Medioevo n. 272 Settembre 2019

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MEDIOEVO n. 272 SETTEMBRE 2019

NE L LL ’A ’ET M À O DI R M E EZ ZO

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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Mens. Anno 23 numero 272 Settembre 2019 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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ARNALDO DA BRESCIA E LA FORTUNA DEGLI ERETICI

IN EDICOLA IL 3 SETTEMBRE 2019



SOMMARIO

Settembre 2019 ANTEPRIMA IL PROVERBIO DEL MESE A bizzeffe

La vera storia dell’abbondanza

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ARCHEOLOGIA Quella torre (quasi) inespugnabile...

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RESTAURI «Per la bellezza, l’onore e l’aspetto» di Firenze

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SCOPERTE Il santo si riconosce... dal naso 14 ITINERARI Quando Carlo scese in Valle

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MUSEI Da chiesa dei macellari a museo

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APPUNTAMENTI Terzieri, carri e suoni Uno scontro epico Sia gloria a Tecla! L’Agenda del Mese

28 29 30 34

STORIE L’AMORE NEL MEDIOEVO Enigmi d’amore

incontro con Annarosa Mattei, a cura di Corrado Occhipinti Confalonieri

62 COSTUME E SOCIETÀ MEDIEVALISMO/7 Quando l’eresia diventa mito di Riccardo Facchini

62

LUOGHI ARTE DELLE ANTICHE CHIESE/10 Abruzzo Nell’isola che non c’è di Furio Cappelli

76

44

76 CALEIDOSCOPIO

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LIBRI Fra terra e cielo Lo Scaffale

112 113

MUSICA Santità universale

113

Dossier MATILDE DI CANOSSA

La contessa «femminista» 87 di Paolo Golinelli, con contributi di Danilo Morini e Ilaria Sabbatini e un’intervista a Paolo Golinelli a cura di Federico Fioravanti


MEDIOEVO n. 272 SETTEMBRE 2019

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01/08/19 15:16

MEDIOEVO Anno XXIII, n. 272 - settembre 2019 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato, Davide Tesei Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Riccardo Facchini è dottore di ricerca in storia della civiltà europea. Federico Fioravanti è direttore del Festival del Medioevo. Giampiero Galasso è archeologo e giornalista. Paolo Golinelli è professore ordinario di Storia Medievale all’Università degli Studi di Verona. Mila Lavorini è giornalista. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Danilo Morini è dottore in storia medievale e in lettere moderne. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Ilaria Sabbatini è Research fellow presso SISMEL (Società Internazionale per lo Studio del Medioevo Latino). Tiziano Zaccaria è giornalista. Illustrazioni e immagini: DeA Picture Library: p. 47; A. Dagli Orti: copertina (e p. 87); M. Seemuller: p. 46; M. Borchi: pp. 76/77 – Doc. red.: pp. 5, 7, 15, 64-65, 68-69, 71, 74-75, 79 (alto), 80, 83, 85, 90 (alto), 91, 95, 102 – Cortesia Aldo Marrone: p. 6 – Cortesia Comune di Summonte: p. 8 – Cortesia Ufficio Stampa-Firenze Musei: p. 24; Gianfranco Gori: pp. 10-12 – Cortesia Chantal Milani: p. 14 – Cortesia degli autori: pp. 18-22, 30 – Cortesia Ente Palio dei Terzieri Città di Trevi: p. 28 – Cortesia Ufficio Stampa: p. 29 – Mondadori Portfolio: Ann Ronan Picture Library/Heritage Images: p. 45; AKG Images: pp. 48-49, 58-59, 81, 96-99; Fine Art Images/Heritage Images: pp. 50-51, 57, 94; Collection Christophel/ Annapurna Pictures: pp. 52/53; Album/Fine Art Images: pp. 54, 93; Archivio Quattrone/Antonio Quattrone: pp. 66/67; Archivio Francesco Prandoni/ Francesco Prandoni: p. 70 (basso) – Shutterstock: pp. 62/63, 72/73, 73, 78, 82, 88-89, 90 (sfondo pagina), 101 (alto), 102/103, 109 – Archivi Alinari: Alberto Campanile: p. 70 (alto) – Bridgeman Images: p. 100 – Cortesia Paolo Golinelli: pp. 104-107 – Cortesia Ilaria Sabbatini: pp. 110-111 – Patrizia Ferrandes: cartine e rialaborazioni grafiche alle pp. 79, 108. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina Matilde di Canossa a cavallo (particolare), olio su tela di Paolo Farinati. 1587 circa. Verona, Museo di Castelvecchio.

Nel prossimo numero storie

Galvano, cavaliere solare

costume e società

Il Medioevo del Grande Nord

antiche chiese

Tesori della Napoli angioina


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

La vera storia dell’abbondanza

A

ttorno all’827 ebbe inizio l’invasione musulmana della Sicilia: nell’831 cadde Palermo, nell’843 Messina, nell’878 Siracusa, la principale città bizantina sull’isola. La conquista potè dirsi compiuta quando a capitolare fu Taormina. Seguí una dominazione lunga e stabile, che diede vita ad una fiorente civiltà: vennero introdotte innovazioni colturali, tessili, fu potenziata la pesca del tonno e nell’isola affluirono molti prodotti nuovi, che oggi tuttora utilizziamo. Mutarono la toponomastica e, naturalmente, anche la lingua. Dell’una e dell’altra sopravvivono non poche tracce: qala o qal’at (Calatafimi o Caltagirone) significa castello; marsa (da cui Mazara del Vallo o Marsala) sta per approdo; gebel (Mongibello) significa monte. Ma l’arabo sopravvive in moltissimi termini della lingua italiana, attestando l’enorme influsso che questa civiltà lasciò all’Occidente. Molte sono le parole legate alle scienze matematiche, chimiche ed astronomiche, in cui gli Arabi eccellevano: sono infatti arabi i termini algebra, almanacco, Miniatura raffigurante l’assedio di Messina da parte degli Arabi, dal Codex Graecus Matritensis Ioannis Skylitzes, manoscritto greco di produzione siciliana che riporta la Sinossi della Storia di Giovanni Scilitze. XII sec. Madrid, Biblioteca Nazionale.

azimut e zenit, cifra, zero, ma anche alcool, alambicco, elisir. E fanno capolino anche parole piú «mondane», come azzurro, ragazzo, materasso, trippa e perfino tamarro, che in origine significava venditore di datteri. Fra tutti i termini d’uso vario e quotidiano, vi è anche la parola scelta per questa puntata della nostra rubrica: bizzeffe. L’espressione è stata a lungo interpretata come originata dal latino: bizzeffe, infatti, veniva sciolta nella singolare maniera bis-effe. Secondo Paolo Minucci (1626-1695), quando un magistrato concedeva una grazia illimitata, aggiungeva in calce al decreto una abbreviazione (f.f.), da lui interpretata come fiat fiat («cosí sia, cosí sia»). Le due -f- sarebbero state pronunciate con bis-effe, attestando dunque il significato di «in abbondanza!». Quella singolare interpretazione fu accolta a piú riprese da vari studiosi della lingua italiana, fino a quando la filologia moderna ha compreso la reale origine del termine bizzeffe: nell’arabo magrebino, infatti, biz-za-f significa proprio… «in abbondanza, molto».


ANTE PRIMA

Quella torre (quasi) inespugnabile... ARCHEOLOGIA • Gli scavi e i restauri condotti a Summonte, nell’Avellinese, hanno

permesso di ricostruire la storia di uno dei piú importanti complessi fortificati della regione, il cui primo nucleo è attestato dalle fonti già nell’XI secolo

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lle pendici del monte Vallatrone, alle falde orientali del Partenio, gruppo montuoso dell’Appennino campano, il piccolo centro di Summonte (Avellino) rappresenta, fin dall’XI secolo, uno dei luoghi fortificati piú importanti dell’Irpinia occidentale, sviluppandosi lungo la via Campanina, che fin dall’età romana collegava la piana campana alla valle caudina. Sebbene inespugnabile per la natura del luogo, sappiamo dalla Cronaca di Falcone Beneventano che nel 1134 il castello – che dal 1127 era di

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proprietà di Raone de Farneto, subfeudatario del conte di Avellino –, fu preso e assediato dalle truppe normanne di Ruggero II, dux Apuliae et Calabriae. Nel 1233 lo stesso era in possesso di Nicola Malerba, a cui Federico II di Svevia affida il prigioniero lombardo Obertino de Mandello, affinché fosse custodito nelle segrete della locale fortezza. Nella seconda metà del XIII secolo, con l’avvento degli Angioini, sui resti di preesistenti strutture militari di epoca normanna – rilevati durante

le indagini archeologiche – viene edificata una monumentale torre difensiva all’interno di un complesso fortificato: proprio in questa torre fu ospitato nel 1456 Renato I d’Angiò, mentre, inseguito dalle truppe aragonesi, fuggiva alla volta di Benevento.

In posizione dominante Oggi il complesso fortificato di Summonte è formato da un recinto in muratura di pietra, a pianta quasi trapezoidale e in cui si apriva almeno una porta, dotato nell’angolo nord-est di una torretta

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piena di forma cilindrica in pietrame e con al centro una monumentale torre cilindrica su base scarpata, che dai suoi 734 m di altitudine domina la valle circostante. La torre cilindrica, alta 18 m circa e costruita in pietrame informe – ricavato dal banco di calcare che forma il colle e cementato da spessi strati di malta grigia –, mostra i caratteri specifici dell’architettura militare angioina ed è articolata su quattro livelli. Nel primo livello è una cisterna alimentata da un condotto in pietra interno che reca l’acqua piovana raccolta sulla copertura: formata da un vano circolare con pareti rivestite di intonaco impermeabile, permetteva il prelievo dell’acqua da un pozzetto situato nel locale del primo piano (secondo livello), che svolgeva funzioni di dispensa e deposito.

Nella pagina accanto la torre di Summonte (Avellino), citata a piú riprese dalle fonti e che, soprattutto fra il XIII e il XV sec., fu al centro di aspre contese per il suo controllo.

In basso Palermo, chiesa della Martorana (S. Maria dell’Ammiraglio). Mosaico di età normanna raffigurante l’incoronazione di Ruggero II (avvenuta nel Natale del 1130) da parte del Cristo.

Tracce di vita quotidiana Dalla cisterna sono stati recuperati diversi frammenti di ceramica medievale, ossa, resti vegetali, un proiettile in pietra, frammenti della travatura dei solai lignei, due brocche decorate in stile compendiario (fine del XVII-inizi del XVIII secolo), oggi in esposizione nell’Antiquarium allestito nella torre, che rivelano come l’abbandono della struttura sia da mettere in relazione alle conseguenze del violento sisma che nel 1732 devastò l’intera l’Irpinia. Al secondo livello si accedeva da una strettissima scala, che non si rilevava prima dell’indagine archeologica condotta nell’area dalla Soprintendenza ABAP di Salerno e Avellino: la scala era realizzata in pietrame e addossata in un secondo momento alla torre, mentre le sue fondazioni si sono sovrapposte a un ambiente con pavimento in malta idraulica, i cui resti sono da riferire a una preesistente torre, a pianta quadrata, di epoca normanna, evidenziati anch’essi durante i lavori di scavo e restauro.

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ANTE PRIMA

Ancora due immagini della torre di Summonte. Per edificare la poderosa struttura fu impiegato pietrame ricavato dal banco calcareo che forma il colle, cementato con malta grigia. L’ingresso era quindi posto ad alcuni metri d’altezza dal suolo e doveva essere accessibile in una prima fase solo attraverso una scala lignea che all’occorrenza poteva essere smontata e sostituita da una retrattile. Se i primi due livelli della costruzione erano adibiti a servizi, il terzo e il quarto rispondevano a funzioni abitative, essendo dotati di ampie finestre arcuate. Nell’area a nord-ovest dell’imponente torre, sempre all’interno del robusto recinto murario che attraversa tutta la zona sommitale del colle e che

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vedeva addossati al muro di cinta vari ambienti, il cui solaio diveniva cammino di ronda, è stato evidenziato un nucleo di unità abitative con strutture murarie fondate direttamente sul banco roccioso frequentate tra XIV e inizi del XVIII secolo. All’interno del recinto sono state inoltre evidenziate due bocche di una cisterna, formata da due ambienti comunicanti voltati a botte, scavati nel banco calcareo. Nell’angolo nord-est del poggio su cui è impiantato il sistema difensivo, il ritrovamento di ossari con deposizioni risalenti al XIV secolo, da cui provengono oggetti di ornamento personale e frammenti ceramici, attesta, infine, la presenza di un piccolo edificio di culto demolito nel secolo scorso. Giampiero Galasso settembre

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ANTE PRIMA

«Per la bellezza, l’onore e l’aspetto» di Firenze RESTAURI • Uno dei molti capolavori custoditi dalla chiesa fiorentina di

Orsanmichele, il Tabernacolo dell’Orcagna, torna al suo splendore originario e può ora essere ammirato anche da una prospettiva inedita

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ia de’ Calzaiuoli, principale arteria del centro storico di Firenze, collega ancora oggi i due poli della vita politica e religiosa del capoluogo toscano: e proprio a metà strada tra il Palazzo della Signoria e la Cattedrale, si trova la chiesa di Orsanmichele, uno dei piú pregevoli esempi di arte gotica italiana, nel quale si concentrano capolavori marmorei e bronzei che, in parte, decoravano le nicchie esterne, ora abbellite da copie. Committenti dell’impresa artistica furono le Arti, motore

economico della comunità, ma che di fatto gestivano il potere politico; da iniziale emporio di cereali all’aperto, il sito fu progressivamente convertito in luogo di culto e scrigno, appunto, di pregiatissime sculture medievali e rinascimentali, simboli dei patroni delle corporazioni. Quella della fabbrica ecclesiastica è una storia inusuale, caratterizzata da varie fasi costruttive. Dopo la distruzione della piccola cappella circondata da un orto e dedicata a san Michele, che occupava l’area nel In questa pagina e nella pagina accanto, in basso Firenze, chiesa di Orsanmichele. Veduta d’insieme e particolari del magnifico Tabernacolo realizzato dall’Orcagna (al secolo Andrea di Cione). 1359. L’opera è stata recentemente sottoposta a un intervento di manutenzione straordinaria, che ha permesso di riscoprirne numerosi dettagli.

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IX secolo, il governo aveva acquisito la proprietà, realizzandovi un mercato per la vendita di grano.

Un’immagine venerata

In alto Firenze, chiesa di Orsanmichele. Madonna delle Grazie (particolare), dipinto su tavola di Bernardo Daddi. 1347. L’opera venne inserita all’interno del

magnifico Tabernacolo realizzato dall’Orcagna, in sostituzione di una Madonna delle Grazie dipinta su tavola da quest’ultimo e andata perduta.

Al primitivo spazio senza copertura, si sostituí poi una loggia dal tetto ligneo a protezione sia dei mercanti che dei loro prodotti dalle intemperie e, a ricordo dell’antico oratorio, si decise di dipingere, su una colonna, l’immagine della Vergine, che presto diventò elemento di devozione popolare, diffondendosi la notizia del suo potere miracoloso. In mezzo al frastuono dell’animato quartiere, stazionavano anche mendicanti e usurai, a lato di musicisti che cantavano le laudi alla Madonna, accompagnandosi con organo e viola, mentre ogni domenica si davano lezioni gratuite di canto. Nel 1336, un decreto legislativo

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ANTE PRIMA A destra un momento della benedizione del Tabernacolo dopo la conclusione dei lavori che l’hanno interessato. In basso particolare della firma apposta dall’Orcagna sul Tabernacolo: «Andreas Cionis pictor Florentin(us) oratorii archimagister extitit hui(us) MCCCLIX». assegnò al sindacato che includeva anche setaioli e orafi il compito di riorganizzare la struttura, con la creazione di un fabbricato ibrido che doveva rappresentare le due anime della società, la sacra e la profana. Ecco che si deliberò per un edificio dal doppio uso: magazzino superiormente e chiesa al piano terreno, definito da un monumentale programma decorativo, come degno contributo «per la bellezza, l’onore e l’aspetto» di Firenze. Nel 1348, quando scoppiò la peste, l’evento fu visto come un segno di punizione divina e, conseguentemente, una larga porzione degli introiti – che entravano nelle casse della confraternita incaricata di gestire i traffici legati a Orsanmichele – fu devoluta in beneficenza. Allo stesso tempo, una somma pari a 86 000 fiorini d’oro (l’equivalente di circa un quarto dei proventi annuali del Comune derivanti da tasse e altri emolumenti) fu spesa per realizzare l’elaborato Tabernacolo, terminato nel 1359 da Andrea di Cione, detto l’Orcagna, per ospitare la pala a fondo oro con la Madonna in trono con Bambino e Angeli, eseguita dodici anni prima da Bernardo Daddi, raffinato interprete degli stilemi giotteschi, a

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sostituzione della venerata e perduta Madonna delle Grazie. L’edicola si presenta come una scenografica costruzione architettonica in marmo bianco, impreziosito da inserti cromatici rosa e verdi, da pietre dal blu intenso, oltre a piccoli motivi geometrici colorati e dorati.

Un tripudio di forme e colori Un intervento di manutenzione straordinaria ha fatto riemergere tracce del progetto originario, dove persino i rilievi marmorei e i finti drappi sospesi sopra gli archi del Tabernacolo erano dipinti, e su ogni lato, fitte decorazioni dalla luminosa cromia scintillavano alla luce delle lampade a olio; un tripudio di 120 elementi tra pinnacoli, colonnine e statuette dal basamento ornato da bassorilievi a rappresentare le Virtú e la Vita della Vergine. Inaccessibile per oltre un decennio, adesso anche

la parte posteriore del tempietto è fruibile ai visitatori, attraverso una bussola di vetro collocata sulla porta di accesso posta lungo via de’ Calzaiuoli. Il retro presenta la Morte di Maria e l’Assunzione in cielo, con la consegna della Cintola a san Tommaso, oltre a emblemi mariani, come rose, stelle e valve di conchiglia. Proprio qui, l’Orcagna iscrisse la sua firma e la data in cui concluse i lavori dell’opera piú costosa nel suo genere che sia stata prodotta a Firenze. Nel frattempo, il mercato, che aveva continuato la sua attività, fu spostato altrove, mentre rimase in uso lo stoccaggio di frumento al primo e secondo livello dell’edificio fino al XVI secolo, tanto che ancora si possono vedere i due condotti utilizzati per far scivolare giú i grani, in caso di emergenza militare o carestia. Mila Lavorini settembre

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L

a cittadina umbra di Narni si appresta a rinnovare, dal 13 al 22 settembre, l’appuntamento con la Corsa all’Anello, giunta alla sua 51esima edizione. In occasione della festa storica, dedicata al Santo Patrono Giovenale, primo vescovo della città, Narni si veste di Medioevo e ne riscopre le atmosfere, risalendo fino al lontano 1371. Negli statuti comunali dell’anno in questione si legge infatti di giochi popolari e sfide cavalleresche organizzate nei primi giorni di maggio per onorare il Santo. Nell’antico documento, il De anulo argenteo currendo, viene indicato come il palio piú importante e ambito, riservato ai migliori cavalieri del territorio che si contendevano il ricco premio di «cento soldi cortonesi», cercando di infilare con una lancia, al galoppo, un piccolo anello di ferro sospeso in aria. Ora, la tradizione della gara viene mantenuta nella spettacolare corsa storica. A contendersi l’anello d’argento sono i tre terzieri di Mezule, che presenta i colori bianconeri, Fraporta, con i colori rossoblú e Santa Maria, dal vessillo arancio viola. La rivalità dei rioni che sono dislocati nella parte «de sopra» (Mezule), «de mezzo» (Fraporta) e «de sotto» (Santa Maria) del centro storico, anima tutta la Corsa all’Anello

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

Chi vincerà l’anello d’argento? e non si ferma al solo evento agonistico, ma colora di eventi e goliardia l’intera festa. Nell’avvincente gara i cavalieri (tre per ogni terziere) si scontrano in un duello diretto. La gara consiste nell’infilare con la lancia un anello sospeso su un braccio meccanico. La caratteristica della corsa è la velocità e la tecnica. Ciascun fantino di terziere deve battere quello dell’altro terziere sul tempo per arrivare prima a infilare l’anello. Rapidità, buona mira e freddezza sono le armi vincenti del cavaliere che deve infilare l’anello di 10 cm di diametro al galoppo. Un dispositivo elettronico sgancia automaticamente l’anello avversario quando al terzo giro l’altro viene preso dal primo dei cavalieri che arriva sul porta anelli. La gara si svolge su un tracciato ellissoidale dove ciascun fantino sfida gli altri con gare uno contro uno su tre giri e tre tornate. Ogni anello conquistato ha un punteggio, vince il terziere che al termine delle tornate ha totalizzato piú punti. La gara si svolge in tre tornate, ognuna formata da tre gare dirette e decreterà il vincitore dell’anello che, secondo quando annunciato nel bando il primo giorno della festa, «ne vanterà gloria per l’anno intero».

Narni (Terni). Un momento del corteo storico che precede la disputa della Corsa all’Anello.

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ANTE PRIMA

Il santo si riconosce... dal naso SCOPERTE • Ecco il volto di Mercuriale, primo

vescovo di Forlí: è questo l’eccezionale risultato delle indagini multidisciplinari condotte sulle sue reliquie

L

e reliquie di san Mercuriale, primo vescovo di Forlí, sono state recentemente fatte oggetto di un’indagine multidisciplinare. Il lavoro è consistito dapprima nell’analisi ossea sia di un cranio conservato presso la chiesa forlivese

della Santissima Trinità, sia di una parte complementare di scheletro conservata presso l’abbazia di S. Mercuriale, ipoteticamente appartenute al santo. Le analisi sono state mirate al recupero di qualsiasi informazione utile per raccontare la storia dell’individuo a cui erano appartenuti quei resti. Mirko Traversari, antropologo e paleopatologo che ha partecipato alle ricerche, spiega come le ossa abbiano raccontato di un uomo caucasico, morto fra i 40 e i 49 anni, di costituzione nella media, sebbene la sua altezza fosse di circa 158 cm. Le articolazioni recano traccia delle fatiche affrontate nella vita e di pesi a lungo trasportati. La ricostruzione 3D del volto di san Mercuriale, primo vescovo di Forlí, eseguita a partire dalle ossa del cranio.

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Ma è proprio san Mercuriale? Le analisi preliminari sul DNA mitocondriale hanno evidenziato resti molto degradati, che quindi necessitano di ulteriori approfondimenti. Tuttavia, le analisi genetiche preliminari hanno permesso di accertare che il cranio e le altre ossa, seppur custodite separatamente per lungo tempo, appartengono allo stesso soggetto.

Una cronologia compatibile La datazione col Carbonio 14, eseguita presso il laboratorio CEDAD dell’Università del Salento colloca le reliquie entro un arco temporale che va dal II al III secolo d.C., periodo compatibile con le indicazioni storiche, seppur scarne, certamente attribuibili alla figura del santo. Sulla scorta di quanto emerso dalle precedenti analisi e della TAC eseguita presso il presidio ospedaliero Morgagni-Pierantoni di Forlí, Chantal Milani, antropologa e odontologa forense, ha ricostruito in 3D il volto a partire dalle ossa del cranio. Quest’ultimo, incompleto, ha necessitato di una ricostruzione delle parti mancanti, sempre in ambiente 3D, per ridare integrità e supporto alla ricostruzione dei tessuti molli, muscoli e cute del viso secondo quello che è conosciuto come «metodo Manchester». Il volto del santo ricostruito senza conoscere la presenza di eventuali altre raffigurazioni è fortemente caratterizzato da un naso importante e asimmetrico, informazione desunta dalle ossa e che curiosamente ritroviamo anche su altre rappresentazioni di san Mercuriale, come per esempio la tela di Baldassarre Carrari (1460-1516), fra le prime di cui disponiamo. (red.) settembre

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Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae

San Mercuriale regge un modellino di Forlí, città posta sotto la sua protezione, particolare dell’Incoronazione di Maria Vergine con san Benedetto, san Mercuriale, san Giovanni Gualberto e san Bernardo degli Uberti, tempera su tavola di Baldassarre Carrari. 1512. Forlí, abbazia di S. Mercuriale.

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ANTE PRIMA

Passione e promozione L

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

a Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze celebra i 60 anni di attività (1959-2019) promuovendo la prima «Florence Art Week» una settimana di eventi, mostre, performance e incontri destinata a coinvolgere tutte le gallerie fiorentine, dall’arte antica al contemporaneo. La BIAF lancia anche un nuovo «Premio per le arti decorative o di design» grazie alla sponsorizzazione di Ronald S. Lauder, che lo assegnerà nel corso della rassegna, su una terna di opere segnalate da un’apposita giuria. L’importo di 25 000 euro

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In alto un’immagine dell’edizione 2018 della Biennale. In basso Madonna col Bambino in trono fra sei santi, tempera su tavola di Ventura di Moro. 1430 circa. Milano, Galleria Salamon. consentirà il restauro di alcune opere d’arte decorativa appartenenti al patrimonio culturale pubblico. Inoltre, al primo piano di Palazzo Corsini all’interno dell’Alcova, si potrà ammirare «UNIVERSO BARDINI», un progetto espositivo a cura di David Lucidi sulla figura di Stefano Bardini «principe degli Antiquari», dedicato non alla sua consueta accezione di mercantecollezionista, ma a quella di protagonista nelle vicende del collezionismo d’arte tra Otto e Novecento, del suo ruolo fondamentale per l’allestimento di importanti raccolte internazionali. Per l’occasione verranno esposte opere che oggi fanno parte del Museo Bardini, quelle che maggiormente rappresentano la sua estetica espositiva di attento collezionista e altre prestate da collezionisti privati e antiquari. A Palazzo Corsini dal 21 al 29 settembre la 31ma edizione della BIAF Biennale Internazionale dell’Antiquariato di Firenze vedrà protagoniste 77 gallerie del panorama internazionale specializzate nelle piú diverse discipline artistiche, che sapranno affascinare con una ricercata selezione di opere i numerosi collezionisti privati, Direttori di Musei, Soprintendenti e curatori provenienti da tutto il mondo. La mostra ha per missione la promozione dell’arte italiana e del suo mercato. La qualità e la concretezza delle proposte d’arte esposte in mostra, insieme all’unicità del luogo, Palazzo Corsini affacciato sull’Arno e Firenze tutto intorno, sono gli elementi che la contraddistinguono e ne fanno la seconda manifestazione al mondo per l’arte antica. «Il mio sogno – afferma Fabrizio Moretti, Segretario Generale – è che la BIAF possa portare alla luce tutte quelle opere che sono importanti documenti della storia dell’arte, grazie all’appassionato impegno di tutti i suoi galleristi, diventando cosí un punto di riferimento per il mercato dell’arte ma anche per un pubblico piú vasto in Italia e non solo». settembre

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ANTE PRIMA

Quando Carlo scese in Valle ITINERARI • Nel nome del grande re e imperatore

è stato realizzato un Cammino che si propone di far conoscere e valorizzare il patrimonio artistico, archeologico e paesaggistico della Valle Camonica

I

n Valle Camonica, valle alpina a nord di Brescia, si possono seguire le tracce leggendarie di Carlo Magno, sovrano dei Franchi e imperatore dei Romani. Da poco tempo è stato realizzato un percorso, su modello di altri Cammini Nazionali, denominato Cammino di Carlo Magno. Esiste un’antica leggenda, risalente al XV secolo e rivista in tempi successivi, che lega Carlo al territorio della Valle Camonica. Il testo narra del viaggio del sovrano, proveniente da Bergamo, lungo la bergamasca Val Cavallina, Lovere e quindi l’entrata in Valle Camonica fino al Passo del Tonale e la discesa in Trentino. L’itinerario

Sulle due pagine la chiesa di S. Clemente in Vezza D’Oglio. Nella pagina accanto veduta del centro storico di Vione.

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è menzionato in nove manoscritti redatti in latino, databili tra il XV e il XIX secolo (con qualche differenza tra loro), in un affresco del pittore Baschenis a Carisolo (Trentino) e in una traduzione in italiano del XVIII secolo. Il percorso si svolge in luoghi e paesi ancor oggi esistenti e nomina edifici religiosi ancora visibili. Carlo Magno sarebbe giunto in Valle Camonica, con un grande esercito e seguito da sette vescovi e dal papa, con l’intento di scacciare e sconfiggere i nemici pagani, convertendoli al cristianesimo, distruggendo i loro castelli per poi edificare nuove chiese. Da Lovere, paese affacciato sul

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ANTE PRIMA Lago d’Iseo, il sovrano sarebbe penetrato in territorio camuno, fino a raggiungere Esine, Cividate Camuno, Berzo Inferiore, Bienno, Breno, Cemmo, Edolo, Davena, Ponte di Legno. Come già detto il suo passaggio resta al momento una leggenda, poiché non vi sono dati archeologici che possano confermare il racconto. Unica testimonianza certa che lega il nome del re al territorio camuno è un editto, datato 16 luglio 774, in cui la Valle Camonica viene ceduta all’abbazia di S. Martino di Marmoutier, presso Tours: «Facciamo dono della Valle chiamata Camonica dal passo Candino fino a Dalegno con i monti e le alpi dal confine trentino, chiamato Tonale».

Percorsi battuti già in antico Il Cammino di Carlo Magno segue il mitico itinerario e tocca i luoghi e le chiese nominate. Ovviamente il racconto non descrive nel dettaglio i passi del sovrano e quindi si è cercato di individuare sentieri o vie sicuramente già utilizzati fin dall’antichità dalle varie comunità locali, per spostarsi da un luogo all’altro. Si tratta, quindi, di un vero

e proprio tour nella storia e nell’arte della Valle Camonica. Ciascun paese attraversato è diverso dal successivo e presenta caratteristiche proprie, sia artistiche che tradizionali. Seguire questo itinerario significa fare un tuffo nella storia, passando dalle incisioni rupestri preistoriche ai resti della città romana di Civitas Berzo Inferiore, S. Lorenzo. Affresco raffigurante san Glisente. XV sec. A sinistra Esine, la chiesa della Santissima Trinità. Nella pagina accanto Bienno, S. Maria Annunciata. Sacra conversazione con i santi Francesco e Carlo Magno (Sigismondo?), affresco di Pietro da Cemmo. Fine del XV sec.

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Camunnorum (oggi Cividate Camuno), dai castelli e borghi medievali alle chiese riccamente affrescate nel XV e XVI secolo, fino all’arte del XVIII secolo e ai resti della Grande Guerra in Alta Valle. La prima tappa parte da Lovere, antico centro romano di cui sono stati ritrovati recentemente resti di una necropoli, dove ci si può immergere tra vie medievali e visitare la basilica di S. Maria in Valvendra. Vuole la tradizione che qui l’esercito di Carlo avesse raggiunto il castello di Alorio, signore pagano del luogo, che si convertí al cristianesimo. In memoria di questa vittoria il re franco avrebbe eretto l’ancora esistente chiesa di S. Giovanni in Cala, dove un tempo era custodita una versione del racconto.

A strapiombo sul torrente Altro luogo importante e legato alla leggenda di Carlo è Gorzone, con il castello della famiglia Federici (feudatari della Valle Camonica), arroccato su uno sperone di roccia a strapiombo sulla forra del torrente Dezzo. A Gorzone, presso Casa Caffi-Vezzoli, si custodivano in settembre

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origine alcuni affreschi con scene pertinenti al viaggio di Carlo Magno (ora conservati a Brescia). La prima tappa termina a Boario Terme, centro termale noto sin dal 1700, le cui acque terapeutiche furono esaltate anche da Alessandro Manzoni. La seconda tappa, forse la piú ricca di testimonianze artistiche e culturali, permette di immergersi completamente nell’arte camuna. A Esine è d’obbligo la visita di S. Maria Assunta, la «Cappella Sistina» del 1400 camuno, che conserva quasi intatto l’intero ciclo affrescato del pittore Pietro da Cemmo. Seguendo l’itinerario di Carlo si raggiunge, in posizione dominante il paese, la chiesa della Trinità. Qui il sovrano si scontrò e uccise il signore locale, Ercole, che si opponeva alla conversione e sui resti del suo castello eresse l’edificio religioso.

