cura di), Puglia preromanica, collana Patrimonio artistico italiano, Jaca Book, Milano 2004

si riflette in uno spazio interno lineare e severo, con splendide colonne coronate da capitelli classicheggianti appositamente scolpiti. Esse compongono due file di sei sostegni ciascuna, per un totale di 12, a cui

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va aggiunta, però, un’ulteriore colonna di rinfianco nel primo sostegno a destra, il che ha fatto pensare a un’allusione ai 12 apostoli e a Cristo come «pietra angolare» della Chiesa. Il pregevole pulpito, di elegante e sapiente linearità, è stato realizzato nel 1169 ed è arricchito da un bassorilievo pertinente in origine a un altro contesto, con un leone che azzanna un quadrupede mentre viene a sua volta attaccato da un cane. La composizione di tipo circense, mutuata dalla scultura classica, si trasfigura in una scena astratta e fascinosa, che racconta di mondi lontani e intangibili. Un’analoga sensazione di esotismo è data dalle porte bronzee realizzate da Oderisio di Benevento, per novembre

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A destra le imposte bronzee del portale laterale destro, realizzate da Oderisio di Benevento. Sulle due pagine la lunetta che sormonta il portale laterale sinistro, ornata da un rilievo raffigurante Cristo tra due angeli mentre schiaccia il leone e il basilisco.

l’ingresso principale (1119) e per il portale del fianco destro (1127), su commissione del vescovo Guglielmo II. Si tratta di opere notevoli per virtuosismo tecnico e abilità di impaginazione. Oderisio, infatti, non solo padroneggia le tecniche dell’agemina (a intarsio) e dell’incisione, ma inserisce potenti figure in aggetto (draghi e leoni) che guizzano sulla delicata struttura dell’insieme, come si vede in particolare nell’opera piú antica, dove è peraltro presente il suo autoritratto. L’opera piú recente si distingue invece grazie alla meticolosa raffigurazione in agemina dei vescovi della diocesi, con una delicatezza grafica che rimanda ai modi della miniatura bizantina, cosí come venivano rielaborati dagli artefici degli Exultet. F

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NELLE PUNTATE PRECEDENTI ● Piemonte (n. 263, dicembre 2018); Valle d’Aosta (n. 264, gennaio 2019); Lombardia (n. 265, febbraio 2019); Veneto (n. 266, marzo 2019); Emilia-Romagna (n. 267, aprile 2019); Toscana (n. 268, maggio 2019); Umbria (n. 269, giugno 2019); Marche (n. 270, luglio 2019); Lazio (n. 271, agosto 2019); Abruzzo (n. 272, settembre 2019); Campania (n. 273, ottobre 2019) NEL PROSSIMO NUMERO Sicilia: Palermo, Cappella palatina, S. Maria dell’Ammiraglio (Martorana); Monreale, S. Nuova; Cefalú, la Trasfigurazione

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di Sandro Carocci

NEPOTISMO

Affari in

famiglia La tendenza a favorire i propri congiunti è forse antica quanto l’uomo. Ma nel Medioevo si trasformò in una prassi quasi ufficiale. E a farsene promotori furono soprattutto coloro che avrebbero dovuto dare ben altri esempi, ovvero gli uomini di Chiesa e, in primo luogo, i papi

Particolare del gruppo marmoreo raffigurante Alinorda (prima a sinistra), sorella di papa Clemente VI e i suoi figli, dal monumento funerario del pontefice scolpito da Pierre Boye (veduta d’insieme a p. 105). XIV sec. Le Puy-en-Velay, Musee Crozatier.


Dossier

I I

niziamo dall’immagine forse piú nota. Seguiamo Dante giú per il pendio della terza bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno. Dall’alto, ha visto uno spettacolo singolare: la roccia è cosparsa di innumerevoli buche rotonde, in ognuna delle quali è conficcato a testa in giú un dannato. Restano fuori soltanto i piedi e i polpacci, ma la cosa è di poco conforto, poiché i piedi bruciano come fiaccole, spingendo i malcapitati ad agitare furiosamente le gambe, in cerca di refrigerio. È la crudele legge del contrappasso. Dante si trova fra i simoniaci, fra coloro cioè che hanno fatto mercato delle cose divine. Da vivi, il loro cuore stava nella terra, dove si trovano i metalli preziosi; e cosí ora nella terra il loro corpo è avvinto. Fra tutti i dannati, uno in particolare attira l’attenzione del poeta per la maggiore ampiezza delle fiamme che lo ardono. Si avvicina dunque, e gli parla. In piedi a fianco della buca, Dante dice di rassomigliare a un frate che confessa un assassino giustiziato per propagginazione, la pena capitale eseguita conficcando il condannato nella terra a testa in giú. Ma in realtà è un colloquio di grande durezza, poiché Dante non prova alcuna pietà per il condannato, ma solo sarcasmo, disprezzo e odio. Di chi si tratta? L’interrogato risponde. È un papa, Niccolò III Orsini, e il suo peccato di simonia è stata l’ingordigia di denaro e potere da trasfeMiniatura raffigurante papa Niccolò III (al secolo Giovanni Gaetano Orsini). XIV sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Eletto pontefice nel 1277, ebbe fama di nepotista e, infatti, Dante lo collocò nel girone dei simoniaci, perché, come il suo antenato Celestino III, si era macchiato di questa inclinazione.

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rire ai parenti. È stato il nepotismo. «Sappi ch’i’ fui vestito del gran manto; / e veramente fui figliuol dell’orsa, / cupido sí per avanzar gli orsatti». Nella stessa buca, e Niccolò III lo attende con ansia, deve arrivare Bonifacio VIII, e poi ancora Clemente V: tutti pontefici simoniaci, e tutti colpevoli in primo luogo di nepotismo.

Un fenomeno sfuggente

Apparentemente, tutto è chiaro. Il nepotismo è stato corruzione, simonia, decadenza. Non vi è nulla da capire, se non la debolezza dell’animo umano; è un malcostume che ben poco si presta a diventare oggetto di indagine storica. E

invece il nepotismo è un fenomeno sfuggente, difficile da comprendere. Solleva domande, richiede risposte. Perché è esistito? Quando e come si è sviluppato? Quali papi e quali prelati sono stati nepotisti, e perché, e in che modo? Cerchiamo di evitare condanne e moralismi, e sforziamoci di capire. Quali erano le colpe di Niccolò III? Papa fra il 1277 e il 1280, apparteneva a un importante casato della nobiltà romana, gli Orsini. Non era il primo pontefice della famiglia, perché discendeva da Celestino III, che era stato papa fra il 1191 e il 1198. Anche questo antenato di Niccolò III (per chi ama la precisione genealogica: il fratello del suo trisnonno) aveva favorito la parentela. Anzi, possiamo dire che il suo nepotismo sia stato in un certo senso addirittura all’origine degli Orsini. Celestino III, che faceva parte del vasto clan familiare dei Boveschi, aveva infatti concesso tre castelli a un nipote, tal Orso. Quest’ultimo e i suoi discendenti avevano utilizzato tale concessione come trampolino di lancio per accumulare potere e ricchezze. Un castello, all’epoca, non era una semplice fortificazione. Era un intero villaggio fortificato, abitato da contadini-soldati e da cavalieri, dotato di pascoli e terre coltivate, e spesso provvisto anche del diritto di riscuotere imposte sulle strade circostanti. Orso e i suoi figli si erano cosí distacNella pagina accanto tavola di Amos Nattini che illustra, secondo la descrizione proposta da Dante Alighieri nel XIX canto dell’Inferno, l’ottavo cerchio, nella cui terza bolgia sono condannati i simoniaci, cioè coloro che fanno commercio delle cose sacre, da un’edizione della Divina Commedia pubblicata nel 1923. novembre

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Dossier A sinistra veduta aerea di Castel Sant’Angelo, a Roma, che, con l’ascesa al soglio pontificio di Niccolò III, divenne la fortezza della famiglia del papa, gli Orsini. In basso lo stemma degli Orsini.

cati dagli altri parenti, finendo per costituire una famiglia a parte: una famiglia detta dapprima «dei figli di Orso», e poi, quando si formò il nuovo cognome, Orsini. Niccolò III seguiva dunque, per cosí dire, un’antica tradizione familiare. Il papa aveva alle spalle una lunga carriera. Chierico fin dalla piú tenera età, era stato promosso cardinale già nel 1244, quasi trentacinque anni prima del suo pontificato. Fino ad allora, nessuno ne avrebbe messo in dubbio la moralità. Il cronista fiorentino Giovanni Villani dice che «mentre fu giovane chierico e poi cardinale fu onestissimo e di buona vita», anzi, aggiunge con cauta meraviglia, persino «dicesi ch’era di suo corpo vergine». Ma una volta chiamato al papato, prevalse in lui l’amore per i parenti, «lo caldo de’ suoi consorti». Al momento dell’elezione gli Orsini erano già una famiglia potentissima, ricca di castelli e di armati, fornita di numerosi chierici e addirittura di due cardinali. Ma nel giro di tre anni Niccolò III ne accrebbe a dismisura ricchezze, potenza e proprietà. A Roma, gli Orsini ottenne-

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ro una piazzaforte di incomparabile importanza strategica: nientemeno che Castel Sant’Angelo. Trasformato in fortezza familiare, venne unito ai palazzi vaticani con un lungo passaggio sopraelevato (il cosiddetto «Passetto»).