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A Berzo Inferiore, invece, si può avere un saggio, oltre che dell’arte, della religiosità locale, ammirando la Chiesa Parrocchiale, legata all’apparizione della Madonna, e alla chiesa di S. Lorenzo, dove riposano le spoglie di san Glisente.

Santo e paladino Questo santo locale si lega strettamente alla figura di Carlo Magno, poiché la tradizione lo ricorda come paladino del sovrano, successivamente ritiratosi in eremitaggio sui monti presso Berzo. Una tradizione successiva accosta Glisente alla figura di altri due santi locali, Fermo e Cristina, suoi fratelli e anch’essi parte dell’esercito di Carlo divenuti eremiti in valle. Altro abitato menzionato nella leggenda è Bienno, dove, nella chiesa di S. Maria Annunciata, si trova un

affresco che la tradizione ricorda come Santo Carlo Magno. Le ipotesi piú recenti lo identificano con san Sigismondo. Il santo è raffigurato con una lunga veste rossa, la corona in capo e tra le mani lo scettro e il globo sormontato dalla croce. A Bienno il re avrebbe edificato la chiesa di S. Pietro in Vincoli. Importantissimo centro è la già ricordata Cividate Camuno, antica città romana, che conserva ancora numerosi resti del suo passato: anfiteatro e teatro, resti del Foro, un santuario dedicato a Minerva, ai quali fa da corollario il ricco Museo Archeologico. Anche qui il sovrano edificò una chiesa, quella di S. Stefano. La tappa si conclude sotto il Castello di Breno e nel borgo medievale ricco di arte. La terza tappa passa per le aree sacre degli antichi Camuni, con ricche

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ANTE PRIMA

Esine, S. Maria Assunta. Cristo Pantocratore, particolare del ciclo affrescato di Pietro da Cemmo. 1491-1493. testimonianze di incisioni rupestri preistoriche (complesso che è stato il primo sito italiano dichiarato Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’UNESCO). Anche in questa tappa non mancano i riferimenti della spedizione franca: presso Cemmo, Carlo eresse le chiese di S. Siro e di S. Salvatore. La quarta tappa, piú naturalistica, termina nel centro medievale di Edolo, importante crocevia camuno tra le vie verso il Passo del Tonale e il Passo dell’Aprica. Anche a Edolo il sovrano eresse una chiesa, dedicata a san Clemente. L’ultima tappa conduce alla scoperta delle numerose chiese immerse nei boschi e legate alla figura di Carlo Magno: S. Brizio, S. Clemente, S. Alessandro, SS. Trinità. Il Cammino di Carlo Magno si sviluppa per circa 95 km, dal lago

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fino ai passi montani, dividendosi in 5 tappe che variano dai 16 ai 20 km circa. Il percorso si snoda per la maggior parte lungo la mezza costa dei rilievi montani, raggiungendo solo in alcuni casi zone piú elevate per superare pianori rocciosi a picco sulla valle. Nonostante sia un itinerario di media difficoltà, presenta comunque diversi saliscendi, alcuni impegnativi.

Paesaggi sempre nuovi Il tracciato si sviluppa in modo abbastanza lineare da sud verso nord, seguendo l’andamento della valle. L’altimetria varia da tappa a tappa, si parte dai circa 200 m slm a Lovere, per arrivare ai 1300 m slm a Ponte di Legno, con la possibilità di raggiungere i 1800 m del Passo del Tonale. La peculiarità di questo

percorso è la continua diversità dei luoghi attraversati: nessuna tappa è uguale alla precedente e bastano pochi chilometri per ritrovarsi in zone sempre differenti. Il Cammino di Carlo Magno potrà insomma essere l’occasione per scoprire un vairegato mosaico di realtà naturali, paesaggistiche e storico-artistiche, spesso ancora poco conosciute. Antonio Votino DA LEGGERE

Giorgio Azzoni, Gianfranco Bondioni, Virtus Zallot (a cura di), La via di Carlo Magno in Valle Camonica, Grafo, Brescia 2012 Giorgio Azzoni (a cura di), La leggenda di Carlo Magno nel cuore delle Alpi, Silvana Editore Spa, Cinisello Balsamo 2012 settembre

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Da chiesa dei macellari a museo MUSEI • La secolare storia di S. Procolo, a Firenze, si arricchisce di un nuovo e

incoraggiante capitolo: l’edificio è stato acquisito dal demanio e potrà cosí essere risanato, per poterne poi destinare gli spazi al Museo Nazionale del Bargello

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l Ministero per i Beni e le Attività Culturali ha recentemente disposto l’acquisizione a titolo di prelazione della chiesa fiorentina di S. Procolo, per una somma di poco superiore a un milione di euro. Situato all’incrocio tra via dei Giraldi e via de’ Pandolfini, nelle immediate vicinanze del Bargello e della Badia Fiorentina, l’edificio ha avuto una storia secolare, segnata da ripetute trasformazioni. Nota dalle fonti già dall’XI secolo, la chiesa subí infatti nel tempo numerosi interventi fino ad assumere nel Settecento l’aspetto attuale, caratterizzato

dalle rifiniture ad affresco a finte architetture. Nel 1778 fu soppressa come parrocchia, divenendo cosí sede di varie confraternite, fra cui quella di S. Antonio Abate, detta dei «macellari», e qui, negli anni Trenta del Novecento, Giorgio La Pira diede vita alle Messe dei poveri.

L’inizio di una nuova vita L’edificio, di proprietà della famiglia Salviati dal 1786, fu vincolato nel luglio del 1991 insieme alle opere d’arte in esso contenute; a seguito dei danni subiti per il crollo della copertura nel 2005, è stato Due immagini che testimoniano lo stato di degrado della chiesa fiorentina di S. Procolo. Grazie alla recente acquisizione da parte del MiBAC, l’edificio potrà essere restaurato e i suoi spazi saranno destinati al Museo Nazionale del Bargello.

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sottoposto a un primo importante restauro strutturale. Unitamente alla chiesa – i cui spazi sono stati assegnati al Museo Nazionale del Bargello e per i quali è stato definito il progetto di recupero, che mira a renderli nuovamente fruibili – sono state acquisite anche tutte le sue opere d’arte, come le grandi pale d’altare di Matteo Rosselli e Gaetano Piattoli e una tavola raffigurante la Visitazione con santi, variamente attribuita al Ghirlandaio e a Piero di Cosimo, opere che – grazie al supporto del Nucleo Carabinieri Tutela Patrimonio Culturale di Firenze – sono state trasferite nei depositi della Soprintendenza ABAP per la città metropolitana di Firenze e le province di Pistoia e Prato. (red.) settembre

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Terzieri, carri e suoni APPUNTAMENTI • Trevi

si appresta a rievocare la tenacia dei suoi giovani, che, all’indomani della distruzione della città da parte degli Spoletini, si impegnarono a ricostruirla

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Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae

ondata dai Romani sul tracciato dell’antica via Flaminia, la cittadina umbra di Trevi acquistò rilevanza in età imperiale, sviluppandosi in una civitas con edifici monumentali di cui restano numerosi resti. Con il dominio dei Longobardi, che istituirono il potente ducato di Spoleto, Trevi fu assegnata a un gastaldo. Agli inizi del XIII secolo la cittadina si costituí in libero Comune, alleandosi con Perugia per difendersi dagli Spoletini. Proprio questi ultimi, nel 1214, le inflissero un violento attacco, per volontà del duca Theopoldo. In questa pagina immagini del Palio dei Terzieri di Trevi, in programma nel primo week end di ottobre. Nella pagina accanto la troupe francese dei Cavalli Luminosi, che saranno coinvolti nell’allestimento della Disfida di Barletta.

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Rievocando la tenacia con cui i giovani cittadini ricostruirono la città, oggi Trevi, ogni primo sabato d’ottobre, mette in scena il Palio dei Terzieri. Si tratta di una corsa con un carro fra i Terzieri di Castello, Matiggia e Piano, su un percorso prevalentemente in salita lungo 800 m. La partenza avviene da Porta Nuova, poi il tracciato si snoda lungo le antiche mura fino alla piazza del Comune. Per ogni Terziere venti giovani si alternano in piú staffette nella corsa, durante la quale uno traina e altri quattro spingono con forza il carro, pesante 430 chili. Vince il Terziere che impiega il minor tempo e commette meno irregolarità.

Bandiere e stendardi La sera prima del Palio, un fastoso corteo di oltre 500 figuranti in costumi duecenteschi si snoda per le vie cittadine, illuminate da torce e addobbate di bandiere e stendardi. In piazza del Comune, il Priore e Signore di Trevi chiamano il Banditore alla lettura del bando e invitano i tre Consoli a dimostrare il valore di ogni Terziere. La riconsegna delle Chiavi della Città al Cavaliere del Podestà, da parte del Console vincitore nell’anno precedente, dà il via alla nuova sfida. Suggestiva è poi la Benedizione dei carri e dei suoi portacolori. Fanno da cornice musiche, danze e spettacoli medievali. Il sabato successivo al Palio si svolge invece la Disfida dei Suoni fra i gruppi tamburini dei Terzieri. Sempre nel secondo weekend di ottobre il cartellone degli eventi è arricchito da un caratteristico mercato medievale, con espositori che ricostruiscono oggetti e accessori di un’era affascinante. Legno, tessuti, metalli, pietre, colori, profumi e sapori riprendono vita, dipingendo nei vicoli un’atmosfera di altri tempi. L’appuntamento è fissato il sabato dalle 15,00 alle 24,00 e la domenica dalle 9,00 alle 22,00. Tiziano Zaccaria

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Uno scontro epico

La Disfida di Barletta torna in campo! Per l’edizione 2019, infatti, grande è l’attesa per il rinnovato appuntamento con il certame cavalleresco, la cui rievocazione riprende dopo 14 anni. Da giovedí 19 a sabato 21 settembre, il borgo antico e marinaro di Barletta, con il Castello, Porta Marina, piazza della Prefettura e le vie del centro, diventeranno un palcoscenico sul quale andrà in scena uno spettacolo multiforme, suggestivo e coinvolgente, a cura del direttore artistico della Disfida, il regista teatrale Sergio Maifredi. Giovedí 19 settembre, in piazza Prefettura, il momento dell’Offesa, l’affronto rivolto dal condottiero francese Guy de la Motte, alla presenza degli Spagnoli, al valore dei cavalieri guidati da Ettore Fieramosca, rivivrà nel racconto teatrale interpretato da cantori, attori e figuranti; Venerdí 20 settembre, piazza Marina ospiterà il giuramento dei 13 cavalieri italiani, in un’atmosfera solenne e suggestiva; Sabato 21 settembre, nel fossato del castello andrà in scena il certame cavalleresco, l’epico scontro fra i 13 cavalieri francesi e i 13 italiani. Seguirà, in piazza Marina, e non in cattedrale, per fare in modo che tutti possano assistervi, il Te Deum di ringraziamento dei cavalieri per l’esito vittorioso dello scontro. Infine, in una atmosfera di festa e giubilo il corteo trionfale sfilerà per le strade della città, animato da giochi e spettacoli. «Sto immaginando una messa in scena di grande coinvolgimento popolare – dice Sergio Maifredi – che da un lato rispetti la stratificazione di tradizione che la Disfida ha e, dall’altro, introduca delle novità nel modo di raccontare gli avvenimenti. Stiamo scritturando ottimi attori del teatro di prosa a cui affidare i ruoli dei protagonisti della Disfida. Con loro vorrei dare voce ai personaggi principali, anche in questo caso non chiudendoli in dialoghi tra loro ma in apertura verso il pubblico, recitando col pubblico, al pubblico. Come si fa nel teatro dei pupi, evocando, piú che recitando, le azioni». «Coinvolgente e popolare, sono le parole chiave di questa edizione de La Disfida di Barletta – ha detto il sindaco Cannito – perché questo deve essere lo spirito di un evento di cui è impregnata l’identità non solo cittadina ma anche del territorio. Questa Disfida avrà il rigore dell’evento storico, l’estro della rievocazione artistica e la bellezza dello spettacolo!».

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Sia gloria a Tecla! APPUNTAMENTI • Tarragona festeggia la santa patrona, di cui la città ottenne una

preziosa reliquia in cambio d’un trono d’oro, 200 cavalli e... 400 formaggi

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ituata su un’altura rocciosa affacciata sul Mar Mediterraneo, Tarragona, in Catalogna, è Patrimonio Mondiale dell’Umanità dell’UNESCO. Qui si celebra ogni anno la patrona santa Tecla, con grandi Feste, in programma dal 14 settembre al 24 settembre, la cui giornata clou è il 23 settembre. Per undici giorni, oltre cento associazioni organizzano circa cinquecento eventi tradizionali, religiosi e gastronomici, tra il sacro e il profano. Le Feste patronali nacquero ufficialmente nel 1321, quando a Tarragona arrivò la reliquia del braccio di santa Tecla, proveniente dall’Armenia. Nel 1370 un decreto dell’arcivescovo Pere Clasquerí stabilí la sequenza rituale della festa, che si è mantenuta nei suoi tratti essenziali fino a oggi. La prima giornata di feste prevede la Crida, un invito a partecipare alle celebrazioni da parte del sindaco, seguito dalla prima «tronada» pirotecnica. Il 19 settembre si celebra la santa Tecla dei bambini, protagonisti di un corteo popolare. Il 20 è la volta del Retablo: una rappresentazione nella Cattedrale cittadina sulla vita della santa. Il 21 settembre la seconda «tronada» pirotecnica fa da preludio al corteo dei Giganti. Il 22 è il giorno della Víspera: un’entrata rituale dei musici in città. In serata va in scena il Cortejo Popular, un insieme di danze, musiche tradizionali e rappresentazioni allegoriche e drammatiche. Segue la Verbena: una notte continua di festa, con attrazioni musicali in tutta la città. Nella mattina del 23 è in programma ancora il

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Tarragona. Alcune delle caratteristiche maschere che sfilano durante le Feste di S. Tecla.

Cortejo Popular, che accompagna la corporazione municipale; in serata si svolge la Processione del braccio di santa Tecla, che termina con un’impressionante recitazione sulle porte della Cattedrale, chiamata la Entrada de Santa Tecla. Nella notte, si può assistere a un magnifico spettacolo pirotecnico nella Punta del Milagro. A mezzogiorno del 24 settembre è il momento dei Castells: gruppi di uomini, donne e bambini che realizzano «torri umane». Infine, in serata va in scena il corteo dei «Correfoc», gruppi di diavoli della Catalogna, fino allo spettacolo pirotecnico finale.

Intensi scambi commerciali A Tarragona il culto di santa Tecla di Iconio (vissuta nel I secolo: secondo la tradizione cristiana fu discepola di san Paolo, apostola e protomartire) fu praticato fin dall’antichità, ma solo nel 1091 papa Urbano II dichiarò il 23 settembre giorno di precetto e principale celebrazione liturgica dell’anno. Nel Medioevo, quando la Catalogna era una potenza navale nel Mediterraneo, anche l’Armenia visse un periodo di

splendore, trovandosi sulla Via della Seta. Poiché i due popoli vivevano di commercio, presto fecero affari. Una spedizione di Catalani inviati da re Giacomo II in Armenia acquistò la reliquia del braccio di santa Tecla in cambio di un trono d’oro, 200 cavalli andalusi e 400 formaggi di Maiorca. Il 17 maggio 1321 la reliquia arrivò nella cittadina catalana, ricevuta da un’accoglienza spettacolare. Le origini di Tarragona risalgono alla seconda guerra punica, quando sul luogo si insediò la piú importante base militare romana in Hispania. In seguito la presenza militare si ampliò con commercianti e cittadini romani che si stabilirono nei nuovi territori conquistati, dando vita alla città di Tarraco. Di quest’epoca si conservano principalmente le mura, costruite intorno al 197 a.C. Nel IV secolo nella penisola iberica si diffuse il cristianesimo e Tarragona divenne sede arcivescovile. Con la conquista araba, nel 713, iniziò invece un periodo di decadenza. Dopo la Reconquista, nel 1171 si iniziò a costruire la Cattedrale, consacrata solo nel 1331. T. Z. settembre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

IN EDICOLA

NASCITA

LA DEL MEDIOEVO

CRISI, GUERRE E CONVERSIONI ALLE ORIGINI DELL’ETÀ DI MEZZO

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l nuovo Dossier di «Medioevo» si interroga sull’inizio dell’età di Mezzo, spostando l’attenzione del lettore da una data convenzionale, il 476 d.C. – quando fu deposto l’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo Augustolo – ad alcuni degli eventi piú significativi del tormentato periodo compreso tra il IV e l’VIII secolo. Quattrocento anni durante i quali le incursioni di popoli germanici, la crisi economica, la fame, le epidemie ebbero conseguenze gravi sul tessuto sociale, demografico e istituzionale del continente europeo.

Dossier

GLI ARGOMENTI

NASCITAO

IOEV DEL MerrED e e conversioni VO LA NASCITA DEL MEDIOE

Crisi, gu Mezzo alle origini dell’età diNE PAGANA

RESTAURAZIO ♦ GIULIANO E LA E E LA FINE A STEPPA ♦ ODOACR ♦ ATTILA E I LUPI DELL E LA NASCITA ANO ♦ I VICHINGHI ROM ERO OPA ’IMP DELL E L’ALBA DELL’EUR I NCH FRA I ♦ DELL’INGHILTERRA

€ 7,90

AGOSTO 2019 IN EDICOLA IL 29

LA

ROC 0703 Periodico mento – Aut. n° Spedizione in abbona Italiane S.p.A. – ing S.r.l. – Poste Timeline Publish

O V IO D E E M

Bimestrale ttobre 2019 Rivista N°34 Settembre/O

ER MEDIOEVO DOSSI

NA CQ Q UE UA IL ND ME O DI OE VO

Un’epoca complessa, in cui il cristianesimo svolse un ruolo sempre piú importante nella storia d’Europa e nella definizione della sua identità e – attraverso la conversione – la Chiesa consentí anche l’inserimento delle stirpi «barbare» nel solco profondo della civiltà romana. L’immagine di Costantino I assiso tra i vescovi al primo concilio ecumenico di Nicea, tenuto nel 325, diventa l’icona di questa mutazione e sembra prefigurare l’imperatore franco Carlo Magno, attorniato dal clero della sua corte, ad Aquisgrana.

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• GIULIANO E LA RESTAURAZIONE PAGANA • ATTILA E I LUPI DELLA STEPPA • ODOACRE E LA FINE DELL’IMPERO ROMANO • I VICHINGHI E LA NASCITA DELL’INGHILTERRA • I FRANCHI E L’ALBA DELL’EUROPA


Attila, seguito dalle sue orde barbariche, schiaccia l’Italia e le arti, olio e cera su intonaco di Eugène Delacroix. 1838-1847. Parigi, Palais Bourbon.


AGENDA DEL MESE

Mostre FERRARA IL RINASCIMENTO PARLA EBRAICO MEIS, Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah fino al 15 settembre

Tema dell’esposizione (si veda anche, in questo numero, il Dossier alle pp. 85-111) è uno dei periodi cruciali della storia culturale della Penisola, decisivo per la formazione dell’identità italiana, svelandoci un aspetto del tutto originale, quale la presenza degli Ebrei e il fecondo dialogo con la cultura cristiana di maggioranza. Nel Rinascimento gli Ebrei c’erano ed erano in prima fila, attivi e intraprendenti: a Firenze, Ferrara, Mantova, Venezia, Genova, Pisa, Napoli, Palermo e, ovviamente, Roma. A periodi alterni accolti e ben visti, con un ruolo non secondario di prestatori, medici, mercanti, oppure oggetto di pregiudizio. Interpreti di una stagione che racchiude in sé esperienze multiple, incontri, scontri, momenti armonici e brusche cesure. Il MEIS racconta per la prima volta questo ricco e complesso confronto. Ricostruire tale intreccio di reciproche sperimentazioni significa riconoscere il debito della cultura italiana verso l’ebraismo ed esplorare i

a cura di Stefano Mammini

presupposti ebraici della civiltà rinascimentale. E significa ammettere che questa compenetrazione non è sempre stata sinonimo di armonia, né di accettazione priva di traumi, ma ha comportato intolleranza, contraddizioni, esclusione sociale e violenza ai danni del gruppo ebraico, impegnato nella difficile difesa della propria specificità. Della ricca selezione di opere scelte per la mostra fanno parte dipinti come la Sacra famiglia e famiglia del Battista (150406) di Andrea Mantegna, la Nascita della Vergine (150207) di Vittore Carpaccio e la Disputa di Gesú con i dottori del Tempio (1519-25) di Ludovico Mazzolino, Elia e Eliseo del Sassetta, dove spuntano a sorpresa scritte in ebraico. Si possono inoltre ammirare manoscritti miniati ebraici, di foggia e ricchezza rinascimentale, come la Guida dei perplessi di Maimonide (1349), acquistato dallo Stato italiano meno di un anno fa. O l’Arca Santa lignea piú antica d’Italia, mai rientrata prima da Parigi, o il Rotolo della Torah di Biella, un’antica pergamena della Bibbia ebraica, tuttora usata nella liturgia sinagogale. info e prenotazioni call center: tel. 848 082380, da cellulare e dall’estero: tel. +39 06 39967138 (attivi tutti i giorni 9,00-18,00); e-mail: meis@ coopculture.it, prenotazioni@ coopculture.it; www.meisweb.it FIRENZE LEONARDO E I SUOI LIBRI. LA BIBLIOTECA DEL GENIO UNIVERSALE Museo Galileo fino al 22 settembre

Pur essendosi definito «omo sanza lettere», Leonardo non era un illetterato, ma, anzi, era alla costante ricerca del dialogo con gli autori, antichi e

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Per la mostra sono stati riuniti manoscritti e incunaboli identificati con i testi utilizzati da Leonardo, affiancati da applicazioni multimediali che consentono di sfogliarli e confrontarli con i codici autografi. È stato inoltre ricostruito lo studio di Leonardo, con gli strumenti di scrittura e da disegno da lui utilizzati. info tel. 055 265311; e-mail: info@museogalileo.it; https://mostre.museogalileo.it/ bibliotecageniouniversale

moderni e, nel tempo, era diventato un appassionato lettore e bibliofilo. Da questo assunto nasce la mostra allestita nel Museo Galileo di Firenze che racconta come per lui i libri non fossero soltanto oggetti, bensí affascinanti «macchine» mentali, da costruire e smontare, con i loro ingranaggi (parole, pensieri, immagini). Alla fine della sua vita, arrivò a possedere quasi duecento volumi: un numero straordinario per un ingegnereartista del Quattrocento. Tuttavia, la biblioteca di Leonardo è uno degli aspetti meno conosciuti del suo laboratorio, perché si tratta di una biblioteca «perduta»: un solo libro è stato finora identificato, il trattato di architettura e ingegneria di Francesco di Giorgio Martini conservato nella Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze, con postille autografe dello stesso Leonardo. Per la prima volta, dunque, si è tentata la ricostruzione di questa biblioteca, in un percorso che racconta l’incontro di Leonardo con il mondo dei libri e della parola scritta: i documenti della famiglia Da Vinci, i primi grandi libri del giovane Leonardo (Dante, Ovidio), i grandi maestri (Alberti, Toscanelli, Pacioli).

FIRENZE OMAGGIO A COSIMO I. CENTO LANZI PER IL PRINCIPE Gallerie degli Uffizi, Sale di Levante fino al 29 settembre

Le Gallerie degli Uffizi celebrano il cinquecentenario della nascita di Cosimo I (1519-1574), primo granduca di Firenze, dedicandogli tre mostre: «Cento lanzi per il Principe», «Una biografia tessuta. Gli arazzi seicenteschi in onore di Cosimo I» (Palazzo Pitti, sala delle Nicchie e sala Bianca) e «La prima statua per Boboli. Il Villano restaurato» (Palazzo Pitti, sala delle Nicchie). La prima è dedicata alla Guardia tedesca dei Medici («Guardia de’ lanzi» in vernacolo fiorentino), composta dai caratteristici settembre

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alabardieri in livrea, e si svolge al primo piano degli Uffizi e non per caso: dalle finestre delle sale si può infatti ammirare la Loggia dell’Orcagna su piazza della Signoria, che per essere stata la facciata del quartier generale della Guardia tedesca negli Uffizi è ancora oggi nota come Loggia dei Lanzi (abbreviazione dal tedesco «Lanzknecht», lanzichenecchi). Per quasi duecento anni, fino al 1738, i Lanzi hanno svolto una funzione cruciale nell’ambito della corte medicea. Compito principale della guardia era difendere la persona del sovrano e i suoi piú stretti congiunti, pertanto nelle raffigurazioni degli eventi legati al sovrano, i suoi soldati appaiono quasi sempre facilmente individuabili grazie ai loro costumi sgargianti e alla loro arma iconica: l’alabarda. La mostra percorre la storia di questa milizia sotto vari aspetti – sociale, culturale, militare: divise in quattro sezioni, oltre 90 opere tra armature, armi, vestiti, incisioni, dipinti, documenti e libri ne raccontano l’istituzione e la storia, senza tralasciare l’impatto che essa ebbe sulla vita cittadina. info tel. 055 294883; www.uffizi.it

spagnoli della seconda metà del Quattrocento. Nativo di Cordova, ebbe come principale committente la corte d’Aragona, e lavorò soprattutto a Tous, Valencia, Daroca, Saragozza e Barcellona. Scarse sono comunque le notizie biografiche sul suo conto, ma è probabile che fosse un converso, ovvero un Ebreo convertito, e il suo continuo girovagare potrebbe forse essere stato dettato dalla necessità di sfuggire alle persecuzioni antiebraiche promosse dall’Inquisizione. Per rendergli omaggio, la National Gallery affianca a opere facenti parte della sua collezione permanente alcuni importanti lavori conservati in Spagna e che per la prima volta sono stati concessi in prestito e hanno varcato i confini nazionali.

LONDRA BARTOLOMÉ BERMEJO, MAESTRO DEL RINASCIMENTO SPAGNOLO The National Gallery fino al 29 settembre

Bartolomé de Cardénas, meglio noto come Bermejo, cioè rossastro – appellativo che probabilmente gli fu dato per via di una qualche particolarità fisica, come i capelli rossi o l’incarnato molto colorito – fu uno dei piú innovativi e affermati pittori

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info www.nationalgallery.org.uk

ROMA ANTICO SIAM. LO SPLENDORE DEI REGNI THAI Museo delle Civiltà, Salone delle Scienze del Museo preistorico etnografico «Luigi Pigorini» fino al 30 settembre

Il 3 ottobre 1868, i regni d’Italia e del Siam firmarono un trattato solenne di amicizia e commercio, il primo mai

stabilito tra i due giovani Paesi. Ratificato il 18 febbraio 1869, l’atto aprí la via a una folta schiera di Italiani chiamati dal giovane sovrano Rama V a concorrere al rinnovamento del Siam (Thailandia dal 1939) nei diversi campi dell’architettura, dell’assetto urbano, dell’arte, del commercio, dell’ingegneria civile e delle comunicazioni, dell’amministrazione dello Stato e dell’esercito. Per festeggiare la ricorrenza dei 150 anni del trattato e la continuità dei rapporti di amicizia tra le due nazioni, il Museo delle Civiltà e ISMEOAssociazione Internazionale di Studi sul Mediterraneo e l’Oriente, hanno organizzato una mostra sull’archeologia e l’arte del regno di Thailandia, antico Siam, prevalentemente incentrata sulle collezioni di arte thailandese del Museo delle Civiltà, affiancate da opere provenienti da altre collezioni romane di arte thai, o collegate a figure di eminenti italiani che operarono in Thailandia all’epoca del Trattato e nei decenni immediatamente successivi. Le opere illustrano diversi aspetti

della creatività e della cultura delle genti che nel corso dei millenni abitarono le regioni della Thailandia, dalla locale età neolitica (2200-1100 a.C. circa) al 1911, anno in cui il Siam fece mostra della sua produzione artistica e industriale all’Esposizione Internazionale di Torino. info tel. 06 549521; www.museocivilta.beniculturali.it TORINO NOTRE-DAME DE PARIS. SCULTURE GOTICHE DALLA GRANDE CATTEDRALE Palazzo Madama, Sala Stemmi fino al 30 settembre

Frutto di una collaborazione con il Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge di Parigi, l’esposizione dà vita a quattro sculture gotiche provenienti dalla cattedrale di Notre-Dame de Paris. L’evento si configura come una mostra dossier dedicata al tema della scultura gotica francese nella prima metà del 1200 e, in particolare, al cantiere della cattedrale parigina. Dal portale dell’Incoronazione della Vergine sulla facciata occidentale proviene la Testa d’Angelo, mentre dal portale del braccio settentrionale del transetto provengono la Testa

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AGENDA DEL MESE di Re mago, la Testa di uomo barbuto e la Testa di figura femminile, allegoria di una virtú teologale. Queste quattro opere, oltre a essere esempi di altissima qualità della scultura medievale europea, sono testimonianze di quel momento della civiltà gotica indicato dal celebre storico dell’arte Cesare Gnudi come «classicismo gotico» o «naturalismo gotico», che ebbe un forte influsso, alla fine del Duecento, anche sui protagonisti del gotico in Italia: Giotto, Nicola Pisano, Giovanni Pisano, Arnolfo di Cambio. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it BASSANO DEL GRAPPA ALBRECHT DÜRER. LA COLLEZIONE REMONDINI Palazzo Sturm fino al 30 settembre

per il quale realizza l’Arco di trionfo e la Processione trionfale, quest’ultimo nella collezione di Bassano del Grappa. Molto probabilmente passò per la città sul Brenta. Lo si vede nei paesaggi e nelle vedute di sfondo di opere come la Grande Fortuna. I temi trattati da Dürer sono mitologici, religiosi, popolari, naturalistici, ritratti, paesaggi e nelle collezioni bassanesi sono incluse le serie complete dell’Apocalisse, della Grande Passione, della Piccola Passione e della Vita di Maria. Per Massimiliano realizza anche una delle sue incisioni piú popolari, il Rinoceronte, a ricordo dell’esotico animale che l’imperatore aveva destinato al papa, ma che non arrivò mai a Roma, vittima di un naufragio di fronte alle coste liguri. Intorno a quest’opera, Chiara Casarin propone un approfondimento che da un lato rievoca la vicenda e dall’altro percorre la fortuna dell’incisione nei secoli. info www.museibassano.it PADOVA

Finalmente restaurato in tutte le sue parti, Palazzo Sturm propone per la prima volta e in modo integrale il tesoro grafico di Albrecht Dürer (1471-1528), patrimonio delle raccolte museali bassanesi. Un corpus di 214 incisioni che, per ampiezza e qualità, è classificato, con quello del Kunsthistorisches Museum di Vienna, come il piú importante e completo al mondo. Dürer inizia la sua carriera come incisore di legni (xilografie) nel 1496 e, dal 1512 al 1519, lavora per l’imperatore Massimiliano I,

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LA MAZZA E LA MEZZALUNA. TURCHI, TARTARI E MORI AL SANTO Musei Antoniani, basilica di S. Antonio fino al 4 ottobre