Elargizioni «volontarie»

Nello Stato della Chiesa, i parenti del papa furono investiti delle cariche piú importanti, sia negli uffici provinciali che presso i Comuni. Il papa, poi, nominò cardinali due nipoti, e conferí a tutti i parenti chierici innumerevoli benefici ecclesiastici. Somme immense passarono dalle casse della Chiesa ai congiunti laici ed ecclesiastici, mentre tutti coloro che si recavano presso la Curia pontificia per ottenere dispense, benefici ecclesiastici, perdoni o altre concessioni furono invitati a effettuare «donativi volontari» in favore dei voraci «orsatti». Ma non basta. Niccolò III non esitava ad agire con la massima spregiudicatezza, se il caso lo richiedeva. Il nipote Orso, per esempio, mette gli occhi su alcuni bei castelli

posti nei pressi di Viterbo, appartenenti a vari membri della nobiltà di quella città. Nulla di piú facile, per lui, che occuparli, grazie all’appoggio incondizionato dello zio papa, che lo nomina podestà di Viterbo e capitano delle truppe pontificie. Ma uno dei castelli, Soriano, resiste. Ecco allora che il papa si inventa una comoda accusa di eresia a danno dei nobili proprietari, li scomunica e li mette fuori legge, ordinando al novembre

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Il cardinal nipote

Malcostume istituzionalizzato Nella lingua odierna, nepotismo designa ogni «favoreggiamento di parenti e amici», dicono i dizionari, effettuato da personaggii dotati di influenza e potere. Parliamo di nepotismo di un cattedratico universitario, di un politico, di un amministratore. Ma la parola «nepotismo» non esisteva nel Medioevo. Il termine nasce non a caso a Roma, presso la Curia pontificia. È attestato per la prima volta all’inizio del Seicento. Ma – sorpresa – non aveva allora alcuna valenza negativa. Designava una pratica ormai da tempo seguita da tutti i papi, al punto da trasformarsi in una istituzione: il cardinal nipote. Dal 1538, tutti i papi, appena eletti, promuovevano al cardinalato un parente stretto, di solito appunto un nipote. È una differenza fondamentale rispetto al nepotismo del Medioevo, che non ha mai avuto questa sanzione formale, non si è mai trasformato in una istituzione. nipote stesso e a tutti i fedeli della Chiesa di attaccarli. Che cosa gli importa del «grande clamore» che, dicono i cronisti, suscitò in tutta Italia l’episodio? Soriano diviene la residenza preferita dello stesso pontefice, che vi fa costruire uno splendido palazzo fortificato, dove poi, nell’agosto del 1280, lo coglie la morte. A tutti questi episodi, bene attestati dalle fonti, aggiungiamo poi che, secondo alcuni cronisti,

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Soriano nel Cimino (Viterbo). Niccolò III elesse la cittadina laziale a sua residenza prediletta e vi morí nel 1280.

Il cardinal nipote ricopriva un doppio ruolo. Al livello ufficiale, era il collaboratore di fiducia del pontefice, soprattutto nella politica temporale. Era a capo della politica estera del papato, e controllava l’apparato amministrativo dell’intero Stato della Chiesa. Ma le sue funzioni piú importanti avevano un carattere meno ufficiale. Al cardinal nipote facevano capo tutte quelle relazioni informali, di clientela, che tanto contribuivano a determinare il reale potere di un pontefice sulla burocrazia della Curia e sulla nobiltà dello Stato. Infine, vi era la funzione piú specificatamente nepotista: grazie alle sue vastissime prerogative, il cardinal nipote aveva modo di accumulare ricchezze e possessi, che venivano trasferiti per via testamentaria ai fratelli laici. Era a lui, se vogliamo, che spettava il lavoro sporco.

Niccolò III avrebbe anche progettato di sottrarre all’imperatore i suoi diritti sull’Italia, e di creare cosí due regni, in Lombardia e in Toscana, da assegnare ai nipoti. Le accuse di Dante, certo, non erano infondate.

Un vero campione

Vogliamo moltiplicare gli esempi? Se proseguiamo oltre papa Orsini, già Dante ci ha indicato un altro campione nell’arte del nepotismo:

Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani, papa dal 1294 al 1303. Il suo nepotismo è stato impressionante. Quest’uomo di intelligenza superiore e di grande cultura giuridica ha operato in modo brutale, spregiudicato, senza arretrare di fronte ad alcuna violenza. Grazie al suo nepotismo, i Caetani, che erano piccoli nobili di una città della provincia, Anagni, vengono proiettati ai vertici della nobiltà italiana. Nel

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Dossier Miniatura raffigurante Folchetto di Marsiglia, poeta e poi vescovo di Tolosa, che si scaglia contro la corruzione dilagante nella città di Firenze, episodio descritto da Dante nel IX canto del Paradiso, da un’edizione della Divina Commedia forse realizzata in Toscana. 1440-1450. Londra, British Library.

i benefici

Ogni carica ha i suoi privilegi Dal XII secolo in poi, ogni carica ecclesiastica, di qualsiasi livello, comportava un «beneficio»: cosí si chiamava il reddito fornito dai possessi fondiari destinati al mantenimento e alla retribuzione di chi esercitava quell’ufficio ecclesiastico. Esistevano cariche ecclesiastiche, e dunque benefici, di ogni tipo. Essere vescovo, abate o canonico comportava il godimento del relativo beneficio; ma un beneficio era assegnato anche ai parroci, a chi amministrava il culto nelle chiesette rurali, o persino a chi era incaricato di celebrare Messa davanti a questo o quell’altare di una chiesa piú grande. In origine, i titolari dei benefici venivano scelti in sede locale, e incassavano la loro

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rendita solo se realmente ricoprivano il relativo ufficio ecclesiastico. Il vescovo era eletto dal clero della sua diocesi, gli abati dai monaci, i canonici cooptavano i propri confratelli, i parroci erano designati dal vescovo e dai fedeli piú importanti, e via dicendo. Ma presto il papa e la Curia romana riuscirono a intervenire sempre piú nel conferimento dei benefici. Per di piú, spesso esoneravano il titolare del beneficio dall’obbligo di provvedere personalmente alle funzioni per le quali il beneficio era in teoria conferito. Fu cosí possibile accumulare piú benefici. Già nel Duecento i parenti e i protetti dei papi e dei cardinali iniziarono a ottenere benefici in ogni angolo della cristianità. novembre

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A destra miniatura raffigurante l’arresto di papa Bonifacio VIII ad Anagni, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Lazio, diventano proprietari di una ventina di castelli, e controllano Anagni, tutto il territorio fra Terracina e Roma e buona parte della valle del fiume Sacco. In Toscana signoreggiano sulla contea aldobrandesca, che dall’Argentario si spinge fino al monte Amiata; nel Regno di Sicilia entrano in possesso delle

contee di Fondi e di Caserta grazie a un matrimonio oculato e all’interessato favore di re Carlo II d’Angiò. Nel frattempo, vanno accumulando nei loro forzieri ricchezze immense, al punto di poter poi spendere ben 900 000 fiorini per combattere gli avversari che si avventano contro di essi dopo la morte di Bonifacio VIII.

Un discendente di Innocenzo III, Pietro Conti, era canonico della basilica vaticana e poi di altre nove chiese, sparse per tutta la Francia e l’Inghilterra; sempre in Francia aveva poi un beneficio piú importante, una «prepositura», e poi per finire si era accaparrato la rendita fornita da alcune chiese sparse nelle campagne del Lazio meridionale. Il suo caso non ha nulla di eccezionale, e proprio per questo è interessante. Possiamo infatti calcolare che nelle tasche di Pietro Conti entrassero, in totale, un migliaio di fiorini netti all’anno. Non è poco, se si pensa che in quel tempo, a Roma, una casa di due piani, con stalla e giardino, costava un centinaio di fiorini.

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Miniatura raffigurante Bonifacio VIII, da un’edizione dei Vaticinia Pontificum. XV sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Grazie all’elezione a papa di Bonifacio VIII, i Caetani furono proiettati ai vertici della nobiltà italiana 93


Dossier I castelli dei Conti

Quelle fortezze nel cuore di Roma Nepotista, senza ombra di dubbio, è stato anche il piú importante pontefice degli ultimi quattro secoli del Medioevo: Innocenzo III. I tanti storici che studiano la molteplice attività di questo papa, che in tutti i campi ha enormemente contribuito alla crescita delle prerogative della Chiesa romana, esitano spesso ad ammetterlo: ma Innocenzo III è stato un grande papa anche nel nepotismo. È stato il primo pontefice a permettere ai parenti di accumulare ricchezze, terre e castelli in una misura prima sconosciuta. Con il denaro della Chiesa, ha costruito loro dentro Roma due fortezze formidabili, una

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delle quali, le Milizie, svetta ancora, sia pure solo per metà della sua altezza originaria, nel cuore della città. Ma importanti sono soprattutto i castelli. Negli ultimi anni di pontificato, la sua famiglia, i Conti, diventa la principale stirpe nobile della regione: ai confini fra Lazio e Abruzzo possiede la contea di Sora, e poi, piú vicino a Roma, almeno una dozzina di altri castelli. Forse è davvero sincero Innocenzo III quando scrive, in una sua lettera del 1206, di «non esser disposto a trascurare gli interessi della Chiesa per nessuno che sia nato da donna, nemmeno per mio fratello»: ma allora gli va dato atto di aver saputo splendidamente conciliare gli interessi della Chiesa con quelli della famiglia!

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A sinistra Trivigliano (Frosinone). I proprietari del castello furono costretti a cederlo a Bonifacio VIII, che non esitò a incarcerare la controparte e fece stilare un contratto di vendita con il quale si dava patente di legittimità a una transazione che, di fatto, non ebbe mai luogo.

In alto lo stemma della famiglia Caetani. Sulle due pagine Sermoneta (Latina). Uno scorcio del castello dei Caetani, famiglia che, con l’avvento di Bonifacio VIII, acquisí vaste proprietà e accumulò ingenti ricchezze.

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Perché infatti papa Caetani suscita odi intensi. Intransigente nell’affermazione della superiorità papale su tutti i sovrani della cristianità, feroce con gli avversari, avido di ricchezze e potere, Bonifacio VIII entra in conflitto con il re di Francia. È celebre l’episodio dell’«oltraggio» di Anagni, cioè l’arresto del papa compiuto il 7 settembre 1303 dall’inviato del re francese. Ma i nemici piú accaniti Bonifacio se li fa a causa del suo nepotismo. I piú temibili sono i Colonna, l’antica e potente stirpe romana che ha l’ardire di opporsi alle ambizioni del pontefice. Nel 1297, il papa giunge a proclamare contro i Colonna una vera e propria crociata, spendendo oltre mezzo milione di fiorini per reclutare mercenari e richiedendo aiuti ai piú potenti Comuni del tempo, Firenze in testa. I castelli dei Colonna vengono espugnati uno dopo l’altro, talvolta con lunghi assedi; e poi non solo le mura di cinta, ma anche tutte le case e le stesse chiese sono sistematicamente demolite e, infine, cosparsi di sale per san-

cire, con un simbolismo derivato dall’antichità classica, il loro definitivo abbandono. Assieme ai Colonna, però, vasta parte della nobiltà laziale ha qualche conto in sospeso con i Caetani. Talvolta si tratta persino di parenti, come Rinaldo di Supino, che non a caso troviamo alla guida del contingente militare responsabile dell’«oltraggio» di Anagni. Sua sorella aveva sposato un nipote del futuro Bonifacio VIII, Francesco. Da cardinale, evidentemente, Benedetto Caetani giudicava opportuna una alleanza matrimoniale con i Supino, da tempo potenti nella valle del Sacco.

Un’ascesa vertiginosa

Ma da papa ha ora per il nipote altri progetti. Vuole garantirgli una impetuosa carriera ecclesiastica, e poi magari il papato stesso. Ecco dunque che la sorella di Rinaldo viene rinchiusa in un monastero e il suo matrimonio annullato per permettere all’ex marito di diventare ecclesiastico e poi, in pochi mesi, di ottenere addirittura la porpora cardinalizia. Il papa annulla anche

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Dossier Roma. La poderosa Torre delle Milizie, fatta costruire da Innocenzo III con fondi attinti alle casse della Chiesa.

altri matrimoni fra esponenti della nobiltà romana e laziale, sia per fare terra bruciata intorno agli odiati Colonna, sia per potere entrare in possesso di questo o quel castello. Perché, infatti, fra i nemici dei Caetani riconosciamo quasi al completo la schiera dei precedenti proprietari dei domini che il papa procura ai parenti. Sul piano legale, costoro non possono opporre nulla. Astuto giurista, Bonifacio VIII ha sempre cura di accompagnare ogni acquisizione con titoli ineccepibili sul piano legale. L’archivio della fa-

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miglia conserva tuttora, a centinaia, atti di vendita perfetti da ogni punto di vista sul piano del diritto. Talvolta questi documenti testimoniano operazioni effettivamente avvenute.

I conti non tornano

Ma molto spesso si ha l’impressione che qualcosa non torni. Il prezzo pattuito è troppo elevato, oppure l’atto di vendita è stato scritto lontano da dove risiedono abitualmente i venditori, e troppo vicino alle prigioni del pontefice. I nobili proprietari di Trivigliano, per esem-

pio, non volevano in alcun modo vendere il loro bel castello. Ma ecco che un giorno si risolvono a cedere alle richieste del papa, e il notaio redige un ineccepibile contratto di vendita. Tutto bene, apparentemente: ma in realtà Bonifacio VIII, diranno testimonianze posteriori alla sua morte, aveva fatto arrestare i recalcitranti venditori, li aveva chiusi in una segreta, incatenati, e aveva loro negato il cibo e persino l’acqua. E tante altre volte aveva seminato zizzania fra i parenti che possedevano in comune un castello novembre

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piú antico proverbio in ciociaro oggi conosciuto, e attestato nei documenti fin dall’inizio del Trecento, si riferisce proprio agli abituali comportamenti di questo papa: «Voli lu castellu? Poni intra li frati lu cultellu». Non meraviglia, dunque, che Dante riservi a Bonifacio VIII il medesimo destino di Niccolò III. Verso Bonifacio VIII il poeta ha del resto anche personali rancori, a causa del ruolo giuocato nella cacciata dei Bianchi da Firenze, e nel successivo esilio del poeta. Quello che forse Dante ignora, al pari, per esempio, del pur informatissimo cronista Giovanni Villani, è che prima di Bonifacio VIII e Niccolò III molti altri pontefici avevano praticato con disinvoltura il nepotismo.

La svolta di Innocenzo

appetitoso. «Quando nella contrada ti piace alcun castello, / subito metti screzio fra fratello e fratello, / all’uno getti el braccio en collo, all’altro mustri el coltello», scrisse Iacopone da Todi in una sua poesia-invettiva contro il papa, O papa Bonifazio. Il pontefice non gradí affatto né le burle del poeta, né il suo schieramento a favore dei Colonna: catturato nel 1299, Iacopone venne incarcerato nei sotterranei di un convento, dai quali uscí, provatissimo, solo dopo la morte del Caetani. Ma Iacopone non aveva esagerato: al punto che il