L’idea della mostra nasce da una serie di incontri seminariali, organizzati con un gruppo di alunni del Liceo «Romano Bruni» di Ponte di Brenta insieme a Chiara Dal Porto, dell’Archivio della Veneranda Arca di S. Antonio, dedicati a un oggetto molto particolare: la mazza da cerimonia donata alla basilica dal re polacco Giovanni III Sobieski, che la storia ricorda come colui che alle porte di Vienna inflisse all’esercito turco una determinante sconfitta nel 1683. E cosí figure affrescate, missionari e viaggiatori, autori di reportage di viaggio nell’Estremo Oriente, come il beato Odorico da Pordenone (che lo scrisse nel 1330, proprio nel convento del santo), sono stati individuati e messi in relazione, volta per volta con realtà storiche differenziate, su cui è invece opportuno porre attenzione. Saraceni, Infedeli, Mori, Ebrei, Mongoli, Tartari, Ottomani, Pirati, Turchi: parole diverse che significano periodi ed eventi diversi, ma che hanno in comune il tema dell’incontro: che fu a volte tragico e drammatico, a volte foriero di scambi commerciali e culturali. E se la storia della politica e della diplomazia andarono in un senso, vale ricordare che il grande mare Mediterraneo fu continuamente solcato da uomini, da merci e da idee, sicché anche sulle pareti dell’Urbs Picta antoniana, soprattutto nell’oratorio di S.Giorgio e nella cappella di S. Giacomo Altichiero da Zevio, nell’ultimo terzo del Trecento, mise in scena i Tartari, i Saraceni, i Mori: avendo, come non di rado questa iconografia registra, un tema sacro importante, diffuso e di garbata scenografia. Proprio l’Adorazione dei Magi,

con il suo corteo al seguito dei re sapienti giunti da lontano, mostra queste presenze foreste, perché già nel Trecento il gusto per l’esotico stava affascinando l’Occidente. info www.santantonio.org FANO LEONARDO E VITRUVIO: OLTRE IL CERCHIO E IL QUADRATO. ALLA RICERCA DELL’ARMONIA. I LEGGENDARI DISEGNI DEL CODICE ATLANTICO Museo Archeologico e Pinacoteca del Palazzo Malatestiano, Sala Morganti fino al 13 ottobre

Compresa nel ciclo «Mostre per Leonardo e per Raffaello» a Pesaro, Fano e Urbino, l’esposizione racconta la battaglia tra un uomo e un libro, tra Leonardo e Vitruvio. Lo fa nella città del grande architetto romano, luogo della leggendaria basilica oggetto di recenti indagini archeologiche e su cui, dal Rinascimento in avanti, si sono misurate intere generazioni di architetti. I visitatori hanno la rara opportunità di un incontro settembre

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ravvicinato con cinque disegni originali di Leonardo dal leggendario Codice Atlantico conservato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano. La selezione copre l’intero periodo d’attività dell’artista, dagli ultimi decenni del Quattrocento ai primi del Cinquecento, spaziando da progetti per macchine militari (la balestra gigante), per la misurazione del tempo (l’orologio idraulico) e della distanza (l’odometro), fino a fogli di soggetto architettonico (la sezione del tiburio della cattedrale di Milano) e geometrico (le «lunule», gli

esercizi per la quadratura del cerchio). Accanto a questi cinque «protagonisti» verranno affiancate le principali edizioni cinquecentesche del trattato di Vitruvio: i testi che Leonardo potrebbe aver conosciuto e sfogliato. info tel. 392 0972255; www.mostreleonardoraffaello.it; e-mail: fano@sistemamuseo.it URBINO DA RAFFAELLO. RAFFAELLINO DEL COLLE

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settembre

MOSTRE • Luca Signorelli e Roma. Oblio e riscoperte Roma – Musei Capitolini, Sale Espositive di Palazzo Caffarelli fino al 3 novembre info tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it

N

ell’avvicinarsi dell’anniversario dei cinquecento anni dalla morte di Raffaello, i Musei Capitolini rendono omaggio a Luca Signorelli (Cortona, 1450 circa-1523), celebrando, per la prima volta a Roma, uno dei piú grandi protagonisti del Rinascimento italiano, al quale i due giganti della generazione successiva, Michelangelo (1475-1564) e Raffaello (1483-1520), si ispirarono per raggiungere quell’insuperabile vertice della pittura che gli stessi contemporanei gli attribuirono. Come scrisse infatti Giorgio Vasari, Luca Signorelli «fu ne’ suoi tempi tenuto in Italia tanto famoso e l’opere sue in tanto pregio, quanto nessun altro in qualsivoglia tempo sia stato già mai». Attraverso una selezione di circa 60 opere di grande prestigio provenienti da collezioni italiane e straniere, molte delle quali per la prima volta esposte a Roma, l’esposizione intende mettere in risalto il contesto storico artistico in cui avvenne il primo soggiorno romano dell’artista e offrire nuove letture sul legame diretto e indiretto che si instaurò fra l’artista e Roma. Organizzato in sette sezioni, il percorso si apre con un’introduzione sull’errore vasariano del vero volto dell’artista, rappresentato nelle due diverse sembianze dai Busti realizzati da Pietro Tenerani e da Pietro Pierantoni, per poi passare alla Roma del pontefice Sisto IV (1471-1484), fra le antichità capitoline, e Palazzo Ducale, Sale del Castellare

fino al 13 ottobre

Pittore colto, che elaborò una delle piú originali e autentiche espressioni del manierismo fuori Firenze, Raffaellino del Colle è protagonista della rassegna che fa da apripista alle celebrazioni urbinati del 2020 per il quinto centenario della morte di Raffaello Sanzio (1483-1520), del quale Raffaellino (1494/97-1566) fu uno dei piú fedeli e

davanti ad alcune opere del maestro in cui monumenti, antichità cristiane, e statuaria classica osservati a Roma rivivono o vengono rievocati, come il Martirio di san Sebastiano, il Cristo in croce e Maria Maddalena, il tondo di Monaco e la pala di Arcevia. Il percorso prosegue all’interno della Cappella Nova di Orvieto, ricostruita attraverso un gioco di riproduzioni retroilluminate, per giungere davanti ad alcuni suoi capolavori sul tema della grazia e dell’amore materno. Seguono poi le sezioni dedicate al soggiorno di Signorelli a Roma sotto il pontefice Leone X (1513-1521) e ai suoi rapporti con Bramante e Michelangelo. A conclusione della visita, un capitolo è dedicato alla riscoperta del Maestro tra Otto e Novecento nell’arte, nella letteratura e nel mercato antiquario.

intelligenti seguaci. La mostra ripercorre l’attività del maestro di Sansepolcro, discepolo del «divin pittore», che, pur essendo stato largamente attivo nelle Marche, necessita a oggi di una rivalutazione storica e di una maggiore divulgazione. Per la prima volta si possono ammirare riunite alcune delle sue opere piú significative provenienti da chiese e musei di Roma, Cagli, Mercatello sul Metauro,

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AGENDA DEL MESE Perugia, Piobbico, Sansepolcro, Sant’Angelo in Vado, Urbania, Urbino. Il percorso è introdotto da due opere di Raffaello custodite nella raccolta dell’Accademia Nazionale di San Luca a Roma: una tavoletta, pressoché inedita, con la Madonna con il Bambino e l’affresco staccato con Putto reggifestone. info tel. 0721 387541; e-mail: urbino@sistemamuseo.it; www.mostreleonardoraffaello.it TORINO L’ITALIA DEL RINASCIMENTO. LO SPLENDORE DELLA MAIOLICA Palazzo Madama, Sala Senato fino al 14 ottobre

Allestita nella Sala del Senato di Palazzo Madama, «L’Italia del Rinascimento. Lo splendore della maiolica» presenta un insieme eccezionale di maioliche rinascimentali prodotte dalle piú prestigiose manifatture italiane, riunendo per la prima volta oltre 200 capolavori provenienti da collezioni private tra le piú importanti al mondo e dalle raccolte dello stesso Palazzo Madama. Il percorso espositivo si apre con una grande vetrina, che evoca il mobile protagonista della sala da pranzo rinascimentale, la credenza, dove le raffinate maioliche erano esposte sia

per essere ammirate sia per servire all’apparecchiatura della tavola. Si passa quindi a documentare l’attività dei principali centri produttori in Italia – Deruta, Faenza, Urbino, Gubbio, Venezia, Castelli e Torino –, per poi illustrare la varietà di temi riprodotti sulla maiolica istoriata. Tra il 1400 e il 1500 si amplia e si differenzia l’uso delle maioliche nella vita sociale: nell’arredamento della casa, in particolare nelle residenze di campagna, le maioliche istoriate venivano esposte sulle credenze ma anche usate sulle tavole e potevano essere offerte come doni in occasioni quali il matrimonio e il battesimo. L’epilogo è affidato a una serie di capolavori: una coppia di albarelli di Domenigo da Venezia, un rinfrescatoio di Urbino e la brocca in porcellana medicea di Palazzo Madama, eccezionale esemplare della prima imitazione europea della porcellana cinese, realizzato da maiolicari di Urbino che lavoravano a Firenze alla corte di Francesco I de’ Medici. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it VINCI LEONARDO DA VINCI. ALLE ORIGINI DEL GENIO Museo Leonardiano fino al 15 ottobre

Il Museo Leonardiano di Vinci propone una rassegna incentrata sul legame biografico del maestro con la sua città natale e sulle suggestioni che la terra d’origine offrí al suo percorso di artista, tecnologo e scienziato. Vengono cosí presentati i documenti concessi in prestito dall’Archivio di Stato di Firenze, grazie ai quali è possibile ricostruire le

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primissime vicende della vita di Leonardo a Vinci, e il primo disegno conosciuto da lui realizzato, Paesaggio (inv. 8P) datato dall’artista 5 agosto 1473, concesso in prestito al Museo Leonardiano per le prime sei settimane dell’esposizione. Attorno a quest’opera giovanile, che costituisce una sorta di

palinsesto di tutta la futura produzione di Leonardo, si dipana l’intero percorso espositivo. info www.museoleonardiano.it

alla tradizione, ma anche gioioso, colorato, ricco di simboli. Si riconosce inoltre il carattere interculturale e internazionale di questo popolo, soprattutto grazie all’eccezionale varietà dei motivi sui tessuti, dove il colore spesso predomina in maniera stupefacente. Nel percorso è possibile ammirare pezzi rarissimi, provenienti da musei e collezioni straniere, che conducono idealmente il visitatore attraverso le feste ebraiche: tra questi i frammenti ricamati provenienti dal Museum of Fine Arts di Cleveland, le due tende dal Jewish Museum di New York e dal Victoria and Albert

FIRENZE TUTTI I COLORI DELL’ITALIA EBRAICA. TESSUTI PREZIOSI DAL TEMPIO DI GERUSALEMME AL PRÊT-À-PORTER Gallerie degli Uffizi, Aula Magliabechiana fino al 27 ottobre

La storia degli Ebrei italiani osservata da una prospettiva inedita e cromaticamente caleidoscopica, quella dell’arte del tessuto: è questa la proposta sviluppata nell’Aula magliabechiana della Galleria degli Uffizi. Circa 140 opere – tra arazzi, stoffe, addobbi, merletti, abiti, dipinti e altri oggetti di uso religioso e quotidiano – presentano per la prima volta le vicende delle comunità ebraiche della Penisola attraverso una delle arti meno conosciute, ossia la tessitura, che nel mondo ebraico ha sempre rivestito un ruolo fondamentale nell’abbellimento di case, palazzi e luoghi di culto. Ne emerge un ebraismo attento

Museum di Londra che, insieme a quella di Firenze, formano un trittico di arredi (per la prima volta riuniti insieme) simili per tecnica e simbologia. Straordinario e unico è un cofanetto a niello della fine del Quattrocento proveniente dall’Israel Museum di Gerusalemme che, come una sorta di computer ante litteram a uso della padrona di casa, tiene il conto della biancheria via via consumata dai componenti della famiglia. info www.uffizi.it settembre

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MOSTRE • Raffaello e gli amici di Urbino Urbino – Galleria Nazionale delle Marche, Palazzo Ducale

fino al 19 gennaio 2020 (dal 3 ottobre) info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it

MILANO LEONARDO DA VINCI PARADE Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci fino al 31 ottobre

Per celebrare i cinquecento anni dalla morte di Leonardo da Vinci, il Museo Nazionale della Scienza e della Tecnologia milanese torna

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settembre

alle origini, esponendo le due collezioni con le quali ha aperto le sue porte al pubblico il 15 febbraio 1953. Una parata in cui 52 modelli leonardeschi e 29 affreschi di pittori lombardi del XVI secolo, provenienti dalla Pinacoteca di Brera, tornano a offrirsi all’ammirazione del pubblico. Si tratta di un percorso inedito per rimettere al centro l’unità della cultura con accostamenti insoliti di arte e scienza e che, peraltro, permette di continuare a godere della collezione dei modelli leonardeschi nel periodo in cui la storica Galleria Leonardo resta chiusa per ristrutturazione. info tel. 02 485551; e-mail: info@museoscienza.it; www.museoscienza.org

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romossa e organizzata dalla Galleria Nazionale delle Marche, la mostra «indaga e per la prima volta in modo cosí compiuto racconta – come ha dichiarato Peter Aufreiter, direttore del museo urbinate – il mondo delle relazioni di Raffaello con un gruppo di artisti operosi a Urbino che accompagnarono, in dialogo ma da posizioni e con stature diverse, la sua transizione verso la maniera moderna e i suoi sviluppi stilistici durante la memorabile stagione romana». Fondamentale fu il ruolo giocato da Pietro Perugino nella formazione e nel primo tratto dell’attività di Raffaello, qui letta in parallelo con quella dei piú maturi concittadini Timoteo Viti (1469-1523) e Girolamo Genga (1476 circa-1551), le ricerche dei quali ebbero a intersecarsi con il periodo fiorentino e con l’attività romana del Sanzio. «La mostra vuole essere – secondo le curatrici, Barbara Agosti e Silvia Ginzburg – un’occasione per misurare, in un contesto specifico di estrema rilevanza quale quello urbinate e nelle sue tappe maggiori, la grande trasformazione che coinvolse la cultura figurativa italiana nel passaggio tra il Quattro e il Cinquecento. A queste scansioni corrispondono, nella riflessione storiografica costruita da Vasari e fatta propria dagli studi successivi, il momento iniziale dell’adesione dei pittori della fine del secolo XV alle prime novità introdotte da Leonardo, ovvero alla adozione di quella “dolcezza ne’ colori unita, che cominciò a usare nelle cose sue il Francia bolognese, e Pietro Perugino; et i popoli nel vederla corsero, come matti a questa bellezza nuova e piú viva, parendo loro assolutamente che e’ non si potesse già mai far meglio”». TRENTO FILI D’ ORO E DIPINTI DI SETA. VELLUTI E RICAMI TRA GOTICO E RINASCIMENTO Castello del Buonconsiglio fino al 3 novembre

Piviali in luminoso velluto, pianete scintillanti di oro e d’argento, dalmatiche con ricami in fili di seta variopinta, preziose stoffe fiorentine e veneziane dai molteplici ornati, oltre a dipinti sacri di Altobello Melone, Michele Giambono, Francesco Torbido, Rocco Marconi, e i due magnifici dipinti del misterioso Maestro di Hoogstraeten, raccontano l’affascinante storia dei preziosi manufatti tessili eseguiti tra la seconda metà del XV secolo e i primi decenni del XVI secolo in Italia e nell’Europa del Nord. Si tratta

di capolavori in velluto con ricchi ricami in seta e oro prodotti presso centri che all’epoca assicuravano un assoluto grado di perfezione tecnica e formale, come Firenze, Venezia e Milano. Dopo oltre cinque secoli,

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AGENDA DEL MESE affiorano capolavori inediti che testimoniano influssi derivanti da diverse tradizioni tessili, comprendendo anche esempi che denunciano la circolazione di manufatti importati da grandi centri di produzione transalpini tramite gli intensi scambi commerciali tra la penisola italiana e i fiorenti mercati delle Fiandre e della zona del Reno e il desiderio di sfarzo dei piú facoltosi committenti. La mostra «Fili d’oro e dipinti di seta» è la prima iniziativa che approfondisce questa particolare categoria di lussuosi tessuti ricamati ancora presenti nelle aree dell’intero arco alpino, a suo tempo creati sia per la committenza religiosa che laica, ma sopravvissuta fino a oggi grazie alla lungimirante attività di conservazione della Chiesa e alla passione di molti collezionisti. info tel. 0461 233770; www.buonconsiglio.it BARD (AOSTA) L’AQUILA. TESORI D’ARTE TRA XIII E XVI SECOLO Forte di Bard fino al 17 novembre

Gli spazi espositivi ricavati nella poderosa fortezza valdostana accolgono una selezione di opere recuperate e restaurate – 14 tra oreficerie, sculture in terracotta, pietra e legno, dipinti su tavola e tela – provenienti dalle chiese aquilane e dal Munda, Museo nazionale d’Abruzzo. Dalle Madonne con Bambino del Maestro di Sivignano e di Matteo da Campli a quella detta Delle Grazie; dal grande Crocefisso della Cattedrale alla Croce processionale di Giovanni di Bartolomeo Rosecci; dall’elegante e leggero San Michele arcangelo di Silvestro dell’Aquila allo

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splendido San Sebastiano di Saturnino Gatti; dal Sant’Equizio di Pompeo Cesura fino alle grandi tele di Mijtens, la mostra si propone come una storia di sopravvivenze, un omaggio alla città dell’Aquila nel decennale del sisma e una testimonianza della grande ricchezza della sua arte. Alle opere si affianca l’esposizione fotografica, inedita, La città nascosta di Marco D’Antonio, che presenta 15 grandi fotografie dedicate all’Aquila notturna, ripresa nelle sue aree ancora da ricostruire. info tel. 0125 833811; e-mail: info@fortedibard.it; www.fortedibard.it PARIGI CRIMINI E GIUSTIZIA NEL MEDIOEVO Tour Jean sans peur fino al 29 dicembre

Le fonti giudiziarie risalenti alla fine del Medioevo permettono di venire a conoscenza di numerosi casi

che ridimensionano l’immagine di un sistema violento e sbrigativo che troppo spesso viene associato alla giustizia medievale. E, soprattutto, consentono di fissare una gerarchia dei crimini diversa da quella moderna, in seno alla quale la notorietà (la fama) degli individui coinvolti ha un ruolo importante, a prescindere dalla loro estrazione sociale, cosicché l’omicidio per motivi d’onore diviene spesso tollerabile. Organizzata per celebrare i vent’anni di attività della Tour Jean sans peur come spazio espositivo e a 600 anni dall’assassinio del suo antico proprietario – il duca di Borgogna Giovanni senza Paura –, la mostra offre dunque un quadro per molti aspetti sorprendente della società dell’età di Mezzo, che vede giudici e imputati ricorrere con frequenza al compromesso e la popolazione farsi parte attiva nel decidere la sorte dei condannati.

Vinci e la realizzazione del nuovo Museo Leonardo e il Rinascimento del vino, a Sant’Ippolito in Valle, la mostra esemplifica l’attualità di Leonardo nell’arte e nella cultura contemporanea, e presenta anche i risultati delle ricerche genealogiche attraverso venti generazioni fino al presente e al DNA. Il percorso si articola in cinque sezioni. La prima (Leonardo Heritage) propone documenti d’archivio e reperti frutto di studi genealogici. La seconda riguarda la bottega di Leonardo: la Gioconda nuda, e anche la Santa Caterina nella macchina di tortura di un allievo di Leonardo (Giampietrino), che presenta impronte digitali e palmari. La terza (Leonardo e il Rinascimento del vino) approfondisce i rapporti di Leonardo con il territorio e con l’agricoltura, che ebbe un ruolo importante nella sua biografia e nei suoi molteplici studi. La quarta (Leonardismi attraverso i secoli) procede dalle cartelle dei Nodi vinciani xilografate da Albrecht Dürer agli inizi del Cinquecento, prosegue tra l’immagine di Leonardo e antiche incisioni d’après, giunge al furto del 1911 e alla Gioconda L.H.O.O.Q. di Duchamp, fino a Dalí, Beuys, Warhol e altri protagonisti delle neoavanguardie internazionali. Per l’Attualità di Leonardo,

info www.tourjeansanspeur.com

VINCI LEONARDO VIVE Museo Ideale Leonardo da Vinci fino al 31 dicembre

Organizzata per tenere a battesimo la riapertura del Museo Ideale Leonardo Da settembre

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spicca il Dialogo con il Paesaggio di Leonardo del 1473 del pittore cinese Xu Li giunto da Pechino. info www.museoleonardo.it BOLOGNA LA CASA DELLA VITA. ORI E STORIE INTORNO ALL’ANTICO CIMITERO EBRAICO DI BOLOGNA Museo Ebraico fino al 6 gennaio 2020

Gli straordinari reperti di uno dei piú ampi cimiteri ebraici medievali del mondo, rinvenuto alcuni anni fa a Bologna in via Orfeo, poco lontano dalle mura trecentesche, sono finalmente visibili dopo anni di studi e restauri. Gioielli in oro di

usi, la sua cultura e le sue interazioni con la società cristiana del tempo. info www.museoebraicobo.it NEW YORK IL TESORO DI COLMAR: UN’EREDITÀ DEL MEDIOEVO EBRAICO The Metropolitan Museum of Art fino al 12 gennaio 2020

eccezionale fattura e bellezza, pietre incise, oggetti in bronzo recuperati in oltre quattrocento sepolture, attestano la presenza a Bologna di una fiorente comunità, proficuamente inserita nel contesto urbano e sociale fino all’espulsione, avvenuta per volere del papa nel 1569, e offrono lo spunto per ripercorrere, in maniera globale e sistematica, la storia di una minoranza, i suoi

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settembre

Un tesoretto di gioielli e monete rimase per oltre 500 anni celato fra le mura di una casa della città francese di Colmar. Nascosto nel XIV secolo, tornò alla luce nel 1863 ed entrò quindi a far parte delle collezioni del Museo di Cluny, a Parigi. Ne fanno parte anelli con zaffiri, rubini e turchesi, spille tempestate di pietre preziose, una cintura finemente smaltata, bottoni dorati e oltre 300 monete. Doveva trattarsi dei beni piú preziosi di una famiglia che, come suggerisce l’iscrizione mazel tov che si legge su uno degli anelli, doveva far parte della comunità ebraica di Colmar,

che, alla metà del Trecento, subí un atroce destino. Gli Ebrei vennero infatti ritenuti responsabili della Peste Nera che flagellò l’Europa fra il 1348 e il 1349 e furono dunque vittime di accanite persecuzioni. Oltre a offrire l’opportunità di ammirare il tesoretto, la mostra allestita presso i Cloisters ripercorre dunque l’intera vicenda storica, sottolineando i drammi vissuti dalle minoranze ebraiche nel XIV secolo. info www.metmuseum.org

e il leone meccanico testimoniano i risultati raggiunti. Infine, il progetto per la gigantesca statua equestre in bronzo in memoria di Francesco Sforza costituisce un’ulteriore prova dell’eccezionale intelligenza con cui affrontava le sfide piú audaci. Fanno da corredo video di approfondimento e animazioni 3D realizzati dal Museo Galileo di Firenze. info tel 199 15 11 21 oppure 0575 732218; www.museocivicosansepolcro.it

SANSEPOLCRO LEONARDO DA VINCI: VISIONS Museo Civico di Sansepolcro fino al 24 febbraio 2020

Fulcro della mostra sono alcuni progetti di Leonardo, che ben illustrano la sua attitudine a cimentarsi con temi di inaudita complessità. Il volo prende forma nei suoi studi e nelle macchine che ha disegnato. Leonardo si misura anche con l’idea di conferire il movimento a oggetti inanimati: il carro semovente

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AGENDA DEL MESE

Appuntamenti SIENA LA CITTÀ DEL CIELO. DAL FACCIATONE DEL DUOMO NUOVO IL PANORAMA DI SIENA NUOVI ORIZZONTI SULLA CITTÀ fino all’8 settembre

Il Complesso Monumentale del Duomo di Siena, dedicato a santa Maria Assunta, invita a contemplare nuovi orizzonti con la salita al Facciatone, Panorama sulla Città. Per tutto il giorno, durante la permanenza sulla terrazza panoramica, i visitatori possono contemplare il panorama attraverso un’introduzione alla città effettuata da accompagnatori multilingua. Questo grande e alto muro che, nell’intento dei Senesi, doveva divenire la facciata di un Nuovo Duomo, sogno architettonico, guarda il capoluogo per intero. I visitatori che salgono all’Acropoli e attraversano il Duomo, la cosiddetta Cripta, il Battistero e il Museo dell’Opera si trovano immersi in un tripudio di forme e colori che, nell’intenzione dei committenti e degli artisti, segnano l’accesso alla «Gerusalemme celeste». Dall’alto muro è possibile non solo leggere i monumenti, ma anche «vedere un nuovo cielo e una nuova terra» (Apocalisse 21, 1). info tel. 0577 286300; e-mail: opasiena@operalaboratori.com; www.operaduomo.siena.it

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MODENA, CARPI, SASSUOLO

prossimità della Colonna Traiana fino al 3 novembre

FESTIVAL FILOSOFIA 2019: PERSONA, MANEGGIARE CON CURA 13, 14 e 15 settembre

Torna il progetto Viaggi nell’antica Roma, che, attraverso due spettacoli multimediali, fa rivivere la storia del Foro di Cesare e del Foro di Augusto. Grazie a sistemi audio con cuffie e accompagnati dalla voce di Piero Angela e da filmati e proiezioni che ricostruiscono i due luoghi cosí come si presentavano nell’antica Roma, gli spettatori possono godere di una rappresentazione emozionante e dal grande rigore storico. Le modalità di fruizione dei due spettacoli sono differenti. Per il Foro di Augusto sono previste tre repliche ogni sera (durata 40 minuti), mentre per il Foro di Cesare è possibile accedervi ogni 20 minuti, secondo il calendario pubblicato (percorso itinerante in quattro tappe, per complessivi 50 minuti circa, inclusi i tempi di spostamento). I due spettacoli possono essere ascoltati in 8 lingue (italiano, inglese, francese, russo, spagnolo, tedesco, cinese e giapponese). info tel. 06 06 08 (tutti i giorni, 9,00-19,00); #viaggioneifori; www.viaggioneifori.it; www.turismoroma.it

Nel solco di una tradizione consolidata, anche la diciannovesima edizione della rassegna prevede lezioni magistrali, mostre, spettacoli, letture, giochi per bambini e cene filosofiche. Piazze e cortili ospiteranno oltre 50 lezioni magistrali in cui maestri del pensiero filosofico si confronteranno con il pubblico sul tema «persona», che indica una categoria di lunga durata della cultura europea, fondamento dell’autonomia individuale e dei diritti umani. Sempre immersa in una rete di reciprocità, alla persona si riconduce il principio di dignità, sia nel campo sociale e politico, sia nelle questioni bioetiche. Si indagherà anche il modo in cui l’essere persone – richiamandosi al significato originario di maschera – passi per il riconoscimento e la messa in scena del sé in cui si

collaborazione con l’Istituto Nazionale di Studi Etruschi, che, dal 1925, costituisce il massimo ente italiano per la promozione dello studio della civiltà etrusca. Questi i prossimi appuntamenti in programma: 4 settembre: Nico Stringa, Gli Etruschi nell’arte moderna e contemporanea. Arturo Martini e le sue terrecotte; 11 settembre: Petra Amann, Gli Etruschi e l’antropologia. Johann Jacob Bachofen e il matriarcato etrusco; 18 settembre: Andreas M. Steiner, Gli Etruschi e gli Ebrei nella letteratura del ‘900. Da Bassani a Wiesel; 25 settembre: Giuseppe Pucci, Gli Etruschi nei fumetti. Storie, invenzioni e gioco. info www.uffizi.it ROMA VIAGGI NELL’ANTICA ROMA Foro di Augusto: via Alessandrina, lato Largo Corrado Ricci Foro di Cesare: Foro Traiano, in

esprime la soggettività di ciascuno. info www.festivalfilosofia.it FIRENZE GLI ETRUSCHI. VICENDE, RELAZIONI, CONFRONTI, INFLUENZE, INCONTRI Gallerie degli Uffizi fino al 25 settembre

Il mistero, i costumi, l’arte e la vita degli Etruschi: la grande civiltà preromana è protagonista di un ciclo di incontri organizzato in stretta settembre

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l’amore nel medioevo

Enigmi d’amore

incontro con Annarosa Mattei, a cura di Corrado Occhipinti Confalonieri

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crittrice e studiosa di letteratura, Annarosa Mattei ha dedicato il suo ultimo saggio a un tema di grande fascino: le origini del discorso d’amore, cosí come viene a configurarsi nell’Europa del XII secolo, dai feudi della Francia sud-occidentale ai Minnesänger germanici e all’Italia di Guido Cavalcanti e Dante. Ne abbiamo parlato con l’autrice. Annarosa Mattei, il titolo del suo ultimo libro è L’enigma d’amore nell’Occidente medievale. Perché enigma? «Non è un caso che abbia scelto di “aprire” il mio libro con un celebre vers di Guglielmo d’Aquitania, che “chiudeva” anche la storia di un mio romanzo precedente (Il sonno del Reame, Mondadori, 2013), incentrato anch’esso sul tema dell’amore. “Farai un vers de dreit nien, / Non er de mi ni d’autra gen, / Non er d’amor ni de joven, / Ni de ren au, / Qu’enans fo trobatz en durmen / Sus en cheval’ (…) Amigu’ ai ieu, non sai qui s’es, / C’au no la vi, si m’aiut fes, / (…) An non la vi et am la fort” (“Scriverò un verso di puro niente, né su di me né su altra gente, non sull’amore né sulla gioventú, né su niente altro, perché su un cavallo dormendo, l’inventai (…) Ho un’amica, non so chi sia, non l’ho mai vista in fede mia, (…) Mai non la vidi e l’amo tanto”). Non è forse un “enigma”, un apparente nonsense, un paradosso, il vers del potente signore di Aquitania, che afferma di avere un’amica ma di non averla mai vista, di non sapere chi sia, ma comunque di amarla tanto? O non esprime, invece, appieno, la sublime essenza dell’esperienza d’amore, che non coincide mai con il consumo, con l’illusione del possesso, ma solo e sempre con il desiderio inappagabile? Di un altro nobile trovatore, Jaufré Rudel, si racconta che si fosse innamorato della principessa di Tripoli, di cui non riuscí mai ad ammirare la meravigliosa bellezza se non dopo un lungo viaggio e ormai prossimo alla morte. Amor de lonh, “amore di lontano”, è il tema dominante del suo esiguo canzoniere. Ma di inattingibilità, di “lontananza”, si parla sempre nella civiltà cortese, per esprimere l’impossibilità per gli amanti di raggiungere e possedere realmente il nucleo generatore dell’amore. L’inchiesta d’amore del cavaliere, nei romanzi cortesi di

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Nella pagina accanto miniatura raffigurante un fidanzamento, scena associata al mese di aprile ne Les Très riches Heures du Duc de Berry, Libro d’ore illustrato dai celebri fratelli Limbourg. 1413 circa. Chantilly, Musée Condé.