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Ma, insomma, tutti i papi sono stati nepotisti, e da sempre? Sono due domande in una, e a entrambe dobbiamo dare una risposta negativa. In primo luogo sul piano cronologico. No, il nepotismo, inteso come pratica sistematica e di vasto respiro, non è sempre esistito. Si diffonde solo dal tardo XII secolo, e acquista consistenza con Innocenzo III e i suoi successori. Intendiamoci: esempi di nepotismo possono essere rintracciati fin dall’Alto Medioevo. Uno storico inglese ha sostenuto che il primo pontefice a circondarsi di nipoti è stato un contemporaneo di Carlo Magno, Adriano I, papa dal 772 al 795. Ma solo nel XIII secolo le pratiche nepotistiche hanno uno sviluppo sbalorditivo e si caricano di funzioni cruciali. È il Duecento che inventa il nepotismo, e lo lascia in eredità ai secoli successivi. Perché proprio questo secolo, e non prima? La spiegazione è abbastanza semplice. Soltanto all’epoca di Innocenzo III l’istituzione pontificia è divenuta uno dei massimi centri di potere del mondo medievale. Solo alla fine del XII e all’inizio del successivo una serie di cambiamenti avviatisi nel secolo precedente, con

la cosiddetta riforma gregoriana e con la lotta delle investiture, determinano infine un’enorme crescita del potere della Curia romana. Prima di allora, anche il piú ben disposto dei papi non poteva in fondo concedere poi molto ai parenti. Questo sviluppo delle prerogative pontificie può essere osservato quasi in ogni campo. Al livello teologico e ideologico, constatiamo l’affermazione delle dottrine teocratiche che, sostenendo l’origine divina del solo potere dei papi, ne affermavano la superiorità su ogni altra istituzione o forza politica del mondo. Ma a noi interessano, per il nepotismo, questioni piú concrete. Ciò che conta, in primo luogo, è la capacità del vescovo di Roma di affermare sempre piú la propria superiorità su tutti gli altri vescovi e le altre Chiese della cristianità. Il papa riesce a imporsi come la sola autorità competente a giudicare nei tanti conflitti che per le piú diverse ragioni scoppiano fra vescovi vicini, o fra monasteri, o fra un vescovo e il proprio clero, e via dicendo. Inoltre con un processo lento, durato secoli, va riservandosi il diritto di indicare i titolari dei benefici ecclesiastici che via via si rendono disponibili in seguito alla morte dei chierici che li detenevano.

Intrighi in Curia

Dapprima solo per i vescovi e gli abati, piú tardi per tutti i chierici della cristianità la Curia papale diviene cosí il luogo dove indirizzare suppliche, tessere intrighi, avanzare ricorsi, cercare protettori, ottenere benefici; e a Roma si devono anche rivolgere i re e i principi che vogliano ottenere per un dato vescovato una certa nomina, oppure desiderosi di qualche altro favore, come l’assoluzione da una scomunica o il permesso di divorziare dalla moglie. Per sbrigare queste pratiche, il papa si circonda di una serie di uffici, che costituiscono il piú complesso apparato burocratico del tempo.

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Dossier Sulle due pagine mosaici provenienti dall’abside dell’antica basilica di S. Pietro. A sinistra, papa Innocenzo III (Roma, Museo di Roma); a destra, l’Ecclesia Romana (Chiesa di Roma; Roma, Museo Barracco). La decorazione fu realizzata sotto il pontificato dello stesso Innocenzo III (1198-1216) e distrutta nel 1582, all’epoca dei grandi lavori per il rifacimento della basilica.

E tutta questa burocrazia e queste mansioni hanno un costo. Per ricevere un beneficio ecclesiastico, per ottenere una sentenza favorevole o qualche altra concessione, si devono pagare imposte e, soprattutto, si devono ricompensare protettori, giudici e faccendieri. In tutta la cristianità risuonano, dalla metà del XII secolo, lamentele sull’esosità dei prelati a capo della burocrazia pontificia o su di essa influenti. Alla fine del XII secolo il poeta francese Gualtiero di Châtillon descrive Roma come un mare profondo e infido, pieno di gorghi che ingoiano senza sosta oro e argento. Queste proteste tradiscono il fastidio e l’incomprensione per lo sviluppo di sistemi burocratici nuovi, e costosi; ma rivelano anche quante ricchezze vadano ora affluendo verso Roma. Solo adesso i papi hanno i mezzi finanziari e l’influenza politica per favorire con ampiezza i parenti. Per lo sviluppo del nepotismo, è tuttavia fondamentale anche un altro cambiamento: la nascita, di fatto, dello Stato della Chiesa. È un aspetto della crescita dei poteri papali che non riguarda il campo delle strutture ecclesiastiche, ma il concreto piano del potere temporale. Fin dall’Alto Medioevo, i papi hanno rivendicato il dominio su parte dell’Italia centrale, ma le loro pretese di possedere un vasto Stato sono rimaste per secoli lettera morta. Fino a Innocenzo III, i pontefici piú fortunati riescono tutt’al piú a governare Roma e una parte del Lazio meridionale; la maggioranza dei papi, però, è priva di qualsiasi potere temporale, e sono

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costretti a vagare in giro per il Lazio e l’Italia tutta quando le turbolenze della popolazione romana o l’opposizione di un imperatore li obbligano a fuggire dalla città. Proprio con Innocenzo III, viceversa, le cose cambiano. Si dice, non a torto, che egli è il «fondatore dello Stato Pontificio». Grazie al vuoto di potere causato dalla morte improvvisa dell’imperatore Enrico VI nel 1197, e grazie, soprattutto, alla determinazione e alle capacità di questo grande papa, la Chiesa romana afferma il proprio dominio temporale sull’intero Lazio, sull’Umbria e sulle Marche. Nel giro di pochi anni, viene costituita una struttura di governo destinata a durare per oltre tre secoli. Si articola in quattro grandi province (alle quali, dal 1278, si aggiunge la Romagna), ognuna comandata da un rettore nominato dal papa. Nella sua provincia, il rettore cerca di frenare l’autonomia dei Comuni cittadini e la turbolenza delle famiglie nobili, amministra la giustizia in appello e convoca periodici «parlamenti» dei sudditi, riscuote alcune imposte e raccoglie, se necessario, aiuti militari da nobili e Comuni. L’amministrazione dello Stato e delle sue risorse diventa cosí un altro settore dove può dispiegarsi il nepotismo.

Un’esclusiva romana

Sono queste le ragioni per cui il nepotismo ha potuto svilupparsi con ampiezza e diventare ben visibile soltanto nel Duecento. In quel secolo, però, non è una pratica comune a tutti i papi. Fra Innocenzo III e Bonifacio VIII, cioè fra il 1198 e il 1303, sul soglio pontificio si succedono diciassette papi. Sette vengono da Roma o dai territori vicini, cinque da altre regioni italiane (tre sono del Nord, uno marchigiano, un quinto molisano), quattro dalla Francia e uno dalla Penisola Iberica. La maggioranza ha in qualche modo favorito i parenti, certo. Ma di un nepotismo consistente e ben visibi-

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Dossier precetti teologici

La «pietà» come virtú Secondo Lambert di Huy, ai primi del Trecento, un papa che non favoriva parenti e amici andava accusato di «inumanità», mentre ancora nel 1504 il V Concilio del Laterano stabiliva che per i papi era «giusto e lodevole» beneficiare i familiari. Corruzione delle coscienze? Volontà di compiacere i potenti? No, affermazioni del genere rivelano l’operare di pratiche sociali e di valori morali diversi da quelli oggi vigenti. Ogni individuo, si pensava, doveva rispettare una regola a un tempo sociale e morale, che i teologi, riprendendo il concetto romano di pietas, definivano appunto «pietà»: era quell’atteggiamento di favore verso Dio e la patria, ma anche verso i parenti e i compaesani che era considerato una disposizione naturale e positiva, al punto di essere qualificato come virtú dalla teologia morale. È difficile comprenderlo oggi, in una società caratterizzata dall’individualismo e fondata su ideali come il merito e l’eguaglianza delle possibilità. Ma in altre culture la famiglia era (ed è tuttora) il valore piú importante dell’individuo. le possiamo parlare solo in una minoranza di casi. E si tratta sempre, con la sola eccezione del genovese Innocenzo IV Fieschi, di papi originari di Roma e del Lazio. Nel primo secolo della sua storia, il nepotismo pontificio sembra dunque un’esclusiva romana. È una constatazione sorprendente. Tanto piú ci stupisce se guardiamo al Trecento e poi ai secoli successivi. Perché dopo Bonifacio VIII il flusso del nepotismo è rimasto imponente, adattandosi con facilità al trasferimento ad Avignone e alla rapida francesizzazione del papato e della Curia.

La Chiesa militante e la Chiesa trionfante, affresco realizzato da Andrea di Bonaiuto nel Cappellone degli Spagnoli, denominazione con cui è meglio nota la Sala del Capitolo di S. Maria Novella, a Firenze. 1366-1368.

La versione francese

sudditi del re di Francia, e ancor piú schiacciante appare la presenza francese fra i seguiti papali e il personale della burocrazia curiale. Ebbene, con la sola eccezione di Benedetto XII (1334-1342), tutti questi papi hanno praticato con ampiezza il nepotismo. Anzi, possiamo dire che la sua consistenza complessiva sia nettamente aumentata.

Fino al 1378, anno di inizio del Grande Scisma, tutti i papi avignonesi sono originari di una ristretta area della Francia meridionale, un quadrato di appena duecento chilometri di lato compreso fra la Guascogna a ovest e il Massiccio Centrale a est. Dei 134 cardinali nominati da questi pontefici, ben 111 sono

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Proveniente da una di quelle famiglie della nobiltà guascone piú ricca di figli che di rendite, il primo dei pontefici avignonesi, Clemente V, favorisce per esempio in ogni modo i suoi undici fratelli e sorelle. Ai parenti vanno ben cinque cappelli cardinalizi, e poi una pioggia senza fine di concessioni, cariche e benefici. Un grande giurista del tempo, novembre

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Pierre Dubois, giunge ad accusarlo di avere dato a un suo solo nipote, il cardinale Raimondo, piú benefici di quanti ne erano stati distribuiti alle famiglie da quaranta pontefici. E i suoi successori non sono da meno. Ad Avignone, dunque, il nepotismo cessa di essere un’esclusiva romana, si generalizza e aumenta di consistenza. Diviene una pratica

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consuetudinaria e quasi ufficiale, in nessun modo nascosta, anzi spesso ostentata. Clemente VI, alla sua morte, nel 1352, vuole addirittura che la sua tomba divenga quasi un monumento al nepotismo. Attorno a un sarcofago nero, destinato ad accogliere il suo corpo, fa disporre 44 statue di marmo bianco, che raffigurano i suoi parenti e i suoi

protetti, laici ed ecclesiastici. Sono la guardia familiare che egli vuole onorare anche nella morte. Passato il turbolento periodo del Grande Scisma, che assorbe in ininterrotte lotte le energie e le risorse economiche dei pontefici contrapposti, le pratiche nepotistiche hanno conosciuto durante il Rinascimento uno sviluppo ancora

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piú formidabile. Non a caso proprio per il periodo compreso fra la metà del Quattrocento e la morte di Paolo IV nel 1559 gli storici hanno coniato la definizione di «grande nepotismo». Tutti i papi – siano essi romani, toscani, liguri, napoletani o anche spagnoli – hanno a tal punto colmato di favori la parentela da riuscire spesso a garantirle non una semplice ascesa sociale, ma un balzo verso il principato. Paolo III Farnese crea il figlio duca di Parma e Piacenza, Alessandro VI Borgia permette al figlio illegittimo Cesare di impadronirsi di vasta parte della Romagna e delle Marche, e i Della Rovere, che in origine sono piccoli commercianti di tessuti di Savona, debbono interamente a Sisto IV la loro ascesa, culminata nel 1508 sul trono di Urbino.

Allargare lo sguardo

Ma allora, perché nel Duecento il nepotismo sembra invece una pratica circoscritta ai papi nati sulle rive del Tevere? Prima di rispondere, dobbiamo abbandonare il vertice massimo della cristianità, il papa, e

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guardare ai suoi piú stretti collaboratori, i cardinali. Il nepotismo, infatti, non è mai stato un’esclusiva dei papi. Lo hanno praticato cardinali, vescovi, abati, canonici e altri chierici di piú modesta condizione. Tuttavia, questo nepotismo minuto fu sempre assai meno importante di quello papale. Vi è stata però un’unica, grande eccezione: i cardinali del XIII secolo. Nella plurisecolare storia del nepotismo, solo in quest’epoca, e piú esattamente solo dal 1220 circa in avanti, i piú potenti fra tutti i prelati sono riusciti a competere con i pontefici. Gli esempi sono innumerevoli. Ci mostrano come la dignità cardinalizia rappresentasse un’opportunità preziosa per la famiglia, per il vasto circolo dei suoi clienti e amici, e talora anche per l’intera città di origine. Per Todi e Orvieto avere dato i natali rispettivamente ai cardinali Bentivegna Bentivegni e Teodorico Ranieri rappresentò alla fine del Duecento una vera fortuna. A Genova, dopo la morte di Innocenzo IV, i Fieschi continuarono a ritrarre potenza, beni e ricchezze dall’attivo sostegno del

In alto uno scorcio del Palazzo dei Papi ad Avignone. Nel periodo in cui il papato trasferí la propria sede nella città francese, il fenomeno del nepotismo non conobbe flessioni e, anzi, si fece piú generalizzato e crebbe nella sua consistenza. A destra miniatura raffigurante l’incoronazione a papa del cardinale francese Bertrand de Got, che assunse il nome di Clemente V, da un’edizione delle Grandes Chroniques de France. Fine del XIV sec. Londra, British Library.

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Dossier I pontificati in cifre

Il segreto della longevità Nel XIII secolo, i papi e i cardinali nati a Roma erano di gran lunga piú longevi degli altri. Per tutti ignoriamo le date di nascita, ma un semplice calcolo è rivelatore. I Romani sono diventati cardinali, in media, a 25 anni dalla morte. La durata media degli altri cardinalati, invece, è inferiore a 14 anni. Per i papi, poi, lo stacco è ancora maggiore. I papi romano-laziali sono vissuti in media oltre 9 anni, quelli nativi di altre regioni italiane hanno raggiunto, in media, solo 3 anni e 5 mesi, e quelli stranieri, poi, sono addirittura restati sotto

cardinale Ottobono, pronto a intervenire con la massima determinazione per i parenti tanto in Curia, quanto in patria, o dovunque vi fosse bisogno. A Viterbo, grazie all’opera di Raniero Capocci, cardinale dal 1216 al 1250, la famiglia si arricchí, entrò in possesso di alcuni castelli, e divenne a tal punto irriconoscibile da assumere un cognome nuovo e rivelatore: «Del Cardinale». Ma qual era l’origine del potere dei cardinali? Era il riflesso diretto del grande sviluppo delle funzioni e dei diritti della Chiesa romana. Oltre a eleggere il papa, i cardinali dirigevano gli uffici della Curia, erano nominati rettori delle province dello Stato della Chiesa, presiedevano i tribunali pontifici, e avevano una quantità di funzioni e competenze. Nelle sue scelte religiose come in quelle di politica interna e estera, il papa doveva consigliarsi con i membri del Sacro Collegio. Per un

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i 2,5 anni! Probabilmente chi cresceva nell’insalubre clima romano sviluppava una maggiore capacità di resistenza alla malaria e alle infezioni intestinali che colpivano implacabilmente lo straniero, soprattutto nella stagione calda. Ma il vero segreto della longevità di papi e cardinali romani è in realtà un altro: il nepotismo. I tanti appoggi di cui godevano presso la Curia permettevano ai chierici delle grandi famiglie romane di diventare cardinali, e poi eventualmente papi, in età meno avanzata dei loro confratelli.

vescovo come per un abate, per un Comune dello Stato della Chiesa come per un re o per lo stesso imperatore, divenne presto indispensabile avere in Roma un cardinale che si occupasse di mandare a buon fine ogni questione.

Come sirene tentatrici

Diamo di nuovo la parola al poeta Gualtiero di Châtillon. Quel mare profondo e pieno di gorghi che è la Curia romana gli appare infestato da pericolosi pirati, che sono i cardinali. Come sirene, ci dice, costoro «blandiscono con un dolce canto» gli sventurati chierici recatisi alla corte papale per qualche affare. Ma poi manifestano la loro vera natura. Del resto, aggiungevano altri detrattori, la stessa parola «cardinale» non deriva forse dal latino carpere, cioè prendere, arraffare? Poniamo allora, anche ai cardinali, una domanda: hanno prati-

In alto la statua funeraria di Clemente VI, facente parte del suo mausoleo, fatto realizzare dallo stesso pontefice nella chiesa abbaziale di Chaise-leDieu. Il monumento venne profanato nel 1562 dagli Ugonotti e le parti superstiti ricomposte nel coro della stessa abbazia. Per volere del papa, la sepoltura era attorniata dalle statue che ritraevano i suoi parenti e i suoi protetti: queste ultime comprendevano il gruppo scultoreo raffigurante la sorella di Clemente VI, Alinorda, con i figli, riprodotto nella pagina accanto e oggi conservato nel Musee Crozatier di Le Puy-en-Velay.

cato tutti con la stessa ampiezza il nepotismo? A ben guardare, quasi tutti i favoritismi e le concessioni di maggior peso risultano in realtà opera di una piccola minoranza soltanto dei porporati. Chi sono costoro? In misura schiacciante, si tratta di cardinali appartenenti a famiglie romane o, al piú, laziali. novembre