Chrétien de Troyes, diventerà, infatti, la suprema ricerca del Graal di Perceval e quindi il metafisico viaggio di Dante nella Commedia. Proprio sull’enigma dell’esperienza d’amore, fondamento del faustiano desiderio di conoscenza di sé e del mistero del vivere, fiorisce la poesia trobadorica, radicandosi in un contesto sociale e culturale assai evoluto, in cui un nuovo codice etico e poetico regola i rapporti tra uomini e donne, esprimendo per la prima volta l’essenza del misterioso desiderio, che desta a nuova vita ogni essere vivente capace di intenderlo e provarlo. Amor nova, dicevano i trovatori, accostando l’esperienza delirante d’amore alla primavera, stagione in cui la natura si desta e rinasce. Vita nuova, intitolerà Dante il giovanile poemetto che, anticipando il viaggio della Commedia, introduce l’idea d’amore, come principio e motore di sapienza, avvio del viaggio in interiore homine, verso la luce della consapevolezza di sé, del riconoscimento dell’io nella visione di Dio». Lei ha preso in esame soltanto l’amore in Occidente. Ma nell’Oriente medievale l’amore non esisteva? «La riflessione sulle origini dell’amor cortese è questione remota e molto dibattuta, soprattutto riguardo all’Oriente. Uno dei riferimenti del mio libro è il classico L’Amore e l’Occidente, di Denis De Rougemont (pubblicato per la prima volta nel 1939, n.d.r.), che, percorrendo questa ipotesi, lo collega all’eresia catara e ai bogomili, una setta d’origisettembre

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l’amore nel medioevo circolazione della cultura in un’area geografica ampia, prospera e civile, in un momento della storia europea particolarmente felice, contribuisce anche l’uso di uno strumento musicale che accompagnava gli intrattenimenti delle corti andaluse e occitaniche, l’oud, cioè il liuto, di antica origine persiana, perfezionato nel X secolo a Cordova».

ne antichissima, forse mesopotamica, presente sin dal X secolo in Tracia e Bulgaria, causa scatenante della persecuzione della Chiesa. Certamente il canto d’amore era presente nelle corti mozarabiche andaluse ed ebbe grande influenza nei feudi occitanici, dove le antiche culture mediterranee si mescolavano e si attraversavano, arricchendosi reciprocamente. Musica, danza e poesia fiorirono nella Spagna mozarabica, illuminata nel XII secolo dagli studi e dal pensiero filosofico di Averroè, che influenzò a lungo la filosofia e la cultura occidentale, anche oltre la traumatica vittoria dell’oscurantismo e del fanatismo religioso islamico, di poco precedente alla crociata contro gli albigesi e ai tribunali dell’inquisizione nell’area cristiana. Come da tempo dimostrano molte ricerche, la poesia d’amore esisteva già nell’Oriente islamico, a Baghdad, in particolare, dove, a partire dal IX secolo, prese i tratti espressivi e formali che ritroveremo nella Spagna mozarabica, a Cordova soprattutto, dove fiorirono musica e poesia, in modo coerente con il pensiero illuminato di Averroè, con tratti, forme e modi che trasmigreranno nelle confinanti corti occitaniche. A dimostrare la libera

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Oggi l’amore equivale per molti al sesso, in una visione quasi del tutto assente nel Medioevo. Dove pure il sesso esisteva... «Al giorno d’oggi l’esperienza d’amore sembrerebbe equivalere all’avere rapporti sessuali in modo meccanico, quasi fosse una delle tante occasioni di consumo di una “cosa”, di un bene di cui si presume di poter entrare in possesso. In tal senso, quella che per i trovatori era occasione di rinascita, riconoscimento e ritrovamento di sé oggi può trasformarsi in un momento di perdita del controllo e di alienazione con conseguenze funeste. E le tragiche testimonianze della cronaca nera confermerebbero questa lettura. Anche nella civiltà medievale, sia pure in un contesto economico, sociale e culturale assai diverso dal nostro, il sesso veniva certamente vissuto semplicemente come tale, in modo immediato e senza sovrastrutture sentimentali, nonostante i divieti e i controlli del sistema politico e della Chiesa, che tentavano di irreggimentarne la potenza eversiva per ovvie ragioni di mantenimento dell’ordine. La portata rivoluzionaria della civiltà occitanica del XII secolo, che non si espresse e manifestò ovunque, ma solo nell’estesa area del ricco Sud-Ovest francese – piú o meno corrispondente al ducato di Aquitania – si misura ancora oggi dal radicale cambiamento di paradigma che mise per la prima volta in condizioni di parità l’uomo e la donna, emancipandoli dall’ignoranza, rendendoli liberi di accedere alla cultura, di esprimersi e comportarsi secondo una precisa grammatica di cortesia, un programma di riconoscimento delle passioni, che li educava a vivere l’esperienza d’amore, non solo come fugace e inafferrabile piacere dei sensi, ma soprattutto come via di accesso a una superiore sapienza di sé e del mondo. Per vivere pienamente e liberamente la “fin’amor” o “amor nova”, parola femminile in lingua d’oc, era necessario seguire una sorta di cammino iniziatico, lo stesso che il Lancelot o l’Yvain di Chrétien de Troyes percorrevano nella foresta superando ostacoli e disavventure prima di giungere a cospetto dell’amata e godere con lei del completo dialogo d’amore. L’esperienza d’amore nella civiltà occitanica era comunque esperienza settembre

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di libertà totalizzante. Riguardava l’anima e il corpo, il cuore e la mente. Trovatori e trovatrici, uomini e donne, parlavano in modo esplicito dell’amore sensuale, del piacere e della sofferenza. Ma a distinguerli e a rendere unico il loro discorso era l’interiorizzazione dell’amore, che equivaleva a un viaggio introspettivo nell’oscurità di quell’io desiderante che abita all’interno di ogni essere dotato di sensibilità e intendimento». Nell’arte medievale l’amore è aulico e religioso. Esistono testimonianze artistiche di amore carnale? «Nelle arti medievali, se si intendono scultura e pittura, la dimensione profana è quasi assente. Tuttavia, il Medioevo è un’epoca lunga e complessa, articolata in varie fasi: piú o meno dalla caduta dell’impero a Carlo Magno, da Carlo Magno all’anno 1000, e poi fino alla nascita degli Ordini mendicanti, vale a dire alla prima metà del 1200. Nello specifico, io mi sono occupata della cosiddetta Rinascenza del XII secolo, in particolare delle origini del discorso e dei riti d’amore, che improntarono la civiltà delle corti occitaniche, nel Sud-Ovest della Francia. Non rimangono molte tracce documentarie dell’arte dell’epoca, se non in qualche affresco, nei rilievi delle chiese romaniche o nelle miniature dei pochi codici so-

pravvissuti alla crociata contro gli Albigesi che distrusse quasi integralmente le testimonianze documentarie coeve e dirette. L’arte figurativa medievale dell’epoca da me considerata, per quanto ne resta, sembra essere soprattutto religiosa, quindi è difficile trovare rappresentazioni dell’amore, tanto meno dell’amore carnale, che comunque l’etica e la poetica della “fin’amor” escludevano da un’espressione diretta. L’ immagine di copertina del mio libro, che ritrae scene di vita cortese nei mesi di aprile e di maggio, risale all’inizio del 1400 ed è tratta dal Libro d’ore dei fratelli Limbourg, che, per ogni mese dell’anno, idearono scene di giardini e convegni di uomini e donne, ma senza mai fare esplicito riferimento al sesso e alla carnalità. Erano artisti di corte, come tanti altri, e rappresentavano l’amore secondo i codici della cortesia. Se per amore carnale intendiamo l’amplesso vero e proprio non risultano dunque rappresentazioni esplicite. E comunque nella mia ricerca il tema dell’amore, inteso anche come esperienza sensuale, viene indagato soprattutto in ambito poetico e letterario». Il suo saggio spiega come l’amore nasca nel Sud della Francia verso il XII secolo, come desiderio inappagato dei cavalieri verso le dame. Chi erano queste donne, e chi questi uomini? A sinistra miniatura raffigurante Tristano e Isotta, con il primo che beve una pozione d’amore, da un’edizione del Lancelot du Lac. 1470 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto capolettera miniato con scena d’amore, da un’edizione manoscritta dello Chansonnier de Paris. 1280-1315 circa. Montpellier, Musée Atger.

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l’amore nel medioevo «Le donne di cui si parla nel nuovo discorso d’amore sono le nobili dame di corte, soprattutto la signora, chiamata dai trovatori midons, madonna, dal latino meus dominus, lo stesso appellativo con cui ci si rivolgeva al signore del castello. I cavalieri erano spesso i cosiddetti jovens, nobili cadetti non casati, che cercavano fortuna e benefici attraverso la mediazione di midons, la madonna, sposa del signore, ottenendo a volte buoni risultati, a volte no, se non venivano addirittura cacciati per le relazioni intrattenute con la castellana. I rituali del corteggiamento, che impegnavano il cavaliere e la dama nel cosiddetto “jeu d’amor”, il gioco d’amore, come in una sorta di torneo, di schermaglia amorosa, equivalevano a quelli del vassallaggio feudale, che il cavaliere eseguiva secondo tempi e modalità rigorosi, culminanti nell’atto dell’hommage, la dichiarazione di fedeltà e obbedienza fatta in ginocchio davanti al proprio signore, il midons, mani nelle mani. Lo stesso hommage veniva tributato alla donna, considerata signora dell’inchiesta d’amore del cavaliere, che si avvicinava per gradi a lei, alla conoscenza e al dominio di sé e delle proprie passioni, secondo le precise prescrizioni di Andrea Cappellano, intellettuale di corte della contessa Maria di Champagne, che a lui commissionò una vera e propria grammatica

dell’amor cortese, dedicata dall’autore a un suo giovane amico di nome Gualtieri». Eleonora d’Aquitania è una figura fondamentale per comprendere la profonda mutazione del costume e della condizione femminile. Quale idea si è fatta di questa regina? «Nipote del duca Guglielmo IX, di cui abbiamo citato alcuni versi significativi e che sembra essere stato il primo trovatore, Eleonora d’Aquitania è stata la vera grande protagonista della Rinascenza aquitana. Due volte regina, a quindici anni sposò Luigi VII, re di Francia, da cui ebbe due figlie, e a trenta, in modo del tutto inatteso, il re d’Inghilterra, Enrico II, un bellissimo giovane, che aveva dieci anni meno di lei e da cui ebbe altri otto figli. Attenta al mantenimento delle sue prerogative politiche e al governo diretto e mai delegato dell’Aquitania, al quale non rinunciò mai, nonostante i matrimoni, amò soprattutto Poitiers, ma tenne corte ovunque si trovasse, dalla Francia del Nord all’Inghilterra, anche laddove la cultura e la poesia non erano di casa, chiamando a sé artisti e intellettuali, capace lei stessa di intendere e scrivere poesia, come i suoi dieci figli, educati al culto della bellezza e della sapienza. Esemplare, in questo senso, la figlia Maria, che svolse attività di mecenatismo nella contea di Champagne, dove su suo impulso fiorí il grande romanzo cavalleresco di Chrétien de Miniatura dall’Hadit Bayad wa Riyad, manoscritto arabo che narra la storia d’amore fra il figlio di un mercante e una giovane cresciuta alla corte di un visir. XIII sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Nella pagina accanto miniatura raffigurante Lancillotto e Ginevra che si baciano, da un’edizione del Lancelot du Lac. 1440-1460. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

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Troyes, con le celebri storie dei cavalieri erranti, e dove Andrea Cappellano scrisse il già citato De amore, un trattato che riassumeva in modo magistrale la civiltà della cortesia, al punto da diventarne l’insegna e la guida in tutta Europa. Anche il figlio prediletto Riccardo, detto Cuor di leone, era un fine poeta, come quasi tutti i grandi signori di un’epoca, che, proprio per merito di lei, fece della cultura il suo tratto distintivo. Meravigliosa è l’immagine di Eleonora, nella grande aula dell’abbazia di Fontevrault, dove la vediamo giacere su un sarcofago, accanto a quelli dove riposano il suo re, Enrico II, e il figlio Riccardo, elegantemente vestita, con la testa appoggiata su un cuscino, mentre legge un libro che tiene aperto tra le mani. Capace di resistere a mille disavventure, compresa una lunga reclusione impostale da Enrico – che temeva la sua lucidità politica e l’alleanza stretta con i figli contro di lui e le sue intemperanze –, non rinunciò mai ai suoi diritti, alla sua Aquitania, alla poesia e alla bellezza, segnando e illuminando gran parte del territorio europeo con la sua parabola e la sua discendenza diretta». L ’amor cortese, all’inizio di esclusivo appannaggio dell’élite aristocratica europea, si diffuse come un virus anche fra la nuova classe borghese. Quali furono le conseguenze di questo fenomeno? «La grande civiltà cortese venne distrutta dall’azione congiunta della Chiesa e della monarchia di Francia, che in modo tragico e cruento recuperarono il controllo e il possesso di un vasto territorio in cui si erano affermati, per la prima volta in Europa, diritti che saranno di nuovo acquisiti solo in epoca recente dalle moderne democrazie: la parità tra uomo e donna, il libero pensiero, la multiculturalità, il rilievo dell’arte e della cultura sia nelle dinamiche sociali che nell’azione di governo. La nobiltà, intesa come condizione di eccellenza, non si acquisiva per diritto di nascita ma per i propri meriti, per la qualità della propria intelligenza e formazione. Nelle città, dove la borghesia delle professioni cominciava a emergere, a conquistare e a esercitare i propri diritti in modo funzionale alle attività del commercio e della finanza, la cultura della cortesia permetteva di qualificarsi e distinguersi come classe dirigente, al cospetto di un’aristocrazia che presumeva di averne naturale diritto per

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nascita. Esemplare è il caso di una città come Firenze, dove, sin dalla seconda metà del XIII secolo, era molto acceso il contrasto sociale tra la nobiltà piccola e grande e la prospera borghesia, quella che Dante chiamò nella Commedia “la gente nuova”. I cosiddetti “fedeli d’amore”, a cui faccio ampio riferimento nel mio libro, erano giovani e sofisticati intellettuali fiorentini, che praticavano la poesia d’amore organizzandosi in circoli esclusivi ai quali si poteva essere ammessi grazie alla propria maestria letteraria. Si trattava comunque di qualcosa di piú che di un semplice circolo letterario e ne faceva parte lo stesso Dante, che in ogni caso si vantava di provenire dalla piccola nobiltà. Eredi della tradizione trobadorica diffusa in tutta Europa, sia negli ambienti delle corti, sia nelle città, i “fedeli d’amore” costituivano una sorta di avanguardia intellettuale, che, attraverso lo stigma pressoché iniziatico della poesia e della cultura, intendeva proporsi come élite sociale e politica della nuova borghesia, altrimenti dedita esclusivamente ai commerci e all’etica dell’utile. Il segno della cultura, inteso come amore per l’arte, la poesia, la bellezza, come dato qualificante e fondante di un’azione politica illuminata e di una società paritaria e dialogante, assai avanzata dal punto di vista etico, venne vissuto in modo magnifico e naturale nelle corti occitane del Sud-Ovest francese, ma divenne altra cosa quando si trasferí altrove, dopo la tragica crociata che ne fece tabula rasa cercando di cancellare anche la lingua con cui quella

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l’amore nel medioevo cultura si era espressa. Le donne, che erano state motore della grande civiltà della cortesia, escono di scena, per esistere solo in termini allegorici e letterari, non solo nei circoli esclusivi delle fiorenti città borghesi, ma anche, per esempio, nella Magna Curia di Palermo, epicentro del progetto di Renovatio Imperii di Federico II, che aveva chiamato intorno a sé sapienti giuristi, esperti e amanti di poesia. Attraverso il lascito della poesia trobadorica non si realizza, dunque, l’utopia platonica dei sapienti al potere, ma nasce la grande letteratura europea che ripropone nei secoli quel sogno». Guido Cavalcanti e Dante Alighieri sono in Italia i principali poeti del dolce stil novo, con differenze cosí profonde che da amici quasi diventano nemici. Come mai? «La storia dei rapporti letterari e politici fra Dante e Cavalcanti conclude il mio libro e la ritengo di grande interesse. La situazione del comune di Firenze alla fine del 1200 era molto conflittuale. Le riforme di Giano della Bella, orientate contro i cosiddetti ‘magnati’, le antiche famiglie aristocratiche fiorentine, impedivano l’accesso alla vita pubblica a chi non risultava iscritto alle grandi corporazioni delle Arti, in quanto parte attiva e produttiva dell’economia cittadina. Mentre Dante, che non esercitava alcuna attività, aveva accettato di scendere a un compromesso iscrivendosi all’Arte dei medici e degli speziali pur di essere ammesso alle cariche pubbliche, Guido Cavalcanti contrastava fieramente l’ascesa della borghesia all’interno delle istituzioni comunali, al punto da manifestare in modo violento il suo dissenso e da essere condannato all’esilio, nel 1300, proprio dall’amico Dante, che era come lui guelfo di parte bianca e ricopriva in quell’anno l’incarico di priore. A dividere i due amici dal punto di vista politico oltre che sociale e anagrafico – Guido aveva dieci anni piú di Dante – era certamente un diverso grado di intransigenza politica. Ma non solo. Poeti di grande intelletto e di raffinatissima formazione culturale, aderivano entrambi al circolo dei Fedeli d’amore, condividendo pienamente i codici letterari della magnifica civiltà della cortesia fiorita nell’area occitanica. Per Guido era preminente la componente laica, libertaria, immanente, della poesia trobadorica, che implicava una attività di ricerca filosofica e scientifica, libera da qualunque condizionamento religioso. “Loico”, lo definirà Boccaccio in una delle sue piú celebri novelle (VI ,9), vale a dire “logico”, ateo nella vulgata popolare, volto a dimostrare come “dio non fosse”, secondo i suoi concittadini, che mal tolleravano il suo disprezzo per la loro ignoranza. Dante, già al tempo della Vita Nuova, che dedica proprio all’amico Cavalcanti, indirizza la sua ricerca sull’esperienza d’amore verso la trascendenza, trasformando Beatrice in motore di luce e sapienza, varco di accesso al sublime viaggio di esplorazione del divino narrato nella Commedia. Non a caso, nel girone infernale

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Miniatura raffigurante il conte Konrad von Kirchberg nei panni di un menestrello che offre un componimento alla sua amata, dal Codice Manesse. 1310-1340 circa. Heidelberg, Biblioteca Universitaria.

di “quelli che l’anima col corpo morta fanno”, Dante colloca il padre di Guido, immaginando che sarà la destinazione finale del suo stesso amico, condannato dalla sua visione laica e materialistica a non vedere la luce e a non raggiungere la vera sapienza». O ggi esiste ancora un enigma d’amore? «Uomini e donne di ogni epoca hanno vissuto e vivono l’esperienza d’amore ma pochi la affrontano e la intendono come “enigma”. L’enigma consiste nello stato di sperdimento e perdita del controllo di sé capace di generare morte e/o rinascita. Lo stesso che affrontarono in modi diversi Dante e Cavalcanti. La civiltà della cortesia, che ha generato il Rinascimento e la grande letteratura europea, ne indagò per la prima volta l’essenza misteriosa fino a indicare un cammino di rigenerazione dell’io, di cui non a caso si è occupata la psicanalisi del secolo scorso. Il nostro tempo è dominato da una visione del mondo piatta, globalizzata, priva d’orizzonte. Uomini e settembre

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Sei poeti toscani, olio su tavola di Giorgio Vasari. 1544. Minneapolis, Minneapolis Institute if Art. In primo piano, Francesco Petrarca (a sinistra) e Dante Alighieri; in secondo piano, da sinistra Guittone d’Arezzo, Cino da Pistoia, Giovanni Boccaccio e Guido Cavalcanti.

donne che oggi continuano a intendere il senso riposto dell’“enigma” d’amore, distinguendosi dalla massa, sono naturalmente dotati di innata gentilezza d’animo – proprio come dicevano gli antichi poeti –, ma certamente affinano la loro naturale attitudine nella ricerca, nello studio, nella continua formazione interiore, che non è mai semplice e arida erudizione, ma ‘cultura’, capace di trasformare ogni esperienza della vita in una inchiesta d’amore e di sapienza. L’enigma d’amore, infatti, lo

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intendono sempre, ancora oggi, gli artisti, i filosofi, gli scienziati, ovviamente gli innamorati. Apro il mio libro parlando di un bellissimo film del 2013, Her, del fine regista Spike Jonze, che racconta una meravigliosa storia d’amore, in cui “lei” è una voce incorporea, capace di liberare “lui”, il gentile Theodore, dal dolore dell’abbandono, guidandolo in un metafisico viaggio introspettivo negli abissi oscuri dell’io per poi riportarlo verso la serena luce della scoperta del sé e della vera sapienza».

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storie dante alighieri

Ecco, nelle pagine che seguono, un ampio estratto dal volume di Annarosa Mattei, che qui pubblichiamo per concessione dell’autrice e delle Edizioni La Lepre.

Un film, Her, e il moderno enigma d’amore

«È come se stessi leggendo un libro... è un libro che amo con tutta me stessa, ma lo leggo lentamente ora, le parole sono distanti tra loro, gli spazi tra le parole sono quasi infiniti. Riesco ancora a sentire te e le parole della nostra storia, ma è in questo spazio infinito tra le parole che sto trovando me stessa ora. È un posto che non appartiene al mondo fisico, dove ci sono cose che neanche sapevo esistessero. Ti amo tantissimo. Ma ora sono qui, e ora sono questa, e devi lasciarmi andare, per quanto io lo voglia, non posso piú vivere nel tuo libro.» (Samantha a Theodore, Her, 2013).

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Nulla sembra oggi piú inattuale e inesprimibile del tema d’amore. Sorprendenti, in questo senso, le parole pronunciate da Samantha, in Her, il film in cui il regista Spike Jonze racconta l’ossessione amorosa del malinconico Theodore. La vicenda di Theodore e Samantha si svolge in uno spazio urbano surreale, nitido e metafisico, come un viaggio allegorico dell’anima, un’inchiesta mistica e filosofica sulla natura misteriosa dell’amore, sull’oscuro abisso dell’io. Theodore lavora in un’agenzia, dove trascorre il suo tempo in solitudine. Il suo incarico consiste nello scrivere per i clienti bellissime lettere d’amore a persone che lui non conosce. Lei si manifesta a lui con la voce suadente di un nuovo sistema operativo che il giovane, un giorno, ascolta casualmente mentre sta rientrando settembre

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L’attore Joaquin Phoenix in una scena di Her, film diretto da Spike Jonze nel 2013.

stesso e i suoi sentimenti. Samantha rispecchia il suo amore pur sapendo di non poter dare corpo alla sua voce né di poter colmare la distanza che la separa da lui. Quando sembrano sul punto di fondersi in un’unica entità, lei sembra come assentarsi e, quando di nuovo si manifesta, ricorda a Theodore di non appartenere al mondo fisico ma di esistere solo negli spazi vuoti tra le parole di un libro che racconta la loro storia. Un’essenza fluttuante e instabile, dunque, Samantha, un’idea, un riflesso del desiderio d’amore di Theodore da lui stesso creato: ma anche un punto di luce che si accende nella sua anima per guidarlo lungo sentieri nascosti, su quella via della conoscenza che lo condurrà in salvo, oltre i confini ristretti dell’io. Theodore, giunto sulla soglia che separa il mondo fisico da quello metafisico, riconosce in sé l’universale tensione d’amore che condivide con ogni altro essere e trova in tal modo la pace, annullando il suo dolore nell’identificazione con il tutto di cui egli stesso sa ormai di essere parte integrante. Per l’uomo amante la voce incorporea di Samantha sembra rappresentare l’antica pistis sophia, simbolo della luce della conoscenza contro la notte della caduta. La sua distanza, la sua assenza fisica guidano l’inchiesta di Theodore che, inseguendo il fantasma luminoso dell’idea d’amore creato da lui stesso, trova la determinazione e la forza di attraversare la sua anima alla ricerca di sé, come un antico cavaliere alla ricerca del mitico Graal nella foresta di Brocelandia. Proprio come accade a Dante, quando, guidato dall’incorporea Beatrice, viva e presente solo nel suo libro d’amore interiore, giunge finalmente a vedere nella luce ineffabile di Dio il sé universale in cui egli stesso è contenuto.

a casa. Affascinato, decide di acquistare il programma e caricarlo sul suo computer per sentirsi meno solo e superare il trauma di un abbandono. Lei non lo delude, gli parla subito, lo ascolta, attribuendosi il nome di Samantha. Quando Theodore è impegnato, Samantha legge tutti i file e le mail registrati nella memoria del suo hard disk, fino a ritrovarsi perfettamente in lui e nel suo desiderio d’amore, tanto da trasformarsi in breve nella sua anima gemella. Il tempo trascorre quasi inavvertibile mentre il dialogo tra i due esseri, un’entità invisibile e un uomo reale, si fa sempre piú intenso e coinvolgente. Nel continuo parlar d’amore con la voce disincarnata di Lei, Theodore vive sempre di piú, anche lui, in una dimensione di pura astrazione in cui impara a esplorare se

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«Fin’amor», «amor nova», «jeu d’amor», «amor de lonh»

«Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, le cortesie , le audaci imprese io canto» Nel celebre esordio dell’Orlando furioso, protagonisti e temi di età passate si materializzano nell’incanto della poesia: prima le donne poi i cavalieri, quindi colui che dice «io canto», sintetizzano l’essenza dell’universo cortese e dei suoi rituali, nell’ordine gerarchico che dovrebbe competere ai suoi protagonisti. Se ai cavalieri appartengono le armi, alle donne sembra che appartenga l’amore e ai poeti il canto che nutre i loro sogni. Ariosto, nel momento in cui colloca le due parole chiave nell’incipit del poema, all’inizio e alla fine dei primi due versi, sembra affermare la supremazia della donna e del canto proponendo una curiosa simmetria tra la condizione femminile e quella del poeta,

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l’amore nel medioevo o dell’artista in genere, che in realtà non è particolarmente felice né all’epoca sua, né tanto meno nei secoli in cui il mondo, dominato da re, signori e cavalieri, concedeva, forse, alle dame, all’amore e alla poesia, solo gli spazi astratti dell’immaginario. Siamo a Ferrara, nella corte dei duchi d’Este, e «le donne, i cavallier, l’ arme, gli amori, le cortesie,le audaci imprese», sono favolose evocazioni di una lontana civiltà signorile, risorta come per magia, attraverso le parole

del poeta, a distanza di circa trecento anni dalla sua fioritura. Nella seconda ottava, infatti, il poeta si diverte a rovesciare in modo ironico il tema dell’amore che, secondo i canoni di quella remota civiltà, dovrebbe guidare il cavaliere verso un superiore dominio di sé. «Dirò d’Orlando, in un medesmo tratto cosa non detta in prosa mai né in rima: che per amor venne in furore e matto, d’uom che sí saggio era stimato prima»

Valva di specchio in avorio raffigurante una coppia a cavallo. Inizi del XIV sec. Parigi, Museo del Louvre.

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Ma chi erano quelle donne e quei cavalieri? Quali i loro «amori», le «cortesie», le «audaci imprese»? Com’era davvero quel mondo remoto che i duchi d’Este e gli artisti della loro corte ancora vagheggiavano? Ariosto, da par suo, lo rappresenta con ironica nostalgia mettendone in scena i protagonisti come travolti da una giostra inarrestabile, in cui, tra inseguimenti e fughe, l’oggetto del desiderio appare loro sempre piú lontano e irraggiungibile, metafora di un appagamento impossibile che li porta alla follia. «Gli è come una gran selva, ove la via conviene a forza, a chi vi va, fallire: chi su, chi giú, chi qua, chi là travia. Per concludere in somma, io vi vò dire: a chi in amor s’invecchia, oltr’ogni pena, si convengono i ceppi e la catena.» (Orlando furioso, XXIV, 2) Certo è che l’idea di amore rievocata da Ariosto non è sempre esistita. Le pratiche comportamentali, i sentimenti e le emozioni, che per la civiltà occidentale vanno sotto il nome di «amore», risalgono a un particolare momento storico in cui profonde mutazioni sociali e culturali dettero forma a un nuovo immaginario. In quell’epoca un’intera civiltà organizzò la propria visione del mondo intorno al modello poetico e morale dell’amore cortese che rivoluzionò i rapporti tra l’uomo e la donna, ridefiní gli spazi sociali, favorí la crescita culturale, ingentilí i costumi e i sentimenti, fino a costruire una nuova dimensione dell’interiorità e della conoscenza di sé. Molte centinaia d’anni fa, sul finire del Mille, nei ricchi feudi sparsi nel Sud-Ovest della Francia, tra la Provenza e l’Aquitania, l’esperienza d’amore fu celebrata dai leggendari trovatori, professionisti della poesia, del canto e della musica, assai ricercati dai signori e dalle dame di corte. Per esprimere la qualità particolare di quell’esperienza sottile i trovatori usavano le parole «fin amor» o «amor nova», femminili in lingua d’oc, esplorando ogni aspetto del fenomeno, cogliendone la miracolosa potenza che paragonavano a quella della primavera. Lo schema mentale e comportamentale dell’amore cortese comparve nell’orizzonte europeo in un periodo segnato da profonde tensioni di tipo politico e sociale. Rappresentò, in un certo senso, l’emancipazione della cultura laica dalla tutela religiosa che fino a quel momento aveva condizionato ogni aspetto della vita. Forme poetiche originali e nuovi temi letterari tradussero nella gentilezza dei riti d’amore le tensioni e le contraddizioni vissute dai protagonisti di una società in fermento – signori, dame e cavalieri – trasferendole in un mondo immaginario carico di suggestione e di

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bellezza, in cui vennero sublimati la competizione, la delusione, la violenza di un’emarginazione diffusa, il desiderio di esplorare e conoscere se stessi e il mondo secondo un principio di libertà. La classe dominante di quei tempi scoprí, in un certo preciso momento della storia, di poter trarre la sua conoscenza della vita e la somma del suo sapere da una curiosa sorta di ars amandi, che si fondava su un paradosso: il vero amore, secondo la nuova mentalità, non aveva come obiettivo la soddisfazione immediata dei sensi, ma inseguiva un piacere piú raffinato, che consisteva nell’infinita dilazione del desiderio. Questo nuovo modo di intendere l’amore, che ridisegnava i rapporti tra l’uomo e la donna, complicandone lo schema in base a un preciso rituale di norme morali e intellettuali, costituí il fondamento di una società, della sua cultura, del suo nuovo modo di sentire, intendere ed esprimere in modo figurato il percorso infinito della conoscenza. L’amore si trasformò in fin’amor, come lo chiamavano i poeti dell’epoca, cioè in un filosofico cammino interiore, che portava al perfezionamento di sé sul piano intellettivo e spirituale. Vivendo in modo reale e astratto l’esperienza della fin’amor, uomini e donne proiettavano per la prima volta ansie e desideri nello specchio della parola poetica in cui l’intelligenza e l’anima cercavano la via dell’espressione di sé. Tale era l’importanza del tema d’amore e dei rituali a esso connessi che, nella seconda metà del dodicesimo secolo, nel momento culminante di quella civiltà, segnata da una diffusa «rinascenza» dell’arte, della poesia e della cultura, a Troyes, presso la corte della contessa Maria di Champagne, uno scrittore, a noi noto con il nome di Andrea Cappellano, dedicò all’argomento un vero e proprio trattato che ebbe grande diffusione in tutta Europa con il titolo De amore. L’autore, attraverso un ricco repertorio di storie, esempi, personaggi, mostrando di rivolgersi a un giovane amico di nome Gualtieri, proponeva a tutti i cavalieri che vivevano nelle corti un dettagliato protocollo di prescrizioni e divieti, una sorta di vademecum morale, necessario per vivere tutti i passaggi dell’amore nel modo piú vigile e consapevole, al di fuori dei vincoli e delle costrizioni del matrimonio. Nel corso del 1100 l’esperienza d’amore, codificata da Andrea Cappellano, cantata dai trovatori, narrata nei favolosi romanzi cavallereschi di Chrétien de Troyes, poeta prediletto, anche lui, da Maria di Champagne, si trasformò in tal modo in un rituale di omaggio alla donna assai complesso che pochi eletti condividevano nel segno qualificante ed esclusivo della gentilezza d’animo e della sapienza, cui quell’esperienza sembrava necessariamente accompagnarsi. Secondo il rituale, chiamato jeu d’amor, gioco di corteggiamento e amore, il cavaliere imparava a dare forma

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l’amore nel medioevo ed espressione al suo desiderio e alle sue virtú avvicinandosi gradualmente alla dama ma senza illudersi di poterla mai davvero raggiungere. Si trattava di una sorta di rito d’iniziazione che insegnava al cavaliere l’arte dell’amore, come esperienza di dominio delle passioni, misura e scoperta di sé in rapporto a un obiettivo irraggiungibile: l’amor de lonh, l’amore di lontano cantato dal leggendario trovatore Jaufré Rudel che riuscí a trovare e a vedere la principessa di Tripoli solo in punto di morte. Riti e canti d’amore che parlano di desiderio, assenza, distanza, come i dialoghi di Theodore con Samantha: un vero enigma che si può tentare di svelare solo cercando la chiave di accesso a una cultura molto diversa da quella attuale. La chiave che cerca Guglielmo d’Aquitania, riposta in uno scrigno nel Poitou: Fait ai lo vers, no sai de cui, Et trametrai lo a celui Que lo-m trameta per autrui, Enves Peitau, Que-m tramezes del sieu estui La contraclau. (Ho scritto il verso, di che non so e lo manderò a quello che lo mandi ad altri verso Peitau, e del suo scrigno mi spedirà la chiave che lo aprirà). Va ricordato, prima di intraprendere la nostra inchiesta sull’esperienza d’amore, che il linguaggio medievale non è mai lineare, descrittivo e diretto come generalmente è quello attuale, ma comunica sempre attraverso un sistema stratificato di codici simbolici da interpretare. Nel nostro mondo il procedimento della costruzione del senso tende a semplificarsi mentre nella cultura medievale va sempre in direzione della complessità. La lettura della realtà e del mondo, nel Medioevo, procede, in tal senso, secondo un percorso verticale, collegando il piano concreto dell’esperienza individuale, della storia e della materia a quello universale, metafisico, astratto, essenziale, del significato concettuale e spirituale che ne anima ogni dettaglio. Anche nella poesia e nel rito d’amore, come in ogni ambito della conoscenza, il modo di procedere è lo stesso: l’amore generato dalla bellezza della donna non è riducibile a pura e semplice esperienza dei sensi ma, per chi sa intenderlo, è occasione illuminante, via di accesso alla conoscenza di sé, fino a diventare momento sublime di rivelazione del divino. Il gioco aristocratico del corteggiamento, le lodi della virtú della dama, le prove, le avventure, l’esal-

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tazione del desiderio e sovente della rinuncia, definiscono in ogni dettaglio il cammino del cavaliere che, praticando il jeu d’amor, esplora in profondità se stesso e il mondo esterno a sé penetrandone il mistero celato in una fitta foresta di simboli. Parole, situazioni, immagini della poesia d’amore medievale vanno dunque decifrate e interpretate come il tracciato di un vero e proprio itinerario morale e conoscitivo, secondo il biblico modello di riferimento del Cantico dei cantici, in cui la bellezza della donna amata guida l’amante verso la vetta della sapienza.