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Dossier Miniatura raffigurante Bonifacio VIII attorniato dai suoi cardinali, da un’edizione manoscritta dei Decretali dello stesso Bonifacio VIII. Seconda metà del XIV sec. Londra, British Library.

doni e pensioni

Il prezzo della benevolenza Per garantirsi il prezioso appoggio di un cardinale, non si poteva lesinare. Già all’inizio del XIII secolo, i libri finanziari dei re inglesi rivelano che il sovrano pagava una rendita annuale ai piú importanti cardinali. Doni e pensioni venivano concessi anche dagli altri sovrani, talvolta con cifre da capogiro, come i 3000 fiorini di pensione annuale – una rendita immensa – che nel 1312 il re francese assegnò a Pietro Colonna. Ma Ordini religiosi e Comuni non erano da meno. I Cistercensi, per esempio, versavano ogni anno al cardinale che proteggeva il loro Ordine 2000 o 3000 fiorini; da parte sua, per ottenere una sentenza favorevole dai tribunali papali in una sua disputa con Gubbio, nel 1276 il Comune di Perugia deliberò di versare 800 fiorini ciascuno a sei cardinali «amici». I papi stessi assegnavano ai cardinali doni e decine dei piú lucrosi benefici ecclesiastici, al fine sia di compensarne la fedeltà, sia eventualmente di ridurne l’opposizione. Che il nepotismo sia papale o cardinalizio, il risultato dunque non cambia. Ma che cosa è accaduto insomma nel Duecento, in questo primo secolo di storia del nepotismo? I comportamenti nepotistici sono forse una malattia che all’inizio ha «infettato» soltanto chi cresceva nei pressi del sepolcro di san Pietro, e che solo in seguito ha contagiato i chierici di ogni provenienza? L’ipotesi è intrigante, ma sarebbe un approccio sbagliato al problema. Per comprendere la «superiorità

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nepotistica» dei papi e dei cardinali romani dobbiamo considerare, in primo luogo, che per varie ragioni i papi e i cardinali originari della città ricoprirono piú a lungo dei forestieri le loro cariche. Per un pontefice o un porporato, poi, aiutare una famiglia che voleva acquistare possessi all’interno dello Stato della Chiesa era ovviamente piú facile che intervenire in territori lontani e sottoposti ad altri sovrani. Ma, soprattutto, per capire il maggiore sviluppo dei comportamenti nepotistici presso i Ro-

mani dobbiamo comprendere cosa è realmente stato lo stesso nepotismo, dobbiamo accertarne la vera natura.

Approcci diversi

Sbarazziamoci allora di ogni giudizio moralistico, di qualsiasi tendenza a pronunciare condanne di corruzione e decadenza. Piuttosto, domandiamoci quali funzioni storiche abbia svolto il nepotismo, e come si sia inserito nel sistema politico, nelle strutture sociali e nelle stesse categorie mentali di quei secoli. Noteremo allora, in primo luogo, che non tutti i contemporanei hanno condannato, come fece Dante, i papi nepotisti. Diamo la parola a un chierico di Liegi, Lambert di Huy, il quale, verso il 1320, affermava che le concessioni papali ai parenti erano «sagge e lodevoli». Una ragione, in particolare, giustificava a suo parere il nepotismo del papa: la necessità di contare su persone della massima fiducia, a lui già ben conosciute e legatissime, per avere il controllo degli uffici curiali, delle maggiori cariche di governo dello Stato, e per ogni altra delicata mansione. Assegnare uffici e promuovere al vertice delle strutture di comando altri personaggi novembre

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sarebbe un errore: non a caso, nota Lambert, c’è un proverbio popolare che dice: «Non è bene legare degli estranei al proprio ombelico». Sembrerà strano, ma questo chierico un po’ cortigiano colpisce nel segno. Abbiamo infatti insistito, fino a ora, sulla potenza dei papi e dei cardinali e sulle molteplici prerogative che dal XIII secolo spettano loro. Ma occorre intendersi. In ogni campo, il potere dell’istituzione papale fa tutt’uno con la sua debolezza. Prendiamo come esempio lo Stato della Chiesa. Dopo Innocenzo III, se si eccettuano alcuni tentativi di Federico II nessuno contesta piú ai

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Ricostruzione del complesso fortificato di Monte Giordano nel centro di Roma, appartenuto agli Orsini, i parenti di Niccolò III: eretto su un’altura che dominava uno degli accessi a ponte S. Angelo, e dunque a S. Pietro, il formidabile fortilizio era rinforzato da torri, la principale delle quali (al centro del disegno) si è conservata fino ai nostri giorni.

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Dossier Sulle due pagine esempi di castelli fortificati di famiglie papali. Qui accanto, il castello di Torre Cajetani, in provincia di Frosinone, con l’ingresso e il mastio; a destra, il castello Colonna, poi Odescalchi, a Vicalvi, anch’esso nel Frusinate.

papi il diritto di dominare Lazio, Umbria, Marche e, dal 1278, anche la Romagna. Tutt’altro conto, però, è riuscire veramente a governare questo territorio vastissimo, zeppo di città potenti, di famiglie nobili bellicose, di comunità rurali indisciplinate. Come riuscire a contenere la turbolenza e le velleità autonomistiche di tutta questa miriade di forze presenti nel territorio? È un problema difficile, tanto piú che il papato è una strana specie di monarchia. È una monarchia elettiva, collegiale e senescente. Il sovrano viene eletto, di solito in tarda età, da famiglie e da regioni di volta in volta diverse, a opera di un collegio, quello cardinalizio, anch’esso continuamente rinnovato. La monarchia non può di conseguenza contare sull’appoggio, cosí prezioso per i sovrani del tempo, costituito dai membri della famiglia regia, dai loro possessi patrimoniali, dai loro amici e vassalli. Oppure, peggio ancora, guardiamo alla capitale di questa monarchia, a Roma. È una città grande, orgogliosa del suo splendido passato, visitata da una folla di pellegrini e mercanti. Ma è difficilissima da controllare. Dalla prima metà del XII secolo ha costituito un Comune che male sopporta ogni ingerenza dei papi e ogni loro tentativo di limitarne la libertà d’azione. All’interno delle mura, vive poi una nobiltà potente e numerosa, dotata di grande influenza sulla cittadinanza e pronta a rivendicare con le armi ogni pretesa, verso altre famiglie come verso il papa stesso. Le ribellioni non si contano. Tante volte i papi sono costretti ad abbandonare Roma. Gregorio IX, per esempio, fugge da Roma nel 1228, perché il Comune ha deciso,

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contro il volere del papa, di attaccare Viterbo. Vi può tornare soltanto nel 1230, dopo che un’inondazione disastrosa ha indotto i Romani a richiamare il pontefice per placare la collera divina e, piú concretamente, per ottenere soccorsi. Ma l’anno successivo Gregorio IX deve fuggire di nuovo, e rientra in Roma soltanto nel 1233. Passa ancora un anno, ed ecco che una violenta insurrezione antipapale lo costringe ancora una volta alla fuga.

Con la Curia si guadagna

Fra il papato e la città intercorre un rapporto turbolento, in continua oscillazione fra l’attrazione e la repulsione. La presenza del papa, della sua numerosa corte e di tutta la folla di prelati e rappresentanti che debbono sbrigare qualche affare in Curia garantisce a buona parte della società romana ingenti redditi. Legami di clientela e di sangue non

uniscono poi tante famiglie ai cardinali e ai chierici impegnati negli uffici pontifici? Ma il papa vuole anche comandare, o quantomeno cerca di impedire che il Comune capitolino assoggetti le città e i paesi vicini, che esiga tasse dagli enti ecclesiastici, che rivendichi il diritto a giudicare i chierici, e via dicendo. Fra la turbolenta nobiltà, v’è poi sempre qualcuno insoddisfatto, o che si reputa leso nei suoi diritti e nelle sue aspettative. I papi del XIII secolo, dunque, possiedono sí molti piú diritti e molte piú prerogative dei loro predecessori. Sono certo di gran lunga piú ricchi e potenti. Ma incontrano difficoltà fortissime per dare concretezza a questi poteri. È qui che si rivelano utili le pratiche nepotistiche. Qual è il modo migliore per controllare Roma? Disporre dell’incondizionato appoggio di una delle sue grandi famiglie nobili, ben fornite novembre

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di alleati, di torri, di armati. E chi può riuscire meglio in questo campo, se non un papa di origine romana e laziale che già possiede parenti potenti, o che li rende rapidamente tali con le proprie concessioni? Quando Innocenzo III costruisce per il fratello e i nipoti le formidabili fortificazioni urbane delle Milizie e di Tor de’ Conti, e quando dà loro una quindicina di castelli con cui controllare il territorio a oriente di Roma, garantisce non soltanto la perpetua fortuna della famiglia, ma ottiene un prezioso sostegno per vincere l’opposizione del Comune romano e della sua nobiltà. Lo si vede bene fin dal 12031204, quando gli avversari del papa scatenano una vera battaglia per le vie della città, con tanto di macchine d’assedio e catapulte: senza la famiglia, senza le sue fortezze e i suoi alleati, Innocenzo III sarebbe stato irrimediabilmente sconfitto.

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Ma il sostegno di una grande stirpe ben radicata nel territorio si rivela utilissimo anche per il controllo dello stesso Stato della Chiesa. Dove reclutare ufficiali della massima fiducia da porre al governo delle aree piú delicate? Dove trovare condottieri fidati, e in grado di disporre di truppe adeguate, in un’epoca in cui ancora le compagnie di ventura non esistono?

Pronti alla guerra

Ancora un volta la risposta è la stessa: in primo luogo fra parenti della grande nobiltà romana e laziale, dotati di castelli dove vivono schiere di cavalieri loro vassalli. Lo sapevano benissimo anche i contemporanei. Quello stesso giurista francese, Pierre Dubois, che condannava gli eccessi nepotistici di Clemente V, riconosceva tuttavia che per sovrani come i pontefici, «vecchi o addirittura decrepiti e inesper-

ti di armi e di eserciti», l’unico modo per governare era quello di disporre di parenti pronti alla guerra. Gli esempi sono numerosi, e riguardano anche la conquista di un’intera nuova provincia, la Romagna, che nel 1278 Niccolò III affidò a due nipoti, Bertoldo Orsini e Latino Malabranca. Ma forse sono gli episodi minuti che piú ci aiutano a capire quale sostegno venisse dalla parentela di papi e cardinali romani al potere della Chiesa. Rechiamoci per esempio sulle montagne vicino Norcia, nel 1225. La zona fa parte dell’Umbria pontificia, che si chiama allora Ducato di Spoleto ed è affidata a un rettore, il cardinale Giovanni Colonna. Costui appartiene a un antico casato della nobiltà romana, e lo ha in molti modi favorito. Il suo nepotismo è stato solo un danno per il potere pontificio? Sbaglieremmo a crederlo. Perché quando il cardinale-rettore ha qualche problema con i sudditi, che si rifiutano di riconoscere la sovranità della Chiesa e di versare le imposte, non riesce a vincere la loro resistenza con le poche truppe che il papa mette a sua disposizione. Ecco allora intervenire un suo nipote, Oddone Colonna, che muove dai castelli della famiglia con un buon seguito di cavalieri fidati, attacca i ribelli e li costringe a ubbidire al rettore papale. Se dunque Romani e Laziali hanno praticato con maggiore efficacia il nepotismo non è stato soltanto perché avevano maggiore coscienza delle potenzialità e dei metodi del nepotismo, ma anche perché il loro comportamento era piú funzionale allo sviluppo della potenza di quell’istituzione, la Chiesa, dalla quale essi stessi dipendevano. L’amore per i congiunti e il desiderio di esaltare la propria famiglia facevano per essi tutt’uno con la necessità di truppe e funzionari fidati, con il bisogno di controllare Roma, con lo sforzo di accrescere il potere papale. V

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CALEIDO SCOPIO

Fascino animale LIBRI • La produzione e il valore culturale dei bestiari

medievali indagati a 360 gradi nel corposo volume pubblicato in occasione di una recente esposizione allestita al J. Paul Getty Museum di Los Angeles

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ubblicato in occasione dell’omonima mostra allestita fino allo scorso agosto nel J. Paul Getty Museum di Los Angeles, il volume condivide con il progetto espositivo il pregio di documentare e mettere a confronto, nella stessa sede, i piú importanti bestiari medievali a oggi noti, fra cui l’Aberdeen, l’Ashmole, il Northumberland e il Rochester. Nella prima parte dell’opera, Elizabeth Morrison – curatrice dell’esposizione e del catalogo – inquadra il fenomeno dal punto di vista storico e culturale,

Qui sotto miniatura raffigurante un grifone che tiene un uomo nel becco, dal Liber Floridus di Lambert de Saint-Omer. 1460. L’Aia, Koninklijke Bibliotheek.

ripercorrendo la genesi di questa peculiare tipologia di opere, che, si legge, affonda le sue radici nel Physiologus, un testo cristiano del II secolo d.C. composto in lingua greca ad Alessandria d’Egitto. Da quel momento in poi, queste raccolte godettero di notevole fortuna fino ad affermarsi, soprattutto nell’Europa settentrionale, come il genere piú popolare di manoscritto medievale, che ebbe la sua massima fioritura fra il 1180 e il 1300.

La resurrezione dei cuccioli L’aspetto estetico è certamente l’elemento di maggior richiamo, ma questi «libri di bestie» possedevano in realtà importanti valori simbolici, primo fra tutti quello legato alla In basso miniatura raffigurante alcuni pescatori, da una miscellanea di bestiari. 1270 circa. Los Angeles, The J. Paul Getty Museum.

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Elizabeth Morrison (a cura di) Book of Beasts. The Bestiary in the Medieval World The J. Paul Getty Museum, Los Angeles, 340 pp., ill. col. 60,00 USD ISBN 978-1-60606-590https://shop.getty.edu religione cristiana, i cui precetti e dogmi venivano di volta in volta «impersonati» da determinate specie animali: tipico è, per esempio, il caso del leone che soffia sui suoi cuccioli morti per riportarli in vita dopo tre giorni, con una chiara allusione alla resurrezione del Cristo. Sarebbe tuttavia riduttivo classificare i bestiari medievali come altrettanti manuali di

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Fronte di un cofanetto in avorio di produzione francese. 1330-1350. Cleveland, Cleveland Museum of Art. catechismo illustrati: rappresentare determinate creature – come quelle africane o asiatiche – poteva infatti trasformarsi anche in una sorta di lezione di scienze naturali, permettendo ai lettori di conoscere specie che difficilmente avrebbero avuto modo di incontrare, se non avviandosi a una vita di viaggi ed esplorazioni. Anche se, ed è bene sottolinearlo, i miniatori non si preoccupavano di fornire immagini rigorosamente verificate e molto labile risulta il confine fra specie reali e specie fantastiche. Le seconde – unicorni, grifoni, sirene… – entravano infatti in scena con estrema naturalezza, come se si trattasse di esseri nei quali chiunque si sarebbe potuto imbattere. Come accennato, i bestiari riscossero fin dall’inizio grande successo, tanto che l’intera produzione si caratterizza per la standardizzazione del modello e tutti i manoscritti replicano la medesima organizzazione, seguendo schemi consolidati. Un successo – come nota Morrison – rinnovato negli ultimi anni dal proliferare degli studi che a questa produzione sono stati dedicati, con nuove e stimolanti chiavi di lettura.

Quel leggendario toro crinito Nel capitolo successivo viene proposta una rassegna dei racconti che hanno per protagonisti gli animali e sfilano cosí il leone, la tigre, l’unicorno, il grifone, l’elefante, il castoro, il leggendario bonnacon – una creatura che si diceva vivesse in Asia, simile a un toro, ma provvisto di criniera –, la scimmia, la volpe, l’aquila, il pellicano, la sirena… Un serraglio fantastico, i cui componenti sono rappresentati con tratti vivaci e che riescono a esprimere con straordinaria efficacia l’atmosfera

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delle storie narrate. Nella seconda parte del volume, l’analisi viene ulteriormente approfondita e l’attenzione viene rivolta ai testi di cui queste miniature «bestiali» costituivano il corredo. Ancora una volta, la disamina prende le mosse dal Physiologus, che fu sempre il modello di riferimento. Non meno interessanti risultano i contributi riservati alla committenza e agli artisti a cui si devono le opere

giunte fino a noi, cosí come quelli di carattere tecnico, per esempio sui criteri adottati nella messa in pagina. Un insieme corposo e dettagliato, che fa da prodromo al catalogo vero e proprio, che, tuttavia, non si limita alla descrizione dei singoli manoscritti, ma propone schede ampie e articolate, che si pongono come naturale integrazione delle informazioni acquisite nella prima parte dell’opera. Stefano Mammini

Lo scaffale Elena Percivaldi 35 castelli imperdibili. Lombardia Edizioni del Capricorno, Torino, 160 pp., ill. col.