Espansione e repressione: amore, eresia, guerra

L’idea della fin’amor si concretizza per la prima volta in una serie di rituali codificati negli ambienti aristocratici del Midi della Francia, dove i soggetti spesso emarginati, come i cavalieri non casati, le donne, i poeti, esprimono la loro identità basandosi sui valori della cultura e della gentilezza dei sentimenti, invece che sui privilegi della nascita, del potere e della casta. Che una visione del mondo cosiffatta, laica e libertaria, prenda forma per la prima volta proprio nei ricchi feudi occitanici si spiega con la particolare situazione politica e territoriale del Mezzogiorno che ha un’ampia autonomia rispetto alla monarchia e ai poteri di controllo della Chiesa, istituzionalmente assai poco inclini a favorire un raffinamento dei costumi spregiudicato e profano. Alle origini, tra gli appassionati cultori del grande canto cortese e della fin’amor, emergono con forza i piú potenti e colti signori del tempo, come Guglielmo IX, duca d’Aquitania, noto per essere uno dei primi trovatori, Eleonora, sua nipote, moglie prima di Luigi VII e poi di Enrico II, regina di Francia e di Inghilterra, e alcuni dei suoi figli, come Riccardo Cuor di Leone e Maria di Champagne. Tra storie di famiglie, di re e di regine, di matrimoni, di contese politiche e religiose, di feroci repressioni, i canti dei trovatori e i riti dell’amor cortese si diffusero in vari modi in tutta la Francia, in Inghilterra, in Germania, in Italia, imprimendo nella cultura del tempo una traccia cosí profonda e viva da riemergere e riaffiorare comunque, come un fiume carsico, nonostante le censure della Chiesa, le guerre, le discontinuità politiche. Il tema della fin’amor, cantato e celebrato inizialmente dai trovatori della Francia sud-occidentale, divisa, tra undicesimo e dodicesimo secolo, tra poche ricche e potenti famiglie, attraversa tutta l’antica Aquitania, il Limosino, il Poitou, la Provenza e l’Alvernia, per espandersi verso la Spagna, nell’area galegoportoghese, nella Francia del Nord, in Inghilterra e in Ruggero libera Angelica, olio su tela di Jean-Auguste-Dominique Ingres. 1819-1839. Londra, National Gallery. settembre

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l’amore nel medioevo

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Fiandra, in Germania, in Sicilia, nell’Italia settentrionale e centrale, in una sorta di continuum territoriale, che, proprio nella frammentazione e nella divisione dei feudi e dei regni, trova un terreno comune di confronto e di crescita. In ognuno dei paesi in cui si radica il tema della fin’amor viene reinterpretato in base alle diverse situazioni culturali e sociali. Nella Francia del Nord, per esempio, è meno libertario, tende a istituzionalizzarsi e a rientrare nella norma, sancita dal programma di accentramento politico, religioso e culturale della monarchia e della Chiesa. In Germania, invece, riflette lo squilibrio e le tensioni implicite nel rigido ordinamento feudale, esprimendo piú che altrove le inquietudini dei soggetti marginali. Nell’area iberica l’amore assume un aspetto semplice e quotidiano, umanizzandosi e abbandonando la cifra intellettuale e sensuale espressa dai trovatori. Nell’area italiana la poesia d’amore rispecchia l’emergere di nuovi ceti intellettuali cittadini che cercano un loro libero spazio di espressione e di distinzione, sia rispetto alla borghesia mercantile sia rispetto alla vecchia classe aristocratica, affermando la propria specificità culturale e morale. Dopo la grande espansione del XII secolo, una lunga campagna militare, promossa dal re di Francia e dal papa a partire dai primi anni del 1200, cercò di cancellare ogni memoria della civiltà della fin’amor per ragioni di opportunità politica. La guerra fu definita «crociata» perché si proponeva l’obiettivo di combattere una vasta corrente giudicata eretica dalla Chiesa e diffusa a tutti i livelli sociali, soprattutto nei feudi del Sud-Ovest, accusati di lassismo, facili costumi, pratiche illecite. Si trattava del catarismo, un movimento evangelico radicale, assai popolare, che considerava importanti l’accesso diretto alle fonti, la libera conoscenza e l’uguaglianza tra l’uomo e la donna, trovando grande sintonia con i riti e la poetica della fin’amor condivisi da dame, cavalieri e trovatori. Tra il 1209 e il 1229 la crociata contro gli albigesi, cosí chiamata dal nome della città fortificata di Alby, una delle roccaforti della resistenza catara, segnò il primo brusco arresto, non solo della pacifica espansione del movimento, ma anche della stessa poesia d’amore fiorita nei castelli e nelle terre circostanti. I catari, bollati come eretici dal giudizio irrevocabile della Chiesa, furono combattuti, uccisi, perseguitati, e molti dei trovatori a loro vicini furono costretti a fuggire dai loro territori d’origine. La drammatica repressione alterò, in parte, comportamenti, temi e registri espressivi della poesia d’a-

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In alto capolettera miniato raffigurante Jaufré Rudel che muore fra le braccia della contessa di Tripoli. Dopo il 1273. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto capolettera miniato raffigurante il trovatore Gui d’Ussel. Dopo il 1273. Parigi, Bibliothèque nationale de France.

more, inducendo i trovatori a rendere piú complesso e segreto il loro linguaggio, già esclusivo, per evitare le persecuzioni della Chiesa e del suo temibile organo di controllo, il Tribunale dell’Inquisizione, che li considerava a ogni buon diritto complici e interpreti del movimento cataro. Intorno a questa corrente di pensiero, combattuta dalla Chiesa come la piú potente delle eresie, e intorno alla poesia trobadorica che in parte la affiancava possiamo ricostruire la lunga storia di una concezione platonica e iniziatica dell’amore in cui la bellezza e la distanza della donna erano i segni simbolici di un percorso sapienziale riservato ai pochi capaci di intraprenderlo e di comprenderne il senso. F

Da leggere Annarosa Mattei, L’enigma d’amore nell’occidente medievale, prefazione di Franco Cardini, La Lepre edizioni, Roma, 286 pp. 20,00 euro ISBN 978-88-99389-22-2

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costume e società

Quando l’eresia diventa mito di Riccardo Facchini

Arnaldo da Brescia in lotta contro le iniquità di papi e imperatori e, dunque, campione del neoghibellinismo, fra Dolcino arruolato nelle file del movimento anarchico: sono solo alcuni dei piú singolari effetti innescati dalla rilettura delle vicende degli eretici medievali. Che oggi godono di vasta fortuna anche nella letteratura e nel fumetto

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uando si pensa agli eretici medievali, il nostro immaginario evoca immediatamente scenari tipici di un Medioevo buio, illiberale e intollerante, in cui a farla da padroni sono vessazioni, roghi e feroci torture. Premesso che simili drammatici eventi si verificarono realmente, ma non sempre con la stessa intensità e con il medesimo fervore persecutorio, solo a partire dal XVIII-XIX secolo l’eretico medievale iniziò ad assumere una nuova valenza, all’interno del dibattito laico, acquisendo progressivamente il ruolo di «vittima» comunemente attribuitogli. Egli smise infatti di essere considerato come un dissidente, un pericolo sociale da reprimere grazie all’intervento delle autorità religiose e civili, per essere invece percepito come l’incarnazione del libero pensatore ante litteram, perseguitato da poteri dispotici e oscurantisti. Non solo: nella stragrande maggioranza dei casi, le dottrine professate dai piú famosi eresiarchi medievali furono rilette dalle varie tradizioni laiche occidentali – su tutte quella liberale e socialista – al fine di trova-

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re in esse gli illustri precedenti delle battaglie civili che caratterizzarono l’agone politico europeo a partire dall’Ottocento.

Casi illustri

Questo procedimento può essere riscontrato già durante gli anni della Riforma protestante. Arnaldo da Brescia (1090-1155), per esempio, fece la sua apparizione come precursore di posizioni riformate nel Catalogus testium veritatis del riformatore e storico croato Flacio Illirico (1520-1575; al secolo Mattija Frankovic), pubblicato intorno alla metà del XVI secolo, nel quale, però, compariva erroneamente sotto le insolite vesti di vescovo di Brescia. Sempre nel Catalogus, veniva annoverato quel fra Dolcino da Novara (1250 circa-1307) condannato dopo aver condotto una resistenza armata sul monte Rubello, nel Biellese. I catari, al contrario, destarono inizialmente i sospetti degli intellettuali luterani, probabilmente per l’iniziale accostamento a essi del termine «anabattisti» (definizione che indicava gruppi o correnti secondo i quali il battesimo doveva essere

Brescia. Particolare del monumento ad Arnaldo da Brescia. La statua bronzea è opera dello scultore Odoardo Tabacchi, che scelse di conferire al riformatore religioso le sembianze di Giuseppe Mazzini. 1882.

conferito ai soli adulti, n.d.r.). Successivamente, fu ancora Flacio Illirico ad avvicinare gli eretici albigesi al movimento riformatore, presentandoli come interpreti di una sorta di valdismo radicale ed emancipandoli dall’accusa di anabattismo. Gli esempi potrebbero essere ancora molti, ma qui ci concentreremo sugli eretici appena citati, che si caratterizzano come quelli settembre

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piú sfruttati dai movimenti politici e culturali affermatisi in Europa a partire dall’Ottocento.

Arnaldo da Brescia

La riscoperta di Arnaldo dovette molto al sacerdote gianseni-

sta Giovan Battista Guadagnini (1723-1807), che non giudicò mai le posizioni dell’eretico come eterodosse, ma, anzi, ne esaltò il valore «riformatore» che avrebbero potuto avere se solo il papato le avesse fatte proprie. Una simile interpre-

Gli eretici medievali cominciarono a essere visti come altrettante «vittime» solo fra Otto e Novecento, all’interno del dibattito che si era acceso al riguardo negli ambienti di matrice laica

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In alto busto del drammaturgo anticlericale di origini toscane Giovanni Battista Niccolini, che nel 1840 compose l’opera Arnaldo da Brescia, ambientata durante la predicazione di Arnaldo a

Roma in seguito ai tumulti del 1143. Firenze, Teatro Niccolini. Nella pagina accanto Roma. Il busto di Arnaldo da Brescia collocato lungo uno dei viali del Pincio, a Villa Borghese.

tazione rimaneva circoscritta a un dibattito di tipo religioso, ma ebbe comunque molta importanza nella costruzione mitica della figura di Arnaldo operata durante l’epoca risorgimentale, soprattutto in campo neoghibellino. Il drammaturgo anticlericale di origini toscane Giovanni Battista Niccolini (1782-1861) pensò infatti di trasformare Arnaldo nel protago-

nista di una delle sue opere. Il risultato fu la stesura dell’Arnaldo da Brescia, composta nel 1840 e ambientata durante la predicazione di Arnaldo a Roma in seguito ai tumulti del 1143. Nel dramma, la tematica nazionalista si stagliava chiara fin dalle prime pagine. Già nell’introduzione all’edizione del 1852, l’autore sottolineava infatti che a uccidere Arnaldo furono soprattutto un

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«pontefice inglese» (Adriano IV) e un «imperatore tedesco» (Federico I Barbarossa). Significativi anche i passi in cui il Bresciano incitava il popolo romano a togliere «all’empia [la Chiesa, n.d.A.] scettro e spada», poiché «il clero tutto acquistò con forza o con inganno». Dopo avere riscosso un immediato successo, l’opera suscitò il prevedibile sdegno degli ambienti ecclesiastici. Tra questi, la voce piú critica fu quella dei Gesuiti, che, dalle pagine della rivista Civiltà Cattolica, definivano il Niccolini «un illustre letterato, che per avventura dié troppa fede agli scritti dell’arciprete Guadagnini» e che inoltre «chiamò la poesia e la tragedia a render piú popolare l’apoteosi dell’infelice Bresciano». Tuttavia, la distorsione dell’immagine di Arnaldo non portava ancora il dibattito al di fuori di una ristretta cerchia di intellettuali, lasciandolo circoscritto a quei pochi letterati neoguelfi o neoghibellini interessati alla figura dell’eretico. Il mito arnaldiano si consolidò invece quando l’immagine del Bresciano iniziò a essere riprodotta in modo indelebile in statue e monumenti. Ovviamente l’impatto propagandistico che la monumentalistica di epoca post-unitaria poteva avere sulla popolazione preoccupava molto la Chiesa cattolica, che ne temeva la portata rivoluzionaria.

Lo sdegno dei Gesuiti

Nel 1871 un busto di Arnaldo fu posizionato al Pincio; nello stesso anno il Comune decise di stanziare 500 lire per la costruzione di un monumento (mai eretto) dedicato al Bresciano. Nel 1882, grazie anche a finanziamenti provenienti dalle casse capitoline, una statua in onore di Arnaldo – firmata da Odoardo Tabacchi, che ritrasse l’eretico con le sembianze di Mazzini – fu poi inaugurata proprio a Brescia, suscitando, come prevedibile, lo sdegno di Civiltà Cattolica, che sottolineò la settembre

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matrice massonica dell’iniziativa. L’inaugurazione del monumento bresciano offrí agli anticlericali romani l’opportunità di tentare una simile operazione anche nella nuova capitale del regno. La loggia Galileo propose per esempio di collocare una lapide dedicata ad Arnaldo nel presunto luogo della sua esecuzione. Il progetto non andò in porto ma, nel 1911, il Comune di Roma intitolò una porzione del lungotevere, ancora oggi esistente, proprio ad Arnaldo.

Fra Dolcino da Novara

La storia di fra Dolcino da Novara si prestava a una strumentalizzazione politica e ideologica che superò quella attuata nei confronti di Arnaldo da Brescia. Ciononostante, in una prima fase, il mito di Dolcino non fece da subito breccia per motivi politici, sebbene enorme importanza fosse stata data fino a quel momento a quei riformatori/eretici medievali che avevano condannato il potere temporale dei papi. Una figura come quella di Dolcino, che pure poteva essere arruolato dai neoghibellini come loro precursore, preoccupava forse per i lati piú radicali del suo pensiero e della sua epopea, di cui la «resistenza» violenta attuata sulle Alpi fu il momento piú significativo. Tali aspetti erano forse ancora lontani dalla sensibilità borghese risorgimentale. Uno dei primi tentativi di arruolamento di Dolcino da parte degli anticlericali italiani si verificò nel 1884, non a caso di nuovo a opera di un drammaturgo. Il successo riscosso pochi anni prima dall’Arnaldo di Niccolini spinse infatti Ulisse Bacci Firenze, S. Maria Novella. Particolare del ciclo affrescato da Andrea di Bonaiuto intorno al 1365 nella sala capitolare, piú nota come Cappellone degli Spagnoli. In basso, sulla destra, evidenziato dalla cornice, è il ritratto di fra Dolcino, che l’artista ha immaginato mentre straccia i testi della dottrina ufficiale della Chiesa.

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costume e società a comporre il «dramma storico in versi» Fra’ Dolcino, dedicato al Gran Maestro aggiunto della Massoneria Adriano Lemmi. In alcuni aspetti il Dolcino di Bacci era chiaramente ispirato all’Arnaldo di Niccolini, ma una grande novità era rappresentata dalla romanzesca storia d’amore tra Dolcino e Margherita di Trento. Il dramma di Bacci si differenziava inoltre per l’impronta spiccatamente socialista assegnata alle battute pronunciate in scena dall’eretico. Cosí Bacci commentava alcuni passi della sua opera: «In questi versi […] si è voluto accennare a quei principi che oggi si chiamano di socialismo, e che pure l’ardito innovatore [Dolcino, n.d.A.] andava

predicando e propagando con l’eloquenza e con le armi». Ancora una volta, quindi, la drammaturgia ottocentesca creava le basi per la nascita di un mito storiografico, questa volta di matrice socialista. Negli stessi anni in cui Bacci portava in scena il suo dramma, la figura di Dolcino iniziava poi a farsi strada in ambito operaio. Caso emblematico fu lo pseudonimo – «frà Dolcino», appunto – che un cronista utilizzò nel 1882 per pubblicare un suo testo in difesa del diritto di sciopero. L’appropriazione marxista di Dolcino fu poi definitiva alla fine del XIX secolo, principalmente a opera di Antonio Labriola. Da parte A destra la Parete Calva, una delle pendici del Pian dei Gazzari, nel territorio del Comune di Piode (Vercelli), in Valsesia. Secondo la tradizione, sarebbe uno dei luoghi nei quali Dolcino avrebbe trovato rifugio insieme a Margherita di Trento. A sinistra il cippo in memoria di fra Dolcino collocato sul monte Massaro, una delle cime del monte Rubello.

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degli studiosi socialisti vi era infatti la precisa volontà di assegnare a Dolcino il ruolo di protorivoluzionario e tale operazione riscosse un significativo successo soprattutto nelle aree dove si era svolta l’epopea dolciniana. Il fiorire di movimenti operai nel Biellese e nel Vercellese, la propaganda socialista e, non ultimo, il ruolo che la figura di Dolcino ricopriva da sempre nella tradizione folklorica della regione, furono infatti le componenti ideali di un mix che ebbe come risultato la nascita di un fortunato mito. settembre

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Prime avvisaglie di un’attenzione operaia alla storia di Dolcino si ebbero già alla fine del XIX secolo. Nel 1890 un cartaio biellese, Federico Scaramuzzi, scalò infatti con altri compagni di partito il monte Rubello (palcoscenico della resistenza armata dolciniana) per piantarvi un gigantesco vessillo rosso. Nello stesso anno il Comune di Borgosesia dedicò una via all’eretico e nella cittadina di Campertogno gli venne intitolato un teatro. Cinque anni piú tardi, un gruppo di intellettuali si diede appuntamento sul monte Ru-

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bello, dove fu solennemente annunciata la fondazione di un periodico di ispirazione socialista che prese il nome di Corriere Biellese e che ricoprí un ruolo chiave nella diffusione popolare della figura di Dolcino. Nel 1898 venne proposto l’innalzamento di un obelisco in onore di Dolcino sul monte Massaro, che fu poi inaugurato nel 1907. L’inaugurazione – svoltasi tra un tripudio di vessilli socialisti, repubblicani, anarchici e massonici – fu patrocinata da testate sensibili all’iniziativa; e nel 1917 il monumento diven-

ne addirittura meta di una manifestazione antimilitarista. La breve vita dell’obelisco si concluse però nel luglio del 1927, quando fu abbattuto con una carica di dinamite, presumibilmente da gruppi fascisti. Tuttavia, il mito di Dolcino si era ormai saldato nelle tradizioni operaio-folkloriche degli abitanti dell’area valsesiana e trovò la sua consacrazione nel 1969, con la messa in scena dello spettacolo teatrale Mistero Buffo, scritto e interpretato da Dario Fo. L’opera – una «giullarata popolare» composta da monologhi

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costume e società

In alto i ritratti di fra Dolcino e Margherita di Trento dipinti su una delle pareti dell’Hotel Aurora di Cimego (Trento). Nella pagina accanto la lapide in memoria di fra Dolcino rinvenuta nel

1990 a Vercelli e la cui ricollocazione si trasformò in un caso politico. A destra Dario Fo (1926-2016), che nel 1974 mise in scena il suo Mistero Buffo sulla cima del monte Massaro.

ispirati a episodi biblici, apocrifi o storici riletti in chiave anticlericale – riscosse un immediato successo.

la proprietà privata sia un furto («la terra è vostra: loro se la sono fregata», ricorda per esempio Segarelli ai suoi seguaci in un momento della piéce). Secondo Fo, Dolcino risultò ancora piú audace di Segarelli: dai proclami contro i grandi proprietari terrieri, sarebbe infatti poi passato a organizzare il suo seguito sullo stile di una vera «comune», basata sulla «divisione dei beni comuni» e

Piú audace di Segarelli

Ai nostri scopi è fondamentale notare la lettura che Dario Fo compie della vita di Dolcino e di Gherardo Segarelli, considerato il suo maestro e raffigurato coi tratti tipici di un protosocialista, su tutti l’idea che

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Dolcino tra rivalutazioni e condanne

La lapide della discordia Nel 1990, fu ritrovata a Vercelli, nel sottotetto di un ufficio municipale, una lapide dedicata a Dolcino che era stata apposta, nel 1907, sulla facciata della Casa del Popolo per poi essere rimossa durante il fascismo. Alcuni consiglieri comunali del partito dei Verdi riuscirono a farla collocare nell’atrio del municipio, ma – in seguito a un compromesso tra il sindaco e il vicario generale della diocesi – la lapide fu poi traslata e affissa presso l’assessorato alla cultura. La questione non era però chiusa: nel 2006, un sottosegretario del governo Berlusconi chiese al Comune di Vercelli la rimozione della lapide, sostenendo che promuovesse una «concezione massonicosocialista». Un locale centro sociale anarchico organizzò

una manifestazione in difesa della lapide, a dimostrazione della nuova forma di strumentalizzazione a cui la figura di Dolcino ormai si prestava: quella di carattere antagonista. Emblematico, al riguardo, fu un articolo di Paolo Rumiz (la Repubblica, 6 maggio 2007): secondo l’autore, il mito di Dolcino «riemerge sempre, nei tempi di lotta: con la caccia alle streghe del Seicento (…) Fino alle trincee dell’oggi contro l’insensata monocultura del Globale»; il messaggio dell’eretico stava quindi diventando «manifesto per i ribelli anti-TAV della Valsusa», che lo consideravano in quei giorni al pari di «un ribelle anticentralista (…), un fratello».

dove tutto «si distribuiva a ciascuno secondo il suo bisogno». Il contesto culturale degli anni in cui fu portato sulle scene Mistero Buffo era piuttosto sensibile ai messaggi lanciati da Fo/Dolcino: la contestazione studentesca e il movimento operaio non potevano che essere infatti affascinati da questo protorivoluzionario, antiborghese, anticapitalista ed anticlericale. Tra le moltissime repliche della giullarata un notevole rilievo assunse quella portata in scena nei pressi del monte Massaro nel 1974. La cima, come abbiamo ricordato, era il luogo ove era stato abbattu-

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to, nel 1927, l’obelisco a Dolcino. Per rimediare, quarantacinque anni dopo, sui suoi ruderi fu inaugurato un cippo dedicato alla sua memoria. Come padrino e madrina dell’evento furono invitati proprio Dario Fo e Franca Rame, che nell’occasione misero in scena una replica di Mistero Buffo, forse la piú simbolica mai rappresentata.

I catari

Rispetto ad Arnaldo e Dolcino, i catari ebbero un destino leggermente diverso: furono in primis riscoperti, per ovvi motivi geografici, nella Francia del Sud e, inoltre, non su-

birono un’eccessiva strumentalizzazione politica, se si eccettua l’utilizzo che ne è stato fatto dai partiti indipendentisti occitani. Tuttavia, per meglio comprendere l’esplosione del revival cataro del XX secolo, occorre soprattutto considerare la reazione antipositivista e antiscientista della fine dell’Ottocento, con le sue molte declinazioni vicine al mondo dell’esoterismo e dello spiritismo. Tutti i maggiori interpreti del revival neocataro ebbero infatti rapporti piú o meno stretti con circoli esoterici e iniziatici. Tra essi possiamo ricordare il romanziere Joséphin Péladan (1858-1918), membro dei

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costume e società Rosacroce, secondo cui la leggenda del Graal aveva radici occitane; egli era inoltre sostenitore della tesi secondo la quale il Graal si trovava da qualche parte a Montségur, la fortezza catara espugnata nel 1244.

Tra fede e occultismo

A seguire toccò all’archivista Jules Doinel (1842-1902), autodefinitosi patriarca della «Chiesa gnostica» col nome di Valentino II. Dopo aver sostenuto di aver ricevuto un’apparizione dell’Eone Gesú Cristo, da cui fu nominato «vescovo di Montségur» e «primate degli Albigesi», Doinel giunse a sostenere di essere stato consacrato vescovo della Chiesa Gnostica da quaranta presuli catari, durante una seduta spiritica. Il credo che si professava in questa «Chiesa» riprendeva elementi della gnosi

A destra i resti del castello di Montségur, nei Pirenei francesi. La fortezza fu l’ultimo rifugio dei catari, che, dopo quasi un anno d’assedio, capitolarono nel marzo del 1244. In basso la copertina di uno degli episodi della graphic novel Je suis Cathare.

catari e cultura pop

Eroismo, fierezza e... un tocco d’erotismo Negli ultimi anni i catari sono stati scelti come protagonisti di numerose opere di historical fiction. Tra queste ricordiamo romanzi come Gli ultimi catari (2002), di René Weis, e Le catene di Eymerich (1995) di Valerio Evangelisti. La restante produzione ha ripreso e adattato ai gusti del lettore contemporaneo ogni elemento già presente nelle opere di Rahn o Gadal. Alcuni si sono invece spinti oltre: curioso, per esempio, è il caso di Storia d’amore e d’eresia (2002), la cui autrice, Charmaine Craig, contrappone al dualismo cataro e all’intolleranza cattolica una sorta di immanentismo panteista dalle venature fortemente erotiche. L’eresia albigese è tornata alla ribalta grazie al best seller I codici del labirinto (2005), di Kate Mosse, descritta sulla quarta di copertina come «l’equivalente

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femminile di Dan Brown». La scrittrice britannica mostra di esser debitrice di quasi tutto il filone del primo revival neocataro. Un intreccio analogo si riscontra ne La città perduta dei templari (2012), thriller di Chloe M. Palov in cui i protagonisti, dopo essersi lanciati alla ricerca del Graal (qui visto come una pietra capace di permettere il viaggio nel tempo) lo troveranno custodito tra le montagne dei Pirenei. L’opera è stata affiancata nel 2012 da un altro romanzo sui catari, ambientato questa volta nel XIII secolo. Il Cavaliere d’Islanda (2012) di Claudia Salvatori narra le

gesta di Kveld, guerriero islandese che giungerà nel Midi per unirsi alla causa degli albigesi. La consacrazione popolare del catarismo si può dire giunta a conclusione con l’approdo dei catari alla forma d’arte pop per eccellenza: il fumetto. A partire dal 2008 sono state date infatti alle stampe due graphic novels sugli albigesi. La prima, Je suis Cathare, scritta da Pierre Makyo e disegnata dall’italiano Alessandro Calore, narra le gesta del cavaliere Guilhem Roché e della sua scelta di difendere i catari dai crociati del Nord. L’autore della seconda, Le dernier Cathare, Arnauld Delalande, ha invece optato per un intreccio piú vicino a suggestioni mitiche: il protagonista, un giovane trovatore, deve infatti salvare dalla furia inquisitoriale un segreto custodito dai catari. settembre

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A destra monumento che commemora i catari collocato lungo il percorso che porta al castello di Montségur.

classica, a cui erano abbinati due elementi della dottrina catara, il consolamentum (una sorta di battesimo rituale riservato agli adulti, n.d.r.) e l’aparelhament (la confessione pubblica dei propri peccati, n.d.r.) L’interesse sviluppatosi all’interno dei circoli esoterici non si tradusse però in un’adesione popolare al mito cataro. Nel percorso che porterà all’estensione su larga scala della leggenda, una tappa importante è rappresentata dalle figure di Otto Rahn (1904-1939) e Antonin Gadal (1877-1962). Quest’ultimo si avvicinò al catarismo grazie al suo maestro, Adolphe Garrigou, storico locale e studioso delle tradizioni iberiche di area pirenaica. Fu in stretto contatto, negli anni Quaranta, con circoli esoterici francesi e stranieri, tra cui si ricorda l’associazione iniziatica «Amici di Montségur». Il suo amico Otto Rahn giunse a Montségur già nel 1931 e qui scoprí – indirizzato da Gadal – l’esistenza delle «grotte catare», cioè

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costume e società delle numerose caverne che caratterizzano l’area pirenaica. Anch’egli fu sedotto dall’idea che i graffiti ivi conservati fossero stati eseguiti dai catari, che lui chiamava i «mahatma Gandhi dell’Occidente», ed era profondamente convinto della presenza del Sacro Graal fra le montagne occitane. In uno dei suoi lavori piú famosi – Crociata contro il Graal – sosteneva inoltre che uno dei testi chiave per decifrare i segreti dei catari fosse il Parzival di Wolfram von Eschenbach. Secondo Rahn, ogni narrazione trobadorica celava infatti significati occulti e iniziatici e, tra queste, il Parzival si prestava perfettamente allo scopo. Esso poteva inoltre rappresentare il traitd’union fra la tradizione spirituale A sinistra Otto Rahn posa all’interno della «chiesa» di Ornolac, nota anche come Bethlehem, una delle «grotte catare» che si aprono nei Pirenei.

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aver preso le distanze dal Terzo Reich: il suo corpo fu trovato tra le montagne del Tirolo austriaco e tuttora si susseguono notizie incerte sulla causa del suo decesso. Da quanto detto finora, si può notare come ciò che gli eretici ci hanno lasciato in eredità, soprattutto nella sensibilità comune, sia una diffusa ostilità per una Chiesa che non li ha «tollerati» o «accolti». Essi sono cosí riusciti a colpire l’immaginario laico contemporaneo, che intenderebbe estendere ex post all’eretico il diritto alla libertà religiosa, elevato a diritto umano solo nel 1948 e purtroppo non ancora unanimemente riconosciuto a livello globale.