13,00 euro ISBN 978-88-7707-429-4 www.edizionidelcapricorno. com

Realizzato con attenzione al dettaglio, il volume fornisce al viaggiatore e all’appassionato una guida affidabile, contraddistinta da uno stile scorrevole e di piacevole lettura. Ogni castello viene presentato in una scheda compatta e di agile consultazione, che riporta tutte le informazioni necessarie. Le sezioni «Il luogo», «La storia», «La visita», permettono di avere una

visione completa del quadro cronologicogeografico di riferimento, arricchito da una affascinante quanto rigorosa trattazione delle

vicende che lo hanno interessato, e da informazioni utili per cogliere il meglio dalla visita di ciascun monumento.

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Particolare attenzione viene dedicata anche alle ricchezze dei territori circostanti, con sezioni dedicate che propongono approfondimenti nell’ambito di volta in volta piú significativo, sia esso di carattere storico-artistico, museale o relativo a manifestazioni folkloristiche, senza tralasciare anche accenni alle eccellenze dell’enogastronomia o agli itinerari per escursionismo o cicloturismo. Paolo Leonini Paolo Piva (a cura di) Arte medievale Le vie dello spazio liturgico

Editoriale Jaca Book, Milano, 288 pp., ill. col.

100,00 euro ISBN 978-88-16-60595-4 www.jacabook.it

A nove anni dalla prima pubblicazione, torna nuovamente disponibile quest’opera di grande interesse, nella quale Paolo Piva – che ne è autore e curatore – propone un’originale chiave di lettura delle architetture religiose. Le «vie» alle quali si allude nel titolo sarebbero infatti altrettante direttrici scelte di volta in volta da committenti, architetti e artisti per declinare i messaggi

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che le chiese e alcuni loro settori in particolare avrebbero dovuto trasmettere al fedele. Uno spunto originale, alla luce del quale grandi cattedrali, ma anche spazi piú raccolti, non sono piú soltanto l’esito di un progetto fatto di proporzioni e simmetrie e divengono una sorta di libro aperto. La «provocazione» viene sviluppata grazie al contributo di autorevoli colleghi di Piva – Sible de Blaauw, Werner Jacobsen, Marcello Angheben, Jérôme Baschet e Bruno Boerner –, i cui interventi sono distribuiti secondo l’ordine temporale degli argomenti affrontati. Si guarda dunque con occhi nuovi alle grandi basiliche ravennati, alla chiesa romana di S. Maria in Cosmedin, alla basilica di S. Zeno a Verona, solo per citare alcuni dei

complessi analizzati. Fino a coronare il percorso con le ipotesi interpretative sugli apparati ornamentali delle grandi cattedrali gotiche francesi. Stefano Mammini

interpretazioni di volta in volta proposte dai suoi artefici principali. Fra questi, giganteggia san Benedetto, che, infatti, è il protagonista principale del volume: il suo esempio e la sua Regola divennero del resto il modello piú seguito, favorendo la creazione di una sorta di koiné religiosa, estesa fra tutte le nazioni d’Europa. E non a caso, del resto, il santo viene tradizionalmente

di informazioni, che spaziano dalle note sugli aspetti dottrinali alle considerazioni sull’organizzazione del lavoro, dall’impatto dei monasteri sul tessuto sociale al prezioso ruolo svolto dagli scriptoria nel recupero e nella trasmissione delle opere della classicità. Del resto, come ricorda Moulin «Senza la civiltà monastica, senza la sua azione secolare, è certo che l’Occidente (…) non sarebbe

identificato con uno dei fondatori del Vecchio Continente. Gli autori analizzano la nascita e lo sviluppo delle comunità monastiche in maniera approfondita, offrendo al lettore un ricco repertorio

assolutamente stato quel che è diventato e quello che è oggi, e il XII secolo non sarebbe stato quell’epoca di luce, una delle piú abbaglianti della nostra storia, che invece è stato». S. M.

Raymond Oursel, Léo Moulin I monasteri fecero l’Europa

Editoriale Jaca Book, Milano, 224 pp., ill. col.

70,00 euro ISBN 978-88-16-60594-7 www.jacabook.it

Terza ristampa per l’affascinante viaggio alla scoperta della civiltà monastica condotto da Raymond Oursel e Léo Moulin. Un fenomeno chiave nella storia del Medioevo, che si sviluppò nel lungo arco di tempo compreso fra il V e il XII secolo e che, dopo le manifestazioni degli esordi – ispirate dalle esperienze degli eremiti –, si fece sempre piú articolato, riflettendo le

novembre

MEDIOEVO



CALEIDO SCOPIO

Il limbo suadente di Johannes MUSICA • Fiammingo d’origine, ma italiano

d’adozione, Johannes de Lymburgia si segnala per un linguaggio sonoro di transizione, proiettato verso gli sviluppi stilistici del Rinascimento

L

a figura di Johannes de Lymburgia, oggetto di questa interessante proposta discografica, rientra nella vasta casistica di musicisti del passato le cui testimonianze si riducono spesso a pochissimi dati biografici e a qualche brano sparso, qua e là, in codici dell’epoca. In realtà, in questo caso il destino ha voluto che l’intera produzione di questo compositore fiammingo sia conservata – si tratta di 42 brani sacri – nel manoscritto Q 15, custodito a Bologna, nel Museo internazionale e Biblioteca della Musica. Un corpus piuttosto eccezionale, data la sua unicità, che compensa le scarne notizie sulla vita e l’opera dell’artista. Come molti suoi colleghi d’Oltralpe, Johannes, dopo aver intrapreso la carriera musicale nella chiesa di S. Giovanni Evangelista a Liegi – dove la sua presenza è documentata nel primo decennio del Quattrocento –, è attivo in Italia, a Vicenza, attorno alla cerchia del vescovo umanista Pietro Emiliani, poi a Padova e nuovamente a Vicenza, come mansionarius e tenorista nel 1432. Padova, tra l’altro, costituisce l’oggetto di uno dei mottetti qui proposti: Gaude felix Padua, una testimonianza ulteriore sul suo legame con la città. L’universo sonoro di Johannes rientra in una sorta di limbo

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stilistico, legato, com’è, a un linguaggio tardo-trecentesco e a un’espressività decisamente piú moderna e sensibile al messaggio testuale che nell’Umanesimo maturo e nel successivo Rinascimento conobbero il pieno sviluppo.

Nello stile dell’alternatim Varie sono le modalità compositive adottate da Johannes. Tra queste, il ricorso all’alternanza tra passaggi accordali e libero contrappunto, come anche l’alternanza fra passaggi polifonici e passaggi in canto fermo secondo lo stile dell’alternatim. Altri elementi che contraddistinguono alcuni ascolti sono l’affidamento, anche qui alternato, dei versetti a coppie di voci gravi e coppie di voci acute, e l’impiego dell’andamento parallelo per intervalli di terza che ritroviamo in Magne dies leticie, il cui stile compositivo ricorda quello sovente praticato dai compositori inglesi del Trecento. I generi affrontati sono quelli del mottetto e della messa; della seconda ascoltiamo solo singoli brani tratti dal proprium missae, come il Kyrie e l’Agnus Dei, mentre i restanti ascolti ci riconducono al genere del mottetto, ampiamente utilizzato nei contesti liturgici dell’epoca. L’ensemble Le Miroir de Musique, diretto da Baptiste Romain, che si

Johannes de Lymburgia Gaude felix Padua Le Miroir de Musique, Baptiste Romain Ricercar (RIC402), 1 CD www.outhere-music.com avvale di quattro voci e di un sobrio accompagnamento strumentale, si produce impeccabilmente in questo repertorio con una grande pulizia nella emissione e nel bilanciamento di tutte le voci. Resta forse un atteggiamento un po’ algido nella interpretazione che risulta a tratti distaccata, un problema che, piú in generale, si riscontra non di rado nelle interpretazioni della musica piú antica. Altro elemento che lascia qualche perplessità è l’abbinamento alle voci di strumenti come le vielle, il liuto e l’arpa; una scelta forse non del tutto appropriata per un contesto legato alla musica liturgica di quel periodo. Ciononostante, si tratta di un disco eccellente, che getta luce su un altro tassello sulla nostra conoscenza del repertorio del primo Quattrocento. Franco Bruni novembre

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