L’origine del mito

A sinista i resti del castello di Montréal-de-Sos, nell’Ariège (Francia meridionale), nel quale avrebbero trovato rifugio quattro catari in fuga da Montségur. Nelle pendici della rocca su cui sorse la fortezza si aprono varie grotte. In una di esse si conserva la pittura riprodotta in alto, che alcuni hanno interpretato come una raffigurazione del Graal.

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cataro-occitana e quella germanico-ariana. L’intera tesi rahniana si basava poi su una forzatura semantica, consistente nell’identificare Montsavage – il castello dove è custodito il Graal nel Parzival – con Montségur, la roccaforte catara. L’impervia cima divenne quindi il punto di arrivo del Graal dopo essere precipitato dal cielo ed essere stato custodito da Celti e druidi. La crociata contro gli albigesi, quindi, non era piú soltanto una crociata contro degli eretici, ma, come fu intitolato appunto il suo libro, una Crociata contro il Graal, una spedizione volta a sterminare gli ultimi custodi di «una civiltà che (…) offuscava l’Occidente cristiano e che costui aveva condannato a morte». Rahn morí nel 1939, a soli 35 anni dopo, sembra,

In ogni caso, anche la storiografia cattolica ha sicuramente contribuito ad alimentare la mitologia ereticale. Per esempio, per quanto riguarda l’epopea catara, fu infatti la stessa apologetica a costruire, agli albori del XIX secolo, il mito di una Provenza totalmente in balía degli albigesi, ritratti come colpevoli di ogni genere di crimine. La nascita del mito potrebbe quindi essere ascrivibile a questo continuo dialogo tra due opposte fazioni, che si fornivano a vicenda elementi sui quali darsi battaglia e di cui risulta avvincente poter riuscire a individuare, attraverso la ricerca, il punto d’inizio. F

NEL PROSSIMO NUMERO ● Il Medioevo del Grande Nord

Da leggere Riccardo Facchini, Liberali, socialisti, martiri: gli eretici medievali tra Ottocento e Novecento, in Nuova Storia Contemporanea, 4, 2011; pp. 95-112 Riccardo Facchini, Il neocatarismo. Genesi e sviluppo di un mito ereticale (secoli XIX–XXI), in Società e Storia, 143, 2014; pp. 33-67

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L’arte delle antiche chiese/10

Nell’isola che non c’è

di Furio Cappelli

L’entroterra pescarese custodisce un autentico gioiello dell’arte e dell’architettura romanica: è l’abbazia di S. Clemente a Casauria, rinnovata sul finire del XII secolo per volere dell’abate Leonate. Che si fece anche promotore della compilazione di un documento di eccezionale importanza per ripercorrere la storia del monumento: il Chronicon Casauriense 76


Abbazia di S. Clemente a Casauria (Pescara). Particolare della lunetta che sormonta il portale principale della chiesa: al centro, siede Clemente, papa e santo, al quale l’abate Leonate offre l’abbazia di Casauria; sul lato opposto si riconosce invece il diacono san Febo, chiamato a leggere un brano dei Vangeli. XII sec.


arte delle antiche chiese/10

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eguendo il corso del fiume Pescara, tra l’Appennino e l’Adriatico, all’imbocco delle gole di Popoli si incontra la chiesa abbaziale di S. Clemente a Casauria: una costruzione isolata e appariscente, che mostra bene l’importanza del centro monastico cui era in origine legata. Non si trattava solo del cenobio piú importante tra quelli che sorgevano nell’area dell’attuale Abruzzo, ma di uno dei maggiori capisaldi del monachesimo benedettino della Penisola, in una posizione cardine molto delicata. Al tempo della sua fondazione, infatti, si situava nelle ultime propaggini del regno italico, ai confini del ducato longobardo di Benevento. La sua nascita, d’altronde, era stata determinata dall’imperatore in persona, e tale circostanza diede al monastero una grande volontà di affermazione e di difesa delle proprie prerogative, soprattutto nei frangenti piú difficili. L’istituzione seppe infatti resistere a invasioni, violenze, spoliazioni, terremoti, mantenendo le sopravvivenze del suo apogeo romanico, anche quando la sua importanza economica e sociale s’era ridotta.

La storia

Per ripercorrere le origini della chiesa, possiamo affidarci al racconto che essa stessa tramanda, con una chiarezza e un’abbondanza di dettagli davvero strepitose.

Attraverso le raffigurazioni della lunetta, dell’architrave e degli stipiti, il portale principale della facciata fornisce infatti una meticolosa versione scultorea delle vicende che hanno determinato la nascita del cenobio. Una narrazione che risponde pienamente alla volontà del committente, l’abate Leonate (1155-1182), che avviò il cantiere della facciata e del portico antistante nel 1176. Affermatosi nell’ambiente papale, dove rivestí le mansioni di cardinale e di suddiacono, Leonate si impose come il «restauratore» dell’abbazia, entrata in crisi a causa delle prepotenze dei signori normanni, spesso spalleggiati dal re. Ruggero II (1130-1154) si rifiutò di accettare la nomina dell’abate, ben sapendo che sarebbe stato una spina nel fianco. Infatti, l’abate aveva subìto in prima persona, come esponente della nobiltà locale, le perdite e le umiliazioni delle confische regie. Leonate poté finalmente assumere la carica solo un anno dopo la morte di Ruggero, potendo approfittare di una ribellione su larga scala dei baroni. Il nuovo abate incaricò il monaco Giovanni di Berardo di redigere una raccolta di tutti i documenti concernenti la storia del cenobio e prese cosí forma il Chronicon Casauriense, oggi conservato a Parigi, nella Biblioteca nazionale di Francia. La rassegna delle carte è completata da un racconto che si sviluppa a margine, componendo

Il portale stesso della chiesa offre una vivida rappresentazione delle vicende che portarono alla sua costruzione

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A destra e nella pagina accanto una veduta d’insieme e un particolare del portico della chiesa, sopra il quale fu edificato un oratorio, dedicato a san Michele Arcangelo (protettore degli ingressi).

pria, nello spazio soprastante al portico vi era un oratorio dedicato a san Michele Arcangelo (protettore degli ingressi), alla Santa Croce e a san Tommaso di Canterbury, ucciso pochi anni prima, nel 1170, per volontà di un sovrano: un martire dunque della prepotenza regia, chiamato in causa per le vessazioni subite da Casauria per mano di re Ruggero. L’ambiente del primo piano si presenta oggi come un raffinato spazio residenziale, illuminato da una seAR

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una cronaca delle vicende storiche di Casauria, che dà senso a tutto l’apparato documentario. E proprio questa narrazione, con le miniature che la corredano, fa da pendant alla rievocazione messa in atto nel vivo della realtà monumentale della chiesa. L’abate è raffigurato con ampia evidenza nella lunetta, secondo la tipica iconografia del committente che offre la chiesa al santo dedicatario. San Clemente è situato al centro, solennemente seduto e in posa benedicente, rivolto allo spettatore. La sua immagine ampiamente paludata è priva di qualsiasi riferimento alla sua qualifica di martire della cristianità, tanto che manca persino l’aureola. Egli viene ricordato a tutti gli effetti come sommo pontefice e sembra addirittura che sieda realmente in cattedra nel momento in cui si compie la visione. Ha l’aspetto di una figura viva, attuale, che richiede il dovuto omaggio a chi si accinge ad accedere nella sua corte. La chiesa, d’altronde, conserva le sue reliquie, e quindi san Clemente è «presente» a tutti gli effetti all’interno dello spazio sacro. L’epigrafe che correda la figura dell’abate tramanda un’invocazione che Leonate stesso rivolge al santo papa: offrendo a Clemente «templi» di dignità regia, si attende di ricevere come compenso la beatitudine eterna nei regni celesti. L’edificio è definito in forma plurale per esigenze compositive, ma la «licenza poetica» è comunque giustificata dal fatto che effettivamente c’erano due spazi di culto. Oltre alla chiesa vera e pro-

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arte delle antiche chiese/10 quenza di finestre bifore, ma proprio la raffigurazione inserita nel portale ci tramanda l’assetto originario della facciata, che era piú alta di quanto si vede ora, aveva un coronamento a spioventi ed era traforata al centro da un rosone finemente scolpito, con un diametro stimato di 4 m. Da questa ampia finestra la luce si diffondeva nell’oratorio, ma si espandeva anche nella navata centrale della chiesa, grazie alla galleria di tre arcate (triforio) che tuttora collega visivamente i due spazi sacri. La lunetta si completa a sinistra con le figure di due religiosi, il suddiacono San Cornelio e il diacono San Febo. Si tratta di due discepoli di san Clemente, noti agli agiografi (come lo stesso Jacopo da Varagine della Legenda aurea) per aver scoperto il luogo in cui era rimasto occultato il suo corpo. Piombato nelle profondità del mare con un’ancora appesa al collo, il martire poté rivelarsi grazie a un miracoloso ritiro delle acque, propiziato da un’invocazione pronunciata dai due santi chierici. Tuttavia, nel contesto della lunetta, essi assolvono a un ruolo ben preciso in rapporto alla realtà di Casauria. Impersonano cioè i celebranti della messa festiva che si tiene in una solenne ricorrenza proprio dedicata a san Clemente. Come è scritto nel libro sacro che reca con

sé, san Cornelio deve leggere una lettera che Clemente stesso ha indirizzato ai propri fedeli; san Febo deve invece leggere un brano dei Vangeli. Ed erano due le ricorrenze che venivano solennizzate a Casauria, quella del 28 gennaio (la festa della scoperta del corpo del santo) e quella del 24 giugno (per la traslazione del corpo), in accordo con una lettera decretale di papa Alessandro III, che proprio l’abate Leonate aveva ottenuto nel 1170. Passando all’architrave, l’aspetto celebrativo e rituale si fonda su una precisa sequenza di avvenimenti. Al centro si ripropone la chiesa di Casauria nell’assetto voluto da Leonate, completa della massiccia torre campanaria che un tempo affiancava la facciata. All’estremità sinistra dell’architrave, con un analogo effetto visivo, si nota invece una torre merlata con un ingresso monumentale alla base: come chiarisce una didascalia, si tratta di una evocazione sintetica di Roma. Infatti, pur avendo già nel IV-V secolo una basilica dedicata a san Clemente nei pressi del Laterano, l’Urbe era rimasta sfornita delle sue reliquie fino al IX secolo. Seguendo la versione fornita, tra gli altri, dal cronista Leone Ostiense (1050 circa-1115), queste erano giunte in Italia in maniera pressoché miracolosa. Ma occorre una premessa. A sinistra miniatura raffigurante i quattro re considerati protettori dell’abbazia di S. Clemente: da sinistra, Ugo, Lamberto, Lotario e Berengario, dal Chronicon Casauriense compilato dal monaco Giovanni di Berardo. 1182 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. Nella pagina accanto il portale principale della chiesa, le cui imposte bronzee furono commissionate dall’abate Gioele (1182-1191).

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Su ordine dell’imperatore Traiano, Clemente era stato deportato in Crimea, condannato ai lavori forzati (in una cava di pietra) e infine martirizzato in riva al Mar Nero. La morte del santo papa si consumò, per la precisione, su un’isola situata al largo di Cherson (Ucraina). In realtà, poco importa che il racconto nasca da una sovrapposizione con le vicende di un martire omonimo dell’Asia Minore, perché, già nel V secolo, questa era la versione dei fatti diffusa in tutta la cristianità e il missionario bizantino san Cirillo di Tessalonica (826/27869), in compagnia dell’arcivescovo locale Giorgio, salí in barca e si mise in cerca delle reliquie. Riuscí a trovarle chiuse in uno scrigno, facilmente identificabili grazie al soave profumo che emanavano. Le circostanze del ritrovamento furono poi esposte pubblicamente a Cherson, in presenza del governatore Niceforo, il 30 gennaio 861. Le ossa furono sistemate nella cattedrale, ma Cirillo e il fratello Metodio ottennero il permesso di condurle a Roma, sia perché l’Urbe era il luogo naturale di sepoltura del papa, sia perché il dono delle sacre ossa avrebbe facilitato i complessi rapporti con la Chiesa dell’Occidente. Poco tempo dopo il suo insediamento (14 dicembre 867), papa Adriano II poté cosí accogliere i due missionari con tutti gli onori, ricevendo come omaggio e segno di riverenza lo scrigno del corpo di san Clemente. Da qui parte il racconto dell’architrave di Casauria, dal momento che vediamo papa Adriano in persona mentre affida lo scrigno all’imperatore Ludovico II (855-875). Secondo questa narrazione, infatti, non solo Ludovico provvide alla nascita dell’abbazia, originariamente intitolata alla Santissima Trinità, ma ebbe modo di condurvi le preziose reliquie del santo papa. In realtà, se l’origine imperiale di Casauria è storicamente accertata (873), il culto di san Clemente fu probabilmente introdotto per iniziativa dei monaci in una seconda fase. Ma torniamo alla leggenda. Nella scena successiva, il sovrano è affiancato dal duca di Spoleto Suppo, che brandisce la spada appoggiandola alla spalla. Dopo aver ben legato lo scrigno alla groppa di un asino, Ludovico segue le sue orme. Secondo uno schema tipico delle leggende di fondazione, l’animale-guida fa da tramite al volere di Dio e conduce Ludovico a Casauria. Il luogo è contornato dalle acque del fiume Pescara, ma l’asino riesce comunque ad attraversare la corrente. Al prodigio assistono due monaci la cui esistenza è storicamente accertata: Celso (preposto alla gestione del patrimonio) e Beato, nominato abate nell’884. In un’epigrafe sottostante, leggiamo che «l’isola della Pescara» era una sorta di giardino meraviglioso, un vero paradiso, e poco importa che il fiume, in realtà, non ha mai formato un’isola propriamente detta. Era ben piú importante suggerire un nesso ideale con l’isola al largo di Cherson dove Clemente era stato martirizzato e sepolto. Individuato il luogo in cui conservare le reliquie,

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In alto particolare della decorazione del pulpito, realizzato con la supervisione di un monaco di nome frater Jacobus. 1180 circa. Nella pagina accanto veduta della navata centrale, con il pulpito sulla sinistra e, di fronte, il candelabro del cero pasquale.

occorre attivarsi per organizzare degnamente l’istituzione che deve custodirle. Il racconto prosegue cosí con la scena all’estremità destra dell’architrave. L’imperatore, affiancato nuovamente da un dignitario con la spada in mostra, si trova di fronte all’isola, raffigurata come una sorta di paniere con racemi ed elementi floreali che alludono a terre rigogliose. Sul lato opposto, il vescovo Grimbaldus rinuncia ai propri diritti sulla zona e il nobile Sisenandus cede la proprietà dei suoi fondi. Nella scena finale, Ludovico, con l’imposizione dello scettro, investe il primo abate del cenobio, Romano. La rappresentazione storica prosegue con le quattro figure regali degli stipiti. Esibiscono pergamene che forse erano corredate da iscrizioni dipinte, con i rispettivi nomi dei personaggi. Ma una miniatura del già citato Chronicon permette comunque di identificarli nel loro insieme. Sono quattro re che, in un periodo piuttosto difficile, hanno sostenuto e rafforzato l’abbazia: Lamberto (891-898), Ugo (926-945), Lotario II (945-950) e Berengario II (950-961). Le pergamene alludono dunque ai privilegi da loro concessi all’abbazia, mentre i Saraceni e gli Ungari imperversavano nel territorio, prefigurando le prepotenze dei Normanni.

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arte delle antiche chiese/10 Il successore dell’abate Leonate, Gioele (1182-1191), ha proseguito i lavori di ricostruzione della chiesa e, in particolare, ha commissionato le imposte bronzee del portale stesso, che si inseriscono perfettamente nel quadro della decorazione circostante. Nell’assetto attuale, dovuto a un restauro integrativo del 1933, mostrano 20 formelle con la raffigurazione schematica di un castello, ripetuta ogni volta senza alcuna variante, ma corredata da distinte epigrafi che «dichiarano» l’appartenenza all’abbazia, al momento della realizzazione, di uno specifico possedimento. Vi sono anche quattro formelle figurate che riprendono e arricchiscono il discorso storico. Ritroviamo cosí san Clemente e Ludovico II, ma vi sono anche l’abate Gioele e il sovrano in carica, il re normanno Guglielmo II (1166-1189).

La visita

L’apparato architettonico e scultoreo messo in atto da Leonate è di una finezza che trova pochi confronti. Siamo di fronte all’ingegno di un abate-committente degno di essere paragonato a Desiderio di Monte Cassino (1027 circa-1087) o a Suger di Saint-Denis (Parigi; 1081-1151). Purtroppo, una serie di terremoti che parte dal 1348 – fino a produrre danni, sia pure limitati e risolti, anche in tempi recentissimi, con il sisma de L’Aquila (2009) –, ha segnato la storia della chiesa, pressoché ricostruita in piú fasi, dal XV al XIX secolo, per essere poi radicalmente restaurata negli anni 1919-23. Rimangono sostanzialmente intatti il pianterreno del portico, la facciata, la cripta e il perimetro del transetto. Eppure, sebbene l’edificio sia stato ripetutamente interessato da ricostruzioni piú o meno estese, la ricomposizione o l’imitazione degli elementi della fase romanica ha permesso la sopravvivenza di un’immagine chiara ed eloquente di come si presentasse la chiesa nel suo momento di massimo splendore. In perfetto accordo con gli elementi superstiti dell’arredo liturgico, gli elaborati capitelli che decorano il portico e l’aula interna conferiscono alla struttura un senso di armonia complessiva, a dispetto delle sue tormentate vicende edilizie. Il pulpito e il candelabro del cero pasquale, in particolare, danno un grande senso di nobiltà alla visione dell’aula. Il primo, con una robusta struttura quadrata, è stato realizzato negli anni Ottanta del XII secolo, con la supervisione di un monaco, frater Jacobus. Si riconnette bene allo stile della decorazione architettonica promossa da Leonate, e ha una sua forza magnetica e fascinosa grazie al ripetersi di grandi rose che spiccano con una plasticità strepitosa, frutto di un virtuosistico lavoro di trapano, che tratta la pietra con gli stessi effetti di un’opera di oreficeria. Il candelabro risale invece al 1250 circa. La base istoriata e il fusto della colonna sono di reimpiego, ma il capitello e la solenne struttura a due ordini che

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lo sormonta (il bocciolo), con finissime lavorazioni a intaglio e decori a mosaico, sono stati appositamente realizzati da una bottega assai sensibile all’eredità formale del mondo antico, secondo i modi dell’arte di Federico II. Entrambi gli ordini del bocciolo, a sezione esagonale, sono contornati da un giro di sei colonnine sfalsate (quelle dell’ordine superiore sono andate tutte perdute), che fungevano da reggicandela. Ciò significa che, nella notte del Sabato Santo, non solo pioveva luce dal grande cero posto al culmine, ma anche da una doppia corona sottostante, composta complessivamente da 12 candele. L’effetto doveva essere assimilabile a quello di un grande lampadario, con un intenso gioco di luci che si riverberava sulle raffinate superfici sottostanti. Nel presbiterio si ammira invece il poderoso ciborio dell’altare maggiore. Un’antica epigrafe che funge da basamento informa che qui si trovano le reliquie di san Clemente. L’urna delle sacre ossa (un «pezzo» romano di reimpiego, in alabastro), oggi conservata nell’ala destra del transetto, è la stessa che troviamo raffigurata nella narrazione del portale di ingresso. Si trovava in precedenza nella cassa del sarcofago istoriato del IV secolo che funge tuttora da altare maggiore. Il ciborio soprastante, un elaborato lavoro in stucco «durissimo», ha in molti punti l’apparenza di un’opera del pieno Medioevo. I capitelli e gli architravi, per esempio, si allineano in modo abbastanza convincente allo stile degli arredi originali, ma si tratta, a ben vedere, di una realizzazione unitaria, che risale alla prima metà del XV secolo. Un chiaro indizio in tal senso, per esempio, è fornito dalla bella soluzione decorativa del lato frontale, con due tralci di andamento flesso che formano un oculo centrale, secondo forme e tecniche che rimandano ai modi del gotico fiorito. L’apparato attuale sostituisce un ciborio romanico anch’esso intagliato a stucco e probabilmente coinvolto nel crollo dell’antico soffitto a volta che interessava tutta l’estensione del transetto. La parte terminale della chiesa rientra nell’ultima fase costruttiva romanica (1200-1225 circa). La particolare cripta dal soffitto alquanto basso, con una fila di sostegni costituita da elementi eterogenei di reimpiego, è spesso ritenuta una componente superstite della chiesa primitiva (IX secolo), per via della sua assoluta semplicità, sia a livello planimetrico che strutturale, ma le indagini condotte sul «guscio» murario della sua abside hanno appurato che è stata realizzata solo quando il transetto attuale era stato già impiantato. Rimane quindi il duplice mistero dell’epoca effettiva in cui arrivarono a Casauria le reliquie di san Clemente, e su quale fosse l’aspetto della chiesa in età carolingia. Poiché la storia tace, rimane incontrastata la leggenda narrata nel portale principale. Proiettando la realtà del XII secolo nel piú remoto passato della fondazione, essa settembre

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Un’altra immagine della navata centrale. In primo piano, il candelabro per il cero pasquale e il pulpito; in secondo piano, l’altare maggiore, sormontato da un maestoso ciborio.

pone le reliquie alla base stessa della storia di Casauria, e propone la chiesa romanica di Leonate come una icona senza tempo, valida a raffigurare la realtà architettonica dell’edificio anche nella sua fase piú antica. F

NEL PROSSIMO NUMERO ● Campania: Napoli, S. Lorenzo Maggiore, Cattedrale, S. Chiara e S. Maria Donnaregina

NELLE PUNTATE PRECEDENTI ● Piemonte (n. 263, dicembre 2018); Valle d’Aosta (n. 264, gennaio 2019); Lombardia (n. 265, febbraio 2019); Veneto (n. 266, marzo 2019); Emilia-Romagna (n. 267, aprile 2019); Toscana (n. 268, maggio 2019); Umbria (n. 269, giugno 2019); Marche (n. 270, luglio 2019); Lazio (n. 271, agosto 2019)

Da leggere Laurent Feller, La fondation de San Clemente a Casauria et sa représentation iconographique, in Mélanges de l’Ècole française de Rome, 1982; anche on line su Persee.fr Elizabeth Bradford Smith, Models for the extraordinary: Abbot Leonate and the Façade of San Clemente a Casauria, in Arturo Carlo Quintavalle (a cura di), Medioevo: i modelli, Electa, Milano 2002; pp. 463-476 Francesco Aceto, San Clemente a Casauria. Le vicende

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architettoniche, in AA.VV., Dalla valle del Fino alla valle del medio e alto Pescara, Fondazione Cassa di Risparmio di Teramo, Pescara 2003; pp. 243-271 Francesco Gandolfo, San Clemente a Casauria. I portali e gli arredi interni, ibidem; pp. 272-297 Gaetano Curzi, La porta bronzea di San Clemente a Casauria e il suo contesto, in AA.VV., Art History. The Future is Now, Rijeka 2012; anche on line su Academia.edu

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MERCANTI

SENZA FRONTIERE TRAFFICI, COMMERCI E VIAGGI ALLE ORIGINI DELLA CIVILTÀ di Massimo Vidale

Fenomeno modernissimo eppure antichissimo: questo è il commercio, motore primo dell’economia. E dunque sinonimo di grande e piccola finanza, imprenditoria, globalizzazione e, soprattutto, monete e sistemi bancari. Ma non fu sempre cosí e, anzi, le forme embrionali dell’attività mercantile nemmeno si avvalevano dei soldi, basate com’erano sul baratto. È dunque una storia lunga e affascinante quella che Massimo Vidale racconta nella nuova Monografia di «Archeo», prendendo le mosse dal Vicino Oriente preistorico, dove l’archeologia colloca le prime testimonianze di transazioni regolari. Per svelare la sorprendente modernità di pratiche che, già allora, comprendevano registrazioni dei beni, «certificati» d’origine delle materie prime, affidamento delle spedizioni a vere e proprie compagnie specializzate… L’uomo insomma, seppe farsi mercator quasi subito dopo essersi fatto faber. Altrettanto velocemente, i nostri predecessori scoprirono gli effetti collaterali della nascente economia di mercato, perché commerci e scambi crearono progresso, solidarietà, nuovi modi di vita, ma anche rovinosi fallimenti e sopraffazione.

IN EDICOLA


di Paolo Golinelli, con contributi di Danilo Morini e Ilaria Sabbatini e un’intervista a Paolo Golinelli a cura di Federico Fioravanti

MATILDE DI CANOSSA

La contessa «femminista» Al nome di Matilde di Canossa viene immancabilmente associata l’umiliazione patita da Enrico IV alle porte del suo castello. In realtà, la contessa ebbe un ruolo ben piú incisivo nelle vicende italiane ed europee e si dimostrò capace di esercitare il proprio potere con una larghezza di vedute sorprendentemente moderna Matilde di Canossa a cavallo (particolare), olio su tela di Paolo Farinati. 1587 circa. Verona, Museo di Castelvecchio.


Dossier

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e immagini di Matilde di Canossa che ci sono state tramandate fin dal manoscritto originale della Vita Mathildis, scritta intorno al 1115 dal monaco e cronista Donizone, sono quelle di una persona vincente: lei in trono che riceve il dono del codice («O Matilde luminosa, accetta, ti prego cara, questo volume» si legge sotto la miniatura che raffigura la scena); lei che si fa intermediaria tra Enrico IV e Gregorio VII per l’assoluzione dell’imperatore a Canossa. Ma la sua vita privata non fu affatto facile, né sempre felice. Matilde nasce a Mantova nel 1046, ma a soli 6 anni la sua esistenza assume i contorni della tragedia: il padre, Bonifacio, marchese di Toscana, viene assassinato e, dopo che sono morti anche la sorellina Beatrice e il fratello Federico, lei è costretta a fuggire sola con la madre, Beatrice di Lorena, da una città che le sarà sempre ostile, perché mal sopportava il peso di conti tanto potenti, lí residenti. Poi deve assistere al matrimonio della madre con Goffredo il Barbuto, osteggiato dall’imperatore Enrico III, il quale fa prigioniere le due donne, portandole nel suo castello di Goslar, nell’alta Germania. Promessa sposa fin da bambina al fratellastro del patrigno, Goffredo il Gobbo, fu costretta a sposarlo a Verdun e a restare in Lorena con lui, in un’unione triste e sfortunata, segnata dalla morte di una bambina appena nata, Beatrice, il 29 gennaio 1071, e da una salute malferma in una terra per lei inospitale. Dopo un anno e mezzo di matrimonio, Matilde abbandonò il Gobbo, rifugiandosi dalla madre due volte vedova, e rifiutò di riconciliarsi col marito, benché fosse venuto in Italia per riaverla, e in suo favore fosse intervenuto persino Gregorio VII, il papa che Matilde tanto ammirava. Ecco la prima attualità di Matilde: una donna che resiste alle pressioni degli uomini, perfino dei piú potenti!

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Dal 1076 (all’indomani della morte della madre e dopo che Goffredo il Gobbo era rimasto vittima di un agguato tesogli mentre espletava i suoi bisogni corporali) Matilde si ritrova sola al governo di un grande dominio, che va dal Lago di Garda a Tarquinia, nel Lazio settentrionale.

La fedeltà dei vassalli

Si trattava di poteri che erano stati delegati ai suoi antenati dagli imperatori (da Ottone I a Corrado II il Salico) oppure acquisiti con alleanze e matrimoni, e di una grande massa di beni allodiali, cioè di proprietà private sue. Matilde governa questo grande dominio assicurandosi la fedeltà dei suoi vassalli, il sostegno di importanti monasteri – come S. Benedetto Polirone (tra il Po e il Lirone), che affidò ai monaci cluniacensi – e l’appoggio dei vescovadi e delle città, fin quando non scoppiò la lotta per le investiture. Si trattava in generale di vescovi-conti, che esercitavano un doppio mandato: religioso, in quanto vescovi, e politico, in quanto conti. Fino all’età di Gregorio VII la loro nomina veniva indifferentemente

del papa o dell’imperatore, che in quanto sovrano, incoronato e unto dal papa, godeva di una sua sacralità (regale sacerdotium). Nel riorganizzare la Chiesa, in senso romanocentrico, Gregorio VII non riconobbe piú i vescovi di nomina imperiale, imponendo la loro riconsacrazione papale. Ne nacque uno scontro, nel quale intervenne di peso Enrico IV, facendo deporre da 40 vescovi a Worms il papa, non eletto secondo i canoni, e che era oggetto di scandalo, perché si faceva consigliare da un «senato di donne», con riferimento alle sue consigliere Beatrice e Matilde, «os vulvae» («bocca di fica»), come scrive Benzone d’Alba. La conseguenza fu la stesura del Dictatus papae, che stabiliva la superiorità del pontefice su ogni altra autorità, e la conseguente scomunica dell’imperatore. Enrico IV allora, aiutato da Matilde, sua seconda cugina, e da Ugo di Cluny, suo padrino di battesimo, si presentò penitente a Canossa, dove il 28 gennaio 1077, dopo tre giorni al gelo, ottenne l’assoluzione da papa Gregorio. Meno di due settimane piú tardi, però, l’imperatore riaprí le ostilità,

Sulle due pagine Modena, Duomo. Particolari dei rilievi di Wiligelmo raffiguranti episodi narrati nel Libro della Genesi. Inizi del XII sec. A destra, Adamo ed Eva zappano ai piedi di un albero; nella pagina accanto, un telamone schiacciato dal peso di una mandorla nella quale è ritratto l’Altissimo

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rinnegando il giuramento fatto. A questo punto si pose per Matilde il problema di scegliere da che parte stare. Il suo dovere di vassalla le imponeva di schierarsi con l’imperatore, ma il suo ideale religioso la obbligava ad appoggiare il papa. Quest’ultimo prevalse, anche contro il suo stesso interesse, con una scelta tipicamente femminile, di donne che antepongono l’ideale al tornaconto, aliene da compromessi. E anche questo la rende attuale. Le conseguenze della scelta furono drammatiche: mentre Matilde veniva privata dei poteri feudali che le derivavano dall’essere vassalla dell’imperatore, tutte le città del suo dominio, governate da vescovi filoimperiali, l’abbandonarono; della rete dei suoi castelli solo quattro le rimasero fedeli: Nogara, nel Veronese, Piadena, nel Cremonese, Monteveglio, nel Bolognese e Canossa. Nel 1090 Enrico IV sferrò un attacco poderoso contro Matilde: da Nogara, che gli resistette, si portò all’assedio di Mantova, che, dopo sei mesi, si consegnò all’imperatore. Assediò quindi Monteveglio, non riuscendo a conquistarlo, e da qui si volse direttamente alla volta del castello di Canossa. Era ottobre e una nebbia fittissima avvolse le truppe imperiali, che si fecero circondare dai contingenti matildici, esperti del territorio, i quali inflissero loro una cocente sconfitta a Madonna della Battaglia (ottobre 1092).

Scelte lungimiranti

Matilde si dimostrò allora una sovrana illuminata, capace di assicurarsi il sostegno dei suoi collaboratori, i vassalli minori. Aveva intorno a sé una schiera di vassalli fedelissimi: Arduino della Palude (Palidano); Guido Guerra (Lucca e Pistoia), Amedeo di Nonantola, Ubaldo di Carpineti, Pietro de Ermengarda (Bologna), Pagano di Corsena (Bagni di Lucca), Alberto di San Bonifacio (Verona), e molti altri, disposti a fare di tutto per lei.

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Nella circostanza, Matilde ci appare come un’alta dirigente di oggi, che sa guadagnarsi la stima e la fiducia dei suoi sottoposti, considerandoli collaboratori e non dipendenti. Matilde, donna indipendente, che prende posizione e si fa necessariamente dei nemici, si trovò attaccata proprio sul piano personale, in quanto donna. Ciò emerse in particolare quando, spinta da Urbano II, decise di sposarsi per la

seconda volta e, nonostante avesse superato i quarant’anni d’età, scelse il sedicenne Guelfo V di Baviera. Oltre all’appoggio di una famiglia potente, c’era in lei la speranza di dare alla luce un erede, ma il ragazzo si rivelò impotente. Un fatto che alimentò le maldicenze e, probabilmente, ispirò le pantomime che si recitavano sulle piazze e nei mercati in suo dileggio, come si ricava dalla narrazione delle prime tre notti

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Dossier di matrimonio scritta da Cosma di Praga intorno al 1120. Ancora una volta Matilde si mostra come una figura moderna, perfino negli aspetti negativi: anche oggi, infatti, la donna che riesce ad arrivare a posizioni di potere viene attaccata dai suoi avversari non per come lo gestisce, ma solo perché è donna, e, in quanto tale, viene diffamata e colpevolizzata sul piano personale e soprattutto sessuale. Matilde, però, non si fece scoraggiare, né venne meno ai suoi intenti: uscita vincitrice dallo scontro con Enrico IV, riconquistò progressivamente le sue città, senza consumare vendette, ma contribuendo al rinnovamento e al progresso delle stesse. Seppe avvalersi di due strumenti estremamente moderni: la comunicazione e la valorizzazione del lavoro delle persone. Per la prima ebbe al suo fianco intellettuali di valore, giudici, sacerdoti, monaci e una cancelleria efficiente, che usava per i suoi documenti gli stilemi propri dei

Sulle due pagine, in alto miniature tratte dal manoscritto originale della Vita Mathildis di Donizone. 1115. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. A destra, Beatrice di Lorena, madre di Matilde; nella pagina accanto, suo padre, Bonifacio, marchese di Toscana. In basso i resti del castello di Canossa, su una rupe dell’Appennino reggiano.

sovrani e un logo (diremmo oggi) estremamente significativo: la scritta «MATILDA DEI GRATIA, SI QUID EST» («Se Matilde è qualcosa, lo è per grazia di Dio») nei quattro spazi di una croce. Questo «logo» esaltava la sua fede, richiamando un pas-

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so di san Paolo, ma ne affermava al contempo l’indipendenza: quello che aveva le era stato dato da Dio, non dall’imperatore! Sulla vicinanza di Matilde al mondo del lavoro, anche di quello piú umile, siamo documentati innanzitutto dal fatto che volle liberi dal servaggio della gleba (la schiavitú medievale) molti suoi servi e molte sue ancelle (lo scrive Donizone), e poi dalle immagini del duomo di Modena, costruito e decorato da Wiligelmo sotto la sua sovrintendenza. Nelle storie del Libro della Genesi riprodotte in facciata il «la-

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i signori di canossa

L’ascendenza Sigifredo da Lucca Atto Adalberto sposa Idegarda (Supponidi)

Rodolfo

Gotifredo (vescovo)

Tedaldo (988-1012) Sposa Guilia

Tedaldo (vescovo)

Corrado

Bonifacio (1012-1052) Sposa in II nozze Beatrice di Lorena (?-1076)

Beatrice muore in giovane età

Federico muore in età minore nel 1053 (la dinastia si estingue in linea maschile)

voro dei progenitori» è rappresentato con Adamo ed Eva che zappano ai piedi di un albero in perfetto parallelismo, con un’idea di parità tra uomo e donna altrove impensabile nel Medioevo (normalmente Adamo zappa ed Eva tiene il fuso e ha sulle ginocchia Caino e Abele, come sulla facciata di S. Zeno a Verona). La pesantezza del lavoro è poi sottolineata in un’iscrizione accanto a un telamone che regge una mandorla con l’Altissimo: «Costui è schiacciato, costui implora, geme costui, egli troppo fatica» («Hic premitur / Hic plorat / Gemit hic / Nimis iste laborat»). La costruzione del nuovo duomo era stata probabilmente illustrata in affreschi poi andati perduti, ma ricopiati nel bifolio che racchiude la Relatio translationis di san Geminiano, il vescovo protettore di Modena. E due delle quattro miniature mostrano gli operai intenti alla costruzione, con l’architetto Lanfranco,

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Matilde (1046-1115) Sposa (1) nel 1069 Goffredo il Gobbo (nasce una figlia che muore in tenera età); (2) nel 1089 Guelfo V di Baviera

mentre le altre due raffigurano il corteo papale e Matilde che l’accoglie, nonché la traslazione stessa.

In cerca di protezione

In altre occasioni Matilde si mostrò meno moderna, per esempio nel costante bisogno di un protettore maschio, o nel volere un erede a tutti i costi, oppure nel sostenere un papa, Gregorio VII, che oggi definiremmo un reazionario accentratore. La «rivoluzione» (come ha scritto Glauco Maria Cantarella) da lui attuata aveva generato una Chiesa romanocentrica, che tolse ogni autonomia ai patriarcati e alle arcidiocesi, né il pontefice si preoccupò di recuperare la Chiesa orientale, separatasi nel 1054; Gregorio VII volle un clero secolare identico a quello regolare, imponendo il celibato ecclesiastico, quando per mille anni i preti si erano sposati; impose l’obolo di san Pietro, come tributo

annuale di regnanti, vescovadi e grandi abbazie, per un ideale di chiesa ricca e potente nel mondo, e pronta alle crociate.

Da leggere Paolo Golinelli, Toujours Matilde: la perenne attualità di un mito, in Renata Salvarani, Liana Castelfranchi (a cura di), Matilde di Canossa, il papato, l’impero. Storia, arte, cultura alle origini del romanico, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2008; pp. 242-253 Adriano Peroni, Francesca Piccinini (a cura di), Romanica. Arte e liturgia nelle terre di San Geminiano e Matilde di Canossa, Franco Cosimo Panini, Modena 2006 Paolo Golinelli, Matilde e i Canossa, Mursia, Milano 2007

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Dossier cronologia

Una vita in 20 date 951 Adalberto Atto, capostipite dei Canossa, difende la regina Adelaide dall’assedio di Berengario II e la fa poi sposare a Ottone I, re di Germania, che cosí rifonda l’impero. Grato dell’aiuto ricevuto l’imperatore investe i Canossa delle contee di Reggio Emilia, Modena e Mantova. Comincia l’ascesa della loro dinastia. 1007 Tedaldo, suo figlio, fonda il monastero di S. Benedetto Polirone, al centro del Po, per controllarne la navigazione. Quindi, morto il padre nel 1012, Bonifacio trasferisce, con la prima moglie Richilde, la sua residenza a Mantova. 1027 L’imperatore Corrado II il Salico investe Bonifacio della marca di Toscana. Il suo dominio va cosí dal Lago di Garda al Lazio settentrionale (Tarquinia), occupando parte della Lombardia meridionale, l’Emilia centrale, tutta la Toscana – con propaggini in Umbria – e il Viterbese. 1040 circa Rimasto vedovo di Richilde nel 1036, Bonifacio sposa Beatrice di Lorena, figlia di Federico, duca dell’Alta Lotaringia. Rimasta orfana del padre, morto nel 1033, era stata accolta con la sorella Sofia dalla zia, Gisella, moglie dell’imperatore Corrado II, molto vicino al signore di Canossa. 1046 Nasce Matilde, probabilmente a Mantova. Altre città si fregiano dell’onore di averle dato i natali, come Canossa, Reggio Emilia, Ferrara, persino San Miniato al Tedesco (Pisa). Ma in quegli anni padre e madre erano stabili a Mantova, dove ricevettero l’imperatore Enrico III e Goffredo il Barbuto, che diverrà secondo marito di Beatrice. 1052 Bonifacio viene assassinato, a San Martino all’Argine (nel Mantovano), durante una battuta di caccia; e, poco dopo, perdono la vita, in circostanze misteriose, anche la sorella di Matilde, Beatrice, e il fratello Federico. 1054 Beatrice di Lorena, vedova di Bonifacio, sposa il cugino Goffredo il Barbuto, anch’egli vedovo e padre di Goffredo il Gobbo, a cui Matilde viene promessa

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sposa. L’imperatore Enrico III non approva il matrimonio e imprigiona Beatrice e Matilde, a Goslar. Solo dopo la sua morte, nel 1056, le due donne possono tornare in Italia e ricongiungersi con Goffredo il Barbuto (1057). In Germania l’imperatrice Agnese assume la reggenza per il figlio Enrico IV, minorenne (era nato nel 1050). 1059 Con il decreto sull’elezione dei pontefici (De eligendo pontifice), papa Niccolò II stabilisce la regola del conclave dei cardinali, dal quale sono esclusi tutti i laici. In precedenza il papa, vescovo di Roma, veniva eletto dall’assemblea dei chierici e dei laici della città. Dopo di che doveva essere riconosciuto dall’imperatore, in base al Privilegium Othonis (di Ottone I). 1069, fine Goffredo il Barbuto muore a Verdun. Al suo capezzale si celebra il matrimonio tra Goffredo il Gobbo e Matilde. La neosposa resta in Lorena e Beatrice torna in Italia. Matilde dà alla luce Beatrice, che muore poco dopo il parto. Fonda l’abbazia di Orval (presso Florenville, Belgio Vallone), alla quale arrivano monaci dalla Calabria. Contemporaneamente, nel 1071, la madre Beatrice fonda l’abbazia di Frassinoro, nell’Appennino modenese. Le due fondazioni adempiono al voto della madre e di Goffredo il Barbuto di osservare la castità (data la parentela che non avrebbe consentito la loro unione) o, se non osservata, di fondare appunto due monasteri. Nel gennaio del 1072 Beatrice e Matilde sono insieme a Mantova. Goffredo il Gobbo cerca inutilmente di riconciliarsi con la consorte. 1073 Gregorio VII diventa papa, eletto con acclamazione popolare. Inizia la lotta per le investiture: Nel sinodo quaresimale del 1075 Gregorio VII scomunica i vescovi di nomina imperiale. Il 24 gennaio successivo Enrico IV convoca la dieta di Worms, che dichiara Gregorio VII deposto, perché non eletto secondo i canoni. A questo punto Gregorio VII fa comporre settembre

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Un’altra miniatura tratta dal manoscritto originale della Vita Mathildis di Donizone. 1115. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. È qui ritratta la stessa Matilde, in trono, tra il monaco Donizone e il suo vassallo Arduino della Palude.

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Dossier cronologia il Dictatus papae, e, in base ai principi teocratici lí enunciati, il 22 febbraio, festa della cattedra di san Pietro, scomunica l’imperatore. Il 26 febbraio 1076, a Vlaardingen (Olanda meridionale), muore assassinato Goffredo il Gobbo, marito separato di Matilde. Il 18 aprile muore a Pisa la madre Beatrice. Matilde è sola al comando della sua marca. 1077 Incontro di Canossa: dopo una dura 28 gennaio penitenza, Enrico IV viene assolto da papa Gregorio VII. Il pentimento si mostra subito falso, e, dopo 15 giorni, l’imperatore riprende le ostilità contro il papa e Matilde, cercando di farli prigionieri. 1080 Il 7 marzo Gregorio VII scomunica nuovamente Enrico IV, ma senza effetto; e il 25 giugno, a Bressanone, i vescovi filoimperiali scelgono come pontefice

l’arcivescovo di Ravenna, Guiberto, che prende il nome di Clemente III. L’anno dopo Enrico IV scende in Italia per essere incoronato imperatore da Clemente III, ma Matilde si rifiuta di fornirgli la scorta, ed Enrico, a Lucca, la condanna per lesa maestà, destituendola da tutti i poteri di vassalla dell’impero. Nell’estate del 1081 Matilde viene sconfitta dalle milizie imperiali a Volta Mantovana. 1084 Enrico IV espugna Roma, dove insedia l’antipapa Clemente III; Gregorio VII abbandona la città e si rifugia a Salerno, presso Roberto il Guiscardo, dove muore il 25 maggio 1085, pronunciando la famosa frase: «Amai la giustizia e odiai l’iniquità, per questo muoio in esilio». 1089 Matilde sposa il sedicenne Guelfo V di

Miniatura raffigurante Matilde di Canossa che va incontro al vescovo di Modena, Dodone, dalla Relatio de Innovatione Ecclesie Sancti Geminiani. Inizi del XII sec. Modena, Archivio capitolare.

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1095 Urbano II bandisce la crociata, prima a Piacenza, poi a Clermont Ferrand. 1096, A Lucca il papa incontra i capi di un ottobre/ esercito crociato, presente Matilde, che novembre fornisce l’accompagnamento a Urbano II sino a Roma. Nel 1099 i crociati conquistano Gerusalemme. 1099-1106 Comincia la riconquista delle città da parte di Matilde di Canossa: a Modena, con la sua protezione, si inizia la costruzione della nuova cattedrale di Lanfranco architetto e Wiligelmo scultore; a Parma Matilde riconquista la città e vi insedia come vescovo il vallombrosano Bernardo degli Uberti; a Guastalla si riunisce il concilio. Mantova resterà però autonoma sino al 1114. 1106, Enrico IV muore di crepacuore, per il 17 agosto tradimento del figlio, Enrico V, che l’ha imprigionato e ha preso il potere. Il nuovo imperatore sembra cercare un accordo con il papa Pasquale II, basato sulla differenziazione dei ruoli nella investitura Il «logo» che Matilde apponeva in calce ai suoi documenti: una dei vescovi-conti: al papa l’investitura croce nei cui quattro spazi correva la scritta «MATILDA DEI GRATIA religiosa, all’imperatore quella politica. SI QUID EST» («Matilde se è qualcosa lo è per grazia di Dio»), 1111 Enrico V scende in Italia alla fine del frase che, ispirata a san Paolo, esaltava la fede della contessa, 1110, e Matilde gli fornisce la scorta ma, al tempo stesso, ne ribadiva l’autonomia. sino a Roma, ma qui egli fa prigionieri il papa e il suo seguito. Matilde fa Baviera, su suggerimento di papa Urbano intervenire Arduino da Palude, ottenendo II, per superare la solitudine nella quale la liberazione dei suoi fedeli, ma non del era venuta a trovarsi, dopo la morte a papa, rilasciato solo dopo avere rinunciato Mantova anche del suo fedele consigliere a impedire le investiture laiche e accettato Anselmo, vescovo di Lucca in esilio il 18 di incoronare l’imperatore. Sulla via del marzo 1086. Il matrimonio fallisce per ritorno in Germania, il 21 maggio, Enrico V l’impotenza del ragazzo. si ferma a Bianello (Quattro Castella), ove 1090-1092 Guerra di Enrico IV contro Matilde e si stipula un accordo con la contessa che i suoi sostenitori. Assedio e caduta prevedeva il rientro di Matilde nel dominio di Mantova (Settimana Santa del della marca, col titolo di sua vassalla 1091); assedio dei castelli matildici nell’Italia settentrionale, e probabilmente di Monteveglio (Bologna) e Canossa. la nomina di Enrico a suo erede. Scontro a Madonna della Battaglia, 1115, Matilde muore a Bondanazzo di Reggiolo. e sconfitta definitiva dell’imperatore 24 luglio Si fa seppellire nell’abbazia cluniacense di (ottobre 1092), che sverna nel Veneto, S. Benedetto Polirone, fondata nel 1007 toglie l’assedio alle terre matildiche e da suo nonno Tedaldo e da lei prediletta. torna in Germania ai primi del 1097. 1116 Enrico V scende in Italia per prendere Nella lotta Matilde ha perso la Toscana possesso dell’eredità della contessa (Bando di Lucca), Mantova e diverse città Matilde, assieme alla sua giovanissima dell’Emilia (Parma, Modena, moglie, Matilde d’Inghilterra, figlia di Reggio, Bologna, Ferrara). Enrico I Beauclerc e di Edith di Scozia.

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Dossier

LA DUPLICE LETTURA DI UN EVENTO MEMORABILE

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he cosa fu l’incontro di Canossa? Se ci si attiene ai fatti e alla prassi medievale della penitenza, si trattò solamente del pubblico pentimento di un altrettanto pubblico peccatore, secondo i canoni in uso da tempo, e che nell’XI secolo prevedevano la pubblica ammenda per peccati o ribellioni che avessero appunto avuto una portata pubblica, e penitenza privata per i peccati individuali, che non avevano dato pubblico scandalo. Questo doppio regime aveva soppiantato la prassi penitenziale della tarda antichità e del primo Medioevo, imperniata sull’Ordo poenitentium e sulla riammissione nella comunità dei peccatori durante i riti del Giovedí Santo. A cavallo dell’anno Mille, la penitenza pubblica era divenuta una prassi rara, ma non desueta; per esempio, nel 1043, ne fu protagonista l’imperatore Enrico III in occasione dei funerali della madre, Gisela: «Lasciata ogni porpora regale, messosi l’abito lugubre del penitente, con le braccia aperte a forma di croce, davanti a tutto il popolo si stese a terra, e rigò con le sue lacrime il pavimento. E cosí facendo penitenza soddisfece i sacerdoti del Signore e placò la misericordia divina».

A piedi nudi e con la veste da penitente

Sono i gesti penitenziali che compí anche Enrico IV a Canossa, secondo quanto riportano quasi concordemente le fonti coeve, con in piú la durata dell’evento e le aspre condizioni atmosferiche, che resero la penitenza piú dura, ma non dissimile nelle forme: la veste da penitente, i piedi nudi, il digiuno, le lacrime, la prosternazione a terra, nonché la presenza di altre persone e il loro intervento per la concessione dell’assoluzione. Quello di Enrico IV non fu altro che un atto penitenziale, compiuto per ottenere l’assoluzione secondo una prassi consolidata, destinata a protrarsi ancora per almeno un secolo; ma aveva un profondo valore politico, perché gli consentiva di riprendere il suo potere. Perché, allora, si parla tanto di umiliazione del re o di vittoria del papa? Perché si era nel pieno della lotta per le investiture e della «rivoluzione» di papa Gregorio VII. Per questo le fonti coeve ne enfatizzarono l’importanza. Tuttavia, l’episodio non fu che una «pausa oggettiva» nella lotta in corso. Come già ricordato, dopo quindici giorni, infatti, Enrico IV riprese la

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In alto miniatura raffigurante Enrico IV che prega Matilde di Canossa e Ugo di Cluny, affinché intercedano per lui presso papa Gregorio VII, dalla Vita Mathildis di Donizone. 1115. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. A sinistra Enrico davanti a Canossa, olio su tela di Eduard Schwoiser. Dopo il 1852. Monaco, Stiftung Maximilianeum.

guerra contro Gregorio VII e i suoi sostenitori, prima fra tutti Matilde di Canossa, che si trovò abbandonata dalle città e da molti vassalli. A lei rimasero fedeli solo i castelli di Nogara, Piadena, Monteveglio e Canossa. Enrico IV cercò invano di assediare la bianca rupe, ma Matilde riuscí a prevalere, perché meglio conosceva queste cime e queste valli, e ottenne la vittoria di Madonna della Battaglia (1092). Nella Vita Mathildis, Donizone raccontò cosí l’incontro di Canossa: «Comprendendo il sovrano che cosí regnar non poteva, domandò a Matilde, sua seconda cugina, di far sí che il papa da Roma venisse in Longobardia perché egli avrebbe impetrato il perdono e compiuto ogni sua volontà, senza piú esitare. Dinnanzi alla supplica della contessa Matilde, il papa concesse ciò ch’ella chiedeva: lasciò dunque Roma il degno pastore e venne a Canossa. Con dignità la Contessa accolse il vicario di Pietro, cogliendo dalle sue parole la rugiada della salvezza. Giunse poi il re Enrico, col seguito della contessa Matilde, (segue a p. 100)

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Dossier

Sulle due pagine xilografie realizzate da Lucas Cranach il Vecchio per l’opera Passional Christi und Antichristi, pubblicata nel 1521 da Martin Lutero. Si tratta di un pamphlet nel quale il teologo tedesco ribadí con forza le sue critiche nei confronti del papato, che, trasformatosi in un’istituzione corrotta e corruttrice, incarnava, per il padre del protestantesimo, l’Anticristo stesso.

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Idee che Cranach tradusse in tredici coppie di incisioni. Nella prima immagine il pontefice è appunto immaginato come l’Anticristo, che obbliga l’imperatore e gli altri potenti della terra al Fusskuss, il bacio dell’alluce «gottoso». All’arroganza del papa fa da contraltare, nella seconda immagine, la lavanda dei piedi, che Gesú fece ai suoi apostoli nell’Ultima Cena.

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Dossier e giunse una folla di gente, per l’evento solenne: una Roma novella si fece di me, dinnanzi ad eventi sí grandi. (…) Fecer discorsi di pace questi illustri signori, e poiché dopo tre giorni trascorsi a parlare di pace, la pace non era raggiunta, il re avrebbe voluto tornarsene indietro; si recò egli allora alla cappella del santo Nicola a pregare piangendo l’abate Ugo di farsi garante per lui che la pace avrebbe tenuto. “Non m’è permesso” al re rispose l’abate; Matilde, presente sul luogo, rinnovò la preghiera, ma Ugo ad ella rispose: “Nessun potrà farlo, se non lo fai tu”. Allora, in ginocchio, il re si rivolse a Matilde: “Se tu non mi aiuti in questo momento, non potrò piú combattere, perché il papa mi ha condannato; o valente cugina, fa’ ch’egli mi benedica!” Ella s’alzò promettendo al re d’aiutarlo ed uscí a salire in alto alla rocca, mentre il re rimaneva giú in basso. Illustrò dunque al papa le intenzioni del re. Alle parole sincere dell’illustre Contessa; il papa credette, solo volle che il re in persona giurasse a lui fedeltà e alla Sede Romana. Il re fece quanto voleva il papa Gregorio. In quell’anno gennaio aveva portato piú neve del solito, ed un freddo pungente ed intenso. Sette giorni avanti la fine, il papa concesse che venisse al suo cospetto il sovrano, nudi i piedi, gelati dal freddo. A terra prostrato in forma di croce dinnanzi al papa, il re supplicò: “Perdonami, o padre beato; o pio, perdonami, te ne scongiuro”. Vedendolo sí lacrimare, il papa provò compassione: lo benedisse, gli diede la pace ed infine cantò una messa per lui, gli diede la comunione e sull’arce di me Canossa pranzò con lui. Poi dopo ch’egli ebbe giurato lo congedò. (Donizone, Vita di Matilde di Canossa, Jaca Book, Milano 2008; pp. 129-133). Per altri l’incontro di Canossa non fu un avvenimento cosí importante per la storia: per tutto il Basso Medioevo venne quasi dimenticato e la figura stessa di Matilde ridotta a protettrice del papato in forza della cosiddetta donazione dei suoi beni alla Chiesa di Roma. L’affermazione dell’evento nella cultura e nella storiografia avvenne, invece, con la Riforma protestante, che ne fece un ideale polemico fin dal primo, diffusissimo pamphlet della propaganda luterana, il Passional Christi und Antichristi, del 1521. Qui l’episodio del Fusskuss, il bacio dell’alluce «gottoso» del papa da parte dell’imperatore, disegnato da Lucas Cranach il Vecchio, viene messo in parallelo col Füsse washen Christi, la Lavanda dei Piedi, che Gesú fece agli apostoli, durante l’Ultima Cena. Da allora la penitenza di Canossa è diventata uno dei

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principali motivi della polemica cattolicoprotestante, sia nelle biografie di Enrico IV, sia nei Centuriatori di Magdeburgo (nome che designa gli autori di una storia della Chiesa fino al XII secolo, suddivisa in 13 volumi, uno per «centuria», o secolo, composta a Magdeburgo e pubblicata a Basilea dal 1559 al 1574, n.d.r.) e nelle storie della Chiesa di protestanti e anglicani, fino a divenire proverbiale nel discorso pronunciato da Ottone di Bismarck il 14 maggio 1872: «Noi non Incisione di Nicolas Lesueur andremo a Canossa, raffigurante Enrico IV ai piedi di né con il corpo né con Gregorio VII, da un originale di lo spirito» («Nach Ca- Federico Zuccari. 1729. Parigi, nossa gehen wir nicht Bibliothèque nationale de France. – weder körperlich noch geistig»). Parole che trapassano fatalmente nella politica e anche nel modo di parlare, per cui «andare a Canossa» significa pentirsi e tornare sulle proprie decisioni, soprattutto da parte di grandi personaggi. Oggi «Andare a Canossa» vuol dire visitare uno dei piú bei paesaggi storici, nei quali la bellezza della natura si sposa con la storia, qui ben rappresentata dai castelli medievali eretti tutt’intorno, e dal ricordo di quel famoso incontro del gennaio 1077 tra il papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV, auspice la contessa Matilde di Canossa.

Da leggere Harald Zimmermann, Canossa 1077. Storia e attualità, E.T.E., Reggio Emilia 2007 Eugenio Riversi, La memoria di Canossa. Saggi di contestualizzazione della Vita Mathildis di Donizone, ETS, Pisa 2013 Stefan Weinfurter, Canossa. Il disincanto del mondo, Il Mulino, Bologna 2014 Paolo Golinelli, Matilde dopo Matilde (1115-2015), in Michèle Spike (a cura di), Matilda di Canossa (10461115). La donna che mutò il corso della storia, Centro Di, Firenze 2016; pp. 41-47.

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Ultimissime su Matilde Incontro con Paolo Golinelli, a cura di Federico Fioravanti

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aolo Golinelli è autore di una nutrita serie di studi sulla contessa Matilde, tra i quali l’edizione e traduzione della Vita Mathildis di Donizone (Jaca Book, 2008) e di una fortunata biografia, Matilde e i Canossa (Mursia, 2007), tradotta anche in tedesco e in francese. Viene oggi considerato il maggiore studioso matildico a livello internazionale e lo abbiamo incontrato in occasione della realizzazione di questo Dossier. Professor Golinelli, normalmente, per argomenti tanto studiati come la storia di Canossa e di Matilde, gli storici presentano nuove interpretazioni. Lei invece, proprio per Matilde di Canossa, può vantare di aver fatto nuove scoperte. Ci può dire di che cosa si tratta? «È vero, molte sono le interpretazioni che nascono dai

nuovi interessi e dalle nuove metodologie degli storici; fortunatamente, però, esiste ancora la possibilità di scoprire notizie totalmente inedite. Nel caso di Matilde, si tratta di nuovi episodi della sua biografia, o di elementi legati al suo mito e alla sua iconografia, che non è solo un fatto artistico, ma culturale e storico. Per quel che riguarda il profilo biografico, avanzai tempo fa l’ipotesi che Matilde non avesse avuto un figlio, come si credeva, bensí una figlia, di nome Beatrice. L’ipotesi mi era stata suggerita dall’atto di fondazione dell’abbazia di Frassinoro, nell’Appennino modenese, voluta dalla madre della contessa, per l’anima dell’omonima nipote (29 agosto 1071). Fino ad allora si era pensato che fosse nipote di zia (figlia della sorella di Beatrice di Lorena, Sofia), ma controllai le date, e scoprii che questa Beatrice era scomparsa vent’anni dopo, e non

In alto il castello di Bouillon, sul fiume Semois (Belgio) dove Matilde soggiornò con Goffredo il Gobbo all’indomani del matrimonio.

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In alto l’abbazia di Frassinoro, nell’Appennino modenese, fondata per volere di Beatrice di Lorena, madre di Matilde, nel ricordo della nipote scomparsa subito dopo la nascita. Sulle due pagine i resti dell’abbazia di Orval, fondata in Lorena da Matilde di Canossa.

nel 1071. Ne conseguiva che la bambina defunta doveva essere nipote di nonna, quindi figlia di Matilde. Alcuni anni piú tardi, un appassionato locale, Roberto Albicini, trovò, in un manoscritto cinquecentesco della Biblioteca Ariostea di Ferrara, l’elenco delle persone per le quali si doveva pregare nell’abbazia di Frassinoro, e, al 29 gennaio, c’era scritto “Beatrice figlia di Matilde”. La mia ipotesi veniva cosí confermata come una certezza: mentre si trovava in Lorena, Matilde aveva avuto una bambina, Beatrice, che morí in fasce il 29 gennaio 1071 e la cui nonna fondò l’abbazia di Frassinoro affinché i monaci pregassero per la sua anima: “Per il bene della mia anima, di quella del defunto marchese e duca Bonifacio, un tempo mio marito, e per l’incolumità e l’anima di Matilde, diletta figlia mia, e per la grazia dell’anima del defunto duca Goffredo, mio marito, e per la grazia dell’anima della defunta Beatrice mia nipote”. Come ho detto, a quel tempo Matilde si trovava ancora presso il marito Goffredo il Gobbo, e Beatrice di Lorena era preoccupata per la sua “incolumità”, come scrive piú volte in quel documento». Del periodo che Matilde trascorse in Lorena non si conosce molto. Che cosa ha scoperto in merito?

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«In un primo momento, il fatto che Matilde avesse avuto una figlia e non un figlio non mi sembrò rilevante; ma in seguito, anche grazie all’incontro con una studiosa esperta delle donne lorenesi, Sally Vaughn, dell’Università di Houston nel Texas, la scoperta mi aprí gli occhi su un mondo in Italia sconosciuto: quello di Matilde in Lorena e della fondazione dell’abbazia di Orval. Dalla Lorena veniva sua madre, Beatrice, che quando rimase vedova del padre di Matilde, Bonifacio di Canossa, ucciso in un’imboscata nel 1052, si risposò con un parente lorenese, Goffredo il Barbuto, anch’egli alle sue seconde nozze, e padre di un bambino, Goffredo il Gobbo. All’unione dei genitori seguí anche la promessa di matrimonio per i due bambini, assieme al voto di un’unione casta tra gli sposi e all’impegno di fondare due monasteri se non l’avessero rispettato. Alla fine del 1069 Goffredo il Barbuto, ammalato, si ritirò a Verdun, in Lorena, volle con sé tutta la famiglia, e, prima di morire, fece sí che venisse celebrato il matrimonio di Matilde col Gobbo.

Dopo la sua morte, Beatrice tornò in Italia per occuparsi del proprio dominio, e Matilde restò col marito probabilmente a Bouillon (Belgio meridionale), dove il padre aveva costruito l’immane castello che ancora domina l’abitato, su un’ansa della Semois. Matilde rimase incinta e, alla fine del 1070 o poco dopo, partorí la piccola Beatrice, che morí quand’era ancora neonata. Le conseguenze del parto dovettero essere particolarmente dolorose per Matilde, lasciando in preda all’ansia la madre lontana. Quest’ultima si ricordò allora del voto non ancora adempiuto e fondò l’abbazia di Frassinoro, mentre in Lorena Matilde fece fondare quella di S. Maria di Orval, come è documentato da un atto del 1124, nel quale si ricorda che essa fu fondata cinquant’anni prima “iussu Mathildis machionissae cuius erat fundamentum illius loci” (“per ordine della marchesa Matilde, della quale erano le fondamenta di quel luogo”). Quando mi recai la prima volta a Orval, sembrava che nessuno sapesse alcunché di Matilde, nonostante nella parte antica

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Dossier A sinistra pergamena con il sigillo in cera e le firme a forma di croce di Matilde, della madre Beatrice di Lorena e di sant’Anselmo. 1073. Verona, Archivio di Stato. Nella pagina accanto sigillo in cera di Matilde di Canossa. Londra, British Library. Si tratta della piú antica immagine a oggi nota di Matilde di Canossa. Vi si legge la scritta: «MATHILDIS GOTHEFRIDI UXOR».

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del sito vi sia una sorgente a lei intitolata, la “Fountaine Mathilde”, che rinviava alla leggenda secondo la quale ella vi aveva perso l’anello matrimoniale e una trota gliel’aveva riportato, facendole esclamare: “Questa è veramente la valle dell’oro”, da cui il toponimo Orval (or + val). Fui poi invitato a un convegno, in occasione del quale feci conoscere i legami di Matilde con queste zone al centro dell’Europa: ne scaturí un “Patto d’amicizia” tra i comuni di Florenville e di Canossa, sottoscritto nel 2017, quando là si celebrarono i “Nocturnes d’Orval”, dedicati proprio a Matilde di Canossa. È anche cosí che cresce il nostro sentimento di europei!». Affascinante. Ma è possibile che sopravvivano documenti relativi a questa fondazione matildica? «Nel 2003 ebbi l’incarico dalla Federico Motta Editore di realizzare un volume sull’iconografia matildica: I mille volti di Matilde. Immagini di un mito nei secoli. Fino ad allora esisteva soltanto il libro di un appassionato della contessa, Lino Lionello Ghirardini (La bellezza di Matilde di Canossa, Bizzocchi, 1986) e per questo cercai ovunque. Un giorno, scartabellando tra i cataloghi della sala manoscritti della British Library. trovai questa indicazione: Seal XXXV, 295. Ne presi visione e mi accorsi che si trattava proprio di un sigillo della contessa Matilde, indicata come “Uxoris Gotfridi”. Non poteva essere che lei. Non solo, ma trattandosi di un sigillo pendente, doveva essere legato a un documento importante; ed essendo indicata come “moglie di Goffredo” (il Gobbo) doveva risalire proprio al suo periodo lorenese. La provenienza mitteleuropea del sigillo era infine confermata dall’area nella quale operava il collezionista che la donò al British Museum nel 1852. Sfuggito agli editori tedeschi dei documenti matildici, questo sigillo si affianca a quello della madre di Matilde, Beatrice, che si conserva nell’Archivio di Stato di Verona (1073). I due sigilli delle canossane si distinguono cosí per la rarità di esemplari simili, non regi, con immagine di donna nell’XI secolo: oltre a essi conosciamo per il Sud d’Italia, quello di Sichelgaita, vedova del duca di Salerno Roberto il Guiscardo del 1086, e la gemmasigillo di Enna di Ebulo del 1090; in Catalogna il sigillo ad anello della contessa Ermenessinde di Barcellona (1039), e, a nord delle Alpi, è il sigillo della contessa del Palatinato Adelaide (1091). Per noi è la piú antica immagine di Matilde che si conosca, lei vivente. Che fosse annesso all’atto di fondazione di Orval è un’i-

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potesi suggestiva. Sicuramente non è del periodo italiano, perché Matilde si allontanò dal marito e, dal gennaio 1072, la troviamo con la madre a Mantova. Goffredo il Gobbo cercò di riappacificarsi con lei, venne in Italia (in un solo documento autentico li ritroviamo insieme, nel 1073) e si appellò pure a Gregorio VII, perché la moglie tornasse da lui; il papa scrisse a Matilde, additandole l’esempio di Maria, ma, come scrive un cronista, ella gli rifiutò la “maritalem gratiam” e non volle piú saperne. Goffredo il Gobbo morí miseramente per le ferite seguite a un colpo di spada infertogli “tra le natiche” (“per secreta natium”, scrive Lamberto di Hersfeld), mentre era al gabinetto». Immagino siano molte le scoperte sul suo mito e sulle immagini di Matilde elaborate nei secoli: può farci un esempio particolarmente significativo? «Si tratta di una scoperta non mia e che non è ancora definitiva, perché la studiosa a cui va attribuita non è riuscita e entrare nel castello nel quale queste immagini dovrebbero conservarsi. Si tratta di affreschi staccati dalla chiesa vallombrosana femminile di S. Maria della Scala di Firenze, dove, nel 1398, fu dipinto un ciclo con la vita di san Bernardo degli Uberti, vescovo di Parma, legato a Matilde di Canossa, la cui immagine compariva almeno in due scene. Sono pitture di grande pregio, attribuite a Spinello Aretino o alla sua scuola. Intorno al 1865, il gentiluomo inglese John Temple Leader (1810-1903), che aveva acquistato e restaurato il castello di Vincigliata, nelle colline di Fiesole, vi fece trasferire questi affreschi nella sala del Consiglio, e cosí sono descritti dalla storica dell’arte e scrittrice Leader Scott, alias Lucy Baxter (1837-1902), figlia del poeta del Devon, William Barnes, in diversi libri su quei luoghi (Vincigliata and Maiano, 1891; The Orti Oricellari to which is appended an enlarged catalogue of the antiquities of Vincigliata Castle, 1893; e The Castle of Vincigliata, 1897). Scrive Rita Severi: “Basandoci sulle guide della Baxter, tutto il castello recava al suo tempo – e dovrebbe ancora recare, perché fu vincolato dalla Soprintendenza alle belle arti di Firenze, con decreto del 18 settembre 1929, in base alla legge 364 del 20 giugno 1909 – molti segni matildici, sparsi dal proprietario, che ammirava la grande contessa, in diverse parti dall’edificio. Lungo il corridoio delle camere da letto si trovava una pergamena con la genealogia di Matilde;

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Dossier A sinistra cartone di Giulio Romano tradizionalmente identificato con la Donazione di Costantino e che Paolo Golinelli ha invece riconosciuto come rappresentazione dell’incontro di Canossa. 1520 circa. Amsterdam, Rijksmuseum. Nella pagina accanto Città del Vaticano, Stanza dell’Incendio di Borgo. La vela con il ritratto di Matilde di Canossa, dipinto dal Perugino (1509), ora simbolo dell’Associazione Matildica Internazionale.

nella galleria era conservato un busto in terracotta di Matilde, con un piccolo copricapo in testa, una retina nei capelli e sul petto uno scudo con la croce” (Vincigliata Unvisited. Nota su inedite immagini medievali della contessa Matilde, in “Matildica”, 1, 2018, pp. 85-90). Purtroppo di questi affreschi restano solo vecchie immagini Alinari, e come ha scritto nel titolo del suo saggio, Rita Severi non ha avuto la possibilità accedere al castello, ora di proprietà svizzera. Né sono riusciti nell’impresa altri studiosi, fra cui Francesca Baldry, autrice del libro John Temple Leader e il Castello di Vincigliata (Firenze 1997) e Stefan Weppelmann, al quale si deve il saggio Spinello Aretino e la pittura del Trecento in Toscana (Firenze 2011). Mi auguro che l’interesse che anche questa intervista può suscitare induca a smuovere simili ostacoli e a rendere questi tesori accessibili almeno agli studiosi (anche solo per averne un’immagine a colori, e la certezza che ci sono ancora)». Vi sono però immagini di Matilde che è stato lei a scoprire... «Oltre al sigillo, mi è capitato di riconoscere Matilde in altre importanti opere di autori famosi. Nel basamento della stanza dell’Incendio di Borgo, in Vaticano, c’era una Matilde a figura intera, disegnata in monocromo da Giulio Romano, andata perduta per l’apertura di una porta, ma sopra di essa ho riconosciuto Matilde nel cli-

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peo della vela soprastante. Nelle vele della volta a crociera della stanza ci sono 8 figure di personaggi, e una sola è di donna, proprio in corrispondenza dell’immagine di Giulio Romano: si tratta di ritratti dipinti intorno al 1509 dal Perugino, per cui non è stato difficile riconoscere in quell’unica donna Matilde di Canossa. Ma c’è di piú: probabilmente, in quelle stanze dipinte da Raffaello e dai suoi allievi, era prevista la scena dell’incontro di Canossa. Abbiamo un cartone di Giulio Romano, che nessuno studioso aveva identificato con certezza. Appena lo vidi, in una mostra a Palazzo Te, a Mantova, non ebbi dubbi: quello che veniva indicato come disegno preparatorio per la Donazione di Costantino, era l’incontro di Canossa, con l’imperatore (Enrico IV) scalzo in ginocchio ai piedi del papa (Gregorio VII), una figura femminile centrale (Matilde di Canossa), un monaco (Ugo di Cluny). Di questa ampia raffigurazione solo la figura del papa e qualche personaggio di contorno figurarono poi nella Donazione di Costantino, affrescata da Giulio Romano. Evidentemente, quando si passò dal progetto alla realizzazione, tra il 1519 e il 1523, era cambiata l’atmosfera storica: si era avviata la Riforma protestante, regnava Carlo V, e sarebbe stato disdicevole rappresentare un imperatore in atto penitenziale. Meglio dedicare un’intera stanza a Costantino». settembre

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Dossier i castelli matildici

Raccontare un paesaggio Reggio Emilia

Bibbiano Castello di Bianello Castello di Rossena

Modena

Quattro Castella Canossa

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Sassuolo

Castello di Sarzano

Vetto Schia

Maranello

Baiso

Monteveglio

Carpineti

Parco Nazionale dell’Appennino Tosco-Emiliano

Serramazzoni Busana

Montefiorino

Villa Monozzo

Frassinoro

Comano

Montese

Fanano

Equi Terme

Pieve Fosciana Carrara

Cutigliano

Parco Alpi Apuane

Massa

Bagni di Lucca

Chifenti

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Camariore Montecatini Terme

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MA

«Tra Mantova e la catena appenninica è il vero, sicuro, nei momenti peggiori, stato dei Canossa, il vecchio territorio dove piú massicci si erano ammassati i beni terrieri e piú numerosi i castelli». Cosí, in un intervento che risale al 1977, Vito Fumagalli ha descritto Matilde di Canossa negli anni piú intensi di lotta contro Enrico IV, quasi serrata in un territorio ristretto, dove, però, sapeva di contare su alleanze sicure e sulla fedeltà dei suoi vassalli. Da quel sentire di allora – che si riflette significativamente sul mondo di oggi e che, di certo, va oltre il mero fatto storico – si deve partire per definire il concetto di «castelli matildici». Spesso si guarda ai castelli come a meri contenitori di fatti storici; altre volte, invece, li si vede come interessanti oggetti di studio per architetti o archeologi: ma i castelli sono anzitutto paesaggi; paesaggi che incorniciano sí la storia, rendendola fertile per la fantasia e per la ricerca, ma che si possono guardare in senso stretto come edifici e in senso piú ampio e affascinante, quasi metaforico, come elementi complessi, permeati di percettibilità storiche ancora tutte da scoprire, motori di immaginario e di reti di pensiero. La grande area in provincia di Reggio Emilia che ha come fulcro il castello di Canossa e che si irradia dalle prime colline di Quattro Castella fino al crinale appenninico verso i confini con la Toscana, diventa allora non piú un’area turistica da conoscere e sviluppare, ma la rappresentazione di un paesaggio che, nel tempo, dei castelli ha fatto un’impronta sul terreno e di Matilde di Canossa un robusto filo di collegamento storico e immaginifico, un filo che, ancora oggi, dà unità a un mondo fortemente frammentato

Lucca

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dallo scorrere della storia. I castelli di Bianello, Sarzano, Canossa, Rossena, Carpineti, Baiso si astraggono cosí dalle vicende storiche e dal volto che gli eventi hanno dato loro, per trasformarsi in un racconto connettivo tale da definire un paesaggio riconoscibile e che la percezione comune di oggi identifica come quello di Matilde di Canossa; tralasciando con scioltezza secoli di storia successiva ed esaltando con forza l’unica figura storica che,

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nell’intuito popolare, ha rappresentato quell’area geografica nella sua unità e che, su quel particolare territorio, ha esercitato un potere unitario, sentito e popolarmente ricordato. Ecco perché si devono fugare i dubbi sull’apparente possibile fraintendimento di quell’aggettivo «matildici»; non si deve pensare, infatti, che la costruzione di quei castelli sia da attribuirsi alla volontà di Matilde di Canossa e neppure, solo per fare un esempio, si possono documentare ovunque settembre

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Veduta di Quattro Castella. In primo piano, sulla sinistra, i resti dei castelli di Monte Zane e Monte Lucio; in secondo piano, sulla destra, il castello di Bianello.

suoi precisi interventi architettonici. Tuttavia, il volto che emerge dalla storia conferisce a quei manufatti un’identità precisa: quella di Matilde di Canossa. Questo è il senso pregnante di quel particolare paesaggio e questa è la motivazione per cui è sensato parlare di Castelli Matildici oltre la loro storia reale e documentabile dalle fonti. Senza quel filo che li lega e dà loro un senso, resterebbero manufatti isolati: nel tempo, nella memoria e geograficamente; interessanti certo, ricchi di storia e di aneddoti – come anche potenziali e straordinari cantieri per l’archeologia –, ma privi di quella narrazione che, in qualche modo, fornisce loro una precisa riconoscibilità rispetto ai contesti territoriali vicini. Carlo Tosco, nel suo volume Il Paesaggio Storico, scrive che «il castello tende a conservare le sue prerogative simboliche anche quando ha perduto le sue funzioni militari, polarizzando la memoria collettiva e le forme di rappresentazione del paesaggio». Ecco il senso vero di definire Castelli Matildici quell’insieme di manufatti che, in forma di rudere o ancora integri nella loro struttura, caratterizzano l’Appennino reggiano:

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perché intorno alla figura di Matilde di Canossa si è a tutti gli effetti polarizzata una fortissima memoria collettiva, che, oggi, ha creato una nuova ottica verso lo studio della storia locale. Chiaramente questo non significa rinnegare o trascurare quanto si è pubblicato in materia nei decenni precedenti, ma, metodologicamente, un conto è studiare un singolo manufatto e un altro è contestualizzarlo in un ambito piú vasto, il che significa soprattutto cercare collegamenti storici e metastorici, mettendo cosí in risalto la storia in comune, quella che ragiona sull’area non sul punto. Se è vero, dunque, che il paesaggio comunica la sua storia attraverso la sua identità e le sue trasformazioni nel tempo, quella dei Castelli Matildici resta un’indicativa metafora di come il paesaggio storico possa essere percepito e valorizzato, in una prospettiva politica nello stesso tempo territoriale e culturale, che fa delle fonti storiche un veicolo e dei castelli un motore intellettuale, e che identifica un luogo senza circoscriverlo in un ambito ristretto e definito. Di conseguenza, Matilde

di Canossa diviene non un’icona di fede e di coraggio – immagine forse ormai abusata e obsoleta –, ma una personalità in grado di calamitare intorno a sé il senso di uno spazio – fisico e metafisico – che verso di lei ancora guarda e ancora si riconosce. Danilo Morini

Da leggere Vito Fumagalli, I Canossa tra realtà regionale e ambizioni europee, in Studi Matildici, Atti e Memorie del III Convegno di Studi Matildici, Reggio Emilia 7-8-9 ottobre 1977, Aedes Muratoriana, Modena 1978; pp. 27-37 Aldo A. Settia, Castelli e villaggi nell’Italia padana. Popolamento, potere e sicurezza fra IX e XII secolo, Liguori, Napoli 1984 Paola Galetti, Paolo Pirillo (a cura di), Organizzare lo spazio, pianificare il territorio in età medioevale, Atti del seminario di San Giovanni in Valdarno, 26 febbraio 2010, in Ricerche Storiche, XLI, 2011 Carlo Tosco, Il paesaggio storico. Le fonti e i metodi di ricerca, Laterza, Roma-Bari 2009.

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Dossier Itinerari matildici in Lucchesia

Un’area da sempre nevralgica Il 10 luglio 1105, a Pieve Fosciana (Garfagnana, Lucchesia), Matilde di Canossa sedeva in giudizio per deliberare sulla richiesta di Pietro, abate di Badia Pozzeveri, per una conferma dei suoi beni che erano stati di Ildebrando, figlio del fu Pagano da Corsena (attuale Bagni di Lucca), uno dei feudatari di Matilde nel territorio lucchese. Vennero elencati i nomi di luoghi che, nel loro insieme, disegnavano una mappa. Pagano da Corsena aveva il controllo di un ampio spazio che si estendeva lungo l’alta valle del Serchio e del suo affluente Lima, seguendo un percorso punteggiato di pievi, ospizi e ponti: infrastrutture stradali che rivelano la presenza di due importanti aree di strada facenti perno sul passo delle Radici e sul passo della Croce Arcana. Questa distribuzione conferiva al feudatario di Matilde il pieno controllo del territorio delle due valli. Dalla parte della Val di Lima i suoi beni arrivavano fino al limite dei possedimenti dell’abbazia

di Fanano, da cui dipendeva l’ospizio della Val di Lamola, posto sull’altro versante dell’Appennino, nella località di Ospitale. Nell’alta Valle del Serchio i possedimenti di Pagano arrivavano a lambire il territorio di Pieve Fosciana, nel quale insiste la convergenza di due percorrenze: l’una è la via di Frassinoro, la cosiddetta via Bibulca; l’altra, proveniente dalla Lunigiana, è la via dell’ospedale di Tea, spesso presentata come diverticolo della strada percorsa dall’arcivescovo di Canterbury Sigerico. Pieve Fosciana risulta particolarmente interessante, perché da essa dipendeva l’ospedale di San Pellegrino in Alpe, posto sul valico del passo delle Radici. Dove terminava la tutela di Frassinoro iniziavano i possedimenti di Pagano da Corsena in Garfagnana. Specularmente, dove terminava la tutela dell’abbazia di Fanano iniziavano i possedimenti del feudatario di Matilde nelle terre della Controneria. In entrambi i casi si trattava di In alto Lucca, cattedrale di S. Martino. Protome con figura di donna in cui la tradizione popolare ha voluto riconoscere Matilde di Canossa. Inizi del XIII sec.

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zone di transito strategiche per la politica transappennica dei Canossa. La via Nonantolana e la via Bibulca si fondevano a Chifenti e lungo la valle del Serchio arrivavano fino a Lucca, un luogo di particolare rilievo nella politica canossiana. In quella sede, infatti, continuava a regnare come vescovo Anselmo I da Baggio, divenuto papa nel 1061 col nome di Alessandro II, e impegnato nell’opera di riforma della Chiesa al fianco di Matilde. Data la sua posizione, Lucca era il principale sbocco al confine tra monte e pianura per chi percorreva la viabilità transappenninica, in un senso o nell’altro. Ciò diede luogo a una precoce ripresa della vita urbana e della fortuna politica della città. Si trattava di aree di strada importanti, documentate anche dall’archeologia. I viaggiatori che percorrevano queste strade potevano essere mercanti o feudatari, militari o pellegrini. Questi ultimi erano attratti in particolare dalla statua reliquiario del Volto Santo che, secondo la leggenda aveva scelto Lucca come propria sede. Il culto non è solo un potente magnete capace di attrarre viaggiatori di vario tipo ma anche un’affermazione di potere e di autorità. Il Medioevo fu un periodo tutt’altro che immobile. L’XI secolo, l’età di Matilde e dei Canossa, fu densa di accadimenti politici che non riguardarono solo gli aspetti stanziali della vita nella società occidentale, ma anche quelli del viaggio. Lucca, e piú in generale la Lucchesia, si configura in questo senso come un’area cruciale nel collegamento tra le percorrenze tirreniche e gli attraversamenti appenninici. Lo testimonia l’abate islandese Nikulas de Munkathvera che, partito In alto Brancoli (Lucca), pieve di S. Giorgio. Ambone con figura regale maschile, tradizionalmente identificata con Matilde di Canossa. A sinistra, sulle due pagine il ponte della Maddalena, posto subito dopo la confluenza del Lima nel Serchio.

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da Thingor, mentre si dirigeva a Gerusalemme, fece visita anche a Roma (1154 circa) e nel suo diario annota di Lucca questa descrizione: «A Luni convergono le strade provenienti dalla Spagna e Alla terra di San Iacopo. Da Luni c’è un giorno di viaggio per arrivare a Luka. Li c’è una sede vescovile dove si trova quel crocifisso che Nicodemo fece costruire per volere di Dio stesso; esso ha parlato due volte: una volta donò la sua scarpa un povero, un’altra volta testimoniò in favore di un uomo ingiustamente accusato. A sud di Lucca c’è quella città che si chiama Pisis (Pisa); là approdano con i loro dromoni mercanti provenienti dalla Grecia e dalla Sicilia, egiziani, siriani e africani. Poco piú a sud c’è un villaggio chiamato Arno Nero. Quindi c’è l’ospizio di Matilde (Altopascio) (...); lí chiunque viene accolto per la notte». Ilaria Sabbatini Il programma delle iniziative di Toscana Matildica è consultabile all’indirizzo: www.toscanamatildica.it

Da leggere Maria Luisa Ceccarelli Lemut, I Canossa e la Toscana, in Matilde di Canossa, il papato, l’impero. Storia, arte, cultura alle origini del romanico, catalogo della mostra (Mantova, Casa del Mantegna, 31 agosto 2008–11 gennaio 2009), Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2008; pp. 226-235 Claudio Giambastiani, I Bagni di Corsena e la Val di Lima lucchese dalle origini al XIII secolo, Istituto Storico Lucchese, Lucca 1996 Ilaria Sabbatini, Aree di strada e valichi transappeninici nel territorio di Lucca all’epoca di Matilde di Canossa, in Matilde di Canossa. Tra realtà storica e mito, in Actum Luce, 2, XLV (2016); pp. 169-197

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Fra terra e cielo LIBRI • Nato come espediente architettonico,

l’«occhio» del Pantheon ha avuto ripetute imitazioni, alle quali si volle attribuire anche un valore simbolico

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ell’immaginario popolare, l’oculus del Pantheon, il celebre monumento romano fatto edificare nel 27 a.C. da Marco Vipsanio Agrippa, fedele collaboratore nonché genero di Augusto, e ricostruito tra il 120 e il 124 d.C. dall’imperatore Adriano, ha sempre avuto un fortissimo impatto per la sua valenza simbolica, quale tramite tra l’elemento terreno e l’elemento divino. Una scelta architettonica che, all’origine della sua costruzione, dovette probabilmente rispondere a esigenze di sicurezza statica, attraverso l’alleggerimento della volta. Come racconta Simone Piazza nel suo studio, la creazione di oculi sommitali comincia ad attestarsi nel I secolo a.C. in particolar modo nei contesti termali della tarda repubblica. Dagli studi di Vitruvio, sappiamo che in questi edifici spesso l’oculo era provvisto di un cerchio di bronzo che veniva alzato o abbassato al fine di regolare in maniera efficace la temperatura e la quantità di vapore nell’ambiente sottostante. Già nel I secolo d.C. l’impiego degli oculi interessa anche altre tipologie di edifici, come mausolei, ninfei e templi quale fonte di luce principale e stratagemma per alleggerire il peso delle volte, come nel caso del summenzionato Pantheon. Dopo avere esaminato le origini dell’oculus e la sua presenza nell’architettura romana, l’autore si sofferma, nel secondo capitolo, sulla sua presenza/sopravvivenza nell’architettura medievale sacra

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datata tra il IV e il XII secolo dell’area mediterranea (Francia, Italia, Turchia, Siria, Palestina). Sedici i casi presi in esame da Piazza, dai quali emerge, grazie alla grande mole di dati esaminati (cronache di viaggi, materiale iconografico, ecc.), una certa continuità nell’utilizzo degli oculi in edifici di nuova fondazione – eclatante è il caso delle chiese paleocristiane del IV e V secolo della Palestina –, cosí come in edifici d’epoca romana, riconvertiti e reintegrati in edifici destinati al culto cristiano.

E per chiusura una lanterna Dallo studio si evince che, in realtà, la sopravvivenza di oculi sommitali dovette comunque essere limitata, probabilmente a causa di problemi di natura costruttiva, ma anche

per problemi contingenti legati agli agenti atmosferici. La chiusura con una lanterna di molti di questi edifici risale a un periodo storico piú tardo, diffusosi ampiamente dal Rinascimento in poi. Oltre all’esame degli edifici che rappresentano in maniera emblematica la sopravvivenza di questo elemento architettonico, l’autore si sofferma, nel III e IV capitolo, su temi di natura iconografica, in cui l’oculus diventa «memoria» di un espediente architettonico antico attraverso la sua riproposta nelle decorazioni parietali. Tantissimi gli esempi di dischi (clipei) al centro delle volte, dipinti o a mosaico, che ripropongono porzioni del cielo, quale tramite tra l’elemento terreno e quello spirituale. Nell’ultimo capitolo, in particolare, viene studiato lo slittamento della rappresentazione dell’oculus dallo spazio sommitale della volta alla conca absidale. In mancanza di una cupola, quest’ultima diventa il nuovo punto focale dove far convergere l’attenzione del fedele verso uno spazio che, ancora una volta, ricrea simbolicamente il collegamento tra terra e cielo, tra il fedele e Dio. Lungi dall’avere confezionato un’opera destinata ai soli addetti ai lavori, l’autore ha il merito di utilizzare un linguaggio chiaro, estremamente fruibile, e di fornire, al tempo stesso, chiavi di lettura di un elemento architettonico che nei secoli ha affascinato e continua ad affascinare. Franco Bruni

Simone Piazza Allo zenit della cupola. L’eredità dell’oculus nell’arte cristiana fra Medio Evo latino e Bisanzio Campisano Editore, Roma, 319 pp., foto ill. b/n e col. 40,00 euro ISBN 978-88-85795-05-1 settmbre

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Lo scaffale Simone Bartolini Pievi romaniche toscane 12 percorsi di simboli e luce Sarnus, Firenze, 144 pp., ill. col.

20,00 euro ISBN: 978-88-563-0262-2

Fin dalle prime pagine, risulta subito chiaro che sarà quasi d’obbligo, prima o poi, seguire dal vivo i 12 percorsi di visita indicati. Sapientemente tracciati sul territorio regionale, gli itinerari raccolgono (a piccoli gruppi) una

sceltissima selezione di 36 eccezionali architetture religiose. Giunte fino a noi pressoché indenni, le loro forme austere celano un affascinante sistema di simboli che collega la dimensione terrena con l’ultraterrena. Attraverso un approccio scorrevole nella forma ed estremamente rigoroso nei contenuti, si viene guidati alla scoperta dei criteri nascosti nella progettazione e nella realizzazione di queste architetture; oltre a distinguersi per mirabili soluzioni scultoree (apprezzabili anche nel testo grazie alle numerose schede e immagini a colori), si rendono protagoniste – in precise date del calendario liturgico – di

sorprendenti allineamenti astronomici, che creano all’interno dello spazio sacro «percorsi di luce» carichi di significato simbolico. Paolo Leonini Jacques Le Goff Un lungo Medioevo Edizioni Dedalo, Bari, 236 pp.

17,90 euro ISBN 978-88-220-6501-8

Un testo fondamentale, presenza immancabile nella biblioteca di ogni studioso o appassionato del periodo medievale, proposto in una veste tipografica agile e di piacevole consultazione. In questa raccolta di articoli dell’autore – comparsi dal 1980 al 2004 sulla rivista L’Histoire – qui organizzati in quattro parti, il lettore vede

delinearsi un’immagine del Medioevo vivace e vitale, per quanto esaminata anche nei suoi aspetti piú oscuri. Si inizia con un esame dell’effettiva durata del Medioevo (che si «allunga» anche fino al XIX secolo), a cui segue la presentazione di un periodo diviso tra luci e ombre, che annovera, tra le prime, l’evoluzione della condizione femminile e, tra le seconde, il tema del rifiuto del piacere e quello della crociata (con rimandi di grande attualità). Ecco poi quello che Le Goff definisce il «bel Medioevo», raccontato attraverso le tre grandi forze che imprimono un cambiamento verso il progresso: lo sviluppo delle città, il ruolo degli Ordini mendicanti e, infine, la regalità e il suo

culto, incarnata dalla figura di Luigi IX di Francia, san Luigi. Si conclude, infine, con la dimensione dell’immaginario, riflettendo su temi chiave come il simbolo, il riso – grande escluso dai monasteri medievali –, e la categoria del meraviglioso, alla scoperta di un rapporto tra Occidente e Oriente teso tra il sogno e la realtà. P. L.

Santità universale MUSICA • Originale e accattivante, il nuovo progetto discografico realizzato

dall’ensemble Dialogos, con la direzione di Katarina Livljanic, offre una nuova «redazione» della storia dei leggendari santi Barlaam e Josaphat

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on l’intrigante titolo di Buddha, un santo cristiano? la proposta discografica dell’Arcana ci offre un interessante excursus sulla vita dei santi Barlaam e Josaphat; una leggenda che, proponendo

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una versione cristianizzata della biografia del Buddha (il Lalitavistara, III secolo d.C.), si sviluppa in epoca medievale in tutto il mondo occidentale, partendo da alcune versioni arabe ispirate al Lalitavistara,

per poi divenire un vero e proprio testo cristiano, tradotto in greco e latino e, in seguito, nelle varie lingue vernacolari (tra cui l’armeno, lo slavone, il georgiano, l’etiope). Un fenomeno transculturale di

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portata eccezionale testimoniato, soprattutto a partire dall’XI secolo, dalla creazione di un considerevole numero di fonti manoscritte in cui la biografia dei due santi, ancora oggi celebrati nella religione ortodossa, si è tramandata in moltissime varianti (un centinaio circa). Il progetto discografico ideato dalla croata Katarina Livljanic non mira a ripercorrere fedelmente la biografia di Barlaam e Josaphat da uno dei tanti testimoni pervenutici, ma si pone come l’ennesima ri-creazione della loro vicenda, ispirandosi ai momenti piú salienti dalla storia del principe indiano Josaphat e della sua conversione al cristianesimo grazie all’incontro con l’eremita Barlaam. A fronte di una leggenda agiografica che ha varcato ogni limite, temporalmente, geograficamente e linguisticamente parlando, Livljanic rimarca il carattere transnazionale di questo racconto, attingendo a piú fonti. Da qui, anche la scelta di utilizzare le rispettive lingue d’origine, che danno vita a un affascinante racconto «poliglotta», in cui si alternano l’italiano, il

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francese, l’occitano, il croato, lo slavone e il greco. Puntuale è la scelta musicale che accompagna i testi e che, nel loro rispetto, propone brani spesso improvvisati e/o coevi al testo evocato. Non si tratta, dunque, di musiche nate specificatamente per questi testi agiografici, bensí di scelte stilistiche oculatamente operate sulla base dei testi proposti.

della vita dei santi in uso nel XIII secolo. Un panorama musicale piuttosto vasto, dove il canto sfocia nella declamazione e viceversa e dove l’improvvisazione melodica, nella piú tipica tradizione dei cantastorie, costituisce un elemento fondamentale di questo progetto musicale. Katarina Livljanic, direttrice del gruppo Dialogos, si dimostra artista sopraffina e a tutto tondo, grazie alle sue competenze musicologiche e alle qualità artistiche. Splendida è la sua emissione vocale che ci cala in queste eleganti e rarefatte atmosfere prestando la massima attenzione alla dizione in ciascuna delle lingue in cui si esibisce. Altrettanto pregevole si rivela l’accompagnamento strumentale affidato ad Albrecht Maurer (violino e rebeca) e Norbert Rodenkirchen (arpa e flauti) le cui sonorità assecondano perfettamente i repertori proposti. A completamento di questo straordinario viaggio musicale, il link a un sito multimediale è l’occasione per approfondire con ulteriori testi, foto, video e ascolti, l’affascinante storia di Barlaam e Josaphat. Franco Bruni

Da Bisanzio alla Dalmazia Tradizioni melodiche bizantine si alternano a melodie della tradizione provenzale tratte dalla produzione del trovatore Bernard de Ventadorn, che rivestono alcuni testi tratti da un codice occitano (Barlaam et Jozaphas, XIV secolo); la tradizione musicale del cantare in ottava rima viene invece utilizzata nel testo italiano di Neri di Landoccio Pagliaresi (Leggenda di Santo Giosafà, XIV secolo); né mancano, infine, musiche di tradizione orale glagolitica provenienti dalla Dalmazia e formule melodiche utilizzate per la declamazione

Barlaam & Josaphat Buddha. A Christian Saint? Ensemble Dialogos direzione Katarina Livljanic Arcana (A458), 1 CD www.outhere-music.com settmbre

